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a L’Umanesimo italiano. Filosofia e vita civile nel Rinascimento di Eugenio Garin Storia d’Italia Einaudi

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L’Umanesimoitaliano. Filosofiae vita civile nelRinascimento

di Eugenio Garin

Storia d’Italia Einaudi

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Edizione di riferimento:L’Umanesimo italiano. Filosofia e vita civile nelRinascimento, Laterza, Roma-Bari 1986

Storia d’Italia Einaudi II

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Sommario

Introduzione 1

1. Umanesimo e filosofia 1

2. Esigenze filologiche nuove 63. Umanesimo e storia 9

4. Umanesimo e platonismo 12

5. Le origini dell’umanesimo 13

6. Umanesimo e antichità classica 17

Le origini dell’umanesimo 21

1. Lettere umane e vita civile 21

2. L’analisi della vita interiore 25

3. La polemica contro le scienze della natura 28

4. Coluccio Salutati 32

5. Il primato della volontà in Coluccio Salutati 35

6. Le leggi e la medicina 40

La vita civile 46

1. La scuola del Salutati e Bernardino da Siena 46

2. Leonardo Bruni 51

3. Poggio Bracciolini e il valore dei beni terreni 54

4. Il mondo delle passioni e il valore del piacere 59

5. Il Valla e le scienze morali 63

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6. Giannozzo Manetti e la prima impostazionedel problema della dignità dell’uomo

71

7. Leon Battista Alberti 77

8. Matteo Palmieri e il trapasso al platonismo 83

9. La filologia e la retorica nel Poliziano e nelBarbaro

87

10. Il Galateo e il Pontano 92

11. Spunti pedagogici 94

Il platonismo e la dignità dell’uomo 99

1. La crisi della libertà e i dialoghi «Delibertate» del Rinuccini

99

2. L’influenza dei dotti bizantini e le traduzionidi Platone

103

3. Il problema dei rapporti fra vita attiva econtemplativa in Cristoforo Landino

106

4. Marsilio Ficino e la concezione di una «doctareligio»

112

5. La teologia platonica 120

6. Pico della Mirandola e la polemicaantiretorica

126

7. L’uomo 131

8. La pace filosofica 133

9. La polemica antiastrologica 135

10. Spunti di un’apologetica platonica 138

Platonismo e filosofia dell’amore 142

1. Francesco Cattani da Diacceto e l’ortodossiaficiniana

142

2. La grazia 145

3. La metafisica d’amore 152

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4. La moda delle discussioni d’amore 156

5. La conciliazione fra Platone e Aristotele 159

6. Lo scetticismo di Gian Francesco Pico 164

L’aristotelismo e il problema dell’anima 1681. Pietro Pomponazzi 168

2. La polemica sull’immortalità 174

3. Jacopo Zabarella 178

4. Il problema religioso nell’aristotelismo 181Logica, retorica e poetica 184

1. Problemi logici e metodologici 184

2. Zabarella e le polemiche padovane 187

3. Logica e retorica. Mario Nizolio 190

4. La retorica e la «civile conversazione» 194

5. La questione della lingua 1986. La poetica 200

7. Il «Naugerius» di Girolamo Fracastoro 204

Ricerche morali 208

1. Moralità e «modi civili» 208

2. La «institution» dell’uomo 211

3. Influenze aristoteliche e commenti alla«Nicomachea»

215

4. Vita attiva e contemplativa 219

5. Storia e vita politica 224

Indagini sulla natura 229

1. Leonardo da Vinci 229

2. Girolamo Cardano 231

3. Girolamo Fracastoro e G. B. Della Porta 233

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4. Andrea Cesalpino 235

5. Bernardino Telesio 237

6. La metafisica della luce 242

Da Giordano Bruno a Tommaso Campanella 245

1. Rinascimento e Riforma 245

2. Religione e filosofia in Bruno 247

3. La concezione bruniana dell’universo 252

4. La «contemplazione» 258

5. La riforma morale 260

6. L’eroico furore 263

7. Problemi nuovi in Tommaso Campanella 266

8. «L’imparare e il conoscere sono pur qualchemorte»

270

Epilogo 273

Storia d’Italia Einaudi VI

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INTRODUZIONE

1. Umanesimo e filosofia

Quasi un secolo fa Renan, nel suo Averroè, a un cer-to momento trasformò Padova e Firenze nei simboli diuna antinomia capace di ben caratterizzare, a parer suo,l’orientamento così complesso della cultura del Rinasci-mento: da un lato Padova, roccaforte della tradizionearistotelico-averroistica, rigorosamente scientifica e logi-ca, contrastante con l’umanesimo e con quanto esso im-plicava d’amore alle lettere, alle arti e agli studia humani-tatis; dall’altro lato Firenze, la città di Ficino e del Poli-ziano, e di quanti altri, pensatori e poeti, trovavano «stra-ni e fantastichi» i maestri padovani, secondo la curiosaespressione che incontriamo in una lettera a Lorenzo del14911. La contrapposizione del Renan si attenuava nelsuo autore attraverso la consapevolezza, sempre presen-te anche se non chiara, del significato profondo dell’u-manesimo, dell’incancellabile valore che una spregiudi-cata posizione critica aveva nei riguardi di una nuova for-mazione culturale. D’altra parte Renan si rendeva ancheconto che la «filosofia» padovana era nel ’400 ormai stan-ca; che i perfezionati strumenti di cui si serviva erano lo-gori, e le sue fonti inaridite; che il suo sottile raziocinaremuoveva a vuoto, e apparteneva al passato. Domani Ga-lileo conoscerà bene ogni sviluppo della fisica d’Aristo-tele; ma le forze e la prospettiva necessaria per la nuovasintesi gli verranno da una diversa atmosfera culturale.

1 A. POLIZIANO, Prose volgari inedite e poesie latine egreche edite e inedite, raccolte e illustrate da I. Del Lungo,Firenze 1867, p. 80.

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Purtroppo la seduzione di trasformare un’antitesi inuna spiegazione, confondendo una negazione con unadeterminazione positiva, ha operato su troppi storici del-la cultura rinascimentale: e la lotta di Padova contro Fi-renze è diventata uno dei luoghi comuni volti a caratte-rizzare un atteggiamento inteso come rivolta delle lette-re contro le scienze, della poesia contro la filosofia, delleleggi contro la medicina, della retorica mistica contro ladialettica eretica, dell’empietà averroistica contro la pie-tas umanistico-platonica2. Ed in questa contrapposizio-ne sono poi venuti a convergere tutti i temi della polemi-ca intorno al Rinascimento, quali si sono venuti precisan-do da Burckhardt in poi; così quella «scienza» e quella«filosofia» sono divenute volta a volta i titoli della supe-riorità e modernità medievali, o i segni di un’insufficien-za radicale e di un declino senza rimedio; e, viceversa,quella «retorica» e quella «grammatica» sono state pre-sentate ora come una pausa nel progresso dello «spirito»,e ora come l’espressione di una cultura veramente «mo-derna». Finché una gran parte della storiografia contem-poranea, più ancora che per obbedire a una giusta esi-genza di continuità per una dichiarata o larvata polemi-ca contro i valori affermati dalla filosofia moderna, si èvenuta mirabilmente accordando nel rifiutare ogni signi-ficato profondo alle posizioni speculative rinascimentali,dichiarate prive di originalità rispetto al Medioevo nelleloro istanze filosofiche, e per niente nuove o rinnovatricianche nei loro aspetti letterari.

Uno storico della scienza, il Sarton, in una postumapolemica contro quei «presuntuosi dilettanti» che furo-

2 Cfr. E. TROILO, Averroismo e Aristotelismo padovano,Padova, 1939 (e G. TOFFANIN, Per l’Averroismo padovano,Lettera a E. Troilo, «La Rinascita», 1939, 5; B. KIESZKOW-SKI, Averroismo e Platonismo in Italia negli ultimi decenni delsec. XV, «Giornale Critico della Filos. Itatiana», 1933, 4).

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no gli umanisti, non ha esitato a concludere per «un in-discutibile regresso così dal punto di vista filosofico cheda quello scientifico. Di fronte allo scolasticismo medie-vale, ottuso ma onesto, la filosofia caratteristica di que-sta età, ossia il neoplatonismo fiorentino, fu un miscugliosuperficiale di idee troppo vaghe per avere un valore rea-le». Più radicale ancora, uno storico della filosofia comeBruno Nardi ha affermato che, «se vogliamo risalire dav-vero alle origini della filosofia moderna, bisogna saltare apie’ pari il periodo umanistico»; ed uno storico della let-teratura, il Billanovich, ha parlato di un secolo di «silen-zio, solo rotto dalle declinazioni sommesse dei gramma-tici», mentre «la professione di studi filosofici è... degra-data a prove... di acutezza filosofica e retorica», in mezzoa «un disperso disordine intellettuale»3. Verrebbe vogliadi rispondere che quei grammatici e quei retori si chia-marono Lorenzo Valla e Leon Battista Alberti; che daquegli ambienti sterili e vuoti uscirono Niccolò Cusano ePaolo Toscanelli; che la scienza di Leonardo e Galileo simaturò proprio in quel secolo che converrebbe saltare apie’ pari; che in esso è pur venuto su Niccolò Machiavel-li, e tutto quel fermento di critiche che si è espresso, poi,

3 G. SARTON, Science in the Renaissance, in J. W.THOMPSON, G. ROWLEY, F. SCHEVILL and G. SAR-TON, The Civilization of Renaissance, Chicago, 1929, p. 79(cfr. W. F. FERGUSON, The Renaissance in HistoricalThought, Five Centuries of Interpretation, Cambridge Mass.,1948, p. 384; L. THORNDIKE, Renaissance or Prenaissan-ce?, «Journal of the History of Ideas», IV (1943), pp. 65-74);B. NARDI, Il problema della verità. Soggetto e oggetto del co-noscere nella filosofia antica e medievale, Roma, 1951, pp. 58-59(e, nella seconda ed. del 1952, p. 61, n. 105, la ulteriore precisa-zione polemica); G. BILLANOVICH, Petrarca letterato. I. Loscrittoio del Petrarca, Roma, 1947, pp. 415 e sgg. Una visione intutto diversa, e una valutazione non dissimile da quella sostenu-ta in queste pagine, può invece trovarsi nel volume di MARIEBOAS, The Scientific Renaissance, 1450-1630, London, 1962.

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in un Telesio o in un Bacone; che un Erasmo da Rot-terdam o un Montaigne sarebbero difficilmente conce-pibili senza la cultura quattrocentesca. Così, a propositodell’antitesi Padova-Firenze, sarebbe anche troppo faci-le mostrarne, con i dati di fatto alla mano, tutta l’inconsi-stenza, nelle persone e nelle concezioni. Se infatti l’uma-nesimo quattrocentesco fu diverso nei vari centri cultu-rali, ebbe pur tuttavia tratti comuni con cui penetrò do-vunque, agendo dovunque in senso profondamente e ra-dicalmente rinnovatore, espressione di un atteggiamentoumano del tutto mutato.

Ma, a dire il vero, la intima ragione di quella condan-na del significato filosofico dell’umanesimo è un’altra; edel resto risulta ben chiara da quel continuo richiamarsiper contrasto alle sintesi metafisico-teologiche della «ot-tusa ma onesta scolastica»: si tratta cioè del sopravvi-vente amore per una immagine della filosofia che il pen-siero del ’400 costantemente avversò. Perché ciò di cuisi lamenta da tante parti la perdita è proprio quello chegli umanisti vollero distrutto, e cioè la costruzione del-le grandi «cattedrali di idee», delle grandi sistemazionilogico-teologiche: della Filosofia che sussume ogni pro-blema, ogni ricerca al problema teologico, che organizzae chiude ogni possibilità nella trama di un ordine logicoprestabilito4. A quella Filosofia, che viene ignorata nel-l’età dell’umanesimo come vana ed inutile, si sostituisco-no indagini concrete, definite, precise, nelle due direzio-ni delle scienze morali (etica, politica, economica, esteti-ca, logica, retorica) e delle scienze della natura che, col-tivate iuxta propria principia, al di fuori di ogni vincolo edi ogni auctoritas, hanno in ogni piano quel rigoglio chel’«onesto», ma «ottuso» scolasticismo ignorò.

4 Cfr. B. CROCE, Lo storicismo e l’idea tradizionale dellafilosofia, «Quaderni della Critica», 13 marzo 1949, pp. 84-85.

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Aver permesso questo; aver visto che la logica delleumane ricerche non è necessariamente quella d’Aristo-tele: che la logica d’Aristotele non è parola di Dio, maun prodotto storico; aver dato vita a indagini concrete;avere, soprattutto, abituato le nuove generazioni a cosif-fatto modo di vedere e di pensare; avere «umanamente»educato, potrà sembrare poco ai vagheggiatori di ben ar-chitettate costruzioni teologiche, ma a chi intenda la fi-losofia come consapevole indagine di guise umane, e di-scussione di concetti, sembrerà impagabile conquista. Laquale, va aggiunto, non fu per nulla empia ed eretica, maanzi, molto spesso, rispettosissima della fede religiosa co-me forma di innegabile esperienza, di cui quelle partico-lari indagini nella loro singolare modestia non doveva-no preoccuparsi, muovendosi esse in tutt’altra direzione.Modeste ricerche – s’è detto – «filologiche» e storiche,che rinunciando a quei gravi discorsi di Dio e dell’intel-letto ricercavano invece le guise delle umane città, e deicostumi e dei riti degli uomini, o, sul terreno delle scien-ze, volevano precisare la natura delle malattie o la strut-tura dei viventi con «grammaticale» pedanteria; proprioperché – come insegna il grande Antonio Benivieni – al-le scuole dei «grammatici» avevano imparato un meto-do e un modo di affrontare la realtà. Che è precisamen-te quell’atteggiamento «filologico» che, come aveva benvisto una storiografia oggi troppo facilmente disprezza-ta, costituisce appunto la nuova «filosofia», ossia il nuo-vo metodo di prospettarsi i problemi, che non va con-siderato quindi, come taluno crede, accanto alla filoso-fia tradizionale, come un aspetto secondario della cultu-ra rinascimentale, ma proprio effettivo filosofare5.

5 Una prospettiva, appunto, «classificatoria», in P. O. KRI-STELLER, Movimenti filosofici del Rinascimento, «Giornalecritico d. Filos. it.», 1950, pp 275-88, da integrarsi con Huma-nism and Scholasticism in the Italian Renaissance, « Byzantion»,

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2. Esigenze filologiche nuove

Può essere utile, a questo proposito, rileggere l’elogioche Niccoletto Vernia, l’insospettabile Niccoletto, fecedi Ermolao Barbaro per la traduzione di Temistio; o, me-glio ancora, la lettera-prefazione, sempre del Vernia, al-l’edizione di Aristotele con i commenti di Averroè. Inquella lettera il meno «umanista» degli scrittori del ’400insiste a lungo proprio sulle cure da lui poste nell’emen-dare il testo, sul suo andare interrogando i greci di suaconoscenza per ottenere chiarimenti di vocaboli tecnicie lumi per comprendere le versioni – perché senza la si-curezza del testo è inutile andar discutendo a vuoto, ma-gari di questioni inconsistenti. Leggendo quell’episto-la introduttiva – così notevole dal punto di vista meto-dico – come astenersi dal confrontare idealmente l’edi-zione aristotelica del professore padovano con un codi-ce, già del convento fiorentino di San Marco che contie-ne la versione latina del commento d’Eustrazio alla Nico-machea? Il manoscritto appartenne a Coluccio Salutati,e sui margini, di pugno del grande Cancelliere, vi sonoannotazioni sull’esattezza dei termini, e raffronti con leespressioni originali greche, di cui si andava accertando,prima che riuscisse a far venire allo studio Manuele Cri-solora, presso i bizantini che, per ragioni di commercio eper necessità politiche, venivano a Firenze6. Perché Sa-

XVII, 1944-45 pp. 346-74 (e in italiano in «Humanitas». V,1950, pp. 988-1015). E cfr. ora gli studi, ricchi di preziosi con-tributi, ove il Kristeller precisa e conferma il suo punto di vi-sta, riuniti nel vol. Studies in Renaissance Thought and Letters,Roma, 1956.

6 L’ed. del Vernia uscì a Venezia nel 1483 (cfr. «Rinascimen-to», II, 1951, pp. 57-66). Il codice d’Eustrazio è alla Naz. diFirenze, Conventi I, V, 21.

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lutati, buon scolaro di Petrarca, batteva sempre su que-sto: sulla necessità di smetterla, innanzi ai testi dei filo-sofi, con le lunghe discussioni impiantate a vuoto e senzapreoccuparsi di cominciare con l’intenderli nel loro valo-re originario esatto. In una pagina del De fato, proprio aproposito dell’interpretazione di Seneca morale, egli ri-corda come, di fronte alle difficoltà nate in lui per la cor-ruzione dei manoscritti, fosse andato raccogliendo mul-tos codices... non modernis solum, sed antiquis scriptos lit-teris. Si era così reso conto della trascuratezza dei copi-sti, delle glosse marginali e di quelle interlineari andatea finire nel testo, della presuntuosa ignoranza dei letto-ri pronti a correggere dove non capivano (praesumptuo-sas manus iniciunt... ium detrahentes aliquid, tum adden-tes). Per non dir poi – soggiunge – di quello che acca-de quando entrano in giuoco interessi, come nel caso deitesti sacri e delle opere dei Padri, in cui preoccupazio-ni di vario genere hanno determinato volute alterazioni:così i vari barbari nullum omnino textum philosophorummoralium, historicorum, vel etiam poetarum non corrup-tissimum reliquerunt. Di qui l’esigenza di raccolte di tut-ti gli esemplari di un’opera, affidate quindi a «peritissi-mi» della lingua e della storia, per restituire ad ognuna ilsuo volto7.

Quello che Salutati cerca di fare per Seneca o per Ago-stino, Vernia tenterà per Aristotele, Nifo per la Destruc-tio destructionis di Averroè. Ma l’incontro ideale di Co-luccio e Niccoletto ha un senso tutto suo, perché unodei pochi scritti che ci sono rimasti del Vernia è proprioun postumo attacco al Salutati, e alla sua tesi della su-

7 SALUTATI, De fato, fortuna et casu, II, 6, Laur. 53, 18,fol. 11 v-12r, ove lamenta anche che «usque adeo pauci sunt,qui studiis humanitatis indulgeant, licet illa commendentur abomnibus, placeant multis et aliqui delectentur in ipsis» (cfr.Vat. lat. 2928, fol. 5 r.)

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premazia delle leggi: attacco di un tono singolarmenteantiumanistico. Eppure anche quell’avversario della su-premazia degli studia humanitatis, aveva, quasi senz’ac-corgersene, fatto tesoro della maggior conquista dell’u-manesimo: la preoccupazione storico-critica di coglieregli autori nelle loro dimensioni. La spregiudicatezza delcommento aristotelico non si esaurisce più nell’insinua-re un’interpretazione più o meno eretica in un testo piùo meno ripugnante: già s’avvia ad essere collocazione diAristotele nella storia, e quindi suo effettivo superamen-to e superamento di quante altre posizioni considerinol’aristotelismo una verità acquisita per sempre. Per que-sto anche Ermolao Barbaro consentiva con certi temi delVernia8; per questo, a un certo momento, la lezione dei«filologi» si fa decisiva per i «filosofi», presso i quali si fasempre più vivo il bisogno di fonti originali, di testi cor-retti, di precisione storica, mentre Aristotele cessa di es-sere un’auctoritas per diventare un pensatore come tuttigli altri, definito in un suo proprio tempo. Quando tro-viamo l’aperta confessione che Aristotele non basta più,perché non ha visto certi problemi, sentiamo il distaccoda un antico modo di pensare: non c’è più un testo – da-to per sempre – da chiosare; non c’è più – lì innanzi –la Verità da illustrare: c’è il rischio di un’avventura do-ve tutto è, sì, oscuro, ma tutto, ancora, è possibile. Chiha abbattuto le colonne d’Ercole, non è l’eroe che ne haviolato il divieto, eppur vi crede, e il suo eroismo è taleproprio perché esse vi sono. Le abbatte davvero chi lespiega nel loro nascimento, e così le comprende, e poi lelascia dov’erano, elegante e curiosa «anticaglia», secon-do l’espressione del buon Vespasiano da Bisticci; senzaridere né piangere, senza sdegno, ma con intendimento

8 Cfr. l’edizione della Destructio di Averroè pubblicata dalNifo a Venezia nel 1497; di E. BARBARO le Epistole a cura diV. Branca, Firenze, 1943, I, p. 45 sgg.

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pieno. Onde sono davvero poveri untorelli tutti gli ereti-ci, e gli averroisti più empi e gli aristotelici più arditi, in-nanzi a quei filologi che, pur rispettosissimi di forme tra-dizionali, affrontano ogni documento, ogni carta, ogni li-bro, considerando che, così come si presenta, esso è unfatto umano, una traccia e una risonanza umana, e cometale soggetta a esame e a discussione critica.

3. Umanesimo e storia

Il primo febbraio 1392 Coluccio Salutati scriveva a donJuan Fernandez de Heredia un’epistola che è un insignemonumento di pensiero. Tesse, il pio Cancelliere, le dotidella storia, educatrice dell’umanità, fonte di conoscen-ze concrete più alte di ogni sottigliezza teologica e filo-sofica, essa sola formatrice dell’uomo, perché umanità èmemoria di umane azioni nel mondo, ed è «filantropia»,ossia incontro e colloquio con gli uomini tutti. Nelle di-mensioni della storia si attua la civiltà e si definisce la po-litica: «tolle de Sacris Litteris quod hystoricum est: eruntprofecto reliquie res sanctissime, res mirande; sed... ta-liter insuaves, quod non longe poterunt te iuvare». Nonstupisce che il primo storico in senso moderno sia stato ilpiù grande allievo ed amico di Coluccio, Leonardo Bru-ni, cui la larga esperienza politica acquistata nelle cancel-lerie insegnò a veder bene addentro nelle cause dei fattiche sono sempre, per lui, libere decisioni di uomini buo-ni o malvagi, dagli uomini comprensibili9.

9 B. L. ULLMAN, Leonardo Bruni and the Humanistic Hi-storiography, «Medievalia et Humanistica», 1946, pp. 45-61(cfr. H. BARON, Das Erwachen des historischen Denkens imHumanismus des Quattrocento, «Hist. Zeitschrift», 1933). Suhumanitas, studia humanitatis e φιλανθρωπια cfr. delGuarino il commento alla Retorica (Naz. di Firenze, II, I, 67,

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Per questa via, proprio e solo l’umanesimo, conclu-dendo del resto una lunga crisi, collocò nei suoi qua-dri storici e oltrepassò per sempre quell’antica visionedel reale statico, a strutture rigide, astorico oggetto dicontemplazione, che la logica platonico-aristotelica ave-va presupposto, e dove un moto ritornante in eterno suposizioni identiche si dissolve in una parvenza di moto,mentre l’uomo e la sua vita e la sua attività si perdono inuna radicale insignificanza. E quello che certi critici nonafferrano è che senza la cosiddetta «retorica» dei Guari-no, dei Valla, dei Poliziano, e di altri cosiffatti «pedan-ti», le «autorità» non sarebbero mai state rovesciate dailoro piedestalli, né la logica d’Aristotele sarebbe stata vi-sta per quello che è: un mirabile strumento del pensieroumano, inserito e valido entro certe dimensioni culturali;logica, appunto, di Aristotele di Stagira, e magari di Eu-clide e di altri non pochi sottili indagatori – ma non, as-solutamente, la logica. Come insegnò con tutta chiarezzaLorenzo Valla il giorno in cui non pretese più di discu-tere dentro l’aristotelismo, ma ruppe in blocco contro diesso. Proprio nella premessa alla Dialettica il Valla defi-nisce la sua posizione: la logica aristotelica non è l’unicalogica. Ond’egli non accetterà più l’obbligo della scuola:di giurare, cioè, che Aristotele nei fondamenti non puòmai sbagliare; ché anzi egli desidera proprio di spiantareAristotele e l’aristotelismo fin nelle radici.

Fu allora, per opera di quei pedantissimi ricercatori diantiche storie, che si conquistò un uguale distacco dal-la fisica d’Aristotele e dal cosmo di Tolomeo, e ci si li-berò d’un tratto della loro opprimente chiusura. Per-ché è vero che fisici e logici di Oxford e di Parigi aveva-

fol. 113v.). Cfr. anche H. BARON, Aulus Gellius in the Re-naissance and a Manuscript from the School of Guarino, «Studiesin Philology», 48, 1951, pp. 107-25.

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no da tempo cominciato a rodere dentro quelle struttu-re, che scricchiolavano parecchio dopo il terribile crol-lo dato da Occam10. Ma solo la conquista del senso del-l’antico come senso della storia – propria dell’umanesi-mo filologico – permise di valutare quelle teorie per ciòche esse erano davvero: pensamenti d’uomini, prodot-ti di una certa cultura, resultati di parziali e particolariesperienze: non oracoli della natura o di Dio, rivelati daAristotele o Averroè, ma immagini ed escogitazioni uma-ne. Conviene rileggere il libro dodicesimo delle discus-sioni astrologiche del Pico, e quel suo preciso determina-re la genesi storico-psicologica del nascere e del diffon-dersi dell’astrologia. Storicizzando a quel modo l’erroreegli veniva in pari tempo, e con non minore acume, sto-ricizzando il sapere umano. E senza volerlo, e quasi sen-z’accorgersene, suo nipote Gian Francesco nella spietatademolizione che venne facendo di tutte le teorie filosofi-che dell’antichità, mostrandone i limiti e i rapporti, riu-scì per opposta via e con opposte intenzioni a ribadirela concezione dello zio11. O che si sottolineasse l’infini-to cercare in quello che ha di perennemente insoddisfat-to, o che si appuntasse lo sguardo sulla positività di unacontinua conquista, fino a convertire un’esigenza in unacertezza, si veniva comunque acquistando il senso dellastoria umana.

10 Cfr. in proposito gli studi di A. MAIER, An der Grenzevon Scholastik und Naturwissenschaft, Roma, 19522; Die Vor-läufer Galileis im 14. Jahrhundert. Studien sur Naturphilosophieder Spätscholastik, Roma, 1949: Zwei Grundprobleme der scho-lastichen Naturphilosophie, Roma, 19512; Metapysische Hin-tergründe der spätscholastischen Naturphilosophie, Roma, 1955;Zwischen Philosophie und Mechanik, Roma, 1958.

11 Nell’Examen vanitatis doctrinae gentium.

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4. Umanesimo e platonismo

Al qual proposito conviene osservare che la stessa pre-ferenza per Platone, così costante nelle posizioni umani-stiche, significò, certo, anche un moto polemico di rivol-ta, e fu, spesso, un’insegna di partito. Ma in profonditàindicò una direzione verso un mondo aperto, disconti-nuo e contraddittorio, dai volti innumerevoli e cangian-ti, ribelle ad ogni sistemazione, a cui ci si deve avvicinarein una ricerca perenne, che non ha paura delle incoeren-ze apparenti, ma che è mobile sottile e varia fino a po-ter rispecchiare l’infinita varietà delle cose; che rifiuta learticolazioni rigide di una logica statica inette a coglierela plastica mobilità dell’essere, eppur le fa sue, quandoconvenga, per sottolineare la pigrizia di ogni stasi. Pla-tone conciliante, pacificatore con la sua possibilità di in-terpretazioni divergenti, non indicò una debolezza spe-culativa, ma la consapevolezza che i termini di ogni alter-nativa si escludono nella misura stessa in cui si invocano.Le parventi contraddizioni dei dialoghi svelavano quan-to l’occhio acuto di Platone «divino» avesse afferrato lecontraddizioni della realtà.

Proprio perché filosofia di tutte le aperture e di tuttele convergenze, meditazione morale di una vita percor-sa dalla speranza, eppur guardinga sui confini del mito,piuttosto umano dialogo che non trattato, esasperazioneproblematica erosiva di ogni sistema, anche se compren-siva delle sistemazioni; per tutto questo la filosofia di Pla-tone fu al centro di una cultura che rifiutava le antiche si-curezze, che respingeva un mondo chiuso ordinato fisso;che si trovava in una crisi storica ove le venerande unitàandavano in frantumi, il mondo e i rapporti umani cam-biavano. I dialoghi pieni dell’enigmatica figura di Socra-te, del suo così sottile cercare, ov’è ugualmente presen-te la certezza più salda e l’urgere del problema; i dialo-ghi così umani, così mondani e sociali, eppur divinissimi,

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ove la speranza si alterna al rimpianto di ciò che dovreb-be essere e forse non sarà mai; ove non sai se la «terralontana» si perda nel ricordo del bene tradito o s’annun-ci nell’aspettazione di una salvezza; ove la filosofia è in-namoramento e passione e vista acuta di mirabili formedisegnate oltre gli aspetti sensibili, ma insieme logica sot-tilissima, e discussione dei molti sistemi logici possibili:tutti questi furono i chiari motivi per cui temperamen-ti diversissimi come un Valla e un Ficino, un Polizianoe un Pico, un Bruno e un Patrizi venerarono il «divino»Platone e lo contrapposero a quella «bestia» di Aristote-le. Essi sapevano benissimo, e lo dichiararono con estre-ma chiarezza, che Aristotele molto spesso non aveva fat-to che cristallizzare ed esasperare con rigorosa coerenzatemi platonici. Ma la loro lotta era proprio contro que-sta cristallizzazione. La quale, per citare solo un esem-pio, nell’astronomia aveva trasformato una elegantissimacostruzione geometrica nella teoria fisica delle sfere cele-sti. Così, a un certo momento, dire Platone significò so-prattutto spazzare l’oppressivo mondo aristotelico, chiu-so, gerarchico, finito, e conquistare contro tutte le siste-mazioni uno spirito nuovo di ricerca, spregiudicato e ve-ramente libero, mentre il tema ubi spiritus, ibi libertas, siincontrava con il nuovo programma iuvat vivere.

5. Le origini dell’umanesimo

Il tema del «ritorno a Platone» richiama qui un vecchioe sempre nuovo equivoco, e cioè l’idea che l’umanesimosia stato determinato e caratterizzato dalla conoscenza dinuovi testi classici prima ignorati; la lettura di Cicerone,di Lucrezio e di Seneca, di Platone e di Plotino avrebberinnovato la cultura; un aumento quantitativo di lettureclassiche si sarebbe trasformato in un salto qualitativo.Che è appunto il presupposto di quei dotti storici che

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vanno spulciando testi e traduzioni medievali, e centoni eflorilegi e citazioni, e via via scoprono che il primo secolodell’umanesimo è, non già fra il ’300 e il ’400 in Italia,ma il ’200, o, anzi, il secolo XII, e l’età di Alcuino e lacorte carolingia12. Ora, mentre era necessario, e proprioper intendere la peculiarità del Rinascimento, dissipareil mito dei secoli barbari, e mostrare le radici polemichedel tema della barbarie medievale, non per questo eralegittimo dimenticare che la questione non riguardava icontenuti, ma le forme di una cultura.

12 È inutile ripetere qui quanto espone lungamente il Fergu-son nell’opera sopra citata. Ma cfr. anche di F. SIMONE,La coscienza della Rinascita negli umanisti francesi, Roma, 1949e La «reductio artium ad Sacram Scripturam» quale espressio-ne dell’umanesimo medievale fino al secolo XII, «Convivium»,1949, pp. 887-927. Sul XII sec. cfr. W. A. NITZE, The socalled Twelfth Century Renaissance, «Speculum», XXIII, 1948pp. 464-71; e sono da leggersi le conclusioni di HANSLIE-BESCHÜTZ, Mediaeval Humanism in the Life and writings ofJohn of Salisbury, London, 1950, p. 94: «his thought... was de-termined on the whole by traditional forms of ecclesiastical li-terature... His humanistic outlook, for which antiquity was akind of picture book: illustrating the types of twelfth-centurylife seems... to have been intimately connected with the archaicstage of European systematic thougth». Ugualmente negativisono, in fondo, i dotti e accurati studi di R. WEISS, The Dawnof Humanism in Italy, London, 1947 e Il primo secolo dell’uma-mesimo, Roma, 1949, che mostrano con assoluta evidenza co-me «quel primitivo umanesimo, non resultante né da una rea-zione a una forma di speculazione filosofica, né da un consape-vole desiderio di una renovatio studiorum o da una speranza diun’età d’oro», non fosse in sostanza niente affatto parente del-l’umanesimo rinascimentale, ma «spontaneo e naturale svilup-po degli studi classici così come erano coltivati durante il tar-do Medioevo». L’onesta conclusione del Weiss, che non toglienulla all’utilità di cosiffatte preziose ricerche, ricolloca nella suagiusta luce lo stacco netto della nuova forma di cultura, che èdavvero una nuova visione della vita.

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Bisognava senza dubbio ricordare che il Medioevoleggeva i classici, li traduceva; sapeva il greco, almenoin certi tempi e luoghi; aveva interessi naturalistici, e cosìvia. Bisognava rendersi conto che, sì, il Medioevo, nienteaffatto tenebroso e barbaro, ma pieno di luci di luci diciviltà e di grandezza di pensiero, si cibò dell’antichità ela fece propria. Solo che il problema più grave è altrove,e cioé nella determinazione positiva di modi e toni eforme diverse di vita e di cultura.

Meglio si conosce il Medioevo, e più si vede quantonella sua cultura si prolungasse la cultura antica. Mo-di d’insegnamento, vedute e dottrine sopravvivono va-riamente. Se il mondo classico ha esaurito la sua linfa vi-tale, rimangono i suoi echi consegnati a compilazioni e amanuali, fissati in moduli scolastici. Il cristianesimo nonsostituì affatto – come voleva Tertulliano – il Portico diAtene con i templi di Gerusalemme. Atene e Roma vivo-no nelle scuole; non nelle dottrine di Platone o di Aristo-tele o di Lucrezio, ormai così lontane, e troppo alte e so-lenni, ma nelle espressioni di una sapienza stanca, con-segnata a modesti compendi. Non i dialoghi platonici, ola metafisica aristotelica, ma Porfirio o compilazioni daPorfirio. Così i vecchi libri di scuola trasmettono le cri-stallizzazioni estreme della cultura antica all’insegnamen-to medievale; e sono questi i libri innanzi a cui un reve-rente atteggiamento limita l’opera del maestro alla chio-sa, all’ossessivo e torturante commento, il quale deve so-lo svelare la verità chiusa nella pagina investita dal carat-tere sacro proprio della parola scritta. Si insinuerà ma-gari una glossa nel testo, si correggerà ad arbitrio il te-sto; quel che importa non è sapere ciò che storicamenteè vero, ma l’unica Verità in qualche modo esistente allaradice dello scritto. Proprio perché il testo scritto da chiha autorità si pone esso stesso come oggetto unico di co-noscenza, dispensando dalla ricerca diretta, ogni sforzodi approfondimento si appunta a scavare la verità nello

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scritto, che non è più un documento umano, ma un ora-colo a cui va strappato il senso segreto. Un autore del se-colo X ci spiega come si risolve una difficoltà diagnosti-ca: si va a Chartres e si leggono gli Aforismi di Ippocra-te; e se non bastano, si leggono i commenti di Galeno, epoi i commenti di Sorano, e così via via i commenti deicommenti13.

La stessa teoria della «doppia verità» si ricollega inparte a un atteggiamento mentale del genere: il libro d’A-ristotele è la rivelazione della verità naturale; il filosofareprescinde dal riferimento diretto al reale, e si limita a in-tendere la pagina dell’Autore. Mentre, a sua volta, la ve-rità è così staccata dalla personalità storica di un filoso-fo, che importa pochissimo il veicolo terreno attraverso ilquale si è manifestata. Non importa l’uomo, quell’uomo:importa un pensiero, a cui il mutar nome è meramenteaccidentale. Di qui le strane attribuzioni, e gli anonimi,scomparendo il singolo nell’opera sua o nel frutto di unacollettività. Ov’è la grandezza e il limite di tutta una cul-tura: ma dov’è un carattere che va tenuto ben presenteper capire la vibrazione con cui Valla dinanzi alla paro-la, al verbum, richiama al fatto che ci troviamo innanzia un puro mezzo di comunicazione, cosa certo grandis-sima, ma umana. Onde la logica, la dialettica, va ricon-dotta dai cieli della teologia ai piani della retorica e del-la grammatica, sul più umile terreno dei rapporti mon-dani. Né diversamente Guarino, all’inizio del suo cor-so di retorica, ricordava come retorica e dialettica fosse-ro scienze mondane. Ed Ermolao Barbaro nella prolu-sione al suo corso su Aristotele, che teneva in Padova alsorger del sole, sentiva il bisogno di dire esser suo scopofar entrare Aristotele come viva persona in un colloquio

13 RICHER, Histoire de France (888-995), éd. R. Latouche,Paris, 1930-37, II, pp. 224-31.

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umano: ut cum ipso vivo et praesente loqui videamur. Unuomo vivo e presente, amato nei suoi limiti.

6. Umanesimo e antichità classica

Proprio l’atteggiamento assunto di fronte alla cultura delpassato, al passato, definisce chiaramente l’essenza del-l’umanesimo. E la peculiarità di tale atteggiamento nonva collocata in un singolare moto d’ammirazione o d’af-fetto, né in una conoscenza più larga, ma in una ben de-finita coscienza storica. I «barbari» non furono tali peravere ignorato i classici, ma per non averli compresi nellaverità della loro situazione storica. Gli umanisti scopro-no i classici perché li distaccano da sé, tentando di defi-nirli senza confondere col proprio il loro latino. Perciòl’umanesimo ha veramente scoperto gli antichi, siano es-si Virgilio o Aristotele pur notissimi nel Medioevo: per-ché ha restituito Virgilio al suo tempo e al suo mondo, eha cercato di spiegare Aristotele nell’ambito dei proble-mi e delle conoscenze dell’Atene del quarto secolo avantiCristo. Onde non può né deve distinguersi, nell’umane-simo, la scoperta del mondo antico e la scoperta dell’uo-mo, perché furon tutt’uno; perché scoprir l’antico cometale fu commisurare sé ad esso, e staccarsene, e porsi inrapporto con esso. Significò tempo e memoria, e sen-so della creazione umana e dell’opera terrena e della re-sponsabilità. Ché non a caso i maggiori umanisti furo-no in gran numero uomini di Stato, uomini attivi, usi allibero operare nella vita pubblica del tempo loro.

Ma il punto in cui si concretò quella presa di coscien-za fu l’accendersi di una discussione critica innanzi ai do-cumenti del passato che, indipendentemente da ogni re-sultato specifico, permise di stabilire una nostra distanzarispetto a quel passato: quei settecento anni di tenebre –tanti ne contava Leonardo Bruni – in cui ottenebrato era

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lo spirito di critica, in cui sembrava affievolita la consa-pevolezza della storia come farsi umano. Quel punto dicrisi si concretò e prese dimensioni precise appunto nel-la «filologia» umanistica, che è consapevolezza del pas-sato come tale, e visione mondana della realtà e umanaspiegazione della storia degli uomini.

Quando apriamo le «miscellanee» del Poliziano, subi-to, nel primo capitolo, ci viene innanzi «Endelechia», l’a-nima: ma non si tratta della Dea cantata nel secolo XII daBernardo Silvestre, o variamente entificata nei commen-tarî dei platonici; e neppure si discute dell’unità dell’in-telletto possibile, e dei suoi rapporti con l’individuo. Laquestione è di vocaboli: entelecheia o endelecheia? mo-vimento perenne o atto perfetto? Poliziano con estremalucidezza, con le testimonianze classiche alla mano, illu-stra due concezioni dell’anima, Platone in rapporto adAristotele, ciò che importano le diverse premesse, il pen-siero che si è definito in quei vocaboli. Noi vediamo ilgenerarsi di due teorie, il loro rapporto storico: noi af-ferriamo il senso di un momento della storia della filoso-fia.

Apriamo, di Valla, il famoso capitolo trentottesimo delsesto libro delle Eleganze: si discute del termine persona,e in una discussione grammaticale, ridotta persona a qua-lità, si taglia con rasoio occamistico una grave questio-ne teologica. Né a caso il Valla rimanda alla sua «dialet-tica», che è riduzione rigorosa della filosofia da teologiaad analisi delle strutture del pensiero quali si rivelano neldiscorso.

Apriamo le Annotazioni a Nuovo Testamento e leg-giamo: «non esistono parole di Cristo, il quale parlò inebraico e non scrisse nulla». E riferendosi all’osserva-zione di san Girolamo sulla corruzione dei codici biblici:«se dopo soli quattrocento anni il fiume si era così intor-bidato, che meraviglia se dopo mille anni, quanti ne cor-

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rono da san Girolamo a noi, questo fiume, mai purgato,trascina fango e detriti?».

Mentre i testi più venerabili sono affrontati nella lororealtà storica, mentre le carte degli antichi privilegi sonosottoposte al vaglio di una critica demolitrice, delle con-cezioni del cosmo che sembravano ugualmente intangi-bili si vanno rintracciando le basi in vecchie superstizionie in lontani errori. Poliziano sorride perfino del codicedelle Pandette mostrato in cappella a Palazzo Vecchio alume di candela: quelle pergamene sono per lui un pro-blema storico: sono sacre solo nella misura in cui è sacraogni opera umana valida, destinata non a chiudere persempre, ma ad aprire le vie degli uomini.

Questo è il senso della «filologia» umanistica: e bensi capisce che questi uomini fossero pedantissimi, sensi-bili come erano alla fecondità di un metodo. Perché v’ètanto commovente amore in quel desiderio esasperato direcuperare quanti più ricordi è possibile dell’umana fati-ca. Poliziano innanzi a un verso di Teocrito o di Staziovuol ritrovare ogni sapore, ogni allusione14. Poiché la ve-rità aperta agli uomini è tutta in quest’opera, in questopoieîn infaticabile, in questo nostro mondo: ed afferrar-ne il senso è conquistare il senso di noi, dei nostri limi-ti, come delle nostre possibilità. Innanzi alle sue «miscel-lanee» Poliziano ha scritto pagine che non costituisconosolo una grande lezione di umanità: esse definiscono unmetodo valido in ogni campo di indagine. Si capisce, leg-gendole, perché il Rinascimento non fu solo tempo d’ar-tisti, ma anche di scienziati, di Toscanelli e di Galileo;si capisce perché gli sterili, anche se sottilissimi dibattitidei fisici e dei logici medievali si fecero fecondissimi so-lo dopo la nuova lezione, che pur sembrava così lonta-

14 Cfr. Laur, XXXII, 46 (Teocrito), Magliab. VII, 973(commento a Stazio).

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na nel suo significato15. Si capiscono i medici nuovi usci-ti dalle scuole di filologia; e innanzi a quella rigorosissi-ma, e vorrei dir spietata istanza critica, si capisce il dub-bio di Cartesio. E si capisce anche perché, per circa duesecoli, la cultura italiana dominasse l’intera Europa, e l’I-talia potesse sembrare terra feracissima di innumerevoliingegni filosofici16.

15 Cfr. E. CALLOT, La Renaissance des Sciences de la vieau XVI.me siècle, Paris, 1951, p. 14 sgg. Il Callot deveconstatare, senza capirne la ragione, questa funzione positivadell’umanesimo; ma la ragione è chiara a chi abbia mentea comprendere, e va ricercata in una «educazione» e nellaconquista di un metodo, di una logica.

16 Cfr. il curioso e importante testo del Naudé pubblicatodal Croce nei «Quaderni della Critica», 10 marzo 1948, pp.116-17. (A proposito delle questioni generali sopra discussesono ora da vedere: B. L. ULLMAN, Studies in the Italian Re-naissance, Roma, 1955; G. SARTON, The Appreciaton of An-cient and Medieval Science during the Renaissance, 1450-1600,Philadelphia, 1955; C. DIONISOTTI, Discorso sull’umanesi-mo italiano, Verona, 1956. Sul problema della periodizzazionefondamentale è la relazione di D. CANTIMORI, La periodiz-zazione dell’età del Rinascimento nella storia d’Italia e in quellad’Europa, X Congresso Int. di Scienze Storiche, 1955, Relazio-ni, vol. IV, Firenze, 1955, pp. 307-334. Una messa a punto dialcuni aspetti della discussione si trova nei due scritti di W. K.FERGUSON, Italian Humanism: Hans Baron’s Contribution,e di H. BARON, Moot Problems: Answer to Ferguson, uscitinel «Journal of the History of Ideas», 19, 1958, pp. 14-34).

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LE ORIGINI DELL’UMANESIMO

DA FRANCESCO PETRARCA A COLUCCIO SALU-TATI

1. Lettere umane e vita civile

«Francesco Petrarca fu il primo il quale ebbe tanta gra-zia d’ingegno, che riconobbe e rivocò in luce l’antica leg-giadria dello stilo perduto e spento». Così LeonardoBruni nella sua vita del Petrarca, che è del 1436, con-sacrando quello che fu, tra gli umanisti, diffuso giudi-zio: essere stata l’opera di Messer Francesco l’auroradel nuovo giorno spuntato dalla barbarie e dalla tenebramedievale17. Coluccio Salutati menzionerà spesso ancheAlbertino Mussato, cui fu caro il pensiero classico, e che

17 LEONARDO BRUNI, Vita di Messer Francesco Petrar-ca, ap. PHILIPPI VILLANI Liber de civitatis Florentinae fa-mosis civibus... cura et studio G. C. Galletti, Florentiae, 1847,p. 53; JULII CAESARIS SCALIGERI Poetices libri VII, VI,I (Apud Petrum Santandreanum, 1594, p. 765): «de integro re-diviva novam sub Petrarcha pueritiam inchoasse... visa est»; G.J. VOSSII De historicis latinis, Lugd. Batav. 1651, p. 524. Ilche non esclude, in molti, l’idea che le «tenebre» fossero dura-te meno, e cioè solo tre secoli, fino alla venuta di Carlo Magno.Domenico Silvestri, amico del Salutati, autore di un De insuliset earum proprietatibus (ed. C. Pecoraro, Palermo, 1955, «Attid. Acc. Science, Lettere e Arti», s. IV, vol. 14, 1953-54; sul S.cfr. P. G. RICCI, Per una monografia su D. S., «Annali ScuolaNormale Sup. Pisa», 1950, pp. 13-24; R. WEISS, Note per unamonografia su D. S., ivi, pp. 198-201), in un’epistola a Giulia-no Zonarini (ms. Naz. Firenze, II, IV, 109, f. 79 v) «cum Flo-rentia tribus seculis latuisset». Non diversamente Donato Ac-ciaiuoli nella vita di Carlo Magno (ms. Naz. Firenze, II, II, 10).Filippo Villani riporta a Dante il merito di aver tratto le lette-

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discusse sul tema diffuso della fortuna18. Ma il padre ve-race della nuova devozione per la humanitas classica fu,agli occhi di tutti, il Petrarca. Il quale si avvicinò alle let-tere, agli studia humanitatis, con la consapevolezza delloro significato, del valore che per l’umanità intera avevauna educazione dello spirito condotta nel colloquio assi-duo con i grandi maestri del mondo antico. Essi soli, in-fatti, hanno inteso a pieno che cosa significhi la culturadell’anima raggiunta attraverso lo studio dei prodotti piùalti dello spirito umano.

In una delle sue lettere familiari Petrarca viene mo-strando in che modo eloquenza, ossia disciplina lette-raria, e filosofia, ossia cura dell’anima, si congiunganostrettamente. È il discorso, il sermo, che, esprimendosi,dà la misura propria e dell’animo da cui deriva. «Non

re ex abysso tenebrarum. In realtà si viene presto distinguendofra rinascita politica e della cultura teologica, e risveglio deglistudia humanitatis, come fisserà ormai nettamente Raffaele daVolterra nei Commentarii urbani dedicati a Giulio II. La «co-scienza della rinascita», divenuta nel ’400 italiano un luogo co-mune retorico, passò poi in Francia (cfr. F. SIMONE, La co-scienza della Rinascita negli umanisti francesi, Roma, 1949, e leosservazioni di chi scrive in «Rinascimento». 1950, pp. 91-97).

18 Sul De lite naturae et fortunae (ms. nella Bibl. Colombinadi Siviglia, 5, I, 5; ms. B. P. 2531 della Bibl. Civica di Pado-va) cfr. le Giunte e correzioni dello ZIPPEL alla versione ita-liana del VOIGT, Il risorgimento dell’antichità classica, Firen-ze, 1888-1897; A. MOSCHETTI, Il «de lite inter naturam etfortunam» e il «contra casus fortuitos» di A. M., «Miscellanea distudi critici... in onore di V. Crescini», Cividale del Friuli, 1927,pp. 567-90; G. BILLANOVICH-G. TRAVIGLIA, Per l’e-dizione del «de lite inter naturam et fortunam» e del «contra ca-sus fortuitos» di A. M., «Boll. Museo Civico di Padova», XXXI,XLIII, 1942-54. Al Mussato il Salutati univa Geri d’Arezzo; suquesti «preumanisti» cfr. R. WEISS, The Dawn of Humanismin Italy, London, 1947, e Il primo secolo dell’umanesimo, Roma,1949.

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piccolo indice dell’animo è il discorso», che, venendo al-la luce, sottoponendosi al controllo altrui, accetta unadisciplina e rivela un atteggiamento. «Né il discorso puòaver dignità, se l’animo non la possiede», mentre, d’altraparte, l’uscire con la parola tra gli uomini dà all’interiori-tà misura e senso concreto. «Se, infatti, le nostre passio-ni prima non si armonizzino, è necessario che contrasti-no anche costume interiore e parole. Ma un’anima bendisposta, quasi fosse su un’altura serena, rimane semprecalma e tranquilla... E se anche non è esperta nei leno-cinî dell’arte oratoria, esprime parole magnifiche e chia-re, consone a sé». Interno ed esterno, mente e discorso,si connettono indissolubilmente. Né vale esaltare un in-timo solitario parlare dell’uomo con sé. Noi dobbiamo,se vogliamo essere uomini, comunicare con gli uomini.«Noi dobbiamo adoprarci per giovare a coloro con cuiviviamo; e nessuno può dubitare che alle anime loro pos-siamo sommamente giovare con le nostre parole». E nontanto per il contenuto moralistico di un sermone, quan-to per la potenza elevatrice del colloquio umano. Il qua-le ci conglunge oltre il tempo e lo spazio, oltre i deserti ei millenni, e plasma e placa le nostre menti19.

Né ci turbi il pensiero dell’oblio in cui cadrà l’operanostra, o della vanità sua, o del fatale trascorrere di tuttele cose. «Scorrano gli anni a mille a mille; si aggiunganoi secoli ai secoli; mai si loderà la virtù a sufficienza, osi esalterà abbastanza l’amore di Dio, o si combatteràil vizio. Mai l’acume della mente troverà preclusa lastrada a nuove indagini. Stiamo perciò di buon animo;la nostra fatica non sarà vana. Né faticheranno invanocoloro che, fra lungo volgere d’anni, si apriranno alla vitanel crepuscolo del mondo». Ceterorum ominum charitas,la carità del prossimo – ecco, per Petrarca, lo stimolo

19 PETRARCA, Familiar. rer., I, 9 (ed. ROSSI-BOSCO,vol. I, Firenze, 1933, p. 45 sgg.).

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e il fine degli studia humanitatis, ed il prossimo è connoi, idealmente, anche nel ritiro della nostra solitudine,quando le parole più solenni degli antichi saggi suonanofamiliari e amiche, non solo nel cuore, ma sulle labbra,a svegliare l’animo dormiente (voces familiares ac nolae,non modo corde conceptae, sed etiam ore prolatae, quibusdormitantem animum excitare soleo).

Due dei più caratteristici motivi dell’umanesimo sonoqui evidenti: il valore delle lettere umane e il caratteresociale di una verace umanità. Altrove, scrivendo a unamico che aveva manifestato il proposito di darsi alla vi-ta monastica, noi vediamo Petrarca svolgere largamenteil tema del valore della vita attiva20. E lo vediamo citareuno dei testi ciceroniani che saranno più cari alla lettera-tura moralistica del ’400: «niente v’è in terra di più gradi-to a quel Dio che governa tutto questo mondo, degli uo-mini riuniti nel vincolo sociale... Per tutti coloro che ab-biano conservato, accresciuto, aiutato la patria, è prontoin cielo il luogo ove beati godranno in eterno». Né que-sto, come potrebbe sembrare, è in contrasto con le lo-di della solitudine. È necessario, innanzitutto, ritrovarese stessi, riscoprire in sé la propria umanità per ritrovar-si insieme uomini tra uomini. La carità di patria e l’amordel prossimo non contrastano, anzi si connettono stretta-mente, con questa educazione interiore, che è la premes-sa di ogni feconda attività terrena. Perciò il viaggio, chein Petrarca durò tutta una vita, alla scoperta dell’animapropria, fu insieme la conquista di un più solido legamecon gli altri uomini. In nome del quale egli vibrò d’en-tusiasmo patriottico all’appello lanciato in Roma da Co-la di Rienzo, per una renovatio della «sacra Italia». An-che se egli era alienissimo dai sogni gioachimiti e dallemistiche speranze nel prossimo avvento della terza età dicui invece andava inebbriandosi il tribuno. Differenza,

20 PETRARCA, Familiar. rer., III, 12 (vol. I, pp. 128-131).

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questa, essenziale, di cui va tenuto conto nel paragona-re l’opera di Cola con la posizione di Petrarca, vagheg-giante, non più i sogni profetici dell’Evangelo eterno, mal’umanità completa degli Scipioni e dei Cesari21.

2. L’analisi della vita interiore

Ritirarsi in solitudine significava per Petrarca ritrovaretutta la ricchezza della propria interiorità, ritrovare ilcontatto con Dio, aprirsi la strada a un valido contattocol prossimo. La solitudine non era monastico ritiro inbarbaro isolamento, ma iniziazione a una società più ve-ra, a una charitas effettiva. L’appello all’interiorità chePetrarca rinnova in termini agostiniani non suona iso-lamento, ma esaltazione del mondo umano, del mondodei valori e dell’azione, del linguaggio e della società checongiunge oltre il tempo e lo spazio, oltre ogni limite.La celebre epistola a frate Dionigi da Borgo San Sepol-cro, ove descrive l’ascesa sul monte Ventoso, è la presen-tazione vivissima di questa conversione dalla natura al-lo spirito, necessaria premessa per una nuova valutazio-ne del regno dello spirito. «E come Antonio, udite que-ste parole, più non cercò; come Agostino, dopo tale let-tura, non andò più oltre; così io in queste brevi frasi si-lenziosamente riflettendo compresi tutta la stoltezza del-l’uomo che, trascurato ciò che possiede di più nobile, si

21 I testi in K. BURDACH, Rienzo und die geistige Wand-lung seiner Zeit, Berlin, 1913-28. Per la Vita Caesaris e l’idea-le dell’uomo completo è da vedere R. DE MATTEI, Il senti-mento politico del Petrarca, Firenze, 1944, p. 103 e sgg. Sul-la composizione dello scritto cfr. anche G. MARTELLOTTI,Petrarca e Cesare, «Annali Scuola Normale Sup. di Pisa», 1947,pp. 149-158 (su alcuni aspetti dell’opera di Cola v. JOSEFMACEK, Racines sociales de l’insurrection de Cola di Rienzo,«Historica», VI, Praha, 1963, pp. 45-107).

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disperde nelle molte cose esterne, e quasi svanisce nelleparvenze del mondo esteriore, cercando fuori quello chedentro di sé già possedeva». Il monte che prima s’innal-zava altissimo sembra ben misera cosa; «ne guardai la ci-ma – esclama il poeta – e più non raggiungeva un cubitoconfrontata all’abissale profondità della contemplazioneumana»22.

La ricchezza di Petrarca è forse tutta qui, nell’insi-stenza su queste esperienze fondamentali con cui l’uomo,stracciato il velo dell’interiore illusione che lo chiude a sestesso, si ritrova nella propria miseria e nella propria no-biltà. Ed eccolo indugiare particolarmente sul pensierodella morte, esortando gli uomini a riconoscere se stes-si nella seria meditazione della propria morte. «Nessunocrede alla propria morte» – esclama in una lettera; e al-trove descrive il suo andar raffigurando l’agonia, e lo sfa-celo del corpo, e il dolore, e lo spengersi atroce di ognivigore. «Te a te medesimo restituisci;... straccia i veli,e dischiuse le tenebre ficca in quella gli occhi, e guardache non passi alcun dì, né alcuna notte, la quale non tiporga la memoria dell’estremo tempo». Che è, non tan-to ascetica rinuncia, quanto restituzione di sé a se stes-so. Poco prima Petrarca aveva esaltato la gloria. Soloche l’uomo, per vivere in sincera umanità, deve coglierese medesimo nella sua verità, ricordandosi sempre dellasua condizione23.

Comunque il problema di Petrarca è questo; la sua fi-losofia, profondamente avversa alle vuote dispute delle

22 PETRARCA, Familiar. rer., IV, I (vol. I, p. 153 esgg.). Su Dionigi e la celebre lettera (del 26 aprile 1336) v. U.MARIANI, Il Petrarca e gli agostiniani, Roma, 1946, p. 31 sgg.,p. 41 (Dionigi aveva anche commentato Valerio Massimo)

23 PETRARCA, Familiar. rer., VIII, 4 (vol. II, p. 164):«nemo est qui se moriturus credat». L’Autobiografia, il Secretoe Dell’ignoranza sua e d’altrui, a cura di Angelo Solerti, Firenze,1904, p. 170.

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scuole, è indagine sulla vita degli uomini. L’amico suoBonsembiante Badoer, muovendosi per entro gli schemidell’ultima scolastica, aveva riconosciuto il fallimento cuiandava incontro lo sforzo di un millennio. Non sappia-mo se nei «lunghi colloqui», cui accenna il poeta, comu-nicasse all’amico i resultati della propria ricerca24. Cer-to è che il Petrarca si mostrò sempre fieramente avversoalla filosofia ufficiale di Padova, di Bologna e di Parigi,tutta impegnata nei problemi logici e fisici che il tardonominalismo andava esasperando. La sua crudele con-danna dell’indagine naturalistica, della medicina, dellascienza averroistica, significava richiamo alle scienze del-lo spirito, all’indagine intorno all’anima ed alla vita uma-na. «Costui molte cose sa delle belve, degli uccelli e deipesci, e ben conosce quanti crini il leone abbia sul capo,e quante penne nella coda lo sparviero, e con quante spi-re il polipo avvolga il naufrago; ...come la fenice, abbru-ciata da fuoco aromatico, quindi rinasca, e il riccio fermiuna nave spinta a qualsiasi velocità, ma tratto dall’acquaperda ogni potere... Cose, tutte, in gran parte... false; maquand’anche fossero vere, a nulla servirebbero per la vitabeata. Io infatti mi domando a che giovi il conoscere lanatura delle belve e degli uccelli e dei pesci e dei serpen-ti, ed ignorare o non curar di sapere la natura dell’uomo,perché siam nati, donde veniamo, dove andiamo»25.

24 PETRARCA, Seniles, XI, 14.25 PETRARCA, Dell’ignoranza sua e d’altrui, pp.

272-73. [Sulla polemica del Petrarca, sui suoi «amici»,sull’«averroismo», cfr. P. O. KRISTELLER, Petrarca’s«Averroists». A Note on the History of Aristotelians in Veni-ce, Padua and Bononia, «Mélanges Augustin Renaudet», «Bibl.Humanisme et Renaissance», IV, 1952, pp. 59-65; ID., Il Pe-trarca, l’Umanesimo e la Scolastica a Venezia, nel vol. La civiltàveneziana del Trecento, Firenze, 1956, pp. 147-8; B. NARDI,Letteratura e cultura veneziana del Quattrocento, nel vol. Laciviltà veneziana nel Quattrocento, Firenze, 1957, pp. 101-45].

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Alla vana ricerca intorno alla natura delle cose Petrar-ca oppone recisamente l’indagine umana, una umile filo-sofia degli uomini e della città terrena da loro edificata.Il mondo di Dio è chiuso con sette sigilli alla mente fi-nita, ed è empio e fuori luogo volerlo penetrare. «I se-greti della natura, i ben difficili misteri di Dio, che noiaccettiamo con umile fede, costoro con superba iattanzasi sforzano di comprendere, ma non li raggiungono, néad essi neppur si avvicinano; gli stolti credono di strin-gere nel loro pugno il cielo, contenti della loro falsa opi-nione par loro realmente di stringerlo, felici nell’errore;né da tanta pazzia vale a ritrarli l’assurdità dell’impresa,così bene espressa dalle parole dell’Apostolo ai Roma-ni: Chi conosce gli arcani di Dio? Chi fu a parte de’ suoiconsigli?»26.

3. La polemica contro le scienze della natura

Fu appunto questa esigenza di una indagine umana,morale, quella che alimentò la insistente polemica pe-trarchesca contro le scienze della natura, che si preci-sò nell’implacabile avversione contro i medici, in quan-to la medicina significava conoscenza e cura dei corpi.Nell’Invectiva contra medicum quendam, che avrà un’econon piccola nella disputa quattrocentesca intorno al rap-porto fra scienze della natura e scienze dello spirito, Pe-trarca esclama vivacemente: «Fai il tuo mestiere, mecca-nico, ti prego, se ci riesci; cura i corpi se puoi, e altrimentiuccidi e fatti pagare la mercede del tuo delitto... Ma co-me potresti osare con inaudito sacrilegio di subordina-re la retorica alla medicina, la padrona alla serva, un’ar-

26 PETRARCA, loc. cit., p. 289.

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te liberale a un’arte meccanica?»27. E suona commento aquesta invettiva l’altra affermazione delle Senili: «compi-to vostro è la cura dei corpi; lasciate ai veri filosofi e aglioratori la cura e la educazione delle anime»28.

In Cicerone e in Platone, conosciuto piuttosto per fa-ma che non direttamente, attraverso la tradizione patri-stica e S. Agostino, Petrarca cercava appunto una dire-zione diversa da quella rigidamente logica e fisica del-l’occamismo, dell’averroismo, della scolastica parigina epadovana. All’occhio esperto dello storico potranno sve-larsi analogie sottili fra l’estremo nominalismo ed i nuoviinteressi filologici e retorici, così come già si sono mani-festati intimi legami fra la fisica parigina e la nuova scien-za rinascimentale29. In Petrarca, tuttavia, il tema cicero-niano, o l’appello a Platone, significano affermazione diun filosofare che sia riforma morale, rinnovamento spiri-tuale dell’uomo e della città terrena, instaurazione di unanuova forma di vita. I dialoghi di Platone che conobbePetrarca furon quelli stessi che il Medioevo aveva studia-

27 PETRARCA, Invectiva in medicum quendam; Opera, Ba-silea, 1581, p. 1087 sgg. Una buona edizione critica delle Invec-tive ha dato Pier Giorgio Ricci (Roma, 1960) che vi ha oppor-tunamente aggiunto il volgarizzamento di Domenico Silvestri.

28 PETRARCA, Senil., III, 7; Opera, p. 778.29 Alcuni temi fondamentali, suscettibili di ampi sviluppi,

si trovano nei saggi del Michalski, pubblicati fra il 1924 o il1938 (v. l’elenco in«Giornale crit. d. filos. it.», 1948, pp.386-87), a proposito del dissolversi della Scolastica. Perché èdifficile trascurare l’amicizia di Geri d’Arezzo con l’occamistaarditissimo fra’ Bernardo, che fu in relazione con Nicola diAutrecourt (è questo, infatti, il Bernardo di cui parla il WEISS,Il primo secolo cit., p. 190), o quello che scrive il Salutati allogico nominalista Pietro Alboino da Mantova, convertitosi allapoesia (sul quale v. quanto ho scritto sul «Giornale critico»,1948, pp. 203-4, 389-90): «enuda sophismatum apparentiam;redde nobis rerum noticiam... tum velim de poetica cogites».

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to: il Timeo, il Fedone, il Menone30. Degli altri egli posse-deva i codici, ma erano pagine mute a lui ignaro di gre-co. È vano, dunque, ricondurre a un’influenza platoni-ca un atteggiamento di pensiero che invocò Platone solocome arma polemica contro il prevalere, con l’aristoteli-smo, della preoccupazione teoretica e dell’indagine na-turalistica. Nel platonismo, come del resto nella retori-ca, si cercava un ritorno ai problemi della comunicazio-ne umana, della società umana. Si voleva, in una parola,ritrovare il senso concreto della città terrena, rivalutan-do quelle virtù politiche alle quali, come Petrarca ricor-da sulle orme di Macrobio, e quindi di Plotino, è apertoil regno dei cieli. E se il poeta non rivendica ancora, inquesto mondo, un primato della virtù attiva, insiste sul-la necessità di riconoscerle tutto il suo valore accanto al-la virtù contemplativa. Di più, egli accenna al motivo,che doveva venire largamente svolto, della connessionedi tutte le discipline liberali appunto con la vita attiva,con la vita civile, mentre con fiero disdegno viene inve-stendo le scienze della natura. In realtà mentre la puracontemplazione viene relegata nell’altra vita, la vita ter-rena viene ponendosi come campo fecondo delle attivi-tà umane, della moralità umana. La nuova filosofia na-sce sul terreno della morale, in una polemica sempre piùaspra fra natura e umanità, o anche, se si vuole, fra fato,fortuna e virtù.

Petrarca stesso sognava di comporre, aveva anzi postomano a «un trattato contro quel rabbioso cane ch’è Aver-roè, il quale agitato da infernale furore, con empi latrati,e con bestemmie da ogni parte raccolte, oltraggia e lacerail santo nome di Cristo e la cattolica fede». Così scriveva

30 Cfr. L. MINIO-PALUELLO, Il«Fedone» latino connote autografe del Petrarca, «Rendic. Acc. Lincei», Cl. sc. mor.,IV; 4 (1949, pp. 107-113; Plato Latinus, II, Phaedo, Londini,1950, p. XII.

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all’agostiniano Luigi Marsili, a cui raccomandava di con-giungere, sulle orme di Lattanzio e di Agostino, studiahumanitatis e studia divinitatis, e a cui commetteva insie-me il compito di continuare l’opera sua nella costruzio-ne di una pia philosophia31. Il nome del Marsili ci ripor-ta ai colloqui del «Paradiso degli Alberti», a quel fervidofocolaio di cultura umanistica che fu in Firenze il Con-vento di Santo Spirito, a quel circolo di dotti fra cui pri-meggiò Coluccio Salutati, e che Leonardo Bruni ritrassenei suoi Dialogi ad Petrum Histrum32. Proprio del Mar-sili, nobile figura di sacerdote piissimo, intransigente fu-stigatore della corruzione pontificia in Avignone, tesse-rà Leonardo un magnifico elogio: «riteneva nella mentenon solo le cose che hanno riguardo alla fede, ma anchequelle che chiamano gentili. E sempre aveva sulle labbraCicerone, Virgilio, Seneca e gli altri antichi, e ne riferivanon solo le opinioni e le sentenze, ma anche le parole, enon come detti d’altri, ma come cose sue»33. Maestro in-comparabile di tutti i fiorentini – lo chiamerà il Salutati,il maggiore erede e il più fedele continuatore della tradi-zione del Petrarca. Del cui pensiero sottolineava appun-

31 PETRARCA, Senil. IV, 6-7.32 ALESSANDRO WESSELOFSKY, Il Paradiso degli Al-

berti; Ritrovi e Ragionamenti del 1389: romanzo di Giovanni daPrato, Bologna, 1867. Sul Marsili cfr. U. MARIANI, op. cit.,p. 66 sgg. Singolare interesse, fra i documenti editi dal Wes-selofsky, ha il poemetto in lode di Occam composto dal Cie-co degli Organi [su cui cfr. C. VASOLI, Polemiche occami-ste, «Rinascimento», III, 1952, pp. 119-41] Per la polemicaretorica-dialettica, oltre i «dialoghi» del Bruni, son da vedere itesti pubblicati da A. MANETTI, Roberto de’ Rossi, «Rinasci-mento», II (1951), pp. 33-55.

33 LEONARDO BRUNI, Dialogi ad Petrum Histrum, ap.MEHUS, Historia litteraria florentina (AMBROSII TRA-VERSARII Latinae Epistolae, I), Florentiae, 1759, p. CCLX-XXIII.

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to il valore etico, l’interesse umano. In una celebre let-tera, scritta al conte Roberto Guidi di Battifolle in mor-te del poeta, oppone alla vuota dialettica delle scuole lasottile ricerca dei moti dell’animo, la scuola di vita, l’ele-vazione a Dio, quali motivi centrali della filosofia petrar-chesca. «E per non parlare delle arti liberali..., fu sommoin quella filosofia che è dono divino, e regolatrice di tut-te le virtù, e purificatrice dei vizi..., e di tutte le scienzesignora e maestra. Né mi riferisco a quella che i modernisofisti con vuota vanagloria, e sciocca e impudente legge-rezza, esaltano nelle scuole, ma ad una sapienza che pla-sma le anime, che forma le virtù, che lava le macchie deivizi, che illustra, al di fuori delle sottigliezze dialettiche,la verità»34.

