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1 SAMPIERDARENA Non si sa quando ufficialmente il municipio di San Pier d’Arena scelse il proprio stemma. Lo studioso rev. Tiscornia, ed altri storici dopo, pensano che sia dal XIII secolo, quando il borgo era governato a Comune: piccolo ma ben organizzato socialmente e militarmente. Si narra, ma senza riferimento preciso, che questo stemma per la prima volta era stato dipinto su un muro nella zona di riunione (1). Ma considerato che quando nel 1797 la ideologia francese decretò l’abolizione di tutti gli stemmi nobiliari non si ha notizia che ve ne fossero, né su carte né su facciate di palazzi, si può ragionevolmente ritenere che le origini dello stemma conosciuto provengano da dopo il 1815, con la Restaurazione e l’instaurarsi del regno di Sardegna con tutti i suoi simboli nobiliari (ad esempio, conosciuto è quello di Prà, dimostrato risalire al 1862). Rimane sconosciuto l’inventore e autore del bozzetto. Così il Comune di San Pier d’Arena, come tutti i vicini con numero di abitanti superiore alle 3000 unità, ed approssimativamente il quel periodo, poté fregiarsi di un proprio stemma composto da uno scudo, sovrapposto in centro a quello genovese (in gergo araldico si dice ‘pezza onorevole di primo ordine’; intendendo che è Genova che concede essere sovrapposta), con: - un sole. Intero o metà, è simbolo di lunga vita, chiarezza, magnificenza; se esso ha viso umano, è benevolenza ed ospitalità. (…)

1. SAMPIERDARENA E LA RESISTENZA · 2016. 1. 9. · I partigiani della stessa brigata riuscirono a catturare tre militari fascisti del presidio locale, e la moglie del colonnello

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SAMPIERDARENA

Non si sa quando ufficialmente il municipio di San Pier d’Arena scelse il proprio

stemma. Lo studioso rev. Tiscornia, ed altri storici dopo, pensano che sia dal XIII

secolo, quando il borgo era governato a Comune: piccolo ma ben organizzato

socialmente e militarmente. Si narra, ma senza riferimento preciso, che questo

stemma per la prima volta era stato dipinto su un muro nella zona di riunione (1).

Ma considerato che quando nel 1797 la ideologia francese decretò l’abolizione di

tutti gli stemmi nobiliari non si ha notizia che ve ne fossero, né su carte né su facciate

di palazzi, si può ragionevolmente ritenere che le origini dello stemma conosciuto

provengano da dopo il 1815, con la Restaurazione e l’instaurarsi del regno di

Sardegna con tutti i suoi simboli nobiliari (ad esempio, conosciuto è quello di Prà,

dimostrato risalire al 1862). Rimane sconosciuto l’inventore e autore del bozzetto.

Così il Comune di San Pier d’Arena, come tutti i vicini con numero di abitanti

superiore alle 3000 unità, ed approssimativamente il quel periodo, poté fregiarsi di

un proprio stemma composto da uno scudo, sovrapposto in centro a quello genovese

(in gergo araldico si dice ‘pezza onorevole di primo ordine’; intendendo che è

Genova che concede essere sovrapposta), con:

- un sole. Intero o metà, è simbolo di lunga vita, chiarezza, magnificenza; se

esso ha viso umano, è benevolenza ed ospitalità. (…)

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- con dei raggi. Simboleggiano energia; il sole intero ne ha dodici, alternati:

sei diritti e sei serpeggianti;

- del sole, se ne disegna solo la metà superiore per indicare che è in

emersione, ovvero nascente, che inizia un percorso di nuova vita;

- mare. Se agitato simboleggia sdegno e inquietudine; se calmo, evidenziato

da piccoli tratteggi orizzontali, significa buona navigazione: benignità, pace,

liberalità.

Sormontato dalla corona comunale: un cerchio di mura, con 8 merli semplici (dei

quali, 5 in vista)

Quando il 30 aprile 1865 a San Pier d’Arena fu conferito (2) il titolo di Città, nello stemma fu necessario correggere solo la corona cittadina, arricchendola (vedi

disegno sopra) dei simboli corrispondenti: otto torri merlate (delle quali 5 in vista

davanti) ciascuna unita da muro con, in mezzo, una guardiola. Il sindaco Nicolò

Montano, negli anni 1871-2 circa (assessori Luigi Balleydier, Luigi Morasso,

Giuseppe Torre, Lorenzo Tubino) incaricò lo stuccatore ufficiale Centenaro di

comporre il blasone per poterlo ufficialmente esporlo sulla sommità del palazzo del

Comune; questi, evidentemente non esperto di araldica o mal suggerito, lo disegnò e

lo arricchì contornandolo di due figure femminili poste ai lati, simboleggianti

l’operosità industriale e la marineria (3). L’ufficio garante le complesse regole

dell’araldica, approvò lo stemma ritenendolo confacente, ma eliminò le figure

femminili, che furono rimosse.

E quando poi ebbe inizio nella nostra città l’idea socialista con le sue lotte di classe,

si vide in quel simbolo di sole nascente la rappresentatività del ruolo operaio. Ebbe

funzione fino al 1926, anno dell’assorbimento di San Pier d’Arena nella Grande

Genova. Ma anche se non più città, ma delegazione, San Pier d’Arena rimane

genericamente fedele al suo ‘sole nascente’, da sempre repubblicano.

(1) se le prime riunioni furono fatte sul sagrato della parrocchia in san Martino, si racconta che poi

furono eseguite nella piazza del Mercato, ovvero circa dove ora ci sono la fine di via A.Cantore e la

parte a monte del sottopassaggio Montano. Infine furono portate alla Marina, nella zona ove fu

costruita la torre centrale, detta del Comune.

(2) da Vittorio Emanuele II: “per grazia di Dio e volontà della nazione re d’Italia, vista la

domanda del Municipio con annessa delibera di istituire in tale occasione una annua rendita di

L.500 in favore del proprio Asilo infantile…”

(3) una, sorreggente una ruota dentata; l’altra, un’ancora.

(Da Internet, Sampierdarena. net)

A cura di Alberto Rinaldini

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RESISTENZA E SAMPIERDARENA

nelle Lapidi delle strade della città

Se guardi le lapidi delle strade dedicate a partigiani in Sampierdarena resti

meravigliato del numero … Richiamano alla memoria persone come noi, allora

giovanissime, che, nel biennio ’43-’45, ha pagato con la vita quello che oggi viviamo

come libertà e democrazia. Alla meraviglia segue lo stupore quando scavi nel nome

inciso su quel pezzo di marmo e incontri eroismo e sofferenze inaudite. E’ certo

meritevole il fare memoria della storia della città con nomi di vie che sanno del

sangue di tante giovani vite, non pochi appena più che ventenni. Sono universitari,

studenti della scuole superiori, operai, donne, spose e madri di famiglia che

sentono la libertà come la vita di un popolo. L’avversario qui è il nemico della

libertà, è il nazifascismo. Sono segnali che tracimano da un popolo di resistenti in

nome della dignità umana, della libertà e della democrazia.

Ma sono lapidi solo dei vincitori. Dove sono i vinti? Non è in questione la “scelta

personale”, ma la libertà . Allora anche i vinti fanno parte della nostra storia che dà

ragione ai vincitori che hanno lottato per la libertà e torto a chi, di fatto, difendeva

la dittatura e sosteneva la dominazione nazista. Ciò detto non dimentichiamo le

pagine nere del dopo ’45 che vengono scritte anche da chi era nella parte giusta …

Ma quelli non sono nelle strade per indicare la direzione del nostro cammino .

Come insegnante emerito di Storia consiglierei ai colleghi di fare memoria del

biennio della Resistenza 70 anni dopo attraverso queste lapidi disseminate per i

quartieri di Sampierdarena. Una lavagna luminosa che insegna a tutti. Serbiamone

memoria per non ricadere nel buio del biennio di guerra civile e servitù nazista.

Presentiamo 19 lapidi attingendo dal Gazzettino Sampierdarenese. A queste

aggiungiamo il ricordo di don Berto, un prete – partigiano sampierdarenese. Il

ricordo diviene un invito a non dimenticare la nostra storia. In breve il sacrificio di

giovani vite in vista di un futuro diverso, libero e democratico … che è il nostro.

La pagina nera, che aggiungiamo, ricorda 200 giovanissimi volontari della Rsi.

Vittime prima della cultura fascista e vittime dopo che si erano arresi. Ascrivibile,

non giustificabile, al clima di odio e di vendette dell’orrore da cui stavamo uscendo.

Alberto Rinaldini

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(*)

“Partigiano col nome di battaglia “Lince”, nato a San Pier d’Arena il 20 giu.1905

(Vigliero.131 dice 26 giu). Impiegato all’Ansaldo, allestimento navi, venne più volte

arrestato per la sua attività politica antifascista. Nel genn.1945, abbandonata la città

dopo aver fatto attività SAP. Mentre era in servizio attivo nella brigata “Arzani”

della divisione garibaldina Pinan Cichero ove aveva la carica di commissario politico,

fu catturato in seguito ad un improvviso rastrellamento. Riconosciuto, fu sicuramente

torturato allo scopo di carpirgli informazioni, e poi fu fucilato a Castelceriolo (AL) il

4 febbraio 1945”.

“Partigiano, col nome di battaglia “Oscar”, nato a Cogoleto l’ 11 set.1921, meccanico

dello stabilimento san Giorgio di Sestri Ponente, militante del P.C.I.

Sfuggì ad un rastrellamento compiuto dai nazifascisti tra le maestranze dell’officina il

16 lug.1944, e rifugiò in montagna dove dimostrò subito la sua capacità di essere

deciso e volenteroso, vigilando attentamente e compiendo azioni in grande stile (sul

monte Zucchero, smantellò una postazione nemica, riuscendo a convincere molti

nemici ad arruolarsi nei partigiani e lasciando gli altri di tornarsene a casa).

Gli venne affidato il comando di un distaccamento (chiamato divisione Doria, dal

nome del comandante), di stanza ad Acquabianca, nei pressi di Sassello. Nel sett.

dello stesso anno, divenne comandante della brigata d’assalto “G.Buranello” della

divisione ligure-alessandrina Mingo, con la quale partecipò a numerose azioni

belliche, nell’appennino ed in riviera, compreso la cattura di due compagnie di alpini

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delle divisione Monterosa; comunque sempre con notevoli bottini di armi ed

equipaggiamenti; ma soprattutto generando sorpresa e scompiglio nel nemico.

Con questo grado ed incarico, ai primi di dicembre del 1944, fu catturato a Tiglieto

in un rastrellamento compiuto nella zona dagli alpini delle brigate nere della

divisione San Marco, e tradotto in vari carceri: Forte del Giovo di Sassello,

sant’Agostino di Savona, poi alla Casa dello Studente di Genova, luogo sinistro di

torture, ed infine a Marassi nella IV sezione.

I partigiani della stessa brigata riuscirono a catturare tre militari fascisti del presidio

locale, e la moglie del colonnello italiano Cesare Romanelli che aveva condotto il

rastrellamento da cui era derivata la cattura del Dattilo:

L’immediata reazione fascista fu un nuovo rastrellamento a Rossiglione (arresto di 2

disertori, 9 renitenti, alcune famiglie in ostaggio). Con ostaggi da ambedue le parti,

furono aperte trattative anche con le autorità germaniche per sospendere la condanna

di Dattilo in cambio della liberazione degli ostaggi, cosa che avvenne

reciprocamente, escluso il partigiano.

Per lui, il destino decideva diversamente: Il 22 mar.1945 un gruppo di partigiani

della brigata volante Balilla comandati da Angelo Scala detto Battista (anziano

militante comunista di Bolzaneto), tende imboscata, attacca e dopo conflitto a fuoco,

distrugge a Cravasco una pattuglia di nove soldati delle SS tedesche, compresi due

graduati, finendo sul posto i feriti e ripiegando verso Molini di Voltaggio. Il

Comando tedesco decide una rappresaglia, voluta da alcuni di loro proprio per il

colpo di grazia inferto ai feriti.

Assieme a Giuseppe Malinverni, Renato Quartini ed altri 17 partigiani, il 23

marzo1945 Dattilo fu prelevato da Marassi e, portato a Cravasco, fu fucilato.(…)”

Nato a Meolo (Venezia) il 27 marzo 1921, fucilato a Genova il 3 marzo 1944, studente, Medaglia d'Oro al Valor Militare alla memoria. Non si ha idea di chi sia stato Giacomo Buranello, nato da una famiglia di contadini veneti trasferiti per lavoro a San Pier d'Arena, se si bada soltanto alle sue azioni militari durante la Resistenza, che risaltano nella motivazione della massima ricompensa al valore e che elenchiamo succintamente. Dopo l'8 settembre 1943 gia comanda i GAP di Genova che, a sostegno di uno sciopero dei

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trasporti pubblici, fanno saltare le rotaie del tram a Cornigliano. Il 28 ottobre l'attacco ad una caserma di fascisti a Sampierdarena che lascia sul terreno due "repubblichini". Una taglia di un milione di lire dell'epoca posta sul suo capo non ferma Buranello, che abbatte un altro fascista a Sestri Ponente. E il dicembre quando il giovane elimina, nell'attuale Galleria Garibaldi, una spia dell'OVRA che sta per farlo catturare e che gia l'aveva fatto arrestare un anno prima con Walter Fillak. Ancora due tedeschi abbattuti ai primi di gennaio, dopo essere sfuggito a un agguato fascista in una latteria genovese. A Buranello, ormai braccato, viene dato l'ordine di riparare in montagna, dove comanda un distaccamento partigiano alle Capanne di Marcarolo. Ci rimane poco: a Genova si stanno organizzando gli scioperi del marzo e il giovane comandante partigiano scende in cittain appoggio. E il 2 di marzo quando, mentre si trova in un bar con la staffetta Neda Fiesoli, e riconosciuto da tre agenti fascisti che tentano di arrestarlo. Ne uccide uno, ne ferisce un secondo, si da alla fuga sparando, ma viene bloccato poco lontano quando, esaurite le munizioni, e costretto ad arrendersi. E fucilato al forte di San Giuliano, dopo ventiquattro ore di torture. Giacomo Buranello aveva cominciato giovanissimo l'attivita antifascista. Era ancora studente alla Facolta di ingegneria quando aveva formato un gruppo molto attivo di studenti ed operai, aveva organizzato il "Soccorso rosso" ed aveva messo in attivita una tipografia clandestina. Ufficiale di complemento a Chiavari, aveva continuato nell'Esercito la sua attivita di propaganda. Nell'ottobre del 1942 Buranello, con Walter Fillak ed altri membri del Comitato antifascista di Sampierdarena, e arrestato. Processato e incarcerato a Roma, a "Regina Coeli", tornera in liberta soltanto dopo la caduta di Mussolini e riprendera subito la lotta. In una pagina del suo diario, scritta quando Buranello aveva soltanto 18 anni, si legge: "Ieri ho concluso che occorre sacrificarsi, che il sangue dei Martiri segna la strada piu sicura alle idee; il nostro Risorgimento era fatto inevitabile gia dopo i primi tentativi falliti e soffocati nel sangue... Occorre trasformare il pensiero e i sentimenti in azione... Ma prima di giungere al sacrificio supremo bisogna prepararsi, perche tale sacrificio possa effettuarsi ed abbia maggiore efficacia". (da www.anpi.it) Dal Gazzettino Sampierdarenese Caterina Grisanzio

Nel suo diario, una frase può rappresentare il suo testamento morale: «ieri ho

concluso che bisogna sacrificarsi, che il sangue dei Martiri segna la strada più

sicura alle idee … liberi da nuova famiglia perché la nostra eventuale morte debba

lasciar il minore lutto possibile: niente moglie, niente figli. Che occorre trasformare

il pensiero e i sentimenti in azione; questo si fa sacrificandosi. Ma prima di giungere

al sacrificio supremo bisogna prepararsi perché tale sacrificio possa effettuarsi ed

abbia maggiore efficacia».

Fu riconosciuto eroe nazionale, meritevole di Medaglia d’oro al V.M. alla memoria, in riconoscenza del suo impegno di lotta, e per l’eroico comportamento

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quando -torturato- non si lasciò fuggire alcuna informazione che potesse danneggiare

i compagni .

“Giovane partigiano sampierdarenese chiamato Stea, nato nel Fossato il 4 giu.1924

da Gigin pescatore e da Giulia. Ebbe tre sorelle.

Avviato al lavoro senza neanche finire le elementari, divenne ansaldino.

Arruolato (o al fine di sfuggire all’arruolamento forzato messo in atto dalle forze

repubblichine di Salò), disertò e decise di fuggire in montagna aggregandosi con i

partigiani della 3.a brigata Liguria accettando il nomignolo di Mea.

Combatté con valore nella zona delle Capanne di Marcarolo.

Il parroco di Voltaggio, don Pietro Zuccarino, lasciò un tragico diario di quello che

successe nel paese in quei giorni: arrivati in forze nel paese, i tedeschi occuparono il

seminario installando -in una palazzina- un Tribunale Speciale: nel pomeriggio (7

aprile 1944) già avevano dei prigionieri tra i quali Stefano; furono interrogati e tenuti

nella prigione dei Carabinieri a Voltaggio, sino a sabato 8; senza un approfondito o

particolare processo.

Il giovane Dondero fu fucilato lo stesso giorno 8, era Sabato Santo, assieme ad altri

sette compagni, contro il muro del cimitero del paese: a due a due, dopo essere stati

comunicati dal sacerdote, caddero gridando “morte ai tedeschi” oppure “viva

l’Italia”.

I soldati rimasero a Voltaggio sino all’ 11 aprile, fucilando in quella mattina altri otto

rastrellati; poi, dopo aver incendiato delle cascine, rubato tutti gli apparecchi radio,

cibi e vestiti, se ne andarono.

I familiari seppero della sua sorte, ben quindici giorni dopo.

A lui era dedicato un circolo ricreativo posto dietro l’abbazia in via s.B.d.Fossato”

“Nato a Torino il 10 giugno 1920, impiccato a Cuorgné (Torino) il 5 febbraio

1945, studente. Per la sua attività "sovversiva", Fillak fu espulso dal Liceo

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scientifico che frequentava a Genova e dovette continuare privatamente gli

studi. Seguiva i corsi di chimica all'Università quando conobbe Giacomo

Buranello, altro studente antifascista. Con lui fu arrestato nel 1942 e deferito

al Tribunale speciale. Tornò in libertà il 25 luglio del 1943. Dopo l'8

settembre, con il nome di battaglia di "Gennaio" Fillak entra, sempre con

Buranello, nei GAP di Genova. Ricopre quindi l'incarico di commissario

politico della III brigata Garibaldi Liguria. Quando la brigata, dopo un violento

attacco delle truppe tedesche, si disperde, Fillak, dopo molte peripezie

raggiunge la Valle d'Aosta. Con lo pseudonimo di "Martin" comanda la LXXVI

brigata Garibaldi, che ha tra le sue zone d'operazione anche il Biellese e il

Canavesano. Con i suoi uomini Fillak - che ebbe a teorizzare che, "salvo

imprevisti", la guerriglia può risultare vincente, anche in presenza di massicci

rastrellamenti, se i reparti partigiani in armi sono compatti - partecipò con

successo a molti scontri contro i tedeschi e le forze armate della Rsi. Una

delazione, un tragico "imprevisto", portò "Martin" alla morte. Nei pressi di

Ivrea, Fillak e l'intero comando partigiano, salvo il vicecomandante che si era

allontanato per assolvere ad un incarico, caddero in mano ai nazisti. Portato

a Cuorgné e processato dal locale Comando tedesco, "Martin" fu condannato

a morte. Quando gli fu concesso di mandare una lettera di addio al padre e

alla madre, Walter Fillak scrisse: "Per disgraziate circostanze sono caduto

prigioniero dei tedeschi. Quasi sicuramente sarò fucilato. Sono tranquillo e

sereno, pienamente consapevole d'aver fatto tutto il mio dovere di italiano e

di comunista". Fillak non fu fucilato, ma impiccato lungo la strada per Alpette.

