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Prima edizione ebook: novembre 2012

© 2012 Newton Compton editori s.r.l.Roma, Casella postale 6214

ISBN 978-88-541-4961-8

www.newtoncompton.com

Realizzazione a cura di Librofficina

Immagine di copertina: © Triff/Shutterstock

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Marcello Simoni

REX DEUS.L’ARMATA DEL DIAVOLO

3: IL MONASTERO DIMENTICATO

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Capitolo 15

La furia degli akinci si era abbattuta sul litorale come un vento nero. Demoni armati di scimitarre,archibugi e balestre, in groppa a veloci corsieri, dovevano essere sbarcati a sud del golfo di Piombinonel grigiore dell’alba, in una cala nascosta tra le alte scogliere. Don Juan de Vega aveva appena messopiede su uno di quegli approdi, una spiaggia pietrosa che pareva intagliata tra le rocce di Capo di Troia,per trovarsi di fronte a quella che fino a poco tempo prima era stata una chiesetta affacciata sul mare. Nerestava soltanto un rudere, così come delle casupole di pescatori raccolte intorno a essa.

Il giorno prima, l’ambasciatore spagnolo aveva convinto Jacopo V Appiani a mettersi sulle tracce dellaflotta ottomana. L’opera di persuasione non era stata difficile come previsto, al punto da fargli sospettareche il principe di Piombino nutrisse interessi propri a inseguire il Barbarossa. Interessi collegati aCristiano d’Hercole, senz’ombra di dubbio, ma di natura non certo affettiva. Don Juan aveva lasensazione che quell’uomo covasse un terribile segreto, forse un complotto. Sapeva che era legato a unaloggia misteriosa, gli era stato riferito dalle spie dell’imperatore, tuttavia non disponeva di elementisufficienti per capire di cosa si trattasse con esattezza. Se non fosse stato in pena per sua figlia, avrebbepotuto ragionare a mente fredda, ma da quando Isabel era stata rapita si sentiva incapace di agire conmisura, a dispetto del suo ruolo di diplomatico. Se Carlo V o il viceré di Napoli l’avessero saputo permare, all’inseguimento dei corsari turchi come un capitano di ventura, gli avrebbero fatto pagare caroquell’abuso di potere, troncando di netto la sua onorata carriera, e forse anche la sua vita. D’altronde,non c’era stato tempo per chiedere permessi. Aveva dovuto cogliere al volo l’opportunità di imbarcarsisulla flottiglia di Piombino, per mettersi a caccia degli infedeli insieme a Jacopo V.

All’inizio avevano veleggiato lungo le coste orientali dell’Elba, raccogliendo testimonianze suglispostamenti delle navi nemiche, poi si erano diretti a sud-est, verso la torre di guardia dell’isolotto delloSparviero, dove avevano ottenuto informazioni sulla direzione presa dal Barbarossa. A quanto pareva,l’armata della Mezzaluna aveva seguito il vento di libeccio fino alla Maremma. Per gli inseguitori si eraquindi trattato di controllare palmo a palmo gli insediamenti rivieraschi in seno al golfo di Piombino,finché, nei pressi di Capo di Troia, non avevano scorto i segni della devastazione. La scia di morte liaveva condotti su quella spiaggia pietrosa, cosparsa di cadaveri.

«Devono essersi divisi», disse don Juan, camminando tra i sassi verso la chiesetta diroccata. A uncenno di Jacopo V, che gli stava a fianco, mimò con le mani aperte i movimenti di due schieramenti cheavanzavano in parallelo. «I corsari turchi, intendo», precisò con voce greve. «Scommetto che i lororazziatori stanno attraversando a cavallo l’entroterra, mentre la flotta li segue mantenendosi sotto costa».

L’Appiani annuì, sovrappensiero. «Procedono entrambi verso sud».«Sì, sud. Ma esattamente dove?»«Non è questa la domanda che mi inquieta maggiormente, al momento».Il de Vega lo scrutò senza ribattere. Il principe di Piombino era subdolo e facile all’ira, ma possedeva

notevoli qualità di stratega, ereditate da una discendenza che nell’arco di un secolo aveva guarnito ognipunto strategico di quel tratto di mare con fortezze, bastioni e torri di guardia. Se esisteva qualcuno ingrado di ritrovare sua figlia nella acque di Tuscia, ce l’aveva di fronte. «Cosa intendete? Siate chiaro».

L’Appiani si chinò sul cadavere di un pescatore accasciato fra le rocce. Magro, con gli zoccoli ai piedie le brache arrotolate fino alle ginocchia, impugnava ancora un piccolo coltello con cui doveva aver

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cercato di difendersi. Il volto non c’era più, strappato da un colpo di artiglieria. Il principe di Piombino,indifferente al suo aspetto, sembrava interrogarsi sul calibro dell’arma usata per ucciderlo. Quandosollevò il capo, aveva lo sguardo inespressivo di un uccello marino. «Vostra eccellenza, date retta a me,l’ardimento non vi basterà a salvare vostra figlia», ed emise un sospiro che voleva comunicaresolidarietà. «Per riaverla indietro, si dovrà essere nelle condizioni di trattare. E ora non lo siamo,capite? Presentarsi al cospetto del Barbarossa con una sola galea e due velieri sarebbe come invitarlo afarci colare a picco».

E senza attendere commenti, si rialzò di scatto e allungò il passo verso l’ingresso della chiesetta.

L’angusta finestra che si affacciava a babordo era diventata per Isabel l’unica fonte di distrazione. Laragazza trascorreva ore interminabili a osservare le coste maremmane irte di scogli e dirupi, all’ombra dipromontori dall’aspetto ora aspro ora ameno. E poi c’era il mare, con le sue infinite increspature cheparevano ammorbidirsi al calare della notte, per diventare un manto nero e gorgogliante sotto le stelle.Quella vista esercitava su di lei un richiamo irresistibile, un invito a fuggire dal cubicolo dove era tenutaprigioniera insieme a Margherita Marsili. La compagna, però, non mostrava il minimo interesse per unsimile spettacolo. Da quando Nizzâm era sceso a terra con i suoi predoni, era diventata silenziosa eirritabile, trascorreva ore a cucire scampoli di tessuto e a intrecciare fili di paglia.

Nell’arco di due giorni, il moro era risalito a bordo una sola volta. Non certo per intrattenersi con labella Marsili, ma per coordinare lo stivaggio di un carico di schiavi catturati durante le razzie. Isabel,affacciata alla finestra, aveva scorto i velieri corsari avvicinarsi alla riva e accogliere sottocoperta unagrande quantità di prigionieri. Prima d’allora, non le era mai capitato di assistere a una scena del genere.Le persone in catene erano moltissime, al punto che per caricarle tutte sulle navi era servita mezzagiornata. Gridavano a squarciagola mentre venivano stipate sulle scialuppe, sotto la minaccia dellescimitarre e degli archibugi, ed emettevano lamenti sempre più intensi man mano che si avvicinavano aivelieri attraccati al largo. I ribelli venivano uccisi in fretta e gettati in acqua come bestie senza valore,ma la maggior parte dei prigionieri si comportava con mansuetudine, in preda a uno spavento troppogrande per azzardarsi a reagire con la forza.

Isabel, in fondo, poteva dirsi fortunata. Non aveva subìto l’umiliazione di essere denudata, percossa ecaricata come una bestia in mezzo a tanti estranei, né era destinata a trovarsi premuta da altri corpi nelfetore della sentina. Nizzâm le aveva concesso di conservare la propria dignità, almeno per il momento,sebbene la ragazza temesse che quel privilegio non sarebbe durato a lungo. Tuttavia era inquietata da benaltri presagi. L’ultima volta che si era imbattuta nel moro, aveva letto nel suo sguardo un lampo dicupidigia. Non era certo la prima volta che un uomo le rivolgeva simili occhiate, anche se i signorotti acui era abituata avevano modi più cortesi di manifestare il loro desiderio. Il suo promesso sposo adesempio, don Pedro de Luna, era solito chiederle il permesso anche solo per baciarla, e non si era maispinto oltre. Ma Nizzâm era un uomo di ben altra tempra, e non si sarebbe certo fermato davanti a unrifiuto. Isabel era terrorizzata da quanto sarebbe potuto succedere durante il loro prossimo incontro, masoprattutto non riusciva a prevedere la propria reazione. Una parte di sé era curiosa, quasi impaziente diritrovarsi di fronte al corsaro. Prenderne coscienza la faceva avvampare di vergogna.

«Dobbiamo fuggire», disse a un certo punto, dando voce al proprio disagio.La compagna la guardò di sottecchi, quasi divertita. «E come pensi di fare?»«Ho un piano». Isabel non era del tutto sincera, ma non voleva restare un giorno di più su quella nave.

Non poteva.«Devi essere uscita di senno», commentò Margherita, continuando a intrecciare fili di paglia.«Non dico che sarà facile, ma dobbiamo rischiare».

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«Perché mai? Tuo padre pagherà il riscatto e potrai andartene senza il minimo sforzo».«Ma ci vorranno mesi, forse anni! E nel frattempo cosa succederà? Non posso attendere tanto a lungo».Le labbra della rossa si piegarono in un’espressione indefinita, tra il divertito e il pietoso. «Quindi,

come intenderesti agire?»«Te l’ho appena detto, ho un piano», rispose Isabel. «Quando Nizzâm è sceso a terra, ha portato con sé

molti uomini. Li ho visti sbarcare sulla spiaggia e salire in groppa ai loro cavalli. Scommetto che sulveliero sono rimasti in pochi a sorvegliare, e dovranno tenere a bada gli schiavi appena caricati».

Vedendo lo sguardo di Margherita farsi più attento, la ragazza prese sicurezza. «Se agiamo insieme»,continuò, «potremmo forse salire su una scialuppa senza farci notare, e raggiungere la costa durante lanotte».

«Sei brava a parlare, ma ti sei scordata della cosa più difficile. Come pensi di uscire da questastanza?».

Isabel aggrottò la fronte. «Ho pensato anche a quello».La bella Marsili la fissò per un istante e sembrò quasi sul punto di acconsentire, poi però si voltò di

scatto e fece un cenno disinteressato. «Non contare su di me».«Hai paura?», la interrogò la compagna, irritata dal suo rifiuto. Le afferrò una spalla per costringerla a

guardarla. «Oppure esiti perché non vuoi allontanarti da lui?», le chiese con foga.La rossa si divincolò con uno strattone. «Ma cosa dici! Sei impazzita?». Si alzò in piedi, rivolgendole

una smorfia piena di collera. «Non penserai sul serio che mi sia innamorata di quell’animale! Tu nonsai… Non puoi neanche immaginate cosa significhi amare qualcuno!».

Isabel indietreggiò, battendo la schiena contro una parete. Aveva reagito d’impulso, quando in realtàsarebbero state altre le parole che intendeva pronunciare. “Ma non capisci?”, gridava dentro di sé. “Ionon posso restare qui! Ho paura di diventare un’altra persona… Ho paura di diventare come te”.

Margherita la fissò intensamente, quasi volesse leggere i suoi pensieri. «Non sarai per caso tu a essertiinvaghita del moro?», la punzecchiò con fare malizioso. «Ho visto come ci osservavi la notte scorsa…».

Isabel resistette all’impulso di graffiarle la faccia e indurì l’espressione. «Ti sbagli», ribatté. «Quelloche hai scorto sul mio viso era soltanto compassione nei tuoi confronti».

La rossa alzò le braccia al cielo, esasperata. «Uso il mio corpo per ottenere un vantaggio, tutto qui», sigiustificò, come se ripetesse quella frase per la centesima volta. «Se mai scenderò da questa nave, lo faròcome una signora, a testa alta. Non certo rischiando la vita per una stupida evasione. Non ho bisogno deituoi piani avventati, io. Saverio Patrizi ha promesso di liberarmi».

«Ora sei tu l’ingenua», disse Isabel, scuotendo il capo. «Se ho ben inteso, la promessa dell’inquisitoreha un prezzo molto alto…».

«Prezzo che salderò al più presto, mia cara».Margherita aveva pronunciato quelle parole con indifferenza, ma il suo tono di voce lasciava trapelare

una sicurezza ferrea che la compagna, fino ad allora, non aveva colto. «E in quale modo, di grazia?», lechiese, mentre la curiosità prendeva il sopravvento sulla collera.

«Non sono affari tuoi, mia cara». La rossa le puntò l’indice contro. «Hai un bell’ardire, lo sai? Mioffendi, dici di compatirmi e un attimo dopo pretendi che mi confidi. Scordatelo».

Anziché lasciarsi intimidire, Isabel avanzò d’un passo e intrecciò le braccia al petto. «Invece lo farai»,sibilò gelida. «E ti converrà dirmi tutto, altrimenti farò la spia con Nizzâm!».

Il volto di Margherita si trasformò in una maschera di stupore. «Lo faresti davvero?»«Mettimi alla prova, se credi». Isabel era altrettanto sorpresa della sua reazione, ma lo tenne ben

nascosto. Non si sarebbe mai creduta capace di ricattare qualcuno. Un simile atto non si addiceva a unanobildonna dalla rigida educazione cattolica, ma il piacere di vedere la bella Marsili perdere d’un colpo

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tutta la sua boria la fece astenere da un esame di coscienza. La guardò mordicchiarsi le labbra, poiemettere un sospiro rassegnato.

«E sia, ti racconterò tutto». Margherita si zittì per un istante, poi, dopo una breve esitazione, stupì lacompagna con un’espressione trasognata. «Ma da oggi saremo come sorelle».

«Cosa intendi?»«Che i nostri destini saranno legati».Pur mantenendosi diffidente, Isabel decise di assecondarla. «Non lo sono già?»«Non del tutto». La Marsili le prese le mani, un tocco delicato ma intenso. Quando riprese a parlare, la

sua voce si era fatta roca. «Devi farmi una promessa… Se torneremo libere, dovrai prenderti cura dime».

Isabel si aspettava tutto fuorché un’implorazione. In fondo, si disse, la persona che aveva di fronte eraprigioniera da più di un anno. Chissà cosa aveva subìto, cosa era stata costretta a vedere… Sotto quellamaschera da manipolatrice doveva nascondersi uno spirito più vulnerabile di quanto immaginasse.

«Io non ho più una famiglia né una casa», proseguì Margherita, cupa. «Fuori da questa nave, per me nonc’è più niente…».

«Non ti abbandonerò, te lo prometto», la rassicurò Isabel, mantenendo un certo distacco. Volevaapparire risoluta. «Però devi raccontarmi tutto».

La Marsili lasciò le mani della compagna e tornò a sedersi sul pagliericcio. Sconfitta, ma anchesgravata dal peso di dover mantenere un atteggiamento altezzoso, abbassò il capo e si preparò aconfessare. «L’ultima notte che ho giaciuto con Nizzâm, ho atteso che si addormentasse per rovistare frale sue carte», disse. «Faccio sempre così. Mi muovo con circospezione, senza mettere nulla fuori posto.Lui tiene le cose più importanti su un desco di legno. Ed è proprio lì che ho trovato una mappa della costacon una meta segnata di fresco. Non c’erano nomi di città né di approdi, ma ho riconosciuto lo stesso lesponde della Maremma. Le conosco troppo bene, sono sicura di non sbagliarmi».

«Pensi sul serio di aver riconosciuto la destinazione?»«Sì. Ma non è un luogo qualsiasi».Isabel si fece più attenta. «Spiegati».«È un monastero che sorge presso una fortezza imprendibile», rivelò Margherita. «Dev’esserci in gioco

qualcosa di importante. Come tu stessa hai notato, Nizzâm è sbarcato a terra con molti uomini, ben più deisoliti. Ha preso con sé gli akinci, ma anche i giannizzeri. E dopo tutto il tempo passato a spiarlo, so benecosa significa: sta preparando un assedio». I suoi occhi scintillarono d’astuzia e per un attimo parveroritrovare l’orgoglio perduto. «L’inquisitore mi sarà infinitamente grato per questa informazione».

«Tu dici? Anche se fosse, dovrai trovare il modo di informarlo», obiettò Isabel, ma a quel punto sitrovò a fissare il sorriso saccente della compagna. «Non ci credo… L’hai già fatto?».

L’altra annuì compiaciuta. «E sia», disse poi, bisbigliando. «Ti svelerò il mio ultimo segreto».

La chiesetta aveva perduto il campanile e parte della navata destra sotto le scariche di cannoneprovenienti dal mare. La luce del sole penetrava all’interno della navata, illuminando una decina di corpicrivellati dalle balestre. Per lo più si trattava di religiosi, ma anche di donne e di bambini. Dovevanoessersi rifugiati nell’edificio per trovare scampo, o più probabilmente per implorare la Madonna disalvarli. Ma le loro preci erano rimaste inascoltate. I tiratori turchi non avevano risparmiato nessuno, sierano divertiti a prendere di mira i volti delle vittime, quasi avessero fatto una gara al bersaglio. E oradon Juan camminava tra i martiri di un’assurda mattanza, talmente sgomento da non riuscire a recitare unasemplice preghiera per le loro anime. Non era lo spettacolo di morte ad ammutolirlo, tantomeno labrutalità dello scempio a cui stava assistendo. Lui stesso, in gioventù, aveva compiuto azioni altrettanto

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efferate e non andava fiero di ammettere che sarebbe stato disposto a compierne altrettante in nome dellacorona spagnola e della Chiesa. No, non era certo la pietà a stringergli il cuore, ma la consapevolezzache una simile crudeltà avrebbe potuto abbattersi anche su sua figlia, da un momento all’altro.

Il principe di Piombino camminava davanti a lui con i pugni chiusi dietro la schiena e lo sguardo persoper la navata, come se nutrisse la segreta speranza di imbattersi in qualche indizio. E benché fosseevidente che avesse altro per la testa, non trascurava di proseguire il discorso. «Anche se trovassimo icorsari del Barbarossa», ribadì, «non saremmo certo in grado di affrontarli, né di indurli a trattare ilrilascio di ostaggi. Per ora possiamo soltanto seguirne le tracce».

L’ambasciatore fiutò l’ipotesi di un piano. «Perciò?»«Perciò… intendo chiedere aiuto al Doria».Il de Vega si fermò, lasciando che l’Appiani si inoltrasse da solo nella penombra dell’abside. Andrea

Doria era l’ammiraglio al comando della flotta genovese. Nove anni prima i cannoni delle sue naviavevano frantumato le torri della Goletta con l’aiuto della flotta spagnola, facendo cadere in ginocchio ipirati arroccati a Tunisi. Era un eroe, un principe del mare, e in più di un’occasione era stato sul punto dispedire all’inferno il Barbarossa in persona, ma il corsaro era sempre riuscito a fuggire. Si vociferavapersino che fra i due vi fosse un tacito accordo, come a volte capitava tra nemici mortali di egualegrandezza. Tuttavia il Doria solcava le acque del Mediterraneo da troppo tempo, era sulla soglia degliottant’anni e forse non aveva più la tempra necessaria a salire su una nave da guerra.

«Avete nominato un uomo di eccezionale virtù, un leone del mare, ma ormai è un vecchio. Non sose…».

«Non mi riferivo ad Andrea Doria». La voce dell’Appiani echeggiò metallica dentro la chiesa vuota.«Ma a suo nipote Giannettino».

Don Juan lo guardò mentre camminava nell’ombra, lontano da lui una decina di passi. «Non lo conosco.Lo ritenete all’altezza?»

«È abile, furbo come una volpe. Quattro anni fa catturò il pirata Dragût presso la cala della Girolata,con un formidabile colpo di mano. Al momento si trova al largo della Corsica, al comando di una trentinadi galee. Se avvertito, potrebbe raggiungerci in breve tempo».

«Farebbe al caso nostro», disse l’ambasciatore, sedendosi su una panca di legno. «Ma i genovesi sonoscaltri quanto i veneziani ed esitano a muoversi senza interesse. Mi domando se risponderà alla nostrachiamata».

«Potete scommetterci la testa. So da notizie certe che ha preso il mare non appena la flotta barbarescaha salpato dalla Provenza, proprio per dare la caccia ai corsari».

«Eccellente! Rompiamo gli indugi, dunque».Ma don Juan si accorse che l’Appiani non lo stava più ascoltando. Lo vide allungare il passo verso

l’altare, come se avesse notato qualcosa di importante, e chinarsi per raccogliere un oggetto ai piedi di ungrande crocifisso di legno. Lo stato d’animo del principe di Piombino pareva mutato. I suoi movimentirivelavano d’un tratto un’impazienza febbrile.

Il de Vega fu assalito dalla curiosità. Cosa poteva aver trovato l’Appiani?

«Una bambola», disse la bella Marsili, suscitando lo stupore della compagna. «Ecco dove ho nascostoil mio messaggio per Saverio Patrizi. Dentro una bambola».

Isabel annuì senza proferire verbo. Non capiva se Margherita parlasse sul serio o se la stesseprendendo in giro. Nonostante il discorso commovente che le aveva sentito pronunciare, non riusciva afidarsi. “Saremo come sorelle”, le aveva detto poco prima. Ma anche tra sorelle poteva essercidiffidenza.

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«Faccio sempre così», continuò la rossa. «Cucio le bambole servendomi del poco di cui dispongo», e adimostrazione di quanto affermava le mostrò l’intreccio di paglia e stoffa a cui stava lavorando. Era ilvolto di un fantoccio. «Ne avrò messe insieme almeno una ventina. E appena scopro qualcosa diimportante, scrivo un breve messaggio, lo nascondo all’interno e lo affido all’uomo di cui ti ho giàparlato, il giannizzero in combutta con me. Come da accordi presi con il Patrizi, deposita le bambole inbella vista, in luoghi dove sono avvenuti degli scontri. Se possibile, all’interno di edifici sacri».

«E se le tue bambole non venissero trovate?»«Quando posso, scrivo più copie dello stesso messaggio e le nascondo in bambole diverse, che il

giannizzero deposita in diversi luoghi. Per l’ultimo, tuttavia, non ho avuto tempo».«Quindi hai una sola possibilità».«Sono certa che il Patrizi la troverà».«Davvero? Hai mai avuto conferma che ricevesse i tuoi messaggi?»La rossa si morse un’unghia. «No, mai. Tuttavia…»Isabel scosse il capo. «Ti aggrappi a un’illusione».«Bel modo di sollevarmi il morale», esclamò la Marsili. «Sputi rimproveri come una fantesca».«Ti metto soltanto di fronte alla realtà dei fatti», disse Isabel. «Non hai certezze su nulla». Poi le si fece

appresso, sforzandosi di assumere un tono rassicurante. «Al contrario, io ti offro una concreta viad’uscita».

Margherita la spinse indietro. «Insisti ancora con il tuo piano di fuga! Ma non capisci che abbiamopoche possibilità di spuntarla?»

«Qualcuna in più che cucendo bambole».«Davvero? E come credi di uscire da questa stanza?»«Con il coltellino che usi per tagliare la stoffa…».

«Cos’avete trovato?», chiese don Juan de Vega, avviandosi a lunghe falcate verso la zona dell’abside.Jacopo v era talmente preso dalla scoperta che parve non udirlo. Anzi, trovandoselo improvvisamente

alle spalle trasalì, e fece per nascondere la bambola che stringeva in pugno. «Non mi ero reso conto diavervi tanto vicino», disse in tono ostile.

«Vi siete adombrato», osservò il de Vega, insospettito. D’un tratto si trovava di fronte a un uomodiverso, molto più simile a quello sbarcato sulla darsena di Piombino dopo la sortita all’Elba. «Qualcosavi turba?»

