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STEFANO GIAZZON Vincenzo Panciatichi da L’Amicizia Costante (1600) a Gli Amorosi Affanni (1605): una pastorale ‘in viaggio’ fra Firenze e Venezia* Chiara cosa è che se le Pastorali non fossero si po- tria dire poco men che perduto a fatto l’uso del palco, e ’n conseguenza reso disperato il fine de i Poeti scenici, il qual deve essere, che i loro compo- nimenti vengano rappresentati. ANGELO INGEGNERI, Della poesia rappresentativa La pastorale fu un intermezzo anche nella storia del teatro: col Pastor fido l’intermezzo è finito. MARIO APOLLONIO, Storia del teatro italiano 1. Non sarà ozioso delimitare immediatamente il perimetro del presente intervento, ad evitare di de- ludere orizzonti d’attesa troppo raffinati, chiarendone scopi e limiti. La sua principale raison d’être sta nel significativo percorso poetico compiuto da un minimo, più che minore, letterato fiorentino vissuto a cavallo dei secoli XVI e XVII e sul quale pochissime sono le notizie biografiche: la qual co- sa impone di rilevare le oggettive difficoltà di approfondimento inerenti ad un autore che, illustre rappresentante di una antica e notevole famiglia dell’aristocrazia ghibellina pistoiese, i Panciatichi appunto (poi fiorentinizzatisi), fu più che poeta, condottiero, verosimilmente contiguo (ma non senza incrinature) al potere di Cosimo I de’ Medici, come dimostrerebbe anche l’Oratione funebre recitata in suo ricordo a Pisa nel 1598 ed edita dai Giunti. 1 «Raro Ornamento della sua nobilissima Schiatta, di Firenze sua Patria, delle Lettere, e Poe- sie più amene, e del Secolo decimo settimo, che aprì, e rallegrò con le sue ingegnosissime Teatrali Rappresentazioni» (così lo descrive padre Giulio Negri nella sua colossale ed eruditissima Istoria degli scrittori fiorentini), 2 Vincenzo Panciatichi fu cavaliere di Santo Stefano e condottiero di un certo prestigio per conto dei Medici; fece sicuramente parte dell’Accademia degli Spensierati, che ebbe significativi interessi teatrali (e cui appartenne, fra gli altri, anche Giovan Battista Andreini), con il nome di Agitato, ma anche di Sicuro; 3 fu poeta tragico con due testi che, fin dal titolo, tradi- scono la voga esotica che si era diffusa nelle lettere italiane per ciò che concerne le fabulae in co- turno (l’Orintia del 1600 e Il Re Artemidoro del 1604, entrambe edite da Giunti) 4 e, quel che più ci interessa, fu poeta pastorale con due titoli: L’Amicizia Costante (Firenze, Filippo Giunti, 1600) e Gli Amorosi Affanni (Venezia, Giovan Battista Ciotti, 1605 e 1606), di cui ci occuperemo puntual- * Ringrazio, per questo contributo, Elisabetta Selmi, senza i cui suggerimenti nulla sarebbe stato scritto, e Luca Pian- toni, che ha generosamente condiviso con me indicazioni bibliografiche, riflessioni e suggestioni. 1 Orazione funerale del Cav. Vincenzo Panciatichi da lui recitata il dì 21. d’Aprile l’anno 1598, nell’Annuali Esequie del Gran Duca Cosimo nella Chiesa della Religione di S. Stefano in Pisa, in Firenze, Filippo Giunti, 1598, in 4. 2 Cfr. GIULIO NEGRI, Istoria degli scrittori fiorentini, Ferrara, Bernardino Pomatelli, 1722, p. 530. 3 Agitato è presente nei frontespizi di Re Artemidoro e Amorosi Affanni; Sicuro in quello dell’Orintia. 4 FRANCESCO SAVERIO QUADRIO, Della storia e della ragione d’ogni poesia, III, Milano, Francesco Agnelli, 1743, p. 75: «Vincenzo Panciatichi, Fiorentino, e Cavaliere di S. Stefano, fiorì nell’ingresso del Secolo XVII. Compose egli due Trage- die: la prima della quali intitolata Orinthia fu impressa in Firenze per Cosimo Giunti nel 1600, in 8.: la seconda, intitolata Il Re Artemidoro, quivi pure impressa nel 1604 in 4.». Il Quadrio non fa menzione delle due pastorali del Panciatichi, se- gno che non dovettero godere di grande fama.

Vincenzo Panciatichi da 'L’Amicizia Costante' (1600) a 'Gli Amorosi Affanni' (1605): una pastorale ‘in viaggio’ fra Firenze e Venezia (2012) [CHAPTER IN BOOK]

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STEFANO GIAZZON

Vincenzo Panciatichi da L’Amicizia Costante (1600) a Gli Amorosi Affanni (1605): una pastorale ‘in viaggio’ fra Firenze e Venezia*

Chiara cosa è che se le Pastorali non fossero si po-tria dire poco men che perduto a fatto l’uso del palco, e ’n conseguenza reso disperato il fine de i Poeti scenici, il qual deve essere, che i loro compo-nimenti vengano rappresentati.

ANGELO INGEGNERI, Della poesia rappresentativa La pastorale fu un intermezzo anche nella storia del teatro: col Pastor fido l’intermezzo è finito.

MARIO APOLLONIO, Storia del teatro italiano

1.

Non sarà ozioso delimitare immediatamente il perimetro del presente intervento, ad evitare di de-

ludere orizzonti d’attesa troppo raffinati, chiarendone scopi e limiti. La sua principale raison d’être

sta nel significativo percorso poetico compiuto da un minimo, più che minore, letterato fiorentino

vissuto a cavallo dei secoli XVI e XVII e sul quale pochissime sono le notizie biografiche: la qual co-

sa impone di rilevare le oggettive difficoltà di approfondimento inerenti ad un autore che, illustre

rappresentante di una antica e notevole famiglia dell’aristocrazia ghibellina pistoiese, i Panciatichi

appunto (poi fiorentinizzatisi), fu più che poeta, condottiero, verosimilmente contiguo (ma non

senza incrinature) al potere di Cosimo I de’ Medici, come dimostrerebbe anche l’Oratione funebre

recitata in suo ricordo a Pisa nel 1598 ed edita dai Giunti.1

«Raro Ornamento della sua nobilissima Schiatta, di Firenze sua Patria, delle Lettere, e Poe-

sie più amene, e del Secolo decimo settimo, che aprì, e rallegrò con le sue ingegnosissime Teatrali

Rappresentazioni» (così lo descrive padre Giulio Negri nella sua colossale ed eruditissima Istoria

degli scrittori fiorentini),2 Vincenzo Panciatichi fu cavaliere di Santo Stefano e condottiero di un

certo prestigio per conto dei Medici; fece sicuramente parte dell’Accademia degli Spensierati, che

ebbe significativi interessi teatrali (e cui appartenne, fra gli altri, anche Giovan Battista Andreini),

con il nome di Agitato, ma anche di Sicuro;3 fu poeta tragico con due testi che, fin dal titolo, tradi-

scono la voga esotica che si era diffusa nelle lettere italiane per ciò che concerne le fabulae in co-

turno (l’Orintia del 1600 e Il Re Artemidoro del 1604, entrambe edite da Giunti)4 e, quel che più ci

interessa, fu poeta pastorale con due titoli: L’Amicizia Costante (Firenze, Filippo Giunti, 1600) e

Gli Amorosi Affanni (Venezia, Giovan Battista Ciotti, 1605 e 1606), di cui ci occuperemo puntual-

* Ringrazio, per questo contributo, Elisabetta Selmi, senza i cui suggerimenti nulla sarebbe stato scritto, e Luca Pian-

toni, che ha generosamente condiviso con me indicazioni bibliografiche, riflessioni e suggestioni. 1 Orazione funerale del Cav. Vincenzo Panciatichi da lui recitata il dì 21. d’Aprile l’anno 1598, nell’Annuali Esequie

del Gran Duca Cosimo nella Chiesa della Religione di S. Stefano in Pisa, in Firenze, Filippo Giunti, 1598, in 4. 2 Cfr. GIULIO NEGRI, Istoria degli scrittori fiorentini, Ferrara, Bernardino Pomatelli, 1722, p. 530. 3 Agitato è presente nei frontespizi di Re Artemidoro e Amorosi Affanni; Sicuro in quello dell’Orintia. 4 FRANCESCO SAVERIO QUADRIO, Della storia e della ragione d’ogni poesia, III, Milano, Francesco Agnelli, 1743, p. 75:

«Vincenzo Panciatichi, Fiorentino, e Cavaliere di S. Stefano, fiorì nell’ingresso del Secolo XVII. Compose egli due Trage-die: la prima della quali intitolata Orinthia fu impressa in Firenze per Cosimo Giunti nel 1600, in 8.: la seconda, intitolata Il Re Artemidoro, quivi pure impressa nel 1604 in 4.». Il Quadrio non fa menzione delle due pastorali del Panciatichi, se-gno che non dovettero godere di grande fama.

mente, quantunque non esaustivamente, nel presente contributo, che intende proporsi come sem-

plice punto di avvio di una ricerca che va certo approfondita da spalle più robuste delle mie.

L’erudito Leone Allacci nella sua enciclopedica Drammaturgia scriveva sotto la voce Amo-

rosi Affanni:

Favola Pastorale. in Firenze, per Giambattista Ciotti Sanese. 1606 in 4 – Poesia di Vincenzo Panciatichi, Fiorenti-no, lo Sicuro Accademico Spensierato. Dice l’Autore di questa favola nella Lettera a’ Lettori, ch’essendosi servito del migliore, ch’era nell’Amicizia Costante, pure sua Pastorale, vorrebbe, che si annullasse in tutto il nome di quella, come è stato desiderio suo nel compor la presente, la quale brama che viva, come suo legittimo parto nel cospetto del Mondo, e non di aver fatto due Pastorali, ma una sola, ch’è questa, da lui così proposta nell’animo suo.5

Occorre subito aggiungere che, per più rispetti, l’impostazione della questione delle pastorali di

Vincenzo Panciatichi risulta ancora oggi, a distanza di tempo, direttamente dipendente e da un ec-

cesso di credibilità assegnata ai paratesti premessi dall’autore alla sua seconda pastorale, e dalla

troppa fiducia riposta proprio nelle note di Leone Allacci (il quale, a sua volta, non si perita di attri-

buire al Panciatichi un alto grado di credibilità, senza verificare sul piano testuale la veridicità delle

sue affermazioni). Anche recentemente un’autorevolissima studiosa del teatro cinque-seicentesco,

e non solo, quale Laura Riccò, ha scritto, a proposito delle pastorali del Panciatichi:

Ne è esempio il fiorentino Vincenzo Panciatichi che nel 1600 stampa L’amicitia costante. Tragicommedia pasto-rale (Firenze, Filippo Giunti) e nel 1605 la ripubblica, strutturalmente modificata, a Venezia presso l’editore gua-riniano Ciotti, corredandola di un apparato iconografico ispirato al Pastor fido, ma con un diverso titolo: Gli amo-rosi affanni. Favola pastorale. Mentre nella prima edizione non esistevano paratesti teorici, adesso nella prefa-zione A i gentilissimi lettori il Panciatichi proclama questa seconda redazione “sola” suo “legitimo parto” e giusti-fica con esigenze di diletto la presenza di un contadino toscano che parla il tipico linguaggio ‘nenciale’, “non es-sendo proibito da Aristotele nelle sue regole, ché di questa sorte di poema espressamente non scrive”. “Questa sor-te di poema” è la pastorale, appunto ormai accettata nel canone dei generi moderni e al tempo stesso percepita, in quanto non contemplata dalla Poetica, come ‘libera’ dalla normativa classicistica. Nell’opera del Panciatichi, la de-finizione di tragicommedia, invece, è scomparsa.6

Mettendo a fuoco quanto Riccò dice, occorre subito rilevare che, al di là delle dichiarazioni fatte

nella lettera A i gentilissimi lettori premessa al testo della sua seconda pastorale, le due fabulae del

Panciatichi, pur conservando alcuni elementi isotopici comuni, stilemi simili e nuclei tematici e

scenici analoghi, vanno riguardate come testi indipendenti, senza dubbio rappresentativi di due di-

versi momenti del percorso poetico e ideologico dell’autore.

E certo non può essere fatto passare sotto silenzio il dato per cui mentre la prima viene de-

finita guarinianamente Tragicomedia pastorale (in tempi in cui, peraltro, il Pastor fido poteva an-

cora essere insidiato dall’Aminta come sinopia cogente per la poesia pastorale),7 la seconda – con

5 Drammaturgia di Lione Allacci accresciuta e continuata fino all’anno MDCCLV, Venezia, Giambattista Pasquali,

1755, p. 78. Va ricordato che l’edizione originale dell’opera è del 1666. 6 LAURA RICCÒ, Minotauri, centauri, ermafroditi: misti e mostri teatrali italiani, in Norme per lo spettacolo. Norme

per lo spettatore, a cura di Giulia Poggi e Maria Grazia Profeti, Firenze, Alinea, 2011, pp. 73-98, p. 91. 7 Per il Pastor fido, sono cose notissime, occorre ricordare che la princeps è stampata a Venezia dal Bonfadini nel

1589 (che reca la data 1590 sul frontespizio), e che subito vi sono due edizioni ferraresi e una mantovana. L’edizione defi-nitiva, ne varietur, curata dal Guarini stesso, è pubblicata da Giovan Battista Ciotti nel 1602, sempre a Venezia. Nel pre-sente lavoro si cita sempre da BATTISTA GUARINI, Il Pastor Fido, a cura di Elisabetta Selmi, Venezia, Marsilio, 1999. Oltre alle indicazioni bibliografiche lì reperibili, cfr. FRANCA ANGELINI, Il Pastor Fido di Battista Guarini, in «Letteratura Italia-

rilievo tipografico decisamente minore – reca nel frontespizio la denominazione di Favola Pastora-

le,8 segno che se ancora all’altezza della prima opera il Panciatichi aveva delle precise ambizioni di

saldatura di comico e tragico e mirava alto, nella classicistica direzione di una «tragedia dei boschi

a lieto fine», nella seconda gli era possibile esibire fin dal titolo la natura di autonomo e autentico

terzo genere della pastorale nella tassonomia delle forme drammatiche autorizzate, inserendo nella

fabula – specimen dell’egloghistica pregiraldiana e possibile eredità dei Rozzi – il bifolco Volpino

che parla un dialetto dai tratti rustici molto marcati.9

Insomma, pur permanendo elementi di criticità rispetto a un quadro teorico di matrice e-

gemonicamente aristotelica,10 la pastorale, dalla princeps dell’Aminta11 alla, per molti versi, defini-

tiva proposta del Pastor fido, si era ormai emancipata da quel senso di minorità e perifericità che

pareva ad essa consustanziale, e la sua dignificazione letteraria, sostanzialmente motivata da ra-

gioni sceniche e spettacolari,12 poteva anche passare, senza traumi, attraverso giustificazioni non

classicistiche, se non proprio programmaticamente anticlassicistiche.13 La pastorale si era accam-

pata con dignità nel perimetro della poesia scenica medio-cinquecentesca attraverso l’acquisizione

di tratti di decorum classicistico, forzosamente ottenuti, in un primo momento, per effetto del

na. Le opere, II. Dal Cinquecento al Settecento», Torino, Einaudi, 1993, pp. 705-724 ed ELISABETTA SELMI, ‘Classici e Mo-derni’ nell’officina del Pastor Fido, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2001.

8 La denominazione di ‘favola pastorale’ è indice sicuro di una attenzione privilegiata del Panciatichi per la tradizione della pastorale estense (dal Giraldi al Beccari a Tasso), ma tradisce a mio avviso una netta presa di posizione ideologica, più che poetica, antiguariniana che spiegherebbe bene la presa di distanza dell’autore nei confronti della sua prima prova così strutturalmente dipendente dal Pastor fido. Mi riservo di tornare sulla questione infra.

9 Una operazione analoga aveva compiuto, ma un po’ più meccanicamente, Cristoforo Castelletti con la sua Amarilli (che ebbe un grandissimo successo e che vide la luce in tre edizioni corrispondenti a un progresso redazionale: 1580, 1582, 1587), fondendo il modello dell’Aminta con il ‘ridicoloso’ dei Rozzi.

10 Si pensi, come testimonianza di un travaglio niente affatto moderato, all’esemplarità della polemica fra Giason De-nores e il Guarini sulla liceità di una poesia che programmaticamente mescolasse poesia alto-mimetica e poesia basso-mimetica. Come noto Aristotele nella Poetica non si occupava di un genere mescidato quale la tragicommedia. Questo fatto fu contemporaneamente motivo di cruccio e causa di sperimentazione molto più libera per i poeti rinascimentali, manieristi, barocchi.

11 Dopo essere stata rappresentata nel 1573, l’Aminta venne edita a Parma presso Erasmo Viotti nel 1581. Qui si cita sempre da TORQUATO TASSO, Teatro, a cura di Marziano Guglielminetti, Milano, Garzanti, 1983: Aminta si trova alle pp. 3-98. Non sfioriamo nemmeno la questione della bibliografia (fluviale) sulla pastorale del Tasso: rinviamo al solo GIAN

MARIO ANSELMI, Aminta di Torquato Tasso, in «Letteratura Italiana. Le opere, II. Dal Cinquecento al Settecento», Tori-no, Einaudi, 1993, pp. 607-625.

12 Cfr. MARZIA PIERI, La scena boschereccia nel Rinascimento italiano, Padova, Liviana, 1983, p. 164: «Questa forma di spettacolo [la pastorale scil.] […] soppianta l’impegnativa severità della tragedia e l’aggres-sività critica della comme-dia, legandosi alle mode georgiche e campagnole che accompagnano la rifeudalizzazione in atto». La cosa andrebbe pe-raltro approfondita.

13 Vero testo-chiave per tutte queste questioni è ANGELO INGEGNERI, Della poesia rappresentativa et del modo di rap-presentare le favole sceniche, Ferrara, Vittorio Baldini, 1598 (ma si tenga presente anche l’edizione moderna curata da Maria Luisa Doglio, Ferrara-Modena, Istituto di Studi rinascimentali-Edizioni Panini, 1989). La bibliografia sulla pasto-rale è così alluvionale e universalmente (o quasi) nota che ci esime dal dover annoiare il lettore con minuziose e colossali note. Ciò nondimeno qualche indicazione sui contributi che più utilmente sono stati consultati per l’allestimento del pre-sente lavoro pare opportuna: ETTORE BONORA, Il dramma pastorale, in «Storia della Letteratura Italiana», IV, Milano, Garzanti, 1966, pp. 627-652; DANIELA DALLA VALLE, Pastorale barocca, Ravenna, Longo, 1973; NINO PIRROTTA, Li due Or-fei. Da Poliziano a Monteverdi, Torino, Einaudi, 1975; MARZIA PIERI, La scena boschereccia nel Rinascimento italiano, Padova, Liviana, 1983; RICCARDO BRUSCAGLI, Stagioni della civiltà estense, Pisa, Nistri-Lischi, 1983; DOMENICO CHIODO, Tra l’Aminta e il Pastor Fido, in «Italianistica», XXIV, 1995, pp. 559-575; SIRO FERRONE, Dalla favola pastorale al dram-ma per musica: Ottavio Rinuccini. L’oratorio. La tragicommedia, in «Storia della Letteratura italiana», XIV, Roma, Sa-lerno, 1997, pp. 1093-1098; LAURA RICCÒ, «Ben mille pastorali». L’itinerario dell’Ingegneri da Tasso a Guarini e oltre, Roma, Bulzoni, 2004; MARCO ARIANI, La favola pastorale, in «Storia letteraria d’Italia», III, Milano, Vallardi, 2007, pp. 1746-1757; Il mito d’Arcadia. Pastori e amori nelle arti del Rinascimento, a cura di Danielle Boillet e Alessandro Pon-tremoli, Firenze, Olschki, 2007; ELISABETTA SELMI, Un contributo alla pastorale del primo Seicento: ‘transizione’ e me-tamorfosi di genere, in La letteratura degli Italiani. Centri e periferie, Atti del XIII Congresso Nazionale dell’ADI, Pu-gnochiuso, 16-20 settembre 2009, a cura di Domenico Cofano e Sebastiano Valerio, Foggia, Edizioni del Rosone, 2011, pp. 1-13.

complesso lavoro teorico e pratico di Giovan Battista Giraldi Cinzio14 (solo parzialmente ereditato

dagli altri ‘bucolici’ estensi: Agostino Beccari, Alberto Lollio e Agostino Argenti), successivamente

dai testi fondamentali di Tasso e Guarini, ma anche perché nella direzione della pastorale, special-

mente della sua dictio (egemonica rispetto all’actio nel corso di tutto il secolo), si erano mossi per

tempo, fin dagli anni Quaranta, vari poeti tragici, in particolare in area veneta (Sperone Speroni su

tutti, ma anche Pietro Aretino e Lodovico Dolce),15 finendo per produrre – accanto alle tragedie di

lieto fine del Giraldi – un radicale, e non revocabile in dubbio, stato di crisi delle coordinate stesse

del codice tragico, sempre più melicamente edulcorato da campiture liriche e da un alleggerimento

‘musicale’ complessivo, unica strategia praticabile per venire incontro al gusto di un pubblico ormai

stanco di severe crudeltà e di sentenziose tirate monologiche, così peculiari del discorso tragico ri-

nascimentale.16

Già nel medio Cinquecento, insomma, la tragedia mostrava, con notevoli capacità di antici-

pazione, gli sviluppi che la successiva stagione scenica avrebbe grammaticalizzato: nei decenni

compresi fra il 1560 e il 1600 i capolavori del teatro italiano non saranno, la cosa è nota, né le

commedie d’imitazione classicistica, né le tragedie di impianto più o meno tradizionale (quali il

Torrismondo tassiano o la bellissima Adriana del Groto o la decorosa Merope del Torelli),17 bensì

– ci ripetiamo – l’Aminta e il Pastor fido, opere programmaticamente sperimentali e ibride, che

14 Cui si deve, oltre a un importante lavoro di precisazione delle coordinate della nuova tragedia rinascimentale, la

prima pastorale moderna (la satira Egle del 1545) e una significativa riflessione teorica sulla poesia mescidata con la Let-tera sovra il comporre le Satire atte alla scena (cfr. GIOVAN BATTISTA GIRALDI CINZIO, Egle. Lettera sovra il comporre le Satire atte alla scena pastorale, a cura di Carla Molinari, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1985. La Lettera è riportata alle pp. 141-170), ove sosteneva che il modello di riferimento alto per il nuovo dramma satiresco dovesse essere il Ciclope di Euripide, reputava opportuni il finale infelice e la presenza del prologo e dei cori, optava monometricamente per l’endecasillabo e per la divisione in atti e scene.

15 Sullo Speroni precursore della pastorale e del melodramma cfr. MARCO ARIANI, Il «puro artifitio». Scrittura tragica e dissoluzione melica nella Canace di Sperone Speroni, in «Il Contesto», III, 1977, pp. 79-140. Mi sia poi permesso citare un mio contributo che, quantunque riferito al Dolce, può essere esteso a molti fra coloro che si esercitarono nella poesia coturnata dagli anni Quaranta in poi del secolo XVI: cfr. STEFANO GIAZZON, La dictio tragica di Lodovico Dolce fra classi-cismo e manierismo, in «Rivista di Letteratura teatrale», IV, 2011, pp. 29-59 (segnatamente p. 57): «la gravitas conven-zionale del discorso tragico viene, senza che ciò implichi la deflessione dalla scelta di fabulae classiche (Euripide e/o Se-neca sono i modelli imprescindibili) e il radicale, programmatico rifiuto di procedimenti atti a produrla (inarcature, ribat-timenti vocalici, strategiche allitterazioni…), ammorbidita e talvolta obliterata da una pronunzia poetica caratterizzata da desultoria outrance lirica, figlia dell’originale proposta melica della Canace speroniana – testimoniata, lo ripetiamo, da un’adozione massiccia della misura del settenario – e della non eliminabile cogenza del macrotesto petrarchesco e petrar-chistico: la questione, si capisce, produce un groviglio di problematicità irriducibile, dal momento che fabulae anche ter-ribilmente macabre (più che gravi) sul piano della materia del contenuto, finiscono per non essere supportate da una dic-tio adeguata, esattamente riproponendo l’ambiguità del codice tragico rinascimentale». Mi pare opportuno ricordare che per almeno una tragedia del Dolce (le Troiane del 1566) abbiamo precisi documenti che attestano la presenza di interme-dii musicali (purtroppo perduti) scritti nientemeno che da Claudio Merulo, organista di San Marco ed esecutore eccezio-nale: ulteriore conferma di una quasi fatale vocazione musicale della poesia in coturno del secondo Cinquecento. Sul Dol-ce poeta tragico, più notevole, a mio parere, di quanto si sia finora abitualmente scritto, e sul suo ruolo di mediatore forte cfr. STEFANO GIAZZON, Venezia in coturno. Lodovico Dolce tragediografo (1543-1557), Roma, Aracne, 2011.

16 Si veda quello che dice nel prologo dell’Euridice di Ottavio Rinuccini (1600), altro testo-chiave della scenicità pri-mo-secentesca, proprio la Tragedia personificata (vv. 1-12): «Io che d’alti sospir vaga e di pianti, / spars’hor di doglia, hor di minaccie il volto, / fei negl’ampi teatri al popol folto / scolorir di pietà volti e sembianti, / non sangue sparso d’innocenti vene, / non ciglia spente di tiranno insano, / spettacolo infelice al guardo humano, / canto su meste e lacri-mose scene. / Lungi via, lungi pur da’ regij tetti, / simulacri funesti, ombre d’affanni: / ecco i mesti coturni e i foschi pan-ni / cangio e desto ne i cor più dolci affetti».

17 Va subito aggiunto che il Torrismondo ebbe varie ristampe e godette, certo anche per la fama del suo autore, di una buona fortuna. Ciò nondimeno non si tratta di un capolavoro assoluto, etichetta difficilmente contestabile se applicata all’Aminta.

sono gli esiti più notevoli di una ricerca drammatica a precipua caratura madrigalistica e melica,

potenzialmente già aperta in direzione del melodramma.18

2.

In questo contesto di avanzata ridefinizione delle categorie drammatiche, di programmatica inter-

ferenza fra codici scenici, di progressiva e inesorabile affermazione del melodramma, si colloca la

prima pastorale di Vincenzo Panciatichi: L’Amicizia Costante. Tragicomedia pastorale.19 Pubblica-

ta nel 1600 a Firenze da Filippo Giunti, fu tra le favole che vennero allestite per la celebrazione del

fastoso e politicamente rilevantissimo matrimonio tra Maria de’ Medici ed Enrico IV di Francia,

nell’ambito dei festeggiamenti del quale, è cosa nota, trovò collocazione scenica anche la già citata

Euridice di Ottavio Rinuccini con musiche di Iacopo Peri.20

Modellando il suo lavoro sulla struttura del Pastor fido, Panciatichi fa precedere all’elenco

delle dramatis personae un Argomento con funzione espositiva.21 Questi i personaggi della tragi-

commedia: Solindro (il cui vero nome è Tirsi), Felcinio (il cui vero nome è Silvio), Aminta e Carino

(sacerdoti rispettivamente di Diana e di Venere), Acrinio (figlio di Aminta), Titiro (vecchio balio di

Solindro), Mirtino (ministro di Venere), Serpino (capraio di Filli), Barcino (satiro amico di Acrinio,

il cui nome è variatio del sannazariano Barcinio), Ergasto (ministro minore di Venere), Licori Filli

Eurilla (ninfe; giova ricordare che la prima riprende il nome da Aminta, I, 1, 274), due Nunzi, vari

cori (di pastori, di sacerdoti di Venere, di sacerdoti di Diana), la Discordia che fa il prologo (e que-

sto, rispetto ai tipici personaggi prologici della pastorale, è un tratto di notevole originalità: la Di-

scordia sembra indicare anche, quantunque forse non solo, una precisa condizione civile che le

nozze di Maria de’ Medici ed Enrico IV di Francia servono a migliorare, restaurando il potere del-

l’Amicizia, magari con allusioni, non ulteriormente precisabili, al campo religioso).

18 Cfr. MARIA GRAZIA ACCORSI, Musicato, per musica, musicale. Riflessioni intorno ad Aminta, in Torquato Tasso e la

cultura estense, a cura di Gianni Venturi, III, Firenze, Olschki, 1999, pp. 881-940. 19 L’Amicizia Costante. Tragicomedia pastorale del Sign. Cavaliere VINCENZIO PANCIATICHI. Dedicata alla Sereniss.

MARIA MEDICI, Christianissima REGINA di FRANCIA. Nelle reali nozze di S. M. col Christianissimo ENRICO QUARTO, in Fio-renza, per Filippo Giunti, MDC, con licenzia de Superiori. Si cita sempre da questa edizione che è collocata nella raccolta drammatica Corniani Algarotti (n. 4349) della Biblioteca Braidense di Milano e che è anche disponibile on-line. Per l’Argomento si citerà la pagina, mentre le sequenze di versi verranno contestualizzate solo dall’indicazione di atto e sce-na. Si è deciso di citare i testi cinquecenteschi, che non abbiano edizioni moderne, senza alcun intervento di ammoder-namento, nemmeno nell’interpunzione.

20 L’Euridice è un’opera fondamentale per capire non solo gli sviluppi della musica, ma anche quelli della poesia per musica del tempo. Formata da un prologo e da cinque scene (non dispone di divisione in atti), è un melodramma serio da camera, in cui Rinuccini assembla e interseca vari codici: dall’egloghistica quattrocentesca alla commedia rinascimentale alla pastorale mitologica. Il testo è polimetrico (vi sono endecasillabi, settenari, ottonari, misure quadrisillabiche nel coro conclusivo…) e ha struttura tendenzialmente arcaizzante (vi trovano posto il bifolco Tirsi, il deus ex machina – Venere – che solleva e aiuta Orfeo, gli dèi che dialogano con gli uomini…). Nessun dubbio può essere nutrito riguardo al trasparen-te discorso neoumanistico che Rinuccini e Peri intendevano proporre: Orfeo (= poesia, ma anche musica) trionfa sul po-tere (= Plutone), emozionandolo e così persuadendolo.

21 Solindro e Felcinio, due pastori molto amici (e i cui veri nomi sono Tirsi e Silvio), decidono di allontanarsi dalle rive d’Arno a causa delle maldicenze e delle discordie con cui devono fare i conti e partono per l’Arcadia. Giungono però indi-pendentemente nella regione greca e non si riconoscono. Solo dopo molte peripezie si verifica l’agnizione che svela la loro reale identità: a quel punto, decidono di tornare in patria con la ninfa Eurilla, che Felcinio ama. Ma la fanciulla è già promessa sposa di Acrinio, figlio di Aminta: mentre Solindro e Felcinio stanno fuggendo con la ninfa attraverso un bosco, Acrinio li sorprende e cerca di sottrarre loro Eurilla con la forza, ma Solindro lo ferisce con uno «strale» (p. 4). Saputolo, Aminta condanna Solindro e Felcinio a morte. La svolta è data dall’elezione nel tempio di Venere di un nuovo sacerdote, Carino, che scopre che Felcinio è suo figlio. La fabula si conclude con tre nozze (come il Sacrificio del Beccari): Felcinio sposa Eurilla, Solindro sposa Licori (sorella di Felcinio), Acrinio sposa Filli.

Come si evince già a una prima, cursoria lettura, l’onomastica seletta passa attraverso la ro-

busta mediazione autorizzante di Aminta e Pastor fido.22 Non ci sono né lettere dedicatorie, né av-

vertenze ai lettori.

Entrando nel vestibolo dell’opera, subito ci imbattiamo in un prologo che viene affidato alla

dea Discordia: da evidenziare immediatamente la frequenza dei settenari. Sul piano delle dinami-

che propulsive della pastorale, la Discordia ha qualcosa della funzione detenuta dall’umbra di Tan-

talo e dalla Furia insieme nel prologo del Thyestes di Seneca,23 ove il capostipite degli Atridi veniva

strappato alle sue pene infernali per spargere la demoniaca lues che avrebbe demolito (nel corso

della tragedia) i rapporti parentali fra Atreo e il fratello Tieste. Qui un’altra abitatrice avernale sale

«a veder la luce» per spargere nel mondo la sua lues malefica e per contrastare la sua principale

nemica (l’Amicizia):

La Discordia Da gli Infernali orrori Ove tra crudi Mostri Regina crudelissima dimoro, Sorgo a veder la luce; Io che superbo manto intorno spiego Di variato color misto e confuso […] Io sopra ogni altra cosa Miracol e stupor dell’universo Sperando pur con quest’irata destra, Che il potente focil per l’aria vibra, Et con la dura pietra Pregna d’eterno foco Unit’a questo mio d’aure infernali Gravido Mantice, al tremendo nome Della mia Deità la fama illustre Accrescer sì che luog’alcun non resti, Che del mio gran valor non senta il grido. […] E corro impatiente, Per infettar con queste mie faville L’Arcadia, e seminar risse e contese.

Ciò che ci preme rilevare è il fatto che il Panciatichi, coerentemente con la vocazione della pastorale

al riuso di materiali prelevati da una pluralità di fonti (egloga, romanzo pastorale, commedia, tra-

gedia, poema…), scelga di impiegare in maniera assai significativa alcune precise sequenze arioste-

sche per definire le coordinate del suo personaggio protatico:

Fornito questo, subito va in parte dove il suo seggio la Discordia tenga: dille che l’esca e il fucil seco prenda, e nel campo de’ Mori il fuoco accenda. (Orlando furioso, XIV, 76, 5-8) La conobbe [la Discordia scil.] al vestir di color cento, fatto a liste inequali ed infinite, ch’or la cuoprono or no […]. (Orlando furioso, XIV, 83, 1-3)

22 Con il nome di Eurilla che può essere stato invece suggerito da un altro cult-text della pastorale del tempo: la favola

pescatoria Alceo di Antonio Ongaro (Venezia, Francesco Ziletti, 1582). 23 Che era stato riscritto (nel 1543) e poi tradotto (nel 1560) da Lodovico Dolce. Mi permetto pertanto di rinviare alla

mia edizione: LODOVICO DOLCE, Tieste, a cura di Stefano Giazzon, Torino, Res Edizioni, 2010.

La Discordia, credendo non potere altro esser quivi che contese e risse. (Orlando furioso, XXVI, 122, 1-2)

La Discordia «inimica di pace e d’ogni triegua» (Orl. fur., XXIV, 114, 2) ha già prodotto disastri

nelle città e nei palazzi ed ora vuole sradicare l’Amicizia, sua mortale nemica, anche dalle selve, do-

ve essa è perfettamente rappresentata dai protagonisti Solindro e Felcinio.24 La conclusione del

prologo immette una cromatura celebrativa nella fabula e rivela la sua natura occasionale e ceri-

moniale: la Francia, nuovo regno della fiorentina Maria de’ Medici, sarà l’unico spazio estraneo alle

feroci e predatorie logiche della Discordia (p. 11), così alludendo a precise, e tradizionali per l’am-

biente fiorentino, scelte politiche e favorendo una chiave di lettura anche civile.

L’Amicizia Costante è divisa in cinque atti con scene, è scritta in endecasillabi e settenari

variamente e irregolarmente rimati e dispone di quattro cori di ottonari, secondo una prassi che

rinvia alla tradizione quattrocentesca e comunque pre-giraldiana: questo fa intuire come la pasto-

rale del Panciatichi si muova ancora in uno spazio di ambiguità e sperimentazione, fra slanci propri

della più aggiornata avanguardia ed eredità francamente arcaiche.

Va da sé che nel presente contributo non intendiamo compiere una minuziosa analisi mi-

crotestuale: cercheremo di dare conto della struttura della fabula e delle sue articolazioni sceniche

e poetiche decisive, provando a vedere in che misura il lavoro del Panciatichi si costituisca come ri-

scrittura ipertestuale e gareggiamento parodico rispetto alle fonti di volta in volta adibite a modelli

(ferma restando la schiacciante, indiscutibile primazìa del Pastor fido).

A I, 1 Solindro-Tirsi si autopresenta parlando con Titiro, suo balio, in una movenza che sul

piano diegetico pare ritenere qualcosa della topica scena con coppia Eroe/Servo o Consigliero di

tanta tragedia rinascimentale: i modelli forse più presenti sono il Torrismondo e la scena prima

dell’Ifigenia del Dolce (con Agamennone e il Servo).25 Solindro è un perfetto eroe tragico: ha per-

duto l’amico Felcinio-Silvio che doveva raggiungerlo in Arcadia e di cui non sa più nulla (tre anni

sono passati); inoltre, l’amata Licori, sorella di Felcinio-Silvio, è morta (o almeno così sembra di

capire da un’incisione su un faggio che Solindro ha letto).

A ben compendiare la dimensione gravis del personaggio di Solindro alleghiamo tre perfetti

versi tragici (con derivatio: vissi vita), prelevati dalla nostra più culta tradizione lirica in funzione

autorizzante, con Guarini che ha certo una posizione di rilievo:26

24 Il tema dell’amicizia (talvolta in relazione o in contrasto con l’amore) ha una enorme fortuna letteraria nel secondo Cinquecento: basti pensare alla capitale Erofilomachia di Sforza Oddi (Venezia, Sessa, 1578) e al Torrismondo del Tasso dove l’amicizia fra il protagonista e Germondo è uno dei nuclei tematici decisivi. Naturalmente, dietro vi sono i modelli classici di Oreste e Pilade ed Eurialo e Niso (ma anche di Cloridano e Medoro).

25 Sull’Ifigenia del Dolce, testo assai notevole per più rispetti, rinvio ad un altro mio contributo: STEFANO GIAZZON, Il Manierismo a teatro: l’Ifigenia di Lodovico Dolce, in «Forum Italicum», I, 2012, pp. 53-81.

26 Il luogo guariniano è il letteratissimo prodotto di una pletora di fonti: la più vicina è certamente Torquato Tasso, Aminta, I, 351-354: «Tirsi: - […] ma il crudo Amor di lagrime si pasce, / né se ne mostra mai satollo. Aminta: - Ahi, lasso, / ch’Amor satollo è del mio pianto omai, / e solo ha sete del mio sangue». Inoltre si tengano presente: FRANCESCO PE-

TRARCA, Rvf, 93, 14; 130, 5-6; 134, 12; 224, 11; 360, 59-60; BERNARDO TASSO, Rime, III, 21; GIOVANNI DELLA CASA, Rime extravaganti, 72, 1-7. E ancora L. DOLCE, Didone, prologo, vv. 10-12, ove è Cupido a parlare: «Né d’ambrosia mi pasco, / Sì come gli altri Dei, / Ma di sangue e di pianto».

Solindro Ben lungo tempo e tu te n’accorgesti Vissi vita di piant’e affanno carca Pascendomi di lacrim’e dolore. (I, 1)

BATTISTA GUARINI, Il Pastor fido Ergasto Mirtillo, il crudo amore si pasce ben, ma non si sazia mai, di lagrime e dolore. (I, 531-533)

Le successive scene sono monologhi ad alto coefficiente di patetismo in cui altri protagonisti della

fabula vengono presentati.27 A I, 5 entrano in scena, per controbilanciare le sequenze decisamente

tragiche finora sviluppate e secondo un disegno di equilibrio drammatico che è platealmente debi-

tore nei confronti del capolavoro guariniano, i due personaggi più tipicamente bassi della pastora-

le: il Satiro e il capraio Serpino.28

L’esordio del Satiro, collocato simmetricