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L’esperienza dell’apprendistato 1

 · Web viewSi ammassa nelle stazioni ferroviarie, nelle fermate dei pullman, nelle strade non più deserte, spinge, si muove lentamente, defluisce. Operai e impiegati, insegnanti

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L’esperienza dell’apprendistato

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INDICE

Introduzione 9

IL PROTAGONISTA: L’APPRENDISTA 12

Chi è l’apprendista 12

Costruzione di un GO PRO 15

La vita quotidiana in lingua straniera 20

CHI SONO I DOCENTI 34

I tutor 34

Gli esperti 35

Gli insegnanti 35

Il lavoro dei docenti della forma-

zione formale 36

PARTE PRIMA

Gli apprendisti raccontano 37

Premessa 39

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Apprendistato sì, apprendistato no 40

Storie di apprendisti 50

“Il mestiere di vivere cos’è?” 52

Riflessioni sugli argomenti dei corsi 53

Cultura e politica 55

Pubblicità e mass media 56

Noi siamo le parole che usiamo 57

I doveri e i diritti nell’apprendistato 58

Durante e dopo l’apprendistato 59

Il Lavoro 61

La legge e la Costituzione 65

L’indifferenza, ovvero come mai tutti

I giorni ce la prendiamo nel c**o e ce

ne sbattiamo le b***e? 69

I soldi 71

Il riconoscimento delle personali capa-

cità lavorative 74

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Una interpretazione della società

attuale 77

Un esperimento. Primo gruppo 78

Una considerazione finale 81

Un esperimento. Secondo gruppo 82

Modello sociale secondo le prime

dieci parole che ci sono venute in mente 82

Commenti 83

Considerazioni conclusive 85

Trovare soddisfazioni personali sul

lavoro 86

La gestione del tempo sul lavoro 88

Bibliografia 89

PARTE SECONDA

Elementi della formazione 91

I tre tipi di formazione 93

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La formazione formale 93

Criteri della formazione formale 95

La formazione sul posto di lavoro:

la formazione non formale e informale 97

Le politiche della formazione 101

La politica dello stato e quelle locali 102

Che senso avrebbero le leggi

sull’apprendistato se non si

privilegiasse la formazione formale 104

APPENDICE

Genesi ed evoluzione

dell’apprendistato 107

Il testo unico e l’apprendistato

professionalizzante 110

Conclusioni 112

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INTRODUZIONE

Il punto di partenza di questo testo è la Costituzione, laddove impegna le istituzioni a promuovere la centralità della persona ed a rimuovere tutti gli ostacoli che ne impediscono la realizzazione come cittadino.

Uno degli strumenti irrinunciabili per promuovere la persona è l’educazione, che non è soltanto un insieme di regole di comportamento che vengono impartite ai bambini, ma, come educazione permanente, diventa un diritto ed un dovere di tutti, a tutte le età.

L’apprendistato è lo strumento rivolto ai giovani che entrano nel mondo del lavoro, per avviarli all’educazione lungo tutto l’arco della vita.

L’idea centrale di questo libro, si muove su alcuni temi centrali del pianeta apprendistato: le attività formative degli apprendisti, la formazione formale e le relative normative in vigore, fino al Decreto Legislativo n. 167 del 14 settembre 2011, noto come Testo Unico.

Quest’ultimo è un breve codice di sette articoli, che ha messo in seria crisi il cammino della cultura formativa formale che dal 1955 ( legge n. 25/1955) al 14 settembre 2011 stava cercando di prendere forma.

In particolare, a partire dal 1997 con la legge Treu, e nel 2003 con Legge Biagi, grazie anche all’impegno di molte Regioni che recepirono queste normative, con coerenti e significative azioni per orientare e strutturare le attività di

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formazione, offrirono alla formazione formale un ambiente adeguato per crescere, svilupparsi e perfezionarsi. Un percorso di coinvolgimento totale che avrebbe potuto sfociare nella cooperazione alla pari tra gli apprendisti, i tutor e i formatori.

Al contrario, il Testo Unico è stato emanato con lo scopo di realizzare “l’apprendistato che piace alle imprese”, con gli apprendisti ricondotti nuovamente ad essere quello che per molti anni erano stati: personale a basso costo.

Per raggiungere questo scopo, è bastato ridurre le ore di formazione formale da 120 a 40 all’anno, e tradurre il concetto di formazione formale in “by doing”, ovvero “imparare facendo”, al proprio banco di lavoro o alla propria scrivania. Si tratta, evidentemente, di un’attività che poco ha a che fare con il concetto di “educazione permanente”, ma che ha ottenuto l’entusiastico consenso del mondo imprenditoriale.

Il Testo Unico cerca di vendere l’illusione di un mondo imprenditoriale allineato con le culture formative europee, ma le statistiche parlano chiaro ed evidenziano una realtà molto diversa: le imprese italiane sono tra le ultime in materia di culture orientate alla formazione.

In una situazione di questo tipo, stupisce soprattutto quanto siano distanti le associazioni dei datori di lavoro dai loro iscritti. Negli incontri con i singoli imprenditori si riscontra spesso, una totale disponibilità a partecipare all’educazione degli apprendisti.

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Gli stessi apprendisti, che a priori potrebbero rifiutare l’impegno educativo, soprattutto perché come adulti rivendicano l’autonomia a libere scelte formative, quando si sentono coinvolti esprimono alte partecipazioni. Un patrimonio che la formazione formale stava coltivando.

Grave è invece parso il silenzio dei sindacati dei lavoratori e dalla politica in generale, che anziché proporre un testo legislativo alternativo, sembrano maggiormente interessate a cercare altre strade di finanziamento piuttosto che evitare di disperdere anni di lavoro.

Il libro è diviso due parti. La prima, intitolata “ Gli apprendisti raccontano..” riporta alcuni testi scritti dagli apprendisti durante le ore di formazione formale esterne all’azienda. La seconda parte “ Elementi della formazione” è dedicata ad alcuni aspetti professionali della formazione . L’appendice propone alcune riflessioni sul Testo Unico.

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IL PROTAGONISTA: L’APPRENDISTA

Chi è l’apprendista?

E’ un giovane che ha raggiunto la maggiore età, che è stato chiamato a partecipare a quel tipo di formazione previsto per chi viene assunto a lavorare con un contratto di apprendistato.

L’apprendista è una persona che, se non ha raggiunto gli obiettivi scolastici minimi durante gli anni

della scuola dell’obbligo, deve trovare altri momenti per crescere. La scuola insegna ad apprendere e ad utilizzare codici linguistici, parlati e scritti, perfeziona e integra l’educazione fondamentale iniziata in famiglia.

Incontrando i giovani apprendisti, che hanno terminato i percorsi scolastici obbligatori, è normale scoprire come non tutti abbiano beneficiato di questo diritto di crescere come persone, e come molti di loro siano vittime di situazioni di disagio giovanile.

L’ingresso nel mondo del lavoro costituisce un’oggettiva chiusura alla possibilità di recuperare conoscenze e competenze tipiche dei percorsi scolastici. Pertanto nelle attività di formazione formale “fuori dall’azienda” o comunque in ambienti dove l’apprendista “non lavora”, occorre soprattutto privilegiare la formazione al saper essere, pur restando legati a tematiche legate al mondo del lavoro ed ai ruoli professionali. I contenuti devono essere orientati più alla costruzione ed alla

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comprensione di concetti e di idee, piuttosto che all’apprendimento di procedure e tecniche di lavoro.

Il luogo della formazione formale, che non è l’ambiente dove l’apprendista lavora, è ideale per lavorare soprattutto sul “saper essere”. Diventerebbe, al contrario, una perdita di tempo ridurre queste ore ad un mero addestramento al lavoro, che può essere impartito soltanto in azienda.

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Per illustrare la vasta gamma di personalità che l’apprendistato coinvolge riportiamo due lavori che riteniamo emblematici.

Questi due lavori documentano le radici della complessità della formazione esterna all’azienda perché, tra adulti che provengono da differenti esperienze di vita, prima di tutto, bisogna trovare un vocabolario grammaticale e civile che consenta loro di non sentirsi esclusi dal processo di apprendimento.

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COSTRUZIONE DI UN GO PRODavide Viglino

Le motivazioni cui il progetto è chiamato a rispondere. Scrivere d’una mia esperienza di lavoro. L’obiettivo generale che concretizza l’idea e la soddisfa. E’ il nostro lavoro descrittivo progettato in forma di opuscolo. Definizione dell’argomento del progetto. E’ la cronaca del mio lavoro di costruzione di questa strana macchina. Motivazioni. Ragioni del progetto. Il motivo che ci ha guidati in questo lavoro è stato quello di provare a a condurre dall’inizio alla fine le fasi di produzione di un opuscolo.

E la storia di un’ idea nata una sera,tra amici. L’idea è diventata un progetto. E il progetto nato nella mente e poi cresciuto sulla carta,è diventato lavoro di officina che ha consentito di costruire il nostro go-pro. Noi ci siamo impegnati per la costruzione del go-pro anche perchè i motori sono la nostra passione sino da quanto eravamo bambini. Il nostro go-pro è una macchina non per le strade asfaltate delle automobili,ma per gli sterrati,ì prati e le impervie vie nei boschi del nostro paese oppure per divertirsi sulla neve. L’idea è nata in una sera in primavera. Il nostro solito ritrovo al bar. E da lì abbiamo iniziato a progettare tutto.

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Il progetto sulla carta Prima su carta con disegni, misure per i rolbar e i rinforzi da applicare. Come prima progettazione abbiamo fatto il disegno dei rolbar prendendo le misure per capire di che diametro usare i tubi e quale materiale usare, poi abbiamo progettato i rinforzi per la slitta anti urti.

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Lo scheletro del Go-pro. Dopo vari giorni di ricerche abbiamo trovato una macchina da utilizzare come scheletro. Il mio amico ed io abbiamo

iniziato a smontare tutte le parti che formavano la macchina togliendo il cofano, i paraurti,le portiere e poi abbiamo anche tagliato il tettuccio ed eliminato i vari pezzi che non ci servivano.

Grip alla terra

Infine, per un migliore grip alla terra, abbiamo cambiato le gomme e i cerchi mettendo ruote tassellate

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Impianto frenante, stabilità ed assetto. Un lavoro particolarmente delicato è stato quello che ci ha consentito di migliorare l’impianto frenante, la stabilità e l’assetto. In particolare la stabilità si è ottenuta con barre duomi.

La visibilità anteriore. Il passo successivo è stato quello di sostituire il vetro anteriore dell’automobile, usata come scheletro, con una

rete . La rete serve per non fare entrare, nell’abitacolo, rami o pietre o altri corpi contundenti

Assemblaggio dei pezzi. Si è quindi proceduto all’assemblaggio dei pezzi. Abbiamo provato a montarlo. Non è stato semplice all’inizio non riuscivamo a montarlo come volevamo noi. Abbiamo apportato delle modifiche sia al roll bar che al telaio. Finalmente, soprattutto perché abbiamo trovato le modifiche adatte, siamo riusciti a montare il roll bar. Appositi bulloni ad alta tenuta e la saldatura al telaio hanno consentito di fissare il roll bar al telaio originale.

La costruzione al banco

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Quindi abbiamo cominciato a costruire sul banco i vari rolbar ed i rinforzi. I rolbar sono stati creati con tubolari da 20 saldandoli conle varie tecniche:saldatura a filo,a tig e ad elettrodo. Sono statifatti i vari fori per il fissaggio al telaio del mezzo

La slitta. terminata questa fase si e fissata la slitta una lamiera piegata e fissata sotto al veicolo essa serve per non danneggiare le parti delicate che sono fissate al telaio e al fondo del veicolo.

Le protezioni. Successivamente abbiamo progettato e costruito le protezioni pernon essere sbalzati fuori dal veicolo. E’ un ulteriore protezione oltre le cinghie. Può infatti succedere che le cinghie, troppo sollecitate, non tengano.

La vita quotidiana in lingua straniera

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Breve antologia

La vita quotidiana in lingua straniera BREVE ANTOLOGIA Ronan Bigote Berisso “... per farcela a vivere in questa valle, non bisogna mai uscirne.”

Cesare Pavese. La luna e il Falò.

Definizione delle motivazioni che richiedono l’attuazione del progetto (contesto e target) Il progetto nasce dalla mia personale necessita di tradurre i miei pensieri, la mia identità, nella lingua che ormai e diventata la mia lingua. Definizione chiara e coerente degli obiettivi generali del progetto ( identificano il “risultato” che si vuole raggiungere con l’intervento, la ricerca che si sta progettando) è strano forse, per chi non è un immigrato immaginare cosa vuol dire fare tua una lingua straniera. Non parlarla, non scriverla, ma pensare in’altra lingua. Proprio di questa dissociazione nasce questo tentativo, pseudoartistico se si vuole, di radunare queste due persone che parlano e vivono dentro di me. Fasi / Procedura del progetto. Individuazione del tema. Definizione dei nostri obiettivi. Elaborazione del materiale specifico. Progettazione della veste editoriale. Metodologia ( tempi, contenuti/argomenti, obiettivo specifico, metodi strumenti, risorse strutturali) Tempi: la durata del secondo modulo professionalizzante del corso di apprendistato. Contenuti/argomenti: Breve raccolta di scritti, tradotti dallo spagnolo

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Metodi: l’elaborazione scritta delle idee. Strumenti :sistemi multimediali per l’editazione del lavoro. Risorse strutturali : la biblioteca d’aula, le nostre ricerche personali e l’aula trasformata in laboratorio.

Le motivazioni cui il progetto è chiamato a rispondere. Come detto prima, risponde a un mio bisogno personale, di esprimere in questa lingua, quello che pensavo in un’altra. È un atto comunicativo, espressivo, e un incontro tra due culture, che coabitano dentro di me. L’obiettivo generale che concretizza l’idea e la soddisfa. E’ il nostro lavoro descrittivo progettato in forma di opuscolo.

Argomento. Brevi scritti sulla vita quotidiana a Buenos Aires Definizione dell’argomento del progetto. Il progetto include una breve raccolta di scritti brevi, racconti e prose, nati in lingua spagnola a Buenos Aires, e tradotti adesso, anni dopo, modificati e adattati a quello che sono adesso, attraverso quello che sono stato.

PROLOGO

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Buenos Aires, sedici milioni d’anime, 7:30 del mattino. La bestia si sveglia. E mi sveglio anch’io. La folla si muove con un solo obiettivo, raggiungere il centro città. Si ammassa nelle stazioni ferroviarie, nelle fermate dei pullman, nelle strade non più deserte, spinge, si muove lentamente, defluisce. Operai e impiegati, insegnanti e studenti, poliziotti e ladri, tutti uniti in una sola e ipnotica danza, un passo dopo l’altro, verso il centro. Il treno è pieno, traboccante, le porte bloccate aperte, le finestre rotte, e la serpe meccanica respira e si avvia cigolante. Dentro, sopore, sguardi persi, caldo, pensieri. Ieri sera hanno ucciso il proprietario del market, quello vicino alla stazione, roba di niente, una rapina. L’avevano già derubato tre volte questo mese. Coglione, si è fatto ammazzare. Forse era già stanco e ha tirato fuori la pistola da sotto il bancone, forse lo sfortunato quarto arrivato non ha trovato niente da rubare e si è innervosito. Avessero un calendario per le rapine. Coglione anche lui. E via, meglio lui che non mi dice sempre mia nonna, con quello sguardo di beffarda saggezza. Adesso, se crediamo cecamente alle statistiche, dovremmo essere a posto fino a domani mattina. Poi, cadrà un altro, ma non di certo me, bisogna anche saperci fare, ne ho visto io già di pistole in faccia, sarò mica coglione. Servizio sospeso, si sente dagli altoparlanti. Siamo a posto. Orde di pendolari fuoriescono dal treno, la serpe si dissangua lentamente, le già colme fermate dei pullman aggiungono centinaia di rinforzi alle sue caotiche code. Ancora un’ora e mezza di pullman al lavoro, più queste code. Che bruci, io torno a casa. A piedi,

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con un po’ di fortuna ci sarà ancora qualche reduce di questa sera, a bere un’ultima birra al market dietro casa. L’aria è fresca. Cammino spensierato accanto alla ferrovia. Le grandissime officine abbandonate, cimitero di vetture vecchie e arrugginite. Credo di riconoscere anche quelle bruciate il giorno della manifestazione andata male prima di arrivare in centro, cimitero di un progresso che non c’e più. Baracche improvvisate con lamiera e cartoni, panni che asciugano tra i binari coperti d’erba. Vedo un bambino, non avrà nemmeno dieci anni, barcolla, mi si avvicina, ha il naso sporco di terra e di adesivo1. Dammi le scarpe, frocio, urla, tira fuori una pistola malconcia, si sente uno scoppio sordo, sono a terra, sento freddo, sento i piedi nudi. E invece, non e andata così, mi son bevuto una birra e a letto di nuovo. Sono andato avanti, non ci ho pensato. Ci penso adesso, penso a tutte le volte che potrebbe essere andata storta, e sento paura, paura retroattiva, paura per quelli che son rimasti là, sul fronte, e penso che e proprio così come ha detto qualcuno qua a quattordicimila kilometri di distanza, per farcela a vivere in certi posti non bisogna mai uscirne. 1 E’ molto diffuso in Argentina il uso di adesivo per fini allucinogeni, sopratutto tra i bambini e ragazzi giovani. Si mette un po’ di adesivo dentro un sacchetto per poi aspirare

La bolsa de caramelos

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Uno de los chicos sacò la bolsa, los demàs, percibièndolo de inmediato, se arremolinaron en torno a èl como una famèlica bandada de pàjaros sobre un pedazo de pan seco, todos querìan algo del dulce botìn, En medio del caòtico torbellino concèntrico, el mayor los frenò, y con mas miedo que convicciòn al fin se detuvieron. De sus desconfiados ojos redondos desbordaba la ansiedad, apenas contenìan sus movimientos, como en un extrano paso de baile. Recordè cuando yo tenìa esa edad, y con mi hermano, asediàbamos a mi viejo, cuando al volver del trabajo, nos traìa uno o dos chocolatines. Tenìamos esa misma mirada, egoista e inocente. Los chicos se bajaron del tren en Castelar, el vagòn aùn olìa a Poxirràn.

Un sacco di caramelle

Uno dei ragazzi tirò fuori il sacco, gli altri, rendendosene conto subito, formarono un vortice intorno a lui, come un famelico stormo di colombi sopra un pezzo di pane. Tutti volevano la sua parte del dolce bottino. In mezzo al caotico gorgo, il più grande li fermò, e più per paura che non per convinzione, alla fine smisero. Dai loro diffidenti occhi rotondi, traboccava l’ansia, appena contenevano i movimenti come in uno strano passo di ballo. Ricordai me stesso a quell’età quando insieme a mio fratello, assediavamo mio padre che tornato dal lavoro, ci

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portava uno o due cioccolatini. Avevamo quello stesso sguardo, egoista ed innocente. I Bambini scesero dal treno la fermata dopo, la vettura ancora puzzava di adesivo.

El juego cruel Se decìa que habìa sido mèdico, o arquitecto, no lo sé, creo que en realidad, nadie lo sabìa. Nadie lo conocìa, ni se interesaba en hacerlo. Caminaba solo por la calle con los ojos entrecerrados, huecos. La piel cobriza, curtida como un cuero viejo se plegaba bajo sus sienes en tres gruesas arrugas. El sol y la suciedad peleaban palmo a palmo por matizar rostro y ropa con el mismo tono uniforme. Semejaba un vaquero polvoriento que volvia de un viaje fantastico, atravesando libre los alambres caìdos de nuestras rutinas cotidianas. Ese tono, ese que resumìa mil invernos y mil veranos, la intemperie, ese color de desarraigo y suenos perdidos. Un escudo, que lo protegìa y nos amenazaba. Solo lo acompanaba un perrito manchado, siempre dando saltitos a su alrrededor, moviendo la cola despreocupado. Era un misterio porquè lo seguìa uno y porque lo permitìa el otro. Eramos chicos, comprendìamos todo, el mundo era claro entonces y sin embargo èl nos desconcertaba. Todos le tenìamos miedo, un extrano sentimento en la boca del estòmago nos invadìa en su presencia. Ese temor que nos empujaba continuamente a desafiarlo, y explotaba en ràfagas de valentìa, a cierta distancia, porsupuesto, que se traducìan en corridas, insultos. Los mas osados incluso lo

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tocaban, para desaparecer corriendo en alguna esquina. Eramos crueles, sedientos de aventuras y borrachos de adrenalina. Se decìa que estaba loco, que su mujer habìa muerto, que fuè rico. Se decìan tantas cosas y en verdad, nada se sabìa. Todos hablabamos de èl en la escuela, todos lo conocìamos, era nuestro linyera, tema obligado. Lanzabamos nuestros ataques, el nos corrìa, nos escupìa, nos insultaba, a veces incluso nos apedreaba. Nos reagrupàbamos y emprendìamos el contraataque, disfrutàbamos este juego y era todo lo que nos importaba. A veces, me parece recordar, lo veìamos sonreir, sobretodo cuando ganaba, cuando huìamos en retirada abandonando a los autos el campo de batalla. Creo ahora, que èl tambièn lo disfrutase. Era nuestro linyera, Joaquìn. Los demàs, los grandes, no parecìa que lo notasen, nunca hablaban de èl, lo evitaban por la calle, no lo veìan, no lo insultaban. Quien sabe, quizàs ellos jugaban a otro juego.

Il gioco crudele

Si diceva che era stato un mèdico o un architetto, non lo so. Credo in realtà che nessuno lo sapesse. Nessuno lo conosceva, né si interessava di conoscerlo. Camminava solo per strada con gli occhi socchiusi, vuoti. La sua pelle scura come un vecchio cuoio conciato dal tempo si piegava sotto le tempie in tre grosse pieghe. Sole e sporcizia erano in costante lotta per colorare viso e vestiti con la stessa tonalità uniforme. Somigliava a un vecchio Cow Boy

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polveroso tornato da un meraviglioso viaggio attraverso l’ignoto. Quella tonalità, quella che sincretizzava mille inverni e mille estati, l’intemperie, quel colore di radici spezzate e sogni persi. Uno scudo che lo proteggeva e ci minacciava. Lo accompagnava soltanto un piccolo cane macchiato, saltellando sempre in torno a lui, muovendo la coda spensierato. Era per noi un mistero perché lo seguiva , e anche perché lo permetteva l’altro. Eravamo bambini, capivamo tutto, il mondo era chiaro allora, e nonostante ciò, lui ci sconcertava. Tutti avevamo paura di lui, uno strano sentimento premeva sullo stomaco nella sua presenza. Quel timore che ci spingeva a sfidarlo ed esplodeva a volte, in raffiche di coraggio, a certa distanza certamente, che si traducevano in insulti, scorrerie. I più coraggiosi lo toccavano a tradimento per poi scomparire di corsa dietro qualche angolo. Eravamo crudeli, assetati di avventure e ubriachi di adrenalina. Si diceva che era pazzo, che sua moglie era morta giovane, che era stato ricco. Si dicevano tante cose, e in verità, niente si sapeva. Tutti parlavamo di lui a scuola, era il nostro barbone. Lanciavamo i nostri attacchi, lui ci rincorreva, ci sputava addosso, ci insultava, a volte persino ci lanciava i sassi. Ci raggruppavamo, contrattaccavamo, ci godevamo questo gioco ed era tutto ciò che contava per noi. A volte, mi sembra di ricordare, lo vedevamo sorridere di nascosto, soprattutto quando vinceva, e accadeva spesso. Quando fuggivamo in ritirata abbandonando alle

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automobili il campo di battaglia. Credo adesso, che anche lui ci godesse. Era il nostro barbone, Joaquín. Gli altri, i grandi, non sembrava lo notassero, mai parlavano di lui, lo evitavano per strada, sembrava proprio non lo vedessero. Loro, chi lo sa, forse giocavano un altro gioco.

Negro Tengo una lapicera nueva, una pluma con tinta como la que solìa usar en la primaria, cuando competìamos para ver quièn hacìa la letra cada vez mas imperceptiblemente pequena y bombardeàbamos con aureolas azules los secantes inocentes. Es verdad, ésta, ya no escribe azul, ese azul profundo que manchaba los dedos por tomar la lapicera demasiado cerca de la punta, ese azul intenso, puro, de trazos libres, anejo, y con olor a cuadernos nuevos. Esta lapicera ya no escribe azul, ya no imita los colores de un cielo intenso e infinito, de rìos serpenteantes e interminabiles como aquella vida que tenìamos por delante. Es negra. Negra como el asfalto que nos aprisiona contra las plantas de nuestros enormes pies, como la tierra que nos succiona hacia una tumba cada vez mas cercana. Negra como la noche que todo lo confunde y nos quita la razòn. Asfalto, tierra, noche. Negra como una inmensa jaula, una prensa que nos aplasta y me quita el respiro. Esta maldita tinta negra, monòtona, tediosa, asfixiante. Y sin embargo, tan dòcil como aquella azul, ahora que lo pienso, quizàs mas dòcil aùn. Ya no me mancho los dedos, ya no me duele la mano, ni mancho los secantes, ni sueno.

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Y sigo escribiendo, sigo ahogàndome en esta lìquida negra prisiòn, sin sobresaltos, sin decepciones, sin fantasìas, sin esperanzas, sin final. Despuès de un tiempo se olvidan los colores. Los recuerdos de esa otra tinta se hacen cada vèz mas vagos, se empieza a odiar esa maldita tinta azul, esa que ya no puedo conseguir, esa que me refriega en la cara mi tristeza, mis cobardìas, y que existe otro color que no es èste. Todavìa, a veces, encuentro àlguien que no ha cambiado lapicera. Y lo odio tambièn. Deberìan prohibir la tinta azul, arrogante, inaccesible, esa tinta que nos hace esclavos de una negra esclavitud. No deberìa existir la tinta negra.

Nero Ho una penna nuova. Una penna di quelle a inchiostro come quella che avevo alle elementari, quando facevamo a gara per vedere chi faceva la calligrafia più impercettibilmente piccola, e bombardavamo con aureole blu i seccanti3 innocenti. E vero, questa, non scrive blu, di quel blu profondo che macchiava le dita quando si prendeva la penna troppo vicino alla punta, quel blu intenso, puro, di tratti liberi, antico e con profumo di quaderni nuovi. Questa penna già non scrive blu, già non imita i colori di un cielo immenso e infinito, di fiumi serpeggianti e interminabili come quella vita che avevamo davanti. E nera, nera come l’asfalto che ci imprigiona contro le piante dei nostri enormi piedi, come la terra che ci inghiotte verso la nostra inesorabile tomba. Nera come la notte fonda che

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tutto confonde e mi toglie la ragione. Asfalto, terra, notte. Nera come una gabbia gigantesca, una pressa che schiaccia, spinge e mi toglie il respiro. Questo maledetto inchiostro nero, monotono, noioso, asfissiante. E non ostane ciò, così docile come quell’altro. Anzi, adesso che ci penso, più docile ancora. Adesso non mi macchio più le dita, non mi fanno male le mani ormai, ne macchio i seccanti, ne sogno. E continuo a scrivere e ad annegare in questa liquida nera prigione, senza soprassalti, senza delusioni, senza fantasie, senza speranze, senza fine. Dopo un po’, si dimenticano i colori. I ricordi di quell’altro colore diventano sempre più vaghi. Ho iniziato a odiare questo maledetto inchiostro blu, quello irraggiungibile ormai, quello che mi sputa in faccia le mie tristezze, la mia codardia e l’esistenza di un altro colore, che non è questo. Ancora, certe volte, trovo qualcuno che non ha cambiato penna, e odio anche lui. Dovrebbero vietare l’inchiostro blu, superbo, inaccessibile. Quell’inchiostro che ci fa schiavi di una nera schiavitù. Non dovrebbe esistere l’inchiostro nero.

La cita Llevaba un vestido nuevo, esa noche de primavera era una noche especialmente càlida, el aire era espeso, difìcil de respirar, casi como el vapor de esa ducha apurada que se habìa dado antes de salir. Tibia y asfixiante. No estaba segura de ir, dudò mucho mientras se maquillaba en el espejo vacìo. Creyò que no valiese la

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pena, que evadir los problemas no era la mejor de las soluciones. Decidiò intentarlo una vez mas, encontrarìa el coraje. Cerrò la casa, escribiò una nota a su marido y se fuè. Caminaba por la calle con un ritmo casi autòmata, su mirada escapaba entre sus pensamientos para perderse en la nada de un cielo gris y sin alma. Solo por momentos volteaba para asegurarse de que nadie la siguiera. No viò a los pibes del barrio, que se tomaban una birra en la vereda, casi se los lleva por delante. ¡Adonde vas tan apurada mi amor! Se escuchò entre silbidos y clàsicos sonidos guturales, el almacenero le sonriò atràs de las rejas oxidadas. Le vino un escalofrìo. Iba a cometer una locura, lo sabìa, tirar por la borda veinte anos de matrimonio, una familia, una vida. No era un paso dificil de dar, los recuerdos invadìan su mente, el dìa de bodas, sus hijos, las vacaciones en la costa, y un ùltimo recuerdo. Aquella vez que llamò a su marido al trabajo, y le dijeron que ese dìa no habìa ido. ¿Còmo habìa podido ser tan ingenua? Se preguntaba. Còmo habìa aceptado tantas cosas, llamadas telefònicas, ausencias, esa otra mujer. Entre la bronca y la rabia que apuraban su paso, comenzò a surgir una extrana tranquilidad, no estaba bien lo que estaba por hacer, pero al final de cuentas se lo merecìa, se lo habia buscado. Llegò al lugar que habìa escogido cuidadosamente, habìa estado allì antes. Hoy todo parecìa diferente, como si nunca lo hubiera visto, y sin embargo reconocìa cada cosa, como en un sueno en el que un lugar no es como deberìa ser y sin embargo es. Volviò a mirar el reloj, deberìa llegar

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puntual, al menos no demasiado tarde. No venìa, dudò otra vez y pensò en cancelarlo todo. Tuvo miedo. Estaba sentada sobre una especie de pequeno pilar cuando improvisamente lo viò llegar, se parò compulsivamente, sus manos sudaban, el corazòn empujaba la sangre hasta la cabeza en hipnòticas ondadas. Caminò hacia èl mientras se acercaba, lo mirò fijo a pocos metros, una luz intensa la encegueciò. Los rieles chisporrotearon bajo su cuerpo destrozado

L’appuntamento

Portava un vestito nuovo, quella notte di primavera era particolarmente calda, l’aria era spessa, difficile da respirare, come il vapore di quella doccia affrettata che si era fatta prima di partire. Tiepida e asfissiante. Non era sicura di andare, dubitò tanto mentre si truccava nello specchio vuoto. Pensò che non valesse la pena, che evadere i problemi non fosse la migliore delle soluzioni. Andò avanti, decise di tentare ancora, avrebbe trovato il coraggio. Chiuse la casa, scrisse un foglietto per suo marito e partì. Camminava col ritmo d’un automa, il suo sguardo scappava tra i suoi pensieri per poi perdersi tra il nulla di un cielo grigio e senza anima. Solo per momenti, si voltava a costatare che nessuno la seguisse. Non se ne accorse dei ragazzi che bevevano la birra sui marciapiedi, i soliti, e quasi li investì. -Dove vai cosi in fretta mi amor! Si sentì tra i fischi e suoni gutturali più classici, distolse lo sguardo, il

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proprietario del market sorrise tra le sbarre arrugginite, beffardo. Rabbrividì. Stava a punto di fare una pazzia, lo sapeva, lanciare dalla finestra vent’anni di matrimonio, una famiglia, una vita. Non era un passo facile di fare, i ricordi invadevano la sua mente, il giorno che si sposarono, i suoi figli, le vacanze al mare, e un ultimo ricordo. Quella volta che aveva telefonato a suo marito, al lavoro, e gli avevano detto che quel giorno lui non si era presentato. Come posso essere stata così ingenua? Si chiedeva. Come aveva accettato tante cose, telefonate, assenze. Quell’altra donna. Tra la rabbia e la furia che affrettavano i suoi passi, incominciò a sorgere una strana tranquillità. Non era giusto quel che stava per fare, ma, alla fine dei conti, lui se l’era cercata, era stato proprio lui a spingerla. Arrivo al posto prescelto con cura, c’era già stata lì prima, ma oggi tutto sembrava diverso. Riconosceva il paesaggio come in un sogno, dove un posto non e come dovrebbe essere, e nonostante ciò, è. Aspettava, guardò ancora l’orologio, era in ritardo. Dubitò ancora, pensò di andar via. Ebbe paura. Era seduta su di un piccolo muretto quando all’improvviso lo vide arrivare, si mise in piedi compulsivamente, le sue mani sudavano, il cuore premeva il suo sangue contro le tempie in ipnotiche ondate. Camminò verso di lui, lo fissò a pochi metri, una luce intensa l’accecò, la ferrovia scintillò sotto il suo corpo spezzato.

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Chi sono i docenti?Sono i tutor aziendali, gli esperti e gli insegnanti di

professione.

Il Manuale del tutor prodotto dalla Regione Piemonte, si configura come documento di riferimento per tutti coloro che operano nel settore dell'apprendistato.

L'applicazione pratica degli argomenti del Manuale, fa emergere alcune specificità. La prima è quella che individua gli ambiti educativi in azienda e nei corsi di formazione. Il primo deve privilegiare soprattutto l'addestramento al lavoro, ed ha il lavoratore come figura prioritaria. Nel secondo caso, al centro del processo educativo è posta la persona nella sua globalità.

I tutor

"Il/la tutor aziendale è il/la responsabile del percorso di formazione sul lavoro dell'apprendista e della continuità/coerenza tra la formazione interna ed esterna dell'impresa" (Manuale del Tutor - Regione Piemonte).

Il Tutor è un dipendente dell’azienda o lo stesso titolare. È pertanto una persona che lavora con una mansione aziendale specifica, ma che, nel diventare tutor , deve reinventarsi un ruolo nuovo, parallelo: diventare operatore dell'educazione in età adulta.