4. Coluccio Salutati

Proprio in questa indagine nuova sulla vita dell’uomo fugrande Coluccio Salutati. Nei trattati morali, ma più an-cora nelle pagine mirabili del suo vastissimo epistolario,egli viene proponendoci la sua fine riflessione su una ric-chissima esperienza interiore. Educato alla scuola di Pie-tro da Muglio negli studi di logica e di grammatica (pluri-ma veterum grammaticorum et dialecticorucm assidua lec-tione perlegit), dotto di diritto, come cancelliere della Si-gnoria di Firenze pesò con la sua attività nella vita politi-ca italiana. Fiero difensore della florentina libertas, unicadegna erede della romana libertas, le sue lettere ufficiali,secondo il celebre detto del Visconti, erano più temibilidi un esercito in campo. Non a caso Pio II lodava la sag-gezza dei reggitori di Firenze che sceglievano come can-

34 COLUCCIO SALUTATI, Epistolario, ed. FrancescoNovati, vol. I, Roma, 1891, pp. 178-79.

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cellieri della loro repubblica i più grandi umanisti35. Vitapolitica e vita di pensiero ci appaiono infatti nel Saluta-ti, come poi nel Bruni, felicemente congiunte; il saggio, ildotto, non è un solitario staccato dalle vicende degli uo-mini, ma un uomo che risponde alla sua vocazione, cheserve il suo Signore celeste fra i tumulti della vita terrena.Il motto di Salutati, e l’epigrafe più degna della sua atti-vità, potrebbero essere le parole di esortazione alla lottarivolte nel De saeculo et religione a Niccolò di Lapo daUzzano; o le altre, fermissime, indirizzate sul tramontodella vita a frate Raffaello Bonciani: standum est in acie,conserendae manus, luctandum pro iusticia, pro veritate,pro honestate36.

Terrestre è la vocazione umana. L’impegno nostro ènella costruzione della città terrena, nella società. «Ledue cose in terra più dolci sono la patria e gli amici».In un’altra lettera, a Pellegrino Zambeccari che volevafarsi monaco, suona aperta la lode della vita attiva. «Noncredere, o Pellegrino, che fuggire la folla, evitare la vistadelle cose belle, chiudersi in un chiostro o segregarsiin un eremo, siano la via della perfezione. Credi tu

35 G. MANETTI, De illustribus longaevis, Cod. Urb. lat.387 (in F. NOVATI, op. cit., IV, 2). Invectiva LINI COLU-CII SALUTATI... In Antonium Luschum Vicentinum..., Flo-rentiae, 1825, pp. 21-22, 54. Cfr. AENEAE SYLVII In Eu-ropam sui temporis, LIV (Opera, Basilea, 1571, p. 454): «com-mendanda est multis in rebus Florentinorum prudentia, tummaxime quod in legendis cancellariis, non iuris scientiam, utpleraeque civitates, sed oratoriam spectant et quae vocant hu-manitatis studia. Norunt enim recte scribendi dicendique ar-tem, non Bartholum aut Innocentium, sed Tullium Quintilia-numque tradere... Coluccius, cuius ea dicendi vis fuit, ut Galea-cius Mediolanensium princeps, qui patrum nostrorum memo-ria gravissimum Florentinis bellum intulit, crebro auditus estdicere, non tam sibi mille Florentinorum equites quam Coluciiscripta nocere...»

36 C. SALUTATI, De saeculo et religione, I, I.

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veramente che a Dio sia stato più caro Paolo solitarioe inattivo di Abramo operoso? Non pensi tu che alSignore sia stato ben più diletto Giacobbe con dodicifigli, con due mogli, con tante greggi, dei due Macari,di Teofilo, di Ilarione? Fuggendo dal mondo tu puoiprecipitare dal cielo in terra, mentre io, rimanendo tra lecose terrene, potrò alzare il mio cuore dalla terra al cielo.Provvedendo, servendo, preoccupandoti della famiglia,dei figli, dei parenti, degli amici, della patria che tuttoriabbraccia, non puoi non elevare il tuo cuore al cieloe non piacere a Dio»37. Nell’altra vita noi assurgeremoalla gloria della contemplazione, ma solo se in questa vitaavremo combattuto la nostra battaglia, assolto la nostraopera, fedelmente compiuto la nostra giornata. Nel piùrigorosamente ascetico dei suoi trattati, il De saeculo etreligione, Coluccio Salutati presenta tutta la vita religiosacome operosità, lotta, lavoro. «La religione è la duravia della virtù...; la travagliosa via della lotta verso ilporto della pace...; l’aspro cammino che fra gli scoglidel mondo conduce ai dolci riposi del cielo». Non mairitiro, ma sempre contrasto, prova, fatica: summus hicprofecto labor. E fatica concorde: a chi nel pericolo diuna epidemia gli suggerisce la fuga, il Salutati rispondesdegnoso che l’uomo non può venir meno mai al vincolocomune che lo congiunge ai fratelli.

Meditazione su questa umana operosità, coscienza piùviva di questo comune lavoro; riflessione sulla condizio-ne umana e sulla sorte dell’uomo, sulla sua condotta, sul-le forme della sua vita; presa più viva di contatto con tut-ta la drammaticità dell’esperienza vissuta: ecco la filoso-fia. E Socrate è, così, il filosofo per eccellenza, il santodella filosofia; colui che, se fosse morto nella fede verace,sarebbe oggi il più grande dei martiri – princeps nostro-

37 C. SALUTATI, Epistolario, II. p. 303-307.

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rum martyrum38. Ogni pagina del Salutati è traversata daquesta esigenza di un filosofare che sia scuola di vita, me-ditazione seria e profonda di problemi di vita. Solo dal-la più accorta consapevolezza di noi stessi potrà nasce-re una filosofia che non sia mera esercitazione di scuola,astratta costruzione, atta piuttosto a separare che non adavvicinare alla realtà. Quello stesso drammatico pensie-ro della morte, già invocato dal Petrarca, torna nel Salu-tati come esperienza fondamentale che, mentre fa caderele vecchie teorie consolatorie, le molteplici finzioni concui gli uomini cercano di distrarre se stessi dalla gravitàdei loro problemi, riconduce la mente alle sorgenti ori-ginarie della meditazione, ai termini più semplici del fi-losofare. «Perché il mio Pietro, che era ancora un ragaz-zo, mi viene strappato nel fiore degli anni...? Sopravvi-va pur l’anima, che è immortale; ritorni il corpo alla terrada cui è venuto; l’uomo, ohimè, non è più, una volta chesia rotta l’armonia dell’unità umana». Nessuna dottrinaconsolatrice consolerà mai l’uomo dal dolore della perdi-ta di una persona amata, o dal terrore della propria fine:«sono tutte sottigliezze sofistiche; svanito il rumore delleparole, non lasciano eco alcuna solida e ragionevole»39.

5. Il primato della volontà in Coluccio Salutati

Nata su questo piano, la filosofia di Coluccio Salutati nonpoteva non sentirsi lontanissima da tutto il bagaglio tra-dizionale di sillogismi e di ragionamenti. Era un orienta-mento e un indirizzo nuovo che cercava le proprie testi-monianze così in Socrate come in Cristo o in san Fran-cesco, nei maestri cioè che avevano posto la propria vitacome un messaggio di verità. Ma, più vicini di costoro,

38 De fato, II, 8, Cod. Vat. lat. 2928, fol. 16r.39 Epist., III, pp. 416-20.

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aveva a sostegno i teorici del primato della volontà, i filo-sofi della scuola francescana, che nell’aristotelismo tomi-stico avevano visto il pericoloso naufragio di tutte le con-quiste più preziose del cristianesimo. La polemica fra ilSalutati e il Dominici si impernia proprio sulla questio-ne del primato della volontà, della vita attiva, della con-nessione fra studia humanitatis e vita civile. Il Domini-ci fu senza dubbio uomo di non comune statura, tutt’al-tro che chiuso ai problemi che tormentavano il suo tem-po. Nei suoi scritti non manca un riconoscimento pienoper il significato della vocazione terrena dell’uomo. Mala premessa tomistica lo rendeva sospettosamente avver-so a ogni critica del procedimento intellettivo, mentrela degenerazione retorica dell’umanesimo lo faceva guar-dingo di fronte ai troppo facili entusiasmi per l’antichità.Il Salutati era pronto a riconoscere il pericolo degli ec-cessi, ma insisteva sul valore della educazione nuova. Laquale solo apparentemente poteva sembrare grammati-cale. In realtà essa insegnava a ritrovare sub corticem ilvalore intenzionale dei termini, smarrito nella consuetu-do, penetrando l’espressione nel suo significato intimocome direzione spirituale. Parola e cosa, insiste il Saluta-ti, non possono disgiungersi; la parola è nata a un mede-simo parto con la cosa (velut cum ipsis rebus nata); serioinsegnamento grammaticale non si dà, che non sia, insie-me, presa di contatto reale. «Ipsa grammatica sine noti-cia rerum, et quibus modis rerum essentia varietur, sci-ri non potest». Proprio per questo la disciplina gramma-ticale è il vestibolo d’ogni penetrazione spirituale. Sen-za la capacità di intendere fino in fondo i termini, la lin-gua, non si dà conoscenza della scrittura, della parola diDio. Ogni conoscenza seria è comunicazione. In tal mo-do gli studia humanitatis come mezzo per ritrovare nellalettera l’inseparabile spirito, nel corpo l’anima indisgiun-gibile, sono strettamente connessi con gli studia divinita-tis. Lo studio del messaggio divino è integrale riconqui-

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sta di una direzione spirituale, cui prepara l’adeguata ri-conquista di quella società spirituale che si esprime e siconserva attraverso i monumenti letterari40.

Così, all’incirca, il Salutati rispondeva nel 1406 a unaparte delle critiche del Dominici. Alle altre tutto il suopensiero era una risposta. «Non so come e di dove alcuniabbiano osato, contro la ragione e l’autorità dei santi,anteporre la volontà e i suoi atti all’intelletto e alle sueoperazioni. Ma costoro forse discutono per discutere, osi riferiscono a constatazioni di fatto, a quel modo che innon poche case la moglie comanda e il marito obbedisce,o in molti pollai la gallina canta e il gallo sta zitto». Cosìacremente il Dominici nella Lucula noctis. In realtà giàtutto lo scritto del Salutati De fato, fortuna et casu avevarisolto sul piano di una certezza pratica le difficoltà e icontrasti insolubili che il problema del destino presentaall’umana ragione. È il libero atto di volontà che falibero l’uomo, mentre la ragione gli vien dimostrandol’impossibilità della libertà41.

Ma la giustificazione piena della sua posizione il Sa-lutati dà nel De nobilitate legum et medicinae, opuscoloche, se si inserisce nella disputa contro i medici, sollevatadal Petrarca e poi continuata fino alla fine del secolo XV,la supera di grandissimo tratto per acume speculativo.

Il Salutati, affrontando la discussione circa il valoredelle leggi di fronte alla medicina, intendeva esaminare ilsignificato di un sapere umano nei confronti dell’indagi-ne naturalistica. Le leggi, infatti, indicavano ai suoi oc-chi la regolata attività della famiglia umana nello sforzoconcorde per raggiungere il bene comune. «Fine dellaspeculazione – egli osserva – è il sapere, il cui oggetto è

40 Epist., IV, pp. 205-40.41 De fato, II, 10-11, fol. 23v-31v. JOHANNIS DOMI-

NICI, Card. Sancti Sixti, Lucula Noctis, ed. E., Hant, NotreDame, Indiana, 1940.

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il vero; fine delle leggi è la direzione delle azioni uma-ne. L’oggetto loro è dunque il bene, e non un bene qua-lunque, ma quel divinissimo bene che è il bene comune».Ora, come non riconoscere la superiorità del bene sul ve-ro, soprattutto quando si ponga mente al fatto che nonsi tratta qui di un bene naturale, ricevuto come un dono,ma di un bene voluto, di qualcosa che vale, e che si con-quista con sforzo; di un bene che ci fa in qualche modocollaboratori con Dio? «Non è, il bene comune ricerca-to dalle leggi, quel bene per cui noi siamo un bene, maquel bene che ci fa buoni. Il primo è bene di natura, eper esso non siamo degni di lode... Quella lode che me-ritiamo, invece, per il bene che facciamo... quando Dioci fa degni di operare e bene meritare con lui»42.

Le leggi, dirà altrove43, sono veramente un sigillo divi-no, con cui dopo il primo peccato Dio ha offerto alle co-munità degli uomini la via per riconquistare il bene (le-ges, quibus inter cunctos equabilitas statueretur, hominummentibus inspiravit). Ispirate da Dio agli uomini, inscrit-te nell’anima umana, esse hanno un’altra superiorità, ri-spetto alle leggi naturali: possono essere conosciute nel-la loro pienezza integrale, con una certezza che non sitroverà mai nelle scienze della natura. «Hanno principiche non sono nelle cose esteriori, ma in noi, naturalmen-te inspirati nelle menti nostre, con tale certezza che nonpossono sfuggirci, senza che sia necessario cercarli fuori,poiché, come vedi, sono nell’intimo di noi».

«Le leggi – insiste Coluccio – hanno l’infallibilità del-l’umana promulgazione, e contengono insita la ragionenaturale che ogni uomo di mente sana vede, o può ri-trovare meditando e discutendo. I princìpi della medi-cina, al contrario, se vien meno l’esperienza, sono incer-

42 De nobilitate legum et medicinae, 5.43 Ep. Regi Navarrae (1376), ms. Marucell. (Firenze), C, 89,

48r.

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ti e possono ingannare, anzi ingannano, né ci mostranoquella comune ragione, né danno gli effetti desiderati».Alla superiore dignità della moralità corrisponde la di-versa validità della giurisprudenza rispetto al sapere na-turalistico. La critica che al sapere avevano mosso gli oc-camisti non era passata invano per il Salutati, che la sot-tintende nella sua piena validità quando vien costruen-do quella bellissima orazione in lode delle leggi che met-te in bocca appunto alla medicina medesima: «rifletten-do meco stessa al mistico corpo che viene costituito dalleumane moltitudini riunite in famiglie, regioni, città, na-zioni, regni ed imperi; osservando come le leggi tutto or-dinino, reggano e conservino, ho visto che... la salute ve-race delle umane società non dipende dalla medicina, madall’accordo spirituale... Povera me! perché mai esaltatela mia certezza?... Le leggi sono validissime nei rapportidelle menti umane, e non solo certissime, ma ben cono-sciute. Me invece come potrete mai conoscere, quandoa stento riuscite ad afferrare una parte minima delle co-se che sono?... Quando l’intera esperienza varia... per ledifferenze del tempo e dello spazio?... Io sono generatadalla terra, le leggi dalla sapienza di Dio. Dio ha dettatole leggi con la sua parola, e me ha scritto negli eventi del-l’esperienza. Io, contingente, derivo da cose contingenti;la legge è fondata sull’eterna universale giustizia».

Ego de terra, lex vero de mente divina: in questa con-clusione del Salutati era implicita la posizione di Vico;ma essa era il motto e il programma dell’umanesimo, chevolgendo le spalle alla natura, poneva la vita degli uomi-ni al centro delle sue preoccupazioni. Ed erano uominiche la terra avevano domato per ritrovare se stessi; «for-tissimi uomini, che hanno vinto le mostruose fatiche del-la terra», e degni perciò delle stelle, quali vengono cele-brati, sempre da Coluccio, nel De Hercule eiusque labori-bus, ov’è pur l’indagine intorno alla poesia, vista in gene-re come umana creazione («figmenta et res factae dicta

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sunt a poyo...»), ed alla retorica che ha la stessa potenzaispiratrice e generatrice propria dell’amore: «a Venere,dea dell’amore, non a caso attribuiamo la retorica, il cuicompito è quello di accendere gli animi ed infiammarnenovellamente i cuori...»44.

6. Le leggi e la medicina

La discussione, tanto vigorosamente condotta dal Salu-tati circa il primato delle scienze dello spirito, non rima-se davvero senza eco; le risonanze di essa ritroviamo do-vunque per tutto il ’400. Perfino uno studioso come An-drea figlio di Ugo Benzi da Siena, noto per il suo impe-gno nelle dispute classiche dell’aristotelismo, in una suaprolusione fiorentina, probabilmente del 1451, ancorchénon ricordi Coluccio, attinge certamente a lui l’esaltazio-

44 Cod. Magliabech., cl. VIII, 1445, fol. 166v: «Uraniamautem cum Venere collocamus, nam grece uros latine ignis est,neos novum, et ipsa Venus, amoris ut inquiunt dea, novos ignesadmovet... Huic non incongruenter rhetoricam deputamus,cuius est proprium animos accendere et novos estus in audi-torum mentibus generare...» Su mitologia e poesia in Boccac-cio cfr. V. BRANCA, Motivi preumanistici nell’opera del Boc-caccio, in Pensée humaniste et tradition chrétienne au XV.me etXVI.me siècles, Paris, 1950, pp. 69-85 (Il De Hercule del S. èuscito a cura dell’Ullman, Zürich, 1951, 2 voll.; e, sempre a cu-ra dell’Ullman, anche il De saeculo et religione, Firenze, 1957).Per lo sviluppo Mussato-Petrarca-Boccaccio, cfr. G. BILLA-NOVICH, Pietro Piccolo da Monteforte tra il Petrarca e il Boc-caccio, in Medioevo e Rinascimento, Studi in onore di B. Nar-di, Firenze, 1955, pp. 1-76. Sul Salutati, la sua vita e la sua bi-blioteca, nonché sul complesso dell’opera sua, è da vedere, ora,B. L. ULLMAN, The Humanism of Coluccio Salutati, Pado-va, 1963. A proposito della polemica sulla poesia cfr. FRAN-CESCO DA FIANO, Un opuscolo inedito in difesa della poe-sia, a cura di M. L. Plaisant, «Rinascimento», N. S., I, 1961, pp.119-162.

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ne delle leggi e del viver civile; «se si togliessero le leg-gi, qual mai città, qual comunità, quale casa, quale fami-glia non verrebbe meno? che anzi la natura umana interaandrebbe annientata»45.

Non così, invece, pensava il discepolo più grande delSalutati, il Bruni46, il quale, riferendosi all’aspetto mera-mente coercitivo del diritto, lo veniva anzi opponendoalle lettere, come quello che riguarda i malvagi e non ibuoni, ed è variabile secondo i luoghi e i tempi, «sì chespesso è legittimo a Firenze quello che è condannato aFerrara». E Poggio Bracciolini, nei dialoghi compostinel 1450, dove sono introdotti come interlocutori Car-lo Marsuppini, Benedetto Accolti e Niccolò da Foligno,non solo disdegna il diritto, ma giunge ad affermare chele grandi azioni si hanno soltanto quando la volontà delsingolo uomo spezza la legge dei più. «Solo la plebagliae il popolaccio sono legati dalle vostre leggi; solo per co-storo esistono i vincoli del diritto. Gli uomini gravi, pru-denti, modesti, non hanno bisogno di leggi. Essi stessisi son fissata una legge di vita, formati dall’indole e dal-l’educazione alla virtù e ai buoni costumi... Gli uominiforti poi respingono e spezzano le leggi, adatte ai debo-li, ai mercenarî, ai vili, ai miserabili, ai pigri, a coloro chenon hanno mezzi... Infatti tutte le imprese egregie e de-

45 Oratio HUGONIS DE SENIS (Laur. gadd. 89, sup.cod. 27, fol. 125a; cfr. K. MÜLLNER, Reden und Briefe ita-lienischer Humanisten, Wien, 1899, p. 113): «atqui tollanturleges, quae civitas, quae universitas, quae domus, quae familianon illico deficiat? quin immo natura ipsa humana ad nihilumredigetur... Non immerito nobilissimus ille iuris consultus Ul-pianus civilem sapientiam veram philosophiam appellat. Huiusdisciplinae tanta est vis, tanta potestas, ut vix possit aliquo elo-quentiae studio enarrari...».

46 LEONARDO BRUNI, Epist. VI, ed. Mehus, II, Floren-tiae, 1741, p. 50.

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gne di ricordo sono nate dall’ingiustizia e dalla violenza,e, insomma, dalla violazione delle leggi»47.

Tuttavia, a parte quest’ultima interessante esaltazionedella forza, tanto il Bruni quanto il Bracciolini rimaneva-no al di fuori del problema del Salutati, impostato su al-tro piano, proprio a difesa di quell’umanità che anch’es-si volevano celebrare. Le leggi che Coluccio aveva esal-tato sono i princìpi stessi della vita morale, l’anima dellavita comune, della società degli uomini; costituiscono labase della umana comunicazione in tutta la sua ricchez-za. In un dialogo molto interessante del medico Giovan-ni d’Arezzo, dedicato a Lorenzo de’ Medici poco dopola morte di Pietro, e nel quale sono introdotti a discor-rere de medicinae et legum praestantia il Marsuppini, ilNiccoli e il Bruni, proprio in bocca del Bruni è messala confutazione del Poggio: «non si loderanno mai ab-bastanza, a mio parere, le leggi; esse, infatti, non rego-lano solamente i villani, o i comuni cittadini, o i ricchi;ma limitano e trattengono i pretori e i magistrati, reggo-no i re, signoreggiano i signori, sugli imperatori eserci-tano il loro imperio...; difendono i deboli dai forti, tragli eguali mantengono l’armonia...». Né contro le leggivalga l’obbiezione della loro mutevolezza; «sono i popo-li che variano d’opinione e di parere col variare dei tem-pi; e tuttavia con ciò non toccano le sante antichissimeleggi, ma solo illudono e ingannano se stessi». La nor-ma della giustizia sta eterna, regola e signora di tutte leleggi. Le quali costituiscono veramente la base concretaed il legame profondo delle umane società. «Santissimoe dolcissimo nome, la patria... Grande cosa è l’apparte-nere alla stessa città, soprattutto se è libera città. Mol-te cose comuni hanno i cittadini: il diritto, le leggi, il fo-

47 POGGIO BRACCIOLINI, Opera, Argentorati, 1513,fol. 19 r v.

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ro, il senato, le magistrature»48. Così Lapo da Castiglion-chio, pure non tenero per le pretese dei giuristi. Ma an-ch’egli era ben consapevole del valore sociale della hu-manitas, che in una sua Oratio de laudibus philosophiaepresenterà edificatrice di città e domatrice della natura49.

D’altra parte i filosofi di Padova scenderanno in cam-po in difesa della medicina con quel sottile, eppur sfug-gente pensatore, ch’è Nicoletto Vernia. Il quale si eramolto interessato alla polemica, e tra i suoi manoscrit-ti conservava una quaestio del teologo agostiniano Gio-vanni da Imola utrum scientia civilis vel canonica sit no-bilior medicinali. «E sembra di sì – cominciava il frate– se è vero che è più nobile la scienza che rende l’uomopiù degno d’onori». A Nicoletto pareva il contrario, e

48 JOHANNIS ARETINI physici de medicinae et legumpraestantia, Laur. lat., plut. LXXII, 22: «numquam satis, meaopinione, legalis disciplina laudari potest... haec enim non ru-sticos solum, vel cives, aut optimates, sed praetores et magistra-tos compescit et limitat, reges regit, dominis dominatur, impe-ratoribus imperat...; haec minores a maioribus tuetur paribu-sque aequitatem servat». Sul mutar delle leggi: «id populi fa-ciunt, qui diverso quidem tempore varias habent opiniones etiudicia; nec tamen antiquas sanctasque leges, sed seipsos deci-piunt aut deludunt... Leges ipsae canones suos vel regulas ser-vari iubent, quasi dominae sint». Questo e i vari altri testi quicitati sono stati raccolti da me nel vol. La disputa delle arti nelQuattrocento, Firenze, 1948, da integrarsi con l’importante stu-dio di G. F. PAGALLO, Nuovi testi per la ‘disputa delle arti’nel Quattrocento: la «quaestio» di Bernardo da Firenze e la «di-sputatio» di Domenico Bianchelli, «Italia Medievale e Umanisti-ca», II, 1959, pp. 467-481 (e su una replica al Vernia di Pie-tro Donato Avogaro cfr. BERNARD M. PEEBLES, Studiesin Pietro Donato Avogaro of Verona, «Italia Medievale e Uma-nistica», V, 1962, pp. 28-9).

49 LAPUS CASTELIUNCULUS, Epist. Roberto Strozzae(Cod. Ottobon. lat. 1677, fol. 218v). Cfr. MÜLLNER, Redenund Briefe, p. 249 sgg.: Oratio de laudibus philosophiae, ivi, p.139 sgg.

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lo sostenne con dovizia d’argomenti. La politica, è ve-ro, conserva l’uomo in pace, ma la medicina lo conser-va in quell’esistenza senza cui non si dà attività alcuna.Ed è più nobile la scienza della natura anche perché, in-vece di appoggiarsi all’umana autorità, si fonda su pro-cessi logici. Ma il culmine della quaestio del Vernia è nelconcetto di felicità, riposta da lui, non già nell’attività so-ciale, ma nella pura speculazione. «Fine della legislazio-ne è una certa felicità circa la convivenza e la comuni-cazione delle civili adunanze. Ma non è questa la felici-tà vera... È invece mediante la speculazione che ci avvi-ciniamo a Dio, la cui beatitudine consiste nella contem-plazione della propria essenza»50. Né dal Vernia si allon-tana, nel suo scritto della dignità delle discipline, Anto-nio de Ferrariis, il Galateo, il quale, mentre non rispar-mia ingiurie al Salutati («cum nihil sciat, omnium rerumnotitiam sibi vindicat...»), antepone addirittura, dal pun-to di vista della socialità, api e formiche all’uomo: «chinon sa di quanta civile prudenza dan prova api e formi-che e simili animaletti. In molti animali giustizia e pietàsono assai più sviluppate che in molti uomini». La nobil-tà dell’uomo è tutta nel sapere, non nel fare. «Civilis di-sciplina omnis in actione est... Quantum contemplativaactivae praeest, tantum medicinae ista pars [speculativa]civili disciplinae»51.

Erano veramente qui in contrasto due concezioni op-poste della vita e della filosofia: l’una umana, per cui ciò

50 MAGISTRI JOANNIS DE IMOLA quaestio utrumscientia civilis vel canonica sit nobilior medicinali, Marcianus lat.cl. X, 218, fol. 79-82. N. VERNIA, Quaestio an medicina no-bilior atque praestantior sit iure civili (nella edizione curata dalVernia del commento del Burley alla Fisica, cfr. GUALTERIIBURLAEI de physica auscultatione, Venetiis, 1589).

51 Vari opuscoli di ANTONIO DE FERRARIS detto ilGALATEO, Lecce, 1868 (Collana di scrittori di Terra d’O-tranto, III), pp. 10, 13, 25-26.

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che conta per l’uomo è il suo farsi e il suo fare; ed eravisione cristiana. L’altra, legata all’ideale aristotelico delsapere, del vedere, per cui l’azione, l’operosità, rappre-sentano qualcosa di secondario e inferiore, continuavaed esauriva la concezione dell’essere propria della teolo-gia medievale.

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LA VITA CIVILE

1. La scuola del Salutati e Bernardino da Siena

Chi cercasse a fondo l’origine ideale della concezione delSalutati intorno al primato della volontà e al valore del-l’opera terrena dovrebbe rifarsi, con ogni probabilità, al-la tradizione francescana e a motivi scotistici, come giàs’è accennato a proposito della polemica con il Domini-ci, tomista. Una conferma può, forse, ritrovarsi in sanBernardino da Siena, discepolo d’un discepolo di Coluc-cio, e gran lodatore di «messer Francesco Petrarca» edi «messer Coluccio Salutati», i quali entrambi «nobilis-sime cose feciono e da commendargli grandissimamen-te». Bernardino aveva visto l’immenso pregio dell’ani-ma, superiore, come insiste a dire, polemizzando controgli astrologi, ad ogni cosa creata; ma nell’anima è altret-tanto chiaro il primato del volere. «La voluntà è impe-radrice di tutte e tre le... potenzie [dell’anima] e di tut-ti i nostri sentimenti; la voluntà è reina della mente no-stra... La buona voluntà è imperadrice di tutto l’univer-so». Se in patria, nei cieli, l’uomo andrà a contempla-re, nel mondo è chiamato a operare e ad amare; le chia-vi della sapienza medesima sono possedute dalla carità;«più conosce chi ama che chi non ama»52.

52 Per la polemica antiastrologica e il pregio infinito dell’ani-ma cfr. S. BERNARDINO DA SIENA, Le prediche volgaria cura di P. Bargellini (sono le prediche senesi del 1427), Mila-no, 1936, predica II, p. 56 sgg.: «L’altro reame è lo spirituale,il quale è l’anima; la quale anima è sopra tutte le cose corpora-li, e più gentile che niuna altra cosa corporale. Questa anima èin altezza e virtù sopra tutta la terra, sopra l’acqua, sopra il fuo-co, sopra l’aria, sopra ogni cosa che s’appartiene a detti elemen-

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La calda lode rivolta da Leonardo Bruni al dolce santodi Siena non era ossequio di maniera; era l’incontro sin-cero, nell’atmosfera ideale della scuola di Coluccio, del-l’erede di Duns Scoto e del fervido restauratore degli stu-di classici. Che non erano per lui, come non erano sta-ti per il maestro suo dilettissimo, esercitazioni letterariepedantesche, ma veramente rinnovata vita dello spirito.Il grido d’entusiasmo con cui il Bruni accoglie l’insegna-mento del greco iniziato dal Crisolora non è retorica; è ilsaluto a un’età in cui lo spirito umano potrà affermarsi inpiù feconda ricchezza ritrovando i propri tesori perduti.«Erano settecento anni che l’Italia ignorava il greco; ep-pure è quella la sorgente di ogni dottrina» (septingentisiam annis nemo per Italiam graecas litteras tenuit; atquetamen doctrinas omnes ab illis esse confitemur). Le litte-rae tornavano in tutta la loro fecondità a formare, non giàdegli eruditi, ma degli uomini completi. «E si chiamanostudia humanitatis perché formano l’uomo completo»53.

ti. L’anima è sopra il cielo della Luna e di Mercurio e di Venus,del Sole, di Marte, di Giove, di Saturno, di tutti e’ segni che so’in essi: ella è sopra alle 72 costellazioni». Per la critica alla filo-sofia astratta cfr. Le prediche volgari edite dal P. C. Cannaroz-zi, vol. II, Pistoia, 1934 (Quaresimale del 1424), p. 97: «pigliae’ filosofi, l’uno dice a uno modo, l’altro dice a uno altro. Pla-tone discorda da Aristotile...». Sulla nobiltà frutto dell’opera,ivi, p. 213. Sullo studio v. tutta la predica XVII del 1425, ed.Cannarozzi, vol III, p. 207 sgg. (L’educazione umanistica in Ita-lia, Bari, 1949, p. 39 sgg.). Per i rapporti con lo scotismo uti-li i testi, specialmente dalle opere latine (Opera omnia, Lugdu-ni, 1650), indicati da D. SCARAMUZZI, La dottrina del B. G.Duns Scoto nella predicazione di San Bernardino da Siena, Firen-ze, 1930. La lettera del Bruni riferita dal Cannarozzi, I, p. XX-XIX, è tratta dal Laur. plut. 90, 34, fol. 206. Ma più notevo-le quella ufficiale, sempre del B., del 1439 (ms. Panciat. 148,112r).

53 Le parole del Bruni sul ritorno della cultura in L. ARETI-NI Rerum suo tempore gestarum commentarius, in MURATO-

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La conoscenza dell’altrui pensiero, non barbaramenteviolentato, ma religiosamente restituito nella sua integri-tà, umilmente ascoltato nella sua pienezza, fa entrare glispiriti in una ideale società, dove nella voce degli uominisi traduce solenne la parola di Dio. Ecco perché la con-versazione con gli spiriti maggiori d’ogni tempo, cui ciabituano gli studia litterarum, non è affatto «volgare eru-dizione» ma scoperta del vincolo umano a tutti comu-ne, sviluppo delle basi ideali d’ogni verace città. Quan-do Angelo Decembrio nella sua Politia literaria presen-terà la scuola del Guarino, si affretterà a chiarire che egliadopera il termine politia, non nel senso greco di città orepubblica delle lettere, ma in quello latino di cultura («a polio verbi nostri significatione, vel urbana conversa-tione... quam et ipsam elegantiam elegantiaeque cultu-ram intelligi volumus»). Senonché questo mondo dellacultura umana, in cui gli spiriti «urbanamente conversa-no» fuori dei limiti del tempo e dello spazio, è appun-to una ideale repubblica, in cui affonda le radici ondetrarne sapore tutta la nostra vita spirituale. E la conver-sazione civile e politica stessa è preparata e illuminata esorretta proprio da quella cultura54.

È il Bruni che nella vita di Dante scrive: «doppo que-sta battaglia [di Campaldino] tornò Dante a casa; aglistudi più che prima si diede, e niente di manco niente tra-

RI, Rer. ital. Script., XIX, 3, ed. C. di Pierro, 1926, p. 403 sgg.Sugli studia humanitatis cfr. Epist., ed Mehus, Florentiae, II, p.49: «quae propterea humanitatis studia nuncupantur, quod ho-minem perficiant atque exornent» (v. CAROLI SIGONII delaudibus studiorum humanitatis, in M. A. MURETI Orationes,Lugduni, 1590, p. 97).

54 ANGELI DECEMBRII Mediolanensis Ad summumpontificem Pium II de Politia literaria, Basileae, 1562, p. 6. Po-litia titeraria significa qui, insieme, la honesta disciplina del Cri-nito e la elegantia del Valla.

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lasciò delle conversazioni urbane e civili... Nella qual co-sa mi giova riprendere l’errore di molti ignoranti, i qualicredono niuno essere studiante, se non quelli che si na-scondono in solitudine e in ozio, ed io non vidi mai niu-no di questi camuffati e rimossi dalla conversazione de-gli uomini, che sapesse tre lettere... Né solamente con-versò civilmente con gli uomini Dante; ma ancora tolsemoglie.. della quale ebbe più figliuoli... Qui il Boccac-cio non ha pazienza, e dice le mogli esser contrarie allistudi, e non si ricorda che Socrate, il più sommo Filoso-fo che mai fosse, ebbe moglie e figliuoli ed offizi nella re-pubblica della sua città, ed Aristotile, che non si può direpiù là di sapienza e di dottrina, ebbe due mogli in diversitempi, ed ebbe figliuoli e ricchezze assai. E Marco Tul-lio, e Catone, e Seneca, e Varrone, latini sommi filosofi,tutti ebbero moglie, figliuoli, ed offizi, e governi nella re-pubblica... L’uomo è animal civile, secondo piace a tut-ti i filosofi; la prima congiunzione, della quale multipli-cata nasce la città, è marito e moglie, né cosa può esserperfetta dove questa non sia»55.

La stretta connessione posta qui dal Bruni fra culturae vita sociale risponde in pieno alla tesi del Salutati, lo-datore anch’esso delle famiglie operose, degli stati pro-speri, delle attività mondane. Anche Salutati insiste for-temente sul valore positivo del matrimonio, e ne tesse lelodi, affrontando un argomento che sarà particolarmen-te caro alla letteratura moralistica del ’400, e che servi-rà quasi da pietra di paragone per definire i singoli at-teggiamenti. Così vediamo il Manetti convenir col Bru-ni nell’esaltare Socrate filosofo, cittadino e padre di fa-miglia. Ecco i trattati De re uxoria di Francesco Barbaro,

55 LEONARDO BRUNI, Vita di Dante in PHILIPPIVILLANI Liber, p. 46 (cfr. anche A. SOLERTI, Le vitedi Dante, Petrarca e Boccaccio scritte fino al sec. XVI, Milano,1904).

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De dignitate matrimonii del Campano; ecco il più vivacescritto di Guiniforte Barzizza56.

La tendenza a risolvere l’humanitas in un mero fattoculturale, e le litterae in retorica, contro cui mettono inguardia già il Salutati e il Bruni, si svela proprio nella di-versa posizione presa di fronte a questo fondamentale at-to di partecipazione al consorzio umano. Per gli uni cul-tura è umana conversazione: vita civile integra, dunque.Ancora il Ficino, con tutto il suo ascetismo platonico,esclama, lodando il matrimonio: «così l’uomo, come di-vino, con una certa successione l’umana specie perpetuaconserva. E, come grato, alla natura rende quel che pre-stato gli aveva...; come felice e vero scultore, la sua vivaimmagine scolpisce ne’ figli... Oltre ciò ha una domesti-ca repubblica, nel governo della quale tutte le forze dellaprudenza e della virtù pone... Finalmente la moglie e lafamiglia, o ci è dolce consolazione ed alleggerimento difatiche, ovvero un certo profondo esercizio alla moralefilosofia». Agli occhi del sacerdote Marsilio Ficino nonpuò non spogliarsi dell’umanità stessa, che è vita comu-ne, colui che dispregia il matrimonio. «Per ciò se voleteesser uomini, e legittimi figli di Dio, accrescete legittima-mente gli uomini, e a Dio somigliando, così come Dio,figliuoli a voi simili create, nutrite, reggete e governate.E ricordatevi infine che governando con somma diligen-za la famiglia, formate voi stessi, divenite esperti e ono-

56 FR. BARBARI De re uxoria liber in partes duas, ed. A.Gnesotto in «Atti e Memorie d. R. Accad. di Padova», vol.XXXII, 1915, pp. 8-103: composto nello stesso clima, i Dialogidel Bruni, il De ingenuis moribus del Vergerio e il De re uxoria diF. Barbaro costituiscono, presi insieme, un quadro tipico di unatteggiamento caratteristico del primo Quattrocento fiorentino,Il De dignitate matrimonii del Campano in Opera, Venezia,1595. Utile per la bibliografia è il volume di R. KELSO,Doctrine for the Lady of the Renaissance, Urbana Ill. 1956.

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rati nella terrena repubblica, e vi fate degni della celestecittà».

II Ficino ritrovava il tono e la nobiltà del vecchio Co-luccio, e il suo ideale dell’uomo completo, capace d’ar-monizzare in profonda unità cultura e vita morale. Dicontro, la retorica celebrava il suo tripudio con ErmolaoBarbaro, il quale in una lettera del 1486 a Arnoldo di Bo-st, ove troviamo la forte e significativa espressione duosagnosco dominos, Christum et litteras, condanna in pie-no il matrimonio. «Non v’è nulla di così pernicioso al-la cultura quanto il matrimonio e la cura dei figli. Noncondanno in senso assoluto – senza matrimoni neppur lelettere ci sarebbero; ma il letterato, colui che contemplaDio, le stelle e la natura, deve essere libero e sciolto datale catena»57. Il contrasto fra l’humanitas del Bruni e laretorica del Barbaro si rivela qui crudamente. Là la cul-tura umanistica è pienezza di umanità, e quindi società.Qui è isolamento, contemplazione, letteratura.

2. Leonardo Bruni

Il Bruni era fisso a tutt’altro ideale: le humanae litterae,gli studia humanitatis sono formazione dell’uomo inte-grale: «inest auctoritas magna propter elegantiam, et in-genuitas quaedam liberis hominibus digna». Questo è loscopo della formazione umanistica: essere una compiu-ta educazione umana. Per questo egli tiene gli occhi fissialla virtù civile. Presentando la sua traduzione della Po-

57 M. FICINI Opera, Basileae, 1565, I, 778-779. ERMO-LAO BARBARO, Epistolae, Orationes et Carmina, ed. V.Branca, Firenze, 1943, I, p. 96. Nel Valla l’esaltazione dellacarne va ben più in là: «melius merentur scorta et postribula degenere humano quam sanctimoniales virgines et continentes»(Opera, Basileae, 1543, p. 924).

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litica aristotelica, egli afferma appunto: «fra gli insegna-menti morali con i quali si forma e si educa la vita umana,tengono in certo modo il posto più alto quelli che con-cernono gli stati e il loro governo, poiché tale disciplinatende a procacciare la felicità a tutti gli uomini. E se è ot-tima cosa dare la felicità ad un solo, quanto sarà più bel-lo conquistarla a tutto uno stato? Il bene, infatti, quantopiù ampiamente si diffonde, tanto più divino deve con-siderarsi...». La vita civile, questa società concretata dal-l’uomo, è, insieme, perfezione dell’individuo, che rag-giunge la propria compiutezza solo nell’umana comuni-cazione. «Cumque homo imbecillum sit animal et, quamper se ipsum non habet sufficientiam perfectionemque,ex civili societate reportet, nulla profecto convenientiordisciplina homini esse potest, quam, quid sit civitas etquid respublica, intelligere...»58.

L’interesse del Bruni è, sempre, tutto rivolto alle cosedel mondo, della sua città, in cui le virtù si conservano esi esaltano. Le indagini naturali non lo attirano; «hannosì un pregio teorico non comune, ma nessun valore di vi-ta; l’altra filosofia invece è, per dir così, tutta nostra»59.Con Socrate egli ripete che ciò che è oltre le mura del-

58 H. BARON, Leonardo Bruni Aretino, Humanistisch-philosophische Schriften mit einer Chronologie seiner Werke undBriefe, Leipzig-Berlin, 1928, p. 73, ove sono contenuti i testi quiindicati. Sulle traduzioni aristoteliche cfr. quanto di notizie so-no venuto raccogliendo nel saggio Le traduzioni umanistiche diAristotele nel secolo XV, Firenze, 1951 (Accademia di scienzemorali «La Colombaria», VIII). Un discorso a sé meriterebbe-ro i commenti quattrocenteschi fiorentini all’etica e alla politi-ca aristoteliche (per qualche tema e indicazione di fonti cfr. lamia Giovinezza di Donato Acciaiuoli, «Rinascimento», I, 1951,pp. 43-70).

59 In questo senso sono orientate anche le battute filosofichedei Dialogi ad Petrum Histrum del 1401, dove si schernisconola fisica e la logica degli occamisti, che anche in Firenze ave-vano trovato un difensore in Francesco Landini, il Cieco degli

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la sua città non l’interessa. Il che, tuttavia, non impli-ca una monastica chiusura, ma un socratico dono di séagli altri, un cristiano amore del prossimo. Il bene soli-tario, s’è visto, è tristissima cosa; noi godiamo donando-ci. Ciò che vale non è la contemplazione statica e chiu-sa, il βιoς θεωρητικóς aristotelico, l’ascesi stoica ola vita conventuale. Gli uomini sono chiamati a opera-re sul piano della carità. Se l’impostazione dei problemidel Bruni è, generalmente, di sapore aristotelico, dell’A-ristotele etico, lo spirito animatore è tutto cristiano. Diun cristianesimo che all’ideale greco dello contemplazio-ne coscientemente oppone quello di una volontà operan-te per il bene comune. Di qui anche l’ammirazione perCicerone, per l’etica romana preoccupata di risolvere ilpensiero in termini concreti, per Dante, ideale dell’uomocompleto opposto al letterato solitario, stoicamente iso-lato dal mondo ed inutile nel mondo. «Mi giova ripren-dere l’errore di molti ignoranti, i quali credono niuno es-sere studiante se non quelli che si nascondono in solitu-dine ed in ozio... Lo ’ngegno alto e grande non ha bi-sogno di tali tormenti, anzi è vera conclusione, e certis-sima, che quello che non appara tosto non appara mai;sicché straniarsi e levarsi dalla conversazione è al tuttodi quelli che niente sono atti con loro basso ingegno adimprendere».

Presentando a Cosimo il Vecchio la traduzione del-le epistole platoniche, eccolo sciogliere un inno al sensoplatonico della vita politica. Nella bella introduzione allaversione della Politica d’Aristotele noi leggiamo una ele-gante dimostrazione della tesi che il bene operare è tan-

Organi (1325-1397). I dialoghi, idealmente connessi col De in-genuis moribus del Vergerio, puntano sull’esaltazione dell’anti-co e sul valore dell’aurea eloquenza ciceroniana, ma sono benlontani da un’idolatria che dimentichi i moderni, difesi anzi conmolto calore dal vecchio Coluccio.

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to più fecondo quanto più grande è il numero di coloroche dalle nostre azioni traggono vantaggio. E v’è, al cen-tro, insistente l’asserzione che l’uomo, «debole animale,per sé insufficiente, raggiunge la sua perfezione solo nel-la civile società», onde «non v’è per l’uomo disciplina piùconveniente del conoscere che sia lo Stato, cosa la città,in che modo si conservino e periscano». Questa classicapreoccupazione del bene comune, che a parere del Bru-ni costituiva il fulcro del pensiero di Platone, d’Aristote-le e di Cicerone, secondo lui s’incontrava poi pienamen-te col motivo centrale dell’etica cristiana. «Questa partedella filosofia – scriverà a Eugenio IV – che tratta dei co-stumi, del governo degli stati, del miglior modo di vivere,è quasi uguale nei filosofi pagani e nei nostri». Per que-sto lo studio degli antichi era per lui quasi fondamentounico per il raggiungimento di una coscienza piena dellapropria umanità60.

3. Poggio Bracciolini e il valore dei beni terreni

Nell’introduzione alla sua traduzione degli Economicid’Aristotele Leonardo Bruni aveva sottolineato il valo-re della ricchezza, di quel danaro che, secondo la bellaimmagine del Davanzati, è per la città quello che è il san-gue per il singolo. In questa generale rivalutazione delmondo umano in ogni suo aspetto, noi vediamo che an-che l’attività economica viene considerata ed apprezzata.

60 Sul significato della partecipazione piena alla «vita civile»cfr. del Bruni, De militia liber singularis, pubblicato in appen-dice alle Osservazioni e dissertazioni varie... concernenti... .An-tonio da Pratovecchio, Livorno, 1764, p. 81 e sgg., e ora, criti-camente, in appendice al volume di C. C. BAYLEY, War andSociety in Renaissance Florence, Toronto, 1961, pp. 361-97 (aimss. usati dal Bayley va aggiunto quello, assai notevole, dell’Ar-ch. di Stato di Firenze, Strozziane, III, 46, cc. 1-8).

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Tra il 1428 e il 1429 Poggio Bracciolini compone il dia-logo De avaritia dove Antonio Loschi, mentre si scagliacontro l’ipocrisia fratesca, illustra la naturalità della bra-ma del danaro, anzi la sua utilità nel consorzio civile61. Setutti gli uomini, senza distinzione di sesso, d’età, di con-dizione o di razza, bramano il danaro, nessuno potrà ne-gare esser naturale l’avidità dell’oro. «E non obbiettarmiqualcuno di quei rozzi, ipocriti parassiti, che vanno in gi-ro dando la caccia al vitto, senza lavorare e faticare, colpretesto della religione, predicando agli altri la povertàe il disprezzo dei beni. Noi non costruiremo le nostrecittà con codeste larve d’uomini, che nell’ozio più com-pleto si mantengono col nostro lavoro». Ma alla polemi-ca antifratesca, che scoppierà così crudele nel Contra hy-pocritas, sottentra subito l’aspetto costruttivo: una stra-na, moderna valorizzazione del denaro, e vorremmo diredel capitale, traversa queste pagine, che sfuggirono cosìa Max Weber come ai suoi critici, fermi a considerare lepreoccupazioni sociali di s. Antonino o le tesi dell’Alber-ti. Poggio ci presenta con efficacia polemica il sovvertirsidella società intera che seguirebbe al chiudersi di ciascu-no in un’economia preoccupata di soddisfare soltanto ibisogni del singolo in ogni momento singolo. Ciascunosarebbe impegnato e tutto assorbito dalle necessità del-la vita vegetativa. «Scomparirebbe dalle città ogni splen-dore, ogni bellezza, ogni ornamento; non più templi, nonmonumenti, non arti...; l’intera vita nostra e dello Statosarebbe sovvertita se ciascuno si procurasse solo il neces-sario... Allo Stato il danaro è nerbo necessario, e gli avarine devono esser considerati base e fondamento»62.

61 POGGIO BRACCIOLINI, Historia disceptativa de ava-ricia, Opera, fol. 7 r.

62 Un grande interesse ha, in proposito l’atteggiamento attri-buito, sia pure polemicamente, dal Filelfo al Poggio nel terzodialogo delle Commentationes florentinae de exilio (dal ms. au-

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Il lavoro, che in Giordano Bruno susciterà un inno ap-passionato, è non condanna, ma benedizione; è l’espan-dersi umano con cui l’uomo fa a sé umano e familiare ilmondo. E la ricchezza è quasi tangibile segno della ap-provazione divina. Già in Salutati Dio guarda benigno ipingui greggi e la copiosa roba di Giacobbe. E se puòsembrar legata a un antico motivo retorico l’esclamazio-ne dell’Alberti, esser la povertà invisa agli dèi come agli

tografo della Naz. di Firenze, II, II, 70), dove il Bracciolinitesse l’elogio di Cosimo e della concretezza delle res, che sonoquasi la tangibile espressione dell’attività umana. Rivolgendosial Bruni, egli rileva l’inutilità della vuota retorica: «at apud Co-smum Medicem, Leonarde, minimum omnium valeat, qui remmalit quam verba expendere. Huius divitiae sunt amplissimae,nec eas tamen consumit in umbris. Nec enim te fugit quam sae-pe multi istiusmodi Diogenes et Cratetes eius aedes frequentantut aliquid implorent, aliquid petant; quos facile semper audit,exaudit numquam. Nam in iis nullam nec publicam videt necprivatam utilitatem esse repositam praeter impudentiam singu-larem. Sed in eos se liberalem praestat, qui vel sibi possint velreipublicae esse usui» (fol. 93 r). Altrove insiste: «vir gravis etcallidus rem longe malit quam verba considerare» (fol. 92 r).E criticando gli atteggiamenti ascetici: «obscura ista et iniucun-da vivendi victitandique institutio, quam ab Anthistene profec-tam, a Diogene auctam, a Cratete confirmatam video, est fera-rum, et earum quidem immanium, non urbanorum hominum»(fol. 98 r),. Ma particolarmente significativo tutto il libro III(de paupertate), ove il trionfo dei Medici è attribuito alla poten-za del denaro e dove anche il Bruni difende le ricchezze attiran-dosi la risposta: «et ipse dives est ad sexaginta millia aureum etapud te loquitur [Palla Strozzi] cui gratificari putat, qui adeosis locuples ut ad trecenta millia aureum aut etiam amplius ae-des tui fundique ascendant (foll. 83-84)». Cfr. i testi da me edi-ti del Filelfo e del Landino (Testi inediti e rari, Firenze, 1949);ma documenti caratteristici si trovano un po’ dappertutto (cfr.p. es. le lettere scambiate fra G. Manetti e D. Acciaiuoli, ms.Magliab. VIII, 1390; o quelle di Niccolò Luna al Palmieri, ms.Riccardiano 1166).

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uomini, ha invece significato incancellabile il mito nar-rato dall’infelice giurista pesarese Pandolfo Collenuccio.Il Lavoro, dio attivo, non può rimaner celibe; e sposa lasolerte Agenoria, figlia dell’Uso, cui Pallade aveva sceltootto nobilissime ancelle: Politia, Opi, Pale, Aracne, La-runda, Dori, Bellona e Panacea, che «sempre procurava-no messi, bestiame, vesti, case, merci, difesa, salvezza»,obbedienti e coordinate nei loro sforzi da Politia. E settefiglie nacquero dal felice connubio: Vita, Valentia, Virtù,Vittoria, Ubertà, Verità, Voluttà63.

Ma per tornare al Bracciolini, non v’è accento carat-teristico dell’umanesimo che in lui non si ritrovi. Vera-mente, come scrive al Niccoli, le litterae hanno giovatoad vitam et mores. Ed innanzitutto v’è l’insistente po-lemica contro ogni sterile ascesi, contro ogni monasticasolitudine64. «Se la vita umana fosse privata della salu-te, della ricchezza, della patria, la nostra virtù rimarreb-be senza dubbio agghiacciata, solitaria, sterile, non usci-rebbe tra gli uomini, nella loro vita reale. E da essa na-scerebbe una rustica nobiltà priva veramente d’ogni no-biltà». Si suol ricordare, quasi manifesto dell’età moder-na, l’invito di Campanella a Pico della Mirandola, cheesca dalle biblioteche nell’ansia operosa del mondo. Magià Poggio disdegna il dotto chiuso tra i codici, bramosodi una rustica virtù. «Io invece quella bramo, quella ap-provo, che l’umana consuetudine conferma». Quella ve-ra virtus, celebrazione dell’uomo completo, che si misu-ra nel mondo, e gode del mondo. Standum in acie, escla-mava Coluccio; e Poggio affronta coraggiosamente i duetemi della gloria e della fortuna. È la gloria quasi l’aspet-

63 L. B. ALBERTI, Opera inedita et pauca separatim impres-sa, Firenze, 1890, p. 169; PANDOLFO COLLENUCCIO,Agenoria, in Operette morali, Bari, 1929, pp. 15-17.

64 Dell’epistolario del Bracciolini si è usata l’edizione delTonelli, 3 voll., Firenze, 1832-61.

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to tangibile, il corpo della virtù, l’eco sua diffusa nellasocietà umana, indisgiungibile da una verace virtù civile.E connesse alla gloria sono le lettere, che nell’unica cit-tà dello spirito umano fanno vivere e vibrare la memo-ria dei grandi fatti, espressione concreta di una collabo-razione di anime che non conosce limiti di tempo o dispazio.

Disdegnare la gloria per amore della virtù è vagheg-giare un ideale di virtù monastica e solitaria, sterile e va-na. Una virtù integra e piena non può essere disgiuntada questo suo ripercuotersi come paradigma e come me-ta nei cuori degli altri uomini; e la gloria è quasi il segnotangibile del suo irraggiarsi sociale.

Né può trascurarsi, nella considerazione della vita edella virtù umana, il problema della fortuna. È, la fortu-na, la trama stessa degli eventi in un suo incontrollabileprocesso, il mareggiare delle cose, il risultato degli atti inquanto viene inserendosi nel corso della realtà. Ora l’uo-mo non può essere ad essa indifferente nell’illusorio ri-fugio di una sua pretesa roccaforte di solitaria virtù. Lavirtù, se è seria virtù, è sociale, è incremento dell’uma-na città, cui non può essere indifferente o estranea la fe-condità, la riuscita degli atti. Nel Liber de nobilitate Pog-gio insiste sul motivo della virtù che nobilita, ma insie-me, sul valore della nobiltà come espressione di una vir-tù feconda e riconosciuta come tale; di una virtù che siimpone vittoriosa sulla fortuna, e trasforma il mondo de-gli uomini, anche quando si manifesta nelle meditazionidei filosofi, «che con i loro studi e le loro veglie educano,benché separati, la vita desti uomini nelle varie arti»65.

65 POGGIO BRACCIOLINI Ad insignem omnique laudepraestantissimum virum Gerardum Cumanum de nobilitate liber,Opera, fol. 31 v-32 r. Sul concetto della gloria e dei letterati chedanno la gloria cfr. il De infelicitate principum e il De veritate

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D’altra parte, proprio nel De nobilitate, il Bracciolinisottolineava i due temi fondamentali nella discussioneumanistica sulla nobiltà, da cui uscirono e gli scrittidi Buonaccorso da Montemagno66 e, sul declinare delsecolo, l’opera del Landino: il motivo antiascetico, cheaccentua il significato della nobiltà come riconoscimentodella virtù, ma insieme l’esaltazione di una nobiltà tuttanata da virtù, dal lavoro di ognuno, e non da dirittoereditario. «La virtù è a disposizione di tutti; essa diventapropria di chi l’abbraccia. I pigri, gl’ignavi, i malvagi, iperversi, che credono di succedere ai loro antenati, sonoda stimarsi tanto meno degli altri quanto più sono lontanidal somigliare a coloro da cui discendono».

4. Il mondo delle passioni e il valore del piacere

Tutta la prosa, talora mirabile, del Bracciolini è percorsada una valutazione positiva di ogni manifestazione dellavita nella sua integrale schiettezza. Le sue celebri descri-zioni di spettacoli della natura, o della grazia perfetta diun corpo umano, rientrano in questa fresca sensibilità difronte a tutti gli aspetti della vita. C’è in lui sempre destala coscienza, del resto profondamente cristiana, dell’in-carnazione dello spirito. L’uomo non è anima, è uomo,e cioè un corpo oltre che uno spirito. Con molta preci-sione scrive il Filelfo in una epistola del 1450: «io noncapisco come ci si possa dimenticare del corpo dal mo-mento che l’uomo non è solo anima» (quomodo corporis

fortunae. La Oratio in laudem matrimonii si trova anche nel ms.magliab. II, IX, 14, c. 119 r-127 r.

66 Il De nobilitate di Buonaccorso da Montemagno (Prose erime, Firenze, 1718), volgarizzato da Giovanni Aurispa, non èche un’esercitazione retorica dove le due tesi, nobiltà del sanguee delle azioni sono messe vivacemente a confronto.

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oblivisci queat non intelligo, siquidem neque solus animushomo est)67.

Proprio in questa ricerca di un equilibrio, capace disoddisfare le varie esigenze dell’uomo in una tranquillacondotta morale, consiste il maggior significato dell’in-dagine di Francesco Filelfo, assai più fecondo che nonprofondo scrittore. In una sua lettera a Bartolomeo Fra-canzani, meglio che nel prolisso trattato De morali disci-plina, è delineato chiaramente in termini aristotelici il suoideale della alipia, e cioè di una tranquillità calma e sicu-ra dell’animo, in cui si placa ogni turbamento ed ogni tu-multo. La pace, dunque, ma una pace soddisfatta peril temperato soddisfacimento, oltre che dello spirito, delcorpo68.

Del resto tutta l’opera sua è improntata a una tendenzaconciliatrice fra le varie posizioni contrastanti, e in par-ticolare tra Aristotele e Platone. Al socratismo e all’a-ristotelismo del primo umanesimo si veniva ormai chia-ramente opponendo Platone. Filelfo già sostiene la tesi,che sarà cara alla scuola del Ficino, dell’accordo sostan-ziale fra i due maggiori filosofi dell’antichità. Solo che lasua conciliazione è priva d’ogni profondità. Troppo pre-so da una retorica superficiale, svuotando gli studia hu-manitatis di ogni vera umanità, nelle sue prolusioni il Fi-lelfo viene degradando ad artificio grammaticale un’in-tuizione della vita. Quando antepone a Socrate, a Plato-ne, ad Aristotele Cicerone per la sua eleganza oratoria, sepuò incontrarsi con certi atteggiamenti del Poliziano o di

67 Filelfo, in ms, magliab. VIII, 1445, c. 308-9. NelleCommentationes, fol. 81 r, scrive: «si hominem scimus nonanimum, non corpus, sed tertium quiddam, quod et animoconstet et corpore, immortali mortalique natura, nequaquamambigere nos oportet...».

68 Cfr. del Filelfo, oltre le Epistulae, Venetiis, 1502, il Demorali disciplina, Venetiis, 1552. Numerosi testi in C. DEROSMINI, Vita di Francesco Filelfo, Milano, 1808, 3 voll.

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Ermolao Barbaro, si pone tuttavia già fuori della grandetradizione umanistica, di cui solo qualche riflesso si puòtalora rintracciare, per esempio nei dialoghi delle Com-mentationes florentinae de exilio, attraverso l’esaltazionedella ricchezza messa in bocca al Bracciolini nel terzo li-bro De paupertate.

Tutt’altro tono hanno invece le lodi dell’epicureismoche troviamo nell’epistola di Cosimo Raimondi da Cre-mona, assai dotto latinista, finito suicida nel 1435. Lapolemica del Raimondi, come quella del Valla, è indiriz-zata contro gli stoici, «filosofi aspri e inumani, con i sen-si sopiti e chiusi, morti ad ogni allettamento della gioia».Errore fondamentale d’ogni ascetismo è di non conside-rare che la virtù umana è virtù di tutto l’uomo, animae corpo, nella loro armonia perennemente riconquistata.L’avere inteso questo è, appunto, il merito di Epicuro,non uomo, ma essere veramente divino. «Si condannaEpicuro perché si ritiene che abbia avuto del sommo be-ne una concezione troppo rilassata, ponendolo nel pia-cere ed asserendo che tutto va ad esso riferito. Io inve-ce, se più accuratamente lo considero, ogni giorno sem-pre di più sono solito approvarne questa opinione, qua-siché fosse norma e principio non di un uomo, ma di unospirito superiore. Egli pose il bene supremo nel piacere,avendo visto più a fondo la forza della natura, avendocompreso che siamo nati e siamo stati formati dalla na-tura in modo che nulla ci fosse più appropriato del man-tenere sane ed integre tutte le membra del nostro corpo,conservandole nel loro stato, senza essere affetti da alcunmale dell’animo o del corpo»69.

69 La lettera del Raimondi, l’unico suo scritto filosofico, fupubblicata dal SANTINI, Cosma Raimondi umanista ed epicu-reo, «Studi storici», 1899, pp. 153-66, di su un codice del libra-io Martini, e dalla sua stampa fu da me riprodotta e tradotta neiFilosofi italiani di ’400, Firenze, 1942, pp. 133-49. Successiva-

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Il Raimondi insiste con efficacia sulla bellezza cui ciaffacciamo con i sensi, sulla gioia di vivere che si tradu-ce e si valuta, appunto, in piacere. L’epicureismo, qua-le appariva da Diogene Laerzio e dal poema lucrezianoscoperto nel 1418 dal Bracciolini, e subito comunicatoal Niccoli, offriva una base felice per questa caratteristi-ca riconsacrazione della natura nella sua integrità. Esal-tazione che si vestiva di toni irreligiosi fino a sboccarenella più schietta empietà anticristiana, come avvenne inRoma nel circolo di Pomponio Leto. «Costoro tenevanoopinione che non fusse altro mondo che questo, et mor-to il corpo morisse la anima, et demum che ogni cosa fus-se nulla se non attendere a detti piaceri e vuluptà, secta-tori del Epicuro et de Aristippo...»70. Ove, a parte ogniprobabile esagerazione polemica dell’inviato di GaleazzoMaria Sforza, qualcosa pur si rifletteva dell’atteggiamen-to di certi letterati del gruppo romano, come specialmen-te Filippo Bonaccorsi (Callimaco Esperiente), che anchealtrove vediamo avverso alla platonica separazione del-l’anima dal corpo71. La propria ortodossia sostenne in-vece sempre il Platina, di cui suonano tuttavia vivacissi-

mente ne identificavo una copia nell’anonimo Laur. Ashb. 267del sec. XV, col titolo Defensio Epicuri contra Stoicos, Achade-micos et Peripateticos («Rinascimento», 1950, pp. 100-101).

70 Il testo integrale nel PASTOR, Storia dei Papi, tr. Mercati,Roma, 1925, vol. II, p. 742.

71 Sulla posizione di Callimaco Esperiente e suoi scritti cfr.B. KIESZKOWSY, Filippo Buonaccorsi detto Callimaco e lecorrenti filosofiche del Rinascimento, «Giornale critico dellafilosofia italiana», 1934, pp. 281-94. Notevole la quaestio depeccato indirizzata in forma d’epistola al Pico (segnalata dalloZeissberg, in «Arch. für österr. Gesch.», vol. 55, 1877 epubblicata parzialmente da me, «Rivista critica di storia dellafilosofia», 12, 1957, pp. 16-21. La Rhetorica è stata pubblicatadal Kumaniecki, Varsavia, 1950). Gli scritti del Platina nell’ed.di Colonia del 1540. Il De optimo cive, con la trad. di F.

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me le sferzate contro i monaci, gli asceti e i contemplan-ti di tutte le fedi. «Molti, sia Greci che Egizi, si sono di-lettati della contemplazione, e molto hanno scritto circa imisteri e le meraviglie del creato... Ma io lodo ed ammi-ro sopra tutti i Romani che, dimenticando i vantaggi deisingoli e i godimenti dello spirito, scrivendo intorno alleleggi e alla morale, provvidero sempre alla comune utilitàdegli uomini». La scienza stessa, la cultura, è presentatanel De falso et vero bono come un mezzo di comunicazio-ne umana, un linguaggio che supera tempi, luoghi, diffe-renze di nazione e di razza. «Unico fra tutti l’uomo dot-to non è straniero in terra straniera.. La cultura, dovun-que ci rechiamo, ci accompagna, ci guida, ci riconducein porto». I naufraghi sbattuti dalle onde su una spiag-gia ignota, ecco che si rianimano scorgendo sulla sabbiatracce di figure geometriche. E il filosofo che è tra essi,li saluterà con l’insegnamento: «dite ai miei concittadiniche i genitori non possono dare ai figli viatico migliore diuna educazione nelle discipline liberali»72.

Le lettere, intese come honesta disciplina, come studiahumanitatis, rappresentano il più solido e vasto vincoloumano.

5. Il Valla e le scienze morali

Lorenzo Valla fu veramente colui che si impegnò in ognicampo per la valorizzazione piena, totale, della vita mon-dana, in tutti i suoi aspetti, contro ogni negazione asce-tica. La sua polemica antistoica, la sua satira antimona-stica, è esigenza di integrità di vita, in una purezza che

Battaglia, nell’ed. di Bologna, 1944 (insieme a MATTEOPALMIERI, Della vita civile).

72 Dal De falso et vero bono, II (ed. Colonia).

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vuol riconoscere anche nella natura, nella carne, l’operadi Dio. Dalle mani di Dio è uscito tutto l’uomo, animae corpo; né v’è parte dovuta al demonio. Non a caso s’èdetto purezza ; nel Valla c’è un bisogno quasi casto di li-berarsi da soprastrutture che sono troppo spesso dege-nerati pervertimenti, foschi lembi di barbarie, sotto cuiva ritrovata la schiettezza di un’innocenza tradita. L’ap-pello alla natura, alla voluptas del De vero bono (de vo-luptate), non può idealmente disgiungersi né dal tono fi-deistico del De libero arbitrio, né dalla esigenza di una lo-gica più aderente ai movimenti del pensiero, di un dirit-to libero da ogni cristallizzazione, di un linguaggio cheabbia ritrovato le direzioni originarie.

Il Valla è sempre crudelmente polemico, e questo suoaccento riveste di colori particolari, e quasi scandalosi,le antitesi di cui si compiace nei confronti del passato.Ecco così gli accorgimenti letterari con cui viene esalta-ta la voluptas. Ma il senso più intimo è in quel richiamoalla natura che freme e vive in noi, divina e ministra diDio, contro cui pecca chi la soffochi o la venga mutilan-do. Scopo dell’uomo è, non mutilare se stesso, ma svol-gere le sue attività e godere quella lieta commozione del-l’animo, quella soave giocondità del corpo, in cui appun-to consiste la ηδoνη. Goderla in questo mondo, con-tro ogni ascesi stoica e cristiana, riconoscendo il valoredel piacere come compenso e scopo dell’azione; goderlanell’altro mondo come sanzione divina al nostro operare:ecco, secondo Valla, il segno di una saggezza verace. Iltradizionale rapporto di mezzo a fine, il moto dall’onestàal piacere, oltre che immoralmente gretto anche falso, vainvertito, o meglio va eliminato. Non l’onesto per il pia-cevole, e neppure il piacevole per l’onesto, ma il piacereper sé (voluptatem propter se ipsam expetendam): l’agirevale in se medesimo, non per altro. V’è, nel pensiero delValla a questo proposito, come un intrinsecarsi di gioia edi moralità che corrisponde all’incarnarsi umano, per cui

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non v’è, né può esservi, separazione netta, o meglio op-posizione, fra carne e spirito. La difesa della natura nel-la sua integrità, che costituisce il centro di tutto il primolibro del De voluptate, non mira, come pur si è detto, asostituire la natura a Dio, ma a rivendicare la santità e laperfezione della ministra prima di Dio; di questo saggioe provvidenziale ordine di cose, cui l’atto deve adeguar-si. E proprio in questo naturale agire, e cioè in questa in-serzione precisa dell’atto nella realtà, è il bonum; o perlo meno un bonum reale, fecondo, concreto, e non quelnome vano che è il bonum stoico, duramente contrappo-sto all’ordine naturale. La voluptas, la divina voluptas èil segno di questa fecondità, e scende sull’azione comebenedizione di Dio (Nomen ipsum honesti cassum quid-dam et nugatorium planeque pernitiosum. Voluptate nihilamabilius nihilque praestantius). Nel piacere si esprimein tutta la sua forza la natura, e manifesta la positività delsuo espandersi. E nel godimento, nella gioia, noi provia-mo questo irrompere in noi del torrente di delizia, la cuiesaltata fruizione è, appunto, il paradiso («delectatio» at-que «deliciae», non a «delecto», sed a «delector», sive a«delectat». Nam altero modo actionem significat, ut ex-hortatio, altero passionem, ut exultatio). Prende così sa-pore quello strettissimo legame, sostenuto dal Panormi-ta nel primo dialogo, fra bellezza e voluptas, come quellache si impone e signoreggia gli animi, onde gli avvocatistessi se ne valgono nei tribunali per penetrare nelle ani-me e vincerle. Finché, in un compiacimento sensuale, siviene esaltando l’amore fisico, legato alla bellezza, men-tre alla fecondità del piacere si attribuisce un senso deltutto corpulento: il mantenimento del genere umano. Sel’ascetismo riuscisse a imporre la verginità, quantum nau-fragium de genere humano! Ove si ritrovano e la polemi-

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ca antimonastica e l’esaltazione del matrimonio: entram-bi luoghi comuni della trattatistica quattrocentesca73.