«Nulla, eccellenza».«Allora mostratemi quella bambola».«Perché mai? È una cianfrusaglia senza importanza…», temporeggiò Jacopo V, recuperando in fretta i

modi cordiali. Ma don Juan gliela strappò di mano.Era un misero fantoccio di pezza imbottito di paglia, poco più grande di un pugno. L’Appiani tentò di

riprenderlo ma il de Vega lo allontanò con un gesto brusco, chiedendosi il motivo di tanto interesse.Palpeggiò l’oggetto tra le dita, sempre più curioso, lanciando occhiate interrogative verso il principe diPiombino. Quest’ultimo si astenne dal rispondere a quelle tacite domande e, mettendo da parte la foga, glisi parò di fronte a braccia conserte.

«Nulla da dire?», lo pungolò l’ambasciatore spagnolo.«Ve l’ho detto, è una cianfrusaglia priva di valore».Fissandolo con aria di sfida, don Juan si avvicinò a un candelabro. «Se davvero non vi importa, vuol

dire che la brucerò», e accostò la bambola all’unico cero rimasto acceso.Jacopo V fremette. Osservò le fiamme attecchire fra i capelli di paglia simulando distacco, ma quando

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vide la testa del fantoccio avviluppata dal fuoco non poté più trattenersi. «Fermo!», gridò, tendendo lemani verso il piccolo oggetto.

Reagendo con prontezza, il de Vega gettò la bambola a terra e ne estinse le fiamme sotto la suola, poi laraccolse e soffiò sulla testolina fumante. «Ora mi direte tutto», ordinò con voce grave, porgendolaall’Appiani.

Il principe di Piombino non proferì verbo. Disfece la cucitura che sigillava il petto del fantoccio edestrasse il bigliettino arrotolato che vi era nascosto all’interno. Lo aprì e, dopo averlo letto con unarapida scorsa, lo mostrò all’ambasciatore.

Il messaggio conteneva poche parole: CAMPO ALBO, AL MONASTERO DELLA ROCCA .«Cosa significa?», farfugliò il de Vega, attanagliato da un terribile sospetto. «Come fate a…». Ma

dovette abbandonare l’intuizione sul nascere, sentendosi afferrare per le braccia. Si voltò, tentando diribellarsi. Due armigeri l’avevano sorpreso alle spalle e lo tenevano immobilizzato. «Maledetto, comeosate!», ruggì in direzione dell’Appiani. «Dite subito ai vostri sgherri di lasciarmi andare».

«Non posso farlo, eccellenza», rispose Jacopo V, grottescamente mellifluo. «Non posso rivelarvi più diquanto già sospettiate».

Don Juan gli rivolse uno sguardo furioso. «Avete una spia imbarcata con il Barbarossa, vero?». Sidimenò con rabbia, senza riuscire a liberarsi. «Intendete uccidermi perché l’ho capito?»

«Meglio non proseguire il discorso, altrimenti dovrei uccidervi davvero», e con quelle parole,l’Appiani gli voltò le spalle. «Tuttavia, basterà lasciarvi a terra. Proseguirò da solo, per il vostro bene».

«Maledetto farabutto! Non ve lo permetterò».E con un impeto di collera, don Juan riuscì a divincolarsi dalla presa. Avanzò con un balzo verso il

traditore, pronto a combattere contro cento avversari, ma prima che potesse estrarre la spada, si ritrovò aterra, tramortito da un colpo alla testa.

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Capitolo 16

La palla di cannone sorvolò il caicco e svanì con un sibilo fra la spuma delle onde. Il sole colava apicco sull’orizzonte, illuminando di rosso fuoco le imponenti galee corsare e i nugoli di scialuppe checonducevano i soldati turchi verso le scogliere di Campo Albo. Erano a decine, divorate da chiaroscuriche viravano dal nero fino al colore del sangue. Sinan osservava le loro sagome veloci, assordato dalrombo delle colubrine e dalle grida dei remieri sfiancati dal ritmo di voga. I suoi sensi erano offuscatidell’odore della salsedine, della polvere da sparo e della pece degli scafi, un amalgama pungente che glimordeva le viscere e risvegliava la paura. Davanti ai suoi occhi, le torri della Rocca si stagliavano suuna rupe contro nubi venate di porpora, vomitando colpi di cannone dalle sommità. Di tanto in tanto siudivano schianti di fasciami e grida di uomini scagliati fra le onde, ma l’avanzata delle scialuppecontinuava inesorabile, coperta dalle artiglierie delle galee che si aggiravano al largo della scoglieracome belve affamate. La più temibile, l’ammiraglia, le guidava in posizione avanzata, quasi che ilBarbarossa sfidasse il nemico a prenderlo di mira. Sinan sapeva bene che quella era una manovradiversiva. Buona parte della flotta aveva proseguito oltre una piccola insenatura detta “Cala-Galera”, perpenetrare in una rete di canali che collegava il mare alle estese paludi dell’entroterra. In quel luogo, iturchi sarebbero sbarcati non visti e avrebbero marciato verso la Rocca senza essere presi di mira daisuoi cannoni. E poi si attendeva la calata di Nizzâm, che si sarebbe abbattuta da nord sulle coste diCampo Albo.

A ben vedere, Sinan si trovava nella situazione di maggior pericolo. A bordo del caicco esposto allecannonate, in mezzo a uno sciame di piccole imbarcazioni cariche di soldati pronti a farsi massacrare innome di Allah e di Khayr al-Dīn. La sua missione, però, era diversa. Mentre quei poveri diavoli stavanoper gettarsi all’assedio della Rocca, nel tentativo di fare breccia tra le fortificazioni, lui e i suoicompagni erano diretti più a nord, verso un obiettivo di scarso valore strategico. In quel punto, a ridossodella cinta, sorgeva un antico monastero, al cui interno si trovava il monaco che custodiva il segreto delRex Deus. Sinan non aveva ancora rivelato a nessuno il suo nome, ma entro breve sarebbe stato costrettoa farlo, e ciò lo preoccupava.

Il Barbarossa l’aveva mandato in missione con un branco di canaglie. Sei luridi azap, assassini senzaonore né scrupoli che non avrebbero esitato a pugnalarlo alla schiena alla prima occasione. Le suemaggiori inquietudini, tuttavia, riguardavano gli altri tre individui che gli sedevano accanto sul banco dipoppa. Il primo si chiamava Assān Agà, un ometto tarchiato con gli occhi da segugio, rapito giovanissimodalle spelonche della Sardegna per diventare il più fedele tra i seguaci dell’amír. Più fanatico dei capigiannizzeri, si guardava intorno con diffidenza, la mano destra stretta alla jambiya infilata nella cintura.Veniva poi il gigantesco Margutte, bianco come un cadavere e con la pesante mazza stretta tra i pugni.Scrutava i flutti con aria sognante, quasi inconsapevole del rischio a cui andava incontro. Infine c’eraLeone Strozzi. Sinan era rimasto molto stupito nel vederlo salire sul caicco per prendere parte allamissione. Era noto che il cavaliere di Malta, pur professandosi “amico” del Barbarossa, preferivamantenere una posizione neutrale, al punto da tenere la sua galeazza, Le Lion, perennemente lontana daiteatri degli scontri. E ora, invece, eccolo a militare in prima fila per ragioni che il giovane ignorava.

Lo Strozzi aveva sostituito all’uniforme dell’Ordine di San Giovanni un semplice farsetto imbottito e,come armamento, portava con sé una spada e una daghetta da duello. Anche Sinan era equipaggiato a

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dovere. Gli era stato concesso di portare il pugnale del padre e una espada ropera, o “spada da lato”,dotata di una guardia a crociera abbellita da anelli metallici. Il ragazzo l’aveva preferita a una scimitarra,non essendo avvezzo a brandire lame ricurve.

Prima di giungere sotto costa, si distaccarono dal gruppo delle scialuppe e condussero il caiccolievemente a settentrione, verso la sporgenza dominata dal monastero.

«Non vorrei essere al posto di quei disgraziati». Lo Strozzi indicò ai compagni le piccole imbarcazioniturche ormai vicine all’approdo, un vecchio porto abbandonato ai piedi della rupe. «A quanto si dice, laRocca è stata rinforzata il secolo scorso da re Alfonso d’Aragona e da allora gode della fama di essereinespugnabile».

«Pensiamo a noi, piuttosto», ribatté Assān. La sua voce sottile, in contrasto con la stazza taurina,serbava la cantilena delle parlate sarde. «Non ci spetta un compito facile».

Sinan non poté dargli torto. Sebbene il monastero non si avvalesse della difesa di cannoni e cecchini,sorgeva sulla sommità di un dirupo a prima vista molto difficile da scalare. E per quanto aguzzasse lavista, il giovane non riusciva a scorgere altra via per raggiungere l’edificio.

Accostarono ai margini di una spiaggia angusta e scesero in fretta per non dare nell’occhio.L’eventualità di imbattersi in nemici era remota, dato che l’avanzata dei soldati turchi stava tenendoimpegnate le difese della Rocca. D’altro canto, non si poteva mai sapere.

Iniziarono l’arrampicata, dieci in tutto, aiutandosi con gli stessi rampini metallici usati per agganciarele navi nemiche durante gli arrembaggi.

Sinan lasciò procedere due azap e si aggrappò ai massi, seguendoli. Dovette impegnarsi al massimo perstare al loro ritmo. Quegli uomini erano agilissimi e si inerpicavano senza sforzo, quasi che le loro ditaaderissero perfettamente alle stesse sporgenze che lui, invece, trovava scivolose e taglienti. A metàscalata, il dolore alle mani si fece intenso e un forte indolenzimento gli pervase le membra. Il ragazzoebbe la sensazione che le ferite provocate dalla tortura si fossero riaperte, avvertiva fitte lancinanti allaschiena e al petto. Proseguì a denti stretti fino allo stremo delle forze ma, quando giunse in un punto dellasalita particolarmente ostico, fu costretto a fermarsi per raccogliere le energie. Chiuse gli occhi e inspiròa fondo, ripensando alle motivazioni che l’avevano spinto fin lì. Non era un soldato votato al massacro,agiva per scopi personali. Voleva Isabel, le sette galee di suo padre, il segreto del Rex Deus e,soprattutto, voleva la vendetta. Avesse anche dovuto ammazzarsi di fatica, giurò a se stesso che sarebberiuscito a trovare il modo di uccidere Jacopo V Appiani.

Riaprì gli occhi e riprese a muoversi, ma all’improvviso sentì una mano stringergli il braccio destro eaiutarlo a proseguire. Voltandosi, il ragazzo vide lo Strozzi madido di sudore e congestionato dallafatica. Il fiorentino si limitò a sorridergli, indicando con lo sguardo la sommità della rupe. Mancavapoco.

Con un ultimo sforzo, si issarono fino in cima e attesero gli altri azap, Margutte e infine Assān, cheaveva l’aria di essere sfinito.

Il sardo fissò Sinan dritto negli occhi, quasi stupito che ce l’avesse fatta. «Dobbiamo entrare nelmonastero», disse trafelato.

La pieve della Rocca era edificata come un piccolo bastione. Offriva al dirupo soltanto la torrecampanaria e le murature dell’abside, mentre le sue pareti laterali si fondevano alle cinta difensive.Nessun ingresso visibile al pianoterra.

«La facciata è dall’altra parte delle merlature», dedusse il cavaliere di Malta, studiando la formadell’edificio. «Vi si accede soltanto dalla borgata interna della Rocca. Dovremo entrare da un altropunto».