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Gli esperti

Gli “esperti” sono lavoratori che intervengono durante le attività di formazione e danno all’apprendista la possibilità di immaginare possibili futuri professionali.

Gli esperti trasmettono i fondamenti delle loro professionalità. Il loro ruolo è far percepire l’importanza di contenuti e metodi di lavoro: parlano soprattutto da lavoratori di grande esperienza a futuri lavoratori.

Gli insegnanti

Sono i professionisti dell’insegnamento, ovvero persone preparate su temi pedagogici e con specifiche competenze disciplinari.

I docenti programmano e progettano obiettivi, contenuti, metodi; organizzano strutture ed attrezzature didattiche; creano modelli per valutare gli allievi e la propria professionalità di docenti.

Partecipano pertanto alla formazione degli apprendisti adulti tutti coloro che accettano il compito di educatore, perché è soltanto tramite l’educazione che si può promuovere, tra i giovani adulti , la costruzione di autonomi percorsi di educazione permanente.

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Il lavoro dei docenti della formazione formale

Fare gruppo con gli apprendisti significa non poter ricorrere a manuali o a libri di testo. Significa esporsi costantemente alla novità, all’imprevisto e all’imprevedibile perché non si può mai sapere quale piega può prendere il confronto, quali argomentazioni emergeranno, quali obiezioni verranno avanzate, quali giudizi verranno espressi.

Sorge così una realtà educativa nuova, dove non esistono più ruoli facilmente individuabili, poiché non c’è più un insegnante e gli allievi, ma un gruppo di persone con età, esperienze, sensibilità e bagagli culturali differenti, che si confrontano su tematiche ampie.

L’insegnante deve assumere le vesti di una figura che stimola, suggerisce, aiuta in virtù della propria esperienza e delle proprie conoscenze, fornisce gli elementi di comprensione, insegna i segreti della ricerca, svela i tranelli della disinformazione, addestra all’elaborazione di pensiero, conduce il dibattito, aiuta a fare intravedere gli scenari futuri e le soluzioni possibili. E’ un luogo dove si alternano ruoli e dove ognuno promuove ed ascolta.

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PARTE PRIMA

"Gli apprendisti raccontano..."

Gli apprendisti raccontano le loro esperienze di vita e lavoro. Le pagine che seguono sono una raccolta di materiale realizzato da giovani lavoratori, i quali, in collaborazione con gli insegnanti, hanno deciso di dare voce alle loro difficoltà, alle loro incertezze, alle loro speranze.

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PREMESSALe pagine che seguono, sono il risultato del lavoro

svolto da alcuni gruppi di apprendisti, in collaborazione con gli insegnanti, durante le ore di formazione esterna all’azienda.

Il progetto è nato nel momento in cui i docenti hanno deciso dare maggiore risalto alle incertezze, alle speranze, alle difficoltà ed alle attese dei giovani lavoratori, con cui si trovano ad operare ed a condividere una lunga esperienza formativa, fatta non solo di lezioni, ma anche di dibattiti, discussioni e confronti sui temi che maggiormente stanno a cuore a chi si trova ad intraprendere per la prima volta una carriera lavorativa.

Tra questi argomenti c’è il futuro, inteso come speranza e possibilità di potersi costruire una vita autonoma ed indipendente; c’è il lavoro, da cui ci si aspetta una sicurezza che nella maggior parte dei casi non è più in grado di garantire; c’è poi il rimpianto per quello che si avrebbe potuto fare e per quello che, probabilmente, non si potrà mai più fare.

Si parla di leggi, di Costituzione, di obblighi e di sfruttamento; ma si parla anche di hobby, di tempo libero e di vita: quella che ogni individuo cerca ed ha il diritto di perseguire e di cui il lavoro è solo un aspetto, per alcuni primario, per altri solo marginale.

Non è stata fatta, da parte degli attuatori del progetto, alcuna selezione degli scritti migliori o più meritevoli. Sono tutte voci della stessa bocca, tutte visioni

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personali di un mondo molteplice e variegato, impossibile da ridurre ad una schematica ed elementare semplicità.

Apprendistato sì, apprendistato no.

Il testo virgolettato contiene le impressioni degli apprendisti raccolte ad inizio corso.

“Per un gruppo così eterogeneo di persone, un corso di apprendistato è un’impresa ardua soprattutto per quanto riguarda il ruolo nostro e dei docenti”.

“Incomincio da quest’osservazione: l’apprendistato fuori dell’azienda non serve.”

“Devo forse avere il coraggio di scrivere come la penso, anche se non credo ci voglia tanto coraggio. Ovvero, più che cercare il coraggio devo convincermi di quanto valga la pena aver voglia o non voglia di discutere”.

“Ho voglia di discutere e allora ci provo”.

“Intanto ci troviamo, nei corsi di apprendistato, tra persone che svolgono lavori anche molto differenti, e non si capisce perché si debbano affrontare argomenti comuni”.

“A farla breve, secondo me il progetto apprendistato è una mangeria di soldi come tutto in Italia”.

“A mio parere in questi corsi è utile trovare argomenti comuni. In fin dei conti siamo un gruppo di

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estranei, ma è curioso vedere, soprattutto nella pausa pranzo, su quali discorsi si va a parare: alle scuole superiori per esempio si passano intere giornate a sfottere i professori, all’università si imitano i tic e le parlate dei docenti, da pochi mesi , a questa parte, dall’una alle due, di tutti venerdì, il giorno del nostro corso, ho invece discusso in gran parte della vita lavorativa. Un anno fa stipendi, tasse, giorni di ferie erano argomenti curiosi e mai avrei pensato di potermene interessare ( perché oggettivamente sono noiosi).

Eppure eccoci qui, da un giorno all’altro proiettati nel mondo “degli adulti”.

“Tra un po’ devo fare il 730, ma cos’è? Mi dicono che devo farmi un fondo pensione dedicato altrimenti a settanta anni non riuscirò neanche a fare, per Natale, un regalo al mio nipotino: duecento euro al mese per integrare la pensione futura.

Ma a me , questi soldi servono adesso: voglio una macchina mia e non voglio più pesare sui miei genitori. Nessuno però mi consiglia, mi informa, in pratica devo fare tutto da solo.

Ma alla sera alle nove sono stanco, voglio uscire, ho bisogno di respirare un po’ di vita. Forse in questi termini potete darci una mano voi docenti dell’apprendistato. Un piccolo supporto tecnico, idee di gestione economica, consigli per saperci amministrare in modo da poter camminare, da subito, con le nostre gambe, informati e consapevoli”.

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“Ho una gran voglia di raccontarvi una storia, la mia storia. Banale, a tratti noiosa, ma è la mia e difficilmente avrò la possibilità di raccontarla altrove”.

“Considero il corso di apprendistato inutile per lo scopo che si propone di raggiungere.

Svantaggi:

1. accumulo del lavoro della giornata persa; 2. perdita di tempo seppur pagata ;3. Il programma trattato equivale a partecipare ad

una qualsiasi conferenza sulla comunicazione.

Per renderlo più utile si dovrebbero trattare argomenti inerenti l’interesse del lavoratore a seconda della sua specifica mansione o qualora non fosse possibile si potrebbero prevedere:

1. informazioni specifiche su inquadramento lavorativo, tipologie di contratti etc. etc.;

2. basi di contabilità ordinaria; 3. basi di informatica e programmi; 4. basi di marketing; 5. eventualmente: basi di psicologia della clientela; 6. leggi specifiche sul diritto al lavoro e storia del

lavoro; Considero comunque il corso di apprendistato come uno spreco di fondi pubblici, che potrebbero destinati a progetti

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prioritari, come ad esempio costruire asili nido per figli di dipendenti, corsi di aggiornamento obbligatori, corsi di lingue o seminari di formazione specifica

Per quanto riguarda l’apprendistato come tipologia di contratto è a mio avviso:

1. altamente penalizzante per la lunghezza (2/3/4 anni);

2. altamente penalizzante per le condizioni che differenziano il lavoratore apprendista dai lavoratori indeterminati (esempio la richiesta di mutui o prestiti o leasing);

3. una scorciatoia per il datore di lavoro che assume con compiti uguali agli altri colleghi, ma risparmiando e lasciando eventualmente a casa a fine del contratto”.

“In merito ai commenti emersi in questi interventi iniziali, vorrei esprimere il mio parere. Si parla spesso di scuola degli adulti ma gli apprendisti vengono trattati come bambini delle elementari. Ore e ore di lezione, che spaziano tra le esperienze personali del docente e materie trattate più volte durante la vita scolastica. Altrimenti si parla di “comunicazione”. Un bel concetto dove si può far rientrare qualsiasi argomento. Quando torno a casa intontita dalla marea di informazioni, poco utili, che mi sono state date mi vergogno dire ciò che ho fatto ai miei genitori che hanno speso un sacco di soldi per farmi studiare. Sembra che gli anni e gli sforzi nel cercare di migliorare la mia cultura, non siano serviti a nulla e si debba quindi ritornare alle

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elementari L’idea del libro mi sembra molto ambiziosa, ma poco fruttuosa” .

“Non penso che a molti interessi la nostra situazione di giovani apprendisti”.

“In realtà queste ore potrebbero venire usate per trattare argomenti maggiormente pratici rispetto a quelli fin’ora trattati come : finanza, cucina, salute etc… “

“Se mi trovassi a dover scrivere su questo libro vorrei scrivere di come il corso di apprendisti neghi alcuni diritti basilari dei lavoratori”.

“Non è giusto che se sono in mutua io debba venire a recuperare le ore di corso perse. Sarebbe come se il mio datore di lavoro mi chiedesse di lavorare la domenica perché il mercoledì sono stata malata”.

“Le lezioni frontali che abbiamo ricevuto durante le ore passate personalmente non mi hanno lasciato nulla mentre vorrei concludere anche una sola giornata di questo corso con la certezza di aver imparato qualche cosa di nuovo che potrò sfruttare ora o nel futuro”.

“Capisco che trovare degli argomenti che possano coinvolgere tutti sia difficile, ma parlando tra di noi abbiamo concluso che temi come sapere le caratteristiche dei fondi pensione o il Tfr o come investire il proprio stipendio, siano interessanti per tutti”.

“Auspico lezioni in cui si possano invertire ruoli, cioè che ogni apprendista possa raccontare il proprio lavoro o

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anche una propria passione e che, se si hanno dei problemi, si possano affrontare con il confronto, anche con l’aiuto dei professori, che hanno più esperienza di noi. In questo modo qualcuno potrebbe imparare ad affrontare l’imbarazzo di parlare in pubblico, cosa non certo facile”.

“L’iniziativa di scrivere un libro è una cosa positiva. Sarebbe utile raccogliere idee e opinioni di ogni apprendista. Scoprire e far scoprire soprattutto al mondo degli “adulti” come pensano i giovani che sono il futuro del paese. Fare conoscere e far raccontare le problematiche quotidiane della gente che magari non viene presa in considerazione come coloro che vengono esclusi dalla società”.

“Secondo me il corso di apprendistato non è utile nel modo in cui viene affrontato. Prima di iniziare questo corso mi sarei aspettato di poter imparare cose utili per il mio tipo di lavoro, oppure affrontare argomenti utili per il futuro di noi giovani. Sarebbe anche utile fare lavori di gruppo affinché tutti possano interagire, inclusi i più introversi e rispolverare nozioni affrontate durante il periodo scolastico come per esempio le lingue che possono servire in qualsiasi caso”.

“Il lavoro relativo al corso che stiamo frequentando reputo che sia interessante, ma più per gli addetti ai lavori che per i finanziatori. Per noi apprendisti è sicuramente un’opportunità di apertura ad un mondo per molti nuovo, che consente di esprimere le proprie idee e i propri pensieri, positivi o no che siano. Per quanto riguarda il corso in sé, ho trovato lezioni interessanti e altre meno, perché meno

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inerenti ad una professionalizzazione da raggiungere. Sicuramente possono essere adottate delle modifiche e magari cercare di coinvolgere di più i ragazzi permettendo loro di esprimersi ed aprirsi di più su tutti gli argomenti, che dovrebbero essere più attuali ed abbordabili”.

“Reputo necessaria, in una fase politica ed economica così delicata, trovare il modo ed il tempo di dedicarsi alla stimolazione delle nuove menti creando autostima ed ambizioni in lavoratori che faticano a trovare uno spazio e ad emergere in un mondo basato sulle raccomandazioni, sui favori e su una classe dirigente piuttosto attempata”.

“I giovani sono e saranno il futuro dell’economia e devono essere sostenuti per far si che credano di più in ciò che fanno e pensano”.

“Trovo che il lavoro di stesura di un libro che riporti i nostri pensieri sia una buona idea, ma più per noi che possiamo trovare fiducia in noi stessi e verso gli altri e carpire nuove idee potenzialmente utili al nostro futuro”.

“L’apprendistato può essere una cosa molto preziosa, ma può anche rappresentare un’opportunità data alle aziende per pagare meno contributi e avere più vantaggi. E’ proprio quest’ultimo aspetto che bisognerebbe modificare cioè cercare di identificare in questa opportunità un qualcosa che possa permettere al giovane apprendista una crescita sia professionale che culturale”.

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“Per arrivare a questo risultato bisognerebbe, nel caso fosse possibile, dividere il corso per settori, cioè con apprendisti che svolgono lo stesso mestiere o almeno uno simile e quindi di conseguenza si può discutere di argomenti che toccano tutti, dai problemi che uno ha in azienda confrontandosi con gli altri e magari per risolverli”.

“Consapevole del fatto che l’attivazione di un corso di apprendistato sia obbligatorio e debba includere molti lavori, ritengo che la poca concretezza degli argomenti sia inutile . Molti argomenti trattati sono senz’altro interessanti e mi ha fatto piacere risentirli (poiché molti già li ho studiati a scuola) purtroppo però, alla fine della giornata, mi sembra di non aver aggiunto niente di soddisfacente al mio bagaglio”.

“Personalmente ritengo che tutto serva, ma a questo punto della mia vita, riesco a capire cosa può servirmi di più o di meno . Mi piacerebbe poter condividere la mia preoccupazione sul dopo-apprendistato poiché, purtroppo mi pare di aver capito che per la maggior parte dei datori di lavoro è solo un modo per risparmiare ma non per introdurre a poco a poco le persone nell’economia dell’azienda”.

“Nel mio caso le cose non sono così estreme (assunto o no) ma l’incertezza che la mia ditta vada avanti e non subisca questa crisi economica e quindi mi sento di dover chiedere come posso far fronte ai problemi dell’imprevisto e dell’incertezza sul futuro. Insomma se l’apprendista di oggi, domani sarà un lavoratore cosa deve

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prepararsi ad affrontare? La pensione, la famiglia il potersi o meno comprare casa o anche solo un’auto sono problemi che tutti i giorni, oggi e in futuro, ci troviamo di fronte senza avere le certezze (anche piccole) che si avevano negli anni scorsi. Non spero di fare un dibattito su come la pensano i miei compagni ma mi piacerebbe avere delle basi concrete ( politiche, sociali sulle leggi ) che mi aiutino a ragionare e a prendere decisioni”.

“Dovendo combattere contro la mancanza di tempo a disposizione credo che queste ore di corso siano molto utili per molte cose”.

“Parlando del tipo di insegnamento a cui è soggetto l’apprendista stesso rispetto al lavoro che svolge, non so se si possa chiamare formazione professionale dato i temi di cui si discute”.

“In verità, credo che lo spirito con cui era nata la legge sull’apprendistato fosse nobile, ma purtroppo non si è concretizzato in qualche cosa di utile. Si è travisato il significato come fosse una speculazione sul risparmio del costo di manodopera: l’agevolazione contrattuale (contratto a tempo determinato, che permette una troppo facile rotazione di manodopera a minor costo) prevale sulla formazione dell’individuo”.

“Aggiungendo il completo disinteressamento dei datori di lavoro al progetto, i quali per primi (in maggior parte) pensano sia uno spreco di tempo, ma comunque sopportabile perché il vantaggio economico comunque c’è”.

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“Oltre ciò gli stessi partecipanti subiscono questa formazione in modo passivo e anche malvolentieri”.

“Dopo questa introduzione, molto generica ma rappresentativa, penso che il progetto “il libro degli apprendisti “ sia un modo efficace di veicolare i pensieri di chi in effetti subisce questa “proposta sociale” (allievi e professori). Da cui sicuramente possa emergere una situazione e soprattutto si possa effettivamente valutare il prosieguo o meno della stessa legge”.

“Anche se impossibile proverei a mandare un controllo in tutti i posti di lavoro. Vorrei capire se di tutte le leggi che ci sono se ne rispetta una, e vorrei vedere se quello che non si rispettano toccano di più al datore di lavoro o al dipendente”.

“Vedo le ingiustizie che mi camminano di fianco”.

Le pagine che seguono sono

state prodotte nelle ore di

corso.