Tutto il De voluptate si muove tra questa puntuale cri-tica dello stoicismo, e, attraverso lo stoicismo, di ogniascetismo, e la conquista di un raffinatissimo significatodella voluptas, culminante in quell’esaltazione del gau-dio divino, e di tutta l’esperienza cristiana, che costitui-sce l’ultimo libro dell’opera. Lo stoicismo ha peccato perun estremo dualismo, mentre nell’opposizione fra ragio-ne e senso, fra anima e corpo, si celava un sottinteso di ti-po manicheo. Valla ha buon gioco, non solo nel mostra-re l’antitesi fra ascesi stoica e realtà della vita, ma nellosvelare l’assurdo di una dottrina che, mentre chiude l’e-sistenza di un uomo nel limite di questa esistenza terre-stre, gl’impone poi di rinunciare a tutto quello che la vi-ta ha di positivo. Il cristianesimo, dinanzi allo stoicismo,

73 Ma più specialmente per la polemica antimonastica cfr.il De professione religiosorum, edito nel 1869 dal Vahlen (L.VALLAE opuscula tria. «Sitzungsber. d. Wiener Akad.,philos. histor. Klasse», Bd. 61, pp. 7-67, 357-444. Bd. 62,93-149). Non è qui il luogo di riprendere la questione dellevarie redazioni del De voluptate, e delle eventuali modificazionie attenuazioni recate dal Valla. È comunque probabile che unaprima redazione del 1431 ci sia conservata dall’ed. parigina del1512; una seconda del 1433 nelle stampe di Lovanio (1483)e di Colonia (1509); la terza, definitiva, nell’Ottoboniano lat.2075 della Vaticana. L’ed. di Basilea delle opere conserverebbeun’arbitraria contaminazione delle prime due redazioni (cfr.M. DE PANIZZA, Le tre redazioni del De voluptate del Valla«Giornale stor. d. letteratura ital.», 1943, vol. 121, pp.1-22. La De Panizza è tornata poi sulla questione, integrando ecorreggendo, nel saggio su Le tre versioni del «De vero bono»del Valla, «Rinascimento», VI, 1955, pp. 349-64 (e de verobono, non de voluptate, sarebbe il titolo genuino dell’opera).Una bella traduzione degli Scritti filosofici e religiosi del Vallaha dato G. Radetti, Firenze, 1953).

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diventa rivendicazione dell’unità e integrità dell’uomo, esoprattutto lotta contro ogni postulato manicheo.

La proclamata santità della voluptas, del resto senti-ta molto lucrezianamente, è una difesa della divinità del-la natura, manifestazione mirabile dell’ordinata e provvi-denziale bontà di Dio. Come ogni troppo viva posizio-ne antimanichea, anche quella esposta in certe pagine delValla sembra scivolare verso il pelagianismo, rischiandodi deificare la natura, e, attraverso la natura, il piacere,hominumque divumque Voluptas74. Tuttavia nulla vienperso della sua validità, né della giustezza di quel richia-mo all’esperienza cristiana, intesa come redenzione nondell’anima, ma dell’uomo, di tutto l’uomo, carne e ani-ma, contro ogni pessimistico ascetismo e ogni evidente olarvato manicheismo.

L’orazione finale del De voluptate, ove all’esaltazionedella natura fatta dal Panormita Niccolò Niccoli opponele lodi di Dio, non è una cauta maschera indossata allafine per opportunismo; essa rispecchia veramente il pen-siero del Valla per cui la natura è opera di Dio, e tuttociò che è naturale è divino, sacro linguaggio. Alla divinalegge, signora di noi e delle cose, conviene anzi abbando-narsi con ingenua fiducia: totum ad voluntatem Dei essereferendum. E quivi appunto troveremo la gioia.

Il De libero arbitrio con i suoi accenti paolini, con lasua aspra condanna di una teologia aristotelizzante, conla sua esaltata affermazione di una fede che è offerta to-tale dell’anima a Dio, mentre si congiunge in piena ar-monia con i motivi volontaristici del De fato di Coluccio,non stona affatto nell’indagine del Valla. Il quale è pre-occupato di rompere le armature sillogistiche della dia-

74 VALLA, Opera, pp. 906 sgg., 909 sgg., 926 ecc. («Stoicospre ceteris imitari studebimus, qui sunt evangelio propinquio-res», scrive nel 1444 Enea Silvio, Lettere, ed. Wolkan, I, I, p.342).

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lettica scolastica, di abbattere il diaframma che la ragio-ne aristotelica ha innalzato fra noi e la natura, fra noi eDio. Solo abbandonandoci alla realtà, solo aprendoci aldivino, solo ritrovando la schiettezza della nostra natura,e l’ingenua innocenza di tutta la natura, noi ci rifaremodegni di Dio75.

Se rileggiamo così la Dialettica come le Eleganze noitroviamo costantemente lo stesso tema. Oltre le discus-sioni logiche tradizionali il Valla vuole afferrare il sen-so preciso primitivo delle espressioni; ridiscendendo allavalutazione originaria della parola egli intende determi-narne la portata, l’intenzionalità, ripenetrando alle sor-genti del pensiero pensante che vi si incarna. Di qui lasua violenta critica d’Aristotele, di Boezio, di tutta la bar-barie medievale; di qui la sua indagine linguistica, gram-maticale. Si tratta di riprendere i termini, rivestiti di si-gnificati insussistenti, sedimenti di teorie infondate. Sitratta di ripresentarli nella loro funzione originale, libe-randosi una volta per sempre da ogni discussione vana eartificiosa. Non a caso egli parla di un sacramento del la-tino classico, quasi di un carattere sacro, di un divino si-gillo proprio della prima schietta incarnazione del pen-

75 VALLA, De voluptate, I, 10: «quod natura finxit atqueformavit, id nisi sanctum laudabileque esse non posse. Est hoccaelum, quod supra nos volvitur, diurnis nocturnisque lumini-bus distinctum, tantaque ratione, pulchritudine utilitate com-positum. Quid commemorem maria, quid terras, quid aërem,quid montes, plana, flumina, lacus, fontes, ipsas etiam nubesac pluvias? Quid pecudes, cicures, aves, pisces, arbores, sege-tes? Nihil invenies non summa... ratione, vel specie vel utilitateperfectum, instructum, ornatum. Cuius rei una corporis nostricompago potest esse documento, quemadmodum Lactantius...manifestissime ostendit in eo libro quem de opificio Dei inscrip-sit». Ove è da sottolineare il riferimento al luogo ermetico diLattanzio, da cui attingerà Giannozzo Manetti. Ma utili paral-leli potrebbero stabilirsi fra non pochi luoghi del De voluptatee l’opera del Manetti sull’uomo.

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siero degli uomini76. Di qui l’imperativo di rispettare laparola, di non far violenza al linguaggio, ma di ascolta-re con devota umiltà il messaggio dello spirito vivo neglispiriti in cui viene parlando.

Solo così la parola riacquisterà il suo valore di comu-nicazione, di contatto fra uomini; solo così parola e pen-siero cesseranno di essere termini contrastanti. In Val-la, come poi in Poliziano, la filologia acquista un parti-colarissimo valore; è la via a intendere il pensiero. Nel-la storia di una parola, nel suo riconquistato valore, si ri-trova la storia di un rapporto umano essenziale, si ritrovala storia di una istituzione, di un concetto, di un costu-me, di una forma di vita. Se rileggiamo, nell’introduzio-ne al libro terzo delle Elegantiae, la sottile presentazionedel nesso tra diritto e filologia, vediamo che cosa potes-se significare la lettura del Digesto, e comprendiamo in-sieme il substrato filologico e la portata morale e politicadell’opuscolo sulla donazione costantiniana dove la que-stione linguistica è già atto di vita sociale e religiosa77. Lalingua, s’è detto, torna ad essere considerata come tangi-bile manifestazione dell’unità degli spiriti umani, tessu-to connettivo della società e, insieme, incarnazione del-lo Spirito. In una lettera a Giovanni Tortelli, l’umanistaaretino cui sono dedicate le Elegantiae, un contempora-neo scrive che nell’eloquenza sono rinate e si sono incon-trate tutte le forme della vita spirituale degli uomini; «at-que eodem, quasi unum in corpus, convenerunt scientiaeomnes».

76 Elegant. praef.: «magnum ergo Latini sermonis, sacramen-tum est, magnum profecto numen...». Cfr. anche Dialectica,Opera, p. 643 sgg.

77 Elegantiae, Lugduni, 1543, p. 156: «perlegi... digestorumlibros.. et relegi cum libenter, tum vero quadam cum admira-tione. Primum quod nescias utrum scientia rerum an orationisdignitas praestet...».

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Che è il tema consapevolmente svolto, sulle orme diCicerone, dai maggiori maestri del Quattrocento: tuttala vita spirituale degli uomini ha la sua radice e il suofondamento negli studia humanitatis. «Chi non sa – di-ceva Gasparino Barzizza – che tutte le arti che riguarda-no la humanitas hanno tra loro un vincolo comune e sonoquasi congiunte da un solo legame di parentela? Chi nonsente che la vita degli uomini, quando di esse fosse priva,non solo sarebbe monca e deserta, ma più bassa e più vileanche di quella di molti animali?»78. E già in Valla la «fi-lologia» così ampiamente intesa, come studio e coscienzae educazione dell’uomo integrale entro il mondo dell’u-manità verace, vichianamente si converte nella storia. Laquale, se è lodata da un Platina come maestra d’eloquen-za, è intesa da Valla come sintesi di tutte le umane disci-pline. «Per quello che io posso comprendere, mostranomaggior gravità, maggior prudenza, maggior sapienza ci-vile gli storici nelle loro orazioni, che i filosofi con le loromassime. E, a dire il vero, dalla storia deriva una grandeconoscenza delle cose naturali, che poi altri ridussero asistema, ed una grande dottrina dei costumi e d’ogni al-tra sapienza. E poiché abbiamo svelato la superiorità de-gli storici rispetto ai filosofi, se vogliamo riferirci ora allareligione, anche Mosè, anche gli Evangelisti... non pos-sono considerarsi che storici»79. Storia, dunque, maestra

78 Tortellio Aretino viro sapientissimo CASSIUS [IuniusCassius o Giovanni Cassi] in «La R. Accademia Petrarca di Arez-zo a F. Petrarca», Arezzo, 1904, p. 87 (dal Vat. Lat. 3908).G. BARZIZII. in principium quoddam artium oratio (MÜLL-NER, op. cit., p. 57). Cfr. CICER. Arch. 2.

79 L. VALLA, Historiarum Ferdinandi Regis Aragoniae libritres, Neapoli, 1509; cfr. POLIZIANO, Praefatio in Svetonium,Opera, Lugduni, 1528 vol. II, pp. 392, 399; PLATINA, Proe-mium in vit. Pontif., Opera, Colonia, 1529, p. a r. Cfr. anche,oltre il bel libro di F. GAETA, L. Valla. Filologia e storia nel-l’umanesimo italiano, Napoli, 1955, G. RADETTI, La religio-

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della vita; ma anche storia che è, soprattutto, il concretovivere dello spirito in tutta la sua ricchezza, il suo dilatar-si in tutta l’ampiezza delle sue ideali dimensioni. Storiaviva, contemporanea; riconquista che l’uomo compie dise stesso mentre allarga al massimo il proprio orizzonte.A mezzo il ’500 il veneziano Gianmichele Bruto, nel suoDe Laudibus historiae80, uscirà nelle potenti espressioni:«ci educa, non il filosofo che langue inattivo, ma Scipio-ne armato; e non nelle scuole d’Atene, ma negli accam-pamenti di Spagna; e ci educa, non con i discorsi, ma congli atti e con gli esempi». E la moralità della storia è, nongià in una universale giustificazione, ma in un crudo pro-iettare, senza limiti e senza rispetti, ombre e luci; nelloscagliar fuori, senza appello, dall’eterna vita dell’umani-tà, chi non può vivervi. «Giudice di tutto il mondo è chifa la storia; giudice unico, pio e incorrutibile».

6. Giannozzo Manetti e la prima impostazione delproblema della dignità dell’uomo

Nella linea medesima del pensiero di Leonardo Bruni simuove ancora Giannozzo Manetti, che del Bruni appun-

ne di L. Valla, nella cit. miscellanea Nardi; F. ADORNO Dialcune orazioni e prefazioni di L. V., «Rinascimento», V, 1954;G. ZIPPEL, L. V. e le origini della storiografia umanistica a Ve-nezia, ivi, VII, 1956, pp. 93-133; C. VASOLI, Le «dialecticaedisputationes» del Valla e la critica umanistica della logica aristo-telica, «Rivista critica di storia della filosofia», XII, 1957, pp.412-33; G. ZIPPEL, La «Detensio quaestionum in philosophiadi Lorenzo Valla, e un noto processo dell’Inquisizione napoleta-na, «Bullettino dell’Ist. Stor. Italiano per il Medio Evo», n. 59,1957, pp. 319-47.

80 JOH. MICH. BRUTI De historiae laudibus, Colon. Bran-deb., 1698, pp. 703-4, 731, 743-4.

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to lesse un caldo elogio funebre. Scolaro di AmbrogioTraversari, il dotto camaldolense traduttore di Dioge-ne Laerzio, aveva frequentato i convegni di Santo Spi-rito ove s’era imbevuto delle idee del primo umanesimo,ispirato ai motivi del Petrarca, del Salutati e del Marsi-li. Profondo conoscitore dell’ebraico, del greco e del la-tino, «usava dire avere tre libri a mente, per lungo abi-to; l’uno era l’Epistole di Santo Pagolo; l’altro era Agosti-no, De civitate Dei; e de’ Gentili l’Etica d’Aristotele», chepubblicamente lesse e commentò. Dell’aristotelismo, ce-lebratore di virtù civile, egli fu seguace, congiungendo-lo con una salda fede cristiana. «Usava dire che la fe-de nostra non si debbe chiamare fede, ma certezza». Maanche il cristianesimo era per lui soprattutto carità uma-na, amore del prossimo. E questo senso austero della se-rietà della vita egli venne costantemente manifestando inuna intransigenza politica che lo obbligò a gustare i frut-ti amari dell’esilio. Come per Bruni, incarnazione di di-gnità è per lui Dante e, nell’antichità, Socrate, il citta-dino integro che aveva combattuto sui campi di batta-glia, aveva affrontato senza paura i rischi della lotta po-litica, era stato padre e marito esemplare. «Benché som-mo filosofo, visse in Atene la vita civile, come ogni al-tro cittadino. Con gli Ateniesi conversava, contrasse ma-trimonio, fu magistrato, nulla trascurò infine di quelloche riteneva proprio della vita sociale»81. E quando gliveniva prospettato il monastico e disumano ideale stoi-co, egli vivacemente reagiva. Nel Dialogus consolatoriusde morte filii di continuo polemizza con coloro che vo-gliono strappare dall’uomo le passioni. Virtù, egli escla-ma, significa esaltazione dell’umanità, umanità integrale.«Abraccia quella virtù con tutte le forze dell’anima e delcorpo, ché essa, se crediamo a Cicerone, trae il suo no-me da virilità». Ora trasformare con gli Stoici gli uomi-

81 Vita Socratis, Cod. Laur. LXIII 30.

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ni in pietre, è annullare, non celebrare la loro umanità82.Ed avendogli Agnolo Acciaiuoli ricordata la massima diTerenzio, dover gli uomini sopportare senza turbamen-to le vicende dolorose della fortuna, egli ribatte: «Ben-ché io mi ricordassi di quel tuo [detto] terenziano, non-dimeno... questo altro memorabile del medesimo poetami stava fermo nella mente: tutti noi quando siamo sanidiamo di buoni consigli agl’infermi. E quell’altro mira-bile ancora d’esso poeta non dimenticavo: io sono uomoe niuna cosa umana riputo aliena da me. Sì che tutto ildolore ch’è in me piuttosto all’umanità mia che a legge-rezza, si debbe, secondo il mio parere, attribuire». L’Ac-ciaiuoli è stoico intransigente, e perciò, secondo il Ma-netti, affatto disumano; il Manetti, aristotelico, difendeapertamente la vita del sentimento: «i Peripatetici, assaipiù umani, tengono che tutte le passioni dell’animo prin-cipalmente abbino origine dalla natura... e io seguito l’o-pinione de’ Peripatetici, come più conveniente all’uma-na natura». Per questo, essere uomini significa innanzi-tutto consentire con gli uomini, soffrire e godere, uma-namente; amare i figli e la famiglia e la patria, nella ragio-ne cercare non la nemica, ma la guida, la misura degli af-fetti. «Onde sempre mi piacque quella notabile ed aureasentencia del savio imperadore Antonino Pio il quale achi riprendea Marco Antonio, quello che da prima diedeopera alla filosofia e di poi, conseguitato il governo del-la repubblica, avea posseduto lo ’mperio, perché essen-do filosofo e imperadore piangesse la morte d’uno chel’aveva allevato, si legge che in tal maniera rispose: deh!

82 Dialogus consolatorius de morte filii, Palat. 691 della Naz.di Firenze, che contiene anche la versione italiana dello stessoManetti. Cfr. le notevoli orazioni di G. Manetti sulla «giustizia»(per es. nei Palat. 51 e 598 della Naz. di Firenze). Una delleorazioni del M. fu stampata a Torino dai Fanfani (Collezione diopere inedite o rare, vol. II, 1862, p. 195-201). L’orazione delPalmieri vide la luce a Prato nel 1850.

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lasciatelo essere uomo, però che la filosofia e lo ’mperionon toglie in alcuno modo l’affecto dell’animo». E il Ma-netti, a proprio appoggio, con Cicerone ripete che, toltala vita del sentimento, non vi sarebbe differenza alcuna,«io non dico tra una pecora e uno uomo, ma tra uno uo-mo e un tronco, o veramente un sasso, o qualunque al-tra cosa insensata». Di qui la conclusione antistoica: «néperò si debbono udire coloro che dicono che la virtù èuna cosa dura, e quasi ferrea e adamantina. E se noi veg-giamo che la morte de’ catellini e degli sparvieri e deglialtri leggiadri e vaghi animaletti alcuna volta è si molestaa chi gli alieva, che non è sanza lagrime, perché si veg-gono privati per l’avenire di quelle blandizie e adulazio-ni... che debbono fare i padri per la perdita de’ propri fi-gliuoli, i quali si sentono in sempiterno privati di più cer-te o più expresse piacevolezze puerili, non vani e frivo-li dilecti. E d’altra parte cognoscono che delle loro pro-prie carni gl’ingenerarono et ch’erono d’una medesimanatura durante la vita con loro».

E se è proprio dell’uomo accogliere con umile rasse-gnazione la sventura inviata da Dio, umanissima cosa èsoffrire e piangere. «Le quali cose, bench’elle paino ne’temerarii e leggieri uomini in qualche modo contrarie eripugnanti, niente di meno ne’ prudenti e savi spesse vol-te insieme si convengono». Parole che, nella loro ric-chezza di comprensione, ben rispecchiano la larghezzadi spirito propria dell’umanesimo, che in una simile con-danna della durezza stoica, monastica e solitaria, ispire-rà al Guarino l’aspra invettiva: «essi strappano dall’uo-mo la mutua benevolenza, la carità, l’amicizia, la pietà,e di questo nulla v’è di più atroce, di più ferino, di piùavverso all’umana società»83.

83 GUARINO VERONESE, Epistolario, ed R. Sabbadini,vol. I, Venezia, 1915 («Miscellanea di Storia veneta edita percura della R. Deput. Veneta di Storia Patria», Serie III, vol.

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Su queste basi, socratiche ed aristoteliche, e a un tem-po profondamente cristiane, è basata la celebrazione no-tissima che il Manetti fece della dignità dell’uomo, laquale, ancorché ricondotta talora attraverso Lattanzio al-l’esaltazione ermetica del Dio Anthropos, si viene di pre-ferenza fondando sul valore delle attività mondane. Co-me narra Vespasiano da Bisticci, fu Alfonso d’Aragonaa spingere prima il Fazio, poi il Manetti, perché compo-nessero una dissertazione sull’uomo. Alfonso, com’è no-to, e come ricorda con tanta efficacia Pandolfo Collenuc-cio, amava particolarmente le dispute letterarie e «il con-fabulare de le lettere», convinto com’era che «il re nonletterato è un asino coronato». Del ligure BartolomeoFazio, scolaro del Guarino, aveva apprezzato molto undialogo intorno alla felicità (De vitae felicitate), steso inpolemica col Valla, ma molto povero di forza speculati-va. Il Fazio, ponendosi con ciò del tutto fuori della tra-dizione umanistica, tornava ad esaltare la pura contem-plazione, la quale ci farà conoscere i segreti della natu-ra – «conosceremo bene tutte le stelle, di cui nulla si puòimmaginare più luminoso, più adorno e più vario». Madel De excellentia et praestantia hominis il sovrano rima-se, a quanto sembra, deluso; e non a torto, se si pensa al-la piatta banalità dell’argomentazione, tutta volta a esal-

VIII): «nec vero duris ego quibusdam et agrestibus unquamsum assensus, qui omnem e nobis affectionem ita penitus ni-tuntur avellere, ut nullam humanitatis curam ad nos pertinerevelint. Quod cum nullo fieri modo possit, hominum societa-ti prorsus inutile; tollit enim mutuam inter se hominum beni-volentiam caritatem amicitiam misericordiam, qua re nihil atro-cius, nihil immanius, nihil hominum convictui excogitari possithostilius...». Cfr. anche l’epistola al Corbinelli: «maiores no-stros... non admirari et maximis prosequi laudibus non possumcum tantam in eis animi magnitudinem... fuisse intuear ut litte-rarum ac doctrinae studia, simul et rerum tum publicarum tumfamiliarium negotia capesserent...».

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tare i doni concessi da Dio all’anima e, in particolare «lafilosofia, guida e maestra del ben vivere, che c’induce alculto di Dio, e ad ogni opera di virtù»84.

Insoddisfatto delle pagine stese dal Fazio, re Alfonsosi rivolse a Messer Giannozzo, e «dopo più disputazio-ni... domandollo quale fusse il suo proprio uficio del-l’uomo rispose: Agere et intelligere». Ma nei quattro li-bri dell’opera sua il Manetti venne insistendo sull’atti-vità umana, ed anche il conoscere gli si venne svelandocome produzione di scienze atte a governar la natura, ecelebrazione di arti, ed edificazione sulla natura di unosplendido mondo armonioso di monumenti umani.

Alla prosa retoricamente pessimistica del De contemp-tu mundi di Lotario diacono, che fu il pontefice Inno-cenzo III, il Manetti viene contrapponendo Cicerone eLattanzio, e attraverso Lattanzio l’esaltazione dell’uomoche fu caratteristica dell’ermetismo. Senonché egli nonindugia, come più tardi il Ficino e il Pico, sul significatometafisico della centralità umana, in un approfondimen-to della conoscenza umana come incentrarsi nell’umanopensiero di tutta la natura, in esso quasi accolta e subli-mata e sollevata alle soglie del regno dello spirito. Il Ma-netti ricorda, è vero, il racconto della Genesi e l’imma-gine e la simiglianza divina dell’uomo; dalla tradizionepatristica riprende anzi il tema, che il plurale usato nelsacro testo («facciamo l’uomo...») indichi nell’atto del-la creazione umana l’intervento di tutte le persone del-la Trinità. Tuttavia il motivo dominante dell’inno sciol-to all’uomo dal Manetti è costituito dall’eccellenza del-le opere umane. Lo vediamo così rievocare il viaggio diGiasone e l’ardimento dei navigatori; le costruzioni mi-

84 B. FAZIO, De vitae felicitate, Antverpiae, 1556; stampatoinsieme al De excellentia et praestantia hominis con l’Epitomaede regibus Siciliac et Apuliae di F. Sandeo (Hanoviae, 1611), pp.106 sgg., 149 sgg.

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rabili, non solo degli antichi artisti, ma del suo FilippoBrunelleschi, architectorum omnium nostri temporis faci-le princeps; le opere d’ogni arte; la letteratura, il diritto,tutto il mondo dello spirito, tutto «il regno dell’uomo».E al centro la libertà umana, questo dono così grande ecosì grave, che è dono insieme e conquista, di cui l’uo-mo si rifà perennemente degno col suo lavoro, con cuiviene rendendo sempre più belli e più perfetti i prodot-ti del Signore («ab omnipotenti Deo ad usus hominumprimo inventa institutaque, et ab ipsis postea hominibusgratanter accepta, multo pulchriora multoque ornatioraac longe politiora effecta»).

Ficino e Pico batteranno sul significato cosmico del-l’uomo, sul suo esser nodo del tutto; e in pagine eloquen-ti verranno trasfigurando quasi l’uomo in un dio. Nell’u-mile prosa del Manetti l’umano valore ha sì, come sfon-do, la particolare dignità conferita dal Creatore, ma sicelebra nell’opera terrena, nella costruzione quotidianadella città terrena, nella serietà della vita civile.

7. Leon Battista Alberti

In un cerchio non diverso di terrena esperienza, di preoc-cupazioni essenzialmente mondane, rimane anche LeonBattista Alberti, pur con la ricca complessità dei suoi te-mi e la vastità dei suoi orizzonti. La limitatezza della con-dizione umana è da lui solennemente affermata in unodei più significativi dialoghi latini, quello intitolato al Fa-to e alla Fortuna, ove si racconta il sogno singolare del fi-losofo cui si viene svelando in mirabile visione il contra-sto delle anime sulle rive del fiume della vita. Le ombreche vanno errando lungo le acque turbinose del fiumein attesa dell’incarnazione, scintille del fuoco divino, av-vertono il troppo curioso indagatore dell’inutilità di ognisoverchio ardimento speculativo. «Desisti, uomo, desi-

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sti dall’investigare più del conveniente i segreti del Dio.A te e ad ogni altra anima imprigionata nei corpi sappiche i celesti han consentito solo di non ignorare quelloche cade sotto gli occhi». Chi vuole penetrare entro i di-vini misteri è come il fanciullo che vuole afferrare i raggidel sole: «desine, inepte, nam res divinae carcere mortalinusquam detinentur»85.

Altrove, come nel De iciarchia, l’assentarsi dalla socie-tà umana per la pura ricerca è denunciato come un tra-dimento; «chi, per cupidità d’imparare quello che nonsa, abbandonasse il padre e gli altri suoi impotenti e de-stituti, sarebbe empio, inumano. L’uomo nacque per es-ser utile all’uomo». E sommamente utile all’uomo è co-lui che col prossimo collabora volgendo ogni suo sforzo«alla patria, al ben pubblico, allo emolumento ed utilitàdi tutti i cittadini»86. Il tipico motivo rinascimentale virtùvince fortuna si inserisce, nell’Alberti, entro l’esaltazionedel lavoro umano, glorificato quasi dalla prosperità dellefamiglie e delle città, ove il fiorire delle ricchezze e il pro-sperare dei beni terreni è simbolo ed insieme espressio-ne tangibile del favore di Dio. Così, con questo intendi-mento, va riletto il mirabile e celebre proemio ai libri del-la Famiglia, ove ogni pessimismo ed ogni ascetismo sonoal tutto sbanditi nella certezza del valore dell’opera uma-na. Poggio Bracciolini tra le rovine di a Roma inveivacontro la fortuna, la maligna fortuna, che s’era divertita atrasformare in stalle di porci le sedi solenni dei magistra-ti romani. Pio II, a Tivoli, sospira in pagine squisite sul-le dimore delle antiche regine divenute squallidi nidi diserpi. L’Alberti si chiede pensoso la ragione di quel rapi-do tramonto di gloria cui ci fa assistere la vicenda alterna

85 Opera inedita et pauca separatim impressa, ed G. Mancini,Firenze, 1890, p. 137.

86 De iciarchia, in Opere volgari, ed. Bonucci, Firenze, 1843-49, vol. III, p. 92.

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dei tempi. «Ah! quante si veggono famiglie molte cadu-te e ruinate; né saria da annumerare o raccontare quali equante siano simili a Fabii, Decii, Drusii, Gracchi e Mar-celli, e agli altri nobilissimi appo gli antichi, così nella no-stra terra famiglie assai state, per lo ben publico a man-tenere la libertà, a conservare la auctorità e dignità dellapatria, in pace e in guerra modestissime, prudentissime,fortissime... Delle quali tutte famiglie non solo la magni-ficentia e amplitudine, ma gli uomini, né solo gli uominisono scemati e disminuiti, ma più il nome stesso, la me-moria di loro, ogni ricordo, quasi in tutto si truova cassoe annullato. Onde non sanza cagione a me sempre par-se da voler conoscere se mai tanto nelle cose umane pos-sa la fortuna, o se a lei sia questa superchia licentia con-cesso, con sua instabilitate e inconstantia porre in ruinale grandissime e prestantissime famiglie».

La risposta a questa grave e angosciosa domanda èchiara: «scorgo molti per loro stultitia scorsi ne’ casisinistri, biasimarsi della fortuna, e dolersi d’essere agitatida quelle fluctuosissime sue onde, nelle quali stolti sestessi precipitarono». L’uomo è esso stesso cagione deisuoi mali e dei suoi beni. Sempre la virtù vince lafortuna. E virtù significa qui umana virtù, operositàterrena, «la buona e santa disciplina del vivere». «Legiuste leggi, e virtuosi princìpi, e prudenti consigli, eforti et constanti fatti, l’amore verso la patria, la fede, ladiligenzia, le gastigatissime et lodatissime observantie de’cittadini sempre poterono, o senza fortuna guadagnareet aprender fama, o colla fortuna molto extendersi etpropagarsi a gloria». Ove la fortuna propizia ben pocodifferisce nei suoi effetti da quella avversa, laddove allavirtù, intesa nel senso più pieno di virtù civile, non puòmancare nella storia un sicuro trionfo.

«Mentre che da noi furono le optime e sanctissimenostre vetustissime discipline observate, mentre che noifummo studiosi porgere noi simili a’ nostri maggiori e

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con virtù demmo opera di vincer le lodi de’ passati, etmentre ch’e nostri estimorono ogni loro opera industriaet arte et al tutto ogni sua cosa essere debita et obliga-ta alla patria, al ben publico, allo emolumento et utilitàdi tutti i cittadini, mentre che si exponea l’avere, il san-gue, la vita per mantenere l’auctorità maiestate et glo-ria del nome latino, trovoss’egli alcun populo, fu egli na-tione alcuna barbara ferocissima, la quale non temesse eubbidisse nostri editti et leggie?».

Virtù significa qui, s’è detto, umanità, opera umanasaggia e prudente, virtuosa e forte, meditata con calcolosottile, inserita con abilità e finezza nel giuoco delle for-ze mondane. «Stimeremo noi suggetto alla volubilità ealla volontà della fortuna quel che gli uomini con matu-rissimo consiglio, con fortissime e strenuissime opere asé prescrivono? E come diremo noi, avere balìa con sueambiguità e incostantie la fortuna a disperdere et disci-pare quel che nui vorremo sia più sotto nostra cura e ra-gione che sotto altrui temerità? Come confesseremo noinon essere più nostro che della fortuna quel che noi consollecitudine e diligentia deliberaremo mantenere e con-servare? Non è potere della fortuna, non è, come alcunisciocchi credono, così facile vincere chi non voglia esserevinto. Tiene giogo la fortuna solo a chi se gli sottomette».

Ove non si insisterà mai abbastanza sul ricchissimo si-gnificato della virtù, che è l’agire dell’uomo colto in tut-ta la sua pienezza di valore etico e politico, laddove for-tuna è il limite dell’accadere fisico, impotente, da solo,a vincolare completamente l’azione umana, che quand’èvirtuosa, anche se sfortunata, vince sempre, riscattando-si nei confini di quella città umana dove il valore infeli-ce è non solo santificato, ma resta fecondo nella sua fun-zione educatrice. «Ci fu la loro [dei latini] immensa glo-ria spesso dalla invidiosa fortuna interrupta, non peròfu denegata alla virtù; né mentre che indicarono l’operevirtuose insieme colle buone patrie discipline essere or-

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namento et eterna fermezza dello imperio, all’ultimo maicon loro seguì la fortuna se non facile e seconda. E quan-to tempo in loro quegli animi elevati e divini, que’ consi-gli gravi e maturissimi, quella fede intensissima verso lapatria fioriva, e quanto tempo ancora in loro più valsel’amore delle publice cose che delle private, più la volon-tà della patria che le proprie cupiditati, tanto sempre conloro fu imperio, gloria e anche fortuna. Ma subito che lalibidine del tiranneggiare, e singulari commodi, le iniu-ste voglie... più poterono che le buone leggi e santissimeconsuete discipline, subito incominciò lo imperio latinoa debilitarsi e inanire».

L’antitesi virtù-fortuna nel Machiavelli suonerà bendiversa. Per Machiavelli virtù e scelleratezza non sonotermini antitetici, ma possono anzi coesistere e collabo-rare come già in quell’imperatore romano che fu, a untempo, virtuosissimo (e cioè fortissimo) e scelleratissimo.Virtù è forza ed astuzia; è forza naturale inserita abil-mente fra forze. Per l’Alberti virtù è bontà; bontà fecon-da e operosa, ma pur sempre bontà; giustizia costruttri-ce di un mondo umano ove non può non trovare rispon-denza ed effetto. «Nelle cose civili e nel viver degli omi-ni», e cioè nella nostra terrestre città, valgono solo «l’in-dustria, le buone arti, le constanti opere a maturi consi-gli, le oneste exercitazioni, le iuste volontà, le ragionevo-li expectazioni». Umana ragione, «questa prestanzia d’a-nimo, questo lume d’ingegno», che ci distingue dalle be-stie, è per l’uomo mezzo «con lo quale e’ senta e discernache essa sia onestà».

Perciò l’umana dignità per l’Alberti risiede nel lavoro,e solo nel lavoro, «Chi mai stimerà potere asseguire pre-gio alcuno o dignità, sanza ardentissimo studio di per-fectissime arti, sanza assiduissima opera, sanza molto su-dare in cose virilissime e faticosissime?». E queste operesono, nell’Alberti, contatti e rapporti civili, essendo «gliuomini... nati per cagione degli uomini». Nel quale civile

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consorzio convergono virtù e felicità, e si fanno quasi su-blime preghiera a Dio. «Pertanto così mi pare da crederesia l’uomo nato, certo non per marcire giacendo, ma perstare facendo... Sia dunque persuaso che l’uomo nacquenon per atristarsi in ozio, ma per adoperarsi in cose ma-gnifiche et ampie, colle quali e’ possa piacere e onora-re Iddio in prima, et per avere in se stesso come uso diperfecta virtù, così fructo di felicità».

L’occhio dell’Alberti vagheggia una città terrena ar-moniosa come uno dei suoi palazzi, ove la natura si pie-ga all’intenzione dell’arte come la obbediente pietra sere-na dei colli fiorentini. Non v’è l’aperto conflitto di Ma-chiavelli, né il perenne dissidio cui pensa Guicciardini,e neppure l’aristotelica concezione della «buona fortu-na» propria del Puntano, ove la fortuna si presenta ne-cessario elemento della felicità (nam si felicitas in actio-ne et usu est posita, manca erit omnino exuta fortunae bo-nis...), ed insieme del tutto al di fuori dell’umana libertà(cum humani minime sit arbitrii), onde sul piano politicosi apre insanabile la divergenza fra la cecità di un impe-to di natura (fortuna... naturalis quidam impetus) e la ci-vile prudenza (civilis felicitas... bonae... fortunae praesi-diis... indiget). Per l’Alberti l’uomo è fattore unico dellacittà terrena, e la natura, e quindi la fortuna, sono stru-menti e occasioni; limiti, se si vuole, ma non ciechi e irri-ducibili per l’uomo prudente, che li inserirà nel suo cal-colo; ostacoli alla virtù, ma di cui la virtù riuscirà sempretrionfatrice, per l’assoluto imperio che essa ha nel mon-do spirituale dell’uomo, ove non le potrà mai esser nega-ta, pur nella sventura, la gloria e la fecondità perenne diun’efficacia educatrice87.

87 Della Famiglia dell’Alberti seguo l’ed. del Mancini, Firen-ze, 1908. Il De fortuna del Pontano in Opera omnia, Venetiis,1518, p. 275 sgg.

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«Lui geometra, lui astrologo, lui musico» – dice del-l’Alberti il Landino; e realmente le credenze astrologichesi affacciano di continuo nel De architectura, ma valgonoanch’esse, piuttosto che ad inserire nel mondo l’ombraoscura di forze cieche, ad accrescerne la perfetta rego-larità, per il connettersi dell’universo in una rete di rap-porti, ove la realtà naturale, proprio per non svelar frat-ture di sorta, si presenta come la base sicura per l’ope-ra umana. La matematica infatti, già per l’Alberti, è lacifra segreta del tutto. Quando gli avviene di dissertaredella pittura, «fiore d’ogni arte», e vuol cercare la radicedi quella sua «forza divina», che fa «i morti dopo mol-ti secoli essere quasi vivi», in null’altro la trova se nonnella matematica, che «dalle radici entro dalla natura fasorgiere questa leggiadra e nobilissima arte»88.

8. Matteo Palmieri e il trapasso al platonismo

Cristoforo Landino a più riprese tenterà di prospettarela figura dell’Alberti nella luce delle discussioni e del-le sintesi platonizzanti. In realtà egli ne era al di fuo-ri, anche se, talora, non gli è estraneo qualche spunto diquelle concezioni platonico-pitagoriche della natura che,volgarizzate dalla scuola ficiniana, dovevano riverberar-si più tardi anche sull’intuizione di Leonardo89. L’anima

88 ALBERTI, Il trattato della pittura, ed. Papini, Lanciano,1913, pp. 13, 43, 45, 49, 95.

89 Per la rappresentazione che il Landino fa dell’Alberti cfr.oltre le Disputationes camaldulenses il De vera nobilitate (ms.Corsin. 433), nonché la cit. prolusione al corso sul Petrarca.Cfr. FICINI Opera, Basilea, 1561, vol. I, p. 936.

Nel De iciarchia (Opere, ed. Bonucci, vol. III, p. 118 sgg.),l’Alberti parlerà in termini stoico-ciceroniani delle faville chenatura pose nell’anima dell’uomo perché ne illuminino la mentecon i raggi di ragione.

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dell’Alberti era ancor tutta presa da questo mondo ter-reno, e ben lungi dall’anelare con ascetici voli a una fu-ga in Dio. «Voglio ne’ tuoi mali invochi aiuto da Dio;ma non voglio in questo t’abbandoni e dieti a intende-re non potere in te di te quello che puoi. Resta, quan-do che sia, sollecitare gl’Iddii con tanti tuoi voti e chie-ste. Eccita in te la tua virtù: sat sit mens sana in corporesano. La mente nostra sarà sana quando la vorremo essersana». E la virtù terrena facevasi in lui concreta pur nel-le risonanze pratiche, economiche; in quel tradursi, ab-biam visto, in successo, mentre questo successo venivafinalmente prendendo corpo fin nella «roba», nel dena-ro, nella «masserizia». «Non si spregino le ricchezze, masignoregginsi le cupidità, e nel mezzo della copia e abun-danzia delle cose così viveremo liberi e lieti...»; liberi daquella miseria che attraverso i bisogni del corpo avvilisceanche l’anima. La qual rivalutazione dell’economia e deibeni terreni andava in quegli anni pienamente afferman-dosi anche nelle pagine della quarta parte della Summadel santo vescovo di Firenze Antonino, che, pur rifacen-dosi all’Aquinate, coloriva delle nuove esigenze le anti-che intuizioni90.

Ma particolarmente vicino all’Alberti per certe esi-genze, e perfino per taluni atteggiamenti letterari, e purgià influenzato da nuovi motivi, ci appare Matteo Pal-mieri, che Alamanno Rinuccini celebrerà tipico e mi-rabile esempio di perfetto equilibrio fra virtù attiva econtemplativa91. A definire l’ideale della vita civile de-dicava il Palmieri il dialogo appunto ad essa intitolato,

90 Cfr. A. MASSERON, S. Antonin, Paris, 1926.91 ALAMANNI RINUCCINI Oratio in funere M. Palme-

rii, in FOSSI, Monumenta ad A. Rinuccini vitam, Florentiae,1791 «cum enim duplex felicitatis genus, a philosophis propo-situm, duplicem vivendi conditionem ostendat, et earum unain communibus vitae civilis actionibus versetur, altera ab om-ni actione remota, altissimarum rerum adipiscende cognitioni

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che è tutto una condanna dell’indagine sterile, di un sa-pere puro e astratto, tagliato completamente fuori dellavita. «Chi pone ogni diligenzia e cura nelle cose onestee degne di cognizione, delle quali seguiti alcuna comodi-tà privata o publica, meritamente è degno di loda. Co-loro che perdono il tempo in arti oscurissime, difficili esanza doctrina di bene vivere, sono degni d’universale vi-tuperazione, perocché non reca seco alcuno frutto». Néd’altra parte, sbandita ogni vana contemplazione, si ce-lebra una virtù monastica e solitaria. Il bene è carità, èvincolo d’amore, è vite nel consorzio umano, è società.«Niuna altra carità maggiormente ci strigne che l’amordella patria e de’ propri figliuoli». In questo corpo civi-le noi ci sentiamo non solo immersi, ma per esso soltan-to ci sembra poter sopravvivere, onde un desiderio pro-fondo ci porta ad infuturarci in esso. «Onde e’ si vengaa sufficienza ridire non puossi, ma certo si conosce neglianimi nostri essere un desiderio quasi pronosticativo de’futuri secoli, il quale ci strigne a desiderare la nostra per-petua gloria, felicissimo stato della nostra patria, e conti-nua salute di quegli che nasceranno di noi...». Perciò ap-punto l’azione veramente umana, veramente virtuosa èl’azione rivolta al bene comune: «per questo s’afferma ditutte l’opere umane niuna essere più prestante, maggio-re, né più degna, che quella se exercita per acrescimen-to e salute della patria et optimo stato d’alcuna bene or-dinata republica... Nulla opera fra gli uomini può esserepiù optima che provedere alla salute della patria, conser-vare le città e mantenere l’unione e concordia delle beneragunate moltitudini...».

L’etica ciceroniana si congiungeva nel Palmieri conPlatone ed Aristotele, ma tendeva ormai soprattutto a ve-

dumtaxat intenta sit; prudentissimus vir medium quendam, in-ter utramque viam, modum sequitur».

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stirsi di colori platonici: «di cielo venire, e in cielo ritor-nare tutti i giusti governatori delle repubbliche per tut-ti i secoli del mondo è stato da’ sommi ingegni certissi-mamente approvato». E, tuttavia, era ancora uno stranoplatonismo ove curiosamente si fondevano l’esaltazioneper Dante letterato sovrano e cittadino compiuto, il mi-to di Er e il Somnium Scipionis. Comunque, al centro re-sta l’esaltazione della città umana, dell’opera umana, delsuo successo, della sua fecondità. Virtù che non sia uti-le, che sia scissa dall’utilità, è sterile e vana. Le paroledel Palmieri in proposito sono quanto mai significative edegne tutte d’essere sottolineate. Per lui infatti è «con-suetudine trascorsa dalla vera via, quella che separa l’o-nesto dall’utile... Lo sprezzare l’utile, il quale giustamen-te si può conseguire, merita biasimo né in alcun modo siconfà a chi è virtuoso... La vera lode di ciascuna virtù èposta nell’operare; e all’operazione non si viene sanza lefacultà atte a quella. Per questo né liberale, né magnificopuò essere colui che non ha da spendere; iusto né fortenon sarà mai chi in solitudine viverà, non experimenta-to, né esercitato in cose che importino e in governi e fac-ti appartenenti ai più... Da questo procede che a’ virtuo-si s’appartiene cercare utile, acciocché possino ben vive-re... Chi, non nocendo a persona, con buone arti accre-sce suo patrimonio, merita loda»92.

L’antica polemica del Salutati contro una virtù solita-ria, la sua appassionata esaltazione del bene comune, tro-vavano qui il loro coronamento compiuto. Eppure nelPalmieri, che anche il Ficino loderà come poeta teolo-go, questa ispirazione mondana verrà più tardi collocan-dosi in una cornice pitagorica, platonica, origeniana. Il

92 MATTEO PALMIERI, Il libro della vita civile, Firenze1529, pp. 42-43, 62, 75-76, 120-125. Cfr. Una prosa inedita diM. Palmieri fiorentino, Prato, 1850, ossia il Protesto del 1437.Importante la raccolta di orazioni del Riccardiano 2204.

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grande poema filosofico La città di vita, rimasto ineditoperché sospetto d’eresia, e il preludio in cielo della lot-ta terrena. Le anime umane non sono altro che gli ange-li che «per sé foro», e non cambatterono né per Dio néper Lucifero. Ad essi è offerta l’ultima prova; incarna-ti, combatteranno in sembianza umana la loro battagliasulla scena del mondo. La quale, così, diviene il teatrodell’ultimo atto del dramma divino. L’opera terrena, intal modo, se veniva da un lato inserita in un processo co-smico, semplice episodio nella storia dello spirito, venivad’altra parte caricata di un significato e di un valore im-mensi. Nella decisione umana, nella vita in terra, si de-cide della sorte di un’immortale sillaba di Dio. Questomondo è l’arena che Dio offre agli spiriti perché libera-mente decidano della loro sorte. E nel vasto teatro dellacittà degli uomini la fecondità dell’opera è il sigillo dellavittoria sul male per l’eternità.

Eppure non mancava ormai, nella Città di vita, unasottile tendenza a volger lo sguardo verso altri mondi, aconsiderare la terra una parentesi, anche se una decisivaparentesi. Ed accanto all’esaltazione dell’opera d’amoresi veniva riaffermando il pregio della contemplazionepura, dello slancio mistico dell’anima che s’impenna pervolare a Dio93.

9. La filologia e la retorica nel Poliziano e nel Barbaro

Se da una parte la speculazione andava volgendo i propriinteressi verso la metafisica platonica, d’altro canto l’ap-pello agli antichi, lo studio degli antichi, tendeva a per-dersi in pure discussioni grammaticali. La compattezza

93 M. PALMIERI, La città di vita, a cura di M. Rooke (Smi-th College Studies in Modern Language, VIII, 1-2) NorthamptonMass., 1927-28.

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chiara del primo umanesimo veniva scindendosi ed oscu-randosi sotto la pressione di forze molteplici, prima fratutte la cultura ufficiale, con i suoi schemi e con le suetradizioni, che, se accettava con qualche diffidenza alcu-ni temi del nuovo movimento di pensiero, a sua volta vo-leva imporre le proprie esigenze, insistendo su quella op-posizione fra res e litterae, forma e contenuto, contro cuigià il Bruni si era scagliato94. Gli umanisti, ammessi qualiinsegnanti di grammatica e di retorica, con le loro tradu-zioni e con i loro commenti si erano affacciati nei chiusiorti accademici pretendendo di sconvolgere la dialettica,la medicina e il diritto, la metafisica, la teologia e la mo-rale. «L’età nostra – scrive il Poliziano nella Lamia –, po-co esperta dell’antichità, ha chiuso in troppo brevi confi-ni la grammatica, che presso gli antichi, invece, ebbe tan-ta autorità, che solo i grammatici erano giudici e censo-ri di tutti gli scritti». E parlando di sé, mentre disdegno-samente rifiuta il nome di filosofo (non scilicet philosophinomen occupo, ut caducum), ricorda che come grammati-co ha scritto libri di diritto, di medicina, di morale, di fi-losofia: «nec aliud inde mihi nomen postulo – soggiun-ge – quam grammatici»95. Ma proprio perché il gramma-tico, e cioè lo studioso del linguaggio e del discorso, ri-pone nella scienza del discorso tutta la sapienza umana.Se noi scorriamo, sempre del Poliziano, la Dialectica, ve-diamo come egli ci avverta subito che vi sono due specie

94 In pieno Cinquecento così scrive al padre da Padova PaoloSacrato, nipote del Sadoleto (Epistolarum Pauli Sacrati libri sex,Lugduni, 1581, p. 11): «haec autem studia maxime inter sedifferre non ignoras, quod in his, quibus nunc versor assidue,rebus agatur, in illis vero, in quibus tu potissimum a me requirisut operam consumam, de verbis tantum quaeratur; nec te latet,si stylo operam dedero, animum meum a philosophia, quaehominem sapientem reddit, avocatum iri, quod eodem temporeutraque in re operam ponere nequeam».

95 POLITIANI Lamia, Opera, II, 302.

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diverse di dialettica. L’una, «arte somma fra tutte, partepurissima della filosofia, si pone al di sopra di tutte le di-scipline, e ne costituisce il coronamento». Non è di quel-la che il Poliziano vuole occuparsi; troppo lontana, trop-po difficile, situata com’è sulle vette dei misteri platonici– Platonica ista remota nimis, nimisque etiam fortassis ar-dua. La dialettica che egli espone è arte del discorrere edell’argomentare, affine alla grammatica, grammatica delpensiero, colto nelle sue articolazioni quali si esprimononella concretezza del linguaggio, nell’espressione verba-le carica di tutta l’intenzione spirituale. Le sue indagi-ni, così affini a quelle del Valla, sui termini; i suoi inte-ressi per i documenti del pensiero giuridico, scientifico,morale, religioso, filosofico; tutto indica quel suo vole-re afferrare la genuinità degli atteggiamenti umani attra-verso i documenti in cui si sono consegnati alla storia96.Perciò egli voleva esser detto grammatico e non filosofo,pur sentendosi vero filosofo proprio perché grammati-co. Com’egli scrive nella Lamia, la grammatica, secondoil suo intendimento, è ben lungi dall’essere povera cosa;è tentativo di scoprire nell’espressione umana tutta l’ani-ma che vi si traduce. Leggere, in tutto il loro significatooriginario, intenzionale, i libri dei giuristi: questo è essergiuristi. Leggere veramente il libro di Dio: questo è esserteologi. Leggere, fino in fondo, i libri dei filosofi sommi:ecco la filosofia. A chi gli contesta la qualifica di filosofo,Poliziano risponde citando i suoi grandi maestri classici,che egli ha compreso e commentato. Ma, soprattutto, achi gli parla di una filosofia di scuola, arida e sterile, eglioppone una filosofia come umana comunicazione, ritro-vata con consapevolezza in tutta la sua efficacia. Le suelodi della retorica, di sapore lievemente gorgiano, hannoin comune con la posizione sofistica la salda fiducia nelvalore di un incontro umano, le cui risonanze si colgono

96 POLITIANI Opera, II, 459.

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particolarmente sul terreno morale e politico. «Che co-sa vi può essere di più utile e fruttuoso del persuaderemediante la parola i tuoi concittadini a che compiano lecose convenienti allo Stato, allontanandosi invece da ciòche è pernicioso?»97.

Arte del governare e medicina dell’animo, regolatricesottile delle passioni, la retorica si presenta come la for-ma più elevata del contatto fra uomini, come l’espressio-ne più felice della scienza dell’umanità.

97 ANGELI POLITIANI Oratio super Fabio Quintiliano etStatii Sylvis (Opera, II, 384-5): «Nam ut quod caput est, ipsamtantummodo, qua de hic in primis agitur Rhetoricen inspicia-mus. Quid est, quaeso, praestabilius quam in eo te unum velmaxime praestare hominibus in quo homines ipsi caeteris ani-malibus antecellant? Quid admirabilius, quam te in maximahominum multitudine dicentem, ita in haminum pectora men-tesque irrumpere, ut et voluntates impellas quo velis atque un-de velis retrahas et affectus omnes, vel hos mitiores vel conci-tatiores illos emodereris, et in hominum denique animis volen-tibus cupientibusque domineris? Quid vero praeclarius quampraestantes virtute viros eorumque egregie res gestas exornareatque extollere dicendo? Contraque improbos pernitiososquehomines orandi viribus fondere ac profligare, ipsorumque tur-pia facta vituperando prosternere atque proculcare? Quid au-tem tam utile tamque fructuosum est quam quae tuae Reipubli-cae carissimisque tibi hominibus utilia conducibiliaque invene-ris posse illa dicendo persuadere, eosque ipsos a malis inutilibu-sque rationibus absterrere?... Haec igitur una res et dispersosprimum homines in una moenia congregavit, et dissidentes in-ter se conciliavit, et legibus moribusque omnique denique hu-mano culto civilique convinxit... Quid autem tam munificum,tamque bene instituitis animis consentaneum, quam calamito-sos consolari, sublevare afflictos, auxiliari suplicibus, amicitiasclientelasque beneficiis sibi adiungere atque retinere... Nullaunquam profecto vitae pars, nullum tempus est, nulla fortuna,nullae aetates, nullae denique nationes, in quibus non maximasdignitates... facultas oratoria consecuta sit...».

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E tuttavia v’era anche il pericolo che, dimentica dellasua funzione prima, essa si trasformasse in un mero at-teggiamento letterario, non più preoccupata di organiz-zare il mondo degli uomini, ma tutta presa da un idealeestetizzante di eleganze linguistiche. È appunto ciò chevediamo se, dal Poliziano, ci volgiamo a un suo grandeamico, Ermolao Barbaro, bramoso soprattutto di un di-scorso raffinato, ansioso non di rendere fedelmente il si-gnificato profondo delle anime con cui entrava in con-tatto, ma di adornare l’altrui espressione di una concinni-tas che rischiava di tradire l’intimo contenuto. Laddoveil Poliziano è preoccupato di ritrovare il valore precisodel vocabolo, scoprendone insieme ogni più segreta riso-nanza, il Barbaro ama l’armonia dei suoni, la raffinatezzadelle frasi, l’eliminazione di ogni asprezza.

Egli era partito dalla giusta esigenza, proclamata inuna lettera a Giorgio Merula, di evitare il divorzio fra for-ma e contenuto, operato dai filosofi e dai giuristi ai dan-ni della forma. A Girolamo Donato, traduttore di Ales-sandro di Afrodisia, egli, il traduttore di Temistio, espo-neva nel 1480 il suo programma: combattere senza quar-tiere «i filosofastri plebei e legnosi che separano la filo-sofia dall’eloquenza», fare in modo che «la filosofia del-la natura si riconcilii con gli studia humanitatis» (ut na-turalis philosophia cum studiis humanitatis in gratiam re-deat). Senonché gli avvenne poi di operare la medesimaseparazione ai danni del contenuto, quando l’orrore del-la barbarie e il culto della concinnitas lo fecero fanaticoricercatore di raffinatezze linguistiche. Lo vediamo co-sì trasformare il tradurre in un exornare (omnes aristote-lis libros converto et quanta possum luce, proprietate, cul-tu exorno); lo vediamo condannare la vita civile in nomedelle lettere, lo vediamo sostenere il celibato per i dotti,lo vediamo concludere con quella sua frase famosa che

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è il motto e l’epigrafe della sua posizione: duos agnoscodominos, Christum et litteras98.

10. Il Galateo e il Pontano

La traduzione del commento di Temistio alla Fisica fudal Barbaro dedicata al Galateo con la calda esortazionedi collaborare insieme al Pontano per una vasta opera dipropaganda a favore di una riconciliazione totale fra stu-di filosofici e letterari. In realtà il Galateo, se pur scris-se qualche pagina efficace, se amò criticare la corruzio-ne ecclesiastica dei tempi suoi, fu ben poco consistentenelle sue posizioni teoretiche. Critico del Salutati nel Dedignitate disciplinarum ad Pancratium, esalta contro l’a-zione la pura contemplazione che è propria dei pochi sa-pienti opposti alla moltitudine volgare: contemplatio per-fectorum opus est, actio vero plurimorum. Altrove insi-ste con ugual vivacità sull’oziosa beatitudine del saggio(otium apud sapientes beatum habetur), o sulla necessitàdi evitare perfino il vincolo dell’amicizia, pronto d’altraparte, in una lettera del 1513 a inveire contro le lettere(dispereant inanes litterae!) e a scrivere la bella afferma-zione: «in malevolam et improbam animam non intrabitsapientia»99.

Ben altra la statura del Pontano! Il quale, se ebbe qua-si il culto degli studi astrologici, ispiratori di prose e diversi; se amò diffondersi nei suoi trattati morali in varia-zioni aristotelico-stoiche, del resto non del tutto ineffi-caci; se in gravi questioni filosofiche si abbandonò trop-

98 BARBARI Epistolae et orationes, ed. Branca, Firenze,1943, II. 90-93.

99 Le opere del Galateo, a cui ci si riferisce, sono uscite nellaCollana degli scrittori della Terra d’Otranto, Lecce, 1867, voll.II-IV, XVIII, XXII.

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po spesso a generiche affermazioni; mostrò tuttavia disentire l’importanza di talune questioni che diventeran-no centrali nel ’500. Così, nell’Actius noi lo vediamo af-fannarsi a determinare la natura della poesia mettendolaa confronto con la storia. Ed eccolo accettare la defini-zione che fa della storia una poetica soluta; eccolo soste-nere, nelle due, un’identità di contenuto, e far consisterela differenza solo nella disposizione del discorso, più ca-sta nella storia, più molle nella poesia (historia tamen estcastior, illa vero lascivior). L’incontinenza poi dello stilepoetico si concreta nel dare il linguaggio alle cose mute,o agli dèi. «Entrambe, storia e poesia, hanno ritmi e figu-re, ma diversi. E diverso è l’ordine tenuto nella narrazio-ne, poiché la storia segue la serie e il processo degli even-ti, mentre la poesia molto spesso comincia dal mezzo oaddirittura dalla fine,... e dà voce e parola agli esseri muti(vocem quoque dat et orationem rebus mutis)». Frase vi-chiana, che richiama l’altra, sempre dell’Actius, essere illinguaggio nato come espressione di uomini agresti, i cuiusi e abitudini si rispecchiarono nelle parole che li tra-mandarono fino a noi: «sermonem autem quo utimur abagrestibus ac rudibus coepisse hominibus, illud declaratpotissimum, quod pleraeque e primis illis impositionibussunt rusticis incomptisque a rebus sumptae».

Ma in realtà, ricondotta la poesia a imitazione della na-tura (cum... ipsa vero poetica naturam potissimum imite-tur...), la storia viene presentata soprattutto come retori-ca, e come tale educatrice e formatrice delle costumanzecivili. L’oratoria, e cioè i discorsi dei sommi personag-gi, costituiscono quasi l’anima della storia; «cosiffatte al-locuzioni non solo adornan le storie, ma quasi le anima-no». D’altra parte là dove l’oratoria si fa veramente ala-ta, e commuove, e penetra l’animo, e lo plasma, sembratornare alla potenza originaria della poesia, che attinge leproprie forze dalla natura stessa.

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La conclusione dell’Actius, con l’eloquente elogio del-la poesia, è tra le cose veramente più felici del Pontano.«Quando i poeti fingono le loro immagini e dolcemen-te, mirabilmente, magnificamente le esprimono, essi in-segnano anche agli altri a parlare. Infatti coloro che, imi-tandoli, in seguito perorarono le cause nei tribunali, odiscussero le leggi nel senato, o tramandarono le storie,recarono a perfezione quella primitiva libera eloquenza.Perciò ogni forma del dire è derivata dalla poesia. I poe-ti infatti furono i primi sapienti, e tutto dissero in carmi eritmi... Salve dunque, o Poesia, madre fecondissima d’o-gni dottrina! Salve ancora! Tu infatti sei venuta in soc-corso dell’umanità condannata a morire con l’immorta-lità dei tuoi scrittori. Tu hai tratto gli uomini fuori dallecaverne e dalle selve. Per te conosciamo, per te abbiamodinanzi agli occhi le cose passate; per te comprendiamoDio, per te abbiamo la religione e il culto...»100.

11. Spunti pedagogici

In verità nel Barbaro, come nel Galateo, che pur trattòdi problemi educativi101, ma senza soverchia originalità,le litterae si erano venute impoverendo nel senso di unaretorica staccata da ogni valore concreto, ed erano ve-nute perdendo gran parte dell’efficacia di cui erano sta-te piene, al principio dell’umanesimo, quando avevanocostituito la base degli studia humanitatis. Si era ormai

100 PONTANO Dialoghi, ed. C. Previtera, Firenze, 1944,pp. 143, 194, 207, 221, 238-39.

101 De educatione («Collana degli scrittori della Terra d’O-tranto», Lecce, 1867). (Ma cfr. la lettera a B. Acquaviva inA. CROCE, Contributo a un’edizione delle opere di A. Gala-teo, «Archivio storico per le provincie napoletane», 1937, pp.20-33).

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chiaramente iniziato quel divorzio per cui come s’è vi-sto, a metà del ’500, il nipote del Sadoleto Paolo Sacrato,studente di filosofia in Padova, poteva scrivere al padreche l’esortava ad esercitarsi in latino: «tu non ignori chequeste due discipline divergono tra loro massimamente;la filosofia che coltivo assiduamente, tratta di realtà (re-bus); le lettere, a cui tu mi spingi, di parole (verbis)». Ciòche Leonardo Bruni, e prima ancora il Salutati, avevanofatto convergere, ecco che ora sommamente divergeva –haec studia maxime inter se differre. L’educazione uma-nistica, come formazione dell’uomo completo attraver-so la rivissuta cultura classica, veniva perdendosi in unaeducazione puramente letteraria contrapposta a una cul-tura concreta. Il letterato monastico e solitario, sostitui-tosi all’uomo ricco di una umanità integra, e perciò so-ciale, non vedeva ormai nella humanitas che eleganza let-teraria.

Il Bruni, s’è visto, aveva affermato essere quella hu-manitas formazione spirituale (humanitatis studia nun-cupantur, quod hominem perficiant), anzi l’unica vera-ce educazione. E, contro coloro che criticavano in no-me della religione tale atteggiamento, aveva tradotto nel1403 la difesa che Basilio il Grande aveva fatto degli stu-di letterari nella celebre Oµιλια πρòς τoùς νεoυςóπως αν εξ Eλλενικω˜ν ωφελoι˜ντo λóγων102.Ed aveva, seguendo da presso il Salutati, mostrato comel’educazione alla poesia sia un rinnovare e riplasmar sestessi nella bellezza, nella sua divina grandezza, nella suaobbiettiva validità (divina quaedam alienatio, ac velut suiipsius oblivio, et in id, cuius pulchritudinem admiramur,transfusio). Qui non parole s’insegnano, ma cose; ed an-zi si introduce l’anima alla realtà nella sua totale compiu-

102 Il Bruni dedicava la traduzione al Salutati affermando checol nome di Basilio il Grande voleva reprimere l’ignavia e laperversità dei vituperatori degli studia humanitatis.

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tezza. Le lettere mettono l’anima di fronte a un assolu-to valore e in esso quasi la sublimano; velut extra nos po-siti, totis affectibus in illum corripimur. E come si chia-mano litterae humanae perché recano a compiutezza l’u-manità nostra, così si dicono arti liberali perché liberanol’uomo e lo collocano, signore di sé, in un libero mondodi spiriti liberi (idcirco est liberalis, quod liberos hominesfacit).

Tutto il De ingenuis moribus di Pier Paolo Vergerio èrivolto a mostrare come le lettere, alimentando questodialogo fra spiriti, al di là d’ogni vincolo di spazio edi tempo, aprano l’anima a una più larga e più riccaumanità. «Che mai vi può essere di più bello delloscrivere e del leggere? e conoscer le cose del mondoantico, e parlare con coloro che nasceranno un giorno,e far nostro ogni tempo, e passato e futuro?» Lo spiritoattraverso le lettere si dilata, si distende; e mentre siarricchisce di infiniti tesori, impara a rispettare l’altruivalore; nel suo sempre rinnovato colloquio educa nellamaniera più nobile a vivere nella società degli uomini. Lasapienza, lungi dall’essere isolata in una torre d’avorio,«abita nelle città, fugge la solitudine, brama di giovarealle moltitudini» (in urbibus habitat et solitudinem fugit...et prodesse quam plurimis cupit)103.

Né diverso è il tono del De educatione liberorum diMaffeo Vegio, ove le lettere non solo fondano sul rapidotrascorrere del tempo la sicura saldezza di una comunitàspirituale (non modo iacturam temporis evitabunt), maavvivano la carità, la comunicazione, ed ogni vincolo

103 Lo scritto del Vergerio nella cit. ed. della Gnesotto e nelvol. L’educazione umanistica in Italia. (Mi sia lecito, per questaparte, rinviare al vol. su L’educazione in Europa, Bari, 1957, ealla raccolta di testi, illustrati e tradotti, L’umanesimo, Firenze,1958).

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umano (modeste, graviter sancteque vivere, patriam etparentes colere, Deum venerari)104.

Gli stessi accenti risuonano in Gasparino Barzizza, ilmaestro di Francesco Barbaro, ma soprattutto in Gua-rino Guarini, discepolo di Giovanni da Ravenna e diEmanuele Crisolora, dalla cui scuola ferrarese uscirono ilPannonio, Ermolao Barbaro, il Lamola, Alberto da Sar-teano, per non dir degli altri moltissimi, celebri e oscuri,accorsi a lui, non solo dalle più remote regioni d’Italia,ma da Creta e da Cipro, dalla Polonia come dall’Inghil-terra. Anche per Guarino le lettere arricchiscono l’uma-nità, e scrivendo al Corbinelli dichiara che egli ammirasoprattutto coloro che armonizzano dottrina e vita atti-va, mentre rivolgendosi al podestà di Bologna svolge lar-gamente il concetto che proprio solo le Muse prepara-no alla vita politica. «Non piccola gratitudine tu devi al-le Muse – esclama – che ti hanno educato fin dall’infan-zia, insegnandoti a governar te, i tuoi, e lo Stato... Di quilo splendido detto di Scipione che, abbandonandosi ungiorno, in una pausa dei pubblici affari, agli ozi letterari,esclamò: – Inoperoso, compio ora le cose più grandi».

Le litterae erano a questa scuola la causa del risvegliodi ogni energia spirituale; son esse che battono alla portadell’anima perché essa risponda: fores, ut sic dicam, pul-satis, quo vel rogatus ad intelligendum pateat aditus. Bi-sogna leggere e rileggere gli autori, e impararli a memo-ria, e vivere continuamente con loro, summa cum volun-tate, finché al di là delle parole l’anima si incontri con l’a-nima. Quel pesar la parola, quel sottile discutere sul suosignificato, per ridarle alla fine il suono originario, sonomezzi per trovare nella carne lo spirito, per rianimare neimondi sepolti, nei monumenti che il tempo sembra ave-re privato d’ogni splendore, la luce originaria. Solo con

104 Per l’opera del Vegio cfr. l’ed. a cura di M. WalburgFanning e A. Stanislaus Sullivan, 2 voll., Washington, 1933-36.

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questo avvicinamento filologico noi trarremo dalla lette-ra muta un significato vitale; nec verbum ex verbo, sedsensa tantisper exprimes. E tutti noi riusciremo fortifi-cati da quel colloquio, e fatti saggi ed antichi per anticasapienza (ut mortales natu quidem iuvenes, prudentia etrerum innumerabilium scientia longaevos efficiat)105.

Eran uomini per cui l’antico non rappresentava uncampo di ricerche erudite e curiose, ma un paradigma.L’umanità classica non solo aveva raggiunto una rarapienezza ed armonia di vita, ma l’aveva mirabilmenteespressa e consegnata in opere d’arte e di pensiero, per-fette come quella vita. Entrare in contatto con esse, e peresse con gli spiriti che vi si erano trasfusi, significava av-viare un ideale colloquio con uomini completi, appren-dere da loro il significato di una vita completa. Aprirsiumilmente a quelle opere mirabili, e per amore quasi tra-sformarsi in esse, significava rinnovare se stessi attraver-so una larga ricchezza umana, riconquistando a sé tutti itesori dello spirito. L’ingresso in quel mondo, si impron-ta così di un tono quasi religioso. «La casa sua era sacra-rio di costumi, di fatti e di parole» – scrive di Vittorinoda Feltre Vespasiano da Bisticci. Alla sua scuola il rispet-to dell’uomo, nella sua compiutezza, anima e corpo, ave-va qualcosa del rito; e la formazione umana era consape-volezza religiosa di quanto nell’uomo ha valore, e che learti liberali risvegliano e fortificano106.

105 Le opere del Barzizza nella ed. romana del 1728. I testidel Guarino nell’edizione del Sabbadini.

106 Oltre la vita di Vespasiano da Bisticci cfr. FR. PRENDI-LACQUA, De vita Victorini Feltrensis dialogus, Padova, 1774.(Tutti i documenti su Vittorino ho ora raccolti nel cit. volumesu L’Umanesimo pedagogico).

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IL PLATONISMO E LA DIGNITÀDELL’UOMO

1. La crisi della libertà e i dialoghi «De libertate» delRinuccini

Se il primo umanesimo fu tutto un’esaltazione della vi-ta civile, della libera costruzione umana di una città ter-rena, la fine del ’400 è caratterizzata da un chiaro orien-tamento verso un’evasione dal mondo, verso la contem-plazione. Il platonismo col suo tono ascetico, la filoso-fia concepita come appressamento alla morte, si sostitui-scono a quella serena esaltazione della vita che era statala nota dominante di un Salutati, di un Bruni, di un Val-la. A questo orientamento mutato non fu certo estraneoil complesso delle vicende politiche italiane, l’affermarsisempre più chiaro dei principi, i cui meriti possono oggiapparire anche eminenti; allora anche i più geniali tiran-ni sembrarono i nemici d’ogni libertà. Quando nel ’78 lafolla inferocita fece a pezzi per le vie di Firenze i Pazzi ei loro seguaci che avevano tentato di rovesciare i Medi-ci, al grido di libertà dei congiurati il popolo oppose, inmodo molto significativo, il motto: «viva Lorenzo che cidà il pane!»107. E se è vero che spesso quei signori trion-fanti protessero i letterati, è ancor vero che ne fecero deicortigiani, in cui un pensiero tutto permeato di politicitànon è più concepibile.

Ai nostri occhi l’avvento della signoria potrà rivelarsicome l’eliminazione dei gruppi privilegiati di ricchi mer-canti e di nobili. Allora esso distrusse il fervore di lotte

107 A. FABRONI, Laurentii Medicis Magnifici Vita, Pisis,1784, II, p. 137 e sgg.

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politiche, il palpito intenso di vita dello stato-città. All’i-deale della respublica come collaborazione, come vera so-cietà, anche se in effetti ristretta società, sostituisce il Ce-sare che allontana i cittadini dalla vera vita politica, tra-sformando la cultura, da espressione, strumento e pro-gramma di una classe giunta alla ricchezza e al potere,in un elegante ornamento di corte, o in una malinconicafuga dal mondo.

La consapevolezza della crisi è viva negli umanisti.Noi la sentiamo nella fiera polemica aperta già nel 1435da Poggio Bracciolini quando, in un’epistola al ferrareseScipione Mainenti, si scaglia contro Cesare, degeneratouccisore della romana libertas, ed esalta invece il repub-blicano Scipione. Il Guarino rispose difendendo Cesare,e nella discussione entrarono Francesco Barbaro, Ciriacod’Ancona, Pietro dal Monte. Non si trattava, nonostan-te l’apparenza, di un esercizio d’ingegno108. Era l’antitesifra l’esaltazione dell’eroe, glorificato nel mito di Cesare,e la difesa dell’uomo, che è tale solo se può liberamenteesplicare la propria attività in una vita completa. Qualefosse l’animo dei vagheggiatori della «libertà» noi trovia-mo nella fierissima invettiva di Machiavelli contro Cesa-re e il cesarismo, che illumina tutti i Discorsi. Chi guardisuperficialmente al fondatore dell’impero, egli osserva,loderà, forse, la potenza magnifica del principe; ma chiconsidererà attentamente le conseguenze della instaura-ta tirannide, «vedrà l’Italia afflitta, e piena di nuovi in-fortuni; rovinate e saccheggiate le cittadi di quella. Ve-drà Roma arsa, il Campidoglio da’ suoi cittadini disfatto,desolati gli antichi templi, corrotte le cerimonie, ripienele città di adulterii: vedrà il mare pieno di esilii, gli sco-gli pieni di sangue. Vedrà in Roma seguire innumerabilicrudeltadi e la nobiltà, le ricchezze, i passati onori, e so-pra tutto la virtù, essere imputate a peccato capitale. Ve-

108 GUARINO, Epistolario, II, pp. 226-29.

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drà premiare gli calunniatori, essere corrotti i servi con-tro al signore, i liberti contro al padrone; e quelli a chifussero mancati i nimici, essere oppressi dagli amici. Econoscerà allora benissimo quanti obblighi Roma, l’Italia,e il mondo, abbia con Cesare»109.

Il vecchio Salutati nell’Invettiva contro il Loschi ave-va proclamato la florentina libertas erede legittima dellaromana libertas. Il Cesare distruttore di essa è, per Fi-lelfo, l’infame pernicioso velenoso scellerato Cosimo de’Medici, corruttore di tutta Firenze, pericolo incomben-te su tutta l’Italia. Le Commentationes, requisitoria fero-ce contro l’instaurata signoria dei Medici, rivelano trop-po scopertamente gl’interessi dell’autore. I dialoghi Delibertate di Alamanno Rinuccini, aspra e dolorosa con-danna del novello Falaride Lorenzo de’ Medici, dipingo-no con efficacia senza pari il mutamento d’interessi dellacultura quattrocentesca e le cagioni profonde di un radi-cale trasformarsi degli orientamenti di pensiero110.

L’ideale del Rinuccini, ed egli lo delineò nell’orazionefunebre pronunciata per la morte di Matteo Palmieri, eraun’armonica fusione di vita attiva e contemplativa, in cuisi prolungava il programma ciceroniano che era stato iltema dell’opera, appunto, del Palmieri: non siamo natiper noi, ma per la famiglia e per la patria (patriae cuipost Deum immortalem maxima quaeque debemus). Sonoparole, queste, del De libertate, e in forma di rimproveroun amico le ripete al Rinuccini, esule in patria, ritiratoin una sua villa campestre in solitarie meditazioni. La

109 MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima deca di TitoLivio, I, 10.

110 ALAMANNO RINUCCINI, De libertate, ms. Laur.«Acquisti e Doni», 216; Ravenna, class. 332 (Cfr. ed F. Adorno,Accademia Toscana di Scienze e Lettere «La Colombaria»,XXII, 1957, pp. 267-303; Lettere ed Orazioni, ed. V. R.Giustiniani, Firenze 1953).

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cultura non deve isolarci; il nostro posto è nel mondo,fra gli uomini. La nostra attività, qualunque essa sia, deveconcretarsi sempre in un rapporto umano.

Amarissima la risposta del Rinuccini: per quell’attivitàè necessaria condizione la libertà. Solo in una societàlibera l’uomo può esplicare se stesso. Non più a Firenze.Là un tiranno, Lorenzo, chiude i cittadini nella retedelle menzogne, li costringe o a corrompersi o a ritirarsi.La cultura non giova più a rendere forte l’umanità, masolo ad offrire un rifugio e un’evasione a coloro chepotrebbero esercitare una funzione politica unicamentea patto di tradire la propria coscienza e la verità.

Tolta la libertà sul piano politico, l’uomo evade in unterreno diverso, si ripiega su se stesso, cerca la libertàdel saggio. Il Rinuccini, che con gli scrittori del primoumanesimo continua a condannare sul piano etico l’a-scesi stoica in nome dell’equilibrio aristotelico, vagheg-gia poi, sul terreno concreto e per motivi politici, unavirtù tutta «monastica e solitaria». Questo amatore del-la vita civile amaramente si riduce a celebrar la culturacome ritiro, come contemplazione, come meditazione dimorte e appressamento alla morte. Da un filosofare so-cratico, tutto problema umano, si passa sul piano plato-nico, mentre la stessa religione cristiana, fin qui oppostaallo stoicismo per il suo senso concreto della vita terre-na, si trasfigura alla luce di una sempre più viva tradizio-ne plotiniana. A Firenze, mentre Savonarola lancia l’ul-tima rovente invettiva contro la tirannide che tutto cor-rompe e inaridisce, il «divino» Marsilio cerca nell’iperu-ranio una riva serena dove fuggire le tempeste del mon-do.

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2. L’influenza dei dotti bizantini e le traduzioni diPlatone

È qui che si inserisce, anche se in ultima analisi moltoscarsa, l’influenza dei dotti bizantini. Scarsa, giova ri-peterlo. La tarda cultura greca era ormai giuoco ari-do di formule teologiche, ove quasi mancava ogni linfavitale111. I greci disprezzeranno i latini per la loro insuf-ficiente erudizione; ma per questi gli autori antichi era-no vivi, erano voci che destavano fremiti e alimentavanola meditazione. Quello che ai fedeli della lettera parevascarsa informazione non era, molto spesso, che fedeltàallo spirito.

L’apporto effettivo di Bisanzio all’umanesimo ebbe uncarattere soprattutto strumentale; furono dei materialipreziosi che arricchirono il patrimonio culturale dell’Oc-cidente; furono delle formule felici che si offrirono a unpensiero già pervenuto a maturazione in via del tutto au-tonoma. D’altra parte uomini non volgari di animo e dimente come il Crisolora o l’Argiropulo, ma soprattuttocome il Pletone e il Bessarione, offrirono in un momen-to opportuno a delle coscienze in crisi le vie dell’evasio-ne platonica. Senonché, anche qui, nei cieli della me-tafisica platonica si cercarono ancora risposte agli anti-chi problemi, morali, estetici, magari religiosi, ma sem-pre umani. Anche nei maggiori, quali un Ficino, un Pi-co, un Diacceto, invano cercheremmo un ben architetta-

111 Cfr. G. PASQUALI, Medioevo bizantino, in «Civiltàmoderna», 1941, p. 289 sgg. (Per una profonda revisione diquesto giudizio cfr. ora F. MASAI, Pléthon et le platonisme deMistra, Paris, 1956, e i miei Studi sul platonismo medievale, Fi-renze, 1958, pp. 155-219; per questo non del tutto appropriatisembrano certi rilievi di J. IRMSCHER, Theodores Gazes alsgriechischer Patriot, «La parola del passato», 78, 1961. p. 161sgg.).

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to sistema, un’ordinata sistemazione del mondo; ancorae sempre ciò che ritroviamo è, innanzitutto, una medita-zione umana.

Il nome di Emanuele Crisolora va qui ricordato perl’opera sua di grammatico e di traduttore, e soprattuttodi maestro ed ispiratore del Guarino; così come Giovan-ni Argiropulo continua ad apparirci quale ce lo dipingelo scolaro suo più fedele, l’Acciaiuoli, «non erudito sol-tanto, come lo celebrava la fama, ma sapiente, veneran-do, degno in tutto di quei Greci antichi». E fu l’Argi-ropulo a dare l’avvio al commento e allo studio rinnova-to della Nicomachea, non più entro l’ambito di una stret-ta fedeltà allo spirito civile e politico del bene comune edell’uomo considerato nella sua socialità, ma con gli oc-chi fissi a quella finale esaltazione dell’intelletto contem-plante e separato ove si riversava tutto il più puro plato-nismo. Il tema della conciliazione fra Platone ed Aristo-tele, che diventerà centrale nel gruppo ficiniano, e con-tinuerà per tutto il ’500, noi lo troviamo proprio chia-ramente impostato nel commento alla Nicomachea ovel’Acciaiuoli esporrà fedelmente l’insegnamento dell’Ar-giropulo. Il quale, com’è noto, aveva avuto qualche par-te nella disputa iniziatasi tra Giorgio Gemisto Pletone eGiorgio di Trebisonda sulla superiorità del platonismorispetto all’aristotelismo. Discussione per sé non moltocostruttiva, soprattutto finché rimase sul terreno del pet-tegolezzo, del libello e dell’ingiuria, ma che pure si colo-rì di motivi fecondi nell’anima grande del cardinal Bessa-rione, che la trasferì sul piano dei massimi problemi teo-rici e dette l’avvio a tanta parte della più alta meditazionerinascimentale112.

112 Cfr. A. DELLA TORRE, Storia dell’Accademia platonicadi Firenze, Firenze, 1902; PLETONE, Nóµoι, ed. Alexandre,Paris, 1858; G. CAMMELLI, I dotti bizantini e le originidell’umanesimo, I (Crisolora), Firenze, 1941, II (Argiropulo),

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Il Pletone, venuto a Firenze per il Concilio che dove-va pacificare, sotto l’urgenza di motivi contingenti, chie-sa greca e latina, volle dare ai suoi amici latini, tutti infa-tuati d’Aristotele, un’idea della grandezza di Platone, oalmeno di quel bizzarro suo modo di vedere Platone, cheera poi una complessa mescolanza di elementi neoplato-nici in un’atmosfera di profetismo riformatore. E Gior-gio di Trebisonda, che di Platone era stato traduttore,anche se non felice, rispose malmenando l’antico filoso-fo e il suo nuovo profeta. Ché, a dire il vero, ciò che piùinteressa nel Pletone è proprio quel suo imponente atteg-giamento profetico, quel suo annunziare imminente la fi-ne delle tre grandi religioni, ebraica, cristiana e maomet-tana, e l’avvento della città platonica, costruita secondoi princìpi di una concezione dell’universo ove il neopla-tonismo si precisa in un rito e in una legge di vita. Del-le Leggi, che Giorgio Scolario fece dare alle fiamme, nonabbiamo che pochi frammenti, eppur notevoli per quelsogno di una riforma morale, religiosa e politica dell’u-manità che sarà così caro ai pensatori del tardo ’400, epoi del ’500 fino a Campanella. E il Pletone, come fra’Tommaso, già scorgeva i segni che annunciavano il nuo-vo regno, quello per il quale dovevano variamente com-battere e soffrire un Pico e un Bruno. Ma v’era, nel Ple-tone, anche la preoccupazione di interpretare le favoleantiche, la mitologia e i sogni dei poeti; di costruire in-somma quella teologia poetica che Giovanni Pico promi-se e che, in ben altro senso, scriverà Vico nella ScienzaNuova.

Firenze, 1943; L. MOHLER, Kardinal Bessarion als Theologe,Humanist und Staatsmann ecc., Paderborn, 1923 e sgg., 3 voll.;B. KIESZOWSKI, Studi sul Platonismo del Rinascimento inItalia, Firenze, 1936. Per ulteriori indicazioni, specialmentesuIl’Argiropulo, cfr. la cit. Giovinezza di D. Acciaiuoli (e, ora,gli studi riuniti nel vol. Medioevo e Rinascimento, Bari, 19612).

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Certo è che il Pletone fece impressione sul vecchioCosimo de’ Medici, nuovo Platone sul novello Dionigi. Eil tiranno dell’italica Atene ne sarà indotto a favorire allasua corte una rinascente scuola di platonismo spingendoil figlio del suo medico, il promettente Ficino, a tradurree illustrare Platone.

Quanto poi all’altro spinoso argomento, quello del-la supremazia di Platone, il Bessarione, dotto tradutto-re della Metafisica, ma profondissimo studioso di Plato-ne, nel suo In calumniatorem Platonis andò sottilmen-te dimostrando come tra i due sommi pensatori antichinon fosse poi troppo difficile scoprire un intimo accor-do in molti punti fondamentali, e come, anzi, una rinno-vata apologetica cristiana potesse fondarsi utilmente suuna conciliazione di platonismo ed aristotelismo. E for-se, con i suoi spunti, mosse primo Ficino per le vie dellasua docta religio.

3. Il problema dei rapporti fra vita attiva e contemplativain Cristoforo Landino

Ma il mutato atteggiamento di pensiero, che corrispon-deva a un diverso orientamento di vita, noi vediamo inuna delle più caratteristiche opere del secondo Quattro-cento: le Quaestiones camaldulenses di Cristoforo Landi-no, composte intorno al 1475, ed in cui il platonismo co-me tendenza al puro contemplare si faceva sempre piùvivo. Il Landino, che, giovinetto, si era fatto ammira-re nel 1441 al «certame coronario» come fine recitato-re delle terzine di Francesco Alberti, sarà poi consiglie-re e guida al Ficino, che lo annovererà tra i suoi platoni-ci, e nelle Quaestiones loderà quell’inesprimibile accentoche è proprio della ispirazione platonizzante (habet ne-scio quid quod exprimere nequeam). Al neoplatonismoormai era giunto ad aderire pienamente. E se nella pro-

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lusione italiana a un corso sul Petrarca si trovano, e l’e-saltazione del volgare, e la lode piena del primo umane-simo, e accenti tratti da Leonardo Bruni, nei commentiallegorici a Virgilio e a Dante tutto ci trasporta sul pia-no di quella «teologia poetica» che fu sì cara al Ficino eal Pico. Teologia poetica già insegnata dagli ultimi rap-presentanti greci della scuola di Platone, e che intende-va ricercare nei poeti, e particolarmente negli antichissi-mi, una divina rivelazione nascosta dietro il rigoglio delleimmagini. Insomma, quella sapienza riposta contro cuidirigerà tutte le sue critiche il Vico.

Anche le Quaestiones camaldulenses113 negli ultimidue libri ritrovano nell’Eneide la storia ideale dell’ani-ma umana e l’esaltazione della vita contemplativa. Chéproprio questo è il problema al centro di tutta l’opera,problema decisivo, come il Landino sentì, nella cui so-luzione si manifestava chiarissimo l’orientamento di unaciviltà e di una cultura. Il Salutati, pur riconoscendo conla tradizione medievale che il contemplare è, per digni-tà, da anteporsi all’operare, proietta nell’al di là, nel cie-lo, la visione beatifica, e in terra dà all’uomo la missionedi operare. Landino torna nettamente a una supremaziadel sapere, della vita contemplativa, ma giustificandolacome la base più profonda dello stesso operare. Pren-dendo in esame proprio quel Cicerone a cui già si eranotanto ispirati uomini come il Bruni, il Landino sostieneche il maggior giovamento il genere umano lo ebbe, nonquando egli combatté Catilina o Antonio, contribuendoalla libertà e al benessere dei soli suoi concittadini e inun tempo determinato, ma quando, «lungi dalla politica,tutto rivolto ai massimi problemi... abbracciando l’uni-versa realtà afferrò il fine dell’uomo». Non solo; ma allavita comune egli giovò più largamente quando nei suoi

113 C. LANDINI Quaestiones camaldulenses ad FedericumUrbinatum principem (Florentiae, 1480?).

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trattati politici disse una parola non destinata a morire,valida per ogni uomo in ogni tempo. «Con le sue saggeazioni Cicerone vinse i gravi pericoli incalzanti nel mo-mento; ma le cose che nella ricerca consegnò ai libri ri-guardano ogni tempo, e provvedono a lasciare precettidi vita onesta e felice, non solo ai contemporanei, ma an-che a quanti son vissuti e vivranno di poi. Le opere di chinon operò nella vita attiva hanno reso gli uomini, da stol-ti e barbari, docili e gentili (dociles humanosque)... On-de si può concludere che coloro che sono immersi nel-l’azione giovano certamente, ma nel presente o per bre-ve tempo. Coloro invece che illuminano la natura mi-steriosa delle cose, sempre gioveranno. Le azioni muo-iono con gli uomini; i pensieri vincono i secoli, vivonoimmortali, s’innalzano all’eterno». Proprio per questo,quando in una ideale città esamineremo qual posto dareai singoli membri, «il nostro sapiente interrogato in chepossa giovare alla vita comune, risponderà d’essere unoche si propone di non occuparsi di alcuna precisa attivi-tà pratica, astenendosi da ogni affare pubblico o priva-to, tutto assorto nell’indagine delle cose supreme, ricer-cando e affidando agli scritti quello che è, secondo na-tura, utile, onesto». Ma non perciò dovremo allontanar-lo come dannoso o infecondo nella vita associata, quan-do invece è da proporsi come ideale modello e reggito-re di tutti. «Oserà forse affermare qualcuno che tal uo-mo non reca utilità alla città, quando invece nessuno po-trà bene assolvere il suo compito senza ricorrere a lui perconsiglio?»

Alla radice dell’inversione landiniana v’è, chiara, l’in-fluenza della Repubblica platonica e del sapiente reggito-re. E v’è, giusta, la considerazione, propria della stessaNicomachea, della profonda praticità della teorèsi, attivi-tà suprema dell’uomo. E v’è, infine, anche una conqui-stata coscienza del valore umano, e quindi sociale, del-la formazione culturale. L’uomo è tale, e quindi è otti-

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mo cittadino, appunto attraverso una piena cultura. Se-nonché lo sforzo di intimamente connettere quel saperee quest’operare, che era poi stata la preoccupazione delprimo umanesimo, viene vanificandosi in un rinnovatodivorzio tra fare e contemplare. Il mero contemplanteche si pone vivente appello e tipo ideale, ma non scendenella caverna a soffrire, somiglia piuttosto al monaco stu-dioso, che a Socrate soldato a Potidea, e perciò maestrod’Atene.

Landino afferma esplicitamente di andare oltre i vec-chi scrittori della generazione precedente alla sua, quan-do esclude che l’inattività dell’ottimo lasci lo stato in ba-lia dei pessimi, insistendo anzi sul motivo aristotelico del-la celebrazione umana suprema attraverso il conoscere.E non si accorge che quel suo vagheggiato «Dio terre-no», che contemplando il cielo (αστρoνoµoυ˜ντα)si fa modello agli altri, anche Platone aveva collocato inun miracoloso stato ove, per volontà degli dèi, i filoso-fi siano re, o i re filosofi, sì che a tali reggitori non man-chino mezzi e potenza per educare gli altri. Ma come si-tuarlo in quella tal caverna, ove chi ridiscenda – e ridi-scendere deve, anche secondo Platone – rischia, non giàd’essere venerato qual Dio, bensì messo a morte da colo-ro che non intendono? Al Landino pareva cosa pacificache lo stolto ami esser guidato, e che è più bello esseregovernati che non governare (suavius regi quam regere), eche in ogni modo, anche «ammesso che ai più non piac-cia d’esser resi migliori, il saggio si chiuderà in se stes-so e gioverà agli uomini in altro modo». L’evasione con-sapevolmente accolta come tale dal Rinuccini, e cioè co-me rinuncia e abdicazione dolorosa alla propria umani-tà completa, si fa qui giustificazione di una vita monasti-ca e solitaria, di cui si postula, ma non si dimostra la fe-condità educativa. Le litterae educatrici del Guarino era-no scese dalla Repubblica di Platone nella feccia di Ro-molo, e i cittadini della Gerusalemme celeste pugnavano

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nella terrena Babilonia, in modo che il loro sapere fossesì contemplazione di Dio, ma ben calata nella condizio-ne terrestre. Il Landino, che pur sottolineava con finez-za una più profonda politicità della cultura, la annulla-va poi quando la segregava nella repubblica delle lettere.Politia litterarum, e non a caso, significò nel primo Quat-trocento, non città ideale dei sapienti, ma humana disci-plina, formazione completa di ogni uomo, e, in ogni uo-mo, di tutto l’uomo. Lo slittamento verso il concetto, de-stinato a fiorire nel Seicento, della «Repubblica delle let-tere», nacque dalla crisi che si operò nella cultura e nel-la vita del Rinascimento quando le sue conquiste, guada-gnando apparentemente in universalità umana, e disan-corandosi dalla città in cui erano nate, persero insieme laloro pienezza. Parafrasando Agostino il Salutati insiste-va sul congiungimento pieno, in terra, della città terrenae della città celeste, così come l’anima è sempre incarna-ta, e l’idea, che sia seria idea, è sempre impegnata in unalotta terrena. Il Landino battendo invece sul concetto diuna sapienza disancorata da ogni legame di spazio e ditempo, da ogni mondana storia, si poneva già sul pianodel Ficino maestro al mondo intero di quella pia philo-sophia che nella «filosofica pace» congiunge ogni spiritoin una unità superessenziale che ormai ci porta per entrogli abissi della tenebra mistica.

Eppure non sempre il Landino si muove nell’ambitodell’accademia risorgente in Careggi. E se i suoi dialoghiDe nobilitate animae, dedicati intorno al 1472 a Ercoled’Este, non si spostano sensibilmente dal punto di vistaficiniano, nel De vera nobilitate, ove si ritrae un banchet-to avvenuto dopo la morte di Cosimo, il vecchio moti-vo, caro alla retorica umanistica, della nobiltà che deri-va dall’opera e non dal sangue, aveva trovato qualche ac-cento non banale, soprattutto nella contrapposizione franobiltà veneta, nata e consolidata nell’opera e nell’attivi-tà, e nobiltà napoletana dove l’ultimo raggio di una inve-

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stitura andava disperdendosi senza dignità nell’ossequiosupino al re, e nell’orgoglio più vano (delicatum... ociumet in divitiis, quam etiam si non habeant, tamen summostudio simulant, vanam ambitionem). Il Landino, anzi,aveva, per contrasto, elogiato non senza efficacia il traf-ficare, e il danaro così accumulato, pur insistendo nellaconsueta polemica contro l’usura. «Una liberale merca-tura, infatti,... reca pubblico e privato splendore, rendemolti più ricchi, e largamente assiste il popolo che vuolmigliorare con l’opera propria le sue condizioni, e vince-re la fame e il freddo, e perciò abbandona l’inerzia per illavoro». Anzi, questi benemeriti del genere umano sondegni d’essere considerati quasi divini benefattori (tam-quam dii mortalibus omnibus salutares esse videntur)114.

114 C. LANDINI De vera nobilitate, ms. 433 Bibl. Corsini(36, E, 5) fol. 36-7:«mercatura enim liberalis et nulla fraude in adulterandis merci-bus commissa, publice privatimque splendorem affert, multo-sque locupletiores reddit; plebem autem quae se aliquo artifi-cio opificiove tueri et famem frigusque a se arcere studet, prop-teraque ab ignavia ad laborem convertitur abunde alit, et popu-li qui ex illa ditescunt, ac propterea ad urbem suam publicis sa-crisque aedificiis ornandam convertuntur, plurima magnificen-tia illustriores evadunt, ac denique, cum nulla in terris regio ex-tet, ubi omnia sint, id tamen efficiant mercatores, ut sua operaatque industria nusquam locorum quicquid desit..., huiuscemo-di hominum genus, a quibus omnis dolus, omnis fraus absit, li-beralitas autem ac beneficientia adsit, tamquam dii mortalibusomnibus salutares esse videntur. Quorsum ergo haec? nem-pe ut illud concludam, industriae nos mercatoriae plurimumdebere, eosque homines, qui ex plurimarum rerum inopia co-piam inducant, veluti bene de hominum genere meritos laudan-dos censeo. Sintne autem omnino inter nobiles reponendi, non-dum satis intelligo. Materia in qua plurimum versantur pecu-nia est, cuius quidem studiosi sunt; eos in nullo hominum nu-mero apud philosophos unquam fuisse videmus. Sed si libera-litas in his sit atque beneficentia, possunt huiuscemodi virtutesnobilitatem facile parere»

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Con tutto ciò, proprio nel De vera nobilitate, suonaalto l’elogio per Ficino, per la sua docta religio, per il suofar convergere ogni interesse umano verso temi metafisicie religiosi.

4. Marsilio Ficino e la concezione di una «docta religio»

Un gruppo di scritti, meglio si direbbe di giovanili ap-punti ficiniani, pubblicati di recente da P. O. Kristeller,documentano la preparazione tradizionalmente scolasti-ca del Ficino, che tra il 1454 e il 1455 si muoveva nel-l’ambito del più tecnico aristotelismo di scuola115. Quel-l’umanesimo «morale», che siamo venuti seguendo finqui, gli era estraneo, e non aveva suscitato in lui neppu-re un impegno polemico. Più tardi, nel proemio a Lo-renzo de’ Medici premesso al Plotino latino, riconducela propria conversione al platonismo all’influenza com-binata di Gemisto e di Cosimo de’ Medici. Cosimo, in-fatti, spinto dal Pletone, avrebbe vagheggiato di far ri-sorgere a Firenze l’antica Accademia, incaricando alcu-ni anni dopo il figlio del suo medico, il giovane Marsilio,di tradurre tutto Platone e i platonici, e in particolare gliscritti ermetici. Terminata la versione platonica, per un

.115 P. O. KRISTELLER, The Scholastic Background of Mar-

silio Ficino. «Traditio», 1944, vol. II., p. 257 sgg., ove, pp.274-316, è pubblicata da un ms. moreniano della Riccardiana(Palagi, 199) una giovanile Summa philosophie. Un’altra note-vole lettera-trattato del F. ha dato il Kristeller in «Rinascimen-to», I, 1950, pp. 35-42. Qualche precisazione sulla formazio-ne del Ficino nell’anonima vita (ma, forse, opera del Caponsac-chi), ignota al Della Torre, contenuta nel Palat. 488 della Naz.di Firenze. (Le ricerche del Kristeller sono ora da vedere nel-la raccolta di saggi sopra citati. Le biografie del F. sono statepubblicate da R. MARCEL, Marsile Ficin, Paris, 1958).

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misterioso influsso (nescio quomodo), l’anima del mortoCosimo ispirò il giovane principe della Mirandola a spin-gere Ficino a tradurre le Enneadi e i neo-platonici (heroi-cus ille Cosmi animus heroicam Joannis Pici Mirandulaementem instigavit...)116.

In realtà se l’insegnamento di Niccolò Tignosi da Fo-ligno, peripatetico ortodosso ed estraneo alle combina-zioni platoniche dell’Argiropulo, fu con ogni probabili-tà decisivo del suo iniziale aristotelismo117, i rapporti conCosimo, l’influenza del Landino, che lo spinse a compor-re nel ’56 quattro libri di Institutiones platonicae attintea fonti latine, orientarono ben presto il suo interesse ver-so Platone118. Fra il ’56 e il ’57, tuttavia, egli era impe-gnato anche in taluni commenti a Lucrezio (commenta-riola Lucretiana), i cui brevi frammenti rimastici (ma glistessi commenti eran brevissimi: perbreve quoddam ar-

116 FICINI Opera, Basileae, 1576, II, 1537-38. Cfr. anche ilprologo al De vita: «ego sacerdos minimus patres habui duos:Ficinum medicum, Cosimum Medicem. Ex illo natus sum, existo renatus. Ille quidem me Galeno, tum medico tum platonicocommendavit. Hic autem divino consecravit me Platoni».

117 Sul Tignosi cfr. L. THORNDIKE, Science and Thoughtin the Fifteenth Century, New York, 1929, p. 161 sgg., 308 sgg.Ma forse la posizione del Tignosi e in genere dell’aristotelismofiorentino è da vedere sotto una luce diversa, mutando anche leprospettive rispetto al Ficino. Del Tignosi in particolare cfr.l’opuscolo in difesa dei propri commenti (Naz. di Firenze,Conv. C., 8, 1800); v. anche il mio studio su Testi minorisull’anima nella cultura del Quattrocento in Toscana, «Arch. difilosofia», 1951, pp. 1-36, e, ora, soprattutto A. ROTONDÒ,Niccolò Tignosi da Foligno, «Rinascimento», IX, 1958, pp. 217-55.

118 Sulle perdute Institutiones, cfr. Opera, I 929 (KRI-STELLER, SUPPLEMENTUM FICINIANUM Florentiae, 1937,I, CLXIII-IV). Sui Commentariola, Opera, I, 933 (Supplemen-tum, I, CLXIII; II, 81). Il De voluptate ad Antonium Canisia-num in Opera, I, 986, sgg.

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gumentum) ben poco ci dicono. Della sua simpatia perLucrezio e per l’epicureismo più ampia traccia è, inve-ce, nel giovanile De voluptate, compiuto alla fine di di-cembre del ’57, e presentato dal Ficino piuttosto comeuna raccolta dossografica, che non come una personaleelaborazione. Eppure non è scritto senza significato, inquel suo gravitare verso l’esaltazione di una voluptas cheè un aderire della volontà (adhaesio voluntatis), un assen-so perfetto (perfecta grataque assensio) della mente al suoideale oggetto, alla verità, cioè, che le è propria e fami-liare (assensio qua voluntas in eo, quod mens considerat,utpote familiari ac sibi proprio penitus conquiescit). Il piùalto piacere, dunque, è da collocarsi in questo intrinse-carsi della mente al suo oggetto; e se – come leggiamonei commenti platonici – la voluptas è servitù, quel nobi-le godere che è un bene verace è un servir dell’anima ri-spetto a un oggetto assoutamente valido. Ed è un servi-re che significa libertà piena, non passione, ma perfezio-ne dell’atto (perfectio quaedam operationis)119. Per que-sta via Ficino ritrova un tono religioso di Lucrezio, e lavoluptas, spogliata di ogni carnale sensualità, diventa ilsegno della pace raggiunta in una piena comunione coldivino.

Ma la prima chiara presa di posizione del Ficino nelproblema che più lo impegnerà, e cioè nel problema reli-gioso, noi troviamo nella lettera di dedica a Cosimo pre-messa alla versione di Ermete Trismegisto, compiuta nel1463 e pubblicata nel 1471. Qui è formulata con tuttachiarezza quella tesi che verrà poi ritornando senza po-sa in tutti i suoi scritti: la tesi di una perenne rivelazionedel Verbo, del Logos, di una pia philosophia tramandatadai poeti antichissimi e dalla Bibbia, accolta da Pitagora

119 Cfr. il commento in Convivium Platonis de amore, Opera,II, 1320 sgg. (cfr. anche l’ed. di R. Marcel, Paris, 1956, conampia introduzione).

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e da Platone, approfondita da Plotino e dagli scritti at-tribuiti a Dionigi l’Areopagita. È questa appunto la teo-logia platonica, intesa come tipo esemplare di una doctareligio, di una conoscenza di sé attraverso la conoscenzadi Dio, e, viceversa, di una conoscenza di Dio attraversola conoscenza di sé120.

Come spiegherà Ludovico Lazzarelli, poeta e filosofotutto ficiniano ed ermetico, la felicita suprema, paradi-siaca, che è lo scopo della nostra vita, è tutta nella cono-scenza di sé come conoscenza di Dio, o meglio del Logosritrovato in noi stessi, nella conversione di ogni nostrodesiderio dall’esterno all’interno, per ottenere la quietenella intima vita del Verbo vivente in noi. Che è appuntoil processo illustrato dal Ficino. Comprendere la veritàcon i nostri mezzi, non possiamo; la mente umana è unocchio che per vedere ha bisogno di una luce, e per vede-re il sole della luce del sole (divino itaque opus est lumi-ne, ut solis luce solem ipsum intueamur). Ma la solare lu-ce divina (il Logos) non si manifesta finché la mente nonsi volga ad essa, così come il sole illumina soltanto quel-la parte della luna che ad esso è rivolta. Né la conver-sione è possibile finché l’anima non si sarà liberata dagliinganni dei sensi e dalle nebbie della fantasia121.

Questa liberazione come processo di conversione aDio, secondo Ficino, è realizzata appunto dalla teolo-gia platonica che scopre sotto le nebbie dell’immagina-zione poetica, di cui sono rivestite le rivelazioni religiose,il senso profondo della verità, convincendo insieme d’er-rore i filosofi peripatetici che, guardando nella religionesolo all’aspetto estrinseco, la rifiutano come una favolada vecchierelle (de religione tamquam de anilibus fabulis

120 Opera, II, 1836.121 L. LAZZARELLI, Crater Hermetis, Parisiis, 1505 (su cui

cfr. M. Brini, in «Archivio di Filosofia», 1955, Testi umanisticisu l’ermetismo, pp. 23-77).

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sentiendum) e i poeti, tutti volti a ridurre entro i limitid’un’immagine una verità metafisica.

Nella prefazione a Plotino il Ficino chiarisce con mol-ta precisione i termini della sua doppia polemica. Filo-sofia in senso tecnico – egli dice – significa ormai peri-patetismo, distinto nelle due scuole contrastanti, dei se-guaci d’Alessandro d’Afrodisia e degli averroisti; ma inogni caso la religione viene distrutta. D’altra parte i poe-ti, e gli uomini di lettere in complesso, non comprendo-no la dottrina nascosta dagli antichi sotto il velame deiversi. «Era costume degli antichi teologi nascondere idivini misteri con simboli matematici e figurazioni poe-tiche, perché non venissero temerariamente divulgati atutti (ne temere cuilibet communia forent)». Contro il na-turalismo degli aristotelici e l’interpretazione estetica deipoeti, o, quasi si direbbe, contro la filosofia dei filosofi ela poesia dei poeti, Ficino inserisce la propria docta reli-gio, che non è che una pia philosophia, in cui convergo-no filosofia e poesia, sopravanzando l’ascesa «amorosa»ogni processo razionale puro122.

I nostri tempi – egli osserva – non si contentano piùdei miracoli come fondamento della fede; non si ferma-

122 FICINI Opera, II, 1537: «Nos... elaboravimus ut, hactheologia in luce prodeunte, et poetae desinant gesta myste-riaque pietatis impie fabulis suis annumerare, et Peripateticiquamplurimi, id est philosophi pene omnes amoveantur, nonesse de religione saltem communi tamquam de anilibus fabulissentiendum. Totus ferme terrarum orbis, a Peripateticis oc-cupatus, in duas plurimum sectas divisus est, Alexandrinamet Averroicam. Illi quidem intellectum nostrum esse morta-lem existimant; hi vero unicum esse contendunt; utrique reli-gionem omnem funditus aeque tollunt, praesertim quia divi-nam circa homines providentiam negare videntur, et utrobi-que a suo etiam Aristotele defecisse, cuius mentem hodie pauci,praeter sublimem Picum, complatonicum nostrum, ea pietate,qua Theophrastus olim et Themistius, Porphyrius, Symplicius,Avicenna, et nuper Plethon interpretantur».

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no ai meravigliosi racconti, vogliono una conferma ra-zionale e filosofica (placet... auctoritate rationeque phi-losophica confirmare). Ora il peripatetismo, non menodella critica meramente letteraria, noi diremmo estetica,considera i monumenti religiosi in genere, la Bibbia co-me la poesia teologica antica, favola, e cioè posizione pu-ramente fantastica dinanzi alla realtà, aniles fabellae. Amodo suo Ficino si ripropone così il problema del signi-ficato della poesia, in termini che rimarranno in sostan-za gli stessi fino a Vico. Quale è, insomma, il rapportofra una concezione della realtà, una visione totale dellavita, e la rappresentazione del poeta? I peripatetici delCinquecento, domandandosi di che cosa sia imitazionel’arte, non cercavano, in sostanza, cosa diversa.

Tuttavia Ficino, sotto la spinta di una forte preoccu-pazione religiosa, comincia con l’accettare, quasi senzaaccorgersene, la distinzione, cara agli gnostici, e afferma-ta da Averroè, di due tipi d’umanità: i semplici, gli igno-ranti, i non iniziati ai sacri misteri, e coloro che colgo-no sotto la lettera lo spirito, i filosofi. Le immagini, co-me del resto la natura stessa, celano un’anima, un signi-ficato; fermarsi all’immagine fantastica, così come limi-tarsi a una considerazione puramente fisica della natura,e non scendere alla più profonda direzione spirituale, al-l’intenzione dell’artista (umano o divino non conta, chéunico vero artista è il Logos); staccare e chiudere in sé lasuperficie, ecco l’errore più pernicioso. La manifestazio-ne esterna, intuita, è solidale con il moto intimo da cui sigenera; è quindi necessario, per intenderne il valore, ri-trovarne la sorgente. E questa sorgente è la luce e la sa-pienza di Dio. D’altra parte, raggiunto il Verbo, noi ciimmergiamo in una Verità senza tempo, vivente nell’e-terno, in quella luminosità di cui parla Platone, e che èoltre e fuori da ogni discorso, da ogni distinzione, per-ché di tutto è la radice. A questa luce attingono i seguacidi quella pia philosophia, che non ha tagliato il simbolo

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esterno, parola, misura o natura dalla fonte vitale; «fac-tum est ut pia quaedam philosophia quondam et apudPersas sub Zoroastre, et apud Aegyptios sub Mercurionasceretur, utrobique sibimet consona, nutriretur dein-de apud Traces sub Orpheo atque Aglaophemo, adole-sceret quoque mox sub Pythagora apud Graecos et Ita-los, tandem vero a divo Platone consummaretur Athe-nis».

La poesia non fu dunque un velo (velamen), simile nelsuo ufficio espressivo ai numeri e alle figure (mathemati-cis numeris et figuris), che furono i mezzi per celare, in-sieme, e tradurre i divini misteri (divina mysteria). Ma inlinguaggi diversi (realtà naturale dei fisici, simboli mate-matici, figure poetiche) si manifesta un’unica Verità edun’unica Vita. Il merito di Plotino è tutto nell’aver chia-rito il legame profondo che lega quella radice unica conqueste manifestazioni, gettando le basi di una verace teo-logia (Plotinus tandem his velaminibus theologiam enuda-vit). Compito del nuovo teologo, ormai, è quello di tra-durre e commentare Plotino, a cui Ficino viene così as-segnando un posto paragonabile solo a quello che per ifisici dell’ultima scolastica aveva avuto Aristotele.

Eppure v’era, in Ficino, una più sottile affermazione.Oltre le molteplici manifestazioni sensibili l’Unità nonpuò rivelarsi che in una sola Verità, che avrà più aspetti,ma che nella sua eterna presenzialità non può essere cheuna. Chi vada a fondo, e questi è il pio filosofo, cogliel’unico vero oltre gl’infiniti aspetti, e in tutte le rivelazionireligiose, in tutti i canti dei poeti, in tutte le bellezze dellanatura, in tutte le armonie matematiche, afferra l’unicaanima, quel Logos che parla anche in noi, e che, comeplatonicamente canterà con accenti esaltati il Lazzarelli,sentiamo nelle altre anime, nelle cose, nel tutto infinito,poiché tutto è rivelazione di Dio.

Pia philosophia che si identifica con la docta religio,con la vera religione del Logos, che è la unica vera

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religione del Cristo (εν αρχη˜ ην o Λóγoς), e chesignifica la consapevolezza di questa solidarietà del tuttocon Dio, in un circolo amoroso, che è un diffondersie un riflettersi di luce. «Sì come il sole sanza il solenon si vede, e come l’aria sanza l’aria non s’ode, mal’occhio pieno di lume vede el lume, e l’orecchio pienod’aria ode l’aria risonante, così Iddio sanza Iddio nonsi conosce, ma l’animo pieno di Dio tanto inverso diDio si lieva quanto dal lume divino illustrato riconosceIddio, e acceso del divino calore di quel medesimo hasete. Perché non s’eleva a Colui che è sopra lui e infinito,se non per la virtù di chi è superiore e infinito. Di quil’anima si fa tempio di Dio»123.

Ma posta la questione in tali termini, non solo «è gran-de propinquità... intra la Sapienza e la Religione», ma ad-dirittura v’è una perfetta identità. Rompere «la copula diPallade e di Themis» significò far nascere superstizionee eresia; poiché gl’ignoranti straziano «come porci... lepietre preziose della Religione», mentre i filosofi cado-no nell’empietà. Se infatti un distacco del mondo natu-rale dalle sue radici divine è eresia, «le vili cure degl’i-gnoranti, superstizione più tosto che religione chiamaresi conviene». La dotta religione è, dunque, verace filoso-fia; è convergenza piena dell’intelletto (Sapienza) e del-la volontà (Sacerdozio). Ma se Ficino dovesse indicare achi spetta una ideale priorità, indicherebbe i filosofi; in-fatti «è ragionevole che quelli che prima le cose divineper la intelligenzia da sé trovarono, o vero da Dio attin-sono, ancora prima esse cose divine per la voluntà vene-rassino rectamente e la recta venerazione di queste aglialtri insegnassino»124.

123 Della Christiana Religione, II.124 Della Christiana Religione, Proemium II.

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E a chi giunga alla Verità, che è unica, tosto si svela laveracità del Cristianesimo che riassume in sé e compie, achi ben l’intenda, tutta l’umana conoscenza.

5. La teologia platonica

Dalle premesse esaminate sopra risulta chiaro che l’im-mutabile eterna verità, simboleggiata nelle primitive teo-logie poetiche, rivelata da Cristo, filosoficamente chiari-ta da Platone e Plotino, si impernia sull’unità del mondo,sulla inscindibilità delle manifestazioni rispetto al Mani-festante. Contro le eresie della divisione, dell’autonomiadel mondo, conviene restaurare la verità della conver-genza del tutto nell’Unità.

Ora la via del Ficino procede per due tappe: la primaè la dimostrazione della ideale convergenza di ogni rive-lazione di Dio, in una ininterrotta tradizione (la pia philo-sophia), la quale, per altro, non rappresenta in alcun mo-do uno svolgimento storico, ma la pura coincidenza, sle-gata dal tempo, in quella Verità che vive nell’eterno. Laseconda è costituita dalla visione di una realtà tutta co-sì strettamente connessa nelle sue strutture, che solo chiben ne legga la faccia in Dio può dire di conoscerla.

In entrambi i casi il procedimento va dall’immaginedel senso alla luce interiore, in un ritorno ascensivo dalsimbolo, dall’espressione, all’intimo, all’anima che si èmanifestata. E se è innegabile che, nell’interpretazioneteologica del Ficino, la poesia si perde, intendendosiper essa soltanto un incorporarsi del Vero, un velamesensibile dell’Uno, è ancor certo che, d’altra parte, tuttala la realtà universa si presenta come il poema di Dio,il suo linguaggio, la sua sensibile espressione, la suapoesia. La cui verità, del resto, non è un concetto, ma,ancora, il Dio vivente, e l’umano spirito che, rivestite leali d’amore, si fa uno con l’eterna vita.

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Ut sole attrahitur vapor,Ut magnes calybem trahit,Sic flammis rapiar tuis.Te coniunge michi, Pater;Mox ad te penitus trahar

Unumque efficiar simul125.Alla teologia poetica, alla scoperta, cioè, di un’unica ve-

rità al fondo delle molte rivelazioni, corrisponde la teolo-gia platonica, e cioè l’esposizione sistematica della veritàdelle cose, ottenuta attraverso il ripensamento della tra-dizione platonica in cui il divino si è venuto articolandoe spiegando. Ma il nucleo dottrinale dell’opera maggio-re del Ficino è, ancora, l’Unità fontale che si esprime inun complesso di aspetti direttamente intuiti, «non altri-menti che innumerabili numeri i quali, nella unità origi-ne di quelli, sono una cosa sola, e innumerabili linee inun centro individuo sono una cosa sola e individua»126.

Conoscere, e quindi ascendere a Dio, è vedere ogniaspetto della realtà come momento, o tappa, grado, del-l’unitaria serie del tutto; risalire dal raggio al centro, se-condo l’antica immagine; cogliere nelle cose l’insufficien-za loro per giungere così alla divina sufficienza. Poichéogni grado dell’essere è «specchio» di Dio; ma ogni gra-do, se ci si affisi, ci si dimostra imperfetto e ci rimandaad altro: le cose a noi stessi, noi stessi a Dio. «Si debbo-no infatti conoscer le cose per conoscere se stessi, e co-noscere se stessi per conoscere Dio... Perché Dio ci hacomandato di conoscer noi stessi, se non perché nel co-noscerci, tutto ciò che abbiamo di buono, conosciamoaverlo completamente da lui?»127.

125 Crater Hermetis, loc. cit.126 FICINI Orphica comparatio Solis ad Deum (Opera, I, p.

825 sgg.).127 FICINI Ep. lib. VI (Opera, I, pp. 812-13).

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Unità e gradualità del tutto sono temi in Ficino stretta-mente congiunti, e formano la base di quella visione deivari momenti come simboli, aspetti o specchi della divi-nità. D’altra parte i singoli gradi della serie delle cose (se-ries, ordo rerum) si dispongono secondo una convergen-za verso l’Unità piena, partendo dalla corporeità, comequantità pura per procedere, attraverso la qualità, l’ani-ma, l’angelo, fino a Dio. Convergenza, s’è detto, versol’Unità, che sola spiega la struttura del mondo, articola-to in un ritmo musicale pulsante attraverso il recessum el’accessum; «siccome l’unità numerica è dovunque pre-sente in tutti i numeri, e il punto in tutte le linee, così an-che quella divina Unità, rimanendo in sé indivisibile, èugualmente presente dovunque a tutti gli spiriti e a tuttii corpi, e ugualmente lega e connette l’universo. E perciòstesso tutte le cose in una mutua convenienza convergo-no a un unico fine, essendo guidate da un solo principio.E come tutti i corpi si posson ricondurre a un solo som-mo corpo che tutti li muove, così tutti gli spiriti a un solosupremo spirito che tutto abbraccia, e che i corpi vivificae guida mediante spiriti a sé soggetti»128.

Ora, nella concezione ficiniana, un’importanza par-ticolare viene assunta dal concetto, caratteristicamenteplatonico del resto, di µεταξυ, di intermediario, che,comune a tutte le teorie impiantate su una visione del-l’unità dinamica del mondo, ha sempre rappresentato ilmodo onde spiegare il ritorno dalla molteplicità all’unità.Nella considerazione del reale, osserva una volta il Fici-no, sono da escludere tre errori: e, innanzitutto, di con-cepire una ciclicità ritornante perennemente in se stes-sa, ove tutto sarebbe pari al resto (et sic utique idem adidem comparatum esset), né alcuna distinzione si avreb-be, se non apparente. Il secondo errore è quello di intro-

128 FICINI Argumentum in Platonicam theologiam.

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durre più princìpi della realtà; il terzo di ammettere unprocesso infinito senza base e senza meta.

Come si vede, nel primo errore si vuol colpire l’inter-pretazione della circolarità come capace di esaurire in sél’Unità somma, la quale, al contrario, è al di sopra delprocesso che da essa ha inizio e in essa ritorna. «Simi-le a Dio», unificante cioè, ma non unità raggiunta, è l’a-nima, la quale ha veramente questa funzione: di collega-re, di restituire. Posto Dio al di là, l’anima sola può es-ser partecipe, per l’ambigua sua costituzione, dei termi-ni estremi della realtà, connettendo ciò che più è simi-le a Dio, come l’angelico spirito puro, a ciò che più neè lontano, come la materia elementare. Esprimendosi inriferimento al tempo il Ficino dichiara: «Dio è sopra laeternità; l’Angelo nella eternità è tutto, perché la essenziae operazione sua è stabile, e lo stato dell’eternità è pro-prio. L’anima è parte nell’eternità e parte nel tempo, per-ché la sustanzia sua è sempre quella medesima senza al-cuna mutazione di crescere o di scemare, ma l’operazio-ne sua... per intervalli di tempo discorre. Il corpo in tut-to è sottoposto al tempo, perché la sustanzia sua si muta,e ogni sua operazione richiede spazio temporale»129. Poi-ché Dio è fuori dell’ordine delle cose, anche se è il sen-so di quell’ordine, solo chi sia e non sia perfezione, chiinsomma partecipi degli estremi, può rannodarli e costi-tuire il simbolo di quella trascendente Unità in una uni-ficazione sempre operosa anche se non completa.

Ficino si muove a questo proposito sempre fra quat-tro temi: la luce, la bellezza, l’amore e l’anima, fra i qua-li non v’è esclusione, ma implicanza reciproca, anche senelle varie opere l’accento talora sembri mutare. Onto-logicamente parlando la realtà è luce, giuoco di luci, dal-la invisibile luce di Dio (Deus lux summa luminum) alla

129 FICINO, Sopra lo Amore, ed. Rensi, Lanciano, 1914, p.121.

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tenebra della materia, ove la luce sembra estenuarsi finoa morire. Ma il Deux lux, abyssus luminum, è anche, inquanto tale, fons formarum, traducendosi la luce, che èstoffa di tutto, in visibilità del tutto e universale bellezza(«io ti risponderò te essere ignorante, se la Bellezza altroche luce essere credessi»). Ora ciò che visivamente e in-tellettualmente si traduce in simboli di luce, praticamen-te si esprime in termini di calore e di amore. «Poiché ilcaldo si origina dalla luce (a lumine calor), v’è ancora unimmenso ardore..., che noi proviamo piuttosto con l’ar-dore della volontà che con la luce dell’intelletto»130.

In tal modo l’anima, come la realtà tutta, mentre tra-duce il suo conoscere e la sua conoscibilità in termini diluce, traduce in termini d’amore e di calore la sua sostan-za profonda. E mentre la luce, quanto più è luce, tantopiù è inaccessibile, l’amore quanto più è alto tanto piùvince. «Poiché Dio quanto più ci trascende con la lucedel suo intelletto, tanto più in noi s’interna (se nobis inu-rit) con l’ardore della volontà; e nulla è più alto sopra dinoi di Dio, e nulla di lui più profondo in noi. Quantopiù lucente è la sua luce, tanto più è ignota all’intellet-to; quanto più veemente è l’ardore, tanto la volontà è piùcerta». L’ascesa conoscitiva non coglie, come quella chevuol conquistare e far propria, e quasi imprigionare neipropri ristretti confini, una realtà infinitamente più gran-de; il tentativo di chiudere «Dio nelle cose» fallisce. Maquando, non più perduti nell’esteriorità del mondo, marichiamati in noi stessi, attraverso l’amore ritroveremo lecose e noi in Dio, allora, risolvendo in totale apertura lanostra chiusura, «apparirà che noi abbiamo prima ama-to Dio nelle cose, per amare poi le cose in lui: e noi ono-riamo le cose in Dio, per ricomperare noi soprattutto; eamando Dio, abbiamo amato noi medesimi».

130 FICINI Opera, I, 706-16; De sole et lumine, I, 965 sgg.

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Si tratta di una radicale conversione (circuitus, restitu-tio) per cui, dalla esteriorità visiva, conoscitiva, impiglia-ta nel limite delle cose, si ritrova, oltre il limite, il proces-so dinamico del tutto e si sale alla sorgente. O, meglio, cisi immerge nel fiume divino e si conquista la nostra ve-rità facendoci conquistare. «La luce di Dio, oltrepassan-do i confini dell’intelletto, non può in alcun modo essereintesa dalla naturale intelligenza dell’uomo, ma piuttostosi ama, e così amata par che graziosamente (gratis) sia innoi infusa. L’anima infatti, accesa dal suo amore, quantopiù arde, tanto più chiaro risplende e più a fondo discer-ne e con più dolcezza gode. Per questo Platone ha det-to che la luce divina non si indica con il dito della ragio-ne, ma si accoglie con la chiara serenità di un’esistenzadevota».

Funzione della bellezza è, appunto, la conversione;determinar la crisi per cui la chiarità visiva accende il cal-do d’amore, e lo status diviene circuitus. «Mal d’occhi»è inizio d’amore, dice Ficino, quando l’oggetto cui noi civolgiamo si fa di passivo attivo, e per la comune naturadegli esseri risponde alla nostra azione con la sua azione,che è «un certo tiramento dell’una cosa all’altra per si-militudine di natura»; come quando l’occhio dell’aman-te fisso in quello dell’amata ne è vinto, e il cacciatore di-venta preda. Ché questo produce amore: ci riduce da at-tivi, o almeno apparentemente attivi, in passivi; in umili edevoti servi. «Il Sole volge inverso sé fiori e foglie: la Lu-na muove l’acqua, e Marte i venti... Così ciascuno è tira-to dal suo piacere». La nostra salute consiste, così, nel la-sciarci vincere da Colui che è vera bellezza, che è supre-ma bellezza, e, divenuti suoi devoti, ritrovarci attraversoil dono totale di noi.

La passione, se si patisca l’azione del bene, è veramen-te educazione dell’uomo, come quella che trae fuori (educit) la sua divina sostanza. Perché l’oggetto amato, seè buono, trae a sé, trae al bene l’amante, e dall’amante,

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che patisce la sua azione, trae fuori quello che v’è di be-ne. Ed ecco, secondo Ficino, la funzione educatrice del-l’amore socratico, quando Socrate, saggio e buono, «fuda’ giovani assai più amato, che egli alcuno ne amasse».Ostetrico egli era perché educava, e cioè traeva fuori; e«giocondamente», facendosi amare. «La città non è fat-ta di pietre, ma di uomini; gli uomini si debbono cultiva-re, come gli alberi quando son teneri: e dirizzare a pro-durre i frutti». E non si migliorano con le leggi; «tuttinon possiamo essere Licurgi o Soloni. A pochi si dà l’au-torità di fare leggi. Pochissimi alle leggi date obbedisco-no». La via feconda è la via socratica. Socrate, amato-re di Dio, si fece servo devoto di Dio, e, «commosso dacarità di Patria», fu, non l’amatore dei giovani, ma il su-scitatore dell’amore loro, per trarli al bene, per trarne ilbene, per educarli insomma, facendoli anch’essi, per tra-mite suo, servi di Dio nella giocondità d’amore. A simi-glianza di quel vero Amore che noi crediamo cercare eafferrare, laddove è lui che ci cerca, e ci si fa presente, eci conquista; come Platone dice, alato perché dà le ali efa volare131.

Poesia, bellezza, amore sono i termini in cui si risolvetutta la teologia ficiniana, se ben si guardi oltre la tenuesuperficie di una fragile impalcatura concettuale.

6. Pico della Mirandola e la polemica antiretorica

La formazione filosofica del Ficino ci è apparsa molto li-neare; condizionata da un peripatetismo scolastico gio-vanile non troppo impegnativo, orientata dapprima insenso umanistico con toni lucreziani, ma sboccata benpresto, e molto pacificamente, in un’immutata fedeltà

131 FICINO, Sopra lo Amore, p. 153 (cap. XVI: Quanto èutile il vero amatore).

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a Platone ripensato attraverso la rivelazione ermetica ePlotino. I temi della meditazione del Pico furono senzadubbio più complessi, ed attestano un travaglio costan-te, e il desiderio di soddisfare una curiosità oscillante frai problemi della natura e i rapporti dell’uomo con Dio.Educatosi nell’ambiente culturale dell’aristotelismo pa-dovano, alla scuola del Vernia, estese ben presto i suoicontatti col peripatetismo arabo ed ebraico frequentan-do Elia del Medigo, ebreo dottissimo, studioso e tradut-tore di Averroè. Elia sentiva ugualmente forte l’esigenzadella sua fede e l’amore per Aristotele e il suo Commen-tatore, e dal conflitto credeva di uscire, o con la più gros-solana applicazione della formula della «doppia verità»,o con l’accentuazione di alcuni toni mistici che dal neo-platonismo erano filtrati nell’averroismo: la felicità postanella congiunzione, nell’incontro contemplativo fra uma-no e divino. Elia poteva così accordarsi col Vernia, mapoteva anche soddisfare l’esigenza religiosa del Pico132. Ilquale non era insensibile, certo, al fascino dell’umanesi-mo letterario, ma rimaneva troppo fine conoscitore dellascolastica e del peripatetismo, per lasciarsi sedurre dal-le facili evasioni di una retorica che aveva ormai fatto di-vorzio da ogni concretezza umana. Le lettere, che ave-vano cercato di essere espressione di una umanità inte-grale, si erano estenuate in una formalità vuota, cui eraestraneo ogni interesse di verità e di vita. La più aper-ta denuncia di questo distacco è costituita appunto dallalettera indirizzata nel 1485 a Ermolao Barbaro, de genere

132 Gli opuscoli latini del Del Medigo v. in app. alla edd.venete della Fisica di Jean de Jandun (p. es. Venetiis 1546).La lunga epistola al Pico (Parigi, Naz. lat. 6508, fol. 71-72) inG. PICO D. M., De hominis dignitate ecc., Firenze, 1942, pp.67-72. L’epistola del Barbaro a Elia, nelle Epistulae del B., ed.cit., I, 87-90. Sulle letture dei cabbalisti («Li libri di Mitridate»)v. anche la quasi ignota lettera del Pico del 1489 (Parigi, B. N.,Autogr. Rotschild, n. 252).

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dicendi philosophorum, che costituisce un vero e proprio«manifesto» contro la degenerazione della retorica in cuiriaffiorava perfino il deteriore nominalismo dei calcula-tores di Oxford. La nuova filologia nata come nuova fi-losofia, e cioè come coscienza critica della ricerca di unaconcretezza umana, si era estenuata in una scienza nomi-num opposta a una scienza rerum; nel culto di una for-malità vuota che non poteva non condurre a uno scetti-cismo larvato, e già si concretava in una crisi morale133.

Una lettura precisa del Barbaro, che è del resto som-mamente istruttiva, ci illustra in che modo intendesseegli congiungere filosofia ed eloquenza. Nella dedica aSisto IV di una sua versione di Temistio, nel 1480, il Bar-baro, dopo la consueta esaltazione delle litterae che, so-le, ci distinguono dalle bestie, dichiara di non avere pernulla reso alla lettera, sed libere et traslationibus et figuriset tropis usi sumus ad morem romanum. La sua versionevuol essere una manifestazione di latinità liberamente ri-vissuta (lusimus arbitratu nostro), una gara con Temistio:in plenum, non tam latinum reddere Themistium, quamcertare cum eo volgui. Allo spirito dell’autore si opponeun preteso spirito della lingua latina; al suo pensiero e al-le sue esigenze, il proprio pensiero e le proprie esigen-ze. Il tradurre non è più fedeltà all’opera, ma gara e con-trasto (non tam reddere, quam certare). Il Barbaro, dopoaver denunciato aspramente i suoi predecessori per ave-

133 L’epistola del Pico nei citati Filosofi italiani del ’400 pp.428-45; quelle del Barbaro nella cit. ed. Branca, I, 84, 100, 101sgg. Per le calculationes suiseticae, ivi, II, 22 sgg. Un interes-sante documento, fin qui sfuggito, dei rapporti del Pico con gliscienziati contemporanei si trova fra gli scritti del fisico e me-dico Bernardo Torni (ms. Ricc. 930, fol. 26 r-31 r), professorein Pisa fra il 1476 e il 1496. (Un’importante messa a punto delrapporto fra E. Barbaro e i logici ha fatto C. DIONISOTTI,Ermolao Barbaro e la fortuna di Suiseth, Miscellanea Nardi, pp.219-53).

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re barbaramente subordinato i testi alle proprie esigen-ze, non fa diversamente da loro, quando non si serve diCicerone per rendere Aristotele, ma mette Aristotele alservizio del proprio ciceronianismo (Aristotelis libros...quanta possum luce, proprietate, cultu exorno)134.

Proprio di qui si mosse Giovanni Pico, insistendo sulrapporto troppo spesso svisato di res e verba (philoso-phiam rebus constare, verborum pompa nihil indigere), edaccendendo così una discussione che doveva prolungar-si nei medesimi termini fin in pieno ’600. La bella letteradel Pico è una difesa eloquente del puro pensiero, delladignità della ricerca: «siamo vissuti celebri, o Ermolao,e tali vivremo in futuro, non nelle scuole dei grammati-ci, non là dove si insegna ai bambini, ma nelle accademiedei filosofi e nelle adunanze dei sapienti, dove non si di-scute sulla madre di Andromaca, sui figli di Niobe e susimili fatuità, ma sui principi delle cose umane e divine».Ed è insieme un atto d’accusa contro il letterato che de-genera in vuoto grammatico, che dimentica il significa-to umano della comunicazione, e che, per questo, deca-de dalla sua dignità di uomo. Ma se siamo incondiziona-tamente col Pico quando ci dipinge il pensatore anxius,e mai pacificato, e perciò mai adagiato nella formula re-torica, subito sentiamo che la polemica lo porta oltre lapremessa, quando separa anch’egli sapienza ed eloquen-za. Perché dalla polemica contro l’ornamento egli è quasiindotto a staccare la parola dalla sua radice, o meglio adammettere che tale distacco possa avvenire. La rispostache alla questione darà lo Sforza Pallavicino nel Tratta-to dello stile, rifacendosi al Pico, ma utilizzando le osser-vazioni che sulla maniera di scriver la storia avevano fat-to Famiano Strada e Agostino Mascardi, è che, «essen-do ufficio del filosofo la sincera manifestazione della ve-rità nel suo semplicissimo aspetto, non conviene a lui al-

134 BARBARO, Epistol., I, p. 8 sgg., 12, 14, 96.

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terare, o con l’ingrandimento la sembianza di lei, o colmovimento la pupilla di chi la mira»135. Il che significadistinguere dal pensiero, non già la parola nella sua ap-propriatezza, ma l’ornato, la retorica ormai degenerata.Del resto Pico vedeva il più profondo significato mora-le della questione: «non è uomo raffinato chi non si pre-occupa della forma letteraria; ma chi è privo di filosofianon è uomo. La sapienza meno eloquente può giovare;ma un’eloquenza stolta è come la spada nelle mani d’unpazzo: non può non nuocere sommamente».

La filosofia come filologia era stata un richiamo allaradice spirituale, intima, della parola; alla parola non di-staccata dalla sua direzione significante. Ma la retorica,separata dal mondo degli umani affetti, e trasformata inpuro giuoco formale, che dà piacere e potenza, che è mi-sura a se stessa in una sua astratta formalità, apriva unfatale divorzio fra mondo delle idee e mondo delle litte-rae, e del filosofo faceva un sognatore, e del letterato ungiullare cortigiano. Oscuramente il Pico combatteva laretorica come pseudo-logica e pseudo-poesia, in quantonon esiste una dottrina della pura forma espressiva nel-la quale indifferentemente si cali la meditazione del filo-sofo o il canto del poeta. «Tu mi ribatterai – egli osserva– che secondo me dovremmo lodare le statue non dallaforma, ma dalla materia; che se Cherilo avesse cantato lostesso soggetto di Omero, e Mevio di Virgilio, anch’essisarebbero stati grandi poeti. Ma non vedi l’assurdità delparagone? Anch’io affermo che il valore dipende dallaforma espressiva e non dal soggetto, poiché una cosa è

135 SFORZA PALLAVICINO, Opere, Milano, 1834, vol.II, p. 586. Sono interessanti in proposito, fra le molte, leorazioni pronunciate a mezzo il ’500 dal Mureto, italiano percultura, e dal dottissimo Carlo Sigonio, del quale è da vedereparticolarmente la settima, de studiis humanitatis (Lugduni,1590, pp. 97-115).

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quello che è per la forma; solo che è diversa la forma del-la poesia da quella della filosofia». Ed è proprio per que-sto che è assurdo vestire Aristotele di panni ciceroniani.Il piagnone e ficiniano Giovanni Nesi, pubblicando nel1497 un suo profetico Oraculum de novo saeculo, ed esal-tando l’eloquenza del Socrate ferrarese, riprendeva tesi etermini del Pico per sottolineare un’eloquenza che nonera un ornamento retorico sovrapposto, ma il prolungar-si scarno ed efficace dell’animo. «Hinc Alcibiadem nudailla Socratis quam Periclis luculenta oratio magis movitatque afficit».

E non a caso il richiamo del filosofo si collegava colpotente appello morale del domenicano di San Marco,perché era anch’esso un appello morale: richiamo allaserietà e sincerità della filosofia, condanna del letterato edel grammatico puro, della parola «separata».

7. L’uomo

Anche l’Oratio, che doveva introdurre a una pubblicadiscussione filosofica in Roma nel 1487, a una specie diconvegno internazionale di filosofi indetto dal ricchissi-mo Signore della Mirandola; anche quel carmen de paceaveva piuttosto del manifesto e dell’appello, che non deldiscorso inaugurale. Composta in un momento d’esalta-zione religiosa, fra lo studio e il commento ai testi del-la gnosi ebraica e del misticismo cabbalistico, e la stesu-ra di un trattato sull’amore e la bellezza a gara col Fici-no, l’Oratio è dominata da due temi: la centralità dell’uo-mo nella realtà, e la intima profonda concordia di tuttele sincere affermazioni di pensiero136. Il tema più celebre

136 Vedi l’intera orazione nell’ed. cit., pp. 102-45. (Ma nelfrattempo m’è venuta tra mano quella che fu, forse, la redazioneoriginaria del celebre discorso, contenuta anonima nel Palat.

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è rimasto il primo, da cui l’orazione ha preso poi il tito-lo De hominis dignitate. La tesi pichiana è veramente no-tevole: ogni realtà esistente ha una sua natura che condi-ziona la sua attività per cui il cane vivrà caninamente, eleoninamente il leone. L’uomo, invece, non ha una natu-ra che lo costringa; non ha un’essenza che lo condizioni.L’uomo si fa agendo; l’uomo è padre a se stesso. L’uo-mo non ha che una condizione: l’assenza di condizioni,la libertà. La sua costrizione è la costrizione a essere li-bero, a scegliere la propria sorte, a costruirsi con le suemani l’altare di gloria o le catene della condanna. Il Ma-netti aveva parlato di un uomo creatore del mondo del-l’arte; Ficino di un orizzonte dei mondi. Per Pico la con-dizione umana è di non aver condizione, di esere vera-mente un quis, non un quid: una causa, un atto libero. El’uomo è tutto, perché può essere tutto, animale, pianta,pietra; ma anche angelo e «figlio di Dio». E la immagi-ne e somiglianza di Dio è qui: nell’essere causa, libertà,azione; nell’essere resultato del proprio atto.

Questo lucido puntare su un’esistenza che contrae erisolve in sé l’essenza, che trova l’unica condizione nellapropria libera scelta, e che quindi non può non conclu-dere a una posizione dell’uomo-persona fra persone e difronte alla Persona; che non può non sboccare a una su-periorità del volere e dell’amore sull’astratto sapere: ec-co l’originalità del Pico. Il Nesi, che per il Pico ebbequasi un culto, scriveva: «tu se’ imagine e similitudinedell’eterno Dio... tanto più perfetta quanto più efficace-mente il tuo exemplare rappresenti. Più lo rappresentiper amore che per dottrina. Più in te riluce la sua effigeamando che speculando; più gli piace chi l’ama che chilo conosce, ma perché l’ama da lui è redamato». Come il

885 della Naz. di Firenze: cfr. Notizie intorno a G. P., «Riv. distoria della filosofia», 1949, fasc. 3).

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Pico stesso dichiarerà in una lettera al Manuzio, perchécercare invano con l’intelletto quello che gioiosamente sipuò raggiungere d’un balzo con l’amore? Perché, ripe-terà in versi Lorenzo de’ Medici, restringere in noi Dio enon, amando, «dilatarsi» in lui?

8. La pace filosofica

Come s’è detto, il secondo tema dell’orazione pichianafu la pace, pitagorica concordia del pensiero, cristiano ri-scatto d’ogni manifestazione del logos. La grande anti-tesi fra Platone e Aristotele, fra Avicenna e Averroè, fraTommaso e Scoto, in cui sembra proporsi in forma esem-plare il cozzo fra «separazione» e unità, fra trascendenzae immanenza, fra natura e spirito, si compone nella me-ditazione pichiana attraverso l’unità del pensiero umano,che accentua via via alcuni aspetti o momenti o problemi,i quali, se paiono escludersi, meglio considerati si impli-cano e vicendevolmente si chiamano. L’unità della veri-tà, la continuità della speculazione, l’unicità del Maestro,l’identità della luce divina, postulano per Pico la concor-dia. La quale viene da lui puntualmente ritrovata in unaspecie di storia critica della filosofia impegnata a illustra-re la magia dell’unità attraverso la varietà degli atteggia-menti. Ma l’unità che si svela nel pensiero filosofico nonè che un aspetto dell’unità che si rivela nella tradizionereligiosa, nell’universa realtà.

Il Pico non esita a far suo l’antico parallelo fra natu-ra e Scrittura, entrambi libri di Dio, scritti con caratte-ri diversi, ma la cui radice è la stessa. E come la cab-bala non è che una perfezionata filologia per riafferrareil senso genuino della Bibbia, la scienza naturale è unostrumento consimile atto a farci afferrare l’intima essen-za delle cose. Nell’Heptaplus i mondi, e cioè i vari pia-ni della realtà, si presentano come corrispondenti, anzi

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intrinsecati l’uno all’altro, e quasi prospettive molteplicidella realtà, in sé distinte, ma complicate e compenetra-te nell’uomo, di tutte partecipe. Il concetto ficiniano, o,meglio, largamente sfruttato dal Ficino, dell’uomo nododel tutto, è inteso, alla luce della tesi della libertà dell’attoche si fa tutto, come concentrarsi nella conoscenza uma-na di tutti gli aspetti e piani della realtà. La pace filosofi-ca corrisponde a una pacificazione mondana, universale,in quanto sul terreno umano, attraverso l’opera umana,i molteplici aspetti della realtà si connettono e si compe-netrano. L’uomo è un Dio terreno non perché empia-mente usurpi il trono del vero Dio, ma perché, simile aDio, è un puro esistere capace di farsi nodo partecipe ditutte le essenze.

Come si vede, Pico vuole estendere al massimo, esi incontra qui con Campanella che pur polemizzeràcon lui, la portata della filologia, dandole il compito,se vuol essere vera filosofia, di comprendere e leggeretutte le Scritture, quella divina e sacra, come quellanaturale, intimamente sacra e divina anch’essa, poichéDio si rivela ugualmente nelle acque e nelle arene delmare, e nelle stelle del cielo; caeli enarrant gloriam Dei.Dio è poeta, e cioè creatore; e noi dobbiamo, dovunque,nell’opera leggere l’autore, umilmente comprenderne lospirito, e armonizzandoci con lui divenire in qualchemodo partecipi dell’opera sua.

E poiché spontaneo è venuto il ravvicinamento a Cam-panella, è notevole osservare come anche la posizione delPico sboccasse, come quella di Campanella, sul terrenopratico: appello a tradurre l’unità del vero e dello spi-rito che lo pensa in una organizzazione unitaria, in unaecclesìa unica, capace di accogliere l’umanità intera. Ec-co la sua profezia come la troviamo nel Nesi: «Mahu-methanos ad Christianam fidem vobis adhuc viventibusadsciscendos. Ovile tandem omnium unum, pastorem

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unum»137. Siamo nel ’97, nell’epoca del profetismo sa-vonaroliano; ma sappiamo che il giovane principe ave-va disegnato, prima che lo rapisse una morte precoce, ditradurre sul piano pratico di predicazione e di riformail suo sogno di una pace universale. Ed il cristianesimoera per lui l’autentica e compiuta affermazione di quel-la fede verace, che unica traluce nella coscienza degli uo-mini ed è impressa con cifra evidente nell’universo inte-ro. Prima di Campanella, in pieno Cinquecento, France-sco Sansovino ci presenta nell’isola Utopia gli adoratoridell’unica «occulta ed eterna divinità» che «mirabilmen-te» si convertono subito tutti alla fede cristiana, come alnecessario complemento della loro posizione138.

9. La polemica antiastrologica

Se, da un lato, l’amore entusiastico del Pico per talunispunti occultistici e mistici può essere ricondotto nel-l’ambito di una generica quanto giovanile simpatia ver-so il misterioso, l’indefinito, il primitivo, in verità, quan-do si guardi a fondo, cabala e magia ci riportano sul ter-reno della «filologia» umanistica caricata di tutti i suoisensi profondi. Il più profondo dei quali era poi un ri-cercato contatto con la «natura», intesa nel suo ricorren-te significato polemico, in opposizione cioè al cristalliz-zarsi della tradizione. Ciò che al Pico preme veramente,

137 Oraculum de novo saeculo. Ma del Nesi s’è visto lo zibal-done Magliab. VI, 176 e le orazioni nei mss. Magliab. XXXV,211 e Ricc. 2204. Per altri spunti mi sia concesso rimandareal saggio Desideri di riforma nell’oratoria del Quattrocento, nel Iquaderno di a «Belfagor», 1948, pp. 1-11.

138 FRANCESCO SANSOVINO, Del governo et ammini-stratione di diversi regni et republiche così antiche come moder-ne, Venetia, 1578, c. 197 r e sgg.

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è di ritrovare in ogni piano del reale, in ogni prospetti-va, quelle stesse linee direttrici che ha scorto nell’uomo,in modo che i ritmi accolti in termini umani si svelinodavvero irraggiati dovunque.

Che le cose stiano veramente così dimostra quella suafinale polemica contro l’astrologia giudiziaria, che nonsolo lo pose contro tutti gli atteggiamenti di più o menodichiarato occultismo, ma che lo indusse a proporre informule più chiare il problema del rapporto fra uomo enatura, troppo facilmente confuso e sommerso nella me-ditazione sull’amore. L’unità del tutto, il nodo e il circo-lo amoroso delle cose, sembravano travolgere anche l’uo-mo, anima e corpo, nelle vicende universali, necessarie ocapricciose che fossero. Centro, sì, ed orizzonte, l’uomo,ma in quanto passivo ricettacolo, formula abbreviata, mi-crocosmo. Ficino, sfruttando questo tema, si era trovatodinanzi alla quasi inevitabile conseguenza di trasformareil primato umano in una totale subordinazione alle cose.L’uomo, specchio di tutte le cose, si dissolve nelle vicen-de di tutte le cose; e mentre il suo fegato segue e ripro-duce il moto di Marte, e ne contrae malanni, il tempera-mento che discende dagli astri orienta secondo gli astri ilcarattere, e solo altri astri, o mirabili virtù di animali, dipietre e d’erbe potranno combattere le prime influenze.Microcosmo, certo, l’uomo, e specchio di tutto, ma, per-ciò stesso, nulla; non più che pietra, ma meno che pietra;non libero, ma necessitato.

La celebrazione pichiana dell’uomo è tutta una sottin-tesa polemica contro il tema del microcosmo, tritum inscholis; per giungere, capovolgendo la tesi dell’universoche si incentra nell’uomo, all’altra, dell’uomo che si pro-lunga nell’universo.

Ma nella polemica antiastrologica v’era di più; v’era,cioè, la precisazione di un regolare e ragionato e ordi-nato processo di natura, escludente, per il suo stesso or-dine intrinseco, qualunque disordinato influsso del me-

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no degno sul più degno, del più opaco sul più chiaro.Nell’emergere delle forme verso Dio, i cieli, come in ge-nere il mondo degli elementi, trovano il loro posto al diqua della coscienza umana. La natura è ordine, è unitamolteplice armonicamente regolata; e di questa armoniae di questa unità è espressione la causa, intesa come le-game razionale e logicamente traducibile di tutte le cose.Il determinismo implicito nell’astrologia giudiziaria, pre-tendendo di far dipendere la vita interiore, non solo damodificazioni corporee, ma, attraverso il corpo, da con-figurazioni celesti, finte a immagine delle divinità paga-ne, sostituisce alla bella e divina armonia delle cause uncomplesso di corrispondenze accidentali e fittizie. Il Pi-co non esclude, né lo potrebbe, il collegamento fisico deltutto, ma nega che gli astri abbiano una posizione deter-minante diretta e, insieme, privilegiata, quasi che, essi so-li, immediatamente, orientino tutte le vicende della no-stra vita, e in genere della vita sublunare, caratteri uma-ni, mutare di regni, sorgere e tramontare di fedi religio-se (oroscopo delle religioni). Molto acutamente egli tro-va in tutto questo una reviviscenza, più o meno travisa-ta, dei culti astrali139. A Marte o a Giove sono attribuiticerti influssi, non perché veramente li dimostri operantilo studio dei loro raggi, ma perché le divinità corrispon-denti nell’Olimpo pagano avevano certe attribuzioni. Lavirtù non è dell’astro, ma del nome, o meglio del Dio dacui il nome deriva.

Il Savonarola, tanto sensibile sul piano morale e reli-gioso, vide bene come la polemica antiastrologica aves-se essenzialmente una funzione apologetica, e in questo

139 I testi qui usati del Pico, del Savonarola, del Pontanovedili citati nell’ed. da me curata in due voll. delle Disputationesdel Pico, Firenze, 1946-51. E, ivi, p. 16, il facsimile di una cartadella redazione originaria del De rebus caelestibus del Pontanodal Vat. lat. 2839.

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senso svolse la sua opera parallelamente al Pico, anche sepoi lasciava in ombra l’aspetto filosofico e scientifico del-la questione. Ché il Pico, nonostante la critica del Pon-tano, o di professionisti come il Bellanti, o di uno spiri-to fine come il Pomponazzi, non intendeva affatto inde-bolire le premesse della scienza della natura. Anzi egli cisi presenta come il difensore di una concezione ordina-ta, rigorosamente causale del tutto, denunciando nell’a-strologia giudiziaria, non solo continui errori scientifici,ma l’abuso dell’analogia, l’inserzione arbitraria di influs-si religiosi nel corso degli eventi naturali, e, finalmente, ildisordine introdotto dall’applicare al mondo umano del-la coscienza la causalità fisica, valida fino a determinarel’orizzonte dell’anima, ma incapace di spiegarne i liberiatti. Alle soglie dell’anima la legge di natura sistit pedemet receptui canit140.

10. Spunti di un’apologetica platonica

Come s’è notato, Giovanni Pico esorbita, con le sue in-dagini, dal piano in cui si era posto il platonismo ficinia-no. La stessa sua dimestichezza con la Scolastica, aper-tamente confessata, arricchiva il suo pensiero dei moti-vi più vari. In un punto, tuttavia, il gruppo savonarolia-no, con cui il Pico si venne legando sempre più, s’incon-trava con i ficiniani fino a confondersi con essi: in unaprofonda esigenza religiosa. Se percorriamo gli scritti fi-losofici del domenicano di San Marco, non vi troviamoche i motivi tradizionali del tomismo. Ma ai fiorentiniegli apparve profeta, in quell’ansia di rinnovamento e di

140 Sulla tragica figura dell’astrologo Lucio Bellanti e sullasua attività politica cfr. N. MENGOZZI, Un processo politicoin Siena sul finire del secolo XV, «Bollettino Senese di Storiapatria», 1920.

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riforma, che aveva accompagnato l’umanesimo nascen-te. E soprattutto quando parve fallire l’azione umana eterrestre, e un desiderio di miracoli, e di mistici annun-zi, e di totali palingenesi si diffuse largamente. Lo stes-so Pico dette a tutte le sue opere, e alla sua vita medesi-ma, il tono di un appello. L’amico suo, il ficiniano Nesi,vide nel Savonarola un novello Socrate («philosophiam,quae de moribus agit, diutius exulantem revocavit in ur-bem, civitatique restituit»), che dell’antico aveva la divi-na ispirazione, il demone guida, e la missione riforma-trice. Il secolo nuovo sta per spuntare; il mondo mu-terà politicamente, ma soprattutto spiritualmente: «Ma-humethanos ad Christianam fidem, vobis adhuc viventi-bus, adsciscendos. Ovile tandem omnium unum, pasto-rem unum»». Cosi nel ’97. Circa un decennio prima,con frondosità barocca, aveva tratto dalla letteratura er-metica e platonica, messa in circolo dal Ficino, una ora-zione de charitate culminante nell’invito commosso all’u-nione mistica con Dio. «Io finalmente l’amante ne l’ama-to, e l’amato ne l’amante converto. Il primo perché, mo-rendo l’amante in sé, vive ne l’amato. Il secondo perché,ricognoscendosi l’amato ne l’amante, ne l’amante ama semedesimo, dove amando sé ama l’amante già in amatoconverso»141.

141 Tono diverso ha il De moribus, ms. Laur. plut. 78, 24,ove la ricerca morale viene esaltata rispetto all’indagine fisica:«quid enim animo male affecto proderit, sive reciprocas ele-mentorum vicissitudines ac nostrorum corporum compaginemintellexerit, sive ad viscera usque terrae descenderit?». Ben al-tra la funzione di una civile disciplina: «in agris quondam di-spersos homines et victu ferino propagantes compulit in unamoenia et in communem societatem convocavit. Haec illos pri-mo inter se domiciliis coniunxit, deinde coniugiis quasi vincu-lis quibusdam devinxit; tum sermonum litterarumque commu-nione formavit. Haec leges sanxit; haec eos ad deorum cultumerexit, ad ius hominum erudivit, ad fortitudinem excitavit, ad

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Se nel dialogo de moribus si prolunga ancora un’ecodella civile speculazione del primo umanesimo, qui or-mai si obbedisce all’invito pichiano: evolemus ad Patrem.Là, nella pax unifica, sarà valido il tema proposto dal Po-liziano: Tibi silentium laus!

Girolamo Benivieni trasferiva sul piano religioso le sueeffusioni d’amore, e nel commento alle sue liriche ridu-ceva in termini di entusiasmo cristiano la prosa giovani-le del Pico. L’11 aprile 1484 Giovanni Mercurio da Cor-reggio aveva predicato per le vie di Roma una renova-tio ermetica, che Ludovico Lazzarelli, poeta filosofo, ce-lebrò come opera di mirabile e nuovo profeta. Nel 1488Ermete Trismegirto era effigiato a mosaico nel Duomo diSiena. Egidio da Viterbo, dal 1517 cardinale della Chiesadi Roma, vedeva nel trionfo della teologia platonica il ri-torno dell’età dell’oro («hec sunt, mi Marsili, Saturnia re-gna, hec toties a Sybilla et vatibus etas aurea decantata»),e su basi neoplatoniche e cabbalistiche costruiva un’apo-logetica platonica («propono platonicas questiones con-tra Peripateticos») destinata a prolungarsi fino nel conci-lio di Trento attraverso l’opera del cardinal Seripando142.

continentiam modestiamque composuit, ad meliorem deniquevivendi frugem convertit» (fol. 3 v).

Quanto agli scritti del Savonarola e alla sua posizione, unsingolare interesse ha il trattatello sulla divisione delle scienzee sulla poesia (Apologeticus de ratione poetica artis) dedicato aUgolino Verino.

142 G. BENIVIENI, Commento sopra a più sue canzone ecc.,Firenze, 1500; del LAZZARELLI cfr. il Bombix, Aesii, 1765,e, per l’Epistola de admiranda ac portendenti apparitione noviatque divini prophetae ad omne humanum genus cfr. P. O.KRISTELLER, in «Annali Scuola Normale Superiore Pisa»,1938, pp. 237-62 (Studies, p. 221 sgg.). Tuttavia la letturadel testo induce a pensare a influenze oltre che degli scrittiermetici «teologici», anche di quelli magico-astrologici. (Il testo

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Se dalla scuola del Valla agli studi ebraici del Pico la fi-lologia umanistica, operando sul terreno scritturale, pre-parava una grande offensiva critica; se la «teologia plato-nica» sboccando nella mistica unione con Dio nel segre-to dell’anima costituiva il prologo di tanta parte della piùfervida religiosità cinquecentesca, e giustificando le variereligioni annunciava l’ideale della tolleranza; Savonarola,impegnato a creare in terra una città umana degna del-l’uomo, segnava col suo rogo del ’98 il fallimento sul ter-reno pratico anche di non piccola parte del programmaumanistico.

dell’Epistola è stato ora ristampato da M. Brini nel cit. saggio,pp. 34-50).

Di Egidio da Viterbo è venuto occupandosi Eugenio Mas-sa, specialmente nei saggi Egidio da Viterbo e la metodologia delsapere nel Cinquecento, «Pensée humaniste» cit., pp. 185-239;L’anima e l’uomo in Egidio da Viterbo, «Arch. di Filosofia»,1951, pp. 37-138; I fondamenti metafisici della «dignitas homi-nis» e testi inediti di Egidio da Viterbo, Torino, 1954. Partico-larmente notevoli Scechina e Libellus de Litteris hebraicis, a curadi F. Secret, 2 volumi, Roma, 1959.

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PLATONISMO E FILOSOFIA DELL’AMORE

1. Francesco Cattani da Diacceto e l’ortodossia ficiniana

Se apriamo i Discorsi del conte Annibale Romei, gen-tiluomo ferrarese, nei quali sono introdotti a dissertardi filosofia, per sette giornate, «dame e cavaglieri», al-la presenza di Francesco Patrizi, vediamo che gli argo-menti trattati sono la bellezza, l’amore, l’onore, il duel-lo, la nobiltà, le ricchezze, le lettere. L’opera del Romeiè lo specchio fedele di quelli che furono gli effettivi temidel comune dissertare cinquecentesco non «scolastico»,ove in discussioni di maniera venne estenuandosi l’oppo-sizione platonica all’aristotelismo accademico143. Lascia-te ai professionisti le questioni più impegnative sul pianometafisico, rimaneva agli uomini colti il vasto campo del-le osservazioni morali ed estetiche, nelle quali i letteratipotevano far bella mostra di rari virtuosismi stilistici. Alcentro di queste ricerche troviamo l’amore, la cui impor-tanza come tema filosofico veniva caricandosi poi, nel-le ricercate prose degli scrittori, di toni variamente senti-mentali. Nella prima lezione «fatta da messer BenedettoVarchi pubblicamente nella virtuosissima accademia fio-rentina», leggiamo: «dall’amore solo, e non da niuna al-tra cosa, procedettero procedono e procederanno sem-pre tutti i beni, o d’anima o di corpo o di fortuna, chein tutti i luoghi, per tutti i tempi, o da tutte le cose, s’eb-bero, s’hanno o s’avranno mai... Perciocché che il cielosi mova, n’è prima e principale cagione amore; ed il mo-

143 ANNIBALE ROMEI, Discorsi divisi in sette giornate,Verona, 1586, (Per i nessi fra «filosofia dell’amore» e petrar-chismo, cfr. ora l’elegante ricerca di L. Baldacci, Il petrarchi-smo italiano nel Cinquecento, Milano-Napoli, 1957).

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versi il cielo fa che la terra stia ferma; dal movimento delcielo come padre, e dalla quiete della terra come madre,nascono crescono e si mantengono tutte le cose, tanto leviventi, come son le piante e gli animali, quanto le man-canti di vita, come son tutte l’altre cose sotto il cielo, cheanimali e piante non sono. Anzi non pur tutte le cose cheda Dio e dalla natura si fanno, si fanno solo mediante l’a-more; ma ancora tutte quelle che parlano e che operanotutti gli uomini»144.

È il Varchi stesso che, altrove, ci dichiara, oltre Pla-tone, le sue fonti: Ficino, Pico, il Diacceto, il Bembo, e,«ultimamente», il «dialogo di Filone Ebreo», ossia l’ope-ra in tre libri di Leone Ebreo. Ma è il Diacceto, di cuistese un elogio eloquente, quasi «specchio non solamen-te della vita civile, ma eziandio della specolativa», coluiche più lo mosse a meditare. Nel Diacceto si prolun-gava la tradizione ficiniana ortodossa; «noi, tutto quel-lo che siamo, – scriverà – se siamo cosa alcuna, siamo daMarsilio Ficino». E Ficino è per lui «quasi familiaris...daemon», che anche dopo morte «nostro ore loquetur».Ma con Ficino egli sente proprio ispiratore il Pico, nelsuo sforzo di accordare Platone ed Aristotele nell’ambi-to del cristianesimo («utrorumque cum Christiana reli-gione convenientiam in plerisque dogmatibus»). Aristo-tele, maestro di virtù civili, prepara l’uomo ai voli del-la contemplazione145. Come scrive nella prolusione a un

144 BENEDETTO VARCHI, Opere, Trieste, 1859, II, p.531 sgg., cfr. ivi, p. 496 e sgg. (Dell’amore, Lezione una), p.816 sgg. (Vita di Francesco Cattani da Diacceto).

145 Del Diacceto cfr. I tre libri d’amore, con un panegirico d’A-more; et con la vita del detto Autore fatta da M. BENEDETTOVARCHI, in Vinegia, 1566; Opera omnia, Basileae, 1563; gliscritti vari del ms. Magliab. XII, 47 (e P. O. KRISTELLER,Francesco da Diacceto and Florentine Platonism in the SixteenthCentury, «Miscellanea Mercati», Città del Vaticano, 1946, vol.IV, pp. 260-304 = Studies, p. 287 sgg.).

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corso sulla Nicomachea, «nostra guida valente è Aristote-le che nei libri morali a Nicomaco con squisita ricchez-za ci prepara la via onde possiamo raggiungere la sommavirtù. Chi, infatti, entra nel tempio della felicità verace,trova subito nel vestibolo le virtù civili, di cui tratta que-sto libro. Poiché le virtù liberatrici e dell’animo ormaipurificato, fastigio della vita intera, seguiranno dopo».Solo che, per il Diacceto, già in questa vita noi possiamoavvicinarci alla divinità partecipando con piena adesioneall’amoroso circolo del tutto.

«Noi diciamo Dio esser principio, mezzo e fine. Impe-rocché per il principio intendiamo le cose da lui proce-dere; per il mezzo a lui convertirsi; per il fine esser da luidonate all’ultima sua perfezione: la quale consiste nellavera unione seco. Questo significarono gli antichi pita-gorici quando dissono la Trinità esser misura di tutte lecose. Questo significò ancora Orfeo quando disse Gioveesser principio, mezzo e fine, e però (come dice DionisioAreopagita) in questo modo Iddio è splendore agli illu-minati, perfezione ai perfetti, ai deificati divinità, ai sem-plici semplicità, unità a quelli che partecipano dell’uno,vita de’ viventi, essenzia di quelle cose che sono; di tuttal’essenzia, di tutta la vita, principio e causa. E però ognicosa creata, o vuoi eterna, o vuoi mortale, o vuoi razio-nale, o vuoi angelica, può esclamare insieme col Profe-ta: Signore, lo splendore della faccia tua è segnato sopranoi». In questo circolare convergere del tutto, la bellezzanasce nella realtà mondana per l’intrinseco nesso di uni-tà e molteplicità, per questo moto perenne attraverso ilquale tutto procede da sé e a sé, e tutto è erotico per ilsenso di insufficienza e, insieme, per la sete profonda disufficienza. «Mirabile bellezza nasce nel corpo mondanodalla unione per la quale cose tanto diverse e sì contrariecome sono nel mondo, fatte sé amiche, costituiscono ungrande animale. E se gli è lecito comparare le cose gran-di alle piccole il mondo è simile all’uomo». Il quale, po-

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sto nel mezzo del tutto, al punto centrale della universa-le conversione rispecchia in modo eminente la natura an-cipite d’amore, che è insieme mancanza e possesso. Bel-lezza è, così, visibile espressione dell’armonia uno-molti;l’anima è vivente «nodo dell’universo». Come l’uomo hail suo essere nel suo farsi, così l’amore è perenne tensio-ne verso una meta. Nel ritmo universale che si esterio-rizza in bellezza, l’uomo e l’amore sono un nodo viven-te di termini. Come non si concepirebbero in una mol-teplicità pura, così non sussisterebbero nell’assoluta uni-tà; vivono al limite, ma ponendosi come confine rendonopossibile la vita delle due realtà confinanti.

Bellezza, ugualmente, non è in Dio, ma risplende, co-me luce di Dio, nell’ordine angelico, e nella natura. È si-gillo di vita vivente, manifestarsi estrinseco dell’universadeificazione, del movimento di tutte le cose verso Dio;visibilità del bene. «La bellezza è una grazia, uno splen-dore della bontà, che su la prima giunta apparisce all’a-spetto, quasi il colore alla superficie, obietto della po-tenza visuale... per modo d’accidente». Il Diacceto in-siste, molto platonicamente del resto, sul carattere visi-vo della bellezza («obietto visivo»); e ne sottolinea insie-me l’estrinsecità («per modo d’accidente»). Interiorità èvita («gran seminario, gravido de’ semi, semi di tutte lecose»); bellezza è apparire, fiorire («fiore della bontà»);bellezza è avvio e, insieme, velarsi e svelarsi del miste-ro del bene agire («bellezza... portinaria alla abitazionesecretissima della divina bontà»).

2. La grazia

Ricondotto il problema dell’amore a quello della bellez-za, il Diacceto stesso ci impone di soffermarci su un moti-vo particolarmente caro alla discussione del tempo: quel-lo della grazia e della leggiadria. A mezzo il Cinquecento

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il dotto Tomitano scriveva «una bellezza senza grazia es-sere un amo senza l’esca», intendendo per grazia alcun-ché di sopraggiunto, e quasi di abilmente quanto artifi-cialmente ottenuto. Concetto che ci rinvia a due granditeorici della grazia, il Castiglione e il Della Casa, che nediscussero appunto sul piano di una perfetta formazio-ne umana. Il Castiglione, nell’antitesi grazia-affettazione,introduce il motivo della sprezzatura («quella esser veraarte, che non appare esser arte... né più in altro si ha daponer studio, che nel nasconderla»)146, che è un’arte co-sì perfetta da risolvere in sé ogni artificio; una produzio-ne umana che giunge a sembrare tutt’uno con la divinaopera creatrice.

Anche il Della Casa si preoccupa di precisar che siaquesta grazia, che ora sembra confondersi, ora distin-guersi dalla bellezza, aggiungendosi ad essa come unanota che la rende gradevole. «Non si dee... contenta-re l’uomo di fare le cose buone, ma dee studiare di far-le anco leggiadre; e non è altro leggiadria, che una cotalequasi luce, che risplende dalla convenevolezza delle co-se, che sono ben composte, e ben divisate l’una coll’altra,e tutte insieme; senza la qual misura eziandio il bene nonè bello, e la bellezza non è piacevole». E questa misura è«una cotale dolcezza» che si manifesta in tutto il compor-tamento. Anche qui grazia e leggiadria sono ricondottenell’ambito del voluto, del sorvegliato, dell’arte, insom-ma, che par natura per la sua perfezione stessa147.

E quel che il bello e il caro accresce all’opre,L’arte, che tutto fa, nulla si scopre

146 BALDASSAR CASTIGLIONE, Il Cortegiano, I, 26,(ed. Cian, Firenze, 1894).

147 GIOVANNI DELLA CASA, Galateo ovvero de’ costu-mi, Firenze, 1707, p. 75.

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come canterà il Tasso. La più tarda trattatistica, svilup-pando lo stesso motivo, farà appello al moto, e la gra-zia cercherà in una bellezza in movimento. Il Romei, neisuoi dialoghi, mette in bocca al Patrizi questa interessan-te conclusione: «la grazia principalmente si scorge ne’soavi e leggiadri movimenti del corpo; perciocché stan-do il corpo immobile, ella non è apparente; e quanto ame direi che la Grazia non fusse altro che una certa faci-lità o agilità che ha il corpo ad ubidir all’anima»148.

Grazia, dunque, che non è che «fior di bellezza», os-sia verace e compiuta bellezza, è il sensibilizzarsi, e ma-nifestarsi nel moto corporeo di un moto spirituale. Conchiarezza anche maggiore si esprime un oscuro scrittoredi questioni di morale e d’estetica, Alessandro Sardo, chein un suo Discorso della bellezza, afferma che «grazia, va-ghezza, fior di bellezza e, dantescamente, gentile aspet-to», è cosa umana ed è il trasfondersi «nel corpo materia-le» o dell’intelletto, di quel che v’è nell’uomo di raziona-le, di spirituale. «Risplende la grazia per la vivacità del-lo ingegno, per la tranquillità degli affetti, per la castità,per la gravità, per la modestia, per l’affabilità, e... ancoper la cognizione delle cause e delle scienze»149.

In tal modo, sotto il segno della grazia, si ribadiva ilconcetto ficiniano della spiritualità della bellezza, e nel-l’appello all’artificioso si richiamava il valore dell’arteumana. Non deve, tuttavia, credersi che la trattatisticarestasse rigidamente fedele alla distinzione fra grazia ebellezza, anche se oscuramente sentì l’esigenza di tenerleseparate. Il Castiglione nella celebre chiusa del Cortegia-no, assomigliata la bellezza a «un flusso della bontà divi-na, il quale... si spande sopra tutte le cose create, comeil lume del sole», afferma che la grazia nasce quando tale

148 ROMEI, Discorsi, pp. 13-14.149 ALESSANDRO SARDO, Discorsi, Venezia, 1586, pp.

13-14.

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divino raggio ritrova nel ricettacolo materiale «una cer-ta gioconda concordia di colori distinti, ed aiutati dai lu-mi e dall’ombre e da un’ordinata distanzia e termini di li-nee». Allora «quel subietto ove riluce adorna ed illuminad’una grazia e splendor mirabile, a guisa di raggio di soleche percota in un bel vaso d’oro terso e variato di gem-me preziose»; ov’è degna di nota questa perfezione fon-data sopra l’incontro fra gli elementi materiali, predispo-sti secondo proporzioni geometriche («ordinata distan-zia e termini di linee»), e il motivo formale («flusso dellabontà divina»)150.

Più confuso, in fondo, il Bembo, che nel terzo librodegli Asolani tenta di definire la bellezza attraverso ilconcetto stesso di grazia: «ella non è altro che unagrazia, che di proporzione e di convenienza nasce, ed’armonia nelle cose, la quale quanto è più perfetta ne’suoi suggetti, tanto più amabili essere ce gli fa, e piùvaghi: ed è accidente negli uomini non meno dell’animoche del corpo. Perciocché, siccome è bello quel corpo,le cui membra tengono proporzione fra loro, così è belloquell’animo, le cui virtù fanno tra sé armonia; e tantopiù sono di bellezza partecipi l’uno e l’altro, quanto èin loro quella grazia, che io dico, delle loro parti e dellaloro convenienza più compiuta e più piena». Ove questoinsistere sul concetto di armonia e convenienza di partisembra riecheggiare appunto la formula del Diaccetodella bellezza unità di un molteplice, formula che ritornapoi fermissima nel Della Casa («la bellezza Uno quantosi può il più; e la bruttezza per lo contrario è Molti»)151.

Ma se costante tendenza di quanti abbiamo esamina-to è il considerar la grazia fiore della bellezza, non man-ca neppure chi, al contrario, sussume la bellezza alla gra-

150 CASTIGLIONE, Il Cortegiano, p. 409.151 Strani sviluppi del tema dell’unità nelle Opere di GIU-

LIO CAMMILLO, Venezia, 1560, 2 voll.

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zia definendo, come l’Erizzo, la bellezza stessa una spe-cie («la bellezza non è che una certa grazia, la quale l’ani-mo dilettando ferisce e col suo conoscimento muove adamare»)152.

Del resto tutta una messe di rilievi, spesso molto fi-ni, anche se destinati a confondersi in una estrema ricer-ca di sottigliezza, noi troviamo nella vasta produzione in-torno alla bellezza della donna. Nella quale emerge senzadubbio l’opera del Firenzuola, che da pagine ove la bel-lezza femminile è posta esclusivamente in rapporto allafunzione sessuale, e considerata un astuto ritrovamentodi natura per indurre alla riproduzione, passiamo a scal-trite discussioni platoniche153. Anch’egli tenta di sfrutta-re il motivo del corpo strumento, tanto più bello quantopiù adatto a servire l’anima, quanto più «trasparente» espiritualizzato o, almeno, preparato allo spirituale.

«Piglia due candele d’ugual bontà, d’ugual grandezza,e in nessuna cosa sia dall’una all’altra differenza: poni-le in due lanterne, una più trasparente, l’altra meno tra-sparente; e vedrai che quella che è nella più trasparen-te renderà più chiaro lume che quell’altra. Quale è lacagione? la disposizione dello instrumento». Ma qualedebba intendersi il rapporto fra la divina luce interioree l’instrumento, non ci sa dire. Né più ci illumina quan-do, volendo precisare le condizioni obbiettive della gra-zia, ci dice che questa nasce «da un’occulta proporzione,e da una misura che non è nei nostri libri, la quale nonconosciamo, anzi non pure immaginiamo, ed è, come sidice delle cose che noi non sappiamo esprimere, un nonso che». Ove il Firenzuola, senza dubbio, aveva ragione

152 Di S. Erizzo cfr. la lettera a pp. 627-35 della raccolta delRuscelli, Lettere di XIII uomini illustri, Venezia, 1560.

153 Del FIRENZUOLA cfr. i Ragionamenti e i Discorsi(Opere, Firenze, 1848, vol. I, pp. 81-131; II, pp. 239-80;281-305).

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di polemizzare con i «raggi» e «altre quintessenzie», manon riusciva ad una posizione molto più chiara.

In verità, dissertando d’amore, e cioè della risonanzanell’uomo della bellezza, si era necessariamente portati aisolarne la condizione obbiettiva, e sotto il segno dellagrazia i nodi vengono al pettine. Se, nella generaleatmosfera platonica, resta fermo il tema esser la bellezza«un certo atto, o razzo d’Iddio penetrante in tutte lecose», o, per usar sempre i termini del Brucioli, il «voltod’Iddio» stampato nelle cose, a una ricerca più scaltritanon sfugge la domanda più urgente: come, in alcune cosesì, e in altre no, si precisi quella «certa grazia che muovel’anima... per la quale esse cose son grate all’anima»154.

Quando un tardo scrittore qual è Niccolò Vito di Goz-ze, nel suo Dialogo d’Amore detto Antos, «secondo lamente di Platone», ci dice che «la preparazione della bel-lezza alla grazia consiste in tre cause: cioè nell’ordine, nelmodo e nelle forme, o specie», sembra affrontare ormaiuna precisione estrema, anche se la sua fonte è dichia-rata; e a maggiore aderenza sembra voler giungere insi-stendo ancora su motivi di pura quantità («metro, misu-ra, proporzione... di parti»; «debita quantità»; «linea-menti convenevoli»)155. Senonché non ci si spostava, qui,dalla platonica preparazione matematica della materia.

In fondo, la linea più precisa, che poi tornerà in infi-nite variazioni, già l’aveva data il Diacceto, considerandola bellezza in genere come alcunché di spirituale, comel’affiorare (il «fiorire») ai sensi, il sensibilizzarsi, il mani-festarsi e l’apparire di un intimo valore, di un processointerno di significato morale. È il bene che si rivela come

154 ANTONIO BRUCIOLI, Dialogi della naturale philoso-phia e humana, Venezia, 1544, c. 105 v.

155 NICCOLO VITO DI GOZZE, Dialogo della bellezzadetto Antos secondo la mente di Platone, Venezia, 1581, p. 22(cfr. i suoi scritti teologici negli Urb. lat. 499-500).

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bellezza, quando il limite corporeo, in luogo di ostacolo,si fa adeguato mezzo o istrumento, trasparenza di un’inti-ma luce, e insieme espressione esemplare, adatta partico-larmente all’occhio (bellezza come visibilità), «per esse-re gli occhi corpi lucidi, diafani e spirituali, non di quellagrossa carnalità composti»156. La partecipazione intimadell’essere al divino, e quindi la sua bontà, ecco la con-dizione oggettiva per la traduzione sensibile, visibile, inbellezza. Come in una lettera del 1557 scriveva GiulioCastellani, filosofo molto noto, assalendo la cultura uf-ficiale ostile all’arte, «costoro non s’accorgono, che l’ar-te poetica riprendendo, vengono similmente la filosofiaa disprezzare, perciò che l’una non è dall’altra se non nelnome diversa, insegnandoci questa e quella il vivere vir-tuoso e onesto»157.

E su altro piano troviamo Federigo Luigini che dedicatutto un libro del suo trattato Della bella donna a «quan-to spetta alla parte di dentro», perché, come con tanta fi-nezza scriveva il Firenzuola, la bruttura dell’animo nonpuò non tradursi fedelissimamente nel volto, ove la bel-lezza è «un certo buon segno manifestante la sanità del-l’animo e la chiarezza della coscienza»158.

156 Sugli occhi e il vedere cfr. MARIO EQUICOLA, Di Na-tura d’Amore, Venezia, 1525: «per il vedere riconosce (la men-te) la vera bellezza della nostra anima, la qual... ha avuto questasorte, di poter esser veduta, avendo il simulacro manifesto...».

157 GIULIO CASTELLANI, Opuscoli volgari editi e inedi-ti, Faenza, 1847, pp. 74-78.

158 FEDERIGO LUIGINI, Il libro della bella donna (inTrattati del ’500 sulla donna, Bari, 1913); FIRENZUOLA,Delle bellezze delle donne, I. Ma è ancora da vedere, del Varchi,il discorso Della bellezza e della grazia (Opere, II, pp. 733-35)«nel quale si disputa se la grazia può stare senza bellezza».

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3. La metafisica d’amore

Alla scuola del Diacceto si formarono i gruppi disputantiagli Orti Oricellari fra cui, a discuter di politica, fu ancheNiccolò Machiavelli. Ed ecco Palla e Giovanni Rucellai;Alessandro de’ Pazzi traduttore della Poetica aristoteli-ca; Giovanni Corsi, biografo del Ficino; Donato Gian-notti il politico; Antonio Brucioli, seguace della Riforma,traduttore della Politica, prolisso compilatore di dialo-ghi fisici, metafisici e morali, ove senza originalità prete-se ritrarre, appunto, le discussioni fiorentine. Ecco Fran-cesco de’ Vieri, o il Verino primo, continuatore ufficia-le della tradizione ficiniana, cui terrà dietro il Lapini daSan Giovanni, che nell’insegnamento pisano nutrirà didottrina matematica e di sapere filologico le esposizionidi Platone e d’Aristotele, alle quali attingerà poi non pe-regrina ispirazione il Verino secondo ancora impegnato,al finire del secolo, in «ragionamenti» e «discorsi» delleIdee, delle Bellezze e d’Amore159.

Ma, in tutta questa tradizione accademica, traspare,schietta, una visione estetica della realtà, la quale, nel suomanifestarsi, è, appunto, bellezza. Anzi, come scriveràcon accenti ispirati il minorita Francesco Giorgio (Zorzi)Veneto, musica. La sua vasta quanto curiosa opera Deharmonia mundi totius cantica tria, uscita in Venezia nel1525, ermetica, platonica e cabalistica, vuol presentarel’architettura dell’universo come musica. Governato daleggi numeriche, il tutto, che è vivente immagine di Dio,può essere interpretato solo attraverso il numero («illeomnia rite novit, qui bene scit numerare»). Ma il nume-ro può presentarsi diversamente, traducendosi in ritmivocali, in leggi fisiche, in ordinate azioni morali («alius

159 L’elenco degli scolari del Diacceto in VARCHI, Opere,II, p. 818.

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in voce, alius in rerum proportione, alius in anima et ra-tione...»). Il compito che il Giorgio si propone è di ri-durre ogni aspetto in termini musicali («musicis conti-nuo rationibus»), facendo risaltare, appunto, l’armonicaproporzionalità, la perfetta misura, la musicale bellezzadel ‘cosmo’ («pulchrum mundum totum»). In pratica lasua trattazione si riduce a una serie di combinazioni nu-meriche care a quel pitagorismo cabalistico che, iniziatodal Pico, con una patina di fascinoso mistero si può ritro-vare, oltre le compilazioni di un Alessandro Farra, fin inpieno Seicento, alimento sotterraneo della stessa fiducia,così forte nella grande scienza secentesca, che l’universointero sia scritto in lettere matematiche160.

Le «preghiere del divino Mirandolano» avevano in-dotto anche Jehudah Abarbanel, Leone Ebreo, a sten-dere, «scholastico stilo», un trattato De caeli harmonia,purtroppo perduto. Ma la sua visione dell’universo sot-to il segno della bellezza e dell’amore ci è conservata neiDialoghi d’amore, composti nei primi anni del ’500, mapubblicati solo nel ’35, senza alcun dubbio il capolavorodi questa letteratura161.

Nel dialogo secondo, anche Leone Ebreo scioglie uninno all’armonia universale. «Se ben fra li celesti man-ca la reciproca e mutua generazione, non però manca fraloro il perfetto e reciproco amore... Se tu contemplas-si... la correspondenzia e la concordanzia de li moti deicorpi celesti... e se tu conoscessi il numero degli orbi ce-lesti, per li quali son necessari li diversi moti... vedresti

160 ALESSANDRO FARRA, Tre discorsi, Pavia, 1564 (nelprimo si discorre «dei miracoli d’amore», nel secondo delladivinità dell’uomo, imitando e compilando il Pico; nel terzo de«l’ufcio del Capitano»). Sul valore del Giorgio v. ora un acutorilievo del Nardi, «Acta Congr. Schol. Intern.», Romae, 1951,pp. 625-26.

161 Dell’opera di Leone Ebreo si è usata l’edizione di S.Caramella, Bari, 1929.

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una sì mirabil corrispondenzia e concordia... che tu re-steresti stupefatto dell’advenimento e de l’ordenatore».L’amore, infatti, non è, qui, solamente vincolo umano; èlegame universale che avvince e vivifica tutto l’universo,senza distinzione. Ed anche gli esseri elementari «insen-sibili, come li metalli, e specie di pietre», «hanno cono-scimento naturale del suo fine e inclinazione naturale aquello», e si muovono nel grande mare dell’essere, cia-scuno verso il suo porto, «come a proprio luogo cono-sciuto e desiato». Leone Ebreo va rintracciando un pul-sare eterno di vita in tutte le cose, una simpatia e amiciziadel cosmo, che egli trasfigura immaginosamente, mentrecielo e terra, fatti esseri vivi, si van disposando a soddi-sfazione del loro perfetto amore. «Con questo recipro-co amore s’unisce l’universo corporeo, e s’adorna e so-stiene il mondo. E la terra o materia ha amore al cielocome a dilettissimo marito, o amante, e benefattore; e lecose generate amano il cielo come patre pio ed ottimocuratore».

Le favole astrologiche, intanto, rivestono di figurazio-ni mitologiche questa poetica filosofia della natura, laquale a sua volta serve a spiegare le riposte significazionidei miti classici alla cui radice nient’altro si contiene senon una visione del giuoco mutevole delle forze natura-li. E fra uomo e natura v’è così perfetta compenetrazio-ne che non sai dire, se sia l’uomo a confondersi nel tut-to, o il tutto a umanizzarsi. La natura assume volto; essaè qualcosa di più del campanelliano tempio vivente delDio; è l’opera d’arte di Dio, in cui Dio stesso vive, ani-matore ed artefice. Un Dio che è fonte inesauribile d’a-more; non aristotelica chiusura in sé, ma traboccante ef-fusione di vita. «Il fine del tutto è l’unita perfezione ditutto l’universo... Essendo dunque questa legge osserva-ta ne l’universo, l’intelligenzia si felicita più nel muove-re l’orbe celeste... che ne la intrinseca intelligenzia suaessenziale, che è il proprio atto».

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Somma sapienza non è un sillogizzare sottile, ma rapi-mento estatico e «bacio» divino e morte umana per rina-scere in Dio. «Tale è stata la morte dei nostri beati, che,contemplando con sommo desiderio la bellezza divina,convertendo tutta l’anima in quella, abbandonano il cor-po». E nell’universale circolo amoroso Dio non è solol’amato, Colui cui tutto tende; è anche supremo amatore,Egli che «con amore produce e governa il mondo e col-legalo in una unione». Solo che il suo amore, non è de-siderio che cerca l’appagamento, ma è dono di se. «Dionon desidera sua unione con le creature, come fanno glialtri amanti con le persone amate, ma desidera l’unionedelle creature con sua divinità, acciò pur la loro perfe-zione con tale unione sia sempre perfetta, e immaculatal’operazione di esso creatore relata alle sue creature».

Se l’essenza del mondo è amore, e suo aspetto è bel-lezza, «bellezza è grazia, che dilettando l’animo col suoconoscimento, il muove ad amare». Secondo la tesi deificiniani, bellezza è affiorare (fiorire) di bontà; è espres-sione di un intimo processo capace di suscitare un motoanalogo nel contemplante che si apra a patirne l’effetto.Poiché, osserva Leone Ebreo, vi sono due sorta d’amo-re; quello che è figlio del desiderio, ed è cieco e incom-posto, e nasce da mancanza, e si traduce in violenza ebrama smodata di possesso. «L’altro amore è quello chedi esso è generato il desiderio,... perfetto e vero amore...è padre del desiderio e figlio della ragione»; ma di una«ragione estraordinaria» che non comanda più all’uomodi conservar se stesso, ma di donarsi, di offrirsi tutto al-l’amato, di confondersi con l’amato amatore nel fattivoprocesso universale. Come splendidamente dice LeoneEbreo, chi vive una «ragione ordenaria» è come un albe-ro frondoso, ma sterile, esaurito in sé; chi, invece, vived’amore si fa collaboratore del flusso fecondo che animal’universo «da la prima causa che ogni cosa produce fino

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all’ultima cosa creata», consentendo con l’infinito amoredi Dio.

4. La moda delle discussioni d’amore

Leone Ebreo alimentava la filosofia d’amore della più al-ta ispirazione religiosa, attingendo a quelle fonti a cui siera abbeverato nel suo commento al Cantico dei Canticianche il suo correligionario Jochanan Alemanno, comelui vissuto a contatto con la cultura platonica fiorentina.Ma accanto a questi più elevati misteri d’amore troviamotutto un fiorire di discorsi accademici e, magari, di «bel-le questioni» di società, come le chiama il Castiglione;di «dubbi» in cui eran maestri i trattatisti come l’Equi-cola, come il Calandra, che nell’Aura, un suo libro oggiperduto, andava esaminando «qual sia maggior difficul-tà fingere amore, ovvero amando dissimular non amare»,e altre sessantanove consimili questioni. Questo al prin-cipio del secolo; alla fine, l’ultimo dell’anno 1588, l’ac-cademia ferrarese indiceva con programmi a stampa unadisputa sull’amore di Dio per le creature, quale sia, co-me si distribuisca; se Dio ami più l’angelo o l’uomo, uninnocente o un penitente, una vergine o una cortigiana;come possa insieme amare e odiare.

A questo sterile ed astratto accademismo si era arriva-ti lentamente, per una serie di sviluppi che sarebbe trop-po lungo seguire nei particolari. E v’influirono moltepli-ci spunti, e vari interessi letterari. Ancora negli Asola-ni del Bembo, composti fra la fine del ’400 e il principiodel ’500, e usciti in Venezia nel 1505, Amore è presen-tato con efficacia come il propulsore e lo stimolo di ogniumano progresso e di ogni civile società ( «quello, che nébattitura di maestro, né minacce di padre, né lusinghe oguiderdoni, né arte o fatica o ingegno o ammaestramen-to alcuno può fare, fallo Amore...»). Amore, «siccome

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il sole», tutto vivifica, ingentilisce; «insegna parlare, in-segna tacere, insegna cortesia». Forza universale, animae addolcisce l’universo («ride la terra, ride il mare, ridel’aria, ride il cielo; di lumi, di canti, d’odori, di dolcez-ze, di tiepidezze, ogni parte, ogni cosa è piena»). E il Ca-stiglione, alla fine del Cortegiano: «tu dolcissimo vincu-lo del mondo, mezzo tra le cose celesti e le terrene, conbenigno temperamento inclini le virtù superne al gover-no delle cose inferiori, e, rivolgendo le menti dei mortalial suo principio, con quello le congiungi».

Giuseppe Betussi, dopo avere nel Raverta (1544) di-vagato su Dio bello bellificante, e aver mostrata l’identi-tà fra la Trinità divina e la bellezza, essendo il Padre fon-te del bello, il Figlio di bellezza, e lo Spirito il bello bel-lificato, ne La Leonora dissertava ancora della bellezzacome esteriorizzazione dell’intima armonia. Tullia d’A-ragona discuteva della infinità d’amore (1547), per nondire dell’Equicola, dello Speroni, del Doni, del Franco,del Varchi, del Sansovino, del Gottifredi, o del Nifo edel Patrizi. I poeti collaboravano con i filosofi, ma senzauscire dal chiuso delle questioni tradizionali, come quan-do il Tasso, per consiglio di Antonio Montecatini, incli-ne a curiose sintesi peripatetico-platoniche, chiese ispi-razione al Trattato dell’amore di Flaminio Nobili, uscitoin Lucca nel 1567, ove quel fecondo ripetitore dei mo-tivi più banali della produzione moralistica del tempo,sull’onore, sulla nobiltà, e così via, somministrava ancorauna volta gli sfruttatissimi spunti ficiniani162.

162 Una raccolta di Trattati d’amore del Cinquecento curòG. ZONTA (Bari, 1912); ma è raccolta inadeguata a dareun’idea del banalizzarsi di questa produzione. Un buon elencoin P. LORENZETTI, La bellezza e l’amore nei trattati del’500, Pisa, 1920, pp. 165-75 («Annali della R. Scuola NormaleSuperiore», XXVIII); ma vi sono lacune, non solo per quelche riguarda lettere e scritti minori, ma anche per la maggiortrattatistica (è omesso il Nifo, De pulchro e De amore, Lugduni,

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Più interessanti, invece, le ricerche intorno «ai mottie disegni d’amore, che comunemente chiamano impre-se», per l’addentellato evidente con le discussioni este-tiche dell’età del Barocco, e poi per le analoghe osser-vazioni del Vico. Al qual proposito mentre il Giovio oil Domenichi si andavan «trastullando» nella descrizionedelle invenzioni con cui si adornano i cavalieri «per si-gnificare parte de’ lor generosi pensieri»;, Girolamo Ru-scelli affrontava il problema stesso del loro valore e si-gnificato espressivo. Uomo di non grande intelletto, madi larga cultura e di larghissimi interessi, il Ruscelli, cuitanto irrise il Tasso nel suo Minturno, collegò subito ilproblema delle imprese con quello del linguaggio in ge-nere, presentando il segno visivo come universale mododi comunicare, più adeguato della parola all’intenzione.La parola, infatti, è individuata, e quindi mutevole, «làove col rappresentare e dimostrar la forma delle cose...è naturale communemente a tutti... Onde da questo es-ser così naturale e così commune il dimostrar per segni,

1549, che, p. 91, fa gran lodi dell’Equicola: «amicissimusnoster, meo iudicio fertilissime de amore scripsit...»). DelTrattato dell’amor humano del Nobili è da vedere l’ed. Pasolini,Roma, 1895, che riproduce anche le postille del Tasso. Unpiù lungo discorso, invece, meriterebbe, per i suoi vasti temi,il trattato di Guido Casoni, Della Magia d’Amore... Nellaquale si dimostra come Amore sia Metafisico, Fisico, Astrologo,Musico, Geometra, Aritmetico, Grammatico, Dialetico, Rettore,Poeta, Historiografo, Iurisconsulto, Politico, Ethico, Economico,Medico, Capitano, Nocchiero, Agricoltore, Lanifico, Cacciatore,Architetto, Pittore, Scultore, Fabro, Vitreario, Mago naturale,Negromante, Geomante, Hidromante, Aeremante, Piromante,Chiromante, Fisionomo, Augure, Auruspice, Ariolo, Salitore eGenetliaco..., Venezia, 1591 (cfr. E. ZANETTE, Una figuradel secentismo veneto. Guido Casoni, Bologna, 1933).

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è da credere che la lingua nostra s’abbia fatto il verboinsegnare»163.

5. La conciliazione fra Platone e Aristotele

Questa ondata di ispirazione platonica che traversa tuttoil ’500, pervadendo il dominio delle lettere e seducendo ipoeti non meno dei filosofi, era ben lungi da ogni intolle-ranza antiaristotelica. L’Aristotele della Nicomachea, checelebrava ultima perfezione dell’uomo il puro contem-plare, si accordava perfettamente con la contemplazioneplatonica. Non a caso Simon Porzio, il peripatetico na-poletano, nel dialogo del Tasso a lui intitolato, esclama,a proposito delle scienze teoretiche pure, che «il loro fi-ne è altissimo, e collocato nella contemplazione, o nellacognizione della verità; la qual conosciuta acqueta l’in-telletto nella sua propria felicità; anzi il congiunge a Diomedesimo, e, come dicono i Platonici, il fa collega de-gl’intelletti divini». Non diversa era stata la via dell’aver-roizzante Nifo; o del tomista Crisostomo Javelli, che po-neva la «morale» platonica mediam inter peripateticam etChristianam; o del ficiniano e platonico Felice Figliucci,traduttore del Fedro e poi chiosatore dell’etica d’Aristo-tele. E il peripatetico Antonio Montecatini, professorein Francia, amico del Patrizi, nel pubblicare il suo vastocommento alla Politica, dichiarava impossibile intenderAristotele senza Platone164.

163 Ragionamento di Mons. PAOLO GIOVIO... sopra imotti, e disegni d’arme, e d’amore, che comunemente chiamanoimprese. Con un discorso di GIROLAMO RUSCELLI intor-no allo stesso soggetto, Milano, 1559, p. 54 sgg. Cfr. LUDOVI-CO DOMENICHI, Ragionamento nel quale si parla d’impresed’armi, et d’amore, Milano, 1559.

164 CHRYSOSTOMI JAVELLI CANAPICII... Opera,Lugduni, 1580, II, 269 sgg. FELICE FIGLIUCCI, Della

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Ma, per lasciar da parte l’interminabile schiera dei mi-nori interpreti, veramente caratteristico è il caso di Fran-cesco Piccolomini, lungamente professore in Padova, ela cui «grandissima copia» celebra anche il Tasso. Ora,in quell’«oceano d’ogni scienza [che] sono i suoi scrit-ti», vera enciclopedia d’ogni saper filosofico, egli si mo-stra incline a una certa ortodossia aristotelica, fino a cri-ticare una volta anche il tentativo pichiano di conciliazio-ne. Ma sotto il nome di Pietro Duodo e sotto quello diStefano Tiepolo, furon pubblicate in Venezia e a Basilea,fra il 1575 e il 1590, «dispute sull’anima» e a «platonichecontemplazioni», tutte animate di furori platonici, e do-vute in realtà allo stesso Piccolomini, che, nelle Academi-cae contemplationes (in quibus Plato explicatur et peripa-tetici refelluntur), spiegherà che ogni conciliazione è im-possibile proprio poiché Aristotele non è che l’avvio pergiungere alle serene ed eccelse dimore platoniche165.

Il peripatetismo, e non è questo l’unico esempio, ve-niva quasi capovolgendo il cammino della storia, e con-cedeva ad Aristotele la terra, vista come punto d’appog-gio per sollevarsi ai cieli platonici, nella cui visione astrat-ta dal mondo si realizza pur anche l’ideale della Nicoma-

filosofia morale libri dieci sopra i dieci libri dell’etica d’Aristotele,Venezia, 1552. (Cfr. Il Fedro, ovvero il Dialogo del bellodi Platone tradotto in lingua toscana per F. F., Roma, 1544;ANTONII MONTECATINI In Politica, hoc est in civileslibros Aristotelis progymnasmata, Ferrariae, 1587-94).

165 PETRI DUODI... Peripat. de anima disput. lib. VII,Venetiis, 1575; STEPHANI THEUPOLI Academicarum con-templationum lib. X..., Basileae, 1590. F. PICCOLOMINI,Universa philosophia de moribus, Venetiis, 1583; Libri ad scien-tiam naturae attinentes, Venetiis, 1600: Compendio di scienza ci-vile, Roma, 1858. Nella letteratura platonica del ’500 sono mol-to notevoli le versioni in volgare (Apologia, Eutifrone, Critone,Fedone e Timeo) e i vasti commenti (soprattutto al Fedone) del-l’Erizzo (Venezia, 1574).

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chea. Invece il più ortodosso platonismo, con diversa sfu-matura, andava ricercando l’accordo segreto della filoso-fia, della scienza e della religione, e col Verino secondoelaborava le «vere conclusioni di Platone conformi alladottrina cristiana e a quella di Aristotele», impiantando-le sul triplice accordo di Platone con la fede, di Aristotelecon Platone, di Ippocrate con Platone166.

Lo scritto del Verino usciva in Firenze nel 1589; magià nella prima metà del secolo il tema del platonismo fi-losofia perenne aveva trovato la più aperta affermazionenei dieci libri de perenni philosophia di Agostino Steu-co da Gubbio che, vivacemente polemizzando contro laRiforma luterana e calvinista, tornava ai motivi essenzialidel platonismo ficiniano167. Lutero e Calvino avevano ac-centuato fortemente il distacco fra umano e divino, l’in-comprensibile irraggiungibilità di Dio, la miseria e il nul-la dell’uomo. Umana stoltezza e divina follia, filosofia efede, sono inconciliabili: insanabile resta il distacco fracielo e terra, mentre la proclamata impotenza dell’uomoal cospetto divino sembra confermarsi nella sconfortantevisione di un’umanità che è nulla nell’azione e nel pen-siero, e può esser qualcosa solo in una fiamma di fede,per grazia di Dio. La soluzione platonica, impegnata aridare fiducia all’uomo, mostrandogli la sua similitudinecon Dio e additandogli nell’amore il dono di Dio a noi,attraverso il quale è possibile l’offerta di noi a Dio; tuttol’eros, pronto a trasformarsi in charitas: ecco gli elementiche appaiono allo Steuco l’unica via di salvezza per una

166 Vere conclusioni di Platone conformi alla Dottrina christia-na et a quella d’Aristoteles. Raccolte da Messer FRANCESCODE’ VIERI detto il Verino secondo, Firenze, 1589. Del Veri-no cfr. anche Ragionamento de l’eccellenze et de’ più meraviglio-si artificii della magnanima professione della Filosofia, Firenze,1589.

167 AUGUSTINI STEUCHI Eugubini de perenni philoso-phia libri X, Lugduni, 1540.

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nuova apologetica, solo che si possa più profondamentestabilire il legame fra tradizione sacerdotale e tradizionefilosofica, fra amor di Dio e ragione illuminata168. Eccocosì l’idea di una luce perenne, vivente nelle anime degliuomini, tutta chiara e svelata nel primo Adamo, poi resaquasi opaca dal peccato, e quindi tramandata con sempremaggior precisione, ed accolta con consapevolezza sem-pre più profonda. Il concetto già largamente elaboratoda Ruggero Bacone, di un compiuto sapere primitivo, siviene intrecciando con quello di un progressivo discopri-mento del vero, finalmente confermato nel secondo Ada-mo, mentre il mutevole rapporto delle tenebre dell’igno-ranza e della luce del sapere vien fatto corrispondere alritmo morale e religioso di peccato e redenzione.

Nello Steuco è certo assente ogni concetto di progres-so, ma v’è l’esigenza di una continuità fondata sull’unitàoriginaria dell’umano pensare e del suo oggetto. Adamo

168 De perenni philosophia, pp. 77-78: «Coniungunt igiturdexteram seseque exosculantur vetus et nova theologia, et sae-culorum intervallis disiunctae redeunt, ipsis philosophis aucto-ribus, ad amplexum, mutuoque copulantur, et per manus philo-sophorum ducitur in sacrarium domiciliumque suum Veritas...O beata palam tempora quibus veritas haec, haec theologia ma-nifestissima de caelo refulsit, quam philosophi videbant et nonvidebant... Quocirca cum sint haec, non nostra solum prae-dicatione et professione manifesta, sed ipsorum quoque phi-losophorum testimonio probata, non video quid philosophiama theologia disiungat. Nam neque Aristotelem, quem suorummaiorum theologiam admirantem saepe reperies, possumus abistorum consortio, si iudices aequi voluerimus esse, seiungere».Ancora pp. 561-62: «cuncti naturali consensu atque... ratio-nis... instinctu, ...universaque philosophia, ...id tandem cuncticoncordes, quasi ratione se ipsam excitante, ...Plato et Aristo-teles multique alii Philosophorum adeo Clare hunc finem vide-runt, ut pene miraculum sit, eos ratione vidisse quod post nun-tius caelestis revelavit... Quamquam, ut dixi, perennis haec fuitusque ab exordio generis humani philosophia...».

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ebbe tutto il sapere, egli che assisté alla creazione e videDio fare, e lo sentì mentre egli stesso, l’uomo, era fatto,onde il primo sapere fu presente coscienza dell’assolutofare («dum nascerentur, a Deo se creari cernerent»). LoSteuco è, in proposito, chiaro: l’originaria rivelazione fula consapevolezza immediata del nascimento universale,non un faticoso congetturare. La dispersione fu disper-sione materiale – nelle varie regioni del mondo – e spiri-tuale – nella molteplicità delle lingue. Il peccato si tradu-ce in un tangibile allontanamento. E, viceversa, la veri-tà più a lungo dimorò fra coloro che meno si staccaronodalla culla dell’umanità, dico Chaldaeos, Armenios, Baby-lonios, Assyrios, Aegyptios, Phoenices, anche se nell’oscu-ramento delle coscienze quella scienza divenne fabulosa,et scyrpis et latebris absconsa. Torniamo così al tema fici-niano della teologia primitiva implicita nella poesia. Mauna raffinata esegesi della produzione poetica dell’uma-nità ci svela, per dirla vichianamente, un linguaggio es-senziale uniforme del genere umano, espressione di unaessenziale unità di credenze («idem semper omnes gen-tes credidisse quod nunc credunt retinentque omnes»).

Il tomismo aveva insistito sull’unità del vero; per loSteuco l’unità del vero si documenta e si manifesta nel-l’unità della filosofia perenne. «Tutti gli uomini per na-turale consenso (naturali consensu, natura duce ac magi-stra rapidoque veritatis aestu), per impulso (instinctu) diquella ragione che li separa dai bruti, si sono sempre ac-cordati nell’ammettere che non c’è nulla di superiore allareligione...; tutta la filosofia, quasi per impulso della stes-sa ragione, ha decretato che il vero bene è quello promes-so da questa fede... Platone, Aristotele ed altri hanno vi-sto così chiaramente questo fine, che par quasi un mira-colo che abbiano raggiunto con la ragione quello che piùtardi rivelò il celeste messaggero».

Questa idea dell’accordo o sinfonia dei filosofi, qua-si incentrata nella sintesi Platone-Aristotele, doveva non

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diversamente da altri temi, prolungarsi in pedissequemanifestazioni accademiche, rumorose quanto inconclu-denti come le cinquemilacentonovantasette tesi di Jaco-po Mazzoni da Cesena, pubblicate nel 1577 a Bologna169.Il Mazzoni, che doveva occuparsi poi di questioni lette-rarie, e rinnegare in parte gli entusiasmi giovanili, ci por-ta ormai ai tempi di Galileo, con cui fu in cordiali rap-porti. Né più vale il platonismo dei siciliani Pietro Calan-na e Giovanni Antonio Viperano, o del ferrarese Toma-so Gianini, o di Paolo Beni, impegnato insieme a com-mentar la Poetica, a discuter della priorità del Tasso suOmero, e a chiosare il Timeo.

Ormai l’antico problema dell’accordo dei filosofi siperdeva in compilazioni storiche e in repertori eruditi,mentre il platonismo, dopo avere alimentato le conver-sazioni cortigiane, si estenuava in una vaga atmosfera diletteraria evasione dal mondo, o, nel migliore dei casi,diveniva argomento di dotte dissertazioni.

6. Lo scetticismo di Gian Francesco Pico

La crisi finale del tentativo di conciliazione dei filosofiaveva intuito, fin dal principio del ’500, una non volgarefigura di pensatore, il nipote di Giovanni Pico della

169 JACOBI MANZONII Cesenatis De triplici hominis vi-ta, activa nempe contemplativa et religiosa, methodi tres, quae-stionibus quinque millibus centum et nonaginta septem distinc-tae, in quibus omnes Platonis et Aristotetis multae vero aliorumGraecorum, Arabum et Latinorum in universo scientiarum orbediscordiae componuntur, quae omnia publice disputanda Bono-niae proposuit, Anno salutis, 1577; JACOBI MAZONII Cese-natis In almo gymnasio pisano Aristotelem ordinarie, Platonemvero extra ordinem profitentis, in universam Platonis et Aristote-tis praeludia, sive de comparatione Platonis et Aristotelis, Vene-tiis, 1597.

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Mirandola, il savonaroliano Gian Francesco. Tragicapersonartà che si muove fra il rogo del profeta fiorentinoe le lotte familiari in cui perse la vita, allo scetticismodi Sesto Empirico chiede argomenti per distruggere lafilosofia a vantaggio della religione.

Se con lo zio combatte i falsi profeti, e scrive contromaghi, negromanti, astrologi, geomanti, chiromanti e co-sì via, egli fermamente crede nella conoscenza profetica,luce divina che lampeggia nell’anima umana, il cui in-telletto vanamente si dibatte nelle tenebre insidiose deldiscorso, «poiché il nostro intendimento, che è l’ultimadelle intelligenze, passa dalla potenza all’atto; e molto siinganna nel ragionamento e nei processi discorsivi, ed èimpedito e quasi trattenuto dagli accidenti che velano lesostanze, e dalle ignote differenze delle cose». La luceche brilla nelle tenebre scaturisce d’improvviso come undono gratuito, e non ha continuità alcuna, ma ora vie-ne e ora va (vicissimque pro accessu et recessu). Ed è l’in-contro e l’accordo mirabile e perfetto della fantasia e del-l’intelletto, verificandosi il quale l’uomo può giungere acogliere il futuro.

Ora, proprio in queste affermazioni del De rerumpraenotione è implicita quella critica del sapere filoso-fico che costituisce l’ossatura della meditazione di GianFrancesco170. L’umana conoscenza è intuizione, o lega-ta al senso, o nelle forme sublimi della profezia quandol’intelligibile si congiunge in una miracolosa corrispon-

170 Le opere di Gian Francesco Pico sono in gran parte rac-colte nel II vol. della ed. di Basilea, 1573, degli scritti dello zio.Cfr. anche On the Imagination by G. F. Pico of M., the Latintext, with an intr. and an English transl. and notes by H. Ca-plan, Cornell Univ. Press, 1930. A proposito della polemicaintorno all’imitazione cfr. GIORGIO SANTANGELO, Lapolemica fra P. Bembo e G. F. Pico intorno al principio d’imita-zione, «Rinascimento», I, 1950 pp. 323-340. Il Santangelo haanche ripubblicato i testi. Firenze, 1954.

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denza col sensibile. Ma questo è dono, è grazia, è un di-vino concedersi, quando ciò che è al di là dell’umano siesprime in forme aperte all’uomo.

La filosofia come processo razionale è discorso; è pre-tesa di giungere alla verità con le forze della ragione na-turale. Se la filosofia potesse assolvere il compito asse-gnatole esaurirebbe gran parte della religione. Se fossevera la teoria di una pia philosophia, e cioè di un accordosostanziale fra i filosofi classici e il cristianesimo, sfume-rebbe il significato più vero del cristianesimo, e insiemeil suo valore più profondo. Apologetica platonica e apo-logetica aristotelica, o plotiniana, o pitagorica, stabilen-do una continuità dov’è un abisso, vanificano la reden-zione stessa. I filosofi non vanno d’accordo; la ragionenon basta a se stessa. Sul tessuto di menzogne del ragio-namento; sulle contraddizioni dell’intelletto; sull’insuffi-cienza radicale dell’umana ricerca, si leva la sufficienzasovrarazionale della rivelazione. Giovanni Pico nell’ac-cordo dei filosofi trovava la testimonianza della Verità;«mihi autem – scrive Gian Francesco – venit in mentem,consentaneum magis esse et utile magis, incerta redderephilosophica dogmata».

Quell’antichità classica, vantata dai più come un para-digma di perfezione, ci viene presentata da Gian France-sco Pico come la più folle delle contraddizioni. E su que-sta crisi della ragione, su questa umanità fallita nei suoitentativi assurdi, si leva, salda, la parola del Cristo. Mal’Examen vanitatis doctrinae gentium et veritatis discipli-nae Christianae non è solo una critica della conoscenzaumana degna d’essere avvicinata, come pur si è fatto, aMontaigne. Essa è la quasi pascaliana distruzione di tut-to quel mondo di valori umani, di quel regnum hominis,che il Rinascimento aveva esaltato. Con la filosofia cado-no lettere, arti, grammatica, retorica, matematica.

L’uomo in sé è nulla; è errore e colpa. Solo la religio-ne, come abbandono totale di sé a Dio, sine lite, sine dis-

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sensione, sine vago et anxio discursu; solo una fede com-pleta cui corrisponda un dono divino, può dare all’uomola Verità e la pace.

Consapevole del pericolo cui l’umanesimo andava in-contro, di vanificare quello che di più profondo c’è nel-l’uomo, Gian Francesco, ispiratore dell’intransigenza an-tifilosofica del Concilio Lateranense del 1517, nella po-lemica col Bembo sull’imitazione non esitava a rifiutareil valore letterario della forma umanistica.

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L’ARISTOTELISMO E IL PROBLEMADELL’ANIMA

1. Pietro Pomponazzi

Su un altro piano, e in un’atmosfera diversa, un profondorinnovamento si operava anche nella cultura più rigida-mente ispirata a premesse aristoteliche, fossero poi que-ste averroiste, o alessandriste, o, magari, tomiste e sco-tiste. Ben difficile è, senza dubbio, tener distinte le va-rie correnti, e le influenze di Temistio o di Simplicio ac-canto a quelle più note ed evidenti già ricordate, mentrespunti platonici variamente si insinuano a rendere estre-mamente fittizia la tradizionale antitesi fra Firenze uma-nistica e platonizzante, e Padova aristotelica ed averroi-stica. Tuttavia è innegabile che anche gli incontri, quan-do vi sono, nascono per l’incrociarsi di vie diverse, per ilconvergere da varie parti di temi in origine distanti. Co-me non è difficile notare quando si volga l’attenzione an-che a quel motivo caratteristico della centralità umana,che pur sembra talora accostare in superficie la ficinia-na Theologia platonica e il De immortalitate animae delPomponazzi.

Pietro Pomponazzi, il maggiore degli aristotelici del’500, successore del Vernia (quel Nicoletus philosophusceleberrimus, celebre invero quanto sterile di produzio-ne), nel 1488 ancor giovanissimo fu chiamato in Padovaa tenere un corso parallelo ad Alessandro Achillini, a cuipiù tardi succedette sulla cattedra bolognese. L’Achilli-ni, che secondo il Giovio era stato suo maestro, anche semeno brillante e meno profondo del Pomponazzi, nonfu certo pensatore da poco. Averroista, aveva fatto ricor-so aperto alla più caratteristica espressione della formuladella «doppia verità» quando aveva dichiarato di sceglie-

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re, a proposito dell’intelletto, «fra due opinioni false (ri-spetto alla fede) la più probabile, e cioè quella averroisti-ca». Nei suoi scritti lo vediamo impegnato a trattare gliargomenti d’uso, fisici, medici, logici, con un interessepreponderante per quello che era tema d’obbligo dellescuole universitarie: l’anima. Che l’intelletto umano fos-se forma del corpo gli sembrava una pericolosa riduzionedello spirituale al corporeo, e nella separazione vedeva lasalvezza sicura dell’autonomia del pensiero. D’altra par-te l’uomo, nodo vivente del corporeo particolare e del-l’universale intelligibile, gli appariva «termine del mon-do materiale, perché in lui si uniscono cose materiali eimmateriali, onde si svela la guisa per cui è vincolo del-le inferiori e delle superiori». Che era la solita conclu-sione alla quale, sempre su terreno aristotelico, arrivavaun altro maestro del Pomponazzi, Pietro Trapolino, chenell’immancabile commento all’anima secondo Aristote-le ed Averroè, riafferma la medietà dell’intelletto, formaseparata, eppure animatrice della materia171.

In questa atmosfera, dunque, si alimentò l’indaginedel Pomponazzi, che alla centralità umana arrivò per vieben diverse da quelle ficiniane e pichiane. In Padova,

171 Le opere dell’Achillini son riunite nell’ed. di Venezia,1508. I commenti del Trapolino sono manoscritti (cfr. B.NARDI, Appunti sull’averroista bolognese Alessandro Achillini,«Giornale critico della filosofia italiana», 33, 1954, pp. 67-108).Del Pomponazzi cfr. l’ed. di Venezia del 1525, e per il Defato e il De incantationibus l’ed. di Basilea del 1567 a cura delGratarol (ma, ora, del De fato è uscita l’ed. critica a cura di R.Lemay, Lugano, 1957; del De immortalitate cfr. l’ed. Morra,Bologna, 1954); per le Dubitationes in IV meteor. Arist. lib.l’ed. veneta del 1563. Dei corsi di lezione fu parzialmente editoquello sull’anima dal Ferri nel 1877; ma finalmente vengono orastudiati sistematicamente e pubblicati nelle parti importanti daBruno Nardi («Giornale critico della filos. ital.», 1950-56; cfr.anche Il commento di Simplicio al «De anima» nelle controversiedella fine del sec. XV e del sec. XVI, «Arch. di filosofia» 1951).

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infatti, i tentativi più dichiaratamente umanistici in sen-so letterario non trovarono terreno adatto e degeneraro-no facilmente in una arida ricerca grammaticale. Il Ver-nia lodava il Barbaro per le versioni da Temistio e, for-se, per certi suoi interessi logici; ma né il Barbaro, né,poi, l’elegante ed erudito Niccolò Leonico Tomeo, ami-co e raccomandato del Bembo, si affermarono oltre unaristretta cerchia di letterati puri172. Mantenevano, al con-trario, vigore le discussioni di logica formale e di fisicadegli occamisti, che riusciranno a sedurre in giovinezzaanche il Pomponazzi. Ed erano vive le discussioni degliscotisti, fra cui emergeva il Trombetta, efficace polemi-sta; né mancavano i tomisti che a un certo momento cre-dettero di annoverare tra i loro anche il Pomponazzi. Ildomenicano Crisostomo Javelli da Casale, dopo la pub-blicazione del De immortalitate, rimpiangerà l’atteggia-mento del Pomponazzi come un tradimento («i moltissi-mi a te devoti... si stupiscono che tu abbia volto le spal-le a Tommaso, guida saldissima tua e mia...»). In real-tà il Peretto non fu ripetitore né di s. Tommaso, né diAverroè, e critico di Averroè lo ricorda il Contarini, co-sì come un altro suo allievo trascriveva nei suoi appun-ti gli scherni fatti a lezione contro «isti fratres truffaldi-ni, dominichini, franceschini vel diabolini». La filosofiaera per lui non dogma, ma aspra ricerca, che amava pa-ragonare all’avvoltoio che rode il fegato a Prometeo in-catenato. E il filosofare egli raffigurava come un perennediscuter se stessi, e combattere, e cadere in eresia (opor-tet enim in philosophia haereticum esse qui veritatem in-venire cupit). Proprio per questo egli irrideva i chiosa-tori, i ripetitori, quelli che Galileo chiamerà i trombettidell’altrui opinione.

172 Il Tomeo raccolse i suoi Dialoghi nel 1524 (ed. Venezia)e nel 1525 gli Opuscula. Gli scritti filosofici del Contarini, piùvolte stampati, sono raccolti nell’ed. veneta del 1588.

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Non a caso lo Speroni lo presenta critico acerbo diquanti, ai suoi giorni, «confidandosi solamente nella co-gnizione della lingua», hanno osato «por mano» ai li-bri d’Aristotele, «quelli a guisa degli altri libri d’umanitàpubblicamente esponendo».

Non diversamente dall’Achillini il Pomponazzi avevacominciato col trattare problemi di fisica e di logica, ri-prendendo la questione proposta in origine dagli occa-misti inglesi, e poi dibattuta a Parigi, e in Italia da Gae-tano di Thiene e dal Marliano, dei rapporti fra variazioniquantitative e qualitative (de intensione et remissione for-marum). Ma l’opera che per fervore di discussioni più loimpegnò uscì nel 1516 a Bologna come tentativo di risol-vere su un piano schiettamente razionale il problema del-l’immortalità. L’uomo, la sua natura ancipite, la sua cen-tralità, erano stati i grandi temi del ’400; ed anche Ficinoaveva dedicato al problema dell’immortalità dell’animail suo capolavoro. Pomponazzi vede la questione con unrigore estremo, connettendola con una sua chiara conce-zione dell’ordine naturale. «La natura – egli osserva unavolta – procede per gradi; i vegetali hanno già un po’ d’a-nima; seguono gli animali dotati soltanto di tatto, gusto,e indefinita immaginazione; vengono quindi gli animalitanto perfetti da sembrare dotati di intelligenza, che co-struiscono case e si organizzano in civili società, come leapi, tanto che un gran numero di uomini sembrano infe-riori ai bruti per intelligenza». Proprio la continuità re-ca con sé il concetto di medietà, di anelli congiungenti esintetizzanti. «Vi sono animali medî fra le piante e le be-stie, come le spugne marine, fisse a guisa di piante, masenzienti a mo’ di animali. V’è la scimmia, che non saise sia bestia o uomo; v’è l’anima intellettiva media fra iltemporale e l’eterno».

Senonché qui non poteva sfuggire al Pomponazzi ilcarattere nuovo di questa medietà, non più collocata fragradi diversi della natura, ma al confine fra natura e so-

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pranatura, fra necessità e libertà. Tutto il suo sforzo èvolto proprio a capire che cosa possa significare la par-tecipazione dell’anima al mondo sopranaturale. Ché egliè fieramente avverso soprattutto alla separazione plato-nica, e quindi, in fondo, averroistica, anche se dell’aver-roismo conserva tutta la spregiudicatezza critica. Troppisono i legami fra sentire ed intendere, né si può spiegarel’intendere senza un costante riferimento al sentire. «Ese l’essenza con cui sento fosse diversa da quella con cuiintendo, in che modo io che sento potrei essere colui me-desimo che intende? Ed è ridicolo il supporre che si trat-ti quasi di due uomini insieme congiunti le cui cognizio-ni siano corrispondenti». Non solo la separazione netta,ma una qualunque occasionalistica corrispondenza vienecosì disdegnosamente scartata.

Contro averroisti e platonici era naturale che Pompo-nazzi si accostasse così a Tommaso, che aveva ben sotto-lineato l’intrinsecarsi nell’uomo di forma e materia. L’in-fluenza di Alessandro di Afrodisia, così insistente nelproporre l’identità con Dio della luce intellettuale, è as-sai meno appariscente di quanto si sia spesso sostenuto,mentre i contemporanei, e in particolare avversari scal-triti come lo Javelli, si compiacquero di porre sul mede-simo piano Pomponazzi e il grande tomista Tommaso daVio. Anzi secondo lo Javelli nessuna distinzione, sul pro-blema dell’anima, si potrebbe fare fra i due173.

In realtà Pomponazzi critica l’Aquinate per aver con-cluso dalle sue premesse a un’anima «veracemente e as-solutamente immortale», laddove l’immortalità umanaè solo «impropria», come solo parzialmente slegato dalcorpo è l’intelletto, in quanto cioè ci si riferisca all’indi-pendenza relativa della sua funzione. Quando, metafo-

173 Quaestiones subtilissimae super tres libros Arist. de an.,Venetiis, 1552, fol. 131; v. THOMAS DE VIO, Scriptaphilosoph., I, Roma, 1938.

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ricamente, Pomponazzi parla di un profumo di immor-talità (odorat), vuol indicare appunto, nell’uomo, un’an-sia, un’esigenza, una ideale direzione, non un carattereposseduto, che sarebbe in sé assurdo e contraddittorio.Nell’ascesa di tutta la natura l’uomo è il culmine; ma làdove Pico faceva dell’uomo il limite, dinanzi al quale ilmondo naturale si inchinava come ad alcunché di supe-riore (sisti pedem, receptui canit), Pomponazzi pone l’uo-mo nei confini naturali, anche se proteso oltre. E nonsempre, ché talora leggiamo osservazioni ben amare: «setu esaminerai le regioni abitate, troverai che quasi tuttigli uomini sono più bestie che uomini, e rarissimi sonoquelli che sembrano razionali. Ed anche quelli raziona-li, non possono chiamarsi così in senso proprio, ma so-lo per confronto con altri sommamente bestiali, così co-me le donne non sono mai veramente sagge, ma solo inrapporto ad altre particolarmente sciocche».

Una separazione totale, come quella ammessa dai pla-tonici; una immortalità che concepisca la vita autonomadell’anima è, dunque, impossibile. Proprio perché me-dietà, orizzonte, l’anima non può essere staccata da quel-la realtà di cui è confine senza essere snaturata e falsata,resa inconcepibile nelle sue operazioni, che hanno biso-gno sempre di un dato sensibile.

Né il rifiuto dell’immortalità, o almeno della certezzarazionale dell’immortalità, può scuotere la moralità. Vir-tù e felicità, intimamente connesse, anzi aspetti diversi diuna sola realtà, sono la stessa armonia interiore. Il vizioche la spezza, se imbestia l’uomo, gli toglie insieme ognigioia («chi dunque, benché mortale, preferirà il vizio fa-cendosi con ciò bestia, anzi peggiore della bestia?»).

Con tutto ciò lo scritto del Pomponazzi finisce am-biguamente, su un problema neutro, ripetendo per l’im-mortalità press’a poco quello che S. Tommaso aveva det-to per l’eternità del mondo: «coloro che procedono perle vie della fede, rimangono fermi e saldi». Nel De nutri-

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tione, il più radicale degli scritti editi pomponazziani, incui qualcuno, esagerando, ha trovato un chiaro materia-lismo, leggiamo questa affermazione: «io credo vera se-condo Aristotele la divisibilità, non solo delle anime del-le piante e degli insetti, ma in genere di tutte quelle chesiano atto di una materia inferiore. E questo benché se-condo quella Verità [rivelata], che Aristotele non conob-be, l’anima umana debba considerarsi assolutamente in-divisibile. Il che, tuttavia, mi sembra debba porsi soloper fede, e non per ragione naturale... . La Chiesa, inve-ce, non si fonda sulle stoltezze dei filosofi, né sulla uma-na ragione, che è tutta avvolta di nebbie, ma sullo Spiri-to santo, sull’evidenza di indiscutibili miracoli; ora né leragioni né le parole d’Aristotele debbono farci abbando-nare questo santo proposito». Era sincero o ironico, qui,il Pomponazzi? O voleva soltanto accentuare la possibi-lità paradossale di fare appello oltre la chiusura terrena,a un atto di fede?

2. La polemica sull’immortalità

Troppo lungo sarebbe seguire in tutti i suoi sviluppil’ampia discussione cui dette luogo il libretto del Pom-ponazzi, bruciato pubblicamente in Venezia, vilipeso daipulpiti, maltrattato dalle cattedre. Scrivono contro di es-so e l’acre Ambrogio Fiandino e Bartolomeo di Spina eCrisostomo Javelli e il Fornari, ma, soprattutto, GaspareContarini e Agostino Nifo da Sessa174, cui il Pomponazzirisponderà coll’Apologia e col Defensorium. Le obbiezio-ni fondamentali vertevano tutte sulla possibilità, negatadal Pomponazzi, di sostanze separate. L’intelletto, che

174 Del Nifo cfr. oltre il De immortalitate animae, Venetiis,1525, il De intellectu, Venetiis, 1527 e il comm. al De anima,Venetiis, 1503.

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è conoscenza dei puri princìpi primi, delle forme slega-te da ogni materia, mostra con questa sua attività la falsi-tà della tesi per cui è impossibile un pensare indipenden-te dal fantasma sensibile. Inoltre, in quanto pura capaci-tà di tutto comprendere, l’intelletto respinge con questoogni legame con la estensione, ogni divisibilità. Non acaso il Contarini si richiama al famoso argomento di Avi-cenna dell’«uomo volante», caro anche al Ficino, volto adimostrare la pura spiritualità dell’anima. Mentre il Nifofaceva appello alle intelligenze celesti, ammesse da Pom-ponazzi, e proprio come agenti estrinseci (assistenti), insenso tipicamente platonico.

Che il Nifo fosse un confusionario chiacchierone è te-si antica, se già al Varchi pareva «che non solo in que-sto, ma in moltissimi altri luoghi abbia, senza giudizio oconsiderazione alcuna, detto tutto quello che gli veniva,non che nella mente, alla bocca; il che per avventura, glipotette avvenire non tanto dalla natura sua, quanto dal-la grandissima reputazione ed incredibile autorità». Re-putazione e autorità dovute poi ad una erudizione scon-finata e ad una produzione che non lasciò intentato al-cun campo, anche se, troppo spesso, i resultati rimase-ro piuttosto scadenti. Nella discussione sull’anima egliera stato scolaro del Vernia, aveva sentito forti influenzeaverroistiche, per finire in una certa separazione platoni-ca. Ma la sua funzione storica non fu in determinate dot-trine, che sarebbe impossibile fissare, bensì nella sua cul-tura, nell’avere idealmente collegate le scuole di Padovae Bologna con quelle di Firenze e Pisa, e poi di Napo-li e Salerno, onde il suo nome risuona, più che nelle di-spute de’ filosofi, nelle pagine di letterati come Galeaz-zo Florimonte, il buon Galateo, o come Torquato Tas-so, che gli dedicò due dialoghi sul piacere, ritraendo alvivo lo spirito mondano di quel divulgatore, per non di-re, platonicamente, rivenditore al minuto della filosofia.«Io, che filosofo sono – gli fa dire il Tasso – come So-

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crate non ho indorato le suole ai piedi, ma più tosto co-me Scipione [le ho] avvezzate alle pianelle, e agli agi del-le scuole greche». Averroismo fu per lui affermazione dispregiudicatezza, più che solida e seria posizione; tanto èvero che fu sempre pronto a diluirla in un platonismo dimaniera, perfettamente adattabile alle riunioni mondaneche preferiva al chiuso delle accademie.

Tutt’altro temperamento ebbe, anche se impegnatonegli stessi problemi, Simone Porzio, che insegnò fra Pi-sa e Napoli, e fu amico del bizzarro e dotto Giovan Bat-tista Gelli, scrittore, filosofo e calzolaio, che univa le ispi-razioni ermetiche della tradizione ficiniana al rigore scar-no del peripatetismo più puro175. Il Porzio fu veramentee rigorosamente alieno da ogni separazione dell’anima, eper questo combatté averroisti e simpliciani, e ad Ales-sandro di Afrodisia rimproverò l’identificazione con Diodella luce intellettuale. La mente, pur con la nobiltà del-le sue azioni, è opus naturae. L’aristotelismo se bene inte-so, non significa altro che questa rigida fedeltà alla natu-ra, questa chiusura dell’uomo nei limiti terreni. Di qui ilcontrasto con quel Jacopo Antonio Marta, discepolo delNifo, che, polemizzando col Porzio, e più tardi col Te-lesio, volle ancora trovare un appoggio alla religione inAristotele.

In realtà una rigida classificazione di precise correnti,che pure è stata spesso vanamente tentata, nei riguardidel problema dell’anima, è cosa impossibile. Né si pos-sono isolare i seguaci di Temistio, di Simplicio o d’A-verroè, quelli d’Alessandro, quelli d’Avicenna, i tomistie così via, anche se, volta a volta sentiamo parlare di sim-pliciani o d’averroisti, di tomisti e d’alessandristi. Abbia-

175 SIMONIS PORTII NEAPOLITANI De humana men-te disputatio, Florentiae, 1551 (la trad. it. del Gelli in un ms.della Naz. di Parigi). Gli «opuscoli» del Porzio con l’Apologiadel MARTA, Neapoli, 1578.

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mo visto Pomponazzi apparire agli uni seguace ortodos-so d’Alessandro d’Afrodisia, e allo Javelli, domenicano eplatonizzante, nella identica posizione del più grande to-mista del ’500, il De Vio. In realtà le varie denominazio-ni sono solo bandiere di battaglia, ed hanno un significa-to puramente polemico. Così un Giulio Castellani, che siprofessa ammiratore e seguace del Porzio, che dichiarainsieme di accettare il commento di Alessandro di Afro-disia, e la posizione di Pomponazzi, ma che ama Ficinoe Platone, e a un tempo imita Vincenzo Maggi peripate-tico ortodosso, in sostanza vuole soprattutto rivendica-re alla filosofia una precisa indagine psicologica che mo-stri lo svolgersi dal sensibile dell’attività di pensiero, sen-za preoccupazioni religiose. Ed infatti la sua critica di-chiarata va contro i simpliciani di Padova e gli averroi-sti, in quanto separano, e cioè staccano, platonicamen-te, un mondo spirituale dalla natura. E la sua condan-na non risparmia un suo parente, Pier Niccolò Castel-lani che, traducendo la plotiniana Theologia Aristotelis,aveva in qualche modo fornito nuovi argomenti alla tesidella separazione176.

D’altra parte, se ai seguaci d’Alessandro gli averroistisembravano troppo inclini alla trascendenza per la sepa-razione estesa all’intelletto possibile, e quindi per un cer-to platonismo, gli averroisti a loro volta si ponevano, difronte ai tomisti, come campioni di un pensiero liberoe critico. Il Varchi, che aveva non poche tenerezze perAverroè, discutendo dell’anima, affermava: «la presen-te materia, oltra l’essere dubbiosa e malagevolissima disua natura, è stata trattata da tanti tanto scuramente e di-versamente, che né anco quelli che sono stati molti anniper molti studii osano di favellare sicuramente: anzi que-

176 G. CASTELLANI, De humano intellectu libri tres, Bo-noniae, 1561. Cfr. del Varchi la lezione Sulla creazione ed infu-sione dell’anima razionale, Opere, II, pp. 311 sgg.

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sta è quella cosa, della quale chi più sa, meno ardisce diragionarne».

3. Jacopo Zabarella

In verità il problema dell’anima si complicava variamen-te; nato come questione intorno all’immortalità, se si po-tesse dimostrare razionalmente, si sviluppava imponen-do la soluzione di problemi gnoseologici e psicologici.Ma non vale cercare le molteplici venature nei troppiprofessori che stamparono o lasciarono manoscritte le lo-ro lezioni dallo Zimara, l’averroista di stretta osservanza,al Bacilieri o al Bernardi mirandolano, al simpliciano Pa-sero detto il Genova, al gran Pendasio, al Burana, al Vi-mercati e al Montecatini, a Vito Piza o al Piccolomini, alCremonini o al Liceti, per non dire dei più oscuri ancora.Più utile ripercorrere con Jacopo Zabarella le tappe prin-cipali della disputa, da lui magistralmente esaminata edillustrata177. L’antitesi fondamentale Platone-Aristotele siè, secondo lui, ripetuta in Alessandro e Averroè. Per l’a-verroismo, infatti, l’anima è forma assistente, e cioè unarealtà compiuta in sé e per sé, atto in atto («quella di-cesi forma assistente che, quasi stando presso l’oggettoper guidarlo, non solo è separabile, ma è separata e divi-sa dalla materia, a cui non dà l’essere, come il nocchie-ro che è nella nave è separato dalla nave, perché è estra-neo all’essenza della nave»). I seguaci d’Alessandro, alcontrario, pongono l’anima come forma informante, chenella nave è la natura stessa di nave, e nell’uomo la spe-cie, vivente nell’individuo concreto. Insomma, secondoZabarella, le polemiche intorno all’aristotelismo circa l’a-nima ripetono le difficoltà del platonismo, mentre si af-

177 JACOBI ZABARELLAE De rebus naturalibus libriXXX, Venetiis, 1590.

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frontano aristotelici genuini e platonici camuffati da ari-stotelici.

Lo stesso equivoco insidioso rinasce nel problema del-l’intelletto quando la separazione platonica si riaffaccia astaccare ora questo ora quell’intelletto, dilacerando l’a-nima e riaffermando la separazione stessa. Ponendo congli averroisti l’intelletto possibile separato, nel rapportodel nocchiero alla nave, porremo insieme l’atto dell’in-tendere come transiens, o accidentale, rispetto all’uomo,non come immanens, o essenziale. Gli averroisti parla-no, è vero, di una connessione obiective dell’intelletto al-l’uomo, perché intendere non si può se non attraverso lasensibilità; ma, incalza Zabarella, in tal caso è come direche, poiché il nocchiero vede la nave, la nave stessa, ol-tre che vista, è anche veggente. Né val più, a favore dellaseparazione, la considerazione che l’intelletto pensa gliuniversali che sono disgiunti del tutto da ogni materia.Disgiunti, in questo caso, vuol dire astratti, e l’astrazionesignifica una separazione secundum operationem, non se-cundum esse. E questo significa che v’è nell’uomo un’at-tività distinta, ma non staccata, dalle modificazioni orga-niche. Così come può dirsi che l’anima è nocchiero, nonnel senso che sia staccata dal corpo, ma nel senso che do-mina gli organi, li modifica e li indirizza, unità immanen-te all’organismo e che fa, dell’organismo, appunto un or-ganismo. La separazione di cui parla Aristotele non è,dunque, un assoluto distacco platonicamente inteso, maè l’indicazione di un rapporto. Il processo conoscitivo,insomma, è processo autonomo, in cui dalla sensazionesi ascende all’intelletto senza interventi esteriori.

La chiarezza dello Zabarella, lucida mentalità logica,cercheremmo invano nei suoi successori, e non solo nelPiccolomini, sempre incerto fra Aristotele professato ePlatone nascostamente amato, ma anche nel celebre Ce-sare Cremonini da Cento, scolaro del Pendasio, amicodel Tasso e del Patrizi, collega di Galileo, uomo senza

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dubbio rispettabile per la fierezza con cui difese, con-tro insidie e minacce e critiche, la sua fede nella ricercarazionale. All’Inquisitore sapeva rispondere: «quanto almutare il mio modo di dire, non so come potrei io pro-mettere di trasformar me stesso. Chi ha un modo, chi unaltro. Non posso né voglio ritrattare le esposizioni d’A-ristotele perché l’intendo così». Anch’egli dissente dagliaverroisti che intendono l’anima forma assistente, ma re-sta poi incerto col Nifo alla definizione dell’anima-formache usa del corpo come di uno strumento (utens corporepro instrumento ad varias operationes). Né più di lui valeun Liceti, sulla cui debolezza speculativa ha gettato an-cora una volta uno sprazzo di notorietà solo il rapportocon Galileo.

In sostanza la lunga discussione sull’anima e sull’intel-letto, che occupa tanta parte dell’aristotelismo italiano,spostava, ma non mutava, il tema impostato dai platoni-ci. L’anima è l’estremo della natura; ma è cosa compre-sa nel mondo naturale, ed è quindi mortale, e legata al-le vicende fisiche; oppure tutto il suo operare, conosci-tivo ed etico, la sua ancipite essenza, la pongono in unaposizione irriducibile al piano naturale puro e semplice?Il problema, che si presentava in termini gnoseologici emorali, era nella sua profondità metafisico. Ora l’incer-ta posizione di tutto l’aristotelismo, percorso e insidiato,non solo dall’immanente platonismo, ma dal neoplatoni-smo arabo e dalle interpretazioni cristiane, era incapacedi sviluppare coerentemente quella direzione naturalisti-ca cui sembrava più legato178.

178 Per i testi sull’anima dei minori aristotelici cfr. E. RE-NAN, Averroës et l’averroisme, Paris, 1852. F. FIORENTI-NO, Pietro Pomponazzi, Firenze, 1868; K. WERNER, DerAverroismus in der christlich-peripat.Psychol. d. späteren Mit-telalters, Wien, 1881. L. MABILLEAU, Etude historique surla philosophie de la Renaissance en Italie. C. Cremonini, Paris,1881; B. Nardi, La fine dell’averroismo, in «Pensée humaniste»

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4. Il problema religioso nell’aristotelismo

Dove, tuttavia, l’aristotelismo ci appare più fecondo è aldi fuori dei problemi classici in cui si suole, invece, col-locare. È, forse, nelle discussioni di logica e di metodo,nella morale e nella politica. Qui, nell’adesione fedele al-la realtà sinceramente descritta, gli aristotelici sono vera-mente spiriti sottili. Così Pomponazzi non è certo me-no grande nel De incantationibus o nel De fato, opere diuna non comune arditezza e di un’innegabile profondi-tà, eppure tanto meno celebri del De immortalitate. NelDe incantationibus si propone il problema del sopranna-turale, della possibilità di interventi di un ordine diversosul piano naturale. In un luogo anche troppo famoso deiDiscorsi sulla prima deca di Tito Livio Machiavelli discu-te delle varie religioni esclusivamente in rapporto alla lo-ro efficienza pratica, politica. Nell’ambito di una visio-ne esclusivamente terrestre l’appello al cielo è considera-to, anch’esso, un fenomeno puramente mondano, inte-ressante nei suoi aspetti sociali, innegabili e vastissimi.

Pomponazzi è spirito per più lati affine al Machiavel-li. Entrambi considerano solo la terra, e nell’uomo vedo-no sì un mirabile costruttore, ma sempre e soltanto unacreatura terrena, chiusa nel limite terreno, oltre il qualenon escludono la possibilità di una fede, assolutamentegratuita, completamente slegata dalla ragione, anche seinteressante l’indagine razionale per i fenomeni concre-ti attraverso cui si ripercuote nella nostra vita mondana.E come Machiavelli esamina quelle ripercussioni sul pia-no politico, Pomponazzi le considera da un punto di vi-sta psicologico, logico e fisico: in che modo, insomma, ilfatto religioso incide sulla natura umana, e la trasforma;

cit., pp. 139-151. Singolare, del Cremonini, in un Marc. lat., laQuaestio utrum animi mores sequantur corporis temperantiam.

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che valore hanno le affermazioni di influenze miracolosedi cause soprannaturali? La risposta del De incantationi-bus è chiarissima: «noi possiamo salvare ogni esperien-za mediante cause naturali, né v’è ragione alcuna che cicostringa a far dipendere da démoni taluni fenomeni. Èinutile dunque introdurli; ed è ridicolo e fatuo abbando-nare l’evidenza e la ragione naturale per andare a cercarequello che non è né verosimile né razionale».

Tutto il complesso dei miracolosi interventi può essereagevolmente ricondotto nell’ambito delle cause naturali,o, meglio, è miracoloso né più né meno di quello chemiracolose sono tutte le altre connessioni causali. Nonsi spiegano i miracoli come non si spiega perché il cantodel corvo produca sventura, come non si spiega perchéun’erba guarisca una malattia (sicut ignoramus per quamnaturam sciammonium purget bilem). Ove Pomponazzici mette davanti a uno dei suoi tipici capovolgimenti:tutto rientra nell’ordine dell’esperienza e della ragione;tutto è spiegabile, tranne questa stessa spiegazione. Ein questo margine egli lascia ancora una volta aperto ilcammino a Dio. Astri e simboli religiosi agiscono inmodo naturale, come naturalmente agiscono le formulemagiche e le immagini astrologiche; solo che «la Croce èefficace unicamente come segno di quel Legislatore, cheanche gli altri rispettano».

Uguale paradosso noi troviamo nel De fato, posto alcentro del conflitto fra il contingentismo di Alessandrodi Afrodisia e la universale necessitazione stoica. Anchequi Pomponazzi sembra prima propendere per la posi-zione dello stoicismo («l’opinione stoica appare moltoprobabile»), per rifiutarla poi riammettendo per il sa-piente, «divinità terrena», una pienezza di libertà. Sul-le bestie umane, dominate dalle leggi di natura, si levanoi pochi saggi che, trasformando la condanna in una re-denzione, si sollevano sulla natura incrinandone irrime-diabilmente la compattezza.

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Quando lo Speroni, legato in tanti modi al Peretto, op-porrà, nel dialogo sulla retorica, al filosofo solitario, as-sorto in metafisiche contemplazioni, il retore a «civile»,senza rendersene conto distinguerà fra una visione scola-stica tradizionale della filosofia come metafisica sistema-tica, e un’operosa riflessione impiantata sulla vita, e vol-ta a modificare la vita stessa. E, in questo senso, in par-te inconsapevolmente, si impegnava il Pomponazzi me-desimo.

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LOGICA, RETORICA E POETICA

1. Problemi logici e metodologici

Se dalle cattedre universitarie più spesso si attendeva unaparola intorno alle questioni psicologiche, intorno allequali sembrava quasi annodarsi ogni più grave problemametafisico e religioso, non meno impegnative erano lediscussioni logiche, che vedevano a fronte gli ortodossiaristotelici e quanti, invece, sentivano, attraverso temiretorici e grammaticali, farsi avanti l’esigenza di unadisciplina del pensiero più aderente alla concretezza delpensare. In un luogo della prima giornata dei Massimisistemi Galileo mette in bocca al Salviati una condannadella logica formale, come «strumento» che diventa finea se stesso. «La logica è l’organo col quale si filosofa»;ma «il suonar l’organo non s’impara da quelli che sannofar organi, ma da chi sa sonare; la poesia s’impara dallacontinua lettura de’ poeti; il dipignere... col continuodisegnare e dipignere; il dimostrare, dalla lettura deilibri pieni di dimostrazioni, che sono i matematici solie non i logici». Insomma, a nulla giova la discussione suastratti schemi dimostrativi, che restano sterili e vuoti. Equesta non era solo condanna di un metodo, ma di unafilosofia, «quella muta e oziosa filosofia, della quale sipuò dire, come della fede, che senza l’opera è morta».E operare significa, in queste parole di Stefano Guazzoavere una cognizione feconda, e capace di agire nellacivile «conversazione»179.

179 La civil conversatione del Sig. STEFANO GUAZZO,gentiluomo di Casale di Monferrato, divisa in quattro libri...nuovamente dall’istesso autore corretta e ...ampliata, Venezia,

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Insomma, la logica deve essere consapevolezza criticad’un pensare in atto. Assai prima del Galileo l’aveva det-to con eloquenza Alessandro Piccolomini, che di logicascrisse a lungo e più volte, sempre sostenendo che «tuttele scienze sono da imparare insieme in un certo modo mi-schiate e ligate, in guisa che l’una ha bisogno alcuna vol-ta dell’altra»180. Proprio per questo, «quantunque una diquelle scienze, al giudicio di tutti, sia prima, nondime-no, quando quelle ancora, che seguono dopo lei, si sa-ranno apprese, quella prima parimente, quantunque in-nanzi appresa fusse, tuttavia diventerà perciò più perfet-ta». Né mai il Piccolomini si stancherà di ripetere che èvano disperdersi «dietro alle inutili e minute questioncel-le» dei logici occamisti, non avendo valore alcuno il di-sputare per disputare. «Laonde molte volte mi vien pietàdi coloro che, nell’età pochi anni addietro alla nostra, negli studii delle lettere s’essercitavano conciosiaché... dal-la verità sempre si dipartivano, alla quale per proprie ediritte strade, non per torte e rimote, fa mestieri che ven-gan coloro che, non il vero per dubitare e per contende-re, ma il dubitare per trovare il vero s’ingegnano d’andarcercando». Che era un sottolineare il momento inventi-vo rispetto al dimostrativo e, in fondo, uno svalutare lalogica confinata, secondo quanto altrove lo stesso Picco-lomini aveva detto, alla dimostrazione, spettando ad al-tre scienze l’invenzione e la definizione. Esaminando in-fatti in un suo opuscolo del 1547 la validità della mate-matica, aveva riservato alla logica propriamente detta idue metodi risolutivo e compositivo come strumenti didimostrazione, sostenendo che solo per accidens spetta

1586, pp. 16, 19, 24. Del Guazzo cfr. anche le Lettere, Torino,1591.

180 ALESSANDRO PICCOLOMINI, L’istrumento dellafilosofia, Venezia, 1560; Della institution morale libri XII, inVenetia, 1582, pp. 125, 133.

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alla logica stessa l’invenzione. Laddove, per esempio, ilVarchi, dissertando del metodo, ed identificando logicae dottrina del metodo, comprenderà «sotto questo nomecosì la Topica..., o vero l’invenzione, come la giudiziale,cioè la Dimostrativa», definendo poi in genere la logicacome «quella o scienza o arte o più tosto facoltà, la qua-le sola ne mostra la via e ne guida così a tutte le scienzecome a tutte le arti»181.

Comunque, mentre generale era la riprovazione dellesottigliezze dei terministi che avevano imperversato finoai tempi del Pomponazzi, l’attenzione si volgeva semprepiù verso l’invenzione, e si sottolineava il momento ana-litico o risolutivo, come mezzo prezioso per giungere al-la definizione. E basta, in proposito, prendere il Tratta-to dell’istrumento e via inventrice degli antichi del plato-nizzante Sebastiano Erizzo per trovarvi solennemente af-fermato come «per mezzo della divisione noi ritroviamoquello che più nelle cose importa, che sono tutte le dif-ferenzie loro essenziali, delle quali la definizione si com-pone». Non solo, ma la risolutiva, com’egli dice, è viaunica dell’invenzione; né a caso si riferisce a Galeno e al-le scienze naturali. «Sì che non bisogna traviare da que-sto sentiero, che la divisione sia istrumento e via – che èquello che i Greci dicono metodo – inventrice delle co-se. Né si può in alcun modo dire che per questa non siacquisti l’invenzione».

Ed a Galeno e all’esperienza e all’utile, e ad una ne-cessità di rinnovare vecchi schemi insufficienti, fa appel-lo nel suo opuscolo De methodo anche Giacomo Acon-cio, di cui è pur notevole, di nuovo, la preferenza da-

181 A. PICCOLOMINI, In mechanicas quaestiones... comm.de certitudine mathem. discipl., Romae, 1547, p. LXXIII; v.VARCHI, Opere, II, p. 797.

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ta al processo risolutivo, come unico efficace strumentoinventivo182.

2. Zabarella e le polemiche padovane

Al Varchi, nelle Lezioni già ricordate, pareva oziosa di-stinzione, a proposito della logica, il domandarsi se siascienza o arte. Non così ai maestri padovani, tra i qua-li lo Zabarella giungerà in proposito a conclusioni vera-mente interessanti. Per oltre mezzo secolo, commentan-do Aristotele e Averroé, i professori di Padova si eranoaffaticati a determinare i processi che dagli effetti porta-no alle cause, e, di nuovo, dalle cause agli effetti. Il To-mitano, grammatico e retore insigne, aveva insistito sulfatto che la scienza della natura procede dagli effetti al-le cause, mentre il movimento dall’universale al partico-lare (sillogistico) è caratteristico nella sistemazione di unsapere già acquisito. Il regresso, che non è che l’induzio-ne, costituisce tutta la forza della ricerca costruttiva (in-quisitio). Il ritmo caro a Galileo di analisi-sintesi era giàformulato con molta chiarezza.

Lo Zabarella era scolaro del Tomitano e, come logi-co, ebbe a più riprese a sostenere vivaci polemiche, frale quali, innanzitutto, deve ricordarsi quella con France-sco Piccolomini, della cui posizione, incerta fra Aristote-le e Platone, già s’è detto. Lo Zabarella distingueva frametodo e ordine, indicando con metodo, a cui dava lamassima importanza, il momento inventivo, il passaggiodal noto dell’esperienza all’ignoto della causa, laddovel’ordine non significava per lui che un semplice proces-

182 S. ERIZZO, Trattato dell’istrumento e via inventrice degliantichi Venezia, 1554; Lettere di XIII huomini illustri, pp. 620-25; GIACOMO ACONCIO, De methodo e opuscoli, ed., G.Radetti, Firenze, 1944, p. 166.

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so giustificativo secondario. Per il Piccolomini, al con-trario, fondamentale è l’ordine, rispecchiamento in noidella struttura data da Dio alle cose, e quindi riprodot-ta nel pensiero (constitutio quaedam divina ad unum pri-mum caput et ducem relata). Con tono non diverso il Var-chi, trattando appunto dell’ordine rispetto al metodo, ri-corda come «di tutte le arti e di tutte le scienze sono i se-mi in noi, e i princìpi da Natura, e chi insegna o apparaalcuna cosa deve sempre seguitare lei». In altri termininon solo la logica è metafisica, ma tutta la trama obbiet-tiva della realtà è presupposta nella mente.

Zabarella, al contrario, non solo batte sulla distinzio-ne, che abbiamo visto sottolineata anche da AlessandroPiccolomini, di invenzione e dimostrazione, ma nega chela logica sia scienza; che abbia, cioè, come oggetto la real-tà. La logica è una tecnica, un’arte umana, che serve allacostruzione del sapere scientifico183. «La logica – egli di-ce – riguarda nozioni seconde, termini, che sono inven-zioni nostre, e possono non esistere. Non sono cose ne-cessarie, ma contingenti, e perciò non se ne ha scienza,perché la scienza è solo delle cose necessarie». Gli uomi-ni creando le intenzioni seconde (concetti) l’hanno crea-ta, ma essa ha un posto analogo alla grammatica.

Proprio su questo punto, anzi, lo Zabarella, o, meglioil suo scolaro Ascanio Persio ebbe una vivace polemicacol vecchio logico Bernardino Petrella (e col suo allie-vo Giulio Marziale, se non è questo uno pseudonimo delPetrella stesso). Il Petrella, infatti, sostenne con molta te-nacia esser la logica scienza, ed aver per oggetto non ter-

183 Cfr. ZABARELLA, Opera logica, Francoforte, 1608;FR. PICCOLOMINI, Universa philosophia de moribus, nellaed. di Venezia, 1594 (gr. I, cap. XIV-XXIV; Comes politicus,pro recta ordinis ratione propugnator...) PERSIO, Defensiones;PETRELLA, Quaestiones logicae, Patavii, 1571 e 1576; delVarchi cfr. Del methodo, Opere, II, pp. 796 sgg.

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mini, ma puri concetti; non seconde intenzioni ma primenozioni. Ed è sommamente istruttivo notare come il Pe-trella si trovasse poi nell’impossibilità di passare dal suomondo di concetti entificati alla realtà fisica, mentre ana-lisi e sintesi si riducevano a un circolo vizioso tra formeastratte e vuote. Per lo Zabarella, invece, il processo lo-gico è strumento che mira, oltre i termini, alle cose signi-ficate, e intende ad esse. Il metodo mira a guidare e sor-vegliare i processi cogitativi, le ricerche fisiche e metafi-siche nella loro indagine dal noto all’ignoto. Non è piùun moto di scomposizione e ricomposizione di nozioniastratte, ma un passaggio dai fatti alle cause e dalle cau-se ai fatti. Non si tratta di un ragionamento geometrico,in cui nel soggetto è contenuto il predicato, ma di unavenazione di concetti dove la logica chiarisce le guise ele astuzie della caccia (instrumentum est ipsa via divisivavel compositiva, per quam docet... quomodo praedicata ve-nari debeamus, et horum venatio est venatio ipsius defini-tionis ignotae). Ora il metodo non è che la tecnica dellacaccia all’ignoto (non disponit scientiae partes, sed a no-to ducit nos in cognitionem ignoti). E questo metodo ve-natorio, o inventivo, è ritmato in due momenti: regres-so risolutivo dall’effetto alla causa; processo compositivoper cui dalla causa vediamo generarsi l’effetto (produce-re et generare finem illum possumus). La cosa è ritrova-ta nel suo segreto rapporto di sé a sé; è approfondita e il-luminata in se stessa. «L’induzione non prova una cosamediante un’altra; in certo modo essa rivela la cosa attra-verso la cosa stessa. E poiché la cosa è meglio conosciu-ta come particolare che come universale, perché è sensi-bile come particolare e non come universale, l’induzioneè un processo, che va dalla cosa alla cosa medesima; dal-la cosa nell’aspetto più ovvio, alla cosa nell’aspetto piùoscuro e riposto. Così per induzione non si conosconosolo i princìpi delle cose, ma anche i princìpi dello stessosapere scientifico che si dicono indimostrabili». La logi-

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ca, come movimento intimo onde la cosa è compresa nelriferimento a sé, e nella riflessione, non poteva esser col-ta più chiaramente. Né il metodo galileiano poteva es-ser meglio chiarito. Nella lezione LXVI della Dialetticadel Cremonini, raccolta dal suo scolaro Troilo Lancetta,l’avversario di Galileo definiva: «ordo compositivus in-cipit a principiis et progreditur per ipsa ad rerum cogni-tionem; ordo vero resolutivus incipit a fine, et ipsius ha-bita praecognitione progreditur ad ea considerando perquae talis finis haberi possit»184.

3. Logica e retorica. Mario Nizolio

Filosofo senza dubbio molto penetrante fu Zabarella; ep-pure, nonostante il suo acume, egli ha dell’antico mol-to più di un grammatico quale Mario Nizolio, che neiquattro libri del De veris principiis et vera ratione philo-sophandi, stesi contro il Maioragio, ma in realtà volti a di-struggere quanto restava del vecchio schematismo logicoaristotelizzante, mirava a delineare i processi viventi delpensiero colto nel suo ritmo, al di fuori di ogni cristal-lizzazione di idee o di universali fittizi. Il suo tentativo,perché non fu che un tentativo, ma pur degno delle lo-di e dell’ammirazione di un Leibniz, voleva presentare lepulsazioni della mente nei suoi rapporti con le cose e congli uomini, sorprendendo l’unità del processo che animacosì la comunicazione linguistica, come tutte le struttureconoscitive. Per questo, secondo il Nizolio, bisogna libe-rarsi innanzitutto da ogni soprastruttura fittizia – univer-salia stulta et inepta – e ritrovare la purezza nostra e dellecose nella verginità dell’espressione linguistica, traduzio-

184 CAESARIS CREMONINI CENTENSIS... Dialectica,addita in fine singularum lectionum paraphrasi a Troylo deLancettis, Venetiis, 1663, p. 89.

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ne spontanea del rapporto fondamentale dell’uomo colmondo185.

Non conviene infatti dimenticare l’iniziale dichiara-zione del Nizolio sulla ridicola futilità delle ricerche chenon si rivolgano alla morale, alla politica e all’economia;alle «scienze mondane», insomma. Né può trascurarsi,quando si legga nel primo suo principio generale del fi-losofare che alla base di tutto deve trovarsi la conoscen-za delle lingue greca e latina, essere per lui tali lingue l’e-spressione concreta ed esemplare della direzione origi-naria dello spirito umano. Per cui lo studio grammatica-le e retorico, subito dopo raccomandato (sine quibus om-nis doctrina prorsus est indocta, et omnis eruditio inerudi-ta), non è che la presa di contatto con l’articolarsi effetti-vo dell’interiorità umana, con i suoi ritmi, con i suoi pro-cessi: «logica reale» e non «formale». Ed ecco, infatti,subito, la critica alla metafisica, preoccupata solo di unaverità vuota, indifferente a ogni indagine de utilitate et depertinentia rerum, quasiché sia possibile parlare di verità,quando si prescinda da quel concreto e umano rappor-to in cui, soltanto, la verità è vera (quasi nihil intersit, re-

185 M. NIZOLII De veris principiis et vera ratione philoso-phandi contra pseudo-philosophos libri IV, in quibus statuunturferme omnia vera verarum artium et scientiarum principia... etpraeterea refelluntur fere omnes M. A. Majoragii obiectationescontra eundem Nicolium, Parmae, 1553. Com’è noto lo scrit-to fu ripubblicato da Leibniz con introduzione e note, Franco-forte, 1671 (Antibarbarus philosophicus, sive Philosophia scho-lasticorum impugnata libris IV de veris ecc.). Sul Nizolio latini-sta cfr. P. MANUTII Epistularum libri V, Venetiis, 1561, cc.35-36. (Del De veris principiis del Nizolio abbiamo ora la bel-la ed. di Q. Breen, 2 voll., Roma, 1956; sul N. v. gli studi delBreen stesso e i due saggi di Paolo Rossi, nei volumi miscella-nei La crisi dell’uso dogmatico della ragione, a cura di A. Ban-fi, Milano, 1953, e Testi umanistici sulla retorica, «Archivio difilosofia», 1953, pp. 57-92).

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rum quae traduntur, esse non solum non falsas sed etiamnon inutiles, non supervacuas, nec impertinentes).

Unica vera scuola filosofica la lettura dei grandi classi-ci, continua e penetrante, per comprendere la loro paro-la; e, a un tempo, la comprensione del linguaggio uma-no comune (intelligentia communis usus loquendi tum eo-rum, tum etiam populi). Comprensione, questa, che solol’esperienza può dare, poiché ci muoviamo, qui, sul ter-reno della libera creazione umana, completamente auto-noma. In questa adeguazione di sé alla coscienza degliuomini, in questa civile conversazione, scopriremo vera-mente il nostro segreto, e il senso e il valore dell’umanitànelle sue relazioni (veram sapientiam veramque eloquen-tiam). E quello stesso appello iniziale ai classici perderàqualunque equivoco sottinteso di abdicazione alla pro-pria libertà; sarà null’altro che un mezzo per ritrovare lapropria verità. Dichiaratamente il Nizolio, nel suo quar-to principio, riafferma la piena indipendenza d’indagine(libertas et vera licentia, sentiendi ac indicandi de omni-bus rebus), proprio in omaggio al vero (ut veritas ipsa re-rumque natura postulat). Oltre ogni autore, al di sopradi Platone e d’Aristotele, restano, unici e veri maestri, isensi, il pensiero e l’esperienza.

Né, d’altra parte, la comprensione scientifica dellarealtà significa il rifugio in nebulosi universali, ma l’a-derenza al reale singolo, afferrato nel suo intimo rappor-to di sé con sé e con i reali dello stesso genere. Il Nizolioinsiste in una polemica mai interrotta, opponendo all’a-strazione che finge, oltre gli enti, altri enti fittizi, la com-prensione con cui la mente afferra, simul et semel, sin-gularia omnia cuiusque generis. La quale comprensionepoi, come dirà altrove, lungi dal perdersi per entro le nu-bi dell’astrazione, resta aderente al senso e alla coscien-za. Insomma, alla logica aristotelica si vuol sostituire unanuova logica che nasca per entro gli effettivi moti dellainteriorità umana, e ne costituisca la concreta consape-

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volezza critica. E poiché lo studio dei poeti, e in generedel linguaggio, fa presente un vivo articolarsi espressivo,che insieme traduce e suscita moti reali dell’animo, e at-tinge la profondità del mondo quale si rivela nei rappor-ti con l’uomo, attraverso i comportamenti che nell’uomosuscita, ecco che la nuova logica, lungi dal modellarsi suiprocessi matematici, vuole impiantarsi sui processi effet-tivi con cui la mente comunica con le menti e intende einterpreta la realtà186.

186 Op. cit., I, 7: «respondeo tibi, domine Aristotele, etiamsi nulla erunt universalia stulta et inepta, ut vere non sunt, ta-men artes et scientiae et definitiones tradentur et erunt de sin-gularibus et individuis..., non per naturam propriam et priva-tam, sed per communem et perpetuam successionem aeternis,nec de omnibus singillatim et seorsum, sed in universum veluniverse, hoc est simul et semel acceptis... Vestrum universa-le fit per fictam illam et vanam, ut vos appellatis, intellectusabstractionem a singularibus... Nostrum vero universum effi-citur per comprehensionem et acceptionem omnium cuiusquegeneris singularium simul et semel, sine ulla intellectus a sin-gularibus abstrahentis ope, sed solo intelligentiae singularia ip-sa comprehendentis auxilio... Vestrum universale licet per na-turam existat in singularibus, tamquam nubes quaedam in aerependens, ubi sunt ideae Platonis...; nostrum universum et pernaturam est singularibus, et per intellectum non separatur a sin-gularibus, non magis quam populus et exercitus cum intelligun-tur a nobis et omnino ipsum nihil aliud est, nisi ipsa singulariasimul et semel per intellectum comprehensa et quasi congrega-ta... Vestrum universale vos, non solum ab intellectu solo fie-ri, sed etiam ab intellectu solo cognosci ac percipi vultis, ab ex-terioribus vero sensibus nequaquam. Nostrum universum, licetipsum quoque ab intellectu quodam modo fiat, ita comprehen-dente, ut dixi, simul omnia singularia, et ab eodem cognosca-tur intelligaturque, utpote ab ipso comprehensum, tamen per-cipitur et usurpatur etiam a sensibus tam esterioribus quam in-terioribus, si non omnino, at certe magna ex parte». Cfr. III,7, la definizione di comprehensio: «actio quaedam sive operatiointellectus nostri, qua mens hominis singularia omnia sui cuiu-sque generis, simul et semel comprehendit, et de eis ita compre-

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4. La retorica e la «civile conversazione»

Nella posizione di Nizolio rifluiva tutta l’esperienza del-l’umanesimo, e il senso che, se all’uomo conviene il mon-do umano, è ancora una logica umana, dell’umana e ci-vile conversazione, quella che bisogna formulare. On-d’è che l’attenzione si rivolge al linguaggio come mani-festazione esemplare dell’umanità. Stefano Guazzo, neisuoi dialoghi su La civile conversazione, usciti la primavolta nel 1574, afferma appunto che «la medesima natu-ra ha dato la favella all’uomo, non già perché parli secomedesimo, ...ma perché se ne serva con altri; e voi vede-te che di questo istromento ci serviamo in insegnare, indimandare, in conferire, in negociare, in consigliare, incorreggere, in disputare, in giudicare, in isprimere l’af-fetto dell’animo nostro, co’ quali mezzi vengono gli uo-mini ad amarsi, e a congiungersi fra loro». Ma la linguanon è solo il tessuto connettivo dell’umana società; è lavivente tradizione del sapere umano, per cui la scienza sirealizza e si trasmette: «non si può ricevere alcuna scien-za, se non ci è insegnata da altrui...; la conversazione ènon solamente giovevole, ma necessaria alla perfezionedell’uomo».

Anzi principio e fine d’ogni sapere è proprio questodialogo umano («il sapere comincia dal conversare e fi-nisce nel conversare»), in cui non solo si mette a pro-va il nostro sapere («la disputa è il cribro della verità»),ma si sveglia l’anima nostra, e si incita a feconda ricerca.Umanità, anzi, è questo conversare, questo parlare, que-sto dialogo, che in sé riassume ogni concreto significatodella vita spirituale. «Si potrebbe dar l’elleboro al solita-rio come al pazzo, e qualunque persona avrà riguardo...

hensis artes omnes et scientias tradit ratiocinationes et ceterasargumentationes generales facit».

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all’etimologia della voce uomo, che nella lingua greca, se-condo il parere d’alcuni dotti scrittori, significa insieme,s’accorgerà che non si può essere uomo senza conversa-zione, perché chi non conversa non ha esperienza, chinon ha esperienza non ha giudicio, chi non ha giudicio èpoco men che bestia»187.

Sottinteso alla trattazione modesta ma fortunata delGuazzo, menzionata qui quasi come esemplare, è l’altroproblema del rapporto fra retorica e filosofia, fra una lo-gica formale e il vario vivente processo per cui la veri-tà s’ingenera e si comunica. Problema che forse nessuntrattatista propose e chiari con la lucidità dello Speroni,non a caso uscito dalla scuola del Pomponazzi188. NelDialogo delle lingue lo Speroni si proponeva la questio-ne del latino e del greco, domandandosi se, al posto dellalogica formale, debba porsi lo studio delle lingue classi-che, quasi di per sé sufficiente all’apprendimento del ve-ro («non altramente che se lo spirito d’Aristotele, a gui-sa di folletto in cristallo, stesse rinchiuso nell’alfabeto diGrecia»). Era, ed egli se ne rendeva ben conto, sostituireal formalismo un altro formalismo. Humanitas aveva si-gnificato ritrovamento, attraverso la parola, di un pensie-ro; e, nei classici, attraverso un’espressione sorvegliatissi-ma e adeguatissima, di un pensiero sommo. La degenera-zione degli studia humanitatis aveva portato con sé il gra-ve errore che una lingua potesse aver «da se stessa privi-legio di significare i concetti del nostro animo», inducen-do nella stolta credenza del latino e del greco esprimentiper sé le strutture logiche del pensiero in forma definiti-va. Quello che si era verificato con la logica aristotelica,valida finché viva in un pensiero, ma morta e inutile se

187 STEFANO GUAZZO, La civil conversazione (Venezia,1586), p. 14.

188 SPERONE SPERONI, Dialoghi, Venezia, 1552, c. 110sgg.

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considerata come schema fisso e immutabile, tornava adattuarsi con le lingue antiche, staccate dall’intenzionali-tà originaria dell’animo ( «ma tutto consiste nell’arbitriodella persona»).

Tuttavia se lo Speroni, com’è naturale, difende l’uma-nità del volgare, sente in pieno il problema della retori-ca come arte del persuadere di fronte alla logica, comefilosofia che possiede la verità e la sua norma. La solu-zione più semplice e più comune, e la troviamo nel To-mitano, che l’espose appunto all’accademia degl’Infiam-mati, presidente lo Speroni, tendeva a mostrare «la filo-sofia esser necessaria al perfetto oratore e poeta», comequella che doveva trovar la verità, perché poi il retore lapotesse presentare «con eleganza», in modo da persua-dere, addolcendo di soavi licori gli orli del vaso pieno difarmachi salutari189.

Anche lo Speroni muove da una posizione analoga, ri-conducendo la retorica entro i limiti di un abbellimen-to dei termini, fatto allo scopo di rendere più accettabi-li i concetti («un gentile artificio d’acconciar bene e leg-giadramente quelle parole, onde noi uomini significhia-mo l’un l’altro i concetti dei nostri cuori»). Onde la re-torica sembra ridursi sotto il concetto dell’arte, destina-ta ad abbellire con scopi educativi la verità. Lo Speroni,così, paragona la retorica alla pittura; «le parole nasconoal mondo dalla bocca del volgo, come i colori dalle erbe;ma il grammatico dell’orator famigliare, quasi fante di di-pintore, quelle acconcia e polisce, onde il maestro dellaretorica dipingendo la verità, parli e ori a modo suo». E,tuttavia, come al pittore non basta vedere la natura e la

189 B. TOMITANO, Quattro libri della lingua toscana... ovesi prova la filosofia esser necessaria al perfetto oratore e poeta condue libri nuovamente aggiunti di precetti necessari allo scriveree parlare con eleganza, III ed., Padova, 1570 (nell’ed. venetadel ’46 al secondo libro è aggiunta una notevole parafrasi dellaRetorica d’Aristotele).

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sua verità, ma conviene «lungamente dimenticarsi» pertradurne l’ineffabile anima, conì il retore deve conoscere«un certo non so che della verità che di continuo ci stadinanzi»; di quella verità che ci parla e ci vive nel cuo-re, «sì come cosa, la quale nei nostri animi, naturalmen-te di saperla desiderosi, sin da principio volle imprimerDomenedio»190.

E qui, evidentemente ricordando la fine del Fedro pla-tonico, lo Speroni fa un passo avanti, attribuendo alla re-torica e alla poesia la funzione di svegliar l’anima, susci-tando in noi la verità. Non, dunque, abbellimenti del ve-ro, e al vero subordinati e posteriori, ma del vero nun-zi e presentimenti, o, meglio, guide e indici della veritàstessa nel processo del suo articolato ritrovamento. Ai fi-losofi, egli osserva, poesia e retorica possono sì sembra-re simili alla frutta che si serve alla fine del pranzo, «maa coloro che già non sono, e son per farsi filosofi, le duearti predette sono i fiori che innanzi ai frutti delle scien-ze, le menti loro di fruttare desiderose, quasi pianta laprimavera, si dilettano di fiorire».

La insostituibile funzione della retorica è proprio nel-l’educare, nell’insegnare, nel trasformare un presenti-mento in un possesso, nel persuadere e nel formare. «In-darno adunque d’insegnare... non dilettando ci fatichia-mo... e dilettando senz’altro – quanta è la forza del com-piacere – siamo possenti di persuadere». E solo in que-sta persuasione, in questo attivo raggiungimento del ve-ro, ottenuto in una calda collaborazione che è l’idealecolloquio, sottinteso eppure immancabile, se la parola èsuasiva; solo così riportiamo «la desiata vittoria, non perforza,... ma come grazia a noi fatta dagli ascoltanti... Everamente quello è buono oratore, il qual parlando d’al-cuna cosa principalmente, non con la causa trattata, sì

190 S. SPERONI, Dial. della Rhettorica (Dialoghi, Ven.1596, c. 130 sgg).

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come fanno i filosofi, ma con l’arbitrio, col nuto, e colpiacere degli auditori, tenta e procura di convenire».

Senonché, per questa via, se a parole si fanno onori aifilosofi, in realtà si celebrano i rétori, cui non spettano,è vero, le solitarie fisiche contemplazioni, ma rimango-no le reali e umane conversazioni civili. Per questo, pro-ponendosi la questione se a capo delle repubbliche uma-ne debbano stare i filosofi o i rétori, lo Speroni non esi-ta. Le leggi delle città terrene «per oneste cagioni, aven-do rispetto ai tempi, ai luoghi, alla utilità, alle sue for-ze e all’altrui, spesse fiate da un dì all’altro mutano for-ma e sembiante». Le leggi non sono Dee; sono umaniprodotti, che vengono trasformati in idoli. Ora il sag-gio reggitore deve non già conformarsi a una rigida nor-ma universale, ma «ragionevolmente» comprendere ciòche è reale. «Ragione è bene che le nostre repubbliche,non da scienze dimostrative vere e certe per ogni tempo,ma con retoriche opinioni variabili e tramutatili – qualison le opere e le leggi nostre – prudentemente sian go-vernate». Che è poi, condotto a consapevolezza e giusti-ficato, l’appello del Guicciardini al particolare in antitesicon la considerazione del Machiavelli per l’universale, ri-gidamente necessario. E par di leggere, dei Ricordi, quelcelebre avvertimento: «è grande errore parlare delle co-se del mondo indistintamente e assolutamente, e, per di-re così, per regola; perché quasi tutte hanno distinzioneed eccezione per la varietà delle circumstanze, in le qua-li non si possono fermare con una medesima misura; equeste distinzioni ed eccezioni non si trovano scritte insu’ libri, ma bisogna lo insegni la discrezione».

5. La questione della lingua

V’era, in questo ricercare il valore della retorica, e nelcontrapporla, per la sua aderenza al concreto, alla logica,

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non tanto una condanna della filosofia in genere, quantouna manifesta insoddisfazione di certa scolastica filoso-fia, unita alla fiducia di raggiungere la realtà umana peraltre vie. Né vi sarà da stupire se i più accorti letterati, ifigli dei più profondi umanisti, proprio per amor del con-creto, andranno, sul piano linguistico, difendendo, nonil latino, ma il volgare. Ché la pretesa di mantenersi fer-mi al latino era in fondo appoggiata all’idea di una nor-ma fissa nell’umana società, che è, invece, moto e svilup-po e vita. I classici, riconducendo all’umanità effettua-le, dopo aver grecamente e latinamente insegnato, in no-me di quell’insegnamento stesso dovevano indurre a ri-pudiare il greco e il latino. Come in un testo dello Spe-roni dice il Pomponazzi, assai più schietto era l’Aristote-le riesposto in mantovano da chi ne comprendeva dav-vero l’ideale intenzione, che non l’Aristotele chiosato ingreco da chi non andava oltre la forma estrinseca. Appa-rente capovolgimento, dunque, in quella difesa del vol-gare che si andrà allargando nel ’500 tra coloro che ave-van tratto vital nutrimento dagli studi delle lettere, e perfedeltà alla schiettezza umana vagheggiata dagli antichiaffermavano ora il diritto per gli uomini di esprimersi inmodo adeguato al proprio sentire. E se non giova riper-correre qui la vasta letteratura che, dal Bembo al Caro, alTrissino, al Varchi, al Castelvetro, al Muzio, al Tolomeie agli altri moltissimi, minutamente esaminò nei suoi va-ri aspetti il problema del volgare, conviene tuttavia men-zionare la precisa affermazione del Varchi essere il volga-re nuova lingua, che rispetto alla latina «non si dee chia-mar corruzione, ma generazione». E le stesse lingue poe-tiche son barbare finché sono alterazione erronea del la-tino, ma non più «tanto barbare, quanto per avventuracredono alcuni», se si coglie in esse il nascimento di unanuova lingua.

Alla scuola degli antichi, cercati polemicamente con-tro i moderni, si imparava alla fine a rispettare i moder-

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ni e a comprenderne la modernità, il cui significato e lecui conquiste proprio alla luce delle precedenti conqui-ste trovavano sapore e valore191.

6. La poetica

Vincenzo Maggi, e con lui Bartolomeo Lombardi, com-mentando la Poetica d’Aristotele, e sostenendo che lapoesia è al servizio della morale, non esitarono a ridur-re poesia e poetica all’etica192. I platonici, come il Patrizi,Francesco Piccolomini e, specialmente, Jacopo Mazzo-ni, affermarono essere la poetica disciplina civile, men-tre il Patrizi dichiarava addirittura esser l’opuscolo ari-stotelico il nono libro della Politica. Gli aristotelici piùortodossi la riconducevano invece alla logica, e senten-ziavano col Varchi esser «la dialettica, la loica e la poeti-ca... quasi una medesima cosa, non essendo differenti so-stanzialmente ma per accidente». Anzi, essendo la poe-tica «parte o spezie della loica, nessuno può esser poe-ta, il quale non sia loico: anzi quanto ciascheduno saràmiglior loico, tanto sarà ancora più eccellente poeta».

In entrambi i casi alla poesia si attribuiva un compitostrumentale, educativo, morale, ma non certo illuminan-te. Se il platonismo aveva cercato nel bello una ascesa aDio, l’aristotelismo vi vede un mezzo di formazione mo-rale o di chiarificazione intellettuale, sussidiaria alla logi-ca, sul piano della retorica. E di questo si deve tener con-to nel considerare il largo interesse con cui il ’500 guardò

191 L’Ercolano, dialogo di BENEDETTO VARCHI, dovesi ragiona delle lingue e in particolare della toscana e fiorenti-na con la correzione di LODOVICO CASTELVETROe laVarchina di GIROLAMO MUZIO, Firenze, 1846.

192 In Aristotelis librum de Poetica explanationes, Venetiis,1560. Gli scritti del Varchi nella cit. ed. delle Opere, vol. II.

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alla Poetica, messa dapprima in circolazione dalla versio-ne latina di Giorgio Valla (1498), ma poi pubblicata neltesto, e di nuovo tradotta in latino e in volgare, e com-mentata, parafrasata, illustrata dal Pazzi, dal Segni, dalMaggi, dal Vettori, dal Castelvetro, dal Piccolomini, pernon parlare delle trattazioni del Vida, del Trissino, delDaniello, del Giraldi, del Muzio, del Varchi, del Mintur-no, dello Scaligero, del Tasso, e dei moltissimi minori.

Se l’ispirazione platonica delle discussioni intorno albello non si attenuava, l’aristotelismo riconduceva le di-scussioni estetiche nell’ambito della comunicazione o«conversazione» umana, chiedendosi qual sia l’oggettodella rappresentazione poetica, e quale la funzione prati-ca del poetare. «Poeta è chi scrive cose finte, e amplia levere, riducendole alla perfezione della qualità convenien-te al suggello preso a manifestare». Così il quasi ignotoAlessandro Sardo; ma non diversamente gli altri trattati-sti, per cui poetare è imitare «cioè fingere o rappresen-tare», come dice il Varchi, «per ammendare e corregge-re la vita» senza fatica alcuna, ma con «diletto grandissi-mo». E per giungere a quella tal rappresentazione con-verrà che il poeta conosca un po’ tutto, e sia scienzia-to prima che poeta; «è di mestieri al poeta... d’aver co-gnizione dell’arti e delle scienze..., e geografo e astrologoo teologo e d’ogni altra scienza bene intendente dimo-strarsi». Così Bernardo Tasso per cui l’artista deve es-sere còlto in tutto, e di tutto avere esperienza, per pote-re poi «tutte quelle ricchezze... con lucidissimo ordinee con vaghe parole accomodare a’ luoghi loro»; e que-sto allo scopo di adornare la mente degli uomini d’ottimicostumi193.

193 SARDO, Discorsi, p. 76; VARCHI Della poetica, OpereII, 685; BERNARDO TASSO, Ragionamento della poesia, inOpuscoli inediti o rasi di classici o approvati scrittori, tomo I,Firenze, 1845, p. 174.

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Le quali conclusioni garbatamente esponeva, traen-dole «dall’erudito Robortello, dal nostro giudiziosissi-mo messer Vincenzo Magi, e dall’eccellente messer PierVittorio». Senonché proprio qui s’inserivano i maggio-ri problemi; non basta ripetere, come fanno un po’ tutti,che essenza della poesia, e dell’arte in genere, è «fingereo rappresentare» la realtà mescolando il vero col fittizio(«addit ficta veris, aut ficta veris imitatur», dice lo Scali-gero). Non basta concludere sentenziosamente imitaturut doceat; si tratta di cogliere il modo di quella poeticaimitazione, che è, innanzitutto, un fabbricare apparente,che produce immagini di cose non come sono, ma comepotrebbero e dovrebbero essere, con lo scopo di dilet-tare, insieme, e di educare194. Che è l’elaborata conclu-sione cui lo Scaligero giunse dopo le dissertazioni dei Ca-priano, dei Leonardi, dei Minturno, e, specialmente, del-l’acuto Castelvetro, intorno al tormentatissimo parallelofra poesia e storia, e alla natura specifica della imitazio-ne poetica. Qual è, infatti, l’oggetto imitato? Non raro èl’appello al classico esempio di Zeusi che trasse l’imma-gine di una bellissima fanciulla dalla vista di più modelliracchiudenti ciascuno una perfezione singola.

Vi insiste, fra gli altri, Giulio Cammillo, che nel Di-scorso sopra Hermogene, pubblicato dal Patrizi e lodato

194 JULII CAESARIS SCALIGERI Poetices libri septem,Apud Petrum Santandreanum. 1594, p. 2: «differunt autem(Historia et Poesis), quod alterius fides certa verum et profite-tur et prodit, simpliciore filo texens orationem, altera aut additficta veris, aut fictis vera imitatur, maiore sane apparatu... Hancautem Poesim appellarunt, propterea quod, non solum redde-ret vocibus res ipsas quae essent, verum etiam quae non essent,quasi essent, et quo modo esse vel possent, vel deberent, re-praesentaret. Quamobrem tota in imitatione sita fuit. Hic enimfinis est medium ad illum ultimum, qui est docendi cum de-lectatione». Cfr. B. WEINBERG, Scaliger versus Aristotle onPoetics, «Mod. Philol.», 1942, pp. 337-60.

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dal Tasso, si riferisce come a carattere proprio dell’imi-tazione poetica all’unità realizzata attraverso la sintesi ul-tima, in un’unica forma, di molti aspetti particolari. Ilpoeta, insomma, organizza i dati singoli in modo da da-re, non un mucchio di elementi, ma un’unità vivente, unorganismo; come osserva il Giraldi Cintio, «mi pare chesi possano assomigliare i corpi de’ poemi alla compositu-ra del corpo umano»195. Ma che il ’500 veda l’imitazio-ne poetica come tentativo di rappresentar la vita viventedella realtà, è stato spesso osservato. Ciò che più impor-ta è il notare come la discussione non si fermi qui, ma sivoglia render ragione più a fondo della differenza fra ilpuro e semplice ritrarre ciò che è, e l’opera poetica, cheoltrepassa, non solo la fedeltà storica, ma la realtà stes-sa qual è. Nell’esempio di Zeusi è implicito il concettoche l’arte esprime sensibilmente, in una sua creatura vi-sibile, ciò che è quasi disperso e diffuso nei molti («coluiche imita un perfetto, imita la perfezion di mille raunatain uno»). Ma proprio questo concretare in un’immagi-ne singola il tutto, sembra insieme far vivere in una solarealtà tutta la vita, esaltando oltre il consueto una indivi-dua singola creatura. Onde necessario all’arte sembra ilcontinuo trascorrere «tutti li sensi favolosi, come di Sa-turno, de’ Titani, de’ Giganti, e Centauri, e Sirene, e Tri-toni, e Lestrigoni, e Ciclopi, e Perseo. Dir cose che ec-cedano la natura dell’uomo, ma mostruosamente... Dirche cose inanimate servano agli Iddii con alcuno senso...Dir universalmente e mostruosamente le cose impossibi-li e incredibili...». Ma, di continuo, conviene trapassaredi nuovo dal divino nel concretissimo ( «sottilmente nar-rar le cose particolarmente»), e calare il divino, l’assolu-to ( «non parer dir da se stessi quelle cose che si dicono,

195 Opere di M. GIULIO CAMMILLO, Venezia, 1560,vol. II, p. III; G. B. GIRALDI CINTIO, Scritti estetici, 1864,vol. I, p. 20.

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ma... far che l’orazione paia propria degli dei») per entroquanto v’è di più simile e determinato («nell’istoria ciòrenderebbe bassezza»)196.