Sinan annuì. «L’unica via è quella», e indicò il tetto del monastero, facendo notare ai compagni un

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piccolo ingresso che permetteva di accedere al campanile.Assān lo spintonò, frapponendosi tra lui e il fiorentino. «Non saranno certo un cristiano e un ragazzino a

decidere il piano d’azione!».«Come desiderate, agá1», commentò lo Strozzi in tono canzonatorio. «Resta il fatto che non disponiamo

di altri accessi, a meno che non vogliate sfondare le mura a testate. Ma dovrete prima togliervi ilturbante».

Con uno scatto d’ira, il sardo sguainò la jambiya e minacciò di aggredirlo, ma dovette fermarsialtrettanto velocemente. Il cavaliere di Malta gli stava già puntando la daghetta contro il ventre. «Tenete afreno le vostre smanie per altri momenti», disse, questa volta serio, «e guardatevi intorno. A meno chenon mi sbagli, non disponiamo di spingarde in grado di aprire varchi tra le mura. Sarà quindi necessariopenetrare dall’alto».

«Così sia», grugnì Assān, tirandosi indietro con fare circospetto. Si asciugò la fronte imperlata disudore e fece cenno agli azap di arrampicarsi sul tetto del monastero. Gli uomini, già pronti a prendere lesue parti contro lo Strozzi, riposero le armi e obbedirono al comando, aggrappandosi a un ordine dibifore per raggiungere la sommità dell’edificio. Il ragazzo e il fiorentino li seguirono per ultimi, temendoche l’agá approfittasse di quel momento per vendicarsi dell’insulto.

L’imbrunire si propagava a oriente sui poggi di Tirli. Giunto che fu sul tetto della pieve, Sinan potéammirare il tratto di mare che lambiva la punta della Rocca e l’intera costa fino all’insenatura di Cala-Galera. L’incessante boato dei cannoni gli rimbombava dentro il petto e nelle tempie, alimentando nonpiù la paura ma un’euforia selvaggia. Quell’emozione si accentuava alla vista delle orde turche checontinuavano a sbarcare lungo la riva e ad arrampicarsi sulle scogliere, mentre le galee corsare, spettrifrastagliati tra le onde, scaricavano colubrine e falconetti contro le difese cristiane. I flutti avevanoassunto una colorazione nerastra e rilucevano metallici alle fiammate dei cannoni, avvolgendonell’oscurità decine di scialuppe in frantumi, insieme ai loro equipaggi.

«Tutto questo per il Rex Deus», bisbigliò tra sé il giovane.«Non siate ingenuo», commentò lo Strozzi, senza farsi udire dagli altri. «Era da tempo che il

Barbarossa progettava una sortita lungo queste coste».«La mia missione è dunque un pretesto?»«Al contrario, è molto importante. Ma Khayr al-Dīn è pur sempre un pirata, e il suo odio per i cristiani

è smisurato».Sinan si chiese cosa sapesse esattamente il cavaliere di Malta dei piani del Barbarossa, ma erano di

altra natura le domande che avrebbe voluto porgli. «Ho bisogno di parlarvi», confessò, rompendo gliindugi.

«Non ora», rispose l’uomo, invitandolo a raggiungere il resto della compagnia.Gli altri li attendevano davanti al piccolo battente sprangato che collegava il tetto all’interno del

campanile. A un cenno di Assān, Margutte iniziò a prenderlo a spallate, ma proprio allora si udironodelle grida provenire dall’alto. Un vecchio monaco si era sporto dalla sommità della torre, inveendocontro di loro con improperi e sputacchi. Uno degli azap lo prese di mira con la balestra, ma Sinan gliimpedì di scoccare il dardo. «Potrebbe essere l’uomo che stiamo cercando», gridò allarmato, facendoglideporre l’arma.

Seguì lo schianto del portale, e il gruppo si riversò all’interno.«Catturate tutti i monaci!», ordinò il giovane, «e portateli giù, nella navata del monastero!».

Nizzâm aveva raggiunto al tramonto le fuste corsare attraccate a oriente di Campo Albo, alle spondedelle vaste paludi che, secondo certe voci, si estendevano nell’entroterra fino alle mura di Grosseto.

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Aveva indugiato più volte durante la sanguinaria cavalcata attraverso la Maremma, spingendo gli akinci arazziare le ville e i monasteri disseminati lungo poggi e vallate, senza risparmiare nemmeno l’anticoeremo di Malavalle. I suoi velieri nel frattempo avevano costeggiato i litorali, cannoneggiando gli abitatirivieraschi e facendo incetta di schiavi cristiani. Ma strada facendo era venuto a conoscenza diun’incombente minaccia: un contingente di tercios era partito da Napoli, appositamente per contrastarel’avanzata ottomana. Fino ad allora non ne aveva scorto traccia, tuttavia era meglio stare all’erta. Se sivolevano evitare complicazioni, l’assedio della Rocca non poteva protrarsi a lungo.

Il piano d’attacco prevedeva di stringere i nemici in una morsa di ferro e fuoco, sia dal mare siadall’entroterra. Nizzâm immaginò che in quel momento, lungo la costa, le galee di Khayr al-Dīn stesseroprendendo d’assalto i bastioni della Rocca, mentre le fuste dell’armata, inoltrandosi verso le paludi,avevano fatto scendere a terra orde di ghazi con l’ordine di ridurre all’impotenza gli abitati vicini. Ma ilgrosso delle milizie e delle artiglierie era stato sbarcato per ultimo, in un approdo nascosto tra le lagune,a ovest della fortezza, e da lì stava marciando verso il fronte orientale della Rocca. Ormai se nedistinguevano chiaramente le torri, contro l’imbrunire.

Quando si giunse abbastanza vicini per predisporre l’assedio, Nizzâm fece mettere a riposo i reparti diakinci e giannizzeri al suo comando, poi si avviò a cavallo verso il campo avanzato, per controllare ladisposizione delle bocche da fuoco. Erano state trasportate fin lì da schiavi e bestie da soma, e oravenivano sistemate a ventaglio secondo gli ordini di peso, calibro e gittata. Le più arretrate erano lecolubrine forgiate a forma di drago, superavano le tremilacinquecento libbre al pezzo e sputavano palleda sei pollici capaci di descrivere parabole di quasi cinquemila cubiti. Venivano poi i falconi, novecentolibbre di peso per tre pollici di calibro e gittata massima di quattromila cubiti. Infine i falconetti, ospingarde, circa settecento libbre per due pollici di calibro e tremila cubiti di gittata. Più diminuiva ilcalibro, più aumentava la frequenza di tiro.

Ma il luogotenente del Barbarossa sapeva bene che, nel momento cruciale, il ruolo determinantesarebbe spettato ai tüfek dei giannizzeri, più precisi e potenti degli archibugi europei. I loro colpipotevano uccidere un uomo a oltre settecento cubiti di distanza, permettendo agli assedianti di combatteresotto le mura e di accorciare la distanza dello scontro, finché non sarebbe stato a portata delle picche edelle scimitarre.

In groppa al suo corsiero, il moro osservava con rapimento la disposizione delle grandi bocche dafuoco e assaporava l’idea del combattimento imminente. Quella non sarebbe stata la solita razziadestinata a svanire nell’oblio, ma una vera e propria battaglia. Avrebbero perso la vita centinaia, forsemigliaia di uomini, per permettere il compiersi di una valorosa impresa. Di certo se ne sarebbe parlatoper secoli, e lui era pronto a prendervi parte.

Ma se ne avesse avuto l’occasione, si sarebbe aperto un varco nella furia dello scontro e avrebbeguidato i suoi falchi assassini attraverso le borgate interne alle mura, alla ricerca di un piccolo monasteroaffacciato sul mare. Conosceva alla perfezione il piano d’attacco e sapeva che là avrebbe trovato il figliodi Sinan, alla ricerca del Rex Deus. A Nizzâm non importava nulla di quell’antico mistero e non si curavanemmeno del divieto dell’amír, che gli aveva proibito categoricamente di intralciare la missione delragazzo. Da quando aveva impugnato il suo primo pugnale, obbediva soltanto alle leggi dell’acciaio e delsangue. Aveva chiesto vendetta ai sitanis, le divinità malefiche dei suoi padri, e in nome della rabbia chegli mordeva le viscere, avrebbe fatto di tutto per ottenerla.

1 Con questa parola i turchi si riferivano al capo della milizia o al soldato più anziano.

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Capitolo 17

I monaci della Rocca erano soltanto cinque, gli ultimi rimasti di una comunità anticamente prospera eretta da una serie di venerabili abati. Il tempo dello splendore era ormai lontano, ma ancora percettibilenei volti rugosi dei confratelli. Si erano raccolti a semicerchio davanti all’abside, come una scholacantorum in procinto di intonare un inno di lode. O forse, come una schiera di reduci che si batteva daanni contro un nemico ben più temibile dei corsari turchi penetrati nel loro monastero. L’oblio.

Sinan aveva atteso che venissero riuniti in quell’ambiente per interrogarli e ora li osservava in silenzio,mentre il pavimento e le pareti tremavano sotto l’incessante rimbombo dei colpi di cannone. Se l’uditonon lo ingannava, il frastuono non proveniva più soltanto dal mare, ma anche da oriente. L’attaccodall’entroterra era iniziato. Si chiese quanto avrebbero retto le difese cristiane e quante vite sarebberostate stroncate dalla furia dei cani di Allah. Poi, ripensando al mistero che si accingeva a scoprire, scrutòi monaci con aria minacciosa. «Tra di voi si nasconde il custode di un grande segreto», disse, «un uomosopravvissuto quindici anni fa all’arrembaggio di una galea della Mezzaluna. Era un pellegrinoproveniente dall’Asia, imbarcato su una nave del papa. Non si salvò per fortuna né per audacia, maperché risparmiato da un raís, un capitano corsaro». Si voltò un attimo verso i compagni di ventura,soffermandosi sui volti di Assān Agà e di Leone Strozzi, entrambi maschere imperscrutabili. Poteva benimmaginare cosa si agitasse sotto quelle espressioni tese. Attendevano che pronunciasse un nome. Lotrattenne ancora un momento tra le labbra. «L’uomo che cerco si chiama Tadeus», rivelò infine, tornandoa fissare i cinque ostaggi. «Se si farà avanti, giuro sul mio onore che a nessuno di voi verrà fatto delmale».

Vedendo che i monaci si scambiavano delle rapide occhiate, il ragazzo fendette l’aria con la spada,catturando la loro attenzione. Aveva vissuto abbastanza a lungo tra i cristiani da conoscere certe usanzedei religiosi. I cenobiti dei monasteri erano in grado di comunicare tra loro anche senza parlare, mediantecomplicati codici gestuali ideati per non infrangere la regola del silenzio.

«Non prendetevi gioco di me, fratres», li avvertì Sinan. «Sono a conoscenza dei vostri inganni».Uno dei cinque fece un passo in avanti. «Nessun inganno, giovane avventuriero», disse con voce ferma.

Era il più alto, e benché anziano serbava nel portamento un che di ardito. Nei suoi occhi c’era un lampodi orgoglio, quasi di sfida, che suscitò in Sinan un profondo rispetto. «Sono io l’uomo che andatecercando», soggiunse senza timore, «e se il capitano corsaro di cui parlate onorò la sua promessa, voipotete essere soltanto una persona».

«Sono suo figlio», confermò il ragazzo, afferrando l’allusione. «Il figlio di Sinan il Giudeo, nato aSmirne e morto per mano di un bastardo traditore». Lasciandosi trasportare dalla foga, si avvicinò almonaco con una lunga falcata. Quel gesto fomentò inquietudine tra gli azap, ma lui li tranquillizzòsollevando la mano sinistra. Gli uomini si quietarono all’istante, come se avessero trovato naturaleobbedirgli. Sinan se ne avvide e si compiacque, ma ne fu anche preoccupato: stava sfidando l’autorità diAssān.

«Tuttavia non gli somigliate», ribatté Tadeus, inarcando le sopracciglia. «Non sembrate nemmeno unmusulmano».

«Ho vissuto lontano da mio padre per lunghi anni, ma il suo sangue scorre nelle mie vene, siatenecerto».

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«Quindi, ammesso che diciate il vero, il Giudeo sarebbe morto?»«È spirato tra le mie braccia pochi giorni fa. E per onorare le sue ultime volontà, mi sono messo alla

ricerca del Rex Deus».«Parole prive di sostanza», disse il monaco. Del suo aspetto mansueto, ormai, non restava più traccia.

Ritto come una verga, lo scrutava come un soldato pronto a combattere. «Chiunque potrebbe presentarsial mio cospetto ed esprimersi con eguale convincimento. È fin troppo facile professarsi figlio di un uomomorto, o presunto tale, quando nessuno può né confermarlo né smentirlo».

Se avesse scorto in quella voce la minima traccia di insolenza, Sinan non avrebbe esitato aschiaffeggiarlo. Ma al contrario, vedeva in Tadeus un esempio di coraggio e schiettezza. «Aveteragione», ammise con un mezzo sorriso. «E tuttavia lo ribadisco, mio padre è morto. Non posso provarlo,questo è vero, però possiedo qualcosa in grado di dimostrare il mio legame con lui». Rinfoderò la lama,affondò la mano destra in una tasca ed estrasse un piccolo oggetto metallico. «Ecco la prova della miasincerità».

«La chiave cilindrica!». Gli occhi del monaco si spalancarono, lasciando trapelare ben più dellasemplice meraviglia. Erano diventati profondi, quasi insondabili, come se fossero all’inseguimento diuna rivelazione. «Come ne siete entrato in possesso?»

«Me ne ha fatto dono mio padre».«Gliel’avevo affidata io…», bisbigliò Tadeus, portandosi le mani alla bocca. «Aveva promesso di

tenerla nascosta…».«Ha tenuto fede alla promessa, finché non è spirato».Tadeus restò immobile a fissare la piccola bussola, quasi stregato dai movimenti dell’ago. «La chiave

cilindrica vi guiderà…», mormorò. «Prima però dovrete trovare la mappa… La mappa… La…».«Deduco siate persuaso della mia sincerità», soggiunse il ragazzo, strappandolo da quella sorta di

incantamento. «Ebbene, la mappa a cui alludete mi porterà al Rex Deus?»«Sì, figliolo». Il monaco aveva cambiato all’improvviso registro e tono di voce, il sospetto e la durezza

erano spariti dal suo volto. «Vi rivelerò ogni cosa, siatene certo. Prima però, lasciate che vi spieghiperché mi confidai con vostro padre».

«È palese», rispose Sinan, «per avere salva la vita». Ma nel momento stesso in cui pronunciò quelleparole, si rese conto che non poteva essere andata così. Non se si trattava dell’uomo di fronte a lui.

Infatti il monaco scosse il capo. «Non lo feci per vigliaccheria, né per timore della morte…».«Non me ne importa!», lo interruppe Assān, avanzando spazientito tra le fila degli azap. Scrutò i

presenti con un’occhiata carica di diffidenza e brandì il suo pugnale ricurvo, dimenandolo davanti aTadeus. «Non abbiamo tempo da perdere. Diteci dove cercare, vecchio scimunito, e fate in fretta!».

«Zitto!», sibilò Sinan, digrignando i denti come un lupo. Afferrò il sardo per un braccio e lo respinse inmalo modo. «Come osate? Qui si parla di mio padre! Se serbate un briciolo di rispetto nei suoi confronti,ascolterete senza fiatare».

L’agá indietreggiò intimidito. Poi, rendendosi conto di essersi comportato da pavido, divenne paonazzoper la rabbia e parve sul punto di scagliarsi contro il giovane, ma si trattenne, limitandosi a un sorrisettosubdolo. Sinan immaginò che stesse architettando un modo per vendicarsi, ma non aveva tempo percurarsi di lui. Era troppo curioso di scoprire i misteri nascosti dal padre, benché infastidito dal doverlispartire con i presenti, soprattutto con Assān.

A un suo cenno, Tadeus riprese il discorso: «La vita di un singolo individuo è misera cosa paragonataal Rex Deus. Chi sceglie di custodirne il segreto compie un atto di pura devozione e accetta con gioia, senecessario, di sacrificare la propria vita per proteggerlo… Ma rivelandolo al Giudeo, non venni meno anessun voto. Imbattendomi in lui, mi trovai di fronte a una parte dello stesso mistero che stavo

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difendendo».Sinan sentì un brivido corrergli lungo la schiena. «Siate più chiaro».«Vostro padre non mi incontrò per caso. Quando arrembò la nave dove mi trovavo imbarcato, era da

tempo sulle mie tracce. Mi aveva mancato per poco a Rodi, dov’ero stato catturato dagli armigeri delpapa, e se non fosse stato per lui sarei stato scortato in catene fino a Roma, dove mi attendevano laprigione e la tortura».

«Volete dire che… eravate perseguitato dalla Chiesa?»«Non dalla Chiesa, ma da una confraternita segreta che voleva impossessarsi del Rex Deus a tutti i

costi, sebbene non ne abbia il diritto. Sono uomini molto potenti, che tramano tra i chiostri e palazzi diRoma e Parigi. Si fanno chiamare “Nascosti”».

Il ragazzo si voltò d’istinto, scambiando un’occhiata con lo Strozzi. Il cavaliere di Malta si strinse nellespalle, a intendere che non ne sapeva nulla.

Cercando di fare ordine tra le sue idee, Sinan tornò a fissare il monaco. «Non capisco. Voi dite chequegli uomini, i Nascosti, non hanno il diritto di conoscere il segreto del Rex Deus… E mio padreinvece?»

«Lui sì», disse Tadeus, confermando con un cenno del capo quasi solenne. «Il Giudeo cercava rispostaa un enigma ereditato dai suoi avi. Un enigma vecchio di secoli. Il suo era un diritto di nascita, ma ancheuna missione. Missione che ora spetta a voi portare a compimento».

«Non so nulla dei miei avi», commentò il ragazzo. «Sono figlio di un pirata, non conosco altra verità».«Voi siete ben più di questo». Il monaco aprì le braccia, enfatizzando l’importanza delle parole che

stava per pronunciare. «Provenite da una stirpe di cabalisti e astronomi. È probabile che discendiate dalramo più nobile che ebbe l’onore di custodire il Rex Deus, prima che andasse perduto».

Nell’udire ciò, Sinan fu colto da un lieve stordimento e rammentò il discorso di alcuni giorni prima conil Sufi. Omar conosceva soltanto una parte della verità, ma l’aveva messo sulla buona strada, suscitandoin lui dubbi che ora andavano ingigantendosi. «Come potete ammetterlo con tanta certezza? Ditemi chisiete, e perché fuggite dai Nascosti».

«Tutto a suo tempo, figliolo… Vi mostrerò i documenti che ho nascosto in cima alla torre. Sono cartemolto antiche, e vi spiegheranno la verità sui vostri avi e la via per trovare la mappa. Ma ora…».

«Silenzio!».Sinan fu riportato alla realtà con una tale violenza che gli parve di sgusciare da un sogno.

L’esclamazione proveniva da Leone Strozzi, che aveva iniziato a guardarsi intorno allarmato, la manodestra stretta sull’elsa della spada.

«Ho udito un rumore», spiegò il fiorentino, allertando i compagni. «Qualcuno ci spia».«Impossibile», disse Tadeus. «Qui ci siamo soltanto noi confratelli».Il cavaliere di Malta lo ignorò e, dopo aver percorso a lunghi passi la navata, indicò con il mento un

usciolo laterale che si affacciava sul chiostro esterno. «Chi va là?», vociò. «Mostratevi!».Il ragazzo tese l’orecchio, ma dapprincipio percepì soltanto il frastuono delle cannonate che proveniva

dal mare. Fu sul punto di chiedere spiegazioni, poi, osservando il punto indicato dallo Strozzi, notòqualcosa.

Nell’arco di oscurità racchiuso dal piccolo ingresso, colse un movimento furtivo. E all’improvviso,come ombre uscite dalla notte, vide irrompere dentro il monastero un folto gruppo di uomini armati.

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Capitolo 18

Saverio Patrizi aveva recitato l’ufficio del vespro in solitudine, nella cappella del castello diPiombino. Stava perfettamente raccolto nella genuflexio recta, con le dita giunte in preghiera chesfioravano il mento del volto scavato. Una statua scolpita nella penombra, non fosse stato per il flebilerespiro che di tanto in tanto gli faceva fremere il petto. Forse lo tratteneva di proposito, pensò la donnanascosta dietro la colonna, per prolungare il più a lungo possibile quella ieratica immobilità. Poi lo videsnocciolare un grano del rosario. Uno scatto secco, calcolato, che le strappò un sussulto.

L’inquisitore si voltò. «Madonna, vi aspettavo».Elena Salviati mimò un inchino impacciato, poi lo raggiunse con passetti veloci e si inginocchiò

accanto a lui, di fronte al grande crocifisso che sormontava un altarino di marmo. «Avete novità, padre?»«Notizie di vostro marito», rispose il religioso, riportando lo sguardo sul Cristo appeso alla croce.La nobildonna restò basita. «Ma com’è possibile? Io non ne sapevo nulla…».Il Patrizi sollevò la mano come se volesse benedirla, poi accennò un piccolo diniego, per imporle il

silenzio. «Ho provveduto affinché i suoi messaggi venissero recapitati a me, non a voi. Ci troviamo inuna situazione particolare, spero comprendiate».

Elena si sentì avvampare. Aveva convinto Jacopo ad appoggiare i Nascosti per ottenere dei vantaggi,non perché la sua corrispondenza venisse setacciata e controllata da estranei. Ciò nondimeno, tenne lalingua a freno. Saverio Patrizi le incuteva soggezione. Algido e imperscrutabile, gli bastava fissarla con isuoi occhi spiritati per metterla a disagio. Lei aveva provato a combattere quella sensazione, cercando diconquistarlo con lusinghe e sorrisetti maliziosi, ma era soltanto riuscita ad accentuarne il distacco. Eadesso si trovava sola, nel suo castello, a fianco di una persona che non comprendeva e che scopriva ditemere. «Serva vostra, monsignore», disse, sforzandosi di apparire remissiva.

«Una staffetta è appena giunta da sud, sfiancando tre cavalli», spiegò l’inquisitore, senza degnarsi diguardarla in viso. «Il vostro Jacopo è sulle tracce del Barbarossa e, quel che più importa, del Rex Deus.Secondo fonti certe, l’ammiraglio corsaro è diretto alla pieve della Rocca, a sud di Piombino».

«Quali fonti?»«La spia, naturalmente».Elena torse la bocca, quasi gelosa. «Vi ostinate a riporre fede in quella donna…».«Voi no?»«Ho udito storie vergognose sul suo conto».«Tutte veritiere, suppongo». Un gelido sorriso si disegnò sul volto dell’inquisitore. «Margherita

Marsili reca dentro di sé un’oscurità profonda, quasi insondabile, e tuttavia anela al riscatto ed è dispostaa qualsiasi cosa pur di ottenerlo. So bene quel che dico. La incontrai la scorsa primavera, in un luogomolto simile all’inferno: Tolone, in Provenza. La flotta del Barbarossa svernava in quella cittàdall’autunno precedente, con il beneplacito di Francesco I di Francia, il suo blasfemo alleato. Glisciacalli di Maometto vi avevano portato i loro schiavi e le loro concubine».