Spezzatosi il cappio durante l'esecuzione, i tedeschi la ripeterono con

estrema crudeltà”.

Di Caterina Grisanzio (Gazzettino di Sampierdarena giugno 2015

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“Giovane sampierdarenese, nato il 18 ott.1924 da Pierino e da Marchese Vittoria, da

operaio, per fuggire la leva repubblichina, fuggì in montagna arruolandosi nella

brigata (chiamata “brigata autonoma militare”) comandata dal cap. G.Carlo Odino

(anch’egli fucilato al Turchino).

Fu catturato nelle immediate conseguenze di una delle più vaste operazioni di

rastrellamento operata dal comando tedesco nella nostra regione ed alessandrino:

furono impiegati 20mila uomini dei reparti Alpenjager dotati di armi automatiche e

mortai, rincalzati da aereo cicogna, autoblinda, cingolati, gruppi lanciafiamme ed

artiglieria; concluso il movimento di accerchiamento procedettero per tre direttrici

nella notte tra il 5 e il 6 apr.1944 contro le formazioni partigiane operanti nella 3.a

zona, racchiusa tra Voltaggio, Capanne di Marcarolo, Lerma, Mornese e laghi della

Lavagnina. L’operazione creò gravissime ripercussioni sulla organizzazione

partigiana ed il completo disfacimento di alcune brigate stesse: 78 ragazzi in

combattimento; altri prigionieri, catturati nell’operazione, furono condannati ed

immediatamente fucilati a gruppi di cinque in località la Benedicta (AL, un ex

convento, lungo il sentiero verso il Gorzente): 97 furono le salme rinvenute nelle

fosse.

Grave fu anche l’azione punitiva verso la popolazione della zona, con ostaggi,

uccisioni, devastazione delle case ed incendi. Tutta l’operazione si concluse con 175

morti e 25 feriti tra i partigiani, nonché molti imprigionati e oltre 200 deportati (e mai

più tornati), contro i 55 tra morti e feriti tedeschi.

Ghiglione, fu uno dei primi ad accorrere nel luogo dell’eccidio, impegnandosi nel

ricupero e riconoscimento dei caduti, gettati in una fossa comune scavata dagli ultimi

uccisi e cosparsa di calce.

Fu catturato a Masone, e fatto prigioniero con altri 39 (13 furono fucilati subito) e

trasferito dapprima a Marassi, poi alla Casa dello Studente (ove comandava il magg.

S. Engel, membro superiore delle SS ) per interrogatorio e tortura.

Il tribunale di guerra tedesco lo condannò a morte, ma la pena fu tenuta in sospeso

perché per interessamento dell’arcivescovo era stato previsto un provvedimento di

grazia.

Ma il 15 mag.1944 un comando GAP di Genova, decise una azione di guerriglia

nascondendo un chilo di tritolo in una borsa e deponendola nel cinema Odeon di via

E.Vernazza a Genova, frequentato solo da soldati tedeschi: nell’esplosione ci furono

quattro morti e 16 feriti, tra cui 4 gravi.

Per rappresaglia, secondo lo schema di 10 italiani per un tedesco (come per via

Rasella a Roma), fu revocato il provvedimento di grazia; nella notte del 18

magg.1944, dalla IVa sezione di Marassi furono prelevati - prescelti dal prefetto della

Repubblica di Salò, Basile e per decisione del ten. Kass (incaricato degli elenchi di

cittadini da fucilare per rappresaglia, o da deportare )- 42 prigionieri politici e 17

partigiani rastrellati alla Benedicta (c’era anche W.Ulanowski): furono portati al colle

del Turchino in località Fontanafredda e nella mattina del 19 maggio 1944, fucilati

due a due tutti i 59, da soldati della Kriegsmarine e delle SS.”

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“Partigiano, nativo di Pola classe 1903, divenuto capo operaio in una ditta di

carpenteria all’interno dell’Ansaldo Allestimento Navi.

Da sempre impegnato contro il regime fascista, con l’ 8 settembre entrò a far parte

della Resistenza divenendo ben presto comandante di un distaccamento della 292a

Brigata garibaldina SAP (Squadra di Azione Patriottica: formata nel luglio 1944, e

battezzata “G.Buranello”), assumendo il nome di battaglia “Angelo”.

Tra le varie attività, il 1 ott. 1944 il comando SAP decise l’operazione “piano di

mobilitazione automatica: prova generale per la liberazione di Genova“, consistente

nell’organizzare tutte le complesse manovre necessarie per quel giorno

(mobilizzazione e raduno dei vari distaccamenti, ricupero armi nascoste,

occupazione punti chiave, incontro di gruppi, ecc).

Durante l’esercitazione, alcuni esponenti furono intercettati da una pattuglia di

nazifascisti in vicinanza dell’attuale via W. Fillak, nacque un conflitto a fuoco con

una pattuglia avversaria durato una ventina di minuti. Ci furono due morti tra i

fascisti. Ne seguì una accanita ed organizzata caccia al partigiano nella zona del

Campasso, coinvolgendo tutti quelli già individuati come attivi e quantomeno

favorevoli.

Tra questi c’era Jursé, che venne arrestato nella sua nuova abitazione di via Donghi

(prima abitava a Sampierdarena) e portato nella Casa del Fascio di via Carzino; qui

venne picchiato e torturato col fine di raccogliere informazioni sull’organizzazione

partigiana.(…)

Tre giorni dopo, nella notte del 15 genn.1945, lo Jursé assieme a G.Spataro (dirigente

e guida delle squadre giovanili operaie di Sampierdarena), furono condotti sotto

l’archivolto ferroviario del Campasso ed assassinati fucilandoli e lasciandoli a terra

col messaggio simbolico del panino e della mela in tasca”.

“Il giovane partigiano nasce a Rivarolo l’ 8 apr.1925. Dopo aver studiato nell’Ist.

Tecnico-Industriale Galileo Galilei di piazza Sopranis, divenne perito capotecnico

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meccanico, e quindi disegnatore dell’ Ansaldo. Era un tipo riservato, sempre vestito

semplice ma ricercato, facendolo appatrire più maturo dell’età che aveva.

Dopo l’8 sett.1943- si inserì nelle fila della resistenza, partecipando dapprima con i

GAP e poi, ricercato dalla polizia, scappò nella formazione di montagna della III

Brigata Liguria (divisione Garibaldi-Mingo), col nome di battaglia “Otto” .

Sfuggito fortunosamente al rastrellamento della Benedicta dell’apr.1944, rientrò in

città operando nella zona del Campasso con i gradi di vicecomandante della Brigata

SAP Buranello, che aveva la sede di comando in via Polleri a Genova. Questo punto

di riferimento e direzionale, venne scoperto dai nazifascisti, seppur mascherato da

ufficio commerciale. A macchia d’olio, dalla fine di dicembre in poi, molti furono gli

arrestati perché si presentavano all’ufficio tenuto sotto sorveglianza. Tra essi, anche il

Malinverni che fu prelevato nel gennaio del 1945 e portato -dapprima nella Casa del

Fascio di via A.Carzino -allora caserma delle Brigate Nere - poi a Marassi nella

famigerata IV sezione, con saltuari interrogatori-torture alla Casa dello Studente.

Altre azioni partigiane con prigionieri eccellenti, favorirono il tentativo di scambio o

quantomeno della grazia dalla condanna a morte. Erano in corso le trattative quando

il 22 marzo 1945 una pattuglia di 15 partigiani della Brigata Volante Balilla (creatasi

dopo gli eventi della Benedicta; insieme alla brigata Pio facente parte della div.

Mingo; addetta al controllo del territorio attorno a Campomorone) comandata da

‘Battista’ con ‘Biscia’ (Poirè Carmelo) attuò nella zona tra Cravasco e

PietraLavezzara un agguato contro una formazione di nove soldati tedeschi tra cui

due graduati (provenienti da zona Caffarella, passavano per Cravasco ove si erano

fermati a mangiare e bere all’osteria, programmando arrivare a Pietra Lavezzara;

lasciati passare i due in avanguarfdia, furono falciati prima i sette che procedevano in

fila indiana e poi i due davanti) conclusasi con la morte di tutti. I partigiani si

rifugiarono sui monti, allertati da possibili rastrellamenti.

Per rappresaglia si interruppero le trattative ed il Malinverni fu portato il 23 mar.1945

a Cravasco di Isoverde, (ove già dal giorno prima un centinaio tra SS e fascisti

repubblichini facevano violenza alla popolazione (220 abitanti) incendiando una

ventina di case, arrestando e maltrattando il parroco don Parodi assieme ai pochi

uomini trovati, e razziando bestiame).

Assieme ad altri 17 prigionieri, fu fucilato contro il muro del cimitero: erano

pressoché tutti, responsabili dell’organizzazione militare clandestina (5 militari

graduati dello Stato Maggiore; 6 delle SAP tra i quali il nostro; 4 partigiani di

montagna tra i quali Cesare Dattilo; 2 GAP tra cui Quartini da poco amputato di un

arto inferiore). Dei 20 prelevati da Marassi, due erano riusciti a fuggire sgattaiolando

via dal camion mentre marciava Uno dei 18, Diodati Arrigo, ‘Franco’, riuscì invece

a sopravvivere fingendosi morto seppur ferito al collo che gli evitò il colpo di grazia e

riuscirà a raggiungere P.Lavezzara e poi la Brigata Pio. Assieme agli altri fu

seppellito nel cimitero a fianco, e solo dopo la liberazione, la salma fu portata al

paese di origine”.

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“Sampierdarenese era nato il 25 genn.1922. Di stanza a Roma quale sottotenente

dell’aeronautica, dopo l’8 settembre tornò a Genova e, con la famiglia, si trasferì a

Parodi Ligure. Dovendo decidere, optò per raggiungere i partigiani - col nome di

battaglia “Tom”-, divenendo ben presto comandante di un distaccamento che faceva

parte della 79.a brigata d’assalto Mazzarello, e dislocato nella zona di Voltaggio.

Nella zona di monte Tobbio (AL) nella notte del 29 set.1944, rimase ucciso da una

spia catturata e condannata a morte il giorno prima, ma che riuscì a liberarsi e ad

armarsi: per realizzare la fuga ferì mortalmente il giovane che era di guardia da solo.

La ricostruzione dei fatti fece presumere che la spia, scoperto dove il Martinetti

posava la pistola (sotto il cuscino), gliela aveva sottratta e nell’uscire per il ‘bisogno’

ne approfittò. Il corpo fu composto dagli amici, benedetto dal parroco delle Capanne

di Marcarolo (già accusato e minacciato per aver favorito i partigiani) e sotterrato

dopo il rito religioso il 29 sera con solennità militare in un prato a fianco del torrente

Gorzente, accanto ad altri tre tumuli dei quali due non identificati (forse ex

prigionieri alleati entrati nei ranghi della 3a brigata Liguria). Il giorno 2, la sorella

raggiunse con uno zio il luogo della sepoltura e prese atto della morte di Tom.”

“Partigiano genovese, nato da Giovanni il 18 dic.1908, residente in via delle

Corporazioni (v.W.Filllak) 12/9, operaio dell’Ansaldo Meccanico, di fede

antifascista, divenne collaboratore di G. Jori e comandante di una formazione GAP di

Sampierdarena; guidò - col nome di battaglia Salvatore - i suoi uomini in svariate

operazioni di guerra cittadine : ricupero e occultamento di armi, fuga di arrestati e/o

prigionieri, inviti e proclami alla popolazione, sabotaggi, vere e proprie esecuzioni.

Catturato nel marzo 1944, fu dapprima rinchiuso nella caserma della GNR (guardia

nazionale repubblicana) in via Vicenza: da qui, riuscì ad evadere aiutato dai

compagni. Però non si allontanò da Genova, per cui il 7 aprile comandò un gruppo

di 20 compagni che bendati ed armati liberarono il comunista Alessandro Lucarelli

detenuto nell’ospedale di San Pier d’Arena. (…)

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Il 20 agosto 1944 -su indicazione di un arrestato e riconosciuto in piazza Banchi-via

Orefici mentre era assieme a Chita Amilcare (che riuscì a fuggire) ed a Cassurino

Mario (catturato e fucilato per aver ucciso il ten.Motta in vico Casana), fu riarrestato

e dopo vivace resistenza (nella relazione la Questura si giustifica che gli agenti

furono costretti a far uso delle armi) portato ferito ad una gamba in una cella nel

palazzo della Questura e sottoposto a tortura dagli uomini del famigerato Veneziani.

Questa, e le lesioni riportate durante l’arresto, furono tali che per poterlo portare ad

un processo fu necessario richiedere prima un ricovero all’ospedale di san Martino.

Fu in realtà un maxi-processo, effettuato il 25 agosto1944: sul banco degli imputati

erano in 31. (24 uomini, tra cui anche don Andrea Gaggero, e 7 donne) (…)

Il Masnata venne condotto in aula in barella coperto da un lenzuolo per nascondere le

medicazioni, reo confesso di aver personalmente ucciso il 13 aprile il ferroviere

Galetti Pietro (in circostanze e motivi mai letti); e la sera del 1 luglio in via

E.Mazzucco (assieme a Razzolio Giacinto (fucilato il 29 luglio) aver personalmente

colpito a morte il vice brigadiere della Gnr Antonio Baffico (giudicato dai Gap come

‘famigerato squadrista persecutore degli operai e sgherro dei tedeschi’), e di aver

diretto l’operazione per l’altro concomitante omicidio del Gnr Buzzone Antonio.

Il Tribunale Speciale concluse con sette condanne a morte (di cui sei commutate in

ergastolo da espiare in campi di concentramento; una sola confermata - da eseguirsi -

quella del Masnata); tutti gli altri furono condannati a vari periodi di reclusione (407

anni in tutti).

La sentenza, giudicata troppo mite dai fascisti, determinò una loro levata di scudi

contro i giudici presso il ministro della Giustizia Pisenti che annullò tutto e

predispose un nuovo processo a Pavia. Qui si confermò il giudizio contro il Masnata

e annullò per altri quattro la reclusione accomunandoli nella pena di morte. Purtroppo

da questa sentenza si perdono le tracce del partigiano: la condanna fu eseguita

senz’altro, e solo Antonini segnala con precisione, da documento della ex RSI (da

Bigoni, capo della provincia, al Ministro dell’Interno), che fu fucilato a Genova il 1

settembre 1944 assieme agli altri quattro gappisti (da parte partigiana le ipotesi su

questa morte furono vaghe e varie: persino la targa stradale riporta un generico

‘luglio’, improbabile visto che l’elenco dei condannabili fu consegnato al tribunale il

3 agosto; il processo avvenne quel mese: una fonte dice il 28 agosto; altre dicono l’ 8

settembre); non viene chiarito neanche dove fu ucciso (tanto che il suo corpo non è

mai stato più ritrovato malgrado approfondite ricerche, effettuate anche negli anni

dopo, attraverso la ricostruzione dei fatti ed appelli i più disparati).

Dopo il 3 agosto 1944, i gruppi GAP vennero assorbiti dal nuovo ordinamento delle

SAP. Fu insignito di medaglia di bronzo al VM alla memoria”.

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“Sampierdarenese, nato il 23 marzo 1926.

Dopo il fatidico 8 settembre ‘43, ancora diciassettenne, preferì fuggire anziché essere

sottoposto alla leva forzata nelle forze fasciste; raggiunti i monti, si aggregò alla

divisione Langhe (che arriverà a 400 unità, comandata dal famoso “Mauri”, nome di

battaglia del maggiore Martini Enrico, un badogliano autonomo), dislocata nella II

zona operativa (zona di Ceva). Partecipò così alla assai incerta vita partigiana, sui

monti, fin dalle prime azioni non ancora ben organizzate, di propaganda e sabotaggio.

Tornato in città per una missione, in seguito a delazione, venne catturato e portato a

Marassi (nella cosiddetta IV sezione: questa faceva parte del reparto che si

interessava del controspionaggio, dei ribelli, dei comunisti e degli ebrei, compilava

gli elenchi dei cittadini condannati a morte da fucilare per motivi di rappresaglia, o da

inviare nei campi di concentramento). Erano giorni assai cupi: la confusione militare

e politica coinvolgevano quella morale ed etica. L’insicurezza e la paura erano

sovrane: i bombardamenti da un lato; la violenza dall’altra (sbandierata come legale

dai fascisti, veniva ovviamente avversata quando a loro volta venivano aggrediti per

la strada ed uccisi, con conseguenti cieche rappresaglie ed a spirale altrettanto

controrappresaglie). Le panetterie chiudevano per mancanza di farina; la gente era

confusa tra i radicati valori tradizionali e la nuova situazione diversa da quella

propagandata e sempre più esasperante e sfiduciabile.

Il Comando delle Brigate Garibaldine SAP di Genova, aveva fissato per il 30

novembre la “giornata delle spie”: quel giorno finì col risultato di “21 nemici

eliminati, 8 feriti, molte armi recuperate, 7 prigionieri; contro due partigiani feriti

non gravemente. Il capo prefetto di Genova, presi accordi con la

Platskommandantur, dispose una rappresaglia che -ufficialmente- riguardava solo

un coprifuoco. Invece, nella notte del 2 dicembre 1944, mentre sui monti si

preparava un rastrellamento, preludio della grande offensiva invernale, il Molteni fu

prelevato e, assieme a 21 altri compagni, fu trasportato a Portofino, per essere

fucilato senza processo, nella strage ricordata col nome della spiaggia luogo

dell’esecuzione, dell’Olivetta. (…)”

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“Patriota partigiana, nata a Campomorone il 21 nov.1906, quintogenita in una

nidiata di sette fratelli, in una famiglia -si dice- adeguatasi alla convinzione fascista

ma pur sempre rispettosi della dignità umana e rifiuto alla sopraffazione.

Evidentemente gli insegnamenti ricevuti ebbero effetto inverso, se fin da giovane,

sfruttando vivace intelligenza e creatività espresse sia nell’ambito scolastico che

personale, diede dimostrazione di autonomia e decisione. Impiegatasi

nell’amministrazione di un’azienda di Pontedecimo, divenne attiva collaboratrice

dei “gruppi di difesa della donna”, strutturati per fornire all’organizzazione militare

partigiana, cittadina e montana, quelle funzioni ausiliarie necessarie e vitali

(staffette, infermiere, propagandiste, fornitura di cibo e vestiario, informazioni), ed

a volte per avere parte attiva in missioni anche delicate e rischiose. Piccoli gesti, ma

ripetuti e compiuti in ambiente estremamente pericoloso per la vita, ostile e non da

tutti condiviso. Si narra che fermò una colonna tedesca con prigionieri sui camion e

lei –fermata l’auto del comandante- da lui si fece promettere trattamento umano;

era staffetta in montagna ove –con qualsiasi tempo- portava notizie e guidava

fuggiaschi-reclute;

Della sua intensa attività partigiana, poco o nulla deve essersi svolto nell’area di

Sampierdarena.

Dal gennaio ‘44 fece parte attiva della III Brigata Liguria. (…) Arrestata, fu rilasciata

ma ammonita e schedata. Dopo un ennesimo crudele scontro cittadino tra

occupanti e partigiani, (…) la sera del 7 agosto ‘44 venne prelevata dalla Brigate

Nere, assieme ad altri sei attivisti (tra cui Carlo Rolando), quali sovversivi. Condotta

in caserma per interrogatorio. Dopo minacce, insulti, maltrattamenti, facendo

ricadere la colpa sulle malsane azioni di detti sovversivi, il giorno dopo furono tutti

fucilati, per rappresaglia all’uccisione dei loro camerati, presso le mura del collegio

delle suore dell’Immacolata Concezione di Campomorone. A suo nome fu intestata

una brigata femminile delle SAP cittadine, ed a lei personalmente la croce al merito

di guerra ed una medaglia garibaldina”.

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Barista con esercizio in piazza N. Barabino, Romolo Pensa nasce a San Pier d’Arena

il 14 settembre 1899. Di carattere generoso e gioviale, da sempre di idee antifasciste e

mazziniane. Dopo il 25 luglio 1943 alla caduta del fascismo ed all’occupazione

nazista, fu tra i primi a concepire e mettere in atto il concetto della necessità di una

ribellione armata.

Troppo il divario organizzativo ovviamente; così solo accettò di nascondere delle

armi nei fondi del suo bar “san Pietro”. Probabilmente una delazione o il fatto di

essere già segnalato perchè ingenuamente aperto nell’espressione delle sue idee e

sentimenti, determinò il 30 sett.1943 un organizzato accerchiamento notturno di

tutto il quartiere con perquisizione sistematica di tutti i caseggiati, cercando armi

abbandonate dai militari in sfacelo organizzativo dopo l’armistizio, e prelevando così

anche tutti i sospetti (una ventina di persone). Quando giunsero al bar, il proprietario

fu obbligato ad aprire per il controllo e, nelle cantine fu ritrovato il materiale bellico

nascosto.

Qualcuno dice che seduta stante il Pensa fu fucilato: non credibile perché sarebbe

stato più vantaggioso una dimostrazione più plateale e legale, intimidatoria e atta a

scoraggiare i più deboli; perché sarebbe stato più utile raccogliere informazioni; ed

infine anche perché - ma non so - sino a che punto l’ufficiale tedesco avesse

possibilità di decisione di fucilare seduta stante: in quei tempi tutto era possibile.

Un’altra versione vuole che il Pensa abbia tentato una reazione di opposizione alla

perquisizione o di fuga o di esasperazione, scatenando il fuoco dei mitragliatori

tedeschi della Wermacht.

Fatto fu che, colpito alla colonna vertebrale, dette ai presenti l’impressione di essere

spezzato in due cadendo piegato all’indietro fulminato.

È così considerato la prima vittima partigiana di San Pier d’Arena.

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Medaglia d’oro al valore militare alla Memoria “Nato a San Pier d’Arena il 5 mar.1899 – partigiano combattente – patriota di

purissima fede, si dedicava fin dall’inizio dell’attività partigiana diventando un dei

principali comandanti ed organizzatore delle più agguerrite unità della sua zona e

sostenendo ala loro testa asperrimi combattimenti che procuravano al nemico

ingentissime perdite. Nel corso di un rastrellamento nemico riusciva , grazie alla sua

capacità operativa ad organizzare una brillante resistenza ed il successivo

sganciamento riordinando con energia ed abilità le formazioni sbandate. Ricercato

attivamente veniva alfine catturato e sottoposto ad atroci torture per varie settimane

perché rivelasse le importanti informazioni in suo possesso. Il suo nobile animo

resistette con stoicismo al dolore, nulla rivelando sulle formazioni partigiane e sui

commilitoni e trovando la forza di confortare i compagni di prigionia e di infondere

loro la fede nei destini della Patria. Portato quale ostaggio dal nemico in

ripiegamento e gravemente debilitato dalle gravissime sevizie subite, trovava la

morte durante un bombardamento. Si spegneva così un nobile animo di patriota e di

combattente. Bornasco (Pavia), 24 aprile 1945

(Da contributo di Sampierdarena alla Resistenza 8 settembre 143-25 aprile 1945.

Venti mesi di lotta al nazifascismo pag.139) –Ampi- Sampierdarena.

“Il partigiano Andrea Prasio, sampierdarenese, nato il 7 aprile 1909, operaio. Iniziò

l’attività clandestina di ribellione frequentando i GAP (gruppi di azione patriottica),

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col nome di battaglia “Balilla”, rifornendo di armi e qualsiasi materiale potesse

essere utile alle formazioni di montagna.

Riconosciuto in questa attività clandestina, entrò nell’elenco dei ricercati per cui fu

necessario scappare sui monti entrando a far parte della III Brigata Liguria. Durante

il rastrellamento della Benedicta, fu intrappolato sui Piani di Praglia -in località

Mezzano- e preso prigioniero: dopo averlo costretto a scavarsi la fossa, lo fucilarono

sul posto, il giorno del suo 35° compleanno”

“Nato a Fiume il 24 febbraio 1900, fucilato a Trieste nell'aprile del 1945, impiegato, Medaglia d'argento al Valor militare alla memoria. Da giovane era stato un militante del Partito popolare. Dopo la caduta del fascismo Reti, che era occupato all'Ansaldo di Genova, si adoperò nella costituzione della Democrazia cristiana e, subito dopo l'8 settembre 1943, s'impegnò nella lotta clandestina. Militò, infatti, nell'Organizzazione Otto che, in Liguria, era impegnata ad aiutare i prigionieri Alleati a passare le linee, ad organizzare i "lanci" di armi alle nascenti formazioni partigiane e a passare informazioni agli Angloamericani. Dopo aver contribuito alla organizzazione degli scioperi all'Ansaldo, Paolo Reti capì di essere stato individuato dalla polizia fascista e decise di trasferirsi con tutta la famiglia a Trieste. Qui divenne segretario del Comitato cittadino del "secondo CLN" di Trieste e poi, nel settembre del 1944, anche del "terzo", mantenendo in tale veste i contatti con il CLN ALTITAIA. I frequenti viaggi a Milano dell'impiegato finirono per insospettire i fascisti che, quando riuscirono ad arrestare tutti i membri del "terzo CLN" di Trieste, nel febbraio del 1945 incarcerarono anche lui. Un intervento del vescovo di Trieste per salvarlo, non bastò per evitare la fucilazione di Reti il cui corpo, ai primi giorni di aprile, fu bruciato dai nazifascisti nella Risiera di San Sabba. Per ricordare Paolo Reti, gli sono state intitolate strade a Trieste e a Genova”. Caterina Crisanzio

Nel 1991 fu insignito della medaglia d’argento al V.M. alla memoria; nel 1991 fu riconosciuta d’oro (come a Pieragostini, Buranello, Quartini).

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Il circolo ACLI di Sampierdarena, che porta il suo nome, dal 1988 ricorda

annualmente il suo sacrificio con manifestazioni, orazioni ufficiali, ed un premio

laurea per un neo laureato ingegnere genovese ed un altro per un triestino.

“Operaio dell’ UITE (Unione Italiana Tranway Elettrici, attuale AMT), nato a Strevi

di Al. (vicino ad Acqui) il 19 genn.1879, battezzato col nome di Carlo Zaccaria. Fin

da giovane, cresciuto a San Pier d’Arena in via delle Grazie dove la madre aveva un

negozietto di stireria, era convinto socialista e si assunse l’onere di mantenere attiva

la propaganda antifascista anche quando in età matura -1943- si era trasferito

d’abitazione a Campomorone. Col settembre di quell’anno, divenne parte

determinante nei movimenti partigiani, partecipando alla fondazione del CLN di

Campomorone (a cui fu iscritto il 1 gennaio 1944, in rappresentanza del PSI).

La sera del 7 ago.1944, a seguito dell’uccisione di due militi delle brigate nere che a

Campomorone avevano chiesto ad un passante i documenti di identità ricevendo in

cambio alcune mortali pistolettate, il Rolando fu prelevato assieme ad altri cinque

cittadini sospetti ma innocenti del fatto”.

Dopo sommario interrogatorio tra insulti e minacce, nella mattina dell’8, furono

fucilati (la data di morte sulla targa, è quindi errata) senza un regolare processo e

quindi per pura rappresaglia”.

“Nativo di Roccella Ionica (RC) il 18 mar.1925; operaio dell’Ansaldo Meccanico, fu

tra i primi degli abitanti del quartiere san Martino-Campasso a sentire il bisogno di

ribellarsi in modo concreto alle crescenti irruenze dei fascisti. A altri si aggiunsero a

lui. Dopo l’ 8 settembre, da questo nucleo isolato, nacque più organizzato il ”fronte della gioventù”, col compito di favorire scioperi tra gli studenti, organizzare il

“soccorso rosso”, reclutare nei luoghi d’incontro (Croce d’Oro, don Bosco, bar, Società di mutuo soccorso ) chi condivideva le idee o quantomeno in quei giorni

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desiderava fuggire per non essere obbligato nelle truppe di Salò. Nel giu.1944, tutte

queste iniziative confluirono nelle SAP (squadre di azione patriottica), ove lui scelse

il nome di battaglia “Roberto”, divenendo comandante del distaccamento Carlo

Roncati, della Brigata SAP Giacomo Buranello. In una prova generale della agognata

liberazione di Genova, malgrado essa fosse stata programmata ed eseguita in gran

segreto, le Brigate Nere vennero a sapere del fatto ed organizzarono a loro volta una

contromossa che sfociò in uno scontro a fuoco in cui persero la vita due fascisti: il

cerchio si strinse fino al 16 dic.1944 quando lo Spataro venne catturato assieme a

Jursé nelle sale della Ciclistica. Furono assieme condotti alla casa Littorio, e

sottoposti ad interrogatori con pestaggio e tortura. Il 15 gennaio successivo, condotti

assieme sotto l’archivolto ferroviario del Campasso, nella notte e senza precisa

condanna da tribunale, furono fucilati, lasciando i corpi a terra come monito a tutti gli

abitanti della zona”.

Walter Ulanowsky, nato a Trieste il 6 luglio 1923, fucilato al Colle del Turchino (Genova) il 19 maggio 1944, studente. Nel gennaio del 1944, interrotti gli studi alla Facoltà di Economia e Commercio dell'Università di Genova, Ulanowsky (che già aveva svolto nell'Ateneo attività antifascista), si aggregò alla Brigata Garibaldi "Liguria", che operava sull'Appennino ligure. Dopo breve tempo, al ragazzo fu affidato, col grado di capitano, l'incarico di ufficiale di stato maggiore. Col nome di battaglia di "Josef", lo assolse brillantemente sino a che, durante gli scontri sulle alture di Genova con imponenti forze nazifasciste, fu catturato alle Capanne di Marcarolo. Era il 10 aprile 1944. "Josef", portato nel carcere di Marassi, vi fu rinchiuso nella IV Sezione, a disposizione delle SS tedesche che lo seviziarono per alcune settimane. Il 16 maggio il giovane partigiano fu processato dal Tribunale tedesco che lo condannò a morte. Tre giorni dopo avvenne l'esecuzione nei pressi del Colle del Turchino, dove Ulanowsky cadde con altri sedici partigiani e quarantadue prigionieri politici uccisi per rappresaglia. Lo studente, prima di essere ucciso, era riuscito a scrivere un messaggio ai genitori e alla fidanzata. Le missive sono state poi pubblicate nel volume Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana. A Padova, nel Tempio Museo

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dell'Internamento, è esposto un dipinto in bianco e nero del pittore Ciferri, che rappresenta il momento della fucilazione di Walter Ulanowsky”. Caterina Grisanzio

A cura di Alberto Rinaldini

(*) notizie da Sampierdarena.net

Grazie al dott. Ezio Baglini da cui abbiamo attinto molte informazioni sulle lapidi.

Grazie al Direttore responsabile del Gazzettino Sampiedarenese che ci ha permesso

di usare di alcuni articoli su partigiani scritti da Cristina Crisanzio

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