7. Il «Naugerius» di Girolamo Fracastoro

Se l’esame dei concetti aristotelici dell’imitazione, comefondamento dell’attività poetica, e del verosimile comesuo oggetto, tendeva a precisare i caratteri dell’arte co-me forma dell’umana produzione, il vecchio lievito pla-tonico agiva col motivo della bellezza liberatrice, espres-sione sensibile della bontà, elevazione dell’anima a Dio.È ben difficile, non dirò opporre, ma anche solo chiara-mente distinguere un tema aristotelico da uno schietta-mente platonico, sol che si vada oltre la precettistica, ol’insieme di osservazioni singolari. Come l’imitazione cirimanda a ciò che, di là dall’apparenza, è forma univer-sale fatta sensibile, valore eterno sensibilizzato, fatto vi-sibile, così la funzione liberatrice dell’arte ci riconduceentro l’ambito dell’eros come spinta verso il divino.

Bernardo Tasso, dopo avere esaltato la felicità del suosecolo per aver finalmente scoperto «la Poetica di quelfamosissimo Filosofo, la quale con tanto ordine e sì par-ticolarmente insegna l’arte del poetare», conclude poi,citando Platone, che «il fine della Poesia non è altro che,imitando le umane azioni, con la piacevolezza delle favo-le, con la soavità delle parole in bellissimo ordine con-giunte, con l’armonia del verso, gli umani animi di buo-ni e gentili costumi e di varie virtù adornare». Dal qualemoralismo e pedagogismo non era poi difficile trapassarenel platonismo di Torquato Tasso che mette in bocca alMinturno, nel dialogo a lui intitolato, formule degne del-

196 GIULIO CAMMILLO, Opere, II, p. 119 (Cfr. I, p.219).

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la più rigida ortodossia ficiniana. Infatti, dopo aver pro-spettato la tesi secondo cui la bellezza sarebbe «una vit-toria che la forma riporta della materia», o, meglio, «unsembiante, ovvero una immagine del bene», viene esclu-dendo dal concetto stesso di bellezza ogni contaminazio-ne di materia. «Laonde io mi meraviglio del Nifo e deglialtri Peripatetici, che riposero la bellezza nella materia,perch’ella è per sua natura brutta e deforme oltremodo,anzi è la bruttezza istessa: laonde il bello ai troverebbenel brutto, quasi in proprio soggetto: il che mi pare mol-to sconvenevole, perché il bello dee germogliar nel bel-lo, quasi fiore in fiore». E così la bellezza sembra sfuggi-re ogni umano contatto e «non patisce d’esser descritta,o circoscritta dal luogo, dal tempo, dalla materia, o dalleparole»197.

Naturalmente il Tasso non si tenne fermo a questaposizione estrema, ma venne mitigandola nell’asserzio-

197 BERNARDO TASSO, loc. cit., pp. 174, 179; TOR-QUATO TASSO, Il Minturno ovvero della bellezza (Prose fi-losofiche, Firenze, 1847, 413). Cfr. nei Discorsi sul Poema Eroi-co: (disc. II,. Venezia, 1587, c. 10 r). «Scelta ch’avrà il Poetamateria per se stessa capace d’ogni perfezione, li rimane l’altraassai più difficile fatica, che è di darle forma e disposizione poe-tica, intorno al quale officio, come intorno a proprio soggettoquasi tutta la virtù dell’arte si manifesta. Ma però che quelloche principalmente costituisce e determina la natura della Poe-sia, e la fa dall’Istoria differente, è il considerar le cose non co-me sono state, ma in quella guisa che dovrebbono essere stateavendo riguardo piuttosto al verisimile in universale che alla ve-rità dei particolari, prima d’ogn’altra cosa deve il Poeta avverti-re se nella materia ch’egli prende a trattare v’è avvenimento al-cuno il quale altrimente essendo successo o più del verisimile, opiù del mirabile o per qualsivoglia altra cagione portasse mag-gior diletto e tutti i successi che sì fatti trovarà, cioè che meglioin un altro modo potessero essere avvenuti senza rispetto alcu-no di vero o di Istoria, a sua voglia muti e rimuti e riduca gli ac-cidenti delle cose a quel modo ch’egli giudica migliore col veroalterato il tutto finto accompagnando».

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ne che bellezza è armonia de’ dissimili («proporzione emisura delle cose che hanno parti dissimili»), segno im-perfetto di un’unità increata ch’è oltre la bellezza («Dio...non è bello né perfetto perché non è fatto»).

Ma colui che meglio d’ogni altro riuscì ad armonizza-re il tema dell’imitazione aristotelica con i più fini motiviplatonici fu il Fracastoro nel suo Naugerius sive de Poe-tica dialogus, ov’è chiaramente detto che il poeta imita,non la cosa, ma l’idea, e che così facendo non fa che rea-lizzare nel modo più pieno e più perfetto la cosa medesi-ma nella sua compiuta realtà.

In genere, tutta la trattatistica aveva inteso l’arte o, pla-tonicamente, come invito ad evadere verso i cieli dell’i-dea, o, in modo più aderente allo spirito mondano dell’a-ristotelismo, come formazione umana, e, soprattutto, co-me dilettosa forma d’educazione. Per Fracastoro, se pursono innegabili le risonanze educatrici dell’arte, la poe-sia trova in se stessa il proprio fine e la propria misura. Edi qualunque argomento essa tratti o discuta, ne discu-te e ne tratta sempre in quanto poesia, poeticamente, se-condo quel suo peculiar modo ond’è, appunto, poesia.Per questo, neppure è lecito porre una qualsiasi mate-ria come peculiare del poeta; omnis materia poetae con-venit. Ma, se mai, sarà propria del poeta l’arte di ben di-re, di esprimere, cioè, l’idea rivestendola di bellezza (ideasimplex, pulchritudine vestita), realizzandola a pieno nel-la sua libertà d’espressione, e nella completezza del suosignificato (liberam et in universum pulchram). Il poe-ta non finge e non falsifica; è colui che vede ed esprimel’idea nella sua visibile bellezza.

Proprio nella precisione sistematica, con cui riprende,e quasi conclude e concilia tesi varie e contrastanti, sta laradice del successo del dialogo fracastoriano. Ove si par-te dalla natural tendenza dell’uomo a imitare e a canta-re (natura insitum canere, et musica quadam agi), per de-finir la poesia, al di fuori dei suoi effetti (piacere, inse-

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gnamento, meraviglia), e dei suoi contenuti, in funzioneesclusiva del suo raggiungimento dell’universale198. Uni-versalità che, per Fracastoro, è, insieme, libertà199.

198 Naugerius (H. FRACASTORII Opera omnia, Venetiis,1584), c. 115-116: «alii singulare ipsum considerant, poeta ve-ro universale, quasi alii similes sint illi pictori, qui vuitus et re-liqua membra imitatur, qualia prorsus in re sunt, poeta vero il-li assimiletur qui non hunc, non illum vult unitari, non uti fortesunt, et defectus multos sustinent, sed, universalem et pulcher-rimam ideam Artificis sui contemplatus, res facit, quales esse de-ceret. Quippe omnes, quibus bene dicendi facultas tributa est,bene quidem atque apposite dicunt, quantum cuique convenit.Sed inter illos hoc interest, quod, praeter poetam, nullus simpli-citer bene atque apposite dicit, sed in genere suo tantum et quan-tum attinet ad constitutum sibi finem, hic quidem docendi, illepersuadendi, et siquis eiusmodi finis est. Poeta vero per se, nul-lo alio... fine, nisi simpliciter bene dicendi circa unumquodquepropositum sibi...».

199 «Vult quidem, et ipse, et docere et persuadere et de aliisloqui, sed non quantum expedit, et satis est ad explicandamrem, tamquam adstrictus eo fine, verum ideam sibi aliam faciensliberam et in universum pulchrum, dicendi omnes ornatus, om-nes pulchritudines quaeret, quae illi rei attribui possunt.» «Non...rem nudam, uti est, ...sed simplicem ideam, pulchritudinibussuis vestitam, quod universale Aristoteles vocat...» Interessan-te, in una lettera al Ramusio, l’allusione ai commentatori del-la Poetica (Lettere di XIII huomini illustri, pp. 738-39): «quan-to mi scrivete del commento d’Averroè sopra la Poetica, io nonl’ho mai veduto, né curato di vedere, perché non ci può esse-re cosa se non da ridere, eccetto s’egli non citasse qualche com-mentator Greco, onde si potesse cavar qualch’utile. Quello delRobortello io non ho veduto, similmente, né quello del Maggiobresciano, che intendo ha fatto favor grande al nostro poveroM. Bartolomeo Lombardo, attribuendogli tanto».

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RICERCHE MORALI

1. Moralità e «modi civili»

Uno dei testi classici della trattatistica cinquecentesca,il Galateo di Monsignor Giovanni Della Casa, ove sivien formando un giovane a ben vivere «nella comuneconversazione», si apre con una serie di rilievi veramenteinteressanti. L’uomo non è chiamato in ogni momentodella sua vita a cimentarsi nei più tragici conflitti, nédeve ad ogni istante dar prova delle sue più alte virtù.La vita d’ogni giorno non ci vede combattenti controtigri circasse o leoni africani, ma contro fastidiosissimemosche e zanzare dei nostri paesi. «La giustizia, lafortezza, e le altre virtù più nobili e maggiori, si pongonoin opera più di rado, né il largo e il magnanimo è astrettodi operare ad ogni ora magnificamente; anzi non è chipossa ciò fare in alcun modo molto spesso, e gli animosiuomini e sicuri similmente rade volte sono costretti adimostrare il valore e la virtù loro con opera». Ma sela virtù nelle sue forme eroiche è dei giorni di festa, aigiorni comuni appartiene invece la convivenza operosacon gli uomini, «e la convenevolezza de’ modi, e dellemaniere, e delle parole, giovano non meno a’ possessoridi esse che la grandezza dell’animo, e la sicurezza altresì,a’ loro possessori non fanno». I «modi» son quelli chepiù ci congiungono ai nostri simili; e se peccare controquesta «conversazione» non è, certo, peccato mortale,tuttavia la natura subito ci punisce con somma gravezza,«privandoci, per questa cagione, del consorzio e dellabenivolenza degli uomini».

Su una distinzione fra doti del costume e virtù morale,fra socialità e moralità, il Della Casa impianta gran par-te della sua trattazione, in cui, per altro, tutta la moralità

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viene veramente vivendo e distendendosi in quell’umanocostume, «che a chiunque si dispone di vivere, non perle solitudini o ne’ romitori, ma nella città e tra gli uomi-ni», serve come base fondamentale per ogni attività se-riamente valida. E in quel costume prende corpo e con-cretezza la virtù, facendosi, da solitaria esercitazione, vi-ta concreta200. Non diversamente, del resto, da quantoci induce a concludere una lettera che nel ’49, sempre ilDella Casa, indirizzava ad Annibale Rucellai a proposi-to dell’eloquenza. La quale, veramente, trasforma la let-tera morta in vivo spirito, e della scienza, e perfino del-la massima evangelica, fa persuasione operante. «Il Van-gelo c’insegna, che noi amiamo il prossimo; ma il predi-catore, s’egli è buono oratore, ci sforza a ire a trovare ilnostro nimico, ed abbracciarlo».

L’opera è maturata, non dal sapere freddo, ma dal ca-lore di un contatto umano; «quello che io non fo... leg-gendo la Scrittura, e poi fo udendo la predica, è tuttoopera e frutto dell’eloquenza», la quale è arte di consen-tire, di comunicare, di convenire, ed è "«differente dalladottrina e dalla erudizione».

Di qui una moralità che è, soprattutto, sincerità dirapporti fra uomini e, insieme, pienezza di educazione diuomini; che è, insomma, disciplina, come nel Cortegianodefiniva il Castiglione. Per il quale ogni uomo, ha, senzadubbio «incluso e sepolto nell’anima» il seme delle virtùmorali; ma v’è necessità del «bono agricultore», checoltivi ed apra la via a quei semi; v’è necessità «dellaartificiosa consuetudine», la quale trasformi l’uomo e lofaccia veramente umano. E questo, non già estirpando

200 DELLA CASA, Galateo, p. 4-6; Lettere, p. 75 (Sul DellaCasa cfr. L. CARETTI, Giovanni della Casa, uomo politico escrittore, nel vol. Filologia e critica, Milano-Napoli, 1955, pp.63-80).

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gli affetti, come voglion di Stoici, ma armonizzandoli perentro una misura201.

Tutto il Cortegiano, col suo spirito inconfondibile, è inquesta valutazione della passione umana, che va tempe-rata, non strappata. Agostino Nifo, nel suo opuscolo Deprincipe (Libellus de his quae ab optimis principibus agen-da sunt, uscito in Firenze nel 1521), osservava appuntoche temperante è, non chi non desidera, ma chi debita-mente desidera («qui quae debet, et ut debet, et quandodebet, concupiscit»).

Si capisce così, che fondamentale rimanesse il proble-ma della educazione; e cioè del trarre a compimento i se-mi latenti di virtù, «levando... le spine e ’l loglio», finchématurino felici frutti. Né a caso le due opere ora menzio-nate, insigni nella produzione del secolo, sono indirizza-te entrambe a formare l’uomo «civile»202. Ed uno dei piùprolissi chiosatori della Nicomachea, Felice Figliucci, chepubblicò proprio a mezzo il ’500 il suo vasto e fortuna-to libro Della filosofia morale, ov’è pur tanto platonismo,insisteva sulla necessità che, «prima che alla contempla-zione e speculazione ci mettiamo», si conoscano bene lenostre passioni ed affetti per renderli «mitigati e compo-sti». Solo in questo equilibrio armonico della vita emoti-va «l’animo nostro al tutto preparato e disposto rendia-

201 CASTIGLIONE, Il Cortegiano, I, 14.202 Rientra in certo modo in questa linea L’Anassarcho del

Lapino (Frosino Lapini), o vero Trattato de’ Costumi, o modi chesi debbono tenere, o schifare nel dare opera agli studij. Discorsoutilissimo ad ogni virtuoso e nobile scolare, Firenze, 1571 (cfr.p. 74: «non per altro son dati i Precettori a’ discepoli, che periscoprire e migliorare con l’arte quel che la natura, come suopiù caro dono, dentro a l’uomo ha occultato e racchiuso...»).Del Lapini, il biografo del Diacceto, vedi anche le Stanze soprala dignità dell’huomo, Firenze, 1566 e una Lezione del fine dellapoesia, Firenze, 1567.

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mo a ricevere in sé il seme che la contemplazione vi spar-ge».

Né ci inganni troppo, anche nel Figliucci, la concla-mata superiorità del contemplare, somma attività dell’in-telletto, ma, appunto per questo, riserbata agli angeli eagli spiriti puri, «dove le azioni e le opere morali e vir-tuose sono proprie dell’uomo»203.

2. La «institution» dell’uomo

Uomo significa – insiste Alessandro Piccolomini – un«animale civile e comunicativo». Di questo dobbiamooccuparci, e questo, appunto, dobbiamo formare. Chese anche fosse possibile che un uomo, materialmente par-lando, potesse viver solo, e da solo soddisfare ai propribisogni, non uomo sarebbe, ma «di ferro e di marmo», senon comunicasse con i suoi simili. In terra, solo attraver-so la comunicazione umana l’uomo si solleva verso Dio, egiunge alla felicità; «dilettevolissima... è la communican-za e la natural benevolenzia..., conciosiacosa che... peril mezzo di questa umana benevolenzia l’uomo all’uo-mo, beneficandosi insieme e aiutandosi, simile si rendea Dio».

L’aristotelico Piccolomini, non solo pone l’indiamen-to nell’azione comune, ma la scienza stessa e la contem-plazione connette in modo indissolubile con la sua con-dizione «civile, amicabile, benefica, conversativa». Poi-ché l’uomo è parola; poiché unico fra gli animali emettenon voci e grida, ma parole e discorsi, con cui non soltan-to formula agli altri i suoi pensieri e ritrovati, ma li per-feziona, collaborando, in un modo che al solitario sareb-be precluso. Con molta chiarezza il Piccolomini insiste

203 FELICE FIGLIUCCI, Della filosofia morale libri diecisopra i dieci libri dell’Etica d’Aristotele, Venezia, 1552, cc. 3-5.

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su questa continuità della formazione del genere umano,e di un sapere scientifico, che solo una tradizione di sfor-zi collettivi può costituire. «Perché all’uomo... più ol-tre conviene che al diletto e dolor del senso solo rispet-to avere, non bastandogli la voce sola per quello che trat-tar doveva, [la natura] gli volse dar la favella con la qua-le i varii pensieri e le diverse invenzioni, che intorno al-le scienzie e alle operazioni utili e virtuose con la ragioneforma nella mente dentro, potesse, communicando il tut-to con la favella, far si che, soccorrendosi gli uomini edaiutandosi e supplendo l’uno a quel che comincia l’altro,riducessero a perfezione le scienze e le virtù; dalle qua-li due cose depende il lor sommo bene e la felicità loro».Chi, fuori dalla conversazione umana, si ritiri sui monti onelle selve, «per pazzia o... mala fortuna», se ancora ab-bia volto d’uomo, si ridurrà a discorrere «con gli sterpie co’ sassi». Ma già sarà decaduto dalla sua natura, per-ché il «solitario, veramente piuttosto fiera che uomo sidee stimare», avendo bisogno l’uomo, «per commodo eper ornamento della sua vita», di cose che «senza l’aiutod’altri non può avere».

Il Piccolomini, appunto perciò, batte sui due motividella educazione perenne ( «educa... ed è educato») edella vita civile, della città, «la qual tutte l’altre commu-nicanze, amicizie e parentele abbraccia, e circonda; perla cui salute ha da por l’uomo le sostanzie, gli amici, i pa-renti, e ’l sangue proprio s’ella bisogno n’avrà mai». Na-sce così, intorno al ’40, quella Instituzione dell’uomo no-bile, nato in città libera, che, più volte largamente rima-neggiata, ebbe larga fortuna e diffusione per tutto il se-colo. Opera, com’egli si compiaceva di dire, economicae politica, oltreché morale, che cominciava dal conside-rare la città «libera», e nella vita civile tendeva a risolve-re, come strumenti, tutte le scienze e le arti. Delle qualilo vediamo introdur via via la trattazione, proprio e soloin funzione di quella società che, unica, è capace di da-

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re all’uomo la felicità. «Uomini, non angeli siamo», egliinsiste, e «divina cosa è lo speculare», né «a noi proprio,mentre che uomini siamo». «Laonde è cosa degna di ma-raviglia che tanti signori degli Studii d’Italia con ogni di-ligenzia s’ingegnino, che i desiderosi delle lettere abbia-no occasione di farsi dotti nelle scienze fisice, matema-tice e metafisice», tralasciando invece le «onoratissimescienze donde s’impari l’arte del vivere, cioè la via dellevirtù e de’ buoni costumi, che ci guidino alla felicità checi potria far beati».

Né il Piccolomini esita a capovolgere la tesi degli ari-stotelici: cittadini del cielo non ci fa la speculazione fi-sica, ma una concreta moralità terrena. La scienza dellanatura non fa che sopravalutare il corpo rispetto all’in-teriorità, né ci avvicina, anzi ci allontana, da quell’intui-zione suprema che attende i beati. «Essendo compostinoi d’una parte che poco vale e presto manca, e d’un’al-tra ch’è degna molto e sempre dura, per la salute di quel-la prima, senza perdonare a spesa e fatica, in favore del-la medicina... se ne vergan le carte, e ne rimbombano adogni or le scuole; e per la cura e salute dell’altra poi nonè chi pensi di far parola, se già dir non volessimo che al-la cura delle menti nostre attendano coloro che, per glistudi d’Italia, con la misura del giusto interpretando leleggi, fanno altrui conoscere la mente dei Legislatori».

Né deve credersi perciò che il Piccolomini sia fanati-co sostenitore di una educazione grammaticale, ché anzi,molto lucidamente, osserva come i greci, modelli a noi diumanità, non se la formassero affatto attraverso lo studiodelle lingue. E altra cosa son gli studi grammaticali e lin-guistici, altra quelli umani, quali gli studi storici e poe-tici, attraverso cui, solamente, può il giovane arrivare al-le scienze utili per la vita civile. La storia, infatti, «qua-si uno specchio della vita», ci permette di vivere «col pe-ricolo e nelle spese di coloro che sono viventi innanzi».Ed i poeti, «se prudentemente saran dichiarati, maravi-

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glioso frutto a’ fanciulli, quanto a’ costumi, apporteran-no come soleva tra i Greci Omero». Poiché Omero e lasua poesia, e non la lingua greca come tale; e Virgilio edOrazio, e non la grammatica latina, costituiscono queglistudi letterari che sono vera scuola di umanità204.

In una delle varie edizioni dell’opera sua il Piccolomi-ni prometteva di trattar l’argomento insieme «peripateti-camente et platonicamente». In realtà, non solo rimane-va fedele al peripatetismo, ma andava svincolandosi an-che da quanto di ascetismo platonico rimaneva nella Ni-comachea, a quel modo, del resto, che il Mureto incen-trava la sua attenzione su quel libro quinto della giustiziache, in particolare, prendeva a commentare. E lo stessoFrancesco Piccolomini, autore di una prolissa trattazio-ne morale, la Universa philosophia de moribus, di intona-zione platonica, in un suo Compendio della scienza civi-le, «regola dell’umana vita, legge delle nostre azioni, fidascorta nel periglioso sentiero di questo corso mortale, edinsomma sicura strada per ritornare alla patria celeste»,distingueva e raccomandava una «virtù civile», adatta a

204 ALESSANDRO PICCOLOMINI, Della Institutionmorale libri XII. Ne’ quali egli levando le cose soverchie, e ag-giungendo molte importanti, ha emendato, e a miglior forma, eordine ridotto tutto quello, che già scrisse in sua giovinezza delleInstitution dell’uomo nobile. In Venetia, 1582. (La prima ed.,Venetiis, 1543, aveva il curioso titolo: De la institution di tuttala vita de l’huomo, nato nobile e in città libera. Libri X. In lin-gua toscana, dove e Peripateticamente e Platonicamente, intornoa le cose de l’Ethica, Iconomica, e parte de la Politica, è raccol-ta la somma di quanto principalmente può concorrere a la perfet-ta e felice vita di quello. Composti dal S. Alessandro Piccolomi-ni, a beneficio del Nobilissimo Fanciullino Alessandro Colombi-na, pochi giorni innanzi nato, figlio de la Immortale Mad. Laudo-mia Forteguerri. Al quale, (havendolo egli sostenuto a battesimo)secondo l’usanza dei compari: dei detti libri fa dono.

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realizzare in terra il fine umano, di fronte alla virtù eroi-ca, che, appunto, appartiene soltanto agli «eroi»205.

3. Influenze aristoteliche e commenti alla «Nicomachea»

In Roma, il 16 dicembre del 1563, Marco Antonio Mure-to pronunciava una orazione de moralis philosophiae lau-dibus, in cui, appunto, citava dalla Repubblica il luogofamoso – «nobilissimam vocem, tamquam ex oraculo» –in cui si dice che gli Stati saranno felici solo il giorno incui, o i capi saranno filosofi, o i filosofi diverranno so-vrani. E soggiunge, commentando, che la vera filosofianon consiste nella logica e nella fisica (in disserendi subti-litate, aut in pervestigandis rerum naturalium causis), manella morale e nella politica, nel procacciare cioè la fe-licità agli uomini (beatas respublicas efficere). A questofine, tuttavia, l’indagine morale amava trarre ispirazione,piuttosto che dal platonismo, da Aristotele, dei cui scrittietici si moltiplicano i commenti e le imitazioni. E nel ’50Bernardo Segni, offrendo al granduca Cosimo de’ Medi-ci la sua versione in volgare della Nicomachea con un va-sto commento, tratto in gran parte da quello latino del-l’Acciaiuoli, additava nella classica trattazione il migliorestrumento possibile per l’educazione degli uomini. Sog-giungeva, anzi, che, poiché la speculazione pura è «nel-l’uomo, non come in uomo, ma come in chi vive di vitapiù che da uomo», convien ragionare piuttosto della vita«attiva, come di quella in che s’abbia più parte».

205 FRANCESCO PICCOLOMINI, Breve discorso dellaistituzione di un principe e compendio della scienza civile, a curadi Sante Pieralisi, Roma, 1858; Universa philosophia de moribus,Venetiis, 1594 (è la II ed.; la prima è del 1583. Il commento delMureto nella raccolta cit., pp. 103-117; la sua versione, del ’65,pp. 371-410).

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Tuttavia chi vada scorrendo chiose e commenti, daquelli del Nifo, o dello Javelli, a quelli del Figliucci odello Scaino, per non dir d’altri molti; chi riprenda vastee massicce compilazioni come quella del Brucioli, ben dirado incontra qualche accento nuovo. Dei più famosi,come del Pomponazzi, del Nifo o del Porzio, si trovano,se mai, interessanti riflessi, che traversano la letteraturamoralistica in genere di tutto il secolo206.

Così derivano dall’insegnamento del rumoroso filoso-fo di Sessa i Ragionamenti sull’etica d’Aristotele, di Ga-leazzo Florimonte, che non è poi che il Galateo del Del-la Casa207. E sono dialoghi in volgare, garbati e piani, matutt’altro che originali, se non, forse, per talune inserzio-ni di temi teologici e di motivi agostiniani. Il Nifo ritro-

206 La traduzione italiana del Segni, più volte ristampata,uscì a Venezia nel 1550. Nel ’47 a Firenze, era uscita unatraduzione latina di Pier Vettori. Di A. SCAINO, cfr. L’eticad’Aristotele ridotta in modo di parafrasi con varie annotazioni ediversi dubbi, Roma, 1574 (del 78 è la Politica). I Dialoghi dellanaturale e morale filosofia del Brucioli, di cui s’è detto, uscironoin Venezia nel 1544. Del ’47, sempre pubblicata in Venezia,è la versione della Politica (Gli otto libri della repubblica chechiamano Politica d’A.), dedicata a Piero Strozzi.

207 Ragionamento di Mons. GALEAZZO FLORIMON-TE, vescovo di Sessa, sopra l’Ethica d’Aristotile, Venezia, 1567.La prima edizione, del ’54 fu rifiutata dall’autore, per essere sta-ta pubblicata manchevole, senza suo consenso («di che io nonpoco mi dolsi»). Così parla delle trattazioni in volgare: «nongià... che io speri qualche gran lode d’un’opera così priva d’o-gni ornamento... alla quale, se io avessi saputo che il SignorAlessandro Piccolomini, o il Figliucci, o alcun altro gentile spi-rito avessero questa medesima materia trattato nella lingua no-stra, non avrei posto mano...». In realtà, ed è interessante sot-tolinearlo, la prima edizione si presentava come fedele riprodu-zione del pensiero morale del Nifo: Ragionamenti di M. AGO-STINO DA SESSA, con l’illustriss. S. Principe di Salerno so-pra l’Ethica d’Aristotile raccolti dal Rev. Mons. Galeazzo Flori-montio..., Parma, 1562.

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viamo ancora, e non a caso, a discorrere del piacere indue dialoghi del Tasso (Il Gonzaga ovvero del piacer one-sto; Il Nifo ovvero del piacere, ch’è un rimaneggiamentodel primo), ov’è ben ritratto il temperamento tutt’altroche ascetico del Sessano.

Sempre il Tasso intitolava al Porzio, «il migliore, piùfamoso filosofo, non solo di Napoli, ma d’Italia tutta»,il dialogo Delle virtù. Simone Porzio, scolaro del Pom-ponazzi, aveva a più riprese discusso questioni legate al-l’etica, e nel De dolore, del 1551, ov’è sostenuta la na-tura non corporea, ma spirituale del dolore, e nelle dis-sertazioni sulla libertà, di cui ci resta l’opuscolo «se l’uo-mo diventa buono o cattivo volontariamente», che, sem-pre nel ’51, uscì contemporaneamente nell’originale la-tino e nella versione di Giovan Battista Gelli, calzolaiofiorentino, dantista e filosofo e arguto scrittore, del Por-zio amicissimo. Ma là dove il Porzio non si slegava dal-la posizione d’Alessandro d’Afrodisia, il Gelli in garba-tissimo modo riprendeva i temi dell’umanesimo quattro-centesco quando, subito nella dedica della Circe affer-mava esser solo l’uomo capace di «eleggersi per se stessouno stato e un fine suo; e camminando per quel sentieroche maggiormente gli aggrada, guidare piuttosto secon-do lo arbitrio della propria volontà, che secondo la in-clinazion della natura, come più gli piace, liberamente lavita sua». Prometeo e camaleonte, l’uomo; ond’è traspa-rente la favola di Circe, e ricca d’insegnamenti la conclu-sione cui giungono, per esempio, la talpa e l’ostrica: es-ser più felice la condizione loro della condizione umana,perché priva d’inquietudine e lieta della propria perfe-zione («essendo io perfetta in questa mia specie, e viven-domi senza un pensiero al mondo, io mi ci voglio stare»).Ché tutta l’umana dignità e perfezione è in uno sconten-to perenne, in uno squilibrio, in una imperfezione sapu-ta e sofferta («stato pieno di tanti affanni e di tante mi-serie»); in un perenne bisogno, in un continuo decade-

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re nel tempo, e trovar limiti reali e fittizi; «poca sicurtà,...nell’animo, delle cose presenti, paura... e cura delle fu-ture, sospetto... di quei della sua specie con i quali egliè forzato conversare continuamente, timore e... rispettodelle leggi».

Solo l’elefante comprende che la grandezza dell’uomoconsiste nella sua sofferenza, che è la sua libertà. «Perchétutte l’altre creature hanno avuto una certa legge, per laquale elle non possono conseguire altro fine che quelloche è stato ordinato loro dalla natura, né possono uscirein modo alcuno di que’ termini che ella ha assegnatoloro. E l’uomo per avere questa volontà libera, puòacquistarne uno più degno, e uno manco degno, comepare a lui, o inchinandosi inverso quelle cose che sonoinferiori a lui, o rivolgendosi verso quelle, che gli sonosuperiori». Ma appunto perché comprende il discorsod’Ulisse, l’elefante diviene uomo.

Di questa condizione umana, ambigua, sofferente ep-pur nobile per il legame terreno, son pieni anche i Capric-ci del bottaio, ove si insinua continuamente lo spirito del-l’ascetismo platonico, «perché e’ non sono beni... questibeni mondani»208. Nella Circe, anzi, v’è un interessantecenno al danaro, utile strumento, fattosi poi, per l’avari-zia, fonte di schiavitù e sofferenze umane209. Nei Marmi

208 SIMONIS PORTII De dolore, Flor. 1551. G. B. GELLI,La Circe, I Capricci del Bottaio ecc., Milano, 1878. Una «urbanae modesta» riflessione morale, tratta dalla tradizione medieva-le del Panciatantra, ritroviamo nella Prima veste dei discorsi de-gli animali del Firenzuola («la filosofia apparisce più bella conmansueto aspetto, puro e semplice abito, che coll’orrido super-cilio coperto da qualsivoglia cappello; e... chi per parer savio simostra in volto torbido e collerico, il più delle volte ha l’intel-letto così rozzo come egli dimostra nel sembiante»); e così purene La filosofia morale di G. B. Doni (nuova ed., Ferrara, 1610).

209 Circe. ed. cit., p. 67: «furono da voi ritrovate le città,dove poi poteste, abitando comodamente insieme, provvedere

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il Doni, mentre insiste sull’infinita miseria del possesso,nell’inquietudine umana vede, non segno di gloria, macondanna. Anche all’uomo era stata assegnata una sorte,quella d’Adamo in paradiso. L’uomo, peccando, è deca-duto nel regno del tempo e della morte, dell’apparire va-no. «Il tempo e la morte son signori del tutto. Ultima-mente, non ci trovo altro al mondo che opinione: l’uo-mo si ficca una fantasia maledetta nel capo e va dietro aquella, pascendosi tanto che finisce i suoi giorni; oggi siconturba tutto per la roba, domani s’adira per la digni-tà, l’altro si cruccia per i figlioli, tal ora muor di dogliae spesso crepa d’allegrezza; così ogni dì, ogn’ora mutavoglia, faccenda e stato»210.

4. Vita attiva e contemplativa

Non altrettanto brio troviamo nei dialoghi del Tasso, ovei temi d’obbligo ritornan tutti, ma senza originalità vera.Più gioverebbe, forse, ricercare le osservazioni sparse dalVarchi in certe sue lezioni sull’invidia e la gelosia , omagari le raccolte di lettere, che sono talora trattatelli

a’ bisogni l’un dell’altro. E acciocché voi conseguiste meglioquesto fine, non avendo sempre bisogno uno di quelle coseche ha colui che ha bisogno delle sue, voi trovaste ancora ildanaro, mezzo certamente bellissimo, e molto accommodatoper la commutazione delle cose: ma poiché egli arreca tanticomodi al viver vostro, voi l’amate tanto straordinariamente,che e’ non è cagione fra voi di manco male, che si sia di bene».Ma cfr. in proposito di Bernardo Davanzati i due scritti, del1588. Sulle monete e sui cambi.

210 A. F. DONI, I Marmi, a cura di E. Chiorboli, Bari, 1928,vol. I, p. 268 sgg.

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edificanti, come la lunga epistola di Claudio Tolomei aDionigi Atanagi sulla ricchezza e la povertà211.

Le opere dichiaratamente morali, dialoghi o trattati,tornano sempre sui motivi consueti che si fanno fastidio-samente banali. Ed ecco le innumerevoli discussioni sulduello, sull’onore, sulle virtù del gentiluomo, sulla nobil-tà, dal massiccio trattato di Antonio Bernardi della Mi-randola, plagiato dal Possevino, agli scritti del Farra, delSardo, del Romei, del Nobili, alle solite composizioni delMuzio, ai dialoghi del Tasso. Ecco il Trattato della lode,dell’honore e della gloria del Verino secondo, e i dialoghiDello dignità di Bernardino Baldi; per non dir dei con-fronti fra le armi e le lettere. Non a caso le sette giorna-te in cui il Romei distribuì i suoi Discorsi sono dedicateappunto a questi argomenti212.

211 B. VARCHI, Opere, II, p. 568 sgg.; C. TOLOMEI,Delle lettere, libri sette, Venezia, 1585, p. 162 sgg.

Ma, tra le lettere, vi sarebbe larga messe da cogliere; cfr.per es. quella del Caro a Bernardo Spina dove si toccano isoliti temi della vita monastica e solitaria, del ritiro dal mondoecc. ANNIBAL CARO, De le lettere familiari, volumi due,Venetia, 1587; Lettere familiari (1531-1544), Firenze, 1920 (e,ora, l’ed. critica a cura di A. Greco, 3 voll., Firenze, 1957-61).

212 Cfr. per es. A. BERNARDI DELLA MIRANDOLA,Eversiones singularis certaminis; G. B. POSSEVINO, Dialogodell’onore nel quale si tratta del duello, Venezia, 1553; POM-PEO DELLA BARBA, Due... dialoghi... de’ segreti della na-tura... sull’armi e le lettere, Venezia, 1558; G. MUZIO, Il duel-lo, Venezia, 1553; Il Cavalier, Roma, 1569; Il gentiluomo, trat-tato della nobiltà, Venezia, 1571; Avvertimenti morali Venezia1572; F. NOBILI, De hominis felicitate, De vera et falsa volup-tate, De honore, Lucae, 1563; A. FARRA, Settenario... sull’in-nalzarsi dell’anima alla contemplazione di Dio, Venezia, 1594;FRANCESCO DE’ VIERI, Trattato dell’honore, della fama,et della gloria, Firenze, 1580; B. BALDI, Della dignità; L’arcie-ro, in Versi e prose, Firenze, 1859, pp. 293-402. Il commen-to alla Nicomachea del Bernardi della Mirandola nell’Urb. lat.1414.

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Un posto a sé, tuttavia, meritano i Dialoghi di Spero-ne Speroni, già più volte menzionati, e nella loro primastesura ripresi in parte da Alessandro Piccolomini, quan-do questi compose originariamente la sua Istituzione. LoSperoni, vedemmo, ebbe vivissimo il senso della «comu-nicazione» umana, ed alle lingue e alla retorica dedicò al-cune delle sue pagine più degne. Ma nella seconda par-te dei dialoghi egli venne largamente discutendo anchedi altri problemi assai gravi, e in particolare del rapportofra vita attiva e contemplativa, e della storia. Intorno alprimo punto, la conclusione messa in bocca ad AntonioBrocardo è ferocemente avversa al puro contemplare, vi-ta, com’egli dice, non umana né cristiana. Quando si co-stituiron le città, egli afferma, fra gli uomini deboli, inuti-li, miseri «e non ben vivi», vi fu qualcuno «non migliore,ma meno scempio de’ suoi consorti, il quale, per coprirela sua viltà, finse una vita, onde e’ paresse di rifiutar tut-to il bene che non poteva ottenere, la qual vita niuna co-sa umanamente operando, ma vanamente considerandole cagioni dell’opere della natura e di Dio... con un belloe gran nome, non più inteso da alcuno, fu chiamata spe-culativa». Così «nacque e crebbe e visse... felicementenella follia de’ volgari la vana vita contemplativa»; vanaperché, tutta presa a investigare il mondo di Dio, rima-ne estranea al nostro mondo, ch’è il mondo degli uomi-ni. E i «filosofi speculativi,... tutti intesi alla vanità del-lo speculare, tanto sanno del nostro vivere umano, quan-to saprebbe chi... fosse nato tra’ mutoli, o fuor del mon-do albergasse». L’uomo è come una spada che Dio hafatto, non perché mediti su sé e le cose, ma perché valgaal combattimento; «l’uomo non dee spendere suo tempoin investigare troppo curiosamente in qual guisa creasseDio la nostra anima, ma lei fatta dee adoperare in ma-

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niera che in ogni sua operazione buono essendo, semprevoglia esser buono, e sempre buono sia riputato»213.

Per bocca del Brocardo lo Speroni giungeva qui a unaposizione estrema ma significativa, apertamente rivoltacontro la cultura accademica, la quale, platonica o ari-stotelica che fosse, insisteva sulla superiore dignità delcontemplare. Né a caso il Tasso mette in bocca al Por-zio l’ammonimento: «non superbisca... la nostra umanaprudenza, né si stimi tanto, ch’ella possa paragonarsi col-la dignità della sapienza, perché le cose, ch’ella conside-ra, sono umane, ma dell’uomo sono molte cose più divi-ne...». E poco innanzi, discorrendo del saggio virtuosoche fugge il mondo, aveva osservato come egli non fug-ga «fra le cose inferiori, ma fra le superiori; non fra le ca-duche, ma fra l’immortali; non fra le terrene, ma fra lecelesti; e nella fuga si assomiglia a Dio»214.

Così se prendiamo il terzo volume del corpus aristoteli-co-averroistico pubblicato in Venezia dai Giunta, possia-mo leggere, nella prefazione ai libri morali, stesa da Gio-van Bernardo Feliciano, una discussione de duplici homi-nis felicitate, duplicique eius vita, activa et contemplativa,ove la perfetta felicità del contemplante è esaltata nellasua stessa solitudine totale (hominem verum et contem-plativum non esse sociabilem)215.

Per questo assume un singolare rilievo l’ampia e com-plessa trattazione di Paolo Paruta, nei dialoghi Della per-fezione della vita politica216, pubblicati nel 1579, ed in cui

213 Dialoghi del Sig. SPERON SPERONI, nobile Padova-no, di nuovo ricorretti a’ quali sono aggiunti molti altri non piùstampati, Venezia, 1596, pp. 180-215.

214 T. TASSO, Prose filosofiche, Firenze, 1847, I, pp. 22, 33.215 ARISTOTELIS Stagiritae Libri, Tertium volumen, Ve-

netiis, 1574 (FELICIANI praefatio).216 PAOLO PARUTA, Opere politiche, a cura di C. Monza-

ni, Firenze, 1852, vol. I, p. 118 sgg.

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figura anche uno dei personaggi del dialogo dello Spe-roni, Gaspare Contarini. L’opera del Paruta, che nelsuo andamento ricorda non poco le discussioni quattro-centesche intorno alla vita civile, tocca anche, in gene-re, tutti i temi tradizionali, come ad esempio, quello del-la fortuna217. Ma affronta in pieno il problema della di-gnità della vita attiva. Nessuno nega, osserva il Paruta,che il puro contemplare, nella sua totale perfezione, qua-le potrà realizzarsi in intelletti angelici, sia cosa sublime.Ma all’uomo, vincolato al senso, tale sommità è preclu-sa. «In quel modo, adunque, che miglior artefice è coluiche esercita perfettamente alcuna arte, tuttoché ella nonsia tra le più nobili, che quell’altro non è, il quale datosiad arte più degna, altro di quella non ne abbia appresoche certi princìpi; così più vero uomo e più felice si devestimare chi è ornato d’un abito perfetto di prudenza...».Né, questa, è una rinuncia. L’uomo, in verità, raggiun-ge Dio proprio nel rapporto umano, «avendo rispetto albeneficio che può l’uno prestare all’altro, insieme viven-do nella vita civile. Quale... sarà studio più nobile, qualepiù vera filosofia, che quella che ci ammaestra nelle no-stre umane azioni, e ci insegna di ben reggere noi stessi,la famiglia e la Patria? Perciocché, non è la filosofia, co-me ben diceva Pindaro, quasi un’arte statuaria, che fac-cia le figure mutole, prive di sentimento: anzi, ha ella arisvegliarci gli spiriti, e a renderli meglio disposti e prontialle operazioni civili; onde, da quella ammaestrati, pos-siamo con maggior frutto adoperarci per lo ben comu-ne... Queste son opere veramente egregie e divine; alle

217 Sulla fortuna lo Speroni compose un dialogo molto biz-zarro sostenendo che, «così come il nostro intendere non è acaso, ma è umano artifizio così il caso non è inteso d’alcuno, etè caso pure perciò, né lo sarebbe se intendendo si conoscesse»(Dialogo sopra la fortuna ed. cit., pp. 509-15).

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quali appena meritano d’esser paragonate quelle dell’uo-mo solitario, come se a sé solo nato fusse».

Pochi anni prima, nel ’74, Stefano Guazzo ponevaugual concetto in quei suoi dialoghi de La civil conver-sazione, che volevano essere insieme un manuale di bellemaniere e di morale volgarizzata. E l’uomo simile all’a-pe, «che non può viver sola», e la natura del linguaggio,e la moralità come socialità, sono i motivi che nell’operatornano, fino al fastidio, per oltre seicento pagine, mo-desta ma significativa epigrafe di tutta una vasta corren-te di pensiero, che sul fallimento politico d’Italia speravaancora di vedere l’alba di un rinnovamento morale.

5. Storia e vita politica

Quanto strettamente connesse a queste riflessioni fosse-ro le meditazioni sulla storia, e le ricerche storiche me-desime, non è chi non veda. Il Sigonio, tessendo in unasua orazione le lodi della storia, osservava appunto cheessa non è, «se non la diligente e chiara dimostrazionedella scienza morale»218. Gli storici ci attestano la real-tà di quello che i moralisti ci insegnano, e accordano co-sì sul terreno concreto essere e dovere (etenim philoso-phi quid agere homines debeant, historici, quid praeclareegerint, docent). Senza la conferma dello storico i precet-ti morali sembrerebbero appelli vani e ridicoli, lanciati alvento, laddove l’esempio li trasforma in solenni guide evitali orientamenti.

In un vastissimo dialogo, un trattato vero e proprio,ov’è menzionato largamente anche il Pomponazzi, Spe-ron Speroni cerca di determinare che sia la storia, masenza muoversi dal parallelo d’Aristotele fra storia e poe-sia, riducendo la storia alla narrazione del particolare. Il

218 G. SIGONII orationes (Lugduni, 1590), p. 87.

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quale, tuttavia, si presenta come la verità che lo storico,col sussidio dell’arte retorica, rende efficace219.

Né più oltre sembra andare il platonico Patrizi nei suoidialoghi Della historia, usciti in Venezia nel 1560, il qualecercava sì nel corso degli eventi la certificazione di undivino piano provvidenziale, ma soprattutto vi trovavainsegnamenti di prudenza politica e incitamenti alla vitavirtuosa. E, come lui, Aconcio nelle note che stese,imitandolo, quattro anni dopo220.

Tuttavia, più che in considerazioni teoriche sulla sto-ria, i frutti di questa meditazione sul concreto agire de-gli uomini nel mondo umano maturarono nelle disserta-zioni politiche, che di storia si alimentavano appunto, eche si costituivano insieme come avvertimenti civili e co-me filosofiche considerazioni intorno alle umane vicen-de. Effettualità storica e meditazione morale si congiun-gevano nella politica, oscillante fra il commento al pas-sato e l’insegnamento per una ricostruzione avvenire, almargine fra etica e storia, fra vagheggiamento di platoni-che città ideali e crudele fedeltà all’inesorabile corso de-gli eventi, non giudicati, ma integralmente accettati. Diqui i trattati di politica in forma di commenti a opere sto-riche, le quali – al dir del Giannotti221 – ci permettono «diconoscere con vivi esempi quelle cose che si deono fuggi-re e quelle che si deono seguitare». E tale insegnamento

219 SPERONI, Dialoghi, pp. 361-502 (interlocutori SilvioAntoniano, Paolo Manuzio e Girolamo Zabarella).

220 Della Historia dieci dialoghi di M. FRANCESCO PA-TRITIO, ne’ quali si ragiona di tutte le cose appartenenti al-l’Historia et allo scriverla et all’osservarla, Venezia, 1560; J.ACONCIO, Delle osservazioni et avvertimenti che aver si deb-bono nel leggere delle historie, in Opere, ed. Radetti, p. 303 sgg.(Cfr. FR. ROBORTELLUS, De historica facultate, Florentiae,1548).

221 D. GIANNOTTI, Opere (Della repubblica veneta, pref.),in Scritti politici, Milano, 1830, p. 32.

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ci viene, insiste il Giannotti, non per qualche valore pa-radigmatico degli antichi, ma perché essi furono sottili eprecisi espositori; «laonde io giudico che quelli si deb-bano assai commendare, i quali... investigando i costu-mi dei tempi nostri, non sono di quelli al tutto disprez-zatori, ma ne ritraggono quel frutto e quella utilità, chesi puote di cose non perfetti trarre». La storia ci propo-ne dinanzi, viva nella sua dinamica articolazione, la so-cietà, e ci permette di cogliere in essa quella immutabi-le umana natura, che è rimasta sostanzialmente la stessacol volger dei tempi. È vero, infatti, osserva Machiavelli,che le cose umane sono sempre in moto; ma, e vi insiste-ranno ugualmente un Cardano o un Bruno, si tratta, nondi un processo, ma di un vano mareggiare («o le salgonoo le scendono»). E l’ammirazione per l’antico non nasceche da un maggiore distacco, e dallo spegnersi delle pas-sioni («timore e invidia»), finché l’occhio si faccia capacedi cogliere nella sua essenza immutabile l’umanità civile,tanto che sembra venir meno fin la ragione «del lauda-re e biasimare». «E pensando io come queste cose pro-cedino, giudico il mondo sempre essere stato ad un me-desimo modo, ed in quello essere stato tanto di buono,quanto di tristo, ma variare questo tristo e questo buo-no di provincia in provincia»222. La considerazione dellastoria convince Machiavelli della immutabilità sostanzia-le dell’umana natura e delle umane vicende, ove il mar-gine lasciato dalla necessità obbiettiva alla nostra virtù èben poco, e non sai mai se esso non sia in fondo che ilfrutto di una nostra opinione, e insufficiente conoscen-za. Proprio di qui nasce talora un’ambivalenza di scelle-ratezza e virtù, che se non potrà redimersi di fronte allacoscienza morale, si riscatta tuttavia in una fredda e ra-zionale visione dell’essenza delle cose. Nella quale tut-

222 MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima deca di TitoLivio, II.

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to rientra, anche la religione intesa come fenomeno e av-venimento puramente umano, riassorbito in una visioneche prescinde da quanto esorbiti dal necessario, eterno,uniforme accadere.

Che era poi, in Machiavelli, un trapassare su un pianometafisico, insinuando in quella che voleva esser monda-na e concreta visione del mondo degli uomini la premes-sa di una concezione rigidamente naturalistica della real-tà. Come colse sottilmente il Guicciardini, innamoratodi una aderente fedeltà alla mobile e singolare esperien-za umana. «Io per me non so che maggior diletto mi po-tessi avere, che udire parlare delle cose pubbliche e ci-vili un uomo di grande età e di singolare prudenza, chenon ha imparato queste cose in su’ libri da’ filosofi, macon la esperienza e con le azioni, che è il modo vero delloimparare»)223.

Guicciardini, infatti, si tiene ben fermo a quel limi-te di indeterminatezza lasciato incerto dal Machiavelli,sempre preoccupato della natura delle cose. Guicciar-dini non ci parla di quel che è naturale, necessario; diquello che si verifica sempre. Egli insiste sulla «varietàdelle circumstanze», sulla «diversità», sulla fluidità del-la «esperienza», sull’accidentale, sul caso, sulle «varie na-ture degli uomini». E «le cose del mondo» egli insegnaa «giudicarle e risolverle giornata per giornata». Che fuil segno più alto della sua sapienza civile, rifiuto preci-so di ogni astrazione filosofica d’intorno al civile mondodegli uomini, avvio consapevole a una filosofia dell’uma-no, veramente fedele all’effettualità dei rapporti umani.E con ciò Guicciardini si poneva oltre quei tardi cinque-centisti, che non più su Livio, ma ormai su Tacito, eppur

223 F. GUICCIARDINI, Del reggimento di Firenze, I, Opereinedite, 1858, vol. II, p. 13. (Cfr., a questo proposito, V. DECAPRARIIS, Francesco Guicciardini. Dalla politica alla storia,Bari, 1950, p. 14 sgg.).

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sempre sulle orme di Machiavelli, ancor vedranno sto-ria, politica e morale come determinazione della «veritàimmutabile» della natura dell’uomo e delle cose224.

224 Discorsi del Signor FILIPPO CAVRIANA, cav. di S.Stefano sopra i primi cinque di Cornelio Tacito, Firenze, 1597(«Al Lettore»).

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INDAGINI SULLA NATURA

1. Leonardo da Vinci

Alla radice di gran parte della scienza del Rinascimentoresta, sottinteso, il presupposto, dal Ficino messo in chia-ra luce, di una corrispondenza perfetta fra mente uma-na e realtà attraverso la matematica, in cui si rispecchiaesemplarmente il ritmo preciso con cui Dio ha creato l’u-niverso (numero, pondere et mensura). Questo sottinte-so pitagorico-platonico, di una specie di armonia presta-bilita fra mondo e uomo, fondata sul platonico Dio geo-metrizzante, è comune così a Leonardo, «omo sanza let-tere», come a Galileo, nemico dei «trombetti» ripetitoridell’antico, ma dogmaticamente sicuro del fatto che Dioha scritto l’universo in caratteri matematici.

Era l’implicito riferimento, fattosi esplicito poi nelcartesianismo, al Dio verace, all’immutabile fondamen-to della ragione divina. Come osservava al principio del’500 Luca Pacioli, «Idio mai non se po’ mutare», e «tut-to ciò che per lo universo inferiore e superiore si squa-terna, quello de necessità al numero, peso e mensura fiasoctoposto»225. Il cabbalismo di Pico e dei pichiani, fi-no alle sue estreme risonanze nel ’600, è fondato su que-sta pitagorica fiducia nelle virtù del numero. Non diver-so l’atteggiamento di Leonardo da Vinci, il quale, se di-spregia i grammatici, irrigiditi sull’opposizione fra scien-ze della natura e dello spirito, vede poi la natura, moltoficinianamente, pregna della divina ragione «che in lei in-fusamente vive». La sua esperienza, come atteggiamen-

225 L. PACIOLI, Divina proportione, Vienna, 1889 (I ed.,1508).

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to, non è diversa da quell’umile rispetto predicato dagliumanisti dinanzi ai testi che essi leggevano e interpreta-vano. Solo che Leonardo, oltre le opere dei poeti, volevaleggere l’opera di Dio, il libro del mondo; «or non san-no questi – egli esclama – che le mie cose son più da es-ser tratte dalla sperienza, che d’altrui parola, la quale fumaestra di chi bene scrisse, e così per maestra la piglio».

A suo modo anche Leonardo è figlio degli umanisti; illoro metodo, che era il ritorno, oltre ogni diaframma, al-la realtà genuina, era il suo metodo; solo che, per tornarealla realtà fisica, bisognava far giustizia di ogni autorità,e liberare le cose degli «accidentali vestiti». «La sapien-za è figliola della sperienzia. Chi disputa allegando l’au-torità, non adopera lo ’ngegno, ma piuttosto la memoria.Fuggi li precetti di quelli speculatori che le loro ragioninon sono confermate dalla isperienzia». Esperienza cheè porta aperta a vedere la ragione delle cose; esperienzache è, non negazione della ragione, ma rispetto per la ra-gione delle cose oltre la nostra ragione: «nessun effettoè in natura sanza ragione: intendi la ragione e non ti bi-sogna sperienzia». Perché di una cosa è soprattutto con-vinto Leonardo con fermissima fede, che la natura è in-timamente retta da una regola razionale («la natura è co-stretta dalla ragione della sua legge, che in lei infusamen-te vive»); che questa regola si esprime e si traduce ma-tematicamente («nissuna umana investigazione si po’ di-mandare vera scienzia, s’essa non passa per le matemati-che dimostrazioni»); che questa anima razionale dell’uni-verso è forza che penetra ovunque, sigillo molteplice del-l’unico Sole del tutto («el suo lume allumina tutti li cor-pi celesti, che per l’universo si compartono, tutte l’animediscendon da lui perché il caldo, ch’è in nelli animali vi-vi, vien dall’anime, e nessun altro caldo né lume è nell’u-niverso»). E non è chi non veda quanto di ficiniano vi siain questo Sole.

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L’esperienza non ha che una funzione intermedia, ac-certatrice, che svela come il discorso razionale non siesaurisca nella mente come possibilità pura. «Se tu diraiche le scienze, che principiano e finiscono nella mente,abbiano verità..., si niega», perché «in tali discorsi men-tali non accade sperienzia, senza la quale nulla dà di sécertezza». E questa verifica è necessaria al ragionamen-to umano perché la mente umana non è creatrice, comequella divina, alla quale invece si assimila quella dell’ar-tista il cui concepimento sbocca non in una verifica, main una produzione; «la deità ch’ha la scienza del pittoresi trasmuta in una similitudine di mente divina, imperoc-ché con libera potestà discorre alla generazione...».

2. Girolamo Cardano

Reminiscenze platoniche, unite a un vivo interesse perl’indagine naturale, ritroviamo in quel Girolamo Carda-no che il Bruno nel De immenso condannava senz’altrocome rudis et amens fabulator. Nell’epistola nuncupato-ria, premessa a quella vasta e curiosa enciclopedia che èil De rerum varietate, non senza efficacia il Cardano pre-senta la sete insaziata di conoscenza che lo spinge alla ri-cerca: «la gioia e la felicità suprema, per l’uomo, consi-ste nel conoscere gli arcani segreti del cielo, i misteriosipenetrali della natura, le menti divine, l’ordine dell’uni-verso». E questo sapere libera veramente l’uomo dal suopeso mortale («a mortalitate ipsa seiungitur»). E que-sto sapere il Cardano credeva di avere abbracciato nelsuo complesso, e unificato nella sua fontale divina radice:«quella sublime altezza, da nessuno raggiunta dopo Plo-tino, e cioè l’origine e il fine di tutte le cose, io l’abbrac-ciai nei miei sette libri De aeternitatis arcanis; ed ugual-mente l’ordine dell’universo e di tutte le singole cose inesso contenute, nei quattro libri De fato». Ammiratore

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dell’esperienza, e sostenitore a oltranza dell’indagine na-turale, egli, tuttavia, ne sentiva l’insufficienza, ed affer-mava così, in pari tempo, i diritti della ragione matema-tica. Anzi, com’egli ripete, solo un processo discenden-te dall’uno ai molti potrebbe evitare incertezza al nostrosapere («inde incerta nostra cognitio, quae si ab uno admulta descendere posset, confusionem vitaret»). Ma illegame col corpo, l’instabile sintesi senso-ragione, ci im-pedisce di afferrare in pieno quelle essenze ideali («resincorporeae»), che sono i princìpi dei corpi stessi («quaeetiam corporum sunt principia»), e soprattutto ci togliela visione adeguata del nesso causante, per cui le cosestesse si generano dai loro princìpi. Il nostro sapere fi-sico è un sapere di superficie; è uno scivolar sulle cose,senza penetrarne l’anima, mediante pure analogie e simi-litudini («anima humana, in corpore posita, substantiasrerum attingere non potest, sed in illarum superficie va-gatur... scrutando mensuras..., similitudines...»). La ma-tematica è valida nella sua formalità astratta; la sua cer-tezza risiede nella mente che la produce, e che, essendoinsieme la cosa prodotta, la possiede a pieno («scientiavero, quae res facit, est quasi ipsa res...»). Ma la possie-de nell’ambito preciso della sua produzione, senza potervalutare integralmente la validità sua per la conoscenzadella realtà fisica.

Cardano, insomma, sente tutta la difficoltà del passag-gio dal mentale al reale, dalle idee («a principiis animaeab initio inditis») alle cose. Egli è ben convinto dell’ordi-ne del tutto («tantum rerum ordinem»), del vincolo cheil tutto unifica ( «omnia connexa sunt atque in un unumdeducta»), ma non sa trovare il nodo, il punto dell’unio-ne, e resta perplesso fra l’unità postulata dalla ragionee la dispersione dell’esperienza. Per cui dogmaticamen-te è tratto a negar vita e movimento al tutto, immobiliz-zato attraverso la dottrina dell’eterno riorno, che riduceil divenire a mera parvenza. «Ritornano, non solamente

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le cose naturali, ma anche le nostre opinioni... Restanole stesse anime, uguali di numero..., e infinite volte si ri-petono le medesime opinioni, le vere e le assurde». Co-me per Bruno, che insisterà eloquentemente sul mede-simo concetto, i molti e l’Uno si fissano senza sviluppo,e gli stessi processi dell’intelletto, quasi coesteso al tut-to («quasi coextenditur omnibus») sfumano in un ritmoche si meccanicizza e perde valore («contrahitur et ex-tenditur, fulget et obscuratur, silet et operatur»). Tan-to è vero che il trapasso al divino, che Cardano non ne-ga, e che apre all’uomo la possibilità del miracolo, restamisterioso e miracoloso esso stesso. Eppure solo lì, nellaconnessione Uno-molti, sta il segreto dei molti e del loroordine; ma saperlo è precluso all’uomo – si scirem, Deusessem.

Per questo l’esperienza si sgretola in mille osservazio-ni slegate, e la metafisica si inaridisce nella postulazioneastratta dell’Uno plotiniano; per questo, forse, Cardano,come poi anche il Della Porta, guarda, piuttosto che alcorso normale degli eventi, allo straordinario e al miste-rioso, sognando il bagliore illuminante di una divina ri-velazione («afflatus, cum manifeste cognoscimus admo-neri divinitus»)226.

3. Girolamo Fracastoro e G. B. Della Porta

Su un piano, invece, assai più rigoroso d’esperienza –magistra experientia – volle mantenersi in tutte le sue in-dagini Girolamo Fracastoro, il quale si preoccupa sem-pre di ritrovare la causa particolare e propria, e non uni-versale e prima («hic non universalem et primam causamquaerimus, sed particularem et propriam, quale esse nonpotest eorum ullum, quae immaterialia sunt»). E questo

226 Dall’edizione di Lione, 1663, in 10 voll., di tutte le opere.

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è il tema che si propone nel De sympathia et antipathiarerum, dove, ricercando le origini del «mirabile consen-so» che avvince le particelle costitutive delle cose, inten-de simpatia e antipatia in termini di mere forze fisiche,escludendo qualunque elemento misterioso o «spiritua-le». E con lo stesso tono combatte l’astrologia applica-ta alla medicina, e, nel Turrius, descrive fenomenologica-mente i processi del conoscere.

Lo scienziato, come tale, descrive e precisa le causeparticolari, o, come meglio si direbbe, i nessi costantiche collegano l’uno all’altro fenomeno. La causa, e cioèla potestà generatrice delle cose, è su altro piano, inat-tingibile alla umana cognizione. Ne canterà il poeta, eFracastoro fu fine poeta, inneggiando alla libera, divina,generatrice Natura, capace, se voglia, di mutare l’ordinestesso delle cose («forsitan et tempus veniet...»).

In una lettera a Giovan Battista Ramusio il Fracasto-ro si vantava che, nei suoi «bizzarri» studi di medicinaastrologica, sui giorni critici, aveva salvato ogni cosa concause naturali («io salvo ogni cosa del moto dei nostriumori»)227. Giovan Battista della Porta nei molti suoiscritti di magia, di astrologia e simili, partiva anch’eglidalla stessa esigenza, di ricondurre sotto il segno dell’in-dagine scientifica quel complesso di corrispondenza fracorpo e anima che sembrano invece dominio del meravi-glioso e dello straordinario: «osservare con occhi di lincei fenomeni, onde, compiuta l’osservazione, tosto si pos-sa operare». Magia naturale, così, è scienza, che offre unpronto trapasso alla tecnica228; fisiognomonia è determi-

227 Lettere di XIII huomini illustri, p. 713; H. FRACASTO-RI Opera, Venetiis, 1584.

228 JO. BAPTISTA PORTAE... Magiae naturalis libri vi-ginti (Hanoviae, 1644), I, 2: «unde vos, qui Magiae visuri acce-ditis, nil aliud Magiae opera credatis, quam naturae opera, utiars ministra, et sedula famulatur...».

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nazione dei rapporti di interdipendenza fra animo e cor-po, fra materia e spirito, fra le stelle e la vita umana; «l’e-sperienza ci fa scorgere con facilità che l’animo non è im-passibile rispetto ai moti del corpo, così come il corpo sicorrompe per le passioni dell’animo».

Ma, tosto, il Della Porta si lascia sedurre dal meravi-glioso, dall’eccezionale, dal miracolo, e non esita a pro-clamare che «chi cerca una ragione di tutto, distrugge in-sieme scienza e ragione; chi non ha fede nei miracoli del-la natura, cerca in qualche modo di distruggere la filoso-fia». Non, come nel Fracastoro, l’umile impegno a segui-re il comportamento costante, ma il costante desiderio disorprendere la chiave dell’attività produttrice delle cose,«il secreto e lo modo d’oprare... molto alto e degnissi-mo», la pietra filosofale, l’arte del miracolo. Ed è vera-mente curioso questo rovesciamento, per cui, partiti percostruir la scienza sull’uniforme, si vuol poi, nell’eccezio-nale, trovar la spia della creatività stessa della divina Na-tura. Che era, in fondo, un modo diverso di tradurre l’in-quietante problema del Cardano, di passare dall’Uno di-vino al molteplice reale, che l’uomo arriva sì a descrivere,ma non riesce a spiegare229.

4. Andrea Cesalpino

Un più fedele peripatetismo, senza indulgenze per so-gni magici, ci offrono invece le Quaestiones peripateticaedi Andrea Cesalpino, uscite in Venezia nel 1571, e nel-le quali l’aristotelismo è inteso come rinvio all’esperien-za concreta. È vero, com’egli afferma, che Aristotele hainnalzato la filosofia al suo estremo culmine umano, tan-

229 De furtivis literarum notis, vulgo de ciferis, libri quatuor,Neapoli, 1563, Introd.: «ita me semper ad haec propensumnatura tulit, ut arcani quid et abditi inde depromerem...».

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to che, «dopo quasi duemila anni, ogni fatica è volta aintendere solo Aristotele». Ma è anche vero che seguireAristotele non significa altro che osservare la natura. «Sedai corpi naturali noi riceviamo un insegnamento senzaerrori, perché dunque avere maggior fede nella ragione?È una debolezza dell’intelligenza abbandonare la perce-zione per invocare la ragione». Il dato immediato nonmente mai; «possiamo noi credere a una menzogna dellanatura, quando ci indica il polo con la calamita, ...o nondobbiamo piuttosto attribuire la menzogna alla ragioneche si allontana dalla natura?»

E questa natura egli presenta, aristotelicamente, mos-sa verso un fine, scandita in ordine per gradi, ma ove ognigrado intende alla propria perfezione. In questo modo fi-nalità non significa svalutazione dell’inferiore di fronte alsuperiore, ma, anzi, rivalutazione di ogni momento in séconsiderato. Così non vi sono parti o funzioni vergogno-se: «nella natura non ci sono vergogne, anche le cose piùvili hanno la loro parte di divino».

Proprio l’accentuazione del valore di ogni momento,di ogni grado della realtà come in sé perfetto, lo indurrà,trattando dell’anima, a volgersi verso l’immanenza piena,e la connessione più stretta del sensibile con l’intelligibi-le, fino a domandarsi «in qual modo mai si possano diffe-renziare le anime degli uomini da quelle degli altri esse-ri mortali»230. Naturalmente egli non si fermò qui, e consomma ambiguità tentò di salvare l’immortalità dell’ani-ma individuale. Ma la sua posizione resta comunque delmassimo interesse, più che per sottili osservazioni parti-colari, per questo suo aristotelismo che si fa aperta e fer-ma difesa dei diritti dell’esperienza e dell’immediata os-servazione della natura. Non a caso il De rerum natura

230 A. CESALPINO, Questiones peripateticae, Venetiis,1571.

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juxta propria principia del Telesio si svolgerà spesso coltono di un commento alla fisica d’Aristotele.

5. Bernardino Telesio

Bernardino Telesio, cosentino, fu discepolo nei primi an-ni di uno zio, Antonio Telesio, oscuro poeta inneggian-te alla omniparens natura in versi lucreziani. Ma sarebbemolto artificioso cercare in lui un’ispirazione originale,in un’epoca in cui un po’ tutti, su esempi illustri, segui-vano una moda diffusa. Né Bernardino Telesio fu estra-neo alla cultura filosofica del suo tempo, ma studiò a Pa-dova, ed ebbe stima e venerazione per Vincenzo Mag-gi, il ben noto aristotelico, cui sottopose i primi due li-bri del suo capolavoro, discutendone lungamente ed ot-tenendone l’approvazione («principia non improbavit, etquod non e principiis flueret videre nihil potuit»). Idealeconnessione, dunque, con il più intelligente aristotelismoufficiale, di cui non si può non tener conto.

Ai contemporanei, e a quanti l’han preceduto, Tele-sio rimprovera soprattutto di aver costruito arbitrari si-stemi, miscugli strani d’esperienza e ragione, non rispet-tando né ascoltando la natura, ma barbaramente facen-dole violenza. «Troppo fiduciosi in se stessi, senza osser-vare come conveniva le cose in sé e le loro forze, senzariconoscere nelle cose la grandezza, intelligenza e capa-cità, che ad esse erano state date, ma gareggiando in sa-pienza con Dio nel ricercare con la ragione i princìpi ele cause del mondo, credendo di dover inventare quelloche non riuscivano a trovare, hanno immaginato il mon-do a loro arbitrio (veluti suo arbitratu mundum effinxe-re)». E l’hanno veramente ricreato, se anche in modo deltutto fittizio, a propria immagine e somiglianza, a emula-

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tori non solamente della sapienza, ma della potenza an-cora di esso Dio»231.

Telesio sdegna tali metodi (tardiore ingenio et ani-mo remissiore), e si propone una sapienza non divinama umana (humanae omnino sapientiae amatores culto-resque), semplice fino all’umiltà. Il sottinteso polemicocontro il concetto di un uomo che fa sé misura dell’uni-verso si svela nell’insistenza con cui batte sul fatto chela sua opera non reca in sé nulla di mirabile (nihil di-vinum, nihil admiratione dignum, nihil etiam valde acu-tum). Misura del nostro sapere, come del nostro opera-re, è la natura quale si svela al senso, che è, anch’esso, na-tura. «Noi abbiamo seguito il senso e la natura; la naturache, perennemente concorde con se stessa, opera e com-pie sempre le medesime cose nel medesimo modo (per-petuo sibi ipsi concors, idem semper et eodem agit modo,atque idem semper operatur)». Ove ciò che più interes-sa è questa fede, ingenua insieme e dogmatica, nella uni-formità e costanza della natura, sempre uguale a sé, fis-sa, dominata da norme inderogabili. Natura uniforme,che si rivela pienamente nel senso, che è, anzi, essa stes-sa senso per l’universale sensibilità («tutti gli enti hannosenso»).

Analizzando, infatti, la struttura della realtà, Telesio siscosta meno di quel che può a prima vista apparire dal-l’aristotelismo. Complessa, egli insiste, è la sostanza diogni ente reale, e formata da un substrato recettivo, cheè la materia, e da due forze agenti, il caldo e il freddo.Ora, benché talvolta egli chiami sostanze per sé ciascunodi questi elementi, in realtà ogni particella («quantulavis

231 BERNARDINI TELESII De rerum natura, a cura di V.Spampanato, Modena, 1910, Roma, 1926; Delle cose naturali,trad. di Francesco Martelli (1573), dall’ed. in due libri (Imanoscritti palatini di Firenze, a cura di F. Palermo, III, Firenze,1868, pp. I-232).

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entis cujusvis particula, quin punctum quodvis») è sem-pre un’unità complessa, costituita da un intimo rappor-to di passività-attività, forza agente-resistenza; di aspet-ti, insomma, che sola una considerazione astratta isola eprende per sé232.

Ma v’è di più: tutta la realtà, in ogni suo aspetto e mo-mento, è dotata di sensibilità, e, germinando dal sensoogni cognizione, di una qualche aurorale forma di cono-scenza. Il sentire è intrinseco alla stessa natura agente, laquale per conservarsi dovrà avere una, per quanto oscu-ra, notizia di quel che le giova e di quel che le nuoce. «Sele nature conservar si deono – scrive il Telesio nella reda-zione in due libri dell’opera sua – è di bisogno che nonsolamente fusse loro impresso un sommo appetito del-la propria conservazione, e un sommo odio della propriadistruzione, ma una forza ancora di conoscere le propor-zionate e le simili, le contrarie e le dissimili. Perché in-vano appetiranno di conservarsi e osterranno di corrom-persi, se non conosceranno quelle dalle quali sien con-servate, e quelle dalle quali sieno offese»233. La ragionepoi, su cui Telesio sembra fondare questa originaria do-tazione del mondo, ha un sapore del tutto platonico eteologizzante: Dio è buono, non ha invidia, ha compiu-to un mondo perfetto, e non può, dunque, aver tolto al-le creature il mezzo di conservarsi; «e tutte queste pro-prietà si veggono attribuite alle nature agenti, acciò chenon paia, che Colui che le creò si sia dimenticato di con-servarle, e come artefice pigro, non abbia lor donato tut-

232 De rerum natura, I, 2: «nam si... agentes operantesquenaturae, calor nimirum frigusque moli, cui sese indunt, unumprorsus fiunt, itaque nullam entis ullius partem invenias, quaevel moles sola vel sola agens natura sit, sed quantulavis entiscuius vis particula, quin punctum quodvis, ex utraque, penitusalteri commixta altera et unum utraque alteri facta constat...»

233 Delle cose naturali, I, 34; p. 57 sgg.

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te le cose necessarie alla lor conservazione; cioè, la forzae il senso...».

Come, in ogni sia pur piccola parte della realtà v’è,sempre, attività e passività, opaca resistenza materiale eforza agente, così, inscindibile, v’è, in tutto, sentire e,quindi, conoscere. Conoscere e essere si compenetrano,a quel modo stesso che negli ionici si compenetravanoessere e vita.

Dinanzi all’obbiezione, che si prospetterà anche Cam-panella, che gli altri esseri, diversi dagli animali, non han-no organi sensori, Telesio risponde con molta chiarezzache sono, quelli, semplici mezzi e strumenti della sensi-bilità. «Ma non perché a nessuna dell’altre cose sia da-to gli organi e gli strumenti, con li quali apparisce che glianimali sentino, si debbe dire che solamente gli anima-li sieno dotati della facultà del sentire, e che gli altri en-ti ne sieno al tutto privati. Perché non apparisce... cheli strumenti sensorii dieno facoltà di operare o di sentire,o facilità all’anima che sente, ma solamente fanno que-sto, cioè introducon l’azione delle cose sensibili...». An-zi, là dove la differenziazione non è avvenuta, tutto l’enteè senso in ogni sua parte; « non hanno bisogno né di fo-rami, né di meati..., ma essendo similari e veramente uno,è necessario che, patendo egualmente, sentino così nel-le parti esteriori come nelle interiori e intrinsiche». Co-me potentemente dirà Bruno, sono tutto occhio a tuttol’orizzonte234.

Ma il senso, e questo Telesio chiarirà bene, non è néla passione dello spiritus, ossia della sottile materia che siagita nell’interno del senziente, né l’azione o sollecitazio-ne esterna delle cose («vel illarum actio impulsioque, velspiritus passio commotioque»). È, invece, la percezionedi tali mutamenti («illarum harumque perceptio sensus

234 Delle cose naturali I, 35; p. 60.

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sit oportet»). Che era quanto accettar la tesi dell’univer-sale animazione delle cose235.

Come si vede, le premesse telesiane di una natura stu-diata juxta propria principia, sull’unico fondamento delsenso, trovavano una grave limitazione in una serie dipresupposti metafisici dogmaticamente assunti. Magismetaphysica videtur quam physica, gli osserva il Patrizi,che gli domanda insieme qual senso mai abbia potutosvelargli l’intima struttura del mondo, e la materia, e lastessa sensibilità universale236. La pretesa telesiana di op-porre alla fisica aristotelica, tutta traversata da posizionimetafisiche, un pura fisica, empiricamente costruita, fal-liva in pieno. E non già, come qualche critico moder-no ha sostenuto, per aver Telesio presupposto al mondo,quasi cartesianamente, un Dio creatore; o per aver sot-tratto all’indagine naturale la morale; o per aver inserito,nell’uomo, sul meccanismo sensibile, l’anima separata ecreata. Telesio contraddiceva le sue premesse quando af-fermava l’uniformità della natura, quando supponeva lastruttura della sostanza, quando immaginava, e non pro-vava, la sensibilità universale. Ma, come tanto finementegli scriveva Francesco Patrizi, se la sua meditazione nonreggeva sul piano scientifico, si riscattava su quello me-tafisico. E la sua idea di un intrinsecarsi senza residui disenso e natura, di passività e attività e coscienza; di unmondo che è uno e lo stesso, sia come mondo reale checome mondo sentito; tutto questo doveva aprire una viafeconda alla riflessione campanelliana intorno alla strut-tura dell’essere. Ma sulla linea di Telesio v’è, appunto lametafisica di Campanella, e non la fisica di Galileo.

235 De rerum natura, VII, 2; III, pp. 3-4.236 Le obbiezioni del Patrizi e le risposte del Telesio (Solutio-

nes Thylesii) in F. FIORENTINO, B. Telesio, Firenze, 1872,II, pp. 375-396.

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6. La metafisica della luce

Scolari del Telesio furono, il suo fedele espositore Serto-rio Quattromani che univa l’amore per Petrarca all’am-mirazione per la nuova filosofia, Antonio Persio che lodifese contro il Patrizi, il Donio e, infine, sommo, il Cam-panella che lo difese contro il Marta237.

Tuttavia all’influsso telesiano non sfuggì lo stessoFrancesco Patrizi da Cherso, professore di filosofia pla-tonica all’Università di Ferrara, scolaro in Padova delTomitano, del Passero, di Lazzaro Buonamici, di Fran-cesco Robortello. Da tanti aristotelici trasse un odio pro-fondo contro Aristotele, che riversò nelle Discussionesperipateticae monumento insigne di critica, ove ad Ari-stotele vengono contrapposti i presocratici, col lor natu-ralismo, mentre al maestro di color che sanno si muo-ve quella medesima accusa di incongruenza che abbia-mo già vista rivolta a Telesio. Dopo tanta esaltazione deisensi perché porre a base della fisica dei princìpi che nonpotranno mai cader sotto i sensi? Admiror principia eaposuisse quae nullis sensibus percipiantur.

Ma la sua metafisica, attinta alle più disparate fontistoico-platoniche, compilate con i più torbidi elemen-ti della tradizione ermetico-caldaica, si rifaceva alla tra-

237 La philosophia di Bernardino Telesio ristretta in brevità,et scritta in lingua toscana dal MONTANO ACCADEMICOCOSENTINO (Sertorio Quattromani), Napoli, 1589 (ed. E.Troilo, Bari, 1914); ANTONII PERSII Apologia pro B. Tele-sio adversus Franciscum Patritium. Responsiones ad obiecta F.Patritii contra Telesium (Cod. Magliab., Cl. XII, 39); cfr. anchel’Apologia di Antonio Solino (Cl. XII, I). J. A. MARTAE...Propugnaculum Aristotelis adversus principia B. Telesii..., Ro-mae, 1587; TH. CAMPANELLAE Philosophia sensibus de-monstrata... Neapoli, 1591; Prodromus Philosophiae instauran-dae, id est dissertationis de natura rerum compendium, Franco-furti, 1617.

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dizione ormai classica della scuola ficiniana. Egli vuolcominciare, è vero, dal senso (a sensibus exordium pri-mum). Primo dei sensi è la vista; oggetto della vista la lu-ce; fondamento primo del mondo la luce, corpo incorpo-reo, forma e materia, ille primaevus fluor, che discenden-do da Dio, pater luminum, si identifica quasi con lo spa-zio che vien permeando, infinita com’esso, infinita comeil mondo238.

Mentre, da un lato, la visione pampsichistica e l’esalta-zione del senso e la concezione dello spazio lo congiun-gevano a Telesio; mentre la posizione del mondo infi-nito lo riconciliava con Bruno che pur l’aveva ingiuria-to come «sterco di pedanti»; la ispirata celebrazione del-la luce richiama lo Zodiacus vitae di Marcello Palinge-nio Stellato239. Nel mondo sopraceleste si distende, perlui, infinita la luce, immagine dell’infinita potenza di Dio(«quoniam potuit facere infinita, putandum est fecisseinfinita, omnemque explesse vigorem»). Dio infinito si èmanifestato nell’infinito; che è ragionamento caro a Bru-no, ove assume talora colore spinoziano.

La luce penetra il mondo celeste e terreno, e si fa lucevisibile. Quaggiù nella fugace vicenda del mondo («terrabreve hospitium»), nel vano fuggir delle cose ( «nugae

238 FR. PATRITII Discussiones peripateticae, Basileae, 1581(la prima parte era uscita in Venezia nel 1571); Nova de univer-sis philosophia, libris quinquaginta comprehensa: in qua Aristo-telico methodo, non per motum, sed per lucem et lumina ad pri-mam causam ascenditur. Deinde nova quadam et peculiari me-thodo tota in contemplationem venit divinitas. Postremo metho-do Platonico rerum universitas a canditore Deo deducitur... Ve-netiis, 1593 (Ferrariae, 1591). Nel 1558 aveva pubblicato la pla-tonica Città felice.

239 Cfr. MARCELLI PALINGENII STELLATI... Zodia-cus vitae... libri XII, Lugduni, 1608; v. anche il De immortalita-te animarum di ANTONIO PALEARIO (Opera, Amsteloda-mi, 1696, pp. 573-632) e il De principiis rerum di SCIPIONECAPECE.

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et mera somnia sunt haec»), l’uomo tende con spasimoverso la patria celeste.

Patrias optate revisere sedesHanc igitur fragilem vitam contemnite cuiusPrincipium est fletus, medium labor et dolor, at mors

Finis.

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DA GIORDANO BRUNO A TOMMASOCAMPANELLA

1. Rinascimento e Riforma

L’impulso profondo a un rinnovamento radicale, che eraimplicito in tanta parte dell’umanesimo, non poteva nonmanifestarsi anche sul terreno religioso. Se in Italia spar-sa risonanza ebbe la Riforma protestante, e solo spora-dici fuochi si accesero qua e là, in gruppi di intellettua-li, guardati con indifferenza e spesso aspramente critica-ti, anche nell’ambiente più colto, non mancarono invece,su terreno filosofico, sogni di rinnovamento totale dell’u-mana convivenza, che investivano insieme politica e reli-gione. La Riforma traboccava talora in una nuova chiu-sura confessionale, in un aspra intolleranza, in una de-pressione dell’uomo e in una condanna del mondo. L’u-manesimo era stato riscatto dell’umano, celebrazione dilibertà, rispetto per ogni credenza, libera critica e tolle-ranza. Valla aveva insegnato a leggere i testi sacri con oc-chi acuti, e sgombri da preoccupazioni dogmatiche, tan-to da meritare l’incondizionato elogio di Erasmo, qualefondatore della nuova filologia biblica. Ficino aveva mo-strato le occulte corrispondenze di tutte le fedi, e il na-scosto accordo d’ogni religione e d’ogni filosofia, nel lo-gos che tutto giustifica e tutto fonda. Libera critica, s’èdetto, e tolleranza. Da cui non poteva non nascere il di-segno di una nuova convivenza umana, moralmente rico-struita, razionalmente fondata, capace di dare agli uomi-ni la felicità terrena e la salvezza dell’anima.

Nella seconda metà del ’500 Francesco Sansovino, de-scrivendo l’ideale Repubblica d’Utopia, ci mostrerà unareligione basata su «un’occulta e eterna divinità, sopraogni capacità umana, la quale con la virtù, non con la

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grandezza, si stende per questo mondo»240. E questo Diogli Utopiensi sono poi pronti a riconoscere nel Dio padredel cristianesimo, che si presenta così come la perfetta re-ligione razionale. Religiosa è la loro visione della vita as-sociata, e la religione è alla base del viver civile. «La prin-cipal controversia tra loro è disputare in qual cosa consi-sta la vera felicità dell’uomo... Ma inchinano... a crede-re che nella volontà consista il viver felice. E si servono aquesto della Religione, la qual però appresso loro è gre-ve e severa, né mai disputano della felicità, che non uni-scano insieme alcuni principi tolti dalla religione e dal-la filosofia. Senza i quali pensano che la ragione umanasia tronca e debole ad investigar la vera felicità... Ben-ché tal principi vengano dalla Religione, tuttavia pensa-no che siano con ragioni e fondamenti umani condotti acrederli e a concederli»241.

Non è chi non veda la stretta parentela fra una co-sì fatta Repubblica d’Utopia e i «regni di Cristo» o leRepubbliche cattoliche, ovverosia universali «raunanze»,germoglianti su terreno più chiaramente religioso, anchese ereticale242. In simili speranze di umana ricostruzionespirituale confluirono senza dubbio, e s’alimentarono, leispirate costruzioni dei massimi pensatori del tardo Rina-scimento, quali Bruno e Campanella, vicinissimi a volte,anche se talora invece lontanissimi, proprio per la comu-

240 FRANCESCO SANSOVINO, Del governo et ammini-strazione di diversi regni et repubbliche, così antiche come mo-derne, Venezia, 1578, p. 197.

241 SANS0VINO, Op. cit., p. 189.242 Cfr. l’anonima Forma d’una Repubblica Catholica del 1581

(ed. CANTIMORI, in Per la storia degli eretici italiani nelXVI sec. in Europa, Roma, 1937, «Studi e documenti della R.Accademia d’Italia»). [La Forma è in realtà del Pucci; vedila oraristampata dal Firpo, Gli scritti di Francesco Pucci, «Memoriedell’Acc. delle Scienze di Torino», s. III, t. 4, parte II, 1957,pp. 69-104.

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ne speranza di un rinnovarsi del mondo. Essi presenta-no, certo, uno strano miscuglio di credenze astrologiche,di pratiche magiche, di sogni messianici. Ma sono acco-munati da un’ansia di umana liberazione, che li nobilitae li riscatta d’ogni errore e d’ogni ingenuità. «Con que-sta filosofia – son parole di Giordano Bruno – l’animo mis’aggradisce e me si magnifica l’intelletto. Però, qualun-que sii il punto di questa sera che aspetto, se la mutazio-ne è vera, io che son nella notte, aspetto il giorno». Fin-ché la luce, «in cotesta patria» non avrà illuminato pertutti di solare splendore «certe ombre dell’Idee», che ri-splendono per ora alla mente del saggio, «le quali inve-ro spaventano le bestie e, come fussero diavoli danteschi,fan rimanere gli asini lungi a dietro».

2. Religione e filosofia in Bruno

Che un profondo bisogno di rinnovamento spirituale pe-netri tutta l’opera del Bruno, non può in nessun modonegarsi, anche se si voglia gettare il dubbio sui suoi pre-cisi intenti riformatori («sarìa tornato in Germania perfinire la sua setta»). Un afflato religioso traversa tutti isuoi scritti e li infiamma, anche se poi lo induce perfi-no alla bestemmia della religione cristiana. Ma se la cri-tica alle superstizioni volgari, estesa talora a ogni formadi religione positiva, sboccava nello Spaccio nei noti at-tacchi alla divinità del Cristo e, in genere, alla venerazio-ne dei Santi («descendono poi ad odorar in sustanza perdèi quei che a pena hanno tanto spirito quanto le nostrebestie»), egli sinceramente poteva riaffermare davanti aisuoi giudici la propria convinzione che al fondo di tut-te le religioni, positive e razionali, v’è la necessità di am-mettere «un primo elargitore supremo» («secondo tuttele religioni, delle quali altre sono fondate sopra la rivela-zione, come la nostra, altre sopra qualche ragione, come

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quella degli antichi Romani, Greci, et Egittij, tutte con-vengono nella necessità di conoscere un primo elargitoresupremo»)243.

Tuttavia ben difficilmente potrebbe ricondursi questasua sincera religiosità nell’ambito di una qualunque con-fessione religiosa, cattolica o protestante. Contro i pro-testanti, e se ne vanterà durante gli interrogatori vene-ti, ebbe più volte espressioni di critica aspra a proposi-to della dottrina della giustificazione per la fede. Il Bru-no, dell’opera umana così aperto esaltatore, non potevanon scagliarsi contro i nuovi «corrottori di leggi, fede ereligione», i quali «insegnano li popoli a confidar senzal’opera, la quale è fine di tutte le religioni». E ritornan-do senza posa sullo stesso motivo, rimprovera nello Spac-cio ai calvinisti la loro negazione della libertà umana, equindi della stessa possibilità per l’uomo di professare lavera religione («secondo la loro dottrina, non è in liber-tà de l’elezion loro di mutarsi a questa fede»). Tuttavia,anche a non dar troppo credito alle confessioni blasfemeraccolte dai suoi compagni di prigionia, non è certo pos-sibile ricondurlo, non dirò nell’ambito del cattolicismo,ma neppure in quello di un vago cristianesimo. La chia-ra allegoria del Cristo sotto la specie del centauro Chi-rone, che troviamo nello Spaccio, sbocca in una irrisionenon attenuata neppure dal troppo trasparente velo del-l’immagine («ma in questo consiste la difficultà: cioè, secotal terza entità produce cosa megliore... se, essendo al’essere umano aggionto l’essere cavallino, vien prodotto

243 Spaccio della bestia trionfante, in Opere italiane, ed. Gen-tile, Bari, 1925-27, II, p. 201: «perché finalmente la loro adora-zione si termina ad uomini mortali, dappoco, infami, stolti, vi-tuperosi, fanatici, disonorati, infortunati, inspirati da geni per-versi, senza ingegno, senza facundia e senza virtude alcuna; iquali vivi non valsero per sé, e non è possibile che morti va-gliano per sé o per altro» Cfr. A. MERCATI, Sommario delprocesso di Giordano Bruno, Città del Vaticano, 1942, p. 90.

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un divo degno della sedia celeste, o pur una bestia degnadi esser messa in armento e stalla»)244.

Bruno è, senza dubbio, ebbro di Dio; ardentementebrama d’essere Atteone che ha visto nuda Diana ed èsbranato dai cani, e morto al mondo è tutto aperto alladivina grandezza. «Cossì gli cani, pensieri de cose divi-ne, vorano questo Atteone, facendolo morto al volgo, al-la moltitudine, sciolto dalli nodi de’ perturbati sensi libe-ro dal carnal carcere della materia; onde non più veggacome per forami e per fenestre la sua Diana, ma, aven-do gittate le muraglie a terra, è tutto occhio a l’aspettode tutto l’orizonte». Ma questo infinito orizzonte l’uo-mo «eroico» attua in se stesso. A Dio non giunge comea realtà fuori di sé; né egli, uomo, è Dio. I pensieri di co-se divine lo vincono e annullano la sua umana chiusura,e in lui si apre l’infinito orizzonte; «degli suoi cani, deglisuoi pensieri egli medesimo venea ad essere la bramatapreda; perché, già avendola contratta in sé, non era ne-cessario di cercare fuor di sé la divinità»245. La qual di-vinità non è che l’unità dell’essere, la semplicità fontaleche è l’infinità stessa («monas omnium numerorum fons,simplicitas omnis magnitudinis et compositionis substan-tia..., monadum monas, nempe entium entitas»); quell’u-nità che oltrepassa, ma invera e chiarisce, risolvendola insé, e giustificandola, la molteplicità sensibile246. «Di sor-te che tutto guarda come uno, non vede più per distin-zioni e numeri, che secondo la diversità de’ sensi, comede diverse rime, fanno vedere ed apprendere in confu-

244 G. BRUNO, Opere italiane, I, p. 301; II, pp. 65, 223-24.245 BRUNO, Opere italiane, II, pp. 472-74.246 Opera latine conscripta, 1879-91, I, 3, pp. 136, 146:

«Deus est monadum monas, nempe entium entitas; quapropteretiam vulgo philosophantibus ens et unum non differunt. Sicutergo per monadem omnia sunt unum, ita et per monadem sunt;quando quod unum non est, nihil omnino est».

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sione. Vede l’Anfitrite, il fonte de tutti i numeri, de tuttespecie, de tutte raggioni, che è la Monade, vera essenzade l’essere di tutti».

Religiosa è questa conversione radicale dai molti al-l’uno, dalla parvenza alla radice: «non adoravano Gio-ve, come lui fusse la divinità, ma adoravano la divinità,come fusse Giove». Religione è questo adorare, non lecose, ma Dio nelle cose, e le cose come manifestazionidi Dio, «avendo riguardo alla divinità, secondo che neè prossima e familiare, non secondo è altissima, absolu-ta in se stessa, e senza abitudine alle cose prodotte». Re-ligione è questo contatto col divino che si rivela, che simanifesta, che si comunica. «Quel Dio, come absoluto,non ha che far con noi; ma per quanto si comunica al-li effetti della natura, ed è più intimo a quelli che la na-tura istessa; di maniera che, se lui non è la natura istes-sa, certo è la natura della natura; ed è l’anima de l’animadel mondo, se non è l’anima istessa». Per questo saggia-mente si è adorato Dio nelle cose, «latente nella natura,oprandosi e scintillando diversamente in diversi sugget-ti, e per diverse forme fisiche». E via via che il divino sa-rà colto in cose mortali, sarà pur degna la fede che, oltrequei veli, coglierà Dio. «Ecco dunque come mai furonoadorati crocodilli, galli, cipolle, e rape; ma gli dei e la di-vinità in crocodilli, galli ed altri». Mutano i tempi e i cul-ti; crollano gli altari ma rimane unica la divinità «la qua-le in certi tempi e tempi, luoghi e luoghi, successivamen-te e insieme, si trovò, si trova e si troverà in diversi sug-getti quantunque siano mortali». E in questo suo mani-festarsi terreno, in questo suo rivelarsi, cambia aspetto enome («secondo che diversamente si comunica... prendediversi nomi»), ed è diversamente invocata, «e per vie in-numerabili, con raggion proprie e appropriate a ciascu-no, si ricerca, mentre con riti innumerabili si onora e co-le». Nomi e preghiere mutano secondo luoghi e tempi;non muta Dio unica luce che si riflette in infiniti spec-

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chi: «onde al fine si trova che tutta la deità si riduce adun fonte, come tutta la luce al primo e per sé lucido, e leimagini che sono in diversi e numerosi specchi, come intanti suggetti particulari, ad un principio formale e idea-le, fonte di quelle»247.

Asinina idolatria è ridurre Dio alle cose, far discenderela nostra adorazione a oggetti vili o «a uomini mortali»;religione è ascendere «da forme naturali» alla divinità,«una e semplice ed absoluta in se stessa, multiforme eomniforme in tutte le cose». Se il religioso non si fa unocon Dio, non è ancora l’eroe che, vista la Diana ignuda,lascia in pasto ai cani la sua carne; è tuttavia l’uomopio che si converte, e comincia l’ascesa per penetrarealla divinità, la caccia in cui finalmente di cacciatore sitrasformerà in preda.

Ma, d’altra parte, questo intrinsecarsi di Dio alle cose,e questo incontrarsi del sapiente col divino, spiegano an-che il rilievo dato dal Bruno al momento magico della vi-ta religiosa. Anzi, per lui, il fondatore di religioni si ser-ve della sua conoscenza dei segreti delle cose per convin-cere ed educare. Mosé, «che in tutte le scienze degli Egi-zii uscì addottorato da la corte di Faraone», operò mira-bili cose servendosi delle leggi stesse di natura. «La ma-gia, dunque, tanto di Moise quanto la assolutamente Ma-gia non è altro che una cognizione de i secreti della na-tura con facoltà d’imitare la natura nell’opere sue, e farecose meravigliose agl’occhi del volgo: quanto alla magiamathematica e superstiziosa la intendo aliena da Moise,e da tutti li honorati ingegni»248.

247 Opere italiane, II, pp. 188-200; cfr. il De visione Dei delCusano.

248 Sommario, p. 87 (e p. 101); Spaccio, Opere, II, p. 198; eDe magia (Opera lat. Conscripta, III, p. 403: «nullum magiaegenus noticia et cognitione indignum, quantoquidem omnisscientia est de genere bonorum...»).

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3. La concezione bruniana dell’universo

La posizione bruniana nei riguardi della religione già av-via a intendere la sua posizione filosofica. Né tragganoin inganno certe sue affermazioni di fedeltà a san Tom-maso, spesso ripetute, anche in tutta sincerità, e in mo-menti tragici della sua vita249. Nell’Aquinate egli venera-va il trionfo della ragione, l’aristotelismo compatto; nonil trionfo della fede. Il suo mondo non è il mondo delcristiano; è una natura vivente che torna a se stessa sen-za sviluppo, nella immobilità reale sottesa a una ciclicitàinesorabile. Già abbiamo visto la lapidaria affermazionedel Candelaio, e quella sicura attesa di chi sa come il flut-to che oggi s’innalza domani tornerà ad abbassarsi. Percui la vita stessa che in sé rimane immota è, in sostanza,parvenza di vita.

Bruno scelse a più riprese come suo motto il dettodell’Ecclesiaste, che vergò di sua mano nel 1587 sull’al-bo dell’Università di Wittemberg. «Salomon et Pytha-goras. Quid est quod est? ipsum quod fuit. Quid estquod fuit? ipsum quod est. Nihil sub sole novum». E suquesto concetto tornò senza posa, nei dialoghi De la cau-sa, nel Sigillus sigillorum, nelle risposte, eloquenti, ai suoigiudici250. Riferendosi allo spirito divino inteso come ani-ma dell’universo, aggiunge: «da questo spirito poi, che èdetto vita dell’universo, intendo nella mia filosofia pro-venire la vita e l’anima a ciascuna cosa che have animae vita, la qual però intendo essere immortale; come an-co alli corpi. Quanto alla loro substanzia, tutti sono im-mortali, non essendo altro morte che divisione e congre-

249 Documenti della vita di G. B. a cura di V. Spampanato eG. Gentile, Firenze, 1933, pp. 40, 107, 154; Sommario, p. 89.

250 De la causa, Opere, I, p. 191; Opera lat. Conscripta, II, II,p. 213; Documenti, p. 96; Sommario, p. 115.

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gazione; la qual dottrina pare espressa nell’Ecclesiaste».Più precise ancora talune risposte stese dal Bruno du-rante il processo a difesa e illustrazione delle sue tesi. Aproposito delle anime egli sottolinea: «come dalla gene-ralità dell’acqua viene, e depende, la particolarità di que-st’e quell’acqua,... e torna a quella,... così il spirito cheè in me, in te, in quello, viene da Dio e torna a Dio».E dopo aver ribadito, a proposito delle cose che, tutte,«non possono essere altro che quel che sono state, né sa-ranno altro, che quel che sono, ...e solamente accade se-parazione, e congiunzione, o composizione, o divisione,o traslazione», richiama solennemente ancora una voltail versetto dell’Ecclesiaste. A proposito, poi, dell’anima,riprende un’immagine della Lampas triginta statuarum,e la sviluppa lucidamente. L’anima universale è comeuno «specchio grande generale», che riflette un’immagi-ne («il quale è una vita, e rappresenta una Immagine»).Frantumato, «quanti sono fragmenti del specchio, tantesono forme intere». Ma effimere, «tamquam aqua decur-rens»; perché ricomponendosi nell’unità dello specchio,«l’Imagini, ch’erano in ciascun fragmine, sono annichila-te, ma resta... la sostanza, la quale era, e sarà»251.

251 Lampas triginta statuarum, 22 (Opera lat. conscripta, III,p. 59 sgg): «cum materia sit caussa multitudinis et divisionis,forma vero unitatis, dicimus fulgorem divinitatis spiritum es-se per se unum et facere unum (ab uno enim secundum quodunum non procedit nisi unum), tamen quia est, operatur in uni-verso extento et materiali, quo quidem divisionem recipiente etin partium multiplicationem materiam distribuente accidit mul-titudo, ut ea anima quae in toto tota et in uno una videbatur,iam in multa veluti fragmenta distracto corpore, et in diver-sas hypostases numerales multiplicato, multae fiunt animae...Quod ita ferme est, quemadmodum si unus sit sol et unum con-tinuum speculum, in toto illo unum solem licebit contemplari;quod si accidat speculum illum perfringi et in numerabiles por-tiones multiplicari, in omnibus portionibus totam repraesenta-ri videbimus et integram solis effigiem, in quibusdam vero frag-

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Bruno, è vero, dichiarò allora che Dio, «con la poten-za della voluntà», sottrae a questo loro destino le animedegli uomini, facendo «li spiriti immortali per grazia diDio». Ma la logica della sua concezione lo portava al-trove: a questa fissità di un ciclo in cui, si parli di na-tura o di spirito, nulla si crea e nulla si distrugge. On-d’è che, filosoficamente, anche se «Catolicamente par-lando», annullava di fatto ogni distinzione possibile fraanima nell’uomo e anima dei bruti, stimando «vera l’o-pinione de’ Pitagorici... circa quella continua metamfi-sicosi, cioè transformazione, e transcorporazione de tut-te l’anime», essendo l’anima dell’uomo «medesima in es-senza specifica e generica con quella delle mosche, ostre-che marine e piante, e di qualsivoglia cosa che si troveanimata»252. E data la concezione che «non è corpo chenon abbia più o men vivace e perfettamente communi-cazion di spirito in se stesso», l’unica anima, «ch’ha sus-sistenzia distinta dal corpo organigo contra Aristotele»,vien partecipandosi senza mutazione, uguale in tutte lecose.

Questa naturale fissità del tutto, questa assenza pro-fonda, totale, d’ogni effettiva creazione si rispecchia nelrapporto fra mondo e Dio, nel concetto stesso di Dio,uno e infinito. Come, a proposito dell’anima, Bruno ri-

mentis vel propter exiguitatem, vel propter infigurationis in-dispositionem, aliquid confusum vel prope nihil de illa formauniversali apparebit, cum tamen nihilominus insit, inexplicatatamen. Itaque si quemadmodum uno perfracto speculo prop-ter partium multiplicationem animalium animarum multiplica-ta sunt supposita, si accidat iterum partes omnes in unam mas-sam coalescere, unum erit speculum, una forma, una anima, si-cut si omnes fontes, flumina, lacus et maria in unum concur-rant oceanum, unus erit Amphitrites». Cfr. Opere ital., I, p.196 sgg.

252 Opere ital. II, p. 274 sgg. (Cabala del cavallo pegaseo).

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pete che ab uno, secundum quod unum, non procedit ni-si unum, e che, quindi, ogni moltiplicazione è parven-te e transitoria dispersione materiale, così il rapportofra mondo naturale e Dio non è di libera creazione, madi necessaria manifestazione. La natura infinita non èche l’apparire di un Dio che, essendo infinito, non puònon apparire nell’infinito. «Io tengo un infinito univer-so, cioè effetto della infinita divina potenzia, perché iostimavo cosa indegna della divina bontà e potenzia che,possendo produr oltra questo mondo un altro ed altri in-finiti, producesse un mondo finito». Bruno non si stancamai di insistere su questo punto, considerandolo nei suoiaspetti, anche morali. Non è ammissibile che una poten-za infinita e perfetta produca ciò che è finito e imperfet-to: se lo facesse sarebbe almeno malvagia e invidiosa («siDeus finita fecisset, potens facere infinita, multi homi-num illo essent laudabiliores»). Di qui i «sillogismi de-mostrativi» dei dialoghi De l’infinito: «il primo efficien-te, se volesse far altro che quel che vuol fare, potrebbefar altro che quel che fa; ma non può voler far altro chequel che vuol fare; dunque non può far altro che per quelche fa. Dunque, chi dice l’effetto finito pone l’operazio-ne e la potenza finita. Oltre (che viene al medesimo): ilprimo efficiente non può far se non quel che vuol fare;non vuol fare se non quel che fa; dunque non può fare senon quel che fa. Dunque chi nega l’effetto infinito, negala potenza infinita»253.

Su questo legame necessario fra Dio e il mondo è fon-data e l’infinità dell’universo e la sua eternità e, infine,la sua stessa fondamentale unità. Come è detto in formalapidaria nei dialoghi De l’infinito (e nel De immenso èripetuto), «bisogna che di un inaccesso volto divino siauno infinito simulacro, nel quale, come infiniti membri,poi si trovino mondi innumerabili», la cui intima vicissi-

253 Opere ital., I, p. 300 sgg.; Sommario, p. 113.

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tudine non incide sull’eternità del tutto. È come un’inte-riore circolazione per entro un tutto immutabile, «in mo-do che, di medesima anima e intelligenza, il corpo sem-pre si va a parte a parte cangiando e rinovando»254.

Ma come dall’infinita potenza divina necessariamentesi inferisce il mondo infinito, così dal mondo si risaleall’unità fontale; simulacro dell’inaccesso volto divino,l’universo infinito ci esprime Dio, così come le acqueesprimono la sorgente255. E v’è corrispondenza perfetta,anche se l’uomo, finché è mondano, non potrà vederDio che nella sua mondana diffusione. Perché questodiffondersi nell’universal simulacro, questo esser natura,è l’esprimersi stesso di Dio, è l’unità nella sua diffusivaricchezza.

Vel nihil est natura, vel est divina potestas,Materiam exagitans, impressusque omnibus ordoPerpetuus256.Dio è, e non è, la natura; poiché la natura è Dio nelle

cose, è la divina potenza nella sua manifestazione («in re-bus ipsis manifestata»). S’è parlato di una equazione daBruno non sempre posta chiaramente; ma in realtà Bru-no non oscilla nella sua affermazione: Dio, unità inac-cessibile come tale, si esprime, si manifesta, si svela nel-lo spechio della multiforme natura, «per modo di vesti-gio, come dicono i Platonici, di remoto effetto, come di-cono i Peripatetici, di indumenti, come dicono i Cabali-sti, di spalli o posteriori, come dicono i Thalmutisti, dispecchio, ombra ed enigma, come dicono gli Apocalip-

254 Opere ital., I, p. 295; I, p. 321.255 Opera, I, 4, p. 79; «si quippe sunt pulchre facta, mo-

ta, ordinata, concordantia, oportet esse unum concordantem,ordinantem, moventem, et exornantem necessario, quemadmo-dum ex sensu fluminum et plantarum sensum fontium et radi-cum colligere cogimur».

256 Opera lat., I, 2, p. 193.

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tici». Il quale manifestarsi di Dio, ed esplicarsi ed espri-mersi suo, non è che un passaggio da un’unità, assolu-ta e attuale in un atto solo, a una diffusione «a tempi atempi, a loco a loco, a parte a parte»; la qual faccia di-stesa e spiegata, tuttavia, presa nella sua complessa tota-lità è, ancora una volta, tutto ( «come medesimo, sem-pre e in cadaun loco fa tutto...»)257. Ma in questa disten-sione che tutto comprende, in questa circolazione, o «re-voluzione vicissitudinale e sempiterna», per cui nel se-no onnicomprensivo dell’universo tutte le vicende sem-pre si attuano, nessuna effettiva conquista si dà, nessu-na perdita reale. È come un mareggiare sul «volto inac-cesso» dell’Uno assoluto; ed ogni momento, in varia col-locazione, contiene ogni particolare vicenda, ogni onda,ogni goccia. «Nella natura è una revoluzione e un circo-lo», per cui ciò che è alto discende («tutto quel medesi-mo, che ascende, ha da ricalar a basso»), e ciò che è in-feriore s’innalza, nella totale perfezione. «Alta e magnifi-ca vicissitudine, che agguaglia l’acque inferiori alle supe-riori, cangia la notte col giorno, e il giorno con la notte, afin che la divinità sia in tutto, nel modo in cui tutto è ca-pace di tutto». Solo che, a ben guardare, anche l’accen-no teleologico che par emergere da questa frase, sembranuovamente disperdersi,

E il medesmo garbuglioMedesme tutte sorti a tutti imparte.Nel gran mare dell’essere, nella molteplicità mirabi-

le in cui si dispiega l’Uno, «da abiti ed effetti diver-sissimi per gli oppositi mezzi e contrarii si ritorna almedesimo»258. Vicende e individui si riducono a vane

257 Opere ital., I, p. 247 sgg.258 Opere ital., II, p. 430: «però ora che siamo stati nella fec-

cia delle scienze che hanno parturito la feccia delle opinioni, lequali sono causa della feccia degli costumi ed opere, possiamocerto aspettare de ritornare a meglior stati».

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parvenze, a variazioni di spazio e tempo; ma sotto l’ap-parenza molteplice resta il medesmo. «La Parca non so-lamente nel geno della materia corporale fa indifferenteil corpo dell’uomo da quel dell’asino, ed il corpo deglianimali dal corpo di cose stimate senz’anima; ma ancoranel geno della materia spirituale far rimaner indifferentel’anima asinina dall’umana, e l’anima che costituisce glidetti animali, da quella che si trova in tutte le cose: co-me tutti gli umori sono uno umore in sostanza, tutte leparti aeree sono un aere in sustanza, tutti gli spiriti sonodall’Amfitrite d’un spirito, ed a quello ritornan tutti».

Nulla muore, anche se i composti individuali si muta-no. In realtà il mutamento è parvenza, e stoltezza il timo-re di morte – anima sapiens non timet mortem. La sostan-za non muore, né muta; la sostanza è, eterna, una, indif-ferente alla varietà di aspetti che da essa si manifestano259.«Il cieco spavento della morte... non già s’accosta dovel’inespugnabil muro de la filosofica contemplazion veracirconda, dove la quiete de la vita sta fortificata e posta inalto, dove è aperta la verità, dove è chiara la necessitadede l’eternità d’ogni sustanza»260.

4. La «contemplazione»

Liberatrice, dunque, la bruniana «contemplazione».Ove chi s’interni, veramente s’accorge dell’intima me-desimezza delle cose, dell’universo intero uno nella suaradice ( «è dunque l’universo uno, infinito, immobile»),uno nella sua verità, fine, sostanza. V’è come un pulsa-re continuo per cui l’Uno si manifesta, discende, e ritor-na a sé. Il processo manifestante è descenso «alla produ-zion delle cose»; la comprensione è ascenso «alla cogni-

259 Opere ital., I, pp. 191 sgg., 211 sgg.260 Opere ital., II, p. 212.

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zion di quelle». Ma in questo ciclo perenne si traduce lavitale pulsazione dell’essere, ov’è ugualmente valido l’U-no e il suo manifestarsi, il descenso e l’ascenso, la disper-sione e il ritorno. «Ecco qua la raggione, per cui non do-viam temere che cosa alcuna diffluisca, che particolar ve-runo o si disperda o veramente inanisca, o si diffonda invacuo, che lo dismembre in adnichilazione. Ecco la rag-gion della mutazion vicissitudinale del tutto; per cui co-sa non è di male, da cui non s’esca, cosa non è di buo-no, a cui non s’incorra, mentre per l’infinito campo, perla perpetua mutazione, tutta la sostanza persevera mede-sima e una». Contemplare è afferrare l’indifferenza fon-damentale dell’essere, e, nell’ascenso all’unità, conqui-stare la pace, abbandonando «doglia o timore,... piacereo speranza». Contemplare è raggiungere «la via vera al-la vera moralità», farsi «magnanimi»; diventare più gran-di degli dèi venerati dal volgo, «spreggiatori di quel chefanciulleschi pensieri stimano».

I «veri contemplatori dell’istoria della natura» com-prendono che non v’ha nell’universo distanza o separa-zione, non grande né piccolo, non vicino o lontano, nonbene né male. «Non è altro volare da qua al cielo, chedal cielo qua; non altro ascendere da qua là, che da làqua; né altro è descendere dall’uno all’altro termine. Noinon siamo più circonferenziali ad essi, che essi a noi; lo-ro non sono più centro a noi, che noi a loro; non altri-menti calcamo la stella e siamo compresi dal cielo che es-si loro». La comprensione della medesimezza del tuttoè liberazione «da vana ansia e stolta cura di bramar lon-tano», poiché il bene è presso a noi, entro di noi. È li-berazione da vano timore, perché nulla muta, ma tutto,unicamente, «cangia volto». L’infinito ritrova la sua sal-vezza nell’Uno, e l’Uno manifesta nell’infinito la sua fe-conda inesausta vita. Il contemplante si libera allora daogni suo timore o speranza, da ogni dispersione nel fu-

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turo, o, in genere, nell’alterazione, per godere la «verabeatitudine... dell’esser presente»261.

5. La riforma morale

Ma proprio qui, nell’intendere questo rapporto circolarefra Dio e l’universo, è tutto il problema di Bruno: chése questo processo, ontologicamente, sembra svanire inuna sostanziale immobilità, d’altra parte, ecco che sitrasfigura in un farsi effettivo, anche se interiore a Dio.Negli Eroici Furori si insiste sul motivo che «il corpo ène l’anima, l’anima ne la mente, la mente o è Dio o èin Dio»; e nello Spaccio non si distingue fra processognoseologico e sviluppo ontologico, fra verità e realtà,fra conoscere e fare. «L’atto della cognizion divina èla sostanza de l’essere di tutte le cose»; e, ancora: «èuna sorte de verità, la quale è causa delle cose, e sitrova sopra tutte le cose; un’altra sorte, che si trovanelle cose, ed è delle cose; ed è una terza, ed ultima, laquali è dopo le cose, e dalle cose. La prima ha nomedi causa, la seconda ha nome di cosa, la terza ha nomedi cognizione». Non v’è differenza fra vero e ente; ela verità «è ideale, naturale e nozionale; ...metafisica,fisica e logica»262. Solo che nella compattezza di questoprocesso interno all’essere, per cui perennemente l’unitàtorna a se stessa e coglie il suo significato manifestandosiin una molteplicità che, essendole intrinseca, si annullaperennemente nel suo seno; solo che, appunto, in questocircolo dove nulla è nuovo, e nulla può esserci di nuovo,la riforma morale inserisce una novità radicale. L’uomoche «per essenza è in Dio», e anzi è tutt’uno con Dio,per l’operazione intellettuale, e la voluntà conseguente

261 Opere ital., I, p. 281 sgg.262 Opere ital., II, pp. 367, 264 (cfr. Opera lat., II. 3, p. 94).

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dopo tale operazione, si riferisce alla sua luce e beatificooggetto». All’immediatezza di una unità originaria data,si oppone un volontario ritorno, che è conquista e novità.

Che è quanto, sul piano etico-religioso, Bruno chiara-mente indica nell’antitesi fra coloro che sono condanna-ti «a parlar ed operar come vasi e istrumenti», e coloroche agiscono «come principali artefici ed efficienti». O,per citare la nota similitudine, «gli primi son degni co-me l’asino che porta li sacramenti; gli secondi come unacosa sacra. Nelli primi si considera e vede in effetto ladivinità, e quella s’admira, adora, ed obedisce; negli se-condi si considera e vede l’eccellenza della propria uma-nitade». In tal modo, tuttavia, il circolo di descenso edascenso perde tutta la sua ciclicità meccanica per trasfor-marsi in un progresso morale, in un circolo amoroso, inun continuo arricchimento dell’essere.

Il passaggio dai dialoghi metafisici a quelli morali sem-bra mutare la prospettiva bruniana. Quando nel quintodei dialoghi Della causa, dopo l’esaltato inno all’unità emedesimezza del tutto Bruno si domanda: «perché dun-que le cose si cangiano?», senza esitazione risponde «chenon è mutazione che cerca altro essere, ma altro mododi essere». Modi diversi, ma unità, identità sostanziale;e nessuna conquista, nessun arricchimento, ma sposta-mento locale attraverso immutate e immutabili stazioniper entro l’uno infinito immobile («questo lo ha intesoSalomone, che dice non esser cosa nuova sotto il sole»).«Volto labile... di uno immobile... ed eterno essere»; an-zi, «ogni volto, ogni faccia, ogni altra cosa è vanità, è co-me nulla, anzi è nulla». Ma poi questo nulla si animanello Spaccio e, attraverso la riforma morale e religiosa,gli si apre davanti la possibilità di trasformare il passivo«vaso» del divino, in «artefice efficiente», ove s’ammira«l’eccellenza... della umanitade». Ecco la celebrazionedell’attività umana «per l’emulazione d’atti divini», del-le «nove e maravigliose invenzioni». Ecco quel tanto si-

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gnificativo elogio del lavoro che vince l’ozio; quella con-danna cruda dell’età dell’oro e d’ogni paradiso terrestre;quell’esaltazione dell’opera («e per questo ha determina-to la providenza, che vegna occupato ne l’azione per lemani...»), della costruzione della civiltà, che si libera po-co a poco «dall’esser bestiale», quando, «per l’emulazio-ne d’atti divini e adattazione di spirituosi affetti, nate ledifficultadi, risorte le necessitadi, sono acuiti gl’ingegni,inventate le industrie, scoperte le arti; e sempre di gior-no in giorno, per mezzo de l’egestade, dalla profundi-tà de l’intelletto umano si eccitano nove e maraviglioseinvenzioni»263.

Alla qual lode del lavoro corre parallela la celebrazio-ne della virtù del pentimento, che è la crisi che rompe lafatale discesa dell’uomo, e rende l’anima afflitta «per ilstato presente», riconducendola a se stessa «come per ri-membranza de l’alta ereditade». Pentirsi è inserire nellapropria condizione terrena «il fervido amore di cose su-blimi»; il pentimento nasce, è vero, sulla carne e sul pec-cato, nella terra e nel dolore, ma «come la vermiglia rosa,che da le adre e pungenti spine si caccia». Nella staticità,essenziale all’essere, la crisi morale del senso della colpa«è come una lucida e liquida scintilla, che dalla negra edura selce si spicca, fassi in alto, e tende al suo cogna-to sole». Qui v’è più che un profondo significato mora-le; è il ritmo dell’essere, che nella sua mobile immutabi-lità, si fa processo realizzatore di bene, quando la negrae dura selce si spezza, per sprigionare la lucida fiammadell’amore264.

Ma dolore, senso aspro della colpa e lavoro, sono leuniche strade che fanno umanamente degna la realtà. Làdove la metafisica non scorge che la fissità in sé chiu-sa dell’Uno eterno e perfetto, la moralità, che discaccia

263 Opere ital., II, p. 152 sgg.264 Opere ital., II, p. 129.

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le fiere delle passioni, trasfigura la passività dell’accogli-mento del dato in una riconquista, che è una trasforma-zione radicale. Mentre l’asinità è accettazione supina, vi-ver morti gli anni propri, non peccare e non riscattarsi,non cogliere con Adamo il frutto proibito, ma non sten-der con Prometeo la mano a strappare il fuoco divino«per accendere il lume nella potenza razionale». L’asi-nità è l’accettazione senza lotta; è l’essere cose nel mon-do, non uomini: «fermaro i passi, piegaro... le braccia,chiusero gli occhi, bandiro ogni propria attenzione o stu-dio...; quindi non si volgono a destra o a sinistra, se nonsecondo la lezione... che gli dona il capestro... »265.

La riforma dello Spaccio è, veramente, la riduzione delritmo descenso-ascenso a un moto di liberazione morale,ove la raggiunta conoscenza della legge del tutto, facen-dosi nella coscienza umana norma di vita, sostituisce allapassione come sigillo di soggezione l’amore come «con-tatto intellettuale di quel nume oggetto». Non più «unraptamento sotto le leggi d’un fato indegno, con gli lac-ci di ferine affezioni; ma un impeto razionale, che sieguel’apprension intellettuale del buono e bello».

6. L’eroico furore

Lo Spaccio della bestia, e cioè la vittoria sulla passività,sul predominio della carne, la nascita alla vita umana, cheè operazione morale, che è volontà operosa e coscien-te («la voluntade umana siede in poppa de l’anima»), haorigine con la consapevolezza di sé e del proprio difet-to, e insieme del proprio significato; con una inquietu-dine che ci fa accorti che, immersi nella natura, non sia-mo solo natura. L’uomo emerge dal cieco ciclo delle co-se quando lo invita un «certo lume che siede nella speco-

265 Opere ital., II, p. 269.

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la... della nostra anima», e che è la voce critica, l’incrina-tura del nostro stare, qualcosa di libero («est ergo quod-dam velut libere agens»), di spregiudicato, di socratica-mente ironico («e qua... è significato... per Momo»). È«l’atto del raziocinio de l’interno conseglio», la «lanter-na de la raggione», che pone l’uomo dinanzi a se stesso,alla sua vita ferina, e fa nascere in lui rossore del suo es-sere, pentimento del suo peccare e sollecitudine. Ansiacioè di farsi, di «vaso» della divinità, di «asino» che re-ca il divino, come tutte le cose lo recano, cipolle e coc-codrilli, divino anch’egli e tempio vivente, che a Dio vo-lontariamente e liberamente si offre. Perché le passio-ni son di due specie, «amori volgari e naturaleschi» daun lato, e dall’altro «divini ed eroici furori». Nel primocaso l’uomo è trascinato da «impeto irrazionale»; è cie-co; è tutto la sua chiusura, che ribadisce nella sua «ceci-tà», nulla vedendo tranne se stesso, e il suo particolar go-dimento, passivamente subendo la sua sorte. Ma v’è unamore non di sé, ma dell’essere; non del proprio limite,ma della verità; un amore che non è oblio, ma una me-moria della propria radice, un’alienazione dalla propriachiusura; una dimenticanza di sé, che non è negligenza dise stesso, ma amore e brama del bello e buono, «con cuisi procuri farsi perfetto con trasformarsi ed assomigliar-si a quello». Qui il perdersi è un conquistarsi, il dimen-ticarsi èun ricordare; qui l’agire trabocca nel patire, e ilpatir si identifica con l’agire supremo. Laddove l’aman-te d’amore volgare è schiavo e soggetto, perché è chiu-so essere dinanzi a chiuso essere, e volendo assoggetta-re al suo piacere si fa schiavo del suo piacere, colui cheama d’amore vero, che, cioè, vuole nel singolo l’eterno, elo vuole con volontà pura, «doviene un dio dal contattointellettuale di quel nume oggetto; e d’altro non ha pen-siero che de cose divine, e mostrasi insensibile in quel-le cose che comunemente massime sentemo». L’un pati-re è patire dal finito, l’altro è patire la presenza del Dio,

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aprirsi a Dio, seguirne la legge. E qui l’amore «non è fu-ror d’atra bile, che fuor di conseglio, raggione ed atti diprudenza lo faccia vagare, guidato dal caso e rapito dal-la disordinata tempesta... Ma è calor acceso dal sole in-telligenziale ne l’anima, e impeto divino, che gl’impron-ta l’ali; onde più e più avvicinandosi al sole intelligenzia-le, rigettando la ruggine de le umane cure, dovien un oroprobato e puro, ha sentimento de la divina e interna ar-monia, concorda gli suoi pensieri e gesti con la simme-tria della legge insita nelle cose». La passione dell’esse-re è subito trasfigurata in attiva collaborazione con l’es-sere, allorquando l’uomo «sotto l’imagini sensibili.... vacomprendendo divini ordini266.

La storia di questa conversione dal patire sensibile, ecioè dalla soggezione al fato, al patire eroico, e cioè alla li-berazione, è storia del processo dell’emergere di una mo-ralità umana dalla natura. E qui è il problema bruniano,assai più che non nella determinazione se l’Uno sia nelmondo come il nocchiero nella nave. Perché quel pro-blema si risolveva in questo problema: come nella passi-vità di ogni ente finito, soggetto al fato, si distingua un al-tro patire, che è un verace agire con Dio in Dio. Che saràpoi il problema diversamente espresso nel mito di Atteo-ne che, mosso alla caccia della Diana ignuda, trova il suofine nel diventare di predatore preda. È la mente uma-na, l’intelletto che, giunto alla presenza del divino, «ra-pito fuor di sé da tanta bellezza, dovenne preda, veddesiconvertito in quel che cercava; e s’accorse che de gli suoicani, de gli suoi pensieri egli medesimo venea ad esserela bramata preda; perché, già avendola contratta in sé,non era necessario di cercare fuor di sé la divinità». Ovel’interno e l’esterno coincidono, e i molti e l’uno, quan-do l’uomo, fatto prima «selvatico» rispetto alla dispersamoltitudine, «non più vegga come per forami e per fine-

266 Opere ital., II. p. 360 sgg.

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stre la sua Diana, ma, avendo gittate le muraglia a terra»,si faccia «tutto occhio a l’aspetto di tutto l’orizzonte267.

7. Problemi nuovi in Tommaso Campanella

Senza dubbio, per molti aspetti, la posizione del Campa-nella esce dai quadri del pensiero rinascimentale per sal-darsi strettamente al moto religioso nato dalla Controri-forma, alle polemiche politiche alimentate dalla reazio-ne al Machiavelli, agli interessi scientifici del ’600 culmi-nanti in Galileo. Basta pensare a quel suo professato ma-chiavellismo, candidamente ammesso sotto la condannaaperta ed insistente, per rendersi conto di quanta paren-tela vi sia fra la sua posizione e quella dei teorici della ra-gion di stato, ai quali doveva del resto attingere a pienemani. «Il mondo diventò pazzo,... e gli savi, pensandosanarlo, furon forzati a dire e fare e vivere come gli paz-zi, se ben nel loro segreto hanno altro avviso». AncheCampanella, come Cartesio, avanza mascherato.

E di questa sua originalità dinanzi alla cultura natadall’umanesimo; di questi suoi scopi pratici, morali epolitici, cui si subordina la stessa ricerca scientifica, ilCampanella non fa mistero. In quella celebre letteraa Monsignor Antonio Querengo, scritta nel luglio del1607 «dal profondo Caucaso» del carcere napoletano,ove istituisce un confronto fra sé e il Pico, rimproveraalla «fenice degl’ingegni» d’essere stato «scarsissimo»nelle «cose morali e politiche» per aver speso la vita«a voltar libri». «Filosofo più sopra le parole altruiche nella natura, donde quasi niente apprese», il Picoincarna una mentalità e una posizione tutta opposta aquella campanelliana. «Ecco dunque il diverso filosofarmio da quel di Pico; ed io imparo più dall’anatomia

267 Opere ital., II, p. 472 sgg.

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d’una formica o d’una erba (lascio quella del mondomirabilissima) che non da tutti li libri che sono scritti dalprincipio di secoli sin a mo’, dopo ch’imparai a filosofaree legger il libro di Dio: al cui esemplare correggo i libriumani malamente copiati e a capriccio, e non secondo stanell’universo libro originale»268. C’è il motivo centrale ditanta parte della posizione del Campanella, destinato atornare nel noto paragone dell’Apologia per Galileo franatura, sacro libro di Dio, e scrittura, tra le quali non v’è,né può esservi, contrasto269.

Di qui il Campanella traeva argomento a porre comefonte unico di conoscenza il contatto diretto, immedia-to, fra uomo e cose. S. Agostino e Lattanzio hanno conun sillogismo negato gli antipodi, «ed un marinaro gli hafatti bugiardi col testimoniar de visu». I ragionamenti,su ogni argomento, giungono a porre l’equivalenza delleopinioni; «in questo secolo oscuro... tutti filosofi e sofi-sti, religione, empietà e superstizione hanno egual regnoe paion d’un colore». Né «per sillogismo», si può deci-dere «qual sia più vera legge, tra la cristiana e la maco-metana ed ebraica; e tutti scrittori vacillano sopra l’em-pietà aristoteliche; e le scole parlano con dubbio e mus-sitando».

Nel proemio alla Metafisica questo appello alla comu-nicazione diretta col mondo, e quindi con Dio, si precisaancora. I sillogismo «è come uno strale con cui cogliamonel segno rimanendo lontani dall’oggetto, e senza gustar-

268 TOMMASO CAMPANELLA, Lettere (a cura di V.Spampanato), Bari, 1927 p. 134.

269 Apologia pro Galileo: «et propterea mundus vocabatur abinitio Sapientia Dei (ut revelatum est Sanctae Brigittae) et liber,ut omnes in eo legeremus... Ergo sicut Apostolis prae ceteriscredimus in Scriptura, naturae libro primo... Concordant enimcodices Dei utrique alter alteri...» (Le Opere di GALILEOGALILEI, Firenze, 1846, V, pp. 507-509). Cfr. Poesie, ed.G. Gentile, Firenze, 1939, p. 20 sgg.

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lo (est quasi sagitta qua scopum attingimus a longe absquegustu)»; l’autorità è un toccar le cose per mano d’altri(est tangere quasi per manum alienam). Conoscenza verasi ha per diretto e profondo contatto, con grande dolcez-za, intrinsecandosi con l’oggetto (per tactum intrinsecum,in magna suavitate)270.

Campanella insiste sulla trascrizione sensibile di que-sto rapporto, per sottolinearne l’immediatezza, la nondiscorsività, congiungendo in un sol termine cognizionesensibile e intuizione intelligibile sul tipo dell’esperienzaillustrata da Ruggero Bacone. Come Bacone egli partedalla tradizionale analogia del vedere, della luce. Ed insi-ste, s’è detto, sui due libri che Dio ha offerto all’uomo, lanatura e la scrittura. Sempre nel citato proemio alla Me-tafisica Campanella osserva, che «Dio parla a noi in duemodi, e cioè producendo le cose stesse, o rivelandole se-condo il modo degli uomini, come il maestro ai discepo-li». In ogni caso scrive un libro in cui possiamo appren-dere guardando (codicem vivum facit, in quo despicientesaddiscamus).

E, tuttavia, proprio questa celebre analogia visiva nonsoddisfa più Campanella; proprio l’immagine, a lui co-sì cara, del mondo «libro e tempio di Dio», dell’ «origi-nal libro della Natura», lo spinge a andare oltre. La pa-rola, infatti, e la scrittura di Dio, son produzione di co-se; dicere autem Dei ac scribere est ipsum facere realiter,sicut nostrum est declarare facta vel facere intentionaliter.Per questo gli antichi hanno chiamato il mondo sapien-za di Dio; per questo, perché non siamo Dio, noi pro-duciamo solo favole, e non cose (quas realiter exprime-remus, si Deo aequivalentes essemus), e la nostra poesia,non è creazione, ma finzione. Per questo, nella Poetica,i poeti che non si propongano fini civili sono conside-

270 Metaph. (Parisiis, 1638), pp. 2-5; Poesie, p. 30.

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rati excrementa reipublicae, merito religanda271. Ma se ilconoscere-specchiare, se il conoscere che, nella metaforavisiva, si denuncia come un puro riprodurre, non soddi-sfa Campanella, il parallelo con Dio apre la via a un altropiù diretto contatto, a un compenetrarsi reale con l’og-getto conosciuto, a un intrinsecarsi effettivo. «Sapien-tia dicitur a sapore, qui sensui gustus intrinsecatur». El’uomo sapit proprio in quanto fa suo il sapor della co-sa (quatenus sentit sapit, non quatenus ratiocinatur... quo-niam sapor rei, sicuti est, illi communicatur)272.

Ora non si insisterà mai abbastanza sul valore partico-lare di questo sentire, non a caso dal Campanella ripe-tutamente avvicinato all’estremo culmine dell’intuizioneplatonica, non già alla percezione telesiana; o, se si vuo-le, percezione telesiana trasfigurata poi in termini di sa-pienza intuitiva (intuitiva sapientia, et tactus quidam gu-stusque divinus, faciens scire res sine motu et discursu, utetiam Plato dixit...). Non a caso l’immagine deriva di-rettamente dalla tradizione mistica musulmana, dal sûfi-smo, e la troviamo negli stessi termini già in Gundissa-lino che accoglieva la trasformazione operata dagli arabidel vedere plotiniano e platonico in un gustare.

271 Poetica, a cura di L. Firpo, Roma, 1944, p. 260.272 Metaph. (Parisiis, 1638), p. 65. Cfr. GUNDISALINI

de anima («Arch. his. doctr. et litt. du M. A.», IV, 1929-30, pp. 90-91): «sapientia a sapore dicta est... et merito...quia cum omnes alii sensus, praeter tactum, ...a se remotasentiant, gustus ex omnibus... hoc habet proprium ut sentirenon possit nisi quod se, nullo mediante, tetigerit...». E ap. 87: «scientia... sensibilis et mutatio formae sensatae cumsentiente... scientia intelligibilis est mutatio formae intellectaecum intelligente...». Cfr. su questa teoria GILSON, Lessources gréco-arabes de l’augustinisme avicennisant, loc. cit. eJ. TEICHER, D. Gundisalino e l’agostinismo avicennizzante,in «Riv. Filosof. neoscolastica», 1934.

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Il senso, dunque, ha qui un significato diverso dall’em-pirismo aristotelico, e si presenta come intrinsecazione,e quindi compartecipazione con la cosa, e cioè con quel-l’intimità della cosa che è lo stesso processo espressivo diDio, il fare divino, che è l’Essere che adegua Potenza edAmore. Non è un vedere, quindi, o specchiare, riprodu-cendo immagini, ma un compenetrare il processo vitaledel tutto; un gustare, insomma, la soavità della vita uni-versale (Hic, in mundo, Deus... Verbo ipsum exprimit...).

L’esperienza, che abbatte le barriere fra interno edesterno, fa intima l’intimità della cosa, riconducendocia quella reale espressione divina attraverso la cui com-partecipazione ci facciamo in qualche modo equivalentia Dio. Ove, come già in Ruggero Bacone, l’empirismo siimpianta e si converte nel misticismo.

8. «L’imparare e il conoscere sono pur qualche morte»

Questa vena mistica inserita nel sentire telesiano, men-tre rompe la definizione che sentire è perceptio passionis,per farne un contatto diretto con l’Essere, induce Cam-panella a riprendere tutto il problema del senso. E sen-so – egli dice – è non già informazione (perder la propriaforma, quindi, e farsi tutt’uno con l’oggetto), ma immu-tazione, e cioè farsi, sì, l’oggetto, ma non completamen-te («e, allora il fuoco e il sole conosco quando da loro so-no mutato; ma non del tutto, che sarìa farmi fuoco, mapoco...»). Conoscere, e conoscere è innanzitutto senti-re («la ragione è senso strano e non proprio»), è sem-pre illuiarsi, accogliere l’altro in sé, farsi l’altro in se stes-si («però chi è più passibile e molle, più è atto a sentire edivenir savio»)273. E dunque conoscere è morire, «perché

273 Del senso delle cose e della magia, a cura di A. Bruers,Bari, 1925, pp. II e 151.

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ogni morte è mutarsi in altro e ogni mutamento è qualchemorte». Ed essendo il mutamento farsi l’oggetto, esso èpur morte, ancorché parziale, accompagnandosi semprequesto nostro internarci nell’oggetto alla consapevolezzadi noi («sensus nostrimet ipsorum, abditus qui est actus»),al senso intimo per il quale non ci disperdiamo nella co-sa, ma ci teniamo fermi a noi stessi. Ma proprio qui in-terviene quel rovesciamento dal senso alla sapienza, sucui Campanella batte. Se il sentire in quanto farsi l’og-getto, e quindi patire, significa accogliere un nuovo limi-te, e quindi morire, il contemplare Dio interno a tutte lecose, l’Essere cioè che tutte le costituisce, significa spez-zare la negatività della realtà e farsi reali veramente. «El’imparare e il conoscere, sendo un mutarsi nella naturadel conoscibile, sono pur qualche morte, e solo mutarsiin Dio è vita eterna, perché non si perde l’essere nell’in-finito mar dell’essere, ma si magnifica».

Con una bella immagine, trasferendo il suo problemasul piano morale, Campanella osserva che, «come la lu-ce incorporea si fa, nelli vapori dell’Iride, gialla, rossa everde... all’istessa maniera l’anima s’infà delle passioni...e se si lascia vincere patirà pena». Ma se l’uomo, invecedi esser sopraffatto dal limite delle cose, le ricolloca nellarealtà, riafferrandole nell’essere in cui si sia così colloca-to, allora «perché è penetrante e penetrato» dalla divini-tà, perché «s’incinge, cioè s’impregna di Dio», si fa «lietoconoscitore e beato». Tutto il maggiore sforzo di Cam-panella è, appunto, di mostrare la possibilità di un tra-passo, sul piano del senso, inteso come diretta esperien-za, alla totalità dell’essere («la Teologia vera è tutta mani-festata e rivelata alli sensi dell’uomo»). Trapasso possibi-le quando la senziente conoscenza, che tocca le cose, vie-ne slegandole dal loro limite, dal loro niente, per ricollo-carle nella realtà divina del tutto, per coglierle, cioè, nelprocesso in cui Dio si esprime, affermandone, non la ne-gatività, ma la positività. Di qui l’insistenza polemica di

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Campanella contro l’astrazione aristotelica, che impove-risce e diluisce le cose riducendole a schemi vuoti («è de’fanciulli e degli ignoranti che conoscono l’uomo in co-mune, ma non le sue particolarità, ed è propriissimo allebestie che tutti gli uomini stimano di una sorte, come noitutte l’ova d’una gallina»). La verità di Pietro non è nel-l’astratto uomo, ma nel generarsi concreto di Pietro, nel-la comprensione di tutte le sue minutezze, che «chi ve-de... di fuori si pensa esser tutte uguali, ma chi mira den-tro distingue». Mirar dentro che, poi, distrugge il rap-porto stesso dentro-fuori per la comprensione e compe-netrazione del processo del tutto («ogni scienza al sen-so s’appoggia, non dico all’occhio, orecchio, ma alla sen-ziente conoscenza [anima in eis], poiché Paolo alienato eCaterinella mia videro tanto, né sanno se in corpo o fuordi corpo»). Ove i fondamenti metafisici di Campanella,pur collegandosi con alcune tesi del platonismo rinasci-mentale in genere, oltrepassavano per interessi e conclu-sioni l’ambito di quel pensiero. Del quale rimaneva in-vece e la concezione di una matematicità della realtà fisi-ca, e la tesi della animazione universale, e, ancora, il co-rollario pratico di una conversione dell’umanità intera,attraverso soccorsi anche magici, alla vera religione. Laquale, a sua volta, si presenta come fede nel Verbo, tuttospiegato nel mondo: religione naturale, ma coincidentecol cristianesimo visto, appunto, come l’espressione piùpiena della Sapienza divina.

Ma proprio in questo complesso, qualche volta equi-voco, di motivi, Campanella oltrepassa, ormai, la proble-matica del Rinascimento.

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EPILOGO

Se l’umanesimo fu, veramente, rinnovata fiducia nell’uo-mo e nelle sue possibilità, e comprensione della sua at-tività in ogni direzione, all’influenza umanistica è giustorivendicare, come si è fatto, anche il nuovo metodo d’in-dagine scientifica, la rinnovata visione del mondo, il nuo-vo moto verso le cose per dominarle ed usarle. La cul-tura italiana dal ’400 al ’500 vide, pur in mezzo a tanteoscillazioni e a tanti contrasti, la convergenza di una pie-na formazione umana, compiuta attraverso gli studia hu-manitatis, e di una libera e fattiva espansione nel mondo.La vecchia e forte espressione burckhardtiana che con-giungeva la riaffermazione dell’uomo e del mondo, del-lo spirito e della natura, deve connettersi, senza timor diretorica, all’antica celebrazione di una rinnovata armo-nia raggiunta dalla Rinascenza. Armonia e misura di unaumanità completa, non incrinata da quanto di torbido,di aspro, di oscuro, traversa quei secoli: che anzi propriola durezza di quei contrasti, la profondità di quel trava-glio, rende più nobile il volto di quell’età: ricca forse co-me nessun’altra di personalità esemplari, siano esse l’Al-berti o Lorenzo, Michelangelo o Giordano Bruno.

Con grande verità Augustin Renaudet ha scritto unavolta che «l’Italia del Rinascimento unisce in sé tutti iconflitti». L’uomo che si celebra è questa sintesi vivente,questo nodo, questo mediatore, questo vincolo; il mon-do di cui si parla, il Dio che si onora, sono i poli di que-sta tensione, ma sono visti in questa tensione. E la me-ditazione filosofica, tutta volta a sottolineare questa sin-tesi umana, a «educare» a questa missione, è la meno ri-ducibile che mai sia stata a schematizzazioni e a classi-ficazioni. È un tono, un accento, che circola ed animaogni problema e ogni ricerca; è ammonimento, all’arti-

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sta, allo scienziato, al sacerdote, al politico, della sua mi-sura umana. Per questo essa è varia e molteplice, e sem-bra polverizzarsi ora in un’orazione politica, ora in untrattato di belle maniere, ora in un manuale tecnico; è ri-chiamo, in ogni indagine particolare, al compito umanocui non si deve mancare. Infranto lo schema della filoso-fia teologizzante, la scienza dell’universale invano si cer-cherebbe nelle scolastiche sistemazioni professorali: es-sa vive come coscienza di sé presente in ogni concreta ri-cerca. E questa è davvero l’aurora del pensiero moder-no: per questo tutta la cultura del Cinquecento europeoè pregna di echi della cultura italiana. Per questo lo sto-rico futuro della cultura filosofica rinascimentale in Ita-lia dovrà legger piuttosto libri di politica, di morale, diretorica, di logica e di scienza, che non di quella scola-stica filosofia cui era stato dato un crollo mortale. Do-po il quale la patria di Galileo, di Vico, di Giannone, diMuratori, dei politici ed economisti del ’700, e, domani,di Leopardi, è sembrata a taluni priva di pensiero filoso-fico, non avendo più potuto dimenticare la lezione del-l’umanesimo, anche quando la sua degenerazione retori-ca sembrò averne inaridita la fonte. Ma chi nella filosofiavede appunto una presente consapevolezza critica dellospirito umano alle varie forme della sua attività, un sem-pre vivo render conto a sé della propria umana misuracosì nei limiti come nelle possibilità, un operoso proce-dere mai pago del termine, un continuo elaborare nuo-vi strumenti per un’attività inesauribile; chi così inten-de il filosofare, non può non sottolineare la positività dicosiffatto orientamento «umanistico».

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