Anche se non ne aveva avuto esperienza diretta, donna Salviati sapeva com’erano andate le cose aTolone. Il Barbarossa si era insediato con il suo seguito in una fabbrica di sapone, trasformandola in unareggia, dopodiché aveva ottenuto il permesso di impiegare la cattedrale di Santa Maria Maggiore comemoschea, facendola occupare dai muezzin. Corsari e giannizzeri avevano spadroneggiato per le vie della

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città, fraternizzando con i capitani delle squadre francesi e perpetrando saccheggi, uccisioni e rapimenti.Dopo cinque mesi, Tolone era stata ridotta alla miseria, e se Francesco I era riuscito liberarsi di Khayral-Dīn era stato però costretto a pagarlo ottocentomila scudi d’oro, compresi i viveri e le munizioni. Eraquesto il prezzo per chi ospitava il diavolo in casa propria.

«Fra le putte al seguito dei turchi ottomani c’era anche lei», continuò il Patrizi, «Margherita Marsili. Latrovai in uno stato pietoso, più simile a un animale che a un essere umano. Era la peggiore fra tutte, usa aconcedersi a chiunque le garantisse cibo e protezione. In circostanze normali, non mi sarei mai accostatoa un’anima talmente corrotta, ma mi fu imposto dalle esigenze. Cercavo una persona capace di svolgereun certo tipo di incarichi, su richieste di persone di alto rango. E tuttavia, fallì il primo compito che leaffidai».

Pur sforzandosi, Elena non riusciva a immaginare il diafano Saverio Patrizi mentre si aggirava traluoghi di depravazione e turpitudini, alla ricerca di reietti da reclutare per la causa dei Nascosti. Sottoquella cappa da domenicano, si disse, doveva celarsi un uomo dalle molte facce. «Non sapevo nulla inproposito».

«C’è poco da dire», sospirò l’inquisitore. «Chiesi alla Marsili di occuparsi di un uomo in esilio chefrequentava il Barbarossa, una spina nel fianco del duca di Firenze. Ma lei, anziché ucciderlo, se neinvaghì».

«Chi era quell’uomo?», domandò donna Salviati, curiosa non tanto nei riguardi di quell’individuo, nédell’innamoramento della Marsili, bensì del legame che intercorreva tra il Patrizi e Cosimo I de’ Medici.Per un attimo temette che il duca di Firenze, un potenziale nemico, fosse segretamente alleato deiNascosti. No, si disse, era impensabile. Perché se così fosse stato, lei e suo marito dovevano essere statiingannati e potevano correre un rischio mortale…

«Non serve che ne sappiate il nome». Il Patrizi la squadrò di sottecchi. «Era un cavaliere di Malta,traditore del suo Ordine e del granducato di Toscana», e tornò a osservare il crocifisso. «Da allora, hodestinato la Marsili a compiti più idonei alla sua indole…», ed emise un sospiro. «Ma veniamo a noi.Vostro marito ha compiuto una grave sciocchezza, anche se a fin di bene. Ha aggredito il de Vega,lasciandolo tramortito lungo la costa, a nord di Campo Albo».

«Bisognerà rimediare…».«Con calma, attendiamo lo sviluppo degli eventi. Tanto più che il Signore Iddio ha voluto ispirare a

Jacopo un’ottima strategia. Chiederà aiuto a Giannettino Doria, per ostacolare i corsari con la sua flotta.E nell’attesa, invierà un manipolo di uomini scelti alla pieve della Rocca, per strappare al figlio delGiudeo il segreto del Rex Deus. Così che ognuno di noi possa ottenere ciò che più brama».

Quando aveva riaperto gli occhi si era ritrovato dentro la chiesetta diroccata, in mezzo ai cadaverimassacrati dalle balestre. Il primo impulso era stato quello di rialzarsi in piedi. Una reazione stupida,considerato il senso di vertigine provocato dal colpo ricevuto alla testa, ma don Juan de Vega avevavoluto immediatamente assumere una posizione eretta, spinto dalla necessità di distinguersi dai corpimorti che gli giacevano tutt’intorno.

Si era portato con passo malfermo fino all’uscita e là, appoggiato al portale, aveva scrutato il marearrossato dal tramonto. La flottiglia di Jacopo V Appiani era sparita. Quel maledetto bastardo l’avevaabbandonato come un relitto, su una spiaggia cosparsa di sassi e cadaveri. Che ne sarebbe stato della suaIsabel? Non aveva più possibilità di ritrovarla.

Dopo aver dominato un moto di rabbia, si era avviato con passo ormai stabile tra le casupole deserte eaveva imboccato un sentiero in salita che portava lontano dal mare, verso la boscaglia. Era stata un’altrareazione istintiva, come se il semplice muoversi potesse attenuare il senso di angoscia. Dapprincipio non

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aveva saputo dove andare. Poi, sforzandosi di ricordare, era stato folgorato da un susseguirsi diimmagini. La conversazione con l’Appiani, la penombra dell’abside, la bambola di pezza e… ilmessaggio che conteneva! A quel punto, aveva saputo esattamente che direzione prendere. Ma a piediavrebbe impiegato molto tempo, non poteva indugiare.

Aveva piegato verso sud, inoltrandosi in un bosco di querce. Sfinito e tormentato dalla sete, avevaproseguito come un sonnambulo, senza che il pensiero di dover raggiungere la figlia gli desse mai requie.A un certo punto, sentendosi soffocare dal corsaletto di acciaio che gli stringeva il torace, se l’era toltodi dosso d’impulso, gettandolo sull’erba senza fermarsi.

Aveva camminato per ore senza incontrare nessuno. Poi, mentre calavano le tenebre, aveva udito ilnitrito di un cavallo. In uno slancio di speranza, aveva proseguito tra i cespugli di rosmarino fino ascorgere un corsiero turcomanno legato a un albero. Il suo padrone era vicino, seduto a terra con laschiena appoggiata al tronco. Indossava un turbante scuro e un elegante caffettano giallo. Anche nel buio,si distingueva una macchia di sangue sul fianco sinistro. Gli akinci avevano lasciato indietro uno dei loroferiti.

Senza curarsi di farsi notare, il de Vega era uscito allo scoperto per raggiungere il moribondo. Volevail cavallo e la borraccia legata alla sua sella.

La bestia aveva dato segni di nervosismo, ma il turco, aprendo improvvisamente gli occhi, l’avevatranquillizzata con un’esclamazione secca e con grande stupore dello spagnolo era balzato in piedi,sguainando la scimitarra.

Avevano incrociato le spade senza proferire verbo, misurandosi in un duello breve ma intenso, unsoldato ferito a morte contro un uomo sfiancato dalla fatica, sotto un cielo coperto di stelle. Don Juan siera battuto come un barbaro, furioso e incurante delle regole della scherma, finché non aveva sopraffattoil nemico. Un affondo al petto, senza tanti complimenti, poi si era preso la sua acqua e il suo destriero.

E ora, mentre l’ardore del combattimento si stemperava nel freddo della notte, cavalcava a spronbattuto verso la Rocca di Campo Albo. Già gli pareva di udire, in lontananza, il rombo dei cannoni.

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Capitolo 19

Le lame e i corsaletti degli armigeri scintillavano al bagliore dei ceri. Non si trattava di soldati comuni,ma di fanti ben equipaggiati. Venti in tutto, giunti per uccidere. Sinan li osservò farsi avanti nellasemioscurità della navata e, quando li ebbe a portata di stocco, riconobbe le loro uniformi. Erano sgherridi Jacopo V Appiani.

«Dov’è il vostro padrone!», ruggì, in uno slancio di collera. «Ha forse perduto il coraggio, ora che nonsono più in catene?»

«Siate cauto!», lo avvertì Leone Strozzi, portandosi al suo fianco. Impugnava la spada con la manodestra e la daghetta con la sinistra. «Questi cani non sono certo qui per conversare», e menando unfendente, invitò un avversario a farsi avanti.

A un grido di Assān, i sei azap avanzarono in ordine sparso per ingaggiare il combattimento. Erano innetta minoranza, ma più agguerriti di un branco di lupi. Al posto di zanne e artigli, brandivano mezzepicche, scimitarre e gli stessi rampini metallici utilizzati per arrampicarsi sulla rupe. Spiazzati dal loroimpeto, gli uomini dell’Appiani furono costretti a indietreggiare verso la controfacciata. Ma i colpi piùtemibili venivano sferrati al centro della navata, dove Sinan e lo Strozzi erano rimasti impegnati in unduello impari. Il cavaliere di Malta teneva a bada due avversari, parando i loro fendenti con la daghetta eaffondando di punta con la spada finché non riuscì a infilzarne uno alla gola. Si spostò in fretta, coprendola schiena del compagno, e continuò a battersi. Sinan, dal canto suo, aveva appena ucciso uno sgherro,subito sostituito da una coppia ancor più agguerrita. Si difese con destrezza, maneggiando la spada conmosse talmente veloci da mettere in imbarazzo gli uomini di Jacopo V.

Era la prima volta che veniva coinvolto in uno scontro non convenzionale, più simile a una zuffa che aun duello tra gentiluomini, eppure non riscontrava né imbarazzo né difficoltà. Anzi, era perfettamente asuo agio, in preda a un’euforia sanguinaria alimentata dall’odio per il principe di Piombino. Tuttavia leferite fresche gli impedivano di battersi al meglio, costringendolo a dosare le forze per non rischiare ditrovarsi sfinito, in balia dei nemici. Inoltre aveva poco spazio per muoversi. La navata del monastero eraun ambiente buio e pieno di ostacoli. Era difficile orientarsi nella mischia, tra decine di sagome inpenombra, tra le grida, il cozzare delle armi e il boato dei colpi di cannone che si faceva sempre piùintenso.

Senza smettere di sferrare colpi, Sinan si guardò intorno per valutare la situazione. Gli azap avevanonotevolmente sfoltito i ranghi degli aggressori, ma almeno tre di loro erano caduti a terra. Vide Assānagire nell’ombra, mentre pugnalava a tradimento un nemico, e, nel bel mezzo del putiferio, il monoliticoMargutte.

Il gigante albino agitava la sua mazza a destra e a manca, scaraventando i nemici a terra o contro lecolonne. Più che impegnato in uno scontro, sembrava intento a scacciare uno sciame di mosche. Sul suovolto, un sorriso infantile era deformato da un riflesso di follia. Quando incrociò lo sguardo di Sinan,abbandonò il combattimento e si avviò a lunghi passi verso di lui, spostando le panche di legno ai bordidella navata con la sua stazza da elefante.

Il ragazzo era alle prese con un temibile spadaccino, forse il capo del gruppo, a giudicare dallaformidabile abilità. E nonostante iniziasse a sentirsi provato, gli stava dando del filo da torcere.Un’ultima sequenza di colpi e l’avrebbe mandato al Creatore. Margutte decise ugualmente di dargli

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manforte e, mulinando la mazza dal basso verso l’alto, colpì l’uomo all’altezza delle ginocchia,mandandolo gambe all’aria con un rumore di ossa spezzate.

«Levati di mezzo, bestione!», lo rimproverò Sinan, vedendosi sottratto il piacere di finire l’avversario.«Lasciatelo fare!», intervenne lo Strozzi, invitandolo a ripiegare verso l’abside. «Avete cose più

importanti a cui pensare».In quel momento un fante nemico uscì dal buio, sorprendendo il fiorentino alle spalle. Sinan lo fece

scostare con un gesto brusco e, agendo di riflesso, si allungò in avanti per infilzare lo sgherro.Il cavaliere di Malta, sbigottito, guardò l’uomo mentre stramazzava sul pavimento, infine si rivolse al

giovane corsaro. «Vi devo la vita», disse, più con meraviglia che con riconoscenza.«È probabile che molto presto mi rendiate il favore», ribatté Sinan con un sorriso beffardo. Poi, scosso

da un improvviso presentimento, si voltò verso la zona del coro. «I monaci!», esclamò. «Dove sonofiniti?».

Il fiorentino guardo tra le sagome degli uomini all’interno dell’edificio. «Sono spariti!».«Dobbiamo trovarli», disse il ragazzo. «Non possiamo permetterci di perdere Tadeus».«Di là!». Lo Strozzi indicò l’uscita principale del monastero. Un gruppo di fanti stava uscendo in tutta

fretta, defilandosi dal combattimento.I due compagni si lanciarono all’inseguimento, lasciando indietro il più lento Margutte. Con una rapida

sequenza di colpi si sbarazzarono di un fante che aveva tentato di ostacolarli, quindi attraversarono ilportale e si riversarono all’esterno, le armi in pugno e i muscoli tesi. Ma non erano pronti allo spettacoloche si trovarono di fronte.

Davanti ai loro occhi si apriva una piazzola circondata da un borgo in fiamme. La notte, resa ancora piùscura dal fumo degli incendi, rimbombava del tuono dei cannoni e del sibilo dei proiettili che sischiantavano contro mura ed edifici.

Sinan restò impietrito a osservare la Rocca che andava a fuoco. Il vento gli portò il calore dellefiamme, accecandolo con uno sfarfallio di cenere. Un grido dello Strozzi lo strappò da quella visioneinfernale.

In mezzo alla piazzola, perfettamente mimetizzata tra le ombre, una carrozza nera stava partendo conuno schiocco di frusta.

«Devono essere loro!», disse il ragazzo, cercando di raggiungere il veicolo. Proprio in quell’istante, lacanna di un archibugio spuntò da una tenda dell’abitacolo, costringendolo a gettarsi a terra.

Il colpo partì, sfiorandogli l’orecchio sinistro, mentre la carrozza si avviò con uno stridere di ruoteverso i vicoli in fiamme, scomparendo dietro una nube di fumo.

«Ora che facciamo?», chiese il fiorentino, aiutando il compagno a rialzarsi da terra. «Se tornatesull’ammiraglia a mani vuote, il Barbarossa vi ucciderà prima che possiate dargli spiegazioni».

Sinan recuperò la spada caduta a terra e si guardò intorno, raccogliendo in fretta i pensieri. Il primoimpulso, e forse il più ragionevole, fu quello di fuggire. Il cavaliere di Malta avrebbe potuto coprirlo,dichiarando che era stato rapito o ucciso dagli uomini dell’Appiani. Ma così facendo, il ragazzo avrebbedovuto rinunciare alla sua vendetta, e pure a Isabel. La ragazza era ancora là, in balia del feroce Nizzâm.Non poteva permettersi di abbandonarla. D’altro canto, quale altra scelta aveva?

Poco distante da dove era partita la carrozza, scorse i cadaveri di quattro monaci. I cani bastardidell’Appiani avevano riconosciuto Tadeus e si erano sbarazzati dei suoi confratelli, forse temendo cheuno di loro fosse stato messo a parte del segreto. Ora, nella pieve della Rocca, non restava nessuno ingrado di svelare il mistero del Rex Deus.

«Forse non tutto è perduto», disse Sinan, speranzoso, e si avviò a lunghe falcate verso l’interno delmonastero.

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Lo Strozzi lo seguì d’istinto. «Cosa intendete?»«Ricordate le parole di Tadeus?». Il ragazzo indugiò davanti all’ingresso. «Ha detto di aver nascosto

dei documenti nella torre!».

«Aiuto, mi vuole uccidere!», gridò Isabel, battendo i pugni sulla porta del cubicolo. Ormai non avevapiù voce e, peggio ancora, era convinta che nessuno avrebbe risposto al suo richiamo. Ma quando ormaisi stava dando per vinta, udì dei passi avvicinarsi all’ingresso, quindi lo scatto della serratura e ilcigolare dei cardini del battente.

Entrò un guardiano dal volto grassoccio e completamente glabro. Fissò la ragazza con ariainterrogativa, poi varcò l’ingresso e avanzò con cautela, per controllare l’accaduto. Isabel lo invitò afarsi avanti, fingendosi terrorizzata.

Nel frattempo il battente si richiuse con lentezza, scoprendo una figura nascosta nell’ombra. Una donna.Attese che l’uomo giungesse al centro del cubicolo, poi si acquattò furtiva dietro la sua schiena, sollevòun braccio e lo calò di scatto. Un guizzo di luce metallica.

Con un rantolo strozzato, il guardiano si portò la mano alla cervice e deformò il volto in un’espressionedi dolore. Digrignò i denti, minacciando di esplodere in un accesso di rabbia, poi però fu scosso da unaconvulsione e cadde sul pavimento sbattendo le ginocchia e la faccia.

«Che ti è saltato in mente?», mormorò la ragazza, sgomenta. «Non avevamo parlato di ucciderlo!».Uscendo dalla penombra, Margherita Marsili si chinò sulla vittima e, attenta a non sporcarsi di sangue,

estrasse il coltellino dalla base della sua nuca. «Era il doppio di noi», ribatté con cinismo. «Pensavidavvero che saremmo riuscite a minacciarlo con una piccola lama da sarta?»

«Quindi era tua intenzione fin dall’inizio…». Isabel restò impietrita di fronte alla naturalezza ostentatadalla compagna. Dopo la loro recente discussione, credeva di aver riconosciuto in lei un’anima indifesae turbata, nascosta dietro un velo di aggressività. “Saremo come sorelle”, le aveva promesso, pensandodi rassicurarla. Invece si era sbagliata. La vera Margherita era l’altra, la donna altera e distaccata capacedi uccidere a sangue freddo. E ora si trovava di nuovo al suo cospetto.

«In fretta!», disse la rossa, sbirciando oltre l’ingresso. «Dobbiamo andare».Isabel si sentì prendere per mano e trascinare velocemente fuori dal cubicolo. Soltanto in quel momento

capì di essersi illusa. Tra le due, la più forte era sempre stata Margherita.Avanzarono guardinghe per il corridoio, superando la camera del comandante, infine proseguirono per

una breve gradinata di legno che le portò all’esterno della carrozza di poppa. Era notte fonda. Nellevicinanze non si scorgeva anima viva, ma non potevano essere certe che il ponte fosse completamentedeserto. Dalle tenebre affioravano soltanto i bagliori delle lanterne appese alle alberature e lungo ilperimetro della nave, che lasciavano ampi spazi nascosti nel buio. La cautela le indusse a nascondersidietro un gruppo di botti e a studiare la situazione, nell’attesa che gli occhi si abituassero all’oscurità.

La superficie nera del mare si fondeva alle gibbosità della terraferma, piuttosto vicina. La nave dovevaessere attraccata presso la costa e oscillava sotto le stelle tra continui cigolii, come se stessesonnecchiando.

«Ecco una scialuppa». Isabel indicò una piccola barca fissata allo scafo, in fondo alla zona del cassero.«Non sarà facile raggiungerla», bisbigliò Margherita, invitandola a guardare tra le vele ammainate sugli

alberi.Ma i boati dei cannoni le costrinsero a voltarsi a meridione, verso uno spettacolo che le paralizzò. A

circa due miglia di distanza, una flotta di galee prendeva d’assalto una fortezza affacciata sul mare. Icolpi di artiglieria infuocavano il cielo come fulmini in una tempesta, illuminando le sagome delleimbarcazioni, mentre le fiamme che avvolgevano i bastioni, ben distinguibili anche da lontano, sfumavano

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la notte di venature purpuree.La bella Marsili fu la prima a riprendersi da quella vista. «Dobbiamo pensare a noi», e invitò la

compagna a osservare la gabbia posizionata in cima all’albero di maestra, dove risplendeva il baglioredi una torcia.

Isabel impiegò qualche secondo a dominare le emozioni, poi obbedì e guardò in alto, scorgendo lesagome di due vedette accovacciate all’interno della gerla di avvistamento. «Sono immobili».

«Forse dormono, ma non è detto».«Anche se fosse, non penso che tengano d’occhio il ponte».«Quelli però sì», e le indicò una coppia di ronda appena uscita dal buio. Ghazi armati di picche, dal

passo stanco. Dovevano provenire da prua.«Attendiamo che compiano il loro giro e passino oltre», suggerì Isabel, rannicchiandosi dietro una

botte. «Qui non ci vedranno».I due uomini oltrepassarono il loro nascondiglio senza accorgersi di nulla. Eseguirono un rapido

controllo della zona del timone alla luce dei fanali di poppa, poi proseguirono verso prora. Quando sifurono allontanati, le due donne uscirono allo scoperto e si avvicinarono con cautela alla scialuppa.

La barca era assicurata allo scafo mediante un sistema di funi legate a un verricello dotato dimanovella.

«Non possiamo salire entrambe», disse Isabel. «Una di noi sarà costretta a restare sul ponte, perazionare il meccanismo».

«E poi?»«E poi si calerà da una delle corde fissate alla scialuppa».«Con il rischio di cadere in mare…».«Se dovesse accadere, l’altra la aiuterà a salire».La rossa incrociò le braccia. «Io non so nuotare».Isabel si fece da parte. «Sali tu sulla scialuppa», disse decisa. Forse era più spaventata della compagna

all’idea di precipitare in acqua, ma il timore che le guardie tornassero da un momento all’altro lainquietava ancor più del rischio di affogare.

Dopo aver aiutato la Marsili a salire sulla barca, sbloccò il verricello intorno a cui erano fissati icordami e afferrò la manovella per farlo ruotare. Ma il meccanismo si rivelò più duro del previsto.Dovette far appello a tutte le sue forze per smuoverlo poco più di un pollice e per la prima volta, daquando era uscita all’aperto, pensò che non ce l’avrebbe fatta. Era troppo debole, servivano i muscoli diun uomo per azionare quel verricello, ma ormai erano fuori dal cubicolo e avevano ucciso un uomo: nonpotevano lasciare che qualcuno le scoprisse. In preda all’angoscia, si aggrappò alla manovella con ambole mani e tentò ancora una volta di farla ruotare, piegandosi sulle ginocchia per imprimere la maggiorspinta possibile. E all’improvviso sentì il meccanismo sbloccarsi. Profondamente sollevata, la ragazzacontinuò a fare forza, ma il verricello era ancora troppo lento, finché non si accorse che più le funi sisrotolavano, minore era la resistenza opposta dal meccanismo. Augurandosi che nessuno ne udisse ilcigolio, continuò a far girare la manovella finché non sentì il rumore della scialuppa che si posava sulpelo dell’acqua.

Lasciò la presa e respirò profondamente. Era esausta, e tuttavia non aveva tempo di riposarsi. Oratoccava a lei calarsi.

Si sporse sul parapetto e si aggrappò a una fune, ma non appena guardò in basso fu subito colta dallavertigine. Era più alto di quanto pensasse, il buio talmente intenso da confondersi con le onde marine.Esitò un attimo, poi scosse la testa. Non aveva scelta, doveva farsi coraggio. In fondo, era appena riuscitaa calare da sola una scialuppa in mare. Mise da parte ogni paura, strinse la presa intorno alla corda e si

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lasciò andare. Fu a quel punto che sentì le dita scivolare. Le funi dovevano essere cosparse di catrame!Precipitò nel vuoto emettendo un grido prolungato finché non sentì un tonfo, poi l’abbraccio gelido

dell’acqua che la trascinava giù, dove il buio si faceva quasi palpabile.Prima che scivolasse nelle profondità, una mano la afferrò per i capelli, sollevandola verso la

superficie.«Muoviti, presto!», disse Margherita, aiutandola a salire a bordo. «Le tue grida avranno di certo

allertato qualcuno!».Isabel si aggrappò ai bordi della scialuppa, tossendo e respirando convulsamente. Non avrebbe mai

immaginato che toccare delle semplici assi di legno potesse infonderle un così profondo senso di felicità.E combattendo i brividi di freddo, si sedette a prua e iniziò a remare insieme alla compagna.

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Capitolo 20

All’interno del monastero si stava ancora combattendo. Gli ultimi sopravvissuti allo scontro, ormaiesausti, vibravano i loro colpi con minore audacia ed energia, affidandosi più alla sorte che al valore.Sinan e Leone Strozzi attraversarono la navata senza lasciarsi coinvolgere nella mischia, ma nonpassarono inosservati ad Assān, che ordinò a Margutte di sostituirlo in duello e li raggiunse a lunghipassi. «Maledetti incapaci, vi siete lasciati sfuggire il monaco!», li rimproverò con la sua voce stridula.«Ora il Rex Deus è perduto!».

«Questo è ancora da vedere», disse il giovane. «C’è un’altra possibilità», e correndo verso il latodestro dell’abside, varcò l’accesso alla torre campanaria.

«Aspettate!». Il sardo lo rincorse. «Non azzardatevi a lasciarmi indietro».In risposta alle sue parole, il cavaliere di Malta si mise da parte per farlo passare. «Prima voi, agá», e

dopo avergli dato la precedenza, lo seguì oltre l’arcata, lungo le scale.Sinan era già a metà della salita quando udì dietro di sé un urlo straziante. Tornò in fretta sui propri

passi, già pronto a combattere, quando si imbatté in Assān, in ginocchio e con la bocca spalancata. Allesue spalle, Leone Strozzi gli stava affondando la daghetta nella schiena.

Il giovane fissò l’espressione agonizzante del sardo, più sorpreso che dispiaciuto nell’assistere alla suamorte. «Messere… perché?»

«Perché conoscevo gli ordini che gli aveva impartito il Barbarossa». Il fiorentino estrasse la lama dallecarni di Assān, strappandogli l’ultimo ansito di vita, poi si scostò per lasciarlo ruzzolare giù dalle scale.«Era qui per scoprire i vostri segreti, poi vi avrebbe assassinato. Ma non temete, riferiremo all’amír cheè stato ucciso dagli sgherri dell’Appiani», e gli rivolse uno sguardo complice. «Consideratelo unpareggio di conti per avermi salvato la vita».

Sinan disegnò un lieve inchino in segno di gratitudine, ma non si lasciò blandire. «Non crediatemi uningenuo, messere. Mi state aiutando fin troppo, e io non ne conosco ancora il motivo».

Il cavaliere di Malta si strinse nelle spalle. «Lo saprete presto, non temete». Rinfoderò l’arma. «Ora,però, abbiamo da fare».

Proseguirono verso la sommità nella torre, finché non giunsero nell’ambiente che ospitava la campana.«Né bauli né librerie», disse il ragazzo, guardandosi intorno con un crescente senso d’ansia. Sapeva

bene che, se avesse fallito, il Barbarossa gliel’avrebbe fatta pagare cara. «Secondo voi, a cosa si riferivaTadeus?»

«Ha parlato di documenti, carte molto antiche», rispose lo Strozzi. «Troppo vago per farsi un’idea.Tuttavia, in questo luogo non scorgo nascondigli adatti per cose del genere».

«Torniamo indietro», propose Sinan, voltandosi verso le scale. «Cercando altrove potremmo averemaggior fortuna».

«No, aspettate. Il vecchio era troppo devoto alla sua causa per mentire. Ciò di cui parlava dev’essereper forza qui».

Lo Strozzi prese a esaminare con maggior attenzione le pareti, e il ragazzo fece altrettanto. Gliappartenenti all’Ordine del Battista erano uomini particolari, primi fra tutti in fatto di devozione e dicoraggio. Ma si diceva pure che fossero maestri nell’occultare le prove e distorcere la realtà, al punto dafar passare per imprese eroiche i loro atti di pirateria. Chi, meglio di uno di loro, poteva essere capace

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di interpretare gli enigmi di un monaco?Sinan gli restò vicino, più attento alle sue espressioni che ai particolari su cui si soffermava, finché,

dopo averlo seguito per l’ambiente, lo vide avvicinarsi a un punto preciso della parete. «Cos’è questo?»,lo sentì dire.

Fra i blocchi di pietra c’era una feritoia verticale, come se la calce fosse stata grattata via per creare uninterstizio all’interno del muro. Dentro vi era stato incastrato qualcosa di lungo e sottile, avvolto in untelo di stoffa.

Lo Strozzi infilò le mani nella fessura e, con molta attenzione, estrasse l’involto, lo posò a terra echiese a Sinan di aiutarlo a disfarlo. Sembrava un antico vessillo, ormai logoro. Non appena i duecompagni lo toccarono, si resero conto che era fragilissimo. Non poterono evitare di lacerarlo in piùpunti. Le chiazze di muffa e di sporcizia coprivano un ordito che all’origine doveva essere stato bianco,con una grande croce rossa dipinta al centro. All’interno dell’involto trovarono una spada da cavaliere,ormai totalmente coperta di ruggine. Tra l’elsa e la guardia era legato un libercolo.

«Vi rendete conto?». Dalla voce del fiorentino trapelò un profondo rispetto. «Questi reperti devonoavere più di duecento anni!».

Il ragazzo stentava a riconoscerlo. Fino ad allora, il cavaliere di Malta si era comportato con il cinismodi chi è interessato solo alla vendetta. Invece ora lo vedeva in ginocchio, intento a contemplare uncimelio con autentica venerazione. D’altronde era naturale. Quel vessillo portava il marchio di un ordinedi monaci guerrieri estinto da tempo, la croce eretica dei Templari.

Quel che più gli dava da pensare, tuttavia, era il misterioso legame che intercorreva tra suo padre, ilRex Deus e l’Ordine del Tempio. Un legame che in qualche strano modo riguardava anche lui. Se Tadeusera stato sincero, la risposta era contenuta nel libercolo legato alla spada. E tra le sue pagine avrebbetrovato anche la mappa in grado di condurlo al Rex Deus. Impaziente di sapere, Sinan lo liberò dai lacciconsunti che lo tenevano fissato all’elsa e lo esaminò con cautela, timoroso di rovinarlo come il vessillo.Con grande sollievo, si accorse che era molto meglio conservato e poté sfogliarlo senza difficoltà. Aquanto pareva, la pergamena resisteva al tempo più dell’acciaio.

Dopo aver liberato il codice dalla polvere, lo aprì sulla prima pagina. Si trattava di un manoscritto inuna lingua che non riusciva a comprendere. Di certo non era latino, né un dialetto della penisola italica.Per certi versi assomigliava al francese, e tuttavia non era in grado di afferrarne il senso.

«Quelle pagine dovrebbero custodire il segreto a cui accennava Tadeus», disse lo Strozzi.«Può darsi». Il ragazzo gli porse il libercolo. «Fatto sta che non riesco a capire una sola parola».«È scritto in provenzale antico», rivelò il cavaliere di Malta, esaminando il testo. «Sembrerebbe una

sorta di diario».«Siete in grado di tradurlo?»«Credo di sì, in passato ho studiato documenti compilati nella stessa lingua». L’uomo aggrottò la fronte

e masticò qualche parola, mormorando tra sé. «Tuttavia dovrete avere pazienza, è passato molto tempoda allora e sarò costretto a leggere con molta attenzione, per evitare di sbagliarmi. Per fortuna, chiscrisse queste pagine usò un linguaggio semplice. Non era un uomo dotto», sorrise, «ma un monacotemplare». E così dicendo, mostrò alcuni segni a forma di croce che comparivano a margine delle pagine,simboli dell’Ordine del Tempio. «Il testo si apre con una data, il 16 marzo 1244».

Cominciò quindi a tradurre:

Mi chiamo Aloisius e due settimane fa ho visto cadere il castello di Montségur. Che Dio abbia misericordia della mia animaimmortale, ma non ho potuto fare nulla dinanzi a simile scempio, se non commiserare la mia impotenza mentre osservavo nascosto nelfolto degli alberi. Non sono pavido e nemmeno malvagio. Se sono venuto meno al mio dovere di difendere gli oppressi, è stato perassolvere a un compito di immensa importanza, da cui dipende il futuro della cristianità tutta.

Domani i soldati del siniscalco reale condurranno gli abitanti del castello al rogo, perché possano bruciare davanti agli occhi

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dell’arcivescovo di Narbonne. Ma stanotte Pierre-Roger de Mirepoix, comandante in capo delle milizie di Montségur, è riuscito acondurre fuori dal castello quattro uomini e, dopo aver eluso la sorveglianza, li ha affidati alla mia protezione. L’ho pregato divenire con noi, per mettersi in salvo, ma quel valoroso, dopo avermi ringraziato, ha scelto di tornare indietro per unirsi al destinodei propri compagni. Spero che Dio, nel momento in cui deciderà di prendere la mia vita, saprà infondermi il medesimo coraggio.Prima, però, lo prego di darmi la forza sufficiente a condurre in salvo questi quattro sopravvissuti. Ora che le difese di Monségursono cadute, io rappresento per loro l’unica speranza di sopravvivenza. Non permetterò che muoiano invano. Tre di loro sonoperfecti catari, custodi del culto professato in molti luoghi della Linguadoca e che fu erroneamente definito eresia. Al contrario,rappresenta la più veritiera interpretazione del Vangelo.

Il quarto fuggiasco, invece, è un giudeo proveniente da un’antica stirpe. Non so perché si nascondesse a Montségur. Il Mirepoixmi ha rivelato poco al riguardo, avvertendomi soltanto che quell’uomo porta con sé un terribile segreto. Me l’ha sussurratoall’orecchio mentre mi abbracciava per congedarmi, dicendo che quel segreto aveva un nome: Rex Deus.

Leone Strozzi sollevò lo sguardo dall’incartamento. Aveva letto soltanto la prima pagina e Sinanfremeva di sapere cos’altro contenesse quel diario. Chi era l’ebreo di cui parlava Aloisius? Era forse unsuo lontano avo?

«Vi prego», disse, «continuate a tradurre».Ma il fiorentino gli riconsegnò il libercolo e camminò verso una bifora che si affacciava sulla piazza

sottostante. «Mi pare di aver udito nitriti di cavalli», annunciò allarmato, e guardò in basso. «Problemi»,rivelò poi, invitando il compagno a controllare.

Sinan si sporse, accorgendosi d’un tratto che i rimbombi dei cannoni erano cessati. L’interesse per ilcontenuto del diario era stato tale da estraniarlo dalla realtà. E quando guardò in basso, si trovò di frontea una terribile sorpresa.

La piazzola era occupata da un assembramento di guerrieri turchi. Al loro comando, in groppa a uncavallo magnificamente bardato, c’era Nizzâm.

Don Juan de Vega frenò il cavallo lungo la spiaggia, puntando lo sguardo verso gli imponenti velieriattraccati al largo. L’oscurità della notte non gli consentì di scorgerne le insegne, ma fu certo di nonsbagliarsi: dovevano essere le navi della Mezzaluna.

Era troppo stanco per elaborare strategie, aveva bisogno di riposare, e tuttavia fu pervaso da un’intimaeuforia. Isabel era di certo su una di quelle imbarcazioni. Doveva soltanto trovare il modo di liberarla.

Poi, tornando a fissare il mare, intravide qualcosa fra le onde e gli scogli. Per un attimo credette diassistere a un gioco di ombre che plasmava forme di oggetti inesistenti, ma dopo aver aguzzato la vista fucerto di non essersi ingannato. Una scialuppa stava attraccando lungo la spiaggia, in un punto d’approdopoco distante. Forse si trattava di soldati turchi, si disse, ma poi, con grande disappunto, scorse duedonne scendere sulla terraferma. Erano sole e, ancor più strano, non potevano che provenire da uno deigrandi velieri turchi…

D’un tratto don Juan de Vega sentì un presagio mordergli lo stomaco, e d’istinto lanciò il cavallo inquella direzione. Era un pensiero folle, una vana illusione, ma lui la assecondò e pregò con tutto se stessoche fosse vero. Perché, a meno che la spossatezza non avesse tradito i suoi sensi, una di quelle donneaveva un che di molto familiare.

E con un violento colpo di briglia, incitò il destriero al galoppo.

FINE DELLA TERZA PUNTATA

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