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Pensiero giuridico e politico Saggi Collana diretta da Francesco M. De Sanctis Nuova serie CRIE Centro di Ricerca sulle Istituzioni Europee dell’Università degli Studî Suor Orsola Benincasa 31

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Pensiero giuridico e politicoSaggi

Collana diretta da Francesco M. De SanctisNuova serie

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CRIE

Centro di Ricerca sulle Istituzioni Europee

dell’Università degli Studî Suor Orsola Benincasa

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Giulia Maria Labriola

La codificazione del dirittofra storia, tecnica e tendenza

Editoriale Scientifica

La città come spazio politico. Tessuto urbano e corpo politico:

crisi di una metafora

a cura di Giulia Maria Labriola

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proprietà letteraria riservata

isbn 978-88-6342-999-2© Editoriale Scientifica srl 2016

80138 Napoli via San Biagio dei Librai, 39

Pubblicato con il contributo dell’“Università degli Studi Suor Orsola Benincasa” di Napoli, nell’ambito del Progetto FIRB - Futuro in Ricerca (2012) - “TRA.M - Tra.sformazioni M.etropolitane. La città come spazio politico. Tessuto urbano e corpo politico: crisi di una metafora”.Codice CUP: B61J12000530008

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Indice

Lucio d’Alessandro, Prefazione ix

Francesco M. De Sanctis, Introduzione. Città, spazio, storia xi

Giulia Maria Labriola, Presentazione xliii

1. Gli archetipi

1. Giulia Maria Labriola, Trasformazione dello spazio urbano e strumenti del diritto. Una riflessione sull’espe-rienza di Parigi 3

2. Massimo Palma, Infanzia democratica. Benjamin e i tipi politici berlinesi dal Second Reich alla fine di Weimar 75

3. Francesco D’Urso, Il mito della ‘Terza’ Roma 117

2. Le categorie giuridiche e politiche

4. Valerio Nitrato Izzo, La città contemporanea come spazio giuridico 155

5. Massimo Palma, Linee di lettura de La città di Max Weber. L’intrico del dominio non legittimo 185

6. Valerio Nitrato Izzo, Alla ricerca di uno spazio per la giustizia nella città: sulle relazioni tra diritto e architet-tura giudiziaria 239

7. Francesca Scamardella, La governance dei net-work delle città globali: una rilettura dei rapporti tra cen-tro e periferia 283

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Indicevi

8. Esperienze urbane. Cittadinanza e processi di soggettiva-zione politica e giuridica 315

a. Massimo Palma, Appunti su rivolta, conflitto, pro-getto e uso. Il politico ai margini della cittadinanza 317

b. Valerio Nitrato Izzo, La pratica urbana dei dirit-ti: il diritto alla città come diritto ad avere diritti 353

3. La cittadinanza e l’educazione

9. Fabrizio Manuel Sirignano, L’eclissi della citta-dinanza attiva e lo sfarinamento dello spazio pubblico. L’implicito pedagogico-politico in Francesco Saverio Nitti 393

10. Lucia Ariemma, La scuola come “palestra di democra-zia” e di educazione alla cittadinanza 411

11. Pascal Perillo, Educazione metropolitana e prassi di cittadinanza. La militanza educativa nella città come spa-zio politico 433

12. Salvatore Lucchese, Le città degli uomini. Epistemo-logia, pedagogia e politica in Gaetano Salvemini 489

13. Vasco d’Agnese, Democrazia, esperienza e prassi educativa 503

14. Ilaria Di Giusto, Le competenze di cittadinanza tra normativa e pratiche pedagogiche 521

15. Fernando Sarracino, Cittadinanza digitale. Dall’il-lusione della partecipazione alla necessità di una nuova literacy 541

4. Spazi urbani, narrazioni, politiche

16. Pasquale Rossi, Alle origini della città contemporanea: aspetti e interventi tra Napoli e l’Europa 571

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Indice vii

17. Emilio Gardini, Sovrapposizioni: forma urbana, mor-fologia sociale 619

18. Stefania Ferraro, Welfare State. Note di campo sulle politiche sociali a Napoli 643

19. Ciro Pizzo, Lo spazio civile europeo. Per una genealogia 673

20. Stefania Ferraro, Margine. Tra espace conçu ed espace vécu in alcune aree del centro storico napoletano 739

21. Stefania Ferraro, UNESCO. Napoli tra rappresen-tazione e patrimonializzazione 763

22. Sergio Marotta, Beni comuni. Cronistoria di un’e-sperienza napoletana: Acqua Bene Comune 789

Notizie sugli autori 809

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francesca scamardellaLa governance dei network delle città globali: una rilettura dei rapporti tra centro e periferia

La città è «il tentativo più coerente e nel complesso più ri-uscito da parte dell’uomo di plasmare il mondo in cui vive in funzione dei propri desideri. E tuttavia, se da una parte la città è il mondo che l’uomo ha creato, dall’altra è anche il mondo in cui, da quel momento in poi, è stato condannato a vivere. Così, indirettamente e senza rendersi pienamente conto della natura del suo intervento, l’uomo costruendo la città ha ricostruito se stesso».

(Robert Park)1

«… il termine periferia ha smesso di connotare un luogo fisico (la frontiera dell’incessante crescita urbana), per divenire sia nei media sia nella percezione della gente il termine con cui conno-tare definitivamente i luoghi del degrado e del disagio sociale. Indipendentemente dalla loro localizzazione territoriale».

(Paolo Desideri)2

1. La governance urbana: genesi di una categoria socio-giuridica dalla fine del secondo conflitto mondiale all’era globale

La governance urbana è oggi costante oggetto di dibattito. Pur conservando la medesima complessità della più generale e dilagante

1 Robert Ezra Park, On Social Control and Collective Behavior, Chicago Uni-versity Press, Chicago 1967, p. 3.

2 Paolo Desideri, Per un’alleanza fra capitale e politica, “Limes”, 4, 2016, pp. 117-128: 117.

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categoria della governance dal cui alveo discende, essa rivela di primo acchito una sua intrinseca utilità descrittivo-esplicativa per gli studi sociologici e di teoria giuridica che s’interessano alla città e alle sue trasformazioni in epoca postindustriale e contemporanea.

La governance urbana riesce infatti a catturare quei fenomeni propri dei tessuti urbani degli ultimi decenni, caratterizzati da una frammentazione dei rapporti politici, istituzionali e governativi e da una disomogeneità dello spazio urbano. Queste dinamiche sono rilette dalla governance urbana come l’insieme delle attività di nuovi soggetti (pubblici e privati), creatività (di organizzazioni territoriali), strategie politico-economiche, azioni, eventi sociali e culturali. Pur essendo tali processi estremamente eterogenei tra loro, essi si lasciano rileggere dalla prospettiva di un comune de-nominatore che costituisce il nucleo della governance urbana: l’idea che il governo di uno spazio urbano non possa essere affidato uni-camente ad un’autorità centrale che decide, organizza e coordina le azioni dei cittadini nell’ambito di un territorio geograficamen-te definito. Queste dinamiche si caratterizzano per la presenza di nuove logiche ispirate ad un continuo scambio di comunicazioni ed informazioni, saperi e risorse, alla partecipazione di nuovi at-tori che danno vita a forme di cooperazione e coordinazione che affiancano le istituzioni nel governo della città. Queste trasforma-zioni finiscono inevitabilmente per ridefinire lo spazio urbano, sia nella sua forma sia nei suoi processi di regolamentazione che ricorrono sempre più a forme flessibili e maggiormente aperte alla partecipazione di più soggetti, anche privati.

Da questa prospettiva, allora, la governance urbana assolve a una finalità descrittiva piuttosto evidente: descrivere le trasformazioni del tessuto urbano connesse alle nuove dinamiche politiche, re-golative, socio-culturali, economiche. A questa funzione, tuttavia, può aggiungersi un’altra non immediatamente percepibile ma ben più interessante: è l’istanza assiologico-normativa di cui la gover-nance urbana si fa interprete e che proprio in essa ravviserebbe non solo la somma dei processi poc’anzi menzionati ma anche nuove modalità governative con cui le città postindustriali governano tali cambiamenti. Possiamo ad esempio rintracciare questa valenza as-

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siologia nelle parole di Le Galès che definisce la governance urbana come la «capacità di integrare e di dare forma agli interessi locali, alle organizzazioni, ai gruppi sociali e, d’altra parte, in termini di capacità di rappresentarli all’esterno, di sviluppare strategie più o meno unificate di relazione al mercato, allo stato, alle altre città e agli altri livelli di government»3.

In questo contributo mi propongo quindi di utilizzare la cate-goria della governance urbana da entrambe le prospettive (descritti-va ed assiologica) per svolgere qualche riflessione sulle trasforma-zioni di un particolare tipo di città postindustriale, la città globale, soffermandomi in particolare sulle relazioni tra centro e periferie di questo tipo di città. Declinerò la categoria della governance ur-bana ricorrendo ad un modello specifico: quello del network. La scelta non è casuale. L’immagine del network si rivela utile per una duplice ragione: da un lato esprime nuovi modelli regolativi ispi-rati a strutture e pratiche aperte, orizzontali e reticolari, propri della governance che ben si adattano a descrivere le trasformazioni delle città globali contemporanee; da un altro lato la città globale stessa con i suoi nodi interattivi che si concentrano soprattutto al suo centro assume la forma di un network, aspirando a funzionare proprio come questa struttura informatizzata.

Infine, la metafora del network mi sembra interessante perché solleva una serie di interrogativi che in qualche modo riflettono i dilemmi della nostra società: la nozione di città globale coglie l’idea dello spazio digitale privato che altera e (in taluni casi) re-spinge la funzione legislativa e giurisdizionale dello Stato. L’inter-secazione dello spazio digitale con quello finanziario crea massicce concentrazioni di infrastrutture che sottraggono la finanza globale allo Stato e la assegnano a criteri economici dominanti. Ciò signi-fica che il network – che è l’emblema dell’economia globale e di queste nuove politiche che sfuggono allo Stato – pur presentando una struttura inclusiva e fortemente partecipativa, solleva numero-

3 Patrick Le Galès, La nuova ‘political economy’ delle città e delle regioni, “Stato e mercato”, 52, 1998, pp. 53-91: 79.

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si dilemmi perché rischia di limitare la partecipazione ai soggetti più forti, escludendo quelli economicamente deboli.

Riportando tali questioni alla città globale, uno dei problemi principali che si pone è il rapporto tra centro e periferie, perché il centro, funzionando come un nodo interattivo che interseca gli altri nodi su scala regionale e globale, concentra in sé potere e relazioni di potere, laddove la periferia, restando esclusa da queste relazioni e non potendo beneficiare di risorse economiche e finanziarie, di sa-peri, di innovazioni tecnologiche, etc., s’impoverisce ulteriormente. Cosicché l’ambito della mia ricerca si restringe all’indagine dei rap-porti tra centro e periferie delle città globali che rileggo dalla lente privilegiata della governance urbana come network.

Partendo allora dalla teoria di Mark Bevir della “governance come network”4 che ci consente di cogliere un nuovo ordine re-golativo basato non più sull’autorità del government ma sulle azioni e decisioni della governance che prendono forma nella struttura del network, descriverò la città globale come un modello retico-lare ossia come un processo che alle tradizionali categorie del-la città come territorio organizzato sostituisce l’immagine di un continuum di flussi di comunicazione e scambi di informazioni. In altri termini, la città globale si atteggia a vero e proprio network e dunque presenta gli stessi vantaggi ma anche dilemmi e svantaggi del modello della governance come network. In particolare, impone uno scarto, un divario tra coloro che sono inclusi in questi processi di scambi di informazioni (centro del network) e coloro che ne sono esclusi (periferia del network) e che reagiscono all’esclusione generando network di resistenza. È in questo scarto che si coglie il maggior paradosso dell’epoca globale che subordina la politica all’economia, cosicché ciò che accade a livello locale (periferico) è deciso da processi globali (nei nodi interattivi delle città globali), secondo il ben noto motto “think globally, act locally”5.

4 Mark Bevir, A Theory of Governance, University of California Press, Berke-ley, Los Angeles, London 2013.

5 Manuel Castells, The Power of Identity, Blackwell Publishing Ltd., Oxford 1997; trad. it. Il potere delle identità, Egea, Milano 2003.

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In una prima parte del lavoro illustrerò il modello della gover-nance come network, avvalendomi della teoria di Mark Bevir. In una seconda parte, descriverò le caratteristiche principali della cit-tà globale, soffermandomi in particolare sul rapporto tra centro e periferia che rileggerò attraverso la lente del paradigma della gover-nance come network. Infine nelle conclusioni analizzerò i pericoli che si annidano dietro i meccanismi del modello della governance come network e dunque, per analogia, all’interno della città globale provando a discutere la necessità di predisporre adeguate contro-misure, tra cui lo strumento della meta-governance.

Prima di esporre in maniera più compiuta il modello della governance come network, vorrei soffermarmi ancora brevemente sulla categoria della governance urbana, per rintracciarne le origini e per meglio afferrarne le funzioni e i significati. La genesi della governance urbana coincide con i mutamenti politici ed economi-co-sociali innescati alla fine del secondo conflitto mondiale e che in parte possono essere letti in termini di crisi di quella stabilità che aveva sempre caratterizzato la relazione fra territorio ed istitu-zioni: sono gli anni in cui l’idea che un’autorità centrale governa un popolo che vive su uno specifico territorio comincia ad essere messa in discussione e con essa entrano in crisi le categorie di demos, Stato-nazione e territorio6. La tradizionale gerarchia istituzio-nale (stato-nazione, regioni, province, città) con le sue strutture e capacità governative si rivela inadeguata rispetto alle complessità sociali e ai processi di differenziazione dei sistemi e sotto-sistemi sociali7. Accade infatti che fenomeni quali la compressione spa-

6 In precedenza, secondo Lefebvre, vi era stata un’altra trasformazione: la rot-tura della storia urbana della città-opera a causa dei processi di industrializzazione. La città-opera, infatti, si sottrae al mercato e al profitto, affidandosi all’affezione collettiva all’urbano che genera un comune senso di appartenenza. L’industrializ-zazione disurbanizza questo tipo di città perché la orienta irreversibilmente verso il danaro, sottomettendo l’opera al prodotto. Cfr. Henri Lefebvre, Le droit à la ville, Anthropos, Paris 1968; trad. it. Il diritto alla città, Marsilio, Padova 1970.

7 Si esaurisce anche quel processo descritto da Lefebvre proprio dell’età dell’industrializzazione ovvero il tentativo dello Stato di sfruttare lo spazio ur-bano non come spazio di differenziazione ma come luogo di omogeneizzazio-

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zio-temporale, lo spostamento di individui, beni, merci e servizi in uno spazio transnazionale di difficile identificazione geografica, il processo – oggi in crisi – di integrazione europea, la nascita e cre-scita di un’economia informatizzata, l’emersione di nuovi diritti e problemi (diritto dell’ambiente, multiculturalismo, diritti sociali, etc.) abbiano determinato una progressiva crisi dei meccanismi di government, caratterizzati dalla presenza di autorità centrali e da un modello di command-and-control.

È in questi anni che si pongono le basi politiche, economiche e sociali dei fenomeni della globalizzazione, che poi esploderan-no a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, ed è in questo contesto che secondo Bagnasco8 si completa il processo di transi-zione verso la città postindustriale, caratterizzato dalla progressiva erosione della tradizionale filiera istituzionale e da una progressiva complessificazione dello spazio urbano. Se la città rimane infatti un luogo privilegiato dove si concentrano persone, merci, servizi e quindi processi economici e di crescita della società, è anche vero che nello spazio urbano prendono vita nuove situazioni di conflitto, disagi, marginalità legate a vecchie questioni (immigra-zione, criminalità) e nuovi fenomeni (un diverso accesso alle ri-sorse economiche e finanziarie, ai servizi e alla conoscenza, tutela dell’ambiente, nuovi diritti).

Il tessuto urbano risulta così fortemente disomogeneo: da un lato, l’economia basata su servizi e scambi di conoscenza e di in-formazioni ha creato un vero e proprio network urbano che atti-ra capitali, investitori, grandi eventi, risorse umane e finanziarie, sollecitando la partecipazione di nuovi agenti, i c.d. stakeholders; dall’altro, l’incertezza dei processi sociali, l’emersione di nuove forme di violenza legate all’immigrazione, l’esclusione dalla rete

ne per ridurre le differenze e ricondurre tutto al proprio controllo. Cfr. Henri Lefebvre, De l’état: Les contradictions de l’état moderne, Union Générale d’Editions, Paris 1978; trad. it. Lo Stato. Le contraddizioni dello stato moderno, Dedalo, Bari 1978, vol. 4.

8 Arnaldo Bagnasco (a cura di), La città dopo Ford, Bollati Boringhieri, Torino 1990.

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di scambi di informazione, di risorse, di conoscenze ha frammen-tato lo spazio urbano. La relazione tra centro e periferia non è più comprensibile utilizzando le categorie classiche: ciò che prima era centro può apparire periferia rispetto a questi nuovi processi e vi-ceversa9. Sembra perciò preferibile rileggere la relazione tra centro e periferia guardando ai nuovi rapporti di potere, all’accesso alle risorse, alla partecipazione a processi di scambio di informazioni, di sapere, di conoscenza e quindi ad un continuo divenire, piut-tosto che ad entità statiche. Ciò che emerge dai maggiori studi sociologici degli scorsi decenni sono ritratti che provano a coglie-re e raffigurare le caratteristiche degli assetti urbani, il “diritto alla città”, gli stili di vita urbani di individui e gruppi o la distribu-zione della popolazione10. A queste dimensioni si aggiungono ora ulteriori complessità, proprie dell’era globale che si manifestano nella sovrapposizione del globale e del locale, in nuovi fenomeni sociali o nell’emersione di processi regolativi alternativi a quelli tradizionali scaturiti dalla presenza di nuovi agenti che si muovo-no in uno spazio transnazionale. Queste trasformazioni richiedo-no nuove analisi e nuove comprensioni dello spazio urbano che tengano conto dei nuovi assetti e delle nuove relazioni di potere

9 Se ad esempio consideriamo l’area della Silicon Valley, ci troviamo di fron-te ad una certa ambiguità: geograficamente essa è situata nella parte meridionale dell’area metropolitana della baia di San Francisco e nasce negli anni ’80 come un’area periferica abitata da hippies che sognavano una rivoluzione informatica. Oggi, includendo aziende del calibro di Apple, eBay, Adobe System, Facebook, Microsoft, Linkedin, etc., non può certamente considerarsi periferia ma centro propulsore dell’economia globale. Sul punto, su cui ritornerò infra, rinvio all’ar-ticolo di Jaron Lanier, The Suburb that Changed the World, pubblicato il 18 agosto 2011 sul New Statesman e consultabile alla seguente pagina web: http://www.newstatesman.com/scitech/2011/08/silicon-valley-computer

10 Sul punto rinvio spec. a Henri Lefebvre, Il diritto alla città, cit., ove viene introdotto il concetto di diritto alla città, inteso come diritto degli uomini di far parte di un processo collettivo di civilizzazione e di prendere parte attiva alla vita urbana; Thomas Humphrey Marshall, Citizenship and Social Class, Pluto Press, London 1992; trad. it., Cittadinanza e classe sociale, Laterza, Roma-Bari 2002; David Harvey, The Urban Experience, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1989; trad. it., L’esperienza urbana, Il Saggiatore, Milano 1989.

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stabilite proprio dalla globalizzazione (grandi centri bancari, mer-cati finanziari, spazi transnazionali che si localizzano nel nazionale attraverso punti di scambio, di investimenti e di finanza che richie-dono nuove regolamentazioni) e che sono maggiormente evidenti in quelle che sociologi come Sassen e Castells hanno chiamato città globali11. Negli anni Sessanta e Settanta, ad esempio, Rokkan e Lipset individuarono con chiarezza la frattura tra centro e peri-feria, cogliendo però soprattutto la dimensione territoriale12. Nei loro studi la periferia appare come uno spazio territoriale che si oppone all’egemonia centrale, innescando meccanismi di autono-mia volti ad evitare l’omogeneizzazione con il centro. Oggi sta accadendo qualche cosa in più: la frattura tra centro e periferia assume anche una colorazione sociale, insieme a quella territoriale, sovvertendo così le classiche categorie che definivano la perife-ria come un luogo geograficamente distante dal centro. Oggi, per converso, la periferia può designare anche uno spazio limitrofo o territorialmente vicino al centro ma lontano o escluso dalle geo-metrie politiche e culturali del centro oppure sedi che crescono nell’ombra rinunciando all’interferenza del centro o alle sue iper-connessioni, espressioni di un’economia digitalizzata13.

11 Sul punto, rinvio anche ad Aldo Bonomi che, al centro dei suoi studi sulla città, pone il concetto di glocale, come espressione di dinamiche globali e insieme locali. Cfr. Aldo Bonomi, La metamorfosi del capannone svela il dinamismo del Nord-Est, “Il Sole 24ore”, edizione dell’8 maggio 2011.

12 Stein Rokkan, Martin Seymour Lipset, Party Systems and Voter Alignments. Cross-National Perspectives, Free Press, New York 1967.

13 Sul punto rinvio all’interessante contributo di Luca Molinari, La periferia dopo la periferia, “Limes”, 4, 2016, pp. 123-128, che, ad esempio, scrive: «Tradizio-nalmente una città era il luogo attraversabile a piedi nell’arco di una giornata, un’entità definita di cui si conoscevano i limiti fisici, le regole, la popolazione, la lingua e le tradizioni. Nell’arco di un secolo il termine città ha vissuto una progressione simbolica e dimensionale che l’ha portata a essere prima metropoli, quindi megalopoli e oggi frammento ininterrotto di paesaggio abitato. Appare quindi evidente che l’idea stessa di periferia, ovvero di un luogo lontano e laterale rispetto a un centro, ha completamente perso di senso rispetto ai fenomeni che osserviamo. È centro o periferia la grande massa di edifici storici abbandonati nel centro di Detroit dopo l’ultima crisi industriale? Sono periferia o centri i diversi

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Come ad esempio ha scritto Massimo Cacciari, i territori dove viviamo o gli edifici dove abitiamo vanno riletti come luoghi della vita post-metropolitana «che ne esprimano e riflettano il tempo, il movimento, che non riproducano le antiche segmentazioni dello spazio metropolitano, che siano piuttosto connessioni viventi»14. È anche con riguardo a questi fenomeni che la governance urbana può rivelare la sua utilità, descrivendo l’insieme di quei processi di coordinamento con i quali i differenti attori, le istituzioni e i gruppi sociali, tentano di raggiungere i loro obiettivi discussi e definiti collettivamente in ambienti frammentati e incerti15. Inevi-tabilmente, però, allorquando la governance tematizza queste nuove dinamiche, segnalando la riorganizzazione e la connessione dei processi urbani nell’epoca postindustriale e globale, la competizio-ne territoriale, la ridefinizione dello spazio periferico e del centro della città, il fermento degli attori urbani, la progettazione di nuo-ve politiche, la varietà delle domande sociali, assume immediata-mente anche una valenza regolativa.

Posto in altri termini, nel momento in cui la governance urbana individua una discontinuità tra il tessuto urbano dell’epoca moder-na e industriale e quello della città contemporanea, superando la prospettiva della città come di un territorio geograficamente indi-viduabile ed organizzato da politiche centrali e locali, ambisce anche a proporre nuove categorie regolative. Indagando sulle modalità con cui aree territoriali urbane si aprono a nuovi flussi comunicativi o ne restano escluse, la governance urbana si fa interprete di nuo-ve relazioni di potere, di nuove dialettiche di interessi, basate sulla

agglomerati di origine agricola assorbiti dalla crescita smisurata di entità come Guangzhou, Città del Messico o Lima?» (ivi, p. 124).

14 Massimo Cacciari, Nomadi in prigione, in Aldo Bonomi, Alberto Abruzzese (a cura di), La città infinita, Bruno Mondadori, Milano 2004, pp. 51-59: 57.

15 Patrick Le Galès, European Cities. Social Conflicts and Governance, Oxford University Press, Oxford 2002; trad. it., Le città europee. Società urbane, globalizza-zione, governo locale, il Mulino, Bologna 2006; Id., Quali interessi privati nelle città europee?, in Arnaldo Bagnasco, Patrick Le Galès (a cura di), Le città dell’Europa contemporanea, Liguori Editori, Napoli 2001, pp. 249-276.

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dicotomia centro/periferia; inclusione/esclusione. Essa, in qualche modo, esprime quel diritto alla città profetizzato da Lefebvre e de-finito come il «diritto dei citoyens-citadins, e dei gruppi che essi co-stituiscono […] a essere presenti su tutte le reti, su tutti i circuiti di comunicazione, di informazione, di scambio»16. Questo significa che la città con il suo centro e le sue periferie è finita? Non credo. Pro-babilmente siamo in presenza di nuove esperienze che impongono uno scarto deciso con i precedenti periodi storici: se fino all’epoca industriale e moderna era semplice individuare la città come spa-zio geografico, come un territorio organizzato e strutturato dalla politica nazionale e locale, o distinguere i luoghi centrali da quelli periferici, oggi s’impongono nuove riflessioni perché, come osserva Leonardo Benevolo, «abbiamo la sensazione che la differenza fra un dentro e un fuori della città sia diventata più difficile da percepire»17. La città non è più un luogo recintato che protegge i suoi abitanti e si oppone ai luoghi aperti, tempio di pericoli e paure. La città è ora un processo: essa resta comprensibile in termini spazio-temporali ma le relazioni che s’instaurano nello spazio urbano o le azioni e co-municazioni che in esso avvengono si spostano in una dimensione informatizzata in cui le distanze spazio-temporali sono annullate e tutto è percepibile nella forma di flussi di comunicazione.

Il terreno su cui ci muoviamo è precario ed incerto perché ancora in trasformazione ma la potenza dei cambiamenti che stia-mo attraversando sta già dispiegando i suoi effetti e ciò richiede un maggior impegno scientifico, a partire dalla consapevolezza che gli studi, specie quelli delle scienze umane e sociali, che hanno descritto le trasformazioni urbane come effetto dei più ampi fe-nomeni (economici, sociali, politici, culturali) dell’era globale si presentano eterogenei e la letteratura sterminata18. La stessa gover-

16 Henri Lefebvre, Espace et politique. Le droit à la ville II, éditions Anthropos, Paris, 1972; trad. it. Spazio e politica. Il diritto alla città II, Moizzi Editore, Milano 1976, p. 30.

17 Leonardo Benevolo, La fine della città, intervista a cura di Francesco Erba-ni, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 3.

18 Rinvio ai più classici: Mike Davis, City of Quartz, Vintage Books, New York 1992; trad. it. La città di quarzo. Indagine sul futuro di Los Angeles, Manifesto-

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nance urbana si atteggia a categoria molto ambigua, perché se da un lato si mostra utile per osservare questi fenomeni, rivelando la potenzialità di nuovi attori, strategie, azioni, da un altro svela pericoli che proprio in queste nuove potenzialità si annidano e che assumono la forma di bassa partecipazione di alcuni individui e gruppi ai meccanismi decisionali e di scarsa democraticità dei processi deliberativi stessi.

2. La governance come network

In un libro del 2013, A Theory of Governance, Mark Bevir ha proposto un modello di governance prettamente teorico, fondato su tre assi portanti: la scelta razionale, la teoria dei network e le condotte responsabili degli agenti. Intendo partire dal secondo elemento indicato da Bevir: la teoria dei network.

L’immagine della governance come network rinvia alle trasfor-mazioni politico-economiche degli ultimi decenni, che hanno imposto un ripensamento dei modelli regolativi tradizionali, ba-sati su un ordine verticale (l’autorità centrale che munita di de-lega elettorale governa e amministra), orientandoci verso nuovi

libri, Roma 1993; Peter Hall, Cities in Civilization, Pantheon, New York 1998; François Ascher, La Métapolis. Ou l’avenire de la ville, Odile Jacob, Paris 1995; Hen-ri Lefebvre, La Proclamation de la Commune, Gallimard, Paris 1965; Id., Il diritto alla città, cit.; Id., Espace et politique. Le droit à la ville II, cit.; D. Harvey, The Enigma of Capital and the Crises of Capitalism, Profile Books, London 2010; trad. it., L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza, Feltrinelli, Milano 2011; Id., Rebel Cities: From the Right to the City to the Urban Revolution, New Left Books, Lon-don 2012; trad. it., Città ribelli. I movimenti urbani dalla Comune di Parigi a Occupy Wall Street, il Saggiatore, Milano 2013; Manuel Castells, La città delle reti, Marsilio, Vicenza 2014; Pierre Manent, Les métamorphoses de la cité. Essai sur la dynamique de l’Occident, Flammarion, Parigi 2010. Rinvio poi ad alcuni interessanti articoli di Marc Augé: L’architecture globale, “Le Monde”, 18-19 ottobre 2009; Id., Le nuove frontiere, “Il Corriere della Sera”, 28 febbraio 2010; Id., Réconcilier doute et espoir. Dans la ville-monde d’aujourd’hui, rapprochons la science du peuple, “Le Monde”, 10 luglio 2010.

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meccanismi che si avvalgono di strutture procedural-decisionali orizzontali di tipo reticolare che assumono proprio la forma del network19.

All’interno di queste strutture si muovono nuovi soggetti – i c.d. stakeholders – i quali non dipendono più dall’autorità pub-blica centrale ma organizzano le loro azioni in maniera coordi-nata, scambiando competenza, idee, attività, strategie, innovazioni, conoscenza e sapere20. Flussi continui di scambi di informazioni danno vita a processi deliberativi che assumono la forma di nuove regolamentazioni sociali. Bevir definisce il network come:

[…] a common form of social coordination and managing interor-ganizational linkages is as important for private-sector management

19 Sull’emersione della governance come nuovo ordine regolativo che, nel contesto socio-politico ed economico della globalizzazione, affianca i modelli governativi tradizionali e, in taluni casi, addirittura arriva a sostituirli, mi sia con-sentito rinviare al mio Francesca Scamardella, Teorie giuridiche della governance. Le ragioni e i limiti di una nuova narrazione, Editoriale Scientifica, Napoli 2013, ove provo a descrivere e spiegare la valenza normativa dei nuovi dispositivi di governance, le modalità con cui agenti eterogenei (i c.d. stakeholders) partecipano ai nuovi processi deliberativi, ‘degradando’ lo Stato da autorità centrale a possibile ed eventuale attore, e ad illustrare le ragioni della diffusione di questo nuovo ordine regolativo, le sue potenzialità e i suoi limiti e dilemmi.

20 Sulla natura di questi agenti, rinvio per completezza a Maria Rosaria Ferrarese, Diritto sconfinato. Inventiva giuridica e spazi nel mondo globale, Laterza, Roma-Bari 2006, che distingue tre tipologie di nuovi attori, utilizzando il cri-terio delle modalità di partecipazione ai processi di governance: gli entusiasti, i competenti e gli interessati. Distinzione che riprende da Martin Shapiro, Admini-strative law Unbounded: Reflections on Government and Governance, “Indiana Journal of Global Legal Studies”, 8, 2, 2001, pp. 369-377. Ferrarese definisce gli entusiasti come quei soggetti che negli ultimi decenni sono intervenuti sempre più spesso attorno a questioni politiche, sociali ed economiche, presentandosi come una sorta di società civile a livello transnazionale (associazioni no profit, associazioni di consumatori, ONG, comitati di bioetica, etc.). I competenti sono invece i soggetti che detengono il sapere, la conoscenza e la competenza (professionale, scientifica, burocratica, tecnica). Infine vi sono gli interessati che rappresentano il volto della New Economy; sono le imprese transnazionali, l’alta finanza, le grandi law firms, interessate esclusivamente a massimizzare i loro profitti.

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as it is for public-sector management. Networks are a means of co-ordinating and allocating resources. They are an alternative to, not a hybrid of, markets and hierarchies, for they rely distinctively on trust, cooperation, and diplomacy21.

Centrale nella visione della governance come network è l’im-magine della rete che sostituisce quella piramidale propria del government: ad una struttura verticale ispirata a politiche di com-mand-and-control si sostituisce l’idea di uno spazio orizzontale e reticolare ove agenti pubblici e privati si muovono in maniera coordinata per risolvere problemi, per regolamentare le proprie istanze, per tutelare i propri interessi, laddove la politica non arriva più (o arriva in ritardo). L’idea che il network propone non è quella semplicistica del web. La questione non è se le persone o le azien-de hanno internet e se la usano. La questione è la coordinazione e la connessione che lo spazio reticolare, garantito dalla tecnologia, fornisce. Il networking è un elemento cruciale della società contem-poranea informatizzata: è una forma di comunicazione flessibile e organizzata attraverso tecnologie informali che consente, per l’appunto, una continua interazione e collaborazione tra soggetti eterogenei. Come per l’epoca industriale quando la questione non era se la vecchia economia era gestita dalle compagnie elettriche ma da quelle imprese che lavoravano grazie all’elettricità, analoga-mente oggi la New Economy e le decisioni economico-politiche ad essa connesse non sono gestite da chi possiede internet ma da chi, utilizzando l’espansione della tecnologia, ha favorito l’emersione di un modello governativo ibrido basato sulle caratteristiche reti-colari del network. Questo modello, almeno in apparenza, prospetta l’idea dell’inclusività e della partecipazione di tutti i soggetti inte-ressati alla deliberazione: lo scambio di informazioni, competenze tecniche e scientifiche, la consultazione, la coordinazione di azioni e strategie predisposte rispetto ad istanze sociali, politiche ed eco-nomiche darebbero vita a flussi continui di decisioni in grado di regolamentare le specifiche questioni.

21 Mark Bevir, A Theory of Governance, cit., p. 93.

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Paradossalmente, è proprio nei punti di forza del networking che si annidano i problemi e i dilemmi principali che Bevir così specifica:

[…] issue networks involve only policy consultation and are cha-racterized by many participants; fluctuating interactions and access for the various members; the absence of consensus and the presence of conflict; interaction based on consultation rather than negotiation or bargaining; an unequal power relationship in which many parti-cipants may have few resources and little or no access; and a concept of power as a zero-sum game22.

In altri termini dobbiamo chiederci se il network sia in grado in maniera assolutamente automatica e genuina di assicurare la democraticità delle sue procedure per il sol fatto che consente la partecipazione di più soggetti e non fa dipendere la decisione da un provvedimento dell’autorità centrale ma dalla coordinazione e cooperazione di attori e azioni. La consultazione che precede la decisione, lo scambio di informazioni e di saperi, la coordinazione reticolare, la cooperazione di soggetti pubblici e privati sono in grado di assicurare una decisione democratica che tuteli tutti o, piuttosto, dietro il velo apparente della partecipazione e dell’inclu-sività non si cela la trappola del più forte? Una maggiore dispo-nibilità economica o di saperi e conoscenze, un più facile accesso tecnologico o la consultazione in luogo del consenso non sono forse l’espressione di un’economia neoliberale che decentralizza la decisione, sottraendola alla sfera pubblica?

Per risolvere tali questioni, Bevir corregge la teoria della go-vernance come network inserendo due elementi: la scelta razionale e la responsabilità degli agenti. Con riguardo alla scelta razionale, vorrei precisare che quest’elemento non si riferisce alla razionalità ottimizzante degli agenti che pure aveva contraddistinto le teorie economiche americane post New Deal che avevano enfatizzato il carattere razionale delle decisioni, prestando così maggiore atten-

22 Ivi, pp. 91-92.

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zione ai diritti fondamentali e agli interessi dei gruppi d’interesse (interest groups politics). Né intendo riferirmi semplicemente alla teoria della scelta razionale degli anni ’60-’70 che, come ricorda Bevir stesso, aveva immaginato gli individui come «being rational actors, try to maximize their short-term interests»23. Mi sembra infatti che l’elemento originale della scelta razionale non risieda nel mero calcolo economico, proprio perché il mercato, nono-stante la coordinazione degli agenti, non è in grado di garantire un’equilibrata regolamentazione che favorisca l’ottimizzazione di interessi contrapposti.

Maggiormente interessante è l’idea che l’elemento razionale si doti di un carattere riflessivo che sia in grado di assolvere una doppia funzione: da un lato la consultazione, la coordinazione e i flussi di conoscenze e scambi riflettono gli agenti da cui provengo-no, i loro interessi ed intenzioni, espliciti ed impliciti; da un altro, riflessività significa reversibilità nel senso che un agire riflessivo è in grado di prestare maggiore attenzione ai destinatari della deci-sione. Reversibilità significa che nel momento in cui il processo deliberativo viene avviato all’interno di una struttura reticolare, esso deve farsi carico di tutti i destinatari e del contesto ove la decisione dovrà essere applicata. La razionalità, perciò, non è sem-plice ragione ottimizzante degli attori ma è riflessività procedurale.

Una siffatta razionalità che implica una riflessività procedurale non può fare a meno della responsabilità degli agenti. E ciò ci conduce al terzo pilastro della teoria di Bevir: la responsabilità. Se infatti l’agire di ogni agente deve essere riflessivo nel senso che da un lato deve poter riflettere fedelmente gli interessi e le intenzioni di chi all’interno del network partecipa ai flussi comunicativi e alle pratiche di cooperazione e coordinazione e dall’altro deve con-durre a decisioni condivisibili mediante procedure razionali che si facciano carico dei destinatari e del contesto ove la deliberazione opererà, allora inevitabilmente gli agenti che operano nel network devono agire in maniera responsabile. Scrive ancora Bevir: «to act

23 Ivi, p. 137.

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responsibly was to act so as to promote the common good rather than to seek personal advantage»24. Il concetto di responsabilità deve essere riferito a tutti gli agenti che, a qualunque titolo, parte-cipano alle pratiche del network. La responsabilità, allora, riproduce l’esperienza discorsiva habermasiana rivolta ad un’intesa, certa-mente controfattuale, ispirata ad un agire performativo e non stru-mentale. Dobbiamo poter immaginare il modello di Bevir come propositivo di un ordine regolativo nuovo, basato sulla struttura reticolare del network, le cui potenzialità nocive appaiono mitigate da procedure riflessivo-razionali e dalla responsabilità degli agenti. In conseguenza di ciò l’azione all’interno del network non si ridu-ce all’agire strategico della multinazionale che, con l’illusione di soddisfare la domanda di lavoro, aumenta i propri profitti in Paesi che offrono minor tutela ai diritti dei lavoratori o all’azione stru-mentale del consumatore che deve acquistare il miglior prodotto al prezzo più basso, e così via. Il network assumerebbe la forma di un contesto dialogico e gli scambi comunicativi quella di argo-mentazioni razionali che legittimerebbero i nuovi meccanismi di regolazione sociale predisposti dalla governance. L’elemento riflessi-vo-razionale e quello della responsabilità degli agenti servirebbero a limitare gli effetti perversi dell’economia neoliberale e di un ordine, quello della governance, che se inteso a servizio dei mercati globali non fa altro che sottrarre la decisione alla sfera pubblica, affidandola al potere del più forte.

La teoria della governance come network, pur se si presenta come un modello squisitamente teorico, ha il pregio di conferire un carattere razionale e perciò accettabile ad un nuovo ordine globale di difficile decifrazione. Essa affida la nuova regolamentazione a procedure discorsive, a soggetti pubblici e privati che, attraverso l’argomentazione razionale delle proprie istanze ed interessi, dan-no vita all’interno del network a relazioni strutturate e connessioni sociali ossia a scambi comunicativi o di azioni che sono controllati e monitorati da tutti gli altri agenti.

24 Ivi, p. 141.

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3. Brevi cenni sulla città globale

Cos’ha in comune un siffatto modello di governance con le relazioni tra città e periferie? Occorre innanzitutto definire l’ambito della ricerca. Qui non intendo riferirmi a tutte le città ma ad un particolare tipo di città: quella globale, descritta accu-ratamente dalla sociologia ed in particolare dai lavori di Saskia Sassen. Proporrò una narrazione della città globale basata sull’i-dea che essa – e soprattutto il suo centro – assume la forma e la funzionalità di un network, rispetto ai cui processi di connessione e informatizzazione e alle sue relazioni di potere è possibile indi-viduare un nuovo spazio periferico, non tanto in termini geografici ma ridefinendolo in maniera simbolica come escluso o separato da ciò che accade nel network. Tematizzare sulla città globale e in particolare sul suo centro come un network significa assumere il modello della “governance come network” come metafora inter-pretativa dell’evoluzione urbana e delle relazioni tra centro e periferie delle città globali.

Mi pare significativo ripartire proprio dalle intuizioni di Saskia Sassen, che nelle sue opere Territori, autorità, diritti e Le città nell’e-conomia globale25 descrive la città dell’era globale come punto d’in-tersezione tra il locale e il globale, come un luogo che sovverte le unità spazio-temporali o il criterio geografico, perché riesce a localizzare al suo interno eventi che sono decisi o deliberati nello spazio transnazionale. Le condivisibili osservazioni di Sassen – che qui prendo in prestito – basate su questo ripensamento dello spa-zio urbano come punto di intersezione tra dimensione transnazio-nale e dimensione locale suggeriscono di guardare alla città globa-le come un effetto e al tempo stesso un fattore caratterizzante le trasformazioni della globalizzazione.

25 Saskia Sassen, Territory, authority, rights. From Medieval to Global Assemblages, Princeton University Press, Princeton 2006; trad. it., Territori, autorità, diritti. As-semblaggi dal Medioevo all’età globale, Bruno Mondadori, Milano 2008; Id., Cities in a World Company, III ed., Pine Forge Press, Thousand Oaks 2006; trad. it., Le città nell’economia globale, III ed., il Mulino, Bologna 2010.

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Affermare che la città globale ha la forma elastica e flessibile di un network e sostenere che essa funziona come un network signi-fica indagare su quei flussi comunicativi, sulle attività decisionali e strategiche, sugli scambi di sapere, sulle innovazioni, sulle azioni che prendono forma nello spazio urbano rendendolo un nodo interattivo perennemente collegato con gli altri nodi su una più larga scala mondiale. Questa nuova geometria urbana alla quale si adatta perfettamente la metafora della governance come network im-pone però di soffermarsi anche sui dilemmi e sulle questioni che tale modello apre, allorquando affianca ai dispositivi decisionali tradizionali, basati sul consenso e su un’autorità centrale, mecca-nismi reticolari, spesso elusivi delle garanzie democratiche proprie di uno Stato di diritto costituzionale.

In altri termini, se accettiamo la narrazione della città globale che assume la forma di un network e che adotta come nuovo ordi-ne regolativo quello della governance (che, per l’appunto, funziona servendosi del network), dobbiamo allora farci carico anche dei problemi che questo modello presenta e che in parte ho già indi-viduato nelle pagine precedenti. E tra questi problemi vi è proprio quello del rapporto tra il centro della città globale e le sue peri-ferie che restano sovente escluse da queste relazioni interattive, di scambi e di cooperazione che si traducono in relazioni di potere.

Mi sembra interessante, prima di indagare questi ultimi aspetti, accennare, seppur brevemente, alle caratteristiche della città glo-bale proprio per tentare di cogliere meglio l’idea del network e le modalità con cui essa può funzionare quando ricorre a nuove forme di governance urbana. Si tratta, in parte, di richiamare quei fenomeni che ho descritto nelle pagine precedenti e che si ac-centuano negli anni ’80 del secolo scorso quando prende forma e consistenza la globalizzazione. Dalla prospettiva del tessuto urbano, in questi anni si determinano fatti nuovi che investono anche le principali metropoli: le attività di produzione economica vengono disperse e si trasferiscono da una scala nazionale ad una mondiale. Questo fenomeno che acquisirà dimensioni sempre più crescenti nel decennio successivo determinerà due principali conseguen-ze che riassumono l’immagine di quella che Sassen chiama “città

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globale”: a) le città diventano «i luoghi di produzione dei settori più avanzati del periodo postindustriale» ove si concentrano «la finanza e i servizi specializzati»; b) «le città sono piazze di mercati transnazionali dove le imprese e i governi possono acquistare stru-menti finanziari e servizi specializzati»26.

Le città globali, dunque, diventano una concentrazione di po-tere e controllo a cui, specularmente, fa da contraltare una disper-sione territoriale dei processi di produzione che, per l’appunto, slittano da un livello locale e nazionale ad uno transnazionale. I servizi, la tecnologia, la finanza, lo scambio di informazioni si loca-lizzano nelle città globali; la produzione si transnazionalizza. I mi-crochip della Microsoft o gli accessori sportivi della Nike o i capi di abbigliamento della Benetton sono prodotti nel sud-est asiatico, sfruttando la povertà di Paesi come il Pakistan o il Bangladesh e la soglia più bassa della tutela dei diritti fondamentali, ma le decisioni sulla produzione sono affidate a centri di comando, luoghi specia-lizzati e innovativi che si localizzano nel cuore di un certo numero di città occidentali (che, come abbiamo visto, Saskia Sassen chia-ma “città globali”). Una delle conseguenze dell’economia globale è stata quindi la determinazione di un fenomeno contradditto-rio: la dispersione della produzione che ha oltrepassato i confini nazionali per collocarsi in spazi transnazionali e l’accentramento decisionale in centri di potere che governano l’economia globale in determinati spazi urbani con l’evidente esclusione di luoghi periferici che pure con il loro lavoro alimentano l’economia.

Quanto più le grandi imprese si sforzano di spostare la produ-zione in paesi con legislazioni e tutele dei diritti più blande e meno efficienti, aggirando i limiti e i vincoli burocratici dei propri Stati, tanto più avranno bisogno di un ordine altamente specializzato in grado di governare questa produzione delocalizzata. E, come affer-ma Sassen, questi centri di potere saranno localizzati in network ela-stici e aperti che non sono immersi in spazi geografici individuabili ma nelle relazioni, nei flussi comunicativi e nell’iperconnessione.

26 Saskia Sassen, Le città nell’economia globale, cit., p. 51.

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4. Governare la città globale: la governance dei network urbani

Ciò che emerge da quanto detto sinora è una tendenza ini-ziata negli anni ’80 ed accresciutasi più recentemente ossia che le imprese globali, i centri e i mercati finanziari, le grandi banche – insomma i volti della nuova economia globale – necessitano di spazi ove svolgere attività di gestione, strategie di produzione e di innovazione, servizi finanziari e ove governare le attività produt-tive. Questi luoghi si materializzano nei nodi delle principali città globali che assumono la forma di distretti finanziari caratterizzati da continui scambi e flussi di informazioni e conoscenza che gui-dano l’economia mondiale; quell’economia che Castells ha defi-nito informatizzata e tecnologica. In questi distretti si concentra il potere: in una molteplicità di attività e assetti organizzativi in continua evoluzione che mantengono una rete globale produttiva. Se infatti colleghiamo tutti questi nodi avremo uno spazio regio-nale networkizzato, una geografia fatta non tanto da città o luoghi fisici ma da network urbani sparsi in tutto il mondo. Lo spazio industriale si organizza attorno a questi nodi che, con i loro flussi di comunicazione, da un lato danno l’idea della continuità (grazie all’iperconnessione) e dall’altro creano discontinuità geografiche, perché la molteplicità di reti industriali che a livello globale s’in-terseca determina anche separazione ed esclusione.

La rete annulla ogni progetto politico-territoriale moderno, perché dissolve le categorie politiche e urbane: centro e periferie non sono tanto spazi geografici specifici ma processi. I sistemi di informatizzazione infatti creano una dissociazione tra spazio, tem-po e svolgimento delle attività quotidiane. Di conseguenza sentia-mo spesso predire la fine delle città come le abbiamo conosciute e come le conosciamo ancora, per un progressivo svuotamento delle necessità funzionali che lo spazio urbano è in grado di soddisfa-re27. In un recente numero della rivista Limes, dedicato proprio ad

27 Inoltre, come ricorda Sassen (Territorio, autorità, diritti, cit., p. 418 e sgg.), la condi-zione di internet, che è alla base dell’esperienza del network, implica anche la possibilità di forme di controllo e di limitazioni dell’accesso che si manifestano nella rete stessa.

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una «Indagine sulle periferie», Paolo Desideri, ordinario di Pro-gettazione architettonica all’Università Roma Tre, ha sottolineato quanto sia «sempre più difficile individuare la periferia», perché ri-sulta ormai compiuta ed anacronistica quell’esperienza storica che rappresentava la periferia come uno spazio geografico collocato al di fuori della coincidenza tra urbs, la città costruita, e la civitas, la società civile che la abita. Oggi periferia è un concetto che sembra più legato ad una condizione di marginalizzazione fisica, sociale ed economica che fa sì, ad esempio, che «alcuni luoghi sono ridi-ventati centro in funzione del tempo e dell’infrastruttura, come le aree ben connesse alle linee ferroviarie tra alcune località limitrofe o con gli aeroporti»28.

Il centro della città globale assume la forma di una piattaforma dove si coordinano a lunga distanza le transazioni, gli affari inter-nazionali e si decidono le strategie di produzione. Le grandi me-tropoli degli anni ’50 contenevano sedi di imprese manifatturiere o di commercio all’ingrosso, compagnie di assicurazione, edifici di commercio al dettaglio, negozi, ristoranti. Il centro ospitava gli uffici direttivi delle principali industrie. Le città globali dagli anni ’90 (che Castells chiama città informazionali29) e sino ai giorni nostri si carat-terizzano per un esodo verso il centro da parte di aziende di settori in rapida espansione: banche, agenzie pubblicitarie, settori finanziari, società fiduciarie, compagnie di servizi di investimento, engineering, informatica. Queste trasformazioni indicano la tendenza dei centri urbani ad adattarsi alle trasformazioni e ai nuovi fabbisogni imposti dalla globalizzazione, specie quelli economici: la localizzazione in un centro che assume la forma di un distretto finanziario di attività complesse di organizzazione, scambi di titoli, fusioni e acquisizio-ne, strategie di produzione, transazioni. Per converso, nella periferia, l’intensità di questi fenomeni risulta fortemente diluita.

28 Lucio Caracciolo, Federico Petroni, L’intelligenza delle periferie. Conver-sazione con Stefano Boeri, Paolo Desideri e Daniel Modigliani, “Limes”, 4, 2016, pp. 27-36: 28.

29 Manuel Castells, The Rise of the Network Society, Blackwell Publishing Ltd., Oxford 1996; trad. it. La nascita della società in rete, Egea, Milano 2014, p. 459 e sgg.

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Più recentemente, poi, le imperfezioni delle telecomunicazioni, i rischi connessi all’attività speculativa di molte imprese, l’inaffida-bilità di internet, l’andamento altalenante dei mercati, hanno indot-to nuove trasformazioni: questi distretti finanziari stanno provando ad accrescere le opportunità di incontro e di relazione tra le perso-ne che lavorano alle attività finanziarie qui concentrate. Le aziende della Silicon Valley (Facebook, Google, etc.) hanno dato vita ad una serie di iniziative con il precipuo obiettivo di aumentare le occa-sioni di rapporti diretti: incontri al bar o al ristorante, centri benes-sere, palestre, cocktail, etc. Favorendo le relazioni tra le persone che costituiscono i soggetti effettivamente titolari di poteri decisionali per le aziende, si mira ad incentivare lo scambio di conoscenze specializzate, di creare rapporti di fiducia tra partner, di immaginare strategie e proposte originali, di stabilire nuove alleanze.

La potenza economica del centro della città globale può dun-que rileggersi come l’insieme di dinamiche di scambi di infor-mazioni e servizi che prendono forma in una rete di relazioni: le attività economiche si disperdono territorialmente mentre le fun-zioni e le operazioni di gestione e di controllo si accentrano. Que-sti centri assumono allora la forma di un network ed esprimono il loro ruolo ed il loro potere anche attraverso meccanismi regolativi di nuova composizione che si ispirano a politiche di governance.

Questo è l’effetto principale prodotto dalle città globali: im-mettere individui, associazioni, spazi, luoghi, tempi, relazioni, in una rete. Come si governa allora una città in rete?

La vera essenza delle trasformazioni della New Economy è il network ossia la possibilità di creare una rete all’interno della quale distribuire la struttura aziendale. La crescita, l’aumento della pro-duttività dipendono da questa ristrutturazione a livello organizzati-vo: ogni unità è suddivisa in dipartimenti, divisioni, linee di produ-zione che sono connesse e coordinate tra loro. Le unità dialogano tra di loro e con altre aziende per il raggiungimento di determi-nati obiettivi. Raggiunto lo scopo, l’azienda riorganizza le risorse e riparte per nuovi traguardi. Il network garantisce una struttura orizzontale e non una verticistica: l’unità produttiva è autonoma e non attende che il vertice dell’impresa garantisca un appoggio

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incondizionato, così come le piccole aziende tentano di allearsi con aziende medie e grandi, per fare rete e dunque per crescere30.

Lo spazio urbano delle città globali segue esattamente questo modello, sia per le ragioni che indicavo poco fa ossia che i network delle imprese si trasferiscono al centro della città globale e da lì partono i flussi di comunicazione, le strategie, l’organizzazione e la riorganizzazione delle risorse e sia perché la città stessa ristruttura i suoi spazi imprimendo una configurazione di networking.

Queste entità non passano attraverso le burocrazie degli stati nazionali ma puntano sulla loro intersezione interna, sullo scam-bio di informazioni e conoscenze, sui superprofitti generati dai loro servizi finanziari. Lo spazio dei flussi è costituito da micro-reti personali che esprimono gli interessi di individui e gruppi dominanti; interessi che sono poi connessi e coordinati tra loro e determinano decisioni.

Gli studi di autori come Castells, Norman, Daniels31 hanno dimostrato, ad esempio, che i soli centri di New York, Tokyo e Londra coprono l’intero spettro dei fusi orari nelle contrattazio-ni finanziarie e operano prevalentemente come un’unica unità all’interno del medesimo sistema di transazioni. A questi centri si aggiungono quelli di altre metropoli come Hong Kong, Franco-forte, Parigi, Zurigo, Milano, Los Angeles, etc.

Queste città funzionano singolarmente come dei network nel senso che i servizi avanzati, le relazioni pubbliche e private, la raccolta e lo scambio di informazioni, l’innovazione scientifica e tecnologica sono processi connessi tra loro e interdipendenti32.

30 Ivi.31 Peter Daniels, Service Industries in the World Economy, Blackwell, Oxford

1993; Alfred Lindsay Norman, Informational Society: an Economic Theory of Discover, Invention and Innovation, Kluwer Academic Publishers, Boston, Dordrecht, London, 1993; Saskia Sassen, The Global City: New York, London, Tokyo, Princeton University Press, Princeton 1991; Manuel Castells, The Rise of the Network Society, cit.

32 Una precisazione: quando parlo di connessione non mi riferisco alla semplice circostanza che questi servizi usano internet ma al fatto ben più importante che siano interdipendenti tra loro. Lo scambio di servizi, il design, l’innovazione, la strategia, i servizi assicurativi, legali, bancari, etc. non sono fatti isolati ma interdipendenti.

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Essi, tuttavia, funzionano anche come un polo più grande, su scala regionale, interconnesso e interdipendente. Proprio come accade nel modello di Bevir della governance come network, anche in questi nodi le dinamiche orizzontali di interazione e comunicazione se-guono principalmente tre traiettorie. Ciascun attore può: a) espri-mere le proprie opinioni; b) modificare le proprie opinioni; c) de-liberare a partire da queste opinioni. Il network, allora, descrive ciò che accade in questi grandi nodi delle città globale e al contempo ne coglie gli aspetti regolativi. Le modalità governative delle città globali saranno allora espresse dai flussi comunicativi del network e, più precisamente, da

all kinds of practices, from everyday polite exchanges over cups of tea, through symbolic displays of authority and status, to decisions about policies and their implementation. Further, each of these va-ried practices is anything but monolithic. Polite exchanges over tea do not have a fixed form. Their nature is not determined by some abstract norm. Everyday rituals, like all activity, are contingent, un-determined, and open to contestation33.

In definitiva, ciò che emerge è che «la città globale non è un luogo, ma un processo. Un processo mediante il quale centri di produzione e consumo di servizi avanzati, e le società locali su-bordinate, sono collegati in una rete globale sulla base di flussi di informazione, i quali, al tempo stesso, riducono l’importanza dei legami delle città globali con i loro hinterland»34. La città globale, la città informatizzata, non ha forma ma si presenta come un pro-cesso contraddistinto dal dominio dei flussi comunicativi.

5. … e le periferie?

Le trasformazioni descritte nei paragrafi precedenti sollevano diversi interrogativi. In questa sede vorrei proporne uno in parti-

33 Mark Bevir, A Theory of Governance, cit., p. 150.34 Manuel Castells, La nascita della società in rete, cit., p. 445.

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colare che mi pare già emerso in filigrana nelle pagine precedenti: a) quali sono le conseguenze principali di queste nuove logiche urbane per le periferie?

In Sorvegliare e punire, Foucault descrive la città ricorrendo a due immagini: la lebbra e la peste. Attorno a queste due ‘situazioni’ si annodano le dicotomie sano/malato; normale/anormale; inclu-sione/esclusione. La città infatti si difende dai lebbrosi espellendoli e rinchiudendoli in uno spazio dove i sani non possono entrare. Ai malati di peste, invece, è applicato un altro trattamento: in ogni strada e quartiere della città vi sono zone circoscritte ove essi ven-gono confinati35. L’immagine foucaultiana conserva la sua capacità interpretativa anche in merito alle trasformazioni delle città glo-bali: dissolte le categorie della città moderna, l’idea della rete che prevale rilegge la relazione tra centro e periferia anche servendosi della dicotomia inclusione/esclusione.

Se la natura della città globale non è rappresentata da una forma ma si rivela come un processo di flussi e scambi di comunicazio-ne, allora anche l’immagine tradizionale della periferia come luogo geografico esterno al centro della città si dissolve e impone nuovi ripensamenti. Come osserva Castells, «la nuova realtà urbana sem-bra dominata da un doppio movimento, di inclusione nei network transterritoriali e di esclusione da essi, in virtù della progressiva sepa-razione degli spazi. Maggiore è il valore di luoghi e individui, mag-giore è la loro connessione ai network interattivi, e viceversa. Alcuni spazi vengono tagliati fuori, scavalcati dalla nuove geografia delle reti, come avviene per le aree rurali depresse e per i sobborghi citta-dini di tutto il mondo»36. Le stesse relazioni sociali sono organizzate attorno ad un network con l’effetto che l’iper-connessione, l’accesso ad aree con wi-fi illimitata, il trionfo del lavoro informatizzato, l’in-cessante interazione virtuale hanno interrotto la comunicazione in-terindividuale e l’organizzazione dello spazio sembra ispirata sempre più al tentativo di difendere il sé dall’altro.

35 Michel Foucault, Surveiller et punir. Naissance de la prison, Gallimard, Paris 1975; trad. it., Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1993.

36 Manuel Castells, La città delle reti, cit., p. 53.

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In conseguenza di ciò, le città globali sono sottoposte a due spinte propulsive diverse: da un lato i flussi comunicativi che de-terminano uno spazio virtuale indipendente dalla vicinanza fisica e simbolo dell’economia globale; dall’altro lo spazio fisico che è organizzato da esperienze che accadono in uno spazio avente una determinata collocazione geografica. Pur tuttavia, ciò che avviene nello spazio fisico è in qualche modo collegato e strutturato da ciò che prende forma nello spazio virtuale. La logica contrapposta di questi due diversi spazi attribuisce nuove forme e significati alle galassie urbane: individualizzazione e comunitarismo; nostalgia della sfera pubblica e prevalenza di network privati; assimilazione culturale e frammentazione delle culture. Assistiamo così ad un vero e proprio caleidoscopio che con le sue diversità e contraddi-zioni sembra sottrarsi ad ogni tentativo definitorio.

Come ha scritto Scandurra, «centro non significa più luogo geometrico centrale, così come la periferia tende a connotarsi sempre più per le sue condizioni di marginalità urbana, degra-do, abbandono, indipendentemente dalla sua posizione geografi-ca. Nelle nostre città contemporanee si assiste sempre di più alla presenza di luoghi periferici a ridosso del centro o parti stesse del centro, così come luoghi centrali sono disseminati in territori che non coincidono col baricentro urbano o con la città storica»37. Questo determina la formazione di aree fortemente segregate, spesso organizzate dalla criminalità e ove i modelli abitativi sono ispirati all’autodifesa e ad una ossessione esasperata per la violen-za38. Qui vivono i nuovi ammalati di peste e di lebbra, per usare la metafora foucaultiana.

Le nuove periferie, allora, saranno i luoghi esclusi da questa griglia di connessioni dell’informazione, gli spazi che non acce-

37 Enzo Scandurra, I conflitti urbani all’epoca della globalizzazione e della ricerca di identità, “Riflessioni sistemiche”, 4, 2011, p. 125.

38 Edward Blakely, Mary Snyder, Fortress America: Gated Communities in the United States, The Brookings Institution, Washington DC 1997; Douglas Massey, The Age of Extremes: Inequality and Spatial Segregation in the 20th century, Population Association of America, Presidential Address 1996.

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dono ai network. Se, ad esempio, guardiamo alla Silicon Valley o al centro direzionale di Napoli, dalla prospettiva di un turista stra-niero, questi luoghi appariranno come una periferia noiosa e poco interessante, mentre il centro coinciderà con il centro storico di Napoli, ove visitare il Duomo, i vicoli di San Gregorio Armeno, il complesso di Santa Chiara, la cappella di Sansevero e le altre attra-zioni storico-museali. Per un banchiere, invece, il centro è identi-ficabile con quei network che gli consentono di scambiare infor-mazioni virtualmente in tempo reale o di accedere alle operazioni della borsa o di comunicare con l’altra parte del mondo e dunque centro sarà la Silicon Valley o il centro direzionale di Napoli.

Il paradosso, dunque, è che ciò che sinora consideravamo cen-tro può diventare periferia e viceversa. L’iper-sviluppo di questi centri finanziari ove pulsa l’economia globale ha come immediata conseguenza un acuirsi del divario tra la centralità e la periferia e dunque un peggioramento della condizione di perifericità di altri contesti geografici. Le aree periferiche attorno a questi centri appaiono come dei buchi neri, come hinterland in cui la disparità e la disuguaglianza aumenta. Come osserva Castells: «i territori che circondano questi nodi svolgono un ruolo sempre più su-bordinato, diventando talvolta irrilevanti o persino disfunzionali, come, per esempio le colonias populares di Città del Messico, che rappresentano circa due terzi della popolazione della megalopoli senza giocare alcun ruolo distintivo nel funzionamento di Città del Messico quale centro economico internazionale»39.

La condizione di periferizzazione geografica risulta perciò profondamente mutata dalle dinamiche economiche della glo-balizzazione: periferie sono ora gli spazi ricompresi fra i gran-di centri finanziari del mondo che sono geograficamente esclu-si dall’intersezione geografica di questi grandi distretti, luoghi di immenso potere. Periferie, infine, sono i luoghi marginali, privati dei tribunali, ad esempio, deboli economicamente e politicamen-te, dove vivono fasce di popolazione emarginate. Qui il lavoro è

39 Manuel Castells, La nascita della società in rete, cit., p. 440.

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generalmente de-valorizzato; si segnala un incremento della po-polazione immigrata con conseguenti fenomeni di ghettizzazione e di violenza (per restare ad un esempio a me geograficamente vicino, possiamo guardare all’hinterland napoletano rappresentato dalle periferie di Barra, Varcaturo, Licola, Caivano, interessate da problemi di convivenza tra gli immigrati e gli abitanti originari, da una spiccata tendenza alla delinquenza, da una netta separazione con il centro). Periferia dello spazio centrale della città globale è allora sinonimo di ridotto accesso al potere economico e finanzia-rio, scarsità di informazioni, di sapere, di tecnologia, esclusione dal network e dallo spazio dei flussi dei distretti di potere.

L’indifferenza e l’irresponsabilità che ci guida verso queste nuove periferie sono analizzate lucidamente dallo scrittore Vitalia-no Trevisan che in Tristissimi giardini così scrive.

Una grande, anzi grandissima periferia policentrica, che si pensa an-cora come un reticolo di piccole città, e alla luce, ma sarebbe meglio dire all’ombra, di questo pensiero irrazionale si amministra, si governa, si vive e, più o meno naturalmente, si muore, e così, in questa grandis-sima periferia policentrica che non ha coscienza di sé, tutto è pensato a pezzi, e fatto e rifatto a pezzi, proprio come le sue strade e le sue campagne eccetera; e i pezzi, com’è ovvio, sono sempre più piccoli40.

6. Conclusioni (possibili): la città sta per finire?

Il dilemma principale che i nodi centrali delle città globali propongono è intrinseco alla loro natura ed è lo stesso che affligge un network: funzionando come porte per la circolazione di capi-tali nazionali ed esteri, come anelli di congiunzione tra vari paesi, fra investitori interni e investitori esterni, come spazi virtuali ove prendono forma innovazioni, competenze specialistiche, servizi finanziari, assistenza legale, strategie di problem solving, essi assumo-no la forma di vere e proprie porte scorrevoli. Da un lato, infatti

40 Vitaliano Trevisan, Tristissimi giardini, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 17.

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mettono in moto i meccanismi produttivi, gestendo le procedure bancarie e finanziarie dei mercati, le strategie aziendali e dunque la produzione globale; da un altro lato è da questi centri che pren-dono vita e si propagano le dinamiche delle crisi finanziarie. È in essi infatti che la fiducia degli investitori viene meno, che il rischio di operazioni speculative può aumentare, che le alleanze strategi-che e funzionali si sgretolano.

In altre parole, poiché i nodi centrali delle città globali funzio-nano, sia singolarmente che su scala regionale, come un network, allora le dinamiche regolative (organizzative, strutturanti e de- strutturanti) che governano il network presenteranno gli stessi problemi dei dispositivi di governance come network. Come accade per la teoria della “governance come network” ove le dinamiche di scambi di servizi e di informazioni devono essere corrette dalla teoria della scelta razionale e dalla responsabilità degli agenti che si muovono nei network, così le azioni, strategie e comunicazioni che prendono forma nei nodi delle città globali vanno corrette perché si traducono in dinamiche di potere produttive di nuove forme di disuguaglianza per le periferie. Questi divari si manifesta-no, ad esempio, nell’espulsione di famiglie più povere e di imprese a basso costo che, per l’appunto, restano confinate nella periferia o in fenomeni di marginalizzazione sociale e culturale, in problemi di omologazione e di crisi identitaria, specie per i più giovani. Il modello reticolare del network rivela un carattere fortemente liberale (d’altronde nelle pagine precedenti ho provato a mostra-re la connessione tra questi nodi delle città globali e l’economia globalizzata neoliberale) e dunque ambiguo perché, se da un lato la struttura orizzontale del network e la partecipazione comuni-cativa favoriscono la libertà di scelta e di coordinazione tra gli agenti, dall’altro «prestano il fianco alle strategie opportunistiche degli agenti […]»41. Il rischio, in altri termini, è che dietro il fascino della partecipazione, dell’iperconnessione, dell’interazione offerta

41 Antonino Palumbo, Governance dello stato e stato della governance: una pano-ramica, in Antonino Palumbo, Salvo Vaccaro, (a cura di), Governance. Teorie, principi, modelli, pratiche nell’età globale, Mimesis, Milano 2007, p 27.

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dalla tecnologia vi siano in realtà interessi forti e il prevalere non di deliberazioni democraticamente formatesi nel network ma del-le preferenze degli agenti economicamente e strategicamente più potenti. Ciò determina ulteriore disuguaglianza e una geometria urbana centro/periferia ancora più disomogenea e frammentata, con il tessuto periferico che si disgrega e resta escluso dalle logiche dei network centrali.

Uno dei possibili correttivi a tale questione ci viene sugge-rito proprio dal modello di Bevir, dove la governance è mitigata dall’elemento razionale e dalla responsabilità dei partecipanti. In particolare, le scelte e le preferenze degli agenti che prendono for-ma nelle pratiche interattive e coordinative del network, attraverso l’elemento razionale e potendo contare sulla responsabilità degli agenti, dovrebbero ispirarsi ad una riflessività dialogica e non più a una riflessività autoreferenziale. Nella governance ciò consisterebbe nella possibilità che le procedure deliberative che avvengono nei network siano istituzionalizzate dal diritto attraverso meccanismi di meta-governance, che non svolgono una funzione regolativa diretta ma si limitano a fornire regole secondarie à la Hart cosicché sia possibile

una ridefinizione riflessiva delle organizzazioni, la creazione di or-ganizzazioni di mediazione, il riordinamento di relazioni inter-or-ganizzative e la gestione di ecologie organizzative […]. E […] una riflessiva organizzazione delle condizioni di auto-organizzazione at-traverso il dialogo e la deliberazione42.

La metagovernance si collocherebbe proprio lungo il delicato e non sempre definibile crinale che separa la condotta strategica de-gli agenti da quella dialogico-comunicativa, basata sulla razionalità e sulla responsabilità.

Per ritornare ora alla questione principale del rapporto tra cen-tro e periferia nelle città globali, l’idea della metagovernance che dota le pratiche comunicative di un elemento riflessivo-razionale ben

42 Bob Jessop, State, Power, Polity Press, Cambridge (U.K.) 2008, p. 1974.

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può adattarsi a quei dilemmi e forme di disuguaglianza che attana-gliano le periferie, senza che la metafora del network sia abbandonata. Ne è esempio la situazione italiana con il progetto di “rammendo” della periferia italiana, lanciato dall’architetto Renzo Piano dopo la sua nomina a senatore a vita (nel 2013). Il progetto ha coinvolto sinora le città di Milano, Torino, Catania e Roma con l’obiettivo di recuperare e far rivivere quegli spazi sospesi delle periferie attraverso una rigenerazione sociale e urbana. Il metodo del G124 (G = pa-lazzo Giustiniani, 1 = numero civico; 24 = numero stanza) è basato sulla rete: individuate aree deboli, talvolta ghettizzate, si coinvolgono i residenti in tavoli di progettazione partecipata. Le attività che si compiono sono realizzate in perfetta sinergia con i residenti e mi-rano a valorizzare luoghi scollegati con il centro, con interventi che mirano a restituire loro socialità, a recuperarli come spazi comuni pubblici, a ricucire il dialogo con il centro.

L’interrogativo che sorge è così formulabile: quest’attività di recupero e di rivitalizzazione delle periferie come spazi vulnerabili può essere affidata esclusivamente all’opera salvifica dell’architettura, o è op-portuno immaginare politiche pubbliche specifiche, procedimenti ammini-strativi, misure redistributive, incremento di servizi pubblici, investimenti nell’innovazione, etc.? E ancora: Queste opzioni sono conciliabili con gli attuali dispositivi di governance urbana ispirati al modello del network? È possibile rimodulare l’attuale governance urbana orientandola verso mo-delli di democrazia partecipativa?

I grandi interventi architettonici sono necessari ma insufficienti, se non inseriti in un quadro progettuale di ampio respiro, in for-me efficaci di pianificazione, in visioni del futuro e, soprattutto, se non vengono governati da una pubblica amministrazione capace di dialogare e di far dialogare tutte le forze in gioco, specie il capitale privato. Ritorna così prepotente l’immagine di una nuova governan-ce, mediata proprio da quadri regolativi di meta-governance ispirati a scelte razionali e responsabilità degli agenti, che sia gestita da ammi-nistrazioni con adeguate capacità tecniche e non solo legislative43.

43 In tal senso anche Paolo Desideri, Per un’alleanza fra capitale e politica, cit.

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Ne è esempio il modello delineato da Rem Koolhaas nella se-conda metà degli anni ’90, in risposta alla lezione di Le Corbusier, ed esposto nel volume S, M, L, XL44, che inscrive i progetti di ar-chitettura sociali ed urbanistici nelle buone pratiche politico-am-ministrative. E così, sulla scala M troviamo quelle azioni progettuali ed amministrative gestite ancora dalle pubbliche amministrazioni ma di concerto con attori privati, che cercano di recuperare gli spazi periferici abbandonati o sottoposti a processi trasformativi con forme di mediazione e di ricucitura.

Gli interventi della scala S sono i più innovativi perché mirano ad un superamento del concetto di periferia attraverso «un’espe-rienza collaborativa che vede nei luoghi prescelti un “bene co-mune” da abitare trasformandolo naturalmente in uno spazio di nuova, potente centralità»45. Realizzare spazi verdi, abbattere bar-riere, ridisegnare le piazze, inserire nelle aree urbane spazi giova-nili, quali caffè e laboratori di cucina, centri per l’informazione o aree per lo sport sono pratiche che non possono essere lasciate all’intervento salvifico dell’architettura ma devono essere mediati da strategie pubbliche, da azioni e mediazioni politiche, da scelte responsabili, dal dialogo tra pubblico e privato.

Sono questi i dilemmi di cui dobbiamo farci carico, se voglia-mo evocare un’immagine diversa delle città globali che non sia ispirata unicamente alle esigenze di un’economia neoliberale, lon-tana dalle conquiste dello stato sociale, dal costituzionalismo dei diritti del secondo Novecento. Le potenzialità dei network andran-no sfruttate nel rispetto degli spazi periferici e delle minoranze per realizzare quanto predetto da Robert Park, ossia «di plasmare il mondo in cui vive in funzione dei propri desideri»46.

44 Rem Koolhaas, S, M, L, XL, Monacelli Press, New York 1995.45 Luca Molinari, La periferia dopo la periferia, cit., p. 127.46 Robert Ezra Park, On Social Control and Collective Behavior, cit., p. 3.