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Storie di apprendisti

“Vengo da un paese lontano. Sono il figlio di una delle tre mogli di mio padre. Un mio nonno aveva quattro mogli, ovvero il numero massimo di mogli conviventi contemporaneamente sotto lo stesso tetto coniugale. Ho due fratelli nati dall’unione di mio padre con mia madre. Mio padre, non ha avuto figli dalle altre due mogli. Ho frequentato, oltre le scuole del mio paese, la scuola italiana e adesso lavoro. Due anni fa, in uno dei viaggi nel mio Paese mi sono sposato. Ho sposato una mia cugina. E’ importante che la prima moglie sia una parente perché in questo modo non si perde la linea del sangue. Avevo un’altra ragazza, ma l’ho lasciata perché i genitori di mia moglie ed i miei, da tempo avevano combinato il nostro matrimonio. E’ normale, per noi, che la prima unione tra uomo e donna, sia combinata dai genitori. Tra i nostri modi di fare esiste un assoluto rispetto della volontà dei genitori. A maggio di quest’anno sono diventato padre. Un figlio che non ho ancora visto. Mia moglie e mio figlio vivono con i miei genitori, gli altri due fratelli, le loro mogli e i loro figli. Tutti assieme, in una grande casa, in un paese di campagna. Un mio fratello ha due mogli e sette figli. L’altro fratello, per ora ha una sola moglie. Ogni donna di casa ha la sua stanza. Tutte le altre stanze sono in comune. Le donne si occupano dei lavori domestici e allevano i figli. I maschi lavorano i campi e curano il bestiame. Il mio Paese ha una Costituzione e ci sono anche regole religiose. Secondo la mia religione che, nel mio Paese, è la più diffusa, l’uomo ha il diritto di sposarsi e convivere contemporaneamente con quattro donne. Mentre la religione non concede alle donne lo stesso

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diritto. La Costituzione del mio Paese invece si rifà ai Diritti dell’uomo e pertanto impone stessi diritti e doveri per l’uomo e la donna. La mia religione impedisce, inoltre, all’uomo ed alla donna sposati di avere rapporti sessuali fuori del matrimonio. La condanna di chi viola la regola consiste in cento bastonate che vengono somministrate sulla piazza del paese. Ogni abitante si munisce di un bastone e partecipa con una sola bastonata. Anche se questa regola non è consentita dalla nostra Costituzione. In pratica per tutti quelli della mia stessa religione la legge di Dio viene prima della Costituzione del mio Paese”.

“Intanto come mi comporto al corso non è come mi comporto fuori dal corso. Al corso mi annoio. Sul lavoro mi muovo, al corso sto fermo e non mi passa la giornata. Forse tutto questo incomincia con la mia storia di molto prima che incominciassi a lavorare. Preferivo, da bambino, andare a lavorare i campi con i miei genitori. Sono nato e vissuto fino a 14 anni in Romania. A scuola andavo perché ero obbligato. Ho frequentato le scuole fino a 18 anni. Fino a 14 anni stavo attento alle lezioni che mi piacevano, ma non ho mai studiato a casa. Solo una volta ho letto il titolo di un libro che doveva servirmi all’esame di terza media, ma l’ho subito lasciato al suo posto. Oltre il titolo del libro non sono andato. Mi bastava ricordare quello che sentivo in classe. All’esame di terza media sono passato con il sette. Mi piaceva una sola materia: la geografia. All’esame ho fatto quello che sapevo e bastò. Lingua , matematica e geografia furono le materie dell’esame e per superare l’esame bisognava ottenere almeno 5 di voto per ogni singola prova. I miei mi sgridavano perché non studiavo. Ma io ho continuato a non studiare.

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Adesso ho venti anni, non leggo libri perché non ho tempo, ma se avessi tempo comunque leggerei soltanto i giornali. Non leggo i libri perché è un impegno che sono certo di non portare fino alla fine. E sono certo di non leggere fino alla fine un libro perché faccio fatica a stare fermo e non sono abituato a leggere perché non ho mai letto. E anche leggere un giornale, che comunque mi sembra di poter preferire al libro, lo considero una perdita di tempo: preferisco passare questo tempo con i miei amici. In Italia ho studiato in una scuola professionale dove in pratica ho imparato la lingua italiana e in questa scuola la maggior parte del tempo era lavoro e non studio. Io in pratica penso che studiare sia una perdita di tempo. Per me la scuola è una perdita di tempo. Farsi mantenere dalla famiglia per andare a scuola e non studiare significa perdere tempo e soldi”.

“Il mestiere di vivere, cos’è?”

Il mestiere di vivere è lavorare, avere una famiglia, avere una casa dove stare, avere amici, non sentirsi soli, fare tutto quello che vuoi fare. Il mestiere di vivere non è mai soltanto un lavoro manuale, ha bisogno di molta testa. Bisogna saper comunicare con tutte le parole che hanno tutti gli altri con cui si comunica, bisogna essere informati e non bastano né i telegiornali, né i giornali radio, né i giornali. Bisogna forse approfondire i pensieri dell’uomo. Aver la capacità di leggere documenti che non sono soltanto informazioni giornalistiche. Bisogna usare molto il cervello, quello che per molti lavori sembra non sia così importante. Per molti lavori usiamo il nostro cervello più pratico, impariamo facendo e il fare, spesso, è manualità. Il mestiere di vivere è certo un

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fare, ma non si può vivere senza usare tutte le capacità della nostra persona. Noi siamo persone nelle misura in cui abbiamo idee e pensieri che ci consentano d’agire e soprattutto di sentirci non ospiti svogliati di una comunità, ma protagonisti.”

“La vita non ci offre niente, se non il viverla”.

“Sta a noi scoprire quello che la vita ci offre, ma per questa scoperta serve essere persone capaci di usare tutte le abilità fisiche e mentali che ci appartengono”.

Riflessioni sugli argomenti dei corsi

“Forse l’antropologia se ha un merito è quello di raccontarci quanto nell’uomo civile abiti l’animale uomo. Possiamo chiederci se conoscere quanto in ognuno di noi abiti anche al nostra dimensione animale possa servire a volerci più bene? Se le persone aiutate proprio dalla lettura di qualche testo divulgativo d’antropologia maturassero questi pensieri, ovvero l’idea di essere ciascuno di noi un animale culturale, , forse potrebbe per qualcuno essere un aiuto in più per vivere. In pratica l’antropologia insegna a prendere le distanze da sé. E’ una sfida della mente perché bisogna non lasciarsi coinvolgere sul piano delle emozioni e della partecipazione personale. In pratica l’antropologo deve prendere le distanze da se stesso”.

“Chi legge un libro di antropologia deve immaginarsi altro dall’uomo che sta studiando. Deve rappresentarsi come fosse uno zoologo che studia un lombrico. Il problema forse è quello che finita la scuola pochi hanno tempo e voglia di

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prendere dei libri in mano. E se è già difficile leggere libri di narrativa forse le difficoltà aumentano se le letture ricordano di più materie scolastiche come in genere sono i temi delle collane di saggi, la saggistica. L’evoluzione dei primati e in particolare dell’uomo, la genetica delle popolazioni, la biologia molecolare, la neurobiologia, l’evoluzione del cervello, le emozioni, l’emergere della coscienza, l’emergere delle capacità cognitive, le origine dei pensieri magici, la preistoria e l’arte, l’origine del pensiero simbolico, i simboli, l’emergere del pensiero filosofico, scientifico e teologico e infine l’indagine sugli studi di popolazioni preistoriche attuali, sono i temi che servono per costruirci questi personali strumenti di conoscenza di noi stessi. Noi abbiamo seguito un percorso per conoscere una disciplina scientifica e, caso mai, farne un apprendimento per orientarci ad analizzare, come se uscissimo dal nostro corpo per osservarci, i motivi che ci portano ad assumere determinati comportamenti, a prendere determinate decisioni e in generale ad analizzare il perché viviamo così”.

“Sono state ore dedicate ad uno studio empirico sulle possibilità che ognuno di noi ha di prendere le distanze da sé, analizzarsi senza lasciarsi coinvolgere né da emozioni personali, né dal bisogno di trovare personali giustificazioni”.

“Forse siamo andati alla ricerca di strumenti per costruirci delle difese dall’ansia del vivere, nei momenti in cui l’ansia potrebbe assalirci”.

“Certo che potremmo star più tranquilli. Perché chiedersi “come viviamo, perché viviamo”? Viviamo poco, se

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va bene adesso sfioriamo gli ottanta anni, quindi perché affannarci tanto. Perché dobbiamo preoccuparci dell’ansia di vivere. Io vivo alla giornata”.

“Penso che valga vivere alla giornata anche davanti a situazioni impreviste e gravi, perché ritengo che tutto, salvo la salute, sia risolvibile anche partendo dalle situazioni più difficili. Questo lo scrivo anche se mi rendo conto di avere appena e per fortuna ventiquattro anni. Un giovane adulto con sei anni di lavoro. Fino adesso mi sono arrangiato secondo questa mia filosofia di vita. E per questo non mi sembra che l’antropologia mi possa servire”.

Cultura e politica

“Poiché è fondamentale definire dei termini, noi definiamo la cultura come tutto ciò che l’uomo fa”. “Intanto incominciamo a non scrivere di politica. E di gossip politico. Anche se è un incominciare escludendo temi fondamentali per capire la cultura di un popolo”. “Forse non si vuole parlare della politica che sentiamo lontana dai nostri bisogni, come se non ci appartenesse”. “Ma può esistere una politica che non appartiene ai cittadini?”

“Intanto cos’è la politica? Avere un problema e trovare soluzioni condivise è fare politica”. “Quindi non parlare di politica che politica è?” “ Rispondere “siamo stufi della politica” che risposta politica è?” “Forse siamo soltanto confusi e a confonderci ci pensa il sistema dei mass media”.

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Pubblicità e mass media

“Le informazioni pubblicitarie che in fondo ci invitano a comperare sembra siano consigli per circondarci di cose utili o al limite cariche di piaceri. In fondo la pubblicità sembra ci voglia bene. Anche se spesso ci mette in testa delle strane idee, quasi ci crea dei bisogni che non abbiamo, ma che una volta creati sembrano bisogni primari”.“Le automobili ad esempio, ed in particolari quelle che costano di più sono diventate, oggetti che vanno oltre la soddisfazione del bisogno di ridurre il tempo degli spostamenti che accorciano le distanze. Offrire beni che impongono impegni economici forse sproporzionati al servizio che offrono significa creare una catena di comportamenti economici che se non calcolati possono creare difficoltà a chi compra. Beni di questo tipo promuovono la rincorsa ad accedere a classi sociali la cui esistenza può portare a squilibri economici e sociali di una comunità. Vendere beni di lusso e promuoverli attraverso pubblicità seducenti forse promuove, anche senza volerlo, una politica che tradotta nel modo più semplice e comprensibile ci fa scrivere: “ i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri diventano sempre più poveri”.

“In fondo abbiamo analizzato uno scenario del gossip, le automobili lussuose, come fosse un film di Natale, ma alla fine siamo arrivati alla realtà dei poveri.”

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Noi siamo le parole che usiamo

“Incominciamo a raccogliere le nostre parole di questo testo. Parole singole o brevi frasi. In pratica le prime gocce delle nostre idee.

“Siamo proiettati nel mondo “degli adulti”. Nessuno però mi consiglia, mi informa, in pratica devo fare tutto da solo. Ma alla sera alle nove sono stanco. Idee di gestione economica, consigli per saperci amministrare. Accumulo del lavoro della giornata persa e perdita di tempo seppur pagata (il corso di apprendistato). Il corso di apprendistato come uno spreco di fondi pubblici. Altamente penalizzante (il diritto di formazione come è svolto nell’apprendistato). Una scorciatoia per il datore di lavoro. Utile raccogliere idee e opinioni. Il futuro del paese. Una professionalizzazione da raggiungere. Coinvolgere di più. Fase politica ed economica così delicata. Stimolazione delle nuove menti. Autostima ed ambizioni in lavoratori. Fatica a trovare uno spazio. Fatica ad emergere. Un mondo basato sulle raccomandazioni, sui favori. Una classe dirigente attempata. I giovani credano di più in ciò che fanno e pensano. Un’opportunità data alle aziende per pagare meno contributi e avere più vantaggi. Una crescita sia professionale che culturale. Discutere di argomenti che toccano tutti. L’esperienza. Obbligatorio. Poca concretezza degli argomenti. Niente di soddisfacente. Riesco a capire cosa può servirmi di più o di meno. Poter condividere la mia preoccupazione sul dopo-apprendistato. Come posso far fronte ai problemi dell’imprevisto e dell’incertezza. La pensione, la famiglia il potersi o meno comprare casa o anche solo un’auto. Avere delle basi concrete ( politiche, sociali sulle

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leggi ). Basi che mi aiutino a ragionare e a prendere decisioni. Mancanza di tempo. Sgravio fiscale di cui ha diritto il titolare. Formazione professionale e i temi di cui si discute. La possibilità a chi lo esercita in modo passivo. Avanzare nella società. Costruirsi quindi una propria indipendenza. Legge sull’apprendistato fosse nobile. Travisato il significato. Una speculazione sul risparmio del costo di manodopera. L’agevolazione contrattuale prevale sulla formazione dell’individuo. Disinteressamento dei datori di lavoro. Gli stessi partecipanti subiscono. Modo efficace di veicolare i pensieri. Subire questa “proposta sociale”. Di tutte le leggi che ci sono se ne rispettasse una. Sentire i nostri titolari lamentarsi. Le mie idee vorrei tenerle per me. A me fanno soltanto venire il nervoso. Le ingiustizie che mi camminano di fianco. È una mangeria di soldi come tutto in Italia. Non mi rompete il c***o”.

I doveri ed i diritti nell’apprendistato

“Cerchiamo di scrivere riflettendo sulle nostre esperienze reali di apprendisti.”

“Riteniamo un dovere umano quando la legge scrive “comportarsi correttamente con quanti operano nell’azienda”.

“E’ strano però che molte volte quello che si ritiene un dovere umano in azienda non venga altrettanto applicato nei corsi di formazione esterna. Forse l’unica cosa che si cerca di applicare nella formazione esterna è la nostra frequenza”.

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“Ad esempio, in questo momento, mentre stiamo scrivendo assieme questo testo, alcuni stanno ridendo, stanno fregandosene degli altri che invece cercano di impegnarsi nel non facile compito di scrivere assieme. In questo noi apprendisti usciamo dal rispetto di un nostro dovere. E poiché nell’apprendistato la legge assegna alla formazione il valore di attività preminente noi e non i nostri datori di lavoro ci stiamo ponendo fuori legge”.“Alcuni ritengono che nella formazione esterna i diritti si fermino ai momenti di pausa o alla voglia di qualcuno di tornare bambino. Queste situazioni ci pongono ai margini dell’età adulta e forse chi fa così occupa un posto ad un apprendista che adesso è disoccupato e invece avrebbe la maturità d’essere apprendista. Un giovane disoccupato con una maturità che qualcuno di noi dimostra, almeno nel corso esterno di non avere.”

Durante e dopo l’apprendistato

“Sono magazziniere in una ditta che fornisce il settore delle pulizie industriali. Il mio post-apprendistato è incominciato con la mia assunzione come apprendista. L’azienda in cui lavoro, nell’assumermi come apprendista, mi ha informato dell’intenzione di confermarmi, se si fossero verificate le condizioni, a fine apprendistato, come dipendente a tempo indeterminato. Il mio lavoro comporta una alta capacità di memorizzazione. Devo gestire un magazzino con oltre 2500 articoli. Lavoro, in questa ditta da due anni, e non c’è voluto poco per imparare il mestiere. C’è voluto più di un anno. In pratica il mio primo apprendistato è durato questo tempo. Il mio continuare nella condizione di

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apprendista, attualmente consente di perfezionarmi e consente all’impresa, che poi mi confermerà come dipendente a tempo indeterminato, di risparmiare in termini contributivi nel periodo che continuerò ad essere apprendista. In pratica sia io che la ditta che mi ha assunto stiamo investendo sul nostro futuro. Io perché mi preparo a diventare dipendente, la mia ditta perché ha deciso di contare sul mio futuro come suo dipendente”.

“Inoltre, poiché ho frequentato una scuola alberghiera, e soprattutto perché mi piace fare il cuoco, mi riservo ogni tanto, nel tempo che non sono occupato dalla mia professione, dei momenti, retribuiti, e mi dedico alla preparazione di pranzi e cene presso ristoranti della mia zona. In fondo il mio dopo-apprendistato può contare su due risorse: il lavoro che adesso è quello del mio contratto di apprendista e quello di cuoco che esercito nel tempo che sottraggo al mio tempo libero”.

“Il mio apprendistato è iniziato perché il titolare dell’azienda voleva assumere una persona per insegnargli il mestiere. Per le agevolazioni fiscali mi hanno assunto come apprendista. In pratica ho iniziato sapendo che se avessi confermato, nelle prime settimane del mio lavoro, le aspettative aziendali avrei continuato come apprendista fino alla mia assunzione come dipendente a tempo indeterminato. Ho incominciato come disegnatore CAD. Nel tempo si sono verificate le condizioni di soddisfazioni reciproche tra me e l’azienda in cui lavoro. Sono già passati tre anni dall’inizio del mio apprendistato e in questo tempo si è verificata anche l’opportunità di scegliere, dopo il mio

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periodo di disegnatore, se continuare ad essere disegnatore o passare ad attività d’ufficio. Con il titolare ho deciso di passare alle attività d’ufficio. Il mio dopo apprendistato sarà come dipendente in questa azienda. Dove in questi anni di lavoro d’ufficio ho ampliato l’ambito delle mie attività”.

Il lavoro

“Secondo la mia impressione l’articolo 1 della Costituzione vuole associare forzatamente il lavoro al concetto di diritto imprescindibile dell’uomo. Purtroppo allo stato attuale delle cose, il lavoro è invece visto (soprattutto dalle nuove generazioni) come una faticosa conquista o uno “status” che si raggiunge stabilmente solo a metà del proprio cammino di vita .

“Nella maggior parte dei casi, inoltre, con l’eccezione di alcune professioni “ di nicchia” (medico, infermiere, ingegnere, economista, professioni informatiche); un percorso universitario basato sulle predilezioni personali (esempio materie umanistiche o artistiche) non garantisce assolutamente di trovare il lavoro per cui si studia o ci si specializza con tanti anni e con tanto impegno e sacrificio”.

“Perciò il giovane appena uscito dall’università o dalla scuola specialistica, in molti casi non trova un impiego soddisfacente al proprio campo di studio ed è costretto a fare tutt’altro con propria gran frustrazione e conseguenti lamentele esistenziali. Teoricamente e sulla carta quindi, ognuno di noi può seguire la tipologia di studi e la crescita culturale che più trova congeniale ( ci dice così la

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Costituzione), ma di fatto è cosa molto più saggia attenersi a quello che il mondo del lavoro richiede per non creare generazioni di frustrati intrappolati in un impiego che odiamo (concetto di lavorare solamente per mangiare)”.

“Penso che la parola lavoro nell’art.1 della Costituzione si possa intendere come operosità di ogni individuo all’interno della repubblica stessa e che s’intreccia come un tessuto fino a formare una tela”.

“Dato che passiamo più tempo a lavorare che altro penso che dovrebbe essere una cosa che ci soddisfi e rilassi. Purtroppo a volte, per svariati motivi, ci si trova in un posto bello, a fare un lavoro molto soddisfacente e anche interessante e perché no? Mah, certe persone possono far diventare un posto e un lavoro bello in sé un vero e proprio inferno in un batter d’occhio. Purtroppo mi trovo in una situazione del genere, un posto dove regna l’ignoranza, l’ipocrisia, la mancanza di considerazione e l’abbondanza del voler far vedere che “sono più di te” (in realtà siamo tutti uguali, o almeno credo)”.

“Noi apprendisti, siamo dei privilegiati, perché intanto non siamo disoccupati, siamo entrati nel mondo del lavoro, e dobbiamo essere molto seri con noi stessi perché ci vuole poco per perdere questo privilegio. Basta che la nostra azienda incontri difficoltà economiche ed oggi c’è una pesantissima crisi mondiale e nazionale. Anche se lavorare non dovrebbe essere un privilegio, perché chi deve rendere applicabile questo articolo dovrebbe almeno essere serio quanto lo siamo noi.”

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“In questo momento come sinonimo di lavoro mi viene in mente “stress psicosomatico”.

“Fino al 2009 la mia idea di lavoro era tutta un’altra. Poteva essere uno svago o divertimento pagato. Il significato della parola lavoro può variare da un posto all’altro”.

“Il lavoro è diventato per noi un grande bisogno, perché è il conseguimento dei mezzi che ci permettono di avere tutte le cose di cui abbiamo bisogno”.

“Il lavoro è un diritto ed un dovere, è un modo per crescere e sentirsi responsabili. Occupa gran parte della mia giornata e mi distoglie dai brutti pensieri. Quando arrivo alla sera sono un po’ stanca ma soddisfatta per quello che ho fatto e per le persone che oggi ho fatto star bene. Si è più autonomi e si affronta la vita in modo diverso”.

“Nell’articolo 1 della Costituzione Italiana si dice che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. A mio parere si intende che l’Italia è fondata sul lavoro di tutti gli italiani, ma lavoro non solo fisico, cioè lavorare per guadagnare e far girare l’economia; ma anche lavoro intellettuale, culturale, in pratica tutto ciò che può servire per migliorare il paese”.

“A mio parere la parola lavoro nella Costituzione Italiana indica le attività che l’uomo deve svolgere per avere i mezzi necessari per vivere dignitosamente, soddisfacendo pienamente le esigenze della persona

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umana. Credo che ai tempi della stesura l’idea della rinascita economica diede la certezza di poter aver lavoro per tutti, anche in settori non ancora sviluppati. Quindi basare la repubblica su questa certezza è stata la cosa più ovvia. Purtroppo con il passare del tempo è difficile riuscire a rispettare quegli ideali, perché la modernità e la “politica” del consumo hanno portato alla saturazione del mercato e quindi al fatto che non si può più produrre e pertanto si crea disoccupazione”.

“Il primo obiettivo del lavoro, per noi, è poter disporre di soldi per i nostri bisogni. La maggior parte di noi non è interessata al lavoro svolto per contribuire al bene comune. Noi andiamo a lavorare per prendere i soldi e sbattercene”.

“Spesso per lavorare accettiamo compromessi. Ed esiste una differenza tra compromessi al maschile e compromessi al femminile. Compromessi al femminile: intanto quello di non rimanere incinta. Per fortuna che le leggi tutelano la lavoratrice… Compromessi al maschile: quanto sei disposto a fare straordinari, trasferte, a svolgere attività fuori dalle personali competenze, con l’aggravante di non avere il compenso adeguato o al limite dover svolgere questi lavori gratuitamente”.

“Ma prima d’ogni altra considerazione bisogna sottolineare quanto non esista, in termini di diritti, la differenza tra il lavoro al femminile ed il lavoro al maschile, con l’aggravante, per la donna, di essere più penalizzata dell’uomo. Non per niente esistono leggi, recenti, sulle pari opportunità

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nonostante dal 1 gennaio 1948 la Costituzione equipari l’uomo alla donna”.

“Mi dicono che devo farmi un fondo pensione dedicato altrimenti a settanta anni non riuscirò neanche a fare, per Natale, un regalo al mio nipotino: duecento euro al mese per integrare la pensione futura. Vedremo come andrà a finire”.

La legge e la Costituzione

“Per noi il concreto significa vedere attraverso l’informazione televisiva o leggere sui giornali, come sono finiti molti casi giudiziari di persone con molto potere economico e politico. Sembra che l’abbondanza di denaro consenta di utilizzare i migliori avvocati. Se poi, oltre il potere dei soldi, si aggiunge il potere politico il cammino verso la libertà sembra più accelerato. Normalmente chi gestisce grandi capitali non può farlo senza né l’appoggio di collaboratori né l’appoggio di banche, se poi è anche un politico può addirittura intervenire sulle leggi e sulle istituzioni politiche pertanto può mettere in atto azioni e persone che consentono di allungare i processi fino alla loro prescrizione. Può trovare validi motivi per non presentarsi davanti ai giudici, può in pratica sembrare al di sopra delle leggi che la Costituzione invece descrive “eguale” per tutti i cittadini. Per quanto riguarda il “senza distinzioni”, oggi, pur rilevando le distinzioni che normalmente ci sono tra le persone e nonostante le difficoltà che le donne, più degli uomini, incontrano nell’affermarsi in certi settori, pensiamo che questo problema di relazioni, sia oggi, più attenuato di un tempo. Ci stiamo abituando a dialogare con persone di

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diverse etnie e culture. Per quanto riguarda “ la libertà e l'eguaglianza dei cittadini”, potrebbe essere che gli ostacoli di ordine economico e sociale dipendessero da una particolare interpretazione del concetto di libertà individuale? E se questo concetto di libertà individuale, troppo personalizzato, troppo furbo, troppo individualizzato fosse responsabile nel limitare di fatto la libertà altrui? In particolare si può anche pensare che in realtà il lavoro esista, ma non ci sia più la disponibilità, da parte dei lavoratori di accettare qualsiasi lavoro? E questa domanda poggia sulla considerazione che molti lavori rifiutati siano lavori ben accettati da chi viene da paesi lontani. Anche se forse serve approfondire la relazione tra tipi di lavoro e il diritto dei lavoratori di non volersi sentire schiavi di scelte non giustificate da un sistema politico scarsamente attento al benessere delle persone che poi sono anche lavoratori. Il lavoro deve essere dignitoso sotto ogni aspetto e non può prevalere ponendo la persona che lavora alle esigenze dei mercati di sistemi consumistici. Forse le persone più deboli, le ultime se si vuole di una odiosa scala sociale, che di certo vanno più cercate tra gli extracomunitari, sono quelle che possono ancora sopportare un lavoro comunque, come se ogni ipotesi di welfare fosse soltanto una bella favola. Come se soltanto chi lavora potesse ambire a servizi fondamentali come la sanità, la scuola e pertanto non sia più la persona “il pieno sviluppo della persona umana”, ma assuma assoluta importanza di merito, prima d’essere persona, un lavoratore. Non è forse più importante il pieno sviluppo della persona che non quei lavori per comunque lavorare che mortificano la voglia di vivere delle persone che lavorano comunque?

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“Rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti”, forse non può anche significare di evitare che le persone siano costrette a lavori non pensati per l’uomo, ma soltanto per l’idea che l’uomo sia schiavo del lavoro?”

“Tutti devono poter lavorare. E lavorare in condizioni socialmente accettabili. E invece esiste la disoccupazione, e tra i disoccupati l’enorme differenza che separa i cassaintegrati dai lavoratori in mobilità. Questi ultimi sono quelli effettivamente esclusi dal lavoro. E’ voglia di non lavorare? Domanda che forse serve soltanto a far dimenticare quanto tutti noi dobbiamo impegnarci per far si che la Repubblica promuova le condizioni che rendano effettivo questo diritto e quanto questo diritto - il lavoro - abbia in sé la forza di far venire voglia a ciascuno di noi di lavorare. Dobbiamo puntare alla relazione che deve legare il lavorare ed il piacere di lavorare perché si partecipa al lavoro e non lo si subisce. E questo sia in termini di partecipazione politica che professionale.

“Oggi, 19 gennaio 2011, viviamo due scenari collegati a questo diritto. Il primo è quello della Fiat che ha coinvolto in maniera diretta operai, impiegati e la dirigenza Fiat. L’immagine che fra tutte non ha bisogno di parole, forse è quella degli operai che litigavano tra di loro e qualcuno piangeva. E’ l’immagine di gente che sta male, ed è esclusa da ogni scenario di welfare ( benessere). Le immagini degli

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operai che piangono non devono suscitare sentimenti di commozione perché non è questo il loro significato: questi operai ci raccontano soltanto la loro fatica nel voler che venga applicato l’articolo 4 della Costituzione”.

“Noi apprendisti, siamo dei privilegiati, perché intanto non siamo disoccupati, siamo entrati nel mondo del lavoro, e dobbiamo essere molto seri con noi stessi perché ci vuole poco per perdere questo privilegio. Basta che la nostra azienda incontri difficoltà economiche ed oggi c’è una pesantissima crisi mondiale e nazionale. Anche se lavorare non dovrebbe essere un privilegio, perché chi deve rendere applicabile questo articolo dovrebbe almeno essere serio quanto lo siamo noi.”

“Purtroppo proprio in questi giorni la domanda che ci poniamo ci porta a chiederci dove sono le istituzioni che dovrebbero promuovere questi diritti”.

“Oggi, più che in ogni altra epoca, e non soltanto per “disattenzioni” istituzionali , per il singolo cittadino è più facile lasciar fare perché da generazioni siamo più allevati ad essere consumatori che cittadini. La comodità di essere consumatori dei piaceri più inutili tipici della società dei consumi sono una irresistibile tentazione. E più si è deboli, più si è tentati. E’ meglio chiacchierare di viaggi, di vacanze, di automobili, musica che preoccuparsi di diritti e meno ancora di diritti che si prefigurano anche doveri”.

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“Ovviamente essere soltanto consumatori può essere valorizzato dall’idea che <<è inutile occuparsi di diritti e doveri tanto non possiamo cambiare niente”.

“Ma non è così perché intanto basta rifarsi alla storia delle conquiste dei lavoratori. Oggi, ad esempio, l’apprendista è un giovane tutelato. Se non esistesse la legge sull’apprendistato, pur con tutti i suoi errori applicativi, chi di noi lavorerebbe?”

L’indifferenza, ovvero come mai tutti i giorni ce la prendiamo nel c**o e ce ne sbattiamo le b***e?

“Mia figlia ha due anni, due anni e qualche mese. Mi piace, quando torno dal lavoro prendermi un po’ di tempo per giocare con lei. E così sono coricato per terra nel soggiorno, sopra un tappetino di Cenerentola a preparare la pappa ai bambolotti di pezza. Provo un leggero dolore sulle spalle e sulla schiena, quasi gradevole, la giornata è finita. Sollevo un po’ la testa e la guardo andare e venire, su e giù con il mestolo in mano. Quanto è cresciuta, sembra spensierata. A pensarci bene non lo è affatto, basta pensare a tutte le fantasie chimeriche e inverosimili farneticazioni che invadono la loro testa. Pare vivano una realtà parallela alla nostra, dove il loro proprio pensiero è la regola alla quale sottostanno i fatti. Se ad esempio un giocattolo è rotto e si rivolge soltanto una semplice domanda “ma hai rotto la macchina blu?” la risposta può essere sconcertante: “No”. “Ma allora chi l’ha rotta?” “Non è rotta”.

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“Sembrerebbe una bugia, ma non lo è, almeno non in senso letterale. Crede veramente che non sia rotta, il fatto è troppo angosciante, la realtà non è come la vorrebbe e allora la cambia, la altera, la rende accettabile, il problema viene annientato alla sua base, negandolo. Intanto lei continua a cucinare, oggi polenta e carote per tutti, la assaggio, e le dico che è venuta proprio buona, intanto sento un profumino già noto, inconfondibile e le rivolgo la domanda scontata: “Hai fatto la cacca tesoro?” “No”. Ci risiamo. “Guarda che se non ci cambiamo ci bruciamo il sederino. Sai?” “Non ho fatto la cacca”. Il fatto sembra innegabile, ma lei non vuole smettere di cucinare, è in una grande cucina, piena di pentole brulicanti e i commensali aspettano di essere serviti. Un cambio di pannolino, una interruzione arbitraria di questa piacevolissima realtà alternativa è inaccettabile. Cerco di non arrabbiarmi imparerà.

Noi, adulti, invece non abbiamo più due anni, siamo cresciuti e non abbiamo più una macchina blu, né pentolini, né bambolotti di pezza. Siamo andati oltre. Abbiamo cambiato giochi,cambiato giocattoli. Ce li comperiamo noi i nostri giocattoli, giocattoli per bimbi grandi. Anche i giochi sono diversi. Giochi per bimbi già cresciuti, giochi collettivi e complicati.

E se qualcuno ci chiede: “Ma tu vai a votare?” . Può succedere che le parole siano: “Non me ne frega niente della politica”, “Sai i diritti che hai?” “Tanto non cambia niente, sono tutti ladri, mi faccio gli affari miei, il lavoro c’è, basta averne voglia” “I sindacati?” “I giornali?” “Non mi interessa,

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grazie”. La merda ci sta bruciando il culo, siamo troppo presi dai nostri giocattoli nuovi per fermarci a pensare, per agire. Questa volta non viene mammina a cambiarci il pannolino, questa volta ci bruciamo vivi. Non abbiamo più due anni.”

I soldi

“Forse il lavoro c’è, mancano i soldi per pagarlo. Bisognerebbe forse diminuire dei costi ad incominciare dai parlamentari. Esiste poi, soprattutto per i giovani che devono incominciare a lavorare, oltre il problema della mancanza dei soldi, anche quello che è difficile trovare lavoro se non si hanno le conoscenze che servono”.

“In Italia si osservano comportamenti tra loro incoerenti. Si parla di crisi ma nonostante tutto, all’apparenza, i consumatori frequentano i centri commerciali tanto che non sembra un momento di crisi. Nei momenti di crisi si taglia il superfluo, ma forse oggi abbiamo così ecceduto nel superfluo che comunque il consumatore compra. Non saranno più due carrelli, ma uno solo, ma comunque il consumatore compra. Calando i consumi della metà, poiché comunque si comperava troppo, forse può sembrare che il consumo regga come se non esistesse la crisi. Forse si sta saturando un circolo vizioso che nel tempo porterà a chiudere le aziende del superfluo e a seguire forse le altre, perché intanto si instaura a cascata il sistema consumo- occupazione”.

“È strano, comunque che negli ultimi anni, soprattutto quelli della crisi i centri commerciali abbiano proliferato. Anche se il vantaggio dei centri commerciali è

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l’abbattimento dei costi. I discount ad esempio portano avanti la politica di un alto contenimento dei costi. Una volta forse erano anche pieni i negozi degli alimentari. Oggi i negozi degli alimentari quasi non ci sono più. In pratica la piccola distribuzione è scomparsa. E i centri commerciali occupano il posto delle piazze di paese o anche delle città del tempo in cui non esistevano grandi centri commerciali. Ovvero molta gente va nei centri commerciali anche soltanto per vedere le vetrine o chiacchierare come se si trattasse di una gita fuori porta e non compra”.

“Mettersi dei soldi da parte per comperarsi la casa e la macchina. Una rapina? Rubare alle banche? Vincere al superenalotto? L’illegalità fornisce ottime scorciatoie anche per la galera”.

“Comperare una casa significa spendere oggi almeno 200.000 Euro. Un apprendista guadagna 800 euro al mese. Per vivere gli servono, se vive da solo, 300 Euro per l’affitto, 100 Euro per la benzina, 50 per la palestra, 200 euro di bollette e a questo punto poiché posso dover anche pagare rate per l’automobile e mangiare devo per forza rimandare il risparmio per la casa. Se invece si vive con i genitori si risparmia per sé e intanto si può dare una mano in casa. E poi ci sono quelli che dopo gli studi universitari continuano a vivere con i genitori perché stentano a trovare un lavoro o comunque guadagnano troppo poco in relazione all’età che spesso non è più giovanissima. In realtà quasi tutti viviamo con i nostri genitori, perché vivere da soli è quasi impossibile. Un’altra strada è quella di superare il

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momento dell’apprendistato e mettere assieme due stipendi, in pratica si incomincia a vivere in due. Caso mai soltanto amici che condividono le spese dell’alloggio e della vita quotidiana. Altro dal vivere come coppia”.

“Se si incomincia la vita di coppia si uniscono due stipendi, quindi si abbattono i costi fissi individuali del 50%. A questo punto lo stipendio non è più quello dell’apprendista e pertanto si può ipotizzare un’entrata mensile di 2.500 euro. Aumenta la metratura dell’alloggio ma si risparmia sul resto. Si può incominciare se si rimane soltanto in due a predisporre un risparmio mensile. Il risparmio significa rinunciare forse a qualche piacere”.

“Facciamo un bilancio mensile. Affitto 400 €; luce, acqua 50 €; riscaldamento 70 €; spese condominiali 70 € ; telefonia 60 € ; ass. bollo automobile 50 € ; benzina 100 € ; alimentazione 200 €; varie piacevoli 200 €; imprevisti 100 €; vestiti, scarpe, parrucchiere 200 €. Totale 1500 € circa. Si risparmiano 1000 euro al mese? Ovviamente sono calcoli che vanno posti in relazione alle caratteristiche socioeconomiche di un territorio (paese, cittadina, metropoli, centro, periferia etc..) e nel nostro caso il calcolo è stato effettuato considerando una realtà a costi quasi minimi. Se si risparmiano 1000 euro al mese ci vogliono 200 mesi per accumulare 200.000 euro. Circa 17 anni. Se, vivendo in coppia, arriva un figlio, il risparmio si riduce, ipotizziamo del 50%, pertanto gli anni per risparmiare i soldi di una casa da 200.000 euro da venti anni passano a

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quaranta. Tutta la vita lavorativa. Se i figli diventano due, tre le cose si complicano ulteriormente”.

Il riconoscimento delle personali capacità lavorative

“Adesso sono operaio in una vetreria. Il mio lavoro precedente era quello di saldatore. E prima ancora lavoravo in una azienda alimentare e mi occupavo del confezionamento. Tre lavori differenti. Vengo da uno Stato estero e prima del mio primo lavoro ho imparato l’italiano a scuola, in Italia, e aiutando mio papà al mercato”.

“Il mio primo lavoro, confezionare prodotti alimentari, non mi ha creato competenze tecniche per il lavoro che ho fatto dopo anche se confezionare prodotti alimentari con il ritmo imposto dalla catena di confezionamento ha cambiato le mia abitudini nel gestire il tempo di lavoro. Mi sono adattato a dei ritmi di lavoro per me pesanti, ma in sei mesi ho sperimentato che posso adattarmi a un cambiamento insolito per la mia cultura di appartenenza. Ed ho imparato a stare e mettermi in relazione con altri miei colleghi di lavoro. Un’altra lingua, molto concreta, altri modi di fare e compiti da svolgere che dovevo soddisfare mettendomi in relazione con il mio capo turno. Ed ero apprezzato, tanto che i miei datori di lavoro volevano tenermi. Il mio secondo lavoro era completamente differente. Ho imparato a saldare lamiere per le navi. Ho imparato nei miei due anni di lavoro il mestiere di saldatore. Un mestiere che mi piaceva. Ho imparato a tagliare il ferro a predisporre il materiale per la saldatura e a saldare a filo continuo. Inoltre ho imparato a guidare il muletto e un

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vocabolario di nuove parole tecniche. Sono andato via e non ho capito se sono stato apprezzato. Avevo male agli occhi, non ce la facevo più. Il mio ultimo lavoro in vetreria è incominciato tre anni fa. Ho imparato diverse cose. Sono stato magazziniere, quindi sono passato al lavoro sul vetro. Ho acquisito abilità nel molare il vetro. Un lavoro delicato fatto con notevole sensibilità manuale che deve controllare l’uso della mola con l’acqua. Quindi ho imparato a sabbiare a mano, a lucidare, a temperare il vetro, a stampare e a lavare. E tutte queste abilità le uso quotidianamente perché mi sono adattato a tutti i tipi di lavoro della mia attuale ditta. Nel tempo ho verificato, con il mio lavoro alla catena del confezionamento la mia capacità di adattarmi ad un ritmo elevato di lavoro in modo da non fermare il lavoro di chi mi precedeva. Non mi immaginavo di saper gestire il tempo in questo modo. Un lavoro pesante, per me, a cui mi sono adattato per un lungo tempo. Fare il saldatore invece mi ha consentito di sperimentare cosa significa essere preciso e attento per arrivare a consegnare il lavoro finito secondo determinate regole di produzione. E questa prima esperienza di precisione sul lavoro è stata la scuola che mi è servita per lavorare su un materiale così delicato come il vetro. Il lavoro che ho svolto e che mi ha sempre consentito di intrattenere buoni rapporti con i miei colleghi e i miei datori di lavoro e l’ esperienza che ho maturato nel lavoro forse mi consente di dare ai più giovani apprendisti alcuni consigli: il primo è essere molto attenti a non farsi male come persona che vive in mezzo ad altre persone e quindi deve dialogare con altri e poi a lavorare senza distrarsi per evitare infortuni, ascoltare bene chi ti insegna a lavorare e

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soprattutto provare ad essere soddisfatti del proprio lavoro come persona in mezzo ad altre persone e come persona che è capace a svolgere il suo lavoro pratico”.

“Ero apprendista, la mia azienda è entrata in crisi, o almeno così ci è stato raccontato, anche se forse l’azienda non era interessata a continuare il lavoro nella sede che poi ha chiuso. Infatti l’azienda aveva un altro stabilimento molto più grande in un’altra regione. Dove lavoravo forse non conveniva più all’impresa e pertanto tutti gli operai sono stati messi in CIGS, ma non gli apprendisti”.

“L’azienda produceva ribaltabili per veicoli industriali. Il lavoro mi piaceva ed ero apprezzato. Mi occupavo di carpenteria, meccanica, idraulica, pneumatica ed elettronica. Tutto quello che so l’ho imparato in questa azienda. Mi è spiaciuto veramente tanto d’aver perso quel posto”.

“Per svolgere il mio lavoro è necessario saper usare un programma di disegno (in questo caso autocad), avere alcuni concetti base di meccanica e di disegno tecnico. Secondo aspetto legato agli acquisti invece occorre conoscere abbastanza bene gli articoli che si devono acquistare, conoscere una buona serie di possibili fornitori e avere la capacità di trovare l’offerta migliore che soddisfa le esigenze (costo, tempi di consegna, qualità delle materie che stanno acquistando). Svolgevo già in precedenza un lavoro simile, le basi di meccanica e disegno le ho apprese a livello scolastico e con corsi dedicati, mentre per ciò che concerne gli acquisti si impara facendo esperienza sul campo: non c’è

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altro modo. Sul lavoro mi faccio apprezzare soprattutto per la duttilità e la capacità di ricoprire tutti i ruoli dell’ufficio compresa una parte di contabilità che ho imparato lo scorso anno in concomitanza con la maternità della mia titolare (addetta alla contabilità).Comunico molto con i miei colleghi e con i fornitori, con cui passo un paio d’ore al telefono tutti i giorni”.

Una interpretazione della società attuale

“Tutti noi abbiamo le stesse possibilità di affermarci nel lavoro. Non importa se si nasce in situazioni di disagio, non importa se si cresce in ambienti poco stimolanti sul piano delle opportunità culturali. Tutto in realtà poggia sulla volontà dell’individuo che, se vuole, realizza i suoi obiettivi. Oggi, nel momento in cui stiamo scrivendo - 20 gennaio 2011- nonostante la crisi economica pesante che pone in difficoltà le nazioni di tutto il Mondo, la disoccupazione, lo squilibrio tra stipendi e costi della vita il lavoro, se uno vuole trovare il lavoro lo trova e se ha ambizioni personali e volontà può arrivare, chiunque può arrivare perché abbiamo tutti le stesse possibilità, a costruire la sua impresa sia come dipendente che come imprenditore”.

“Una società che funziona è quella nella quale ognuno lavora per quanto può e riceve in compenso tutto ciò di cui ha bisogno, rendendosi conto di coesistere con altri uomini in tutto eguali a lui. Di qui la necessità di combattere l’egoismo, che fa considerare i beni come proprietà individuale mentre si dovrebbe promuovere “comunitario”

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tutto quanto è capace di generare ricchezza”. Questo modello però non può funzionare perché limiterebbe libertà individuali. Nessuno è stimolato a emergere. Anzi, anche se vuole non può emergere”.

“Ma cosa significa emergere? In una società come questa non esiste neanche la parola “emergere”. Una società come questa non pone il lavoro come fine. Il fine di una società come questa pone al centro la soddisfazioni di bisogni personali che non devono mettere in difficoltà gli altri, tutti gli altri, nel raggiungere, ciascuno, la soddisfazione dei loro bisogni personali”.

Un esperimento. Primo gruppo.

Abbiamo deciso di costruire dei modelli sociali partendo dalle parole. Ognuno di noi ha scritto, in due momenti, separati dieci parole.

Il primo gruppo di dieci parole è stato scritto, da ciascuno di noi, senza attribuire alle parole alcun significato. La regola che ci siamo dati è stata quella di scrivere, senza riflettere, le prime dieci parole che ci sono venute in mente. Ed abbiamo interpretato questa scrittura come il risultato di una memoria istintiva. Le parole del nostro istinto.

Dopo questa prima scrittura, abbiamo scritto altre dieci parole, con la regola di scrivere le dieci parole che per ciascuno di noi sono più importanti. Le parole della nostra

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ragione. Quindi abbiamo considerato queste parole come si considerano i dati da elaborare in statistica.

Le prime dieci parole che ci sono venute in mente sono le seguenti: freddo, lavoro, fanculo, parcheggio, soldi, sonno, cagnolino, calcio, schedine, coglione, poverino, merda, mammamia, no, danno, bene, vita, essere, termoconvettore, muletto, poltrona, tv, neve, piastrella, parodia, figa, bicchiere, cucchiaio, concentrazione, cellulare, caldo, ragazze, macchina, computer, scarpe, mattina, caffè, corso, cervello, foglio, partita, spauracchio, paguro, frangetta, frocetto, jafar, stoner, pilota, sedia, furgone, divertimento, dormire, mangiare, fermo.

Tra queste 54 abbiamo selezionato le parole che sono comparse con la più alta frequenza: lavoro, traffico, soldi, sonno.

Per trattare in modo statistico queste parole le abbiamo divise in categorie. Questa divisione ha portato all’individuazione degli elementi di un modello sociale in relazione alla frequenza delle esigenze: divertimento 28%, soddisfazione di bisogni primari 14%, stati di rabbia 12%, lavoro 10%, impegno intellettuale 10%, ambiente 10% , sesso 8%, soldi 4%, sensibilità verso gli animali 4%.

Da queste parole emerge quanto il nostro gruppo ponga al centro il divertimento e la soddisfazione di bisogni primari e si trovi coinvolto in situazioni che generano rabbia e sia sollecitato da temi relativi al lavoro, all’impegno intellettuale, alla sessualità, mentre i soldi sembrano meno importanti.

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La seconda fase di questa attività invece si è concentrata sulle dieci parole che ognuno di noi ha individuato seguendo il criterio di scrivere le parole che ritiene, per sé, più importanti.

Le parole individuate sono state le seguenti: amici, lavoro, salute, famiglia, soldi, figa, mangiare, macchina, casa, ferie, divertimento, calcio, calmo, bravo, amore, Amsterdam, bar, Italia, genitori, rispetto, risparmiare, puntuale, deciso, ragazza, bere, sport, tranquillità, moto, cazzate, gruppo, freddo, pausa, vita, musica, beneficienza, famoso, inglese, studiare.

Tra queste 37 parole quelle che sono comparse con le più altre frequenze sono state in ordine di importanza: amici , lavoro, salute, famiglia, soldi, sesso e mangiare.

Se attribuiamo a queste parole la traccia per ipotizzare un modello sociale possiamo porre ai suoi vertici gli amici, il lavoro e la salute. Quindi la famiglia. Anche se la parola famiglia nel nostro caso non è ancora la nostra famiglia, quella che ognuno di noi si creerà, ma quella dei nostri genitori.

In pratica queste prime parole possono farci scrivere quanto ormai siamo adulti con una vita indipendente (amici-lavoro), abbiamo cura di noi stessi (salute), e come la famiglia sia diventata una comunità alla pari. I soldi sono lo strumento simbolo della nostra indipendenza e della parità in famiglia. Il sesso e il mangiare sono piaceri che, adesso, sappiamo procurarci

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perché siamo adulti autonomi e responsabili d’ogni nostra azione.

Se bastassero queste parole per ipotizzare un modello sociale forse si potrebbe pensare ad una società di relazioni umane incentrate sui valori dell’amicizia, dove il lavoro diventa strumento fondante, ma non un fine. Una società attenta alla salute delle persone e che ritiene la famiglia luogo di affetti profondi. I soldi che non sono al primo posto della nostra indagine forse si prefigurano più come strumenti al servizio dell’uomo che non il contrario.

Una società incentrata sull’amicizia, sul lavoro e la famiglia e attenta alla salute che sappia inoltre sappia creare le migliori condizioni per una giustizia economica e tuteli la libertà delle scelte e le orienti secondo l’equilibrio di una giustizia sociale, offrendo a tutti personali percorsi di piaceri esistenziali.

Una considerazione finale

Ci siamo accorti, analizzando le parole scritte nei due differenti momenti , quanto le prime, scritte senza attribuire loro alcun significato, appartengano ai nostri bisogni non ancora adattati ai modelli sociali entro cui siamo cresciuti e siamo stati educati.

Le parole “ragionate” del secondo momento di questo lavoro sono in effetti il frutto dell’adattamento alla vita sociale che abbiamo appreso in famiglia, a scuola, sul lavoro, e nei luoghi della società. Sono le parole che ci

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hanno traghettato dal mondo dell’infanzia e della prima giovinezza all’età adulta.

Un esperimento. Secondo gruppo.

Le prime parole che ci sono venute in mente sono 81. Le parole che riteniamo più importanti sono state 67. Soltanto 12 tra le prime parole che ci sono venute in mente sono state ripetute tra le 67 parole che ciascuno di noi ritiene più importante. La rielaborazione statistica di queste parole ci ha consentito di elaborare due modelli che abbiamo voluto considerare come ipotesi di modelli sociali.

Modello sociale secondo le prime dieci parole che ci sono venute in mente

Per semplificare il lavoro, le 81 parole sono state divise in categorie. Le categorie sono le seguenti: bisogno1, bisogno2, disagio, famiglia, ideale, lavoro, obbligo, piacere, ricordi, scuola, svago, animali e varie. Selezionando tra queste categorie quelle che hanno ottenuto le frequenze più alte, abbiamo ottenuto un modello sociale che pone al vertice lo svago (32%) e subito dopo il piacere (30%); quindi bisogno1 (12%), animali (7%), lavoro (7%), disagio (6%), scuola (6%). Sono state escluse, per la loro bassa frequenza, le categorie: bisogno2, famiglia, ideale, obbligo, ricordi e varie.

Il modello sociale emerso, selezionando i valori statistici più alti, pone al vertice la famiglia(25%), quindi a

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seguire salute (17%), amicizia (14%), lavoro (14%), amore (11%), casa (11%) e futuro (11%).

Commenti

Non è possibile che esista una società fondata sullo svago e sul piacere, anche se potrebbe rappresentare il sogno di tutti noi. Il fatto che non sia attuabile, è proprio perché, svago e piacere, sono fattori derivanti dal lavoro, che, oggi, per noi rappresenta una grande ricchezza, dato che è il lavoro che ci permette di poterci svagare e provare piacere. Il nostro tempo libero. Senza il lavoro forse dovremmo accontentarci di uno stile di vita più dimesso e “povero”.

Il modello “statistico” descrive un giovane inesperto, non ancora entrato nell’ottica del guadagno necessario per soddisfare le proprie esigenze. Per questo, svago e piacere, hanno molta rilevanza rispetto a chi è già inserito nel mondo degli adulti. Questa persona dà una buona importanza ai propri bisogni primari, una importanza superiore a quella che deriva dall’istruzione scolastica e dalla famiglia (valore che non viene neanche preso in considerazione dalla nostra indagine statistica).

Per quanto riguarda il tipo di società emersa dal gioco statistico delle nostre parole, riteniamo che rappresenti per noi il nostro ideale di vita, cioè in futuro ci piacerebbe avere una famiglia, una casa, un lavoro e una vita serena e felice. Innanzitutto per arrivare a questo

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nostro benessere interiore è necessario che il nostro lavoro ci renda soddisfatti e che comunque ci fornisca quei mezzi per poter godere di tutto quanto necessario per renderci felici (conseguono svago e piacere), ed autonomi, per non avere la preoccupazione che il futuro possa presentare brutte sorprese.

Il modello è quello di una persona adulta con una famiglia o con l’ideale di formarsene una. Una persona inserita in una comunità religiosa dalla quale ha ricevuto determinati valori. Il fatto di mettere al secondo posto la salute, propria e dei familiari, sta a significare che questo individuo conosce i propri limiti e cerca di non superarli. La parità tra lavoro e amicizia sta a significare quanto questa persona non impegni il proprio tempo esclusivamente per lavorare, ma mantenga amicizie per svagarsi e avere un appoggio esterno alla famiglia. Questa persona considera meno il futuro non perché gli dà meno importanza, ma perché il presente lo soddisfa abbastanza e il futuro gli fa paura.

Il mio modello ideale è simile a quello emerso dal grafico delle parole che riteniamo più importanti. Famiglia, amici, salute e lavoro sono importanti, ma credo che ciò dipenda molto dall’ambiente che ti circonda nei primi anni di vita, e anche durante gli anni della scuola. Amici, insegnanti e famiglia : tutte queste persone ti circondano e ti influenzano, anche incoscientemente. Noi in fin dei conti crediamo di fare scelte non condizionate, ma tutto condiziona le nostre scelte. Per me, non soltanto la famiglia, gli amici,la salute e il lavoro sono importanti. Ho

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dei principi probabilmente, o meglio, mi sono stati inculcati da ciò che mi circonda. Per me sono importanti la fiducia e la sincerità .

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Considerazioni conclusive.

Penso che ogni persona sia un mix dei due modelli con una prevalenza di uno o dell’altro in base ai momenti della giornata. Se uno lavora, pensa a crearsi un futuro e quindi dà più importanza alla famiglia e alla salute, poiché entrambe sono legate tra loro. Quando una persona ha la possibilità di uscire o di andare in vacanza dà importanza al piacere. Credo che la vita ti porti ad avere dei valori profondi, ma senza la ricerca del piacere e la necessità dello svago, ci sarebbe una grossa crisi.

Il mio modello ideale dovrebbe essere una giusta considerazione tra i due che sono emersi. Ai primi posti è giusto mettere i valori fondamentali come la famiglia, l’amicizia e la salute, quelli che la nostra società considera status sociali. Ma considero che anche lo svago e il piacere debbano meritare una posizione alta, per raggiungere un certo benessere. Anche se sono valori legati al consumismo.

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Paragonando un modello di vita basato su tutto ciò che è piacere con quello che invece è importante ed utile per condurre una vita soddisfacente penso che i valori che mi caratterizzano siano quelli di un modello ragionato che può durare nel tempo e sia una base solida per poter costruire un futuro. Per diventare adulti e trasmettere i fondamentali valori alle future generazioni, il pensiero va a tutto ciò di cui ci possiamo fidare e ci è utile e “genuino” che, forse, ci fa ritornare all’epoca dei nostri nonni. Seguire gli input della società odierna che si basa sempre più sul piacere e sul consumismo non è utile. Secondo me il modello di vita che segue ognuno di noi dipende anche da come ci è stato illustrato il mondo fin da quando siamo nati ovvero da come ci è stato posto dai nostri genitori e dalle altre persone che ci hanno cresciuti.

Trovare soddisfazioni personali sul lavoro.

Rispetto a quaranta anni fa, oggi, i giovani hanno più possibilità di prepararsi al lavoro. L’istruzione scolastica, l’evoluzione delle tecnologie dell’informazione, la liberalizzazione degli accessi ai percorsi universitari, la cultura europea dell’educazione permanente hanno ampliato la possibilità di scegliere, già in età scolastica, percorsi di formazione al lavoro già ben orientati.

Purtroppo le facilitazioni dei percorsi che preparano al lavoro si scontrano con la reale possibilità di poter, terminati gli studi, continuare il percorso nel mondo adulto del lavoro. I giovani sono orientati e si preparano nelle

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scuole ad un lavoro, ma spesso, terminata la scuola non trovano occupazioni professionali adeguate.

Pertanto quando si esce da un percorso di studi, nonostante la vasta scelta di opportunità, non è sempre realizzabile un inserimento pienamente appagante. Anzi quasi mai il primo lavoro risulta appagante o comunque la scelta professionale definitiva.

Lo strumento dell’apprendistato a quanto pare è quello che offre più possibilità per inserire un giovane sul lavoro. Anche se quasi sempre la motivazione dell’assunzione aziendale persegue soltanto la cultura del risparmio economico che la normativa dell’apprendistato consente.

Succede così che sia l’apprendista, in perfetta solitudine, il formatore di se stesso. E per raggiungere questo obiettivo è fondamentale che ogni apprendista sappia sfruttare al meglio il suo percorso di apprendistato, ad incominciare dalla scelta del settore lavorativo iniziale. E’ fondamentale scegliere il percorso lavorativo che più interessa. Trovare il lavoro cui aspiriamo è il primo successo. Ma, ovviamente non è il successo, è soltanto l’inizio. Perché intanto l’aver trovato il lavoro non significa soltanto avere la possibilità di apprendere la tecnica di un lavoro. Fare un lavoro comporta oltre l’aspetto tecnico anche apprendimenti d’altra natura. Ed è soltanto l’equilibrio tra tutti i comportamenti che consentono di lavorare che rende possibile svolgere il proprio lavoro. E questo lo si capisce dal primo momento di ingresso in azienda. L’inserimento di un

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apprendista in una azienda comporta, oltre l’apprendimento del mestiere, anche l’acquisizione delle strategie che rendono possibile instaurare relazioni umane adeguate.

Infatti alcune volte le difficoltà di adattarsi alla convivenza con la cultura, nella sua globalità, del fare aziendale possono arrivare a mettere in crisi la voglia di continuare ad imparare il mestieri che piacerebbe fare.

Esiste per tutti noi un limite tra ciò che intendiamo il piacere di fare e il rispetto del nostro essere persone.

Siamo consapevoli infatti che prima d’essere lavoratori noi siamo persone. Ovvero noi non siamo lavoratori, ma siamo, in modo inscindibile persone che , anche, lavorano. Ed è il nostro essere prima persone e poi persone che anche lavorano che impone alla personale dignità di non accettare qualsiasi situazione pur di lavorare.

Severi con noi stessi per quanto riguarda i nostri diritti e doveri comporta uguale severità nei confronti di chi ci offre l’opportunità di lavorare cui noi offriamo la nostra fatica di anni di studi e le nostre abilità e talenti professionali.

La gestione del tempo sul lavoro.

Non ho idee, ma questo non significa che non mi renda conto del mio bisogno di avere dei tempi morti sul lavoro. Anche soltanto per fumarmi una sigaretta. Mi piacerebbe una canna, ma sul lavoro forse non sarebbe tollerato. Sul lavoro comunque io mi prendo delle pause.

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Anche se non abbiamo pause e anche se soltanto il capo prende il caffè. Forse sto scrivendo soltanto per scrivere, come spesso si parla soltanto per parlare, o ridere caso mai anche di argomenti che non sarebbe il caso di prendere troppo sul ridere.

Bibliografia.

La biologia dell’azione umana. Per una biosociologia della conoscenza. V. Reynolds Ed Est Mondadori. Origini della socialità e della cultura umana. B. Chiarelli Ed. Laterza. Antologia illustrata di Filosofia. U. Nicola. Ed. Giunti. Storia della filosofia occidentale. B. Russel. Ed Mondadori. La scimmia e le stelle. La formazione dell’immagine laica e scientifica dell’uomo e del mondo. L. Formigari. Ed Riuniti. Libri di base. Piccola Storia del mondo. A. Demandt. Donzelli Editore. La scomparsa dell’Italia industriale. L. Gallino. Ed Einaudi. L’impresa irresponsabile. L. Gallino. Ed Einaudi. La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero. E. Morin. Ed Cortina. La programmazione neurolinguistica. G.Granata. De Vecchi Editore. Il Manuale del Tutor. Regione Piemonte. Manuale di educazione degli adulti. Duccio Demetrio. Ed

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Laterza. Istituzioni di educazione degli adulti. Duccio Demetrio Alberici Aureliana. Guerini Scientifica. La Costituzione Italiana. Il libro della quiete interiore. Gerd B. Achenbach. Apogeo. La filosofia può curare? Pier Aldo Rovatti. Raffaele Cortina Editore. Il modello sociale scandinavo. P.Borioni, C. Damiano, T Treu. Europa-l’Unità.

La formazione aziendale. Andrea Negroni.Ed. Il Sole 24ore. La formazione degli adulti come autobiografia.Malcolm S. Knowless.Raffaello Cortina Editore. La formazione professionale dell’insegnante.AA. VV.Ed. Giunti Marzocco. La riforma dell’apprendistato. Luigi Caiazza. Buffetti Editore. Apprendistato e contratto di inserimento. Cesare Pozzoli.Il Sole 24 ore.

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PARTE SECONDA

Elementi della formazione

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I tre tipi di formazione.

I professionisti dei processi formativi lavorano in attività di “formazione formale”, “formazione non formale” e “formazione informale”.

La formazione formale e la non formale sono processi intenzionali: sia chi forma che chi è formato è consapevole del momento educativo in atto. La formazione informale invece è quella che avviene senza la consapevolezza del momento: è assimilabile all’apprendimento per imitazione.

Tre diversi momenti di formazione, di educazione, non confondibili tra loro. Ma non si maturano competenze se non si sperimentano, in parallelo, queste tre diverse strategie d’apprendimento.

La Formazione Formale

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La Commissione Europea ha formalizzato una definizione di «apprendimento formale», identificato come quello che «avviene in un ambiente organizzato e strutturato (scuola, centro di formazione oppure sul lavoro) ed esplicitamente progettato come apprendimento (in termini di obiettivi, tempi e risorse).

La formazione formale deve intervenire, ovviamente, come integrazione degli apprendimenti maturati in azienda, che si identificano invece come addestramento alla mansione lavorativa specifica.

È l’ambiente della formazione formale che consente di incontrare giovani preparati in modo adeguato sui tre livelli che normalmente sono indicati come fondamentali per la continua crescita della persona: il “sapere”, il “saper fare” e il “saper essere”. Allo stesso tempo, è ancora l’ambiente della formazione formale che consente di far emergere il disagio comportamentale e intellettuale di alcuni giovani apprendisti.

Può così succedere di verificare la debolezza dei contenuti teorici di base, quelli ascrivibili normalmente al periodo dell’obbligo scolastico. A queste lacune di base, quasi sempre si associa una debolezza di organizzazione delle idee, dei pensieri e delle capacità di adattarsi alle situazioni.

Questa situazione risulta talvolta aggravata, nel giovane, dalla facile convinzione, spesso rinforzata da certe

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culture aziendali e prima ancora familiari, che per certi mestieri è sufficiente, avere nozioni “tecniche” elementari, costruite su limitati codici linguistici e bassi contenuti di idee.

È dominante, in questi casi, l’idea che per alcuni mestieri la “scuola sia soltanto un inutile lusso”, e la formazione “un’insopportabile perdita di tempo”.

Pertanto la formazione formale deve riuscire a porre al centro la persona più che il lavoratore e deve sforzarsi di far maturare l’idea di quanto il lavoro sia fatto per l’uomo e non il suo contrario: un confine che invece sembra non considerato dal Testo Unico sull’apprendistato né da tutte le componenti politiche e sociali che lo hanno controfirmato.

Criteri della formazione formale

Chi fa formazione formale nell’apprendistato, è orientate da almeno tre criteri: la formazione che non si deve fare, la formazione che non si può fare e la formazione che si deve fare.

La formazione formale che non si deve fare.

Non si deve creare l’illusione che le imprese possiedano le competenze per sostenere il peso della formazione formale in azienda. Non si deve accettare lo scambio della formazione formale con la formazione dell’ “imparare facendo”, perché sono due luoghi di

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apprendimento paralleli, ma differenti: l’uno ha il suo luogo specifico nell’aula di lezione, l’altro sul posto di lavoro.

Accettare l’uguaglianza tra la formazione formale e quella non formale significa avallare in gran parte lo sfruttamento dei giovani apprendisti. L’attuale denominazione che associa la parola “professionalizzante” a “ di mestiere” , invita più a unificare che separare i momenti formativi, quasi volesse annullare il valore aggiunto della formazione formale.

Non si deve utilizzare la formazione formale per imitare quella non formale, che soltanto l’azienda può e deve svolgere.

Non si deve utilizzare la formazione formale per contenuti che sono “obbligo” formativo delle aziende, come ad esempio tematiche legate alla sicurezza ed altre normate da leggi specifiche.

La formazione formale che non si può fare.

Con gli apprendisti adulti, non si devono riprodurre modelli formativi di tipo scolastico. Non si devono progettare percorsi che assomiglino a recuperi di lacune scolastiche, perché l’adulto non scolarizzato, esclusi i rari casi di fortissime motivazioni personali, non accetta di ritornare a scuola. Considererebbe queste ore un insopportabile ritorno a doposcuola “differenziali”.

La formazione formale che si deve fare.

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Si deve imporre un luogo che non sia l’ambiente di lavoro, anche quando fosse l’azienda a gestire la formazione formale. Si deve fare un’attenta formazione formale dei tutor e dei datori di lavoro. Si deve considerare la formazione formale come “apprendistato civile” e come primo momento educativo all’educazione permanente.

Se si fa “apprendistato civile” cadono le barriere culturali, non si fa più distinzione tra il giovane non scolarizzato, il giovane diplomato e il laureato. Non si progettano più gruppi omogenei per carriere scolastiche o mansioni. La formazione formale deve diventare l’inizio dell’educazione permanente che durerà tutto l’arco della vita.

La formazione sul posto di lavoro: la formazione non formale e informale

È in azienda che si impara il mestiere. Non è possibile raggiungere questo obiettivo altrove. È sul posto di lavoro, dove anche se il processo di apprendimento può apparire meno strutturato, che si vivono situazioni più simili alla fase dell’istruzione scolastica: l'apprendista deve imparare un'attività ed alla fine viene valutato sui risultati.

Programmare la formazione in azienda è diventato, alla luce delle attuali conoscenze scientifiche sull’apprendimento in età adulta, una nuovo attività a cui sono chiamate le aziende. Programmare significa stabilire obiettivi dell’apprendimento e dello sviluppo personale (è necessario rapportare gli obiettivi alle capacità di ciascuno, stabilendo livelli minimi e livelli attesi ), valutare che

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l'obiettivo sia effettivamente conseguito, modificare la programmazione se si scoprono difetti .

La programmazione aziendale è situata all'interno del rapporto azienda-società. La formazione a breve termine (l'obiettivo viene valutato ad es. dopo una due o tre settimane di lavoro), regola i rapporti formatori-apprendista e misura le relazioni tra insegnamento e apprendimento.

La formazione è anche educativa perché, giorno per giorno, trasmette oltre alle informazioni anche la cultura aziendale. La formazione dell’apprendista deve soddisfare la realizzazione di un diritto irrinunciabile della persona, testimoniare l’ interesse della società e consolidare una rivendicazione storica dei lavoratori.

L’obiettivo prioritario irrinunciabile è dare un sufficiente grado di preparazione sia professionale che civile a tutti, con una particolare attenzione nei confronti di coloro che sono meno inclini a partecipare come persone consapevoli, tanto in azienda quanto nella società.

La Formazione formale, assieme a quella non formale e alla formazione informale, partecipa alla costruzione delle conoscenze teoriche e pratiche fondamentali per creare gli stimoli necessari per sperimentare abilità personali e maturare competenze.

La moderna cultura dell’apprendistato, non è riuscita ad impedire che tra le agenzie formative e le

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aziende emergessero gli stessi problemi che esistono tra il mondo della scuola e il mondo del lavoro. Questo è avvenuto anche se molte agenzie formative sono state le emanazioni di settori del mondo del lavoro. Le osservazioni sull’inutilità dei corsi d’apprendistato, così come sono emerse dal mondo delle imprese, sono un esempio concreto per spiegare le oggettive difficoltà che sorgono tra datori di lavoro, apprendisti ed operatori della formazione.

Si sono verificate situazioni dove, nonostante l’impegno, i formatori si sono dovuti scontrare con aziende che rifiutano a priori ogni partecipazione e mandano gli apprendisti ai corsi, informandoli in anticipo che andranno solo a perdere tempo.

Sono lontani gli anni in cui si diceva che il lavoro poteva essere la scuola alternativa. Don Milani, ad esempio, effettuò un faticoso viaggio tra i pregiudizi che negavano alcuni diritti fondamentali portandoci a riflettere su quanto la scuola sia un diritto assoluto di tutti e quanto il lavoro non possa sostituire questo diritto di apprendere e conoscere. In particolare, proprio il progredire della conoscenza scientifica ed umanistica più recente, ci descrivono uno scenario inaspettato: la capacità di apprendere durante tutto l’arco della vita. Per apprendimento in questo caso non si intende soltanto l’addestramento a nuove manovalanze, ma anche e soprattutto l’acquisizione di abilità cognitive o l’esplorazione di talenti personali, caso mai, neanche sospettati.

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Sono necessità che si stanno affermando tra la gente adulta, ad incominciare proprio dagli apprendisti, indipendentemente dal titolo di studio posseduto. Per soddisfare simili esigenze non serve al giovane chiudersi nella bottega artigiana o nell’officina, anche se soltanto queste, possono insegnare il mestiere. Oggi sia l’imprenditore che il giovane apprendista devono maturare una nuova idea: un orientamento educativo che non può essere soltanto addestramento o formazione tecnica al lavoro.

È tramontato il mito del mondo imprenditoriale che pensava di crescere adattando le persone alle esigenze del lavoro, dei mercati. "Trattare le persone da oggetti per renderle malleabili al lavoro organizzato dai detentori del capitale", è ormai un tema obsoleto, anche se stranamente emerge quando si parla di coinvolgere i lavoratori in percorsi più incentrarti sui temi del saper essere che del saper fare. Oggi esiste un bisogno sociale di imparare a percepirsi prima di tutto come persone, poi anche come lavoratori. Ed è l’attuale realtà dei sistemi economici che spiega questi bisogni. Le crisi del capitalismo toccano ognuno di noi direttamente. Si perde il lavoro e bisogna adattarsi ad altro, ad attività anche molto diverse dalle abilità professionali apprese in precedenza. Così, se non si costruisce in modo permanente una cultura personale forte, si corre il rischio che non ci sia altro spazio alla disperazione e alla solitudine del percepirsi soltanto un lavoratore accantonato.

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Servirà forse ricostruirsi più volte cammini di vita come persone libere che sappiano recuperare il tempo per auto-costruirsi personali percorsi di conoscenza. Rileggere la storia del pensiero, elaborare personali concetti, saper esporre idee con parole chiare, sono soltanto alcuni elementi che appena poco stimolati emergono nei giovani apprendisti, come bisogni inespressi e da scoprire, utili a crescere prima come persone, poi anche come lavoratori. Purtroppo non sono la bottega artigiana o l’officina che possono permettersi il tempo per queste fatiche. Forse è su questi confini di educazione della persona nella sua globalità che il mondo artigiano e delle imprese in generale devono trovare motivazioni per ripensare percorsi di formazione fortemente innovativi ed incentrati sull’individuo.

Le politiche della formazione

In Europa

Esistono, in Europa, vari modelli culturali, non esportabili, ma forse adattabili ad altre realtà.I paesi scandinavi poggiano il loro welfare occupazionale su tre pilastri: servizi all'impiego, formazione e ammortizzatori sociali. Anche noi facciamo, più o meno, così, ma il modello scandinavo funziona con più efficienza; probabilmente perchè c'è uno scambio virtuoso tra la flessibilità del sistema e una grande sicurezza dei lavoratori. In Danimarca, 1/3 della popolazione cambia lavoro ogni anno e non c'è neppure una legge sulla giusta causa del licenziamento. Ma il problema non è sentito. Chi perde il lavoro, sa di poterne trovare un

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altro, si aspetta di essere aiutato a trovarlo e può comunque godere di un'indennità di disoccupazione che oscilla tra il 70% e l'80% della retribuzione precedente. Ma prima di reinserirsi, il lavoratore sa che dovrà seguire un percorso di formazione.

In Italia

L’innovazione che consentì di avviare le attività formative degli apprendisti allineandole con le moderne conoscenze dell’apprendimento fu introdotta nel 1997 dall’art 16 della legge Treu. Il principale strumento di questa innovazione furono l’introduzione di 120 ore di formazione esterna all’impresa e la nascita della figura del tutor aziendale.

Queste 120 ore, in un arco di tempo più che decennale, hanno consentito, nei centri di formazione “virtuosi”, di sperimentare l’inizio di quei cammini di educazione permanente che in molti paesi della comunità europea già esistono e si dimostrano pilastri di tutte le politiche di welfare.

La politica dello stato e quelle locali

Le leggi dello Stato indicano i fondamenti che devono ispirare le leggi regionali. Le regioni delegano agli assessorati all’istruzione, formazione professionale e lavoro il compito di stabilire le competenze e definire le azioni per l'erogazione delle attività formative degli enti autorizzati (agenzie formative). Le Regioni, le Province e i Comuni devono essere i garanti locali della formazione finanziata con soldi pubblici sui territori di loro competenza. Le associazioni

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di categoria ed i sindacati, devono vigilare affinché il diritto-dovere dei cittadini e dei lavoratori ad intraprendere percorsi formativi, venga adempiuto nel rispetto delle norme.

L’apprendistato di fatto è il primo scalino dell’educazione permanente. Non per niente il Testo Unico fa rientrare nell’istituto dell’apprendistato anche i lavoratori assunti a tempo indeterminato che vanno in mobilità. Forse è stata una svista del legislatore, ma l’adulto, dai trenta anni fino all’età del suo pensionamento, è il protagonista assoluto dell’educazione permanente.È invece arduo capire la relazione che intercorre tra i capitali pubblici spesi per gestire la formazione e l'attività didattica vera e propria. Sembra che quasi tutto il finanziamento debba concorrere a sostenere i costi dei dirigenti e delle attività di gestione commerciale della strutture formative. Facciamo un esempio facile: da un lato ci sono i responsabili della gestione di strutture formative, manager con stipendi elevati e garantiti mensilmente, e dall'altro i docenti, con riconoscimenti economici incerti, spesso irrisori anche per uno stagista.Questo scenario si realizza spesso in situazioni dove i responsabili di grandi agenzie formative non sono neanche investitori, non rischiano capitali propri e spesso rappresentano enti istituzionali o associazioni di categoria. Usano finanziamenti pubblici e adducono i ritardi di questi ultimi a scusa per posticipare i pagamenti di chi lavora ai livelli inferiori. Non sarebbe forse il caso, soprattutto a livello istituzionale, ed in relazione ai clamorosi fallimenti economici ed educativi di alcuni grandi centri di formazione, di ripensare l’organizzazione dei luoghi della formazione

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finanziata?E' possibile che un Comune, un sindacato, una associazione di categoria, siano titolari o soci di strutture formative ed allo stesso tempo garanti dell’equità del servizio formativo sul loro territorio?

L’ente istituzionale che diventa titolare o socio di strutture formative, svolge ancora funzioni compatibili con i compiti di garante del sistema o può, invece, configurarsi un conflitto di interessi?

Che senso avrebbero le leggi sull’apprendistato se non privilegiassero la formazione formale?

La formazione non formale, l’imparare facendo, appartiene quasi per genetica ai comportamenti della nostra specie. Non è necessario scrivere leggi sull’apprendistato per promuovere comportamenti innati.

Tra tutte queste leggi, di certo quella del 1955 fu la più rivoluzionaria. In anni di scarse tutele dei lavoratori, il legislatore fece emergere il bisogno di tutelare la crescita dei giovani lavoratori, destinando parte delle ore di lavoro all’istruzione. Non importa se in quegli anni si pensò soprattutto ai bisogni di alfabetizzazione.

La legge del 1955 affermò un valore irrinunciabile, la traccia che segna il nostro dettato costituzionale: la dignità della persona che non può realizzarsi senza adeguati percorsi di conoscenza. La persona che prevale sulle economie, sui

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mercati. Il valore del lavoro come strumento dominato dalla persona e non viceversa.

Dal 1955 ad oggi l’evoluzione delle conoscenze pedagogiche e soprattutto il loro spostarsi dalle età scolastiche alle età adulte, rinforzate dai successi delle politiche del welfare che si sono affermate in molti paesi, impegnano tutti a fare della formazione formale il cardine dell’educazione permanente. Per queste considerazioni l’apprendistato dei giovani adulti non può che essere il primo scalino di questi processi di apprendimento.

APPENDICE

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Genesi ed evoluzione storica dell’ apprendistato

(Rif. – Giovani e mercato del lavoro. La nuova disciplina

dell’apprendistato – Dpl Modena; www.dplmodena.it)

1948

Carta costituzionale art. 35, comma 2, «La Repubblica cura la

formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori».

1955

Legge 19 gennaio 1955, n. 25 che contiene la prima disciplina

completa ed esaustiva del contratto di apprendistato. Art.2 della

legge n.25/1955 : l’apprendistato è definito quale uno “speciale

rapporto di lavoro in forza del quale l’imprenditore è obbligato a

impartire o far impartire, nella sua impresa all’apprendista

assunto alle sue dipendenze l’insegnamento necessario perché

possa conseguire la capacità tecnica per diventare lavoratore

qualificato, utilizzandone l’opera nell’impresa medesima”.

Metà degli anni ‘70

La considerevole presenza sul mercato del lavoro di giovani

istruiti genera il fenomeno della “disoccupazione intellettuale”.

E tra le forze politiche e sociali e nelle istituzioni, si fa strada la

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convinzione che l’apprendistato non sia in grado di risolvere la

disoccupazione giovanile. Nel 1973 l’istituto dell’apprendistato

viene sospeso senza prospettarne un futuro utilizzo.

1977

Con l’approvazione della legge 1 giugno 1977, n.285 nasce il

contratto di formazione e lavoro che dovrebbe sostituire

l’apprendistato. La differenza tra il contratto di formazione e

lavoro e l’apprendistato è che nel primo prevale la funzione

occupazionale mentre nell’apprendistato la funzione formativa.

1997

La legge n. 25/55, viene modificata dalla legge n. 196 del 1997

(cd. Pacchetto Treu). L’articolo 16 della legge 196/97 valorizza le

finalità formative e per raggiungere questo obiettivo e allinearsi

al modello europeo si introducono attività formative esterne

all’azienda pari ad almeno 120 ore medie annue.

A livello europeo questa legge è vista come un atto dovuto

mentre in Italia diventa difficile superare il vuoto creatosi nel

1973 perché dal 1973 sino alla legge n.196 si <<è consolidata

l’idea che l’assunzione degli apprendisti fosse solo

un’assunzione agevolata.>>.

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2003

Legge n. 30/2003 (legge Biagi). Introduce un apprendistato di

stampo europeo.

L’apprendistato è diviso in tre tipologie: - l’apprendistato per

l’espletamento del diritto dovere di istruzione e formazione (art.

48); - l’apprendistato professionalizzante per il conseguimento

di una qualificazione professionale attraverso una formazione sul

lavoro e un apprendimento tecnico-professionale (art. 49); -

l’apprendistato per l’acquisizione di un diploma o per percorsi di

alta formazione (art. 50).

2011

Il 5 maggio 2011 viene approvato il Testo Unico ( T.U.)

sull’apprendistato e il 14 settembre 2011 viene emanato

( D.Lgs.14 settembre 2011, n.167).

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IL TESTO UNICO E L’APPRENDISTATO PROFESSIONALIZZANTE

Il Testo Unico (Decreto Legislativo n. 167 del 14 settembre 2011) è di facile reperibilità , pertanto in questa appendice si riportano soltanto i punti che interessano gli aspetti che riguardano l’attività formativa dell’apprendistato professionalizzante. Per un commento generale della Legge si segnala il documento redatto dal Dipartimento del Lavoro di Modena (www.dplmodena.it) dal titolo “ Giovani e mercato del lavoro. La nuova disciplina dell’apprendistato”.

Commenti

Nel Testo Unico si legge “forma scritta del contratto e del relativo piano formativo individuale da definire, anche sulla base di moduli e formulari stabiliti dalla contrattazione collettiva o dagli enti bilaterali”.

L’esperienza di chi lavora nella formazione deve in realtà rilevare le difficoltà di comprendere quale relazione esista tra la contrattazione collettiva e i reali bisogni educativi degli apprendisti . Le ore di formazione formale hanno spesso fatto emergere più necessità educative che di addestramento pratico al lavoro. Si è sperimentato quanto queste “necessità educative” siano un percorso di welfare da praticare lungo tutta la vita, che pone al centro più la persona che non i bisogni della contrattazione

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collettiva, soprattutto quando è soggetta ai ricatti del mondo economico e in particolare quando accetta di considerare il lavoro un mercato.

Il riferimento del Testo Unico a “accordi interconfederali e i contratti collettivi stabiliscono, in ragione dell’età dell’apprendista e del tipo di qualificazione da conseguire, la durata e le modalità di erogazione della formazione per l’acquisizione delle competenze tecnico-professionali e specialistiche in funzione dei profili professionali stabiliti” risulta toppo incentrata sull’addestramento al lavoro che non compete alla formazione formale : “la durata e le modalità di erogazione della formazione” è l’ opportunità di leggere l’apprendistato come primo scalino dell’educazione permanente.

Sulla durata della formazione formale, il Testo unico scrive “la formazione di tipo professionalizzante e di mestiere, svolta sotto la responsabilità della azienda, è integrata dalla offerta formativa pubblica finanziata dalle Regioni, interna o esterna alla azienda, finalizzata alla acquisizione di competenze di base e trasversali per un monte complessivo non superiore a centoventi ore nella durata del triennio”. Si direbbe una scelta non motivata da esigenze educative, incompatibile con l’art 117 della

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Costituzione e con le leggi Regionali che hanno dato forma all’impalcatura formativa.

Forse la politica nazionale , dopo il fallimento di alcune Agenzie Formative di emanazione sindacale o a partecipazione pubblico-privata che, tra il 1997 e il 2012, non si sono dimostrate in grado di far maturare, nel mondo imprenditoriale, la cultura dell’apprendistato, vuole indurre le Regioni a rinunciare all’ art 117, soprattutto a fronte degli sprechi dei finanziamenti Europei e per prevenire i futuri sprechi 2014-2020. La cultura aziendale di un certo tipo che “persegue tutt’altri fini...” e che ha ispirato anche molte Agenzie Formative, sembra che sia alla base anche del Testo Unico.

Conclusioni

Per l’inserimento nel mondo del lavoro dei giovani, in questo periodo di crisi economica, viene valorizzato l’apprendistato.

Il Testo Unico sembra invece poco coerente con questa valorizzazione. In particolare l’incoerenza emerge dal suo sembrare inadeguato al capitolo VII dedicato all’educazione permanente della legge Fornero sul mercato del lavoro e ai modelli formativi prodotti, negli anni passati, dalle regioni nel rispetto delle indicazioni della Comunità Europea.

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Il Testo Unico sembra invece, per quanto riguarda gli orientamenti formativi che, contraendo la formazione esterna all’azienda da 120 ore a 40 ore annuali, non abbia considerato il patrimonio culturale accumulatosi nel tempo; sembra abbia preferito alimentare l’illusione di scenari di formazione formale in azienda. Designare un tutor aziendale come formatore formale è superfluo, perché è la cultura aziendale, radicata nei secoli, a rispondere all’esigenza di formazione degli apprendisti, con le eccellenti e naturali competenze formative dell’ “imparare facendo” (by doing). Imparare facendo, è la caratteristica genetica della nostra specie. Fu la legge 25 del 1955 ad introdurre, accanto alla nostra naturale capacità di insegnare, quell’altro innovativo e parallelo percorso di apprendimento che impose al datore di lavoro di “… impartire o a far impartire, all'apprendista assunto alle sue dipendenze, l'insegnamento necessario …”.

Una rivoluzione culturale assoluta per quel tempo. Oggi, anno 2012, di fatto, nel Testo Unico “l’arretramento della formazione formale pare reale” (Dipartimento per il lavoro di Modena).

Questa considerazione negativa, che si legge nel documento del Dpl Modena dedicato alla nuova disciplina dell’apprendistato sembra rinforzata da alcuni pareri espressi dalle associazioni dei datori di lavoro, con frasi quali “finalmente arriva l’apprendistato che vogliono le imprese”, “l’effettiva formazione, superando il concetto di formazione formale esterna all’impresa per dare, invece, valore alla formazione by doing svolta all’interno

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dell’impresa”, per arrivare al paradossale “battersi affinchè possa essere ridotto al massimo il periodo di formazione effettuato all’esterno”.

In sintesi sembra prevalga l’idea che per lavorare, oggi, i lavoratori, a incominciare dal loro ingresso nel mondo del lavoro, debbano rinunciare a dei loro diritti. Un’idea che non educa al dettato costituzionale.

Tutto questo, come se il cammino delle conoscenze scientifiche, le indicazioni della Comunità Europea, il lavoro svolto dalle Regioni e per ultimo il Cap. VII del Disegno di legge Fornero – Mercato del lavoro, dal titolo Apprendimento permanente, fosse stato tempo sprecato. Una fiera di cose inutili che l’Europa però impone e che i Paesi Scandinavi, ad esempio, hanno dimostrato essere strumenti strategici per il lavoro e per le politiche di welfare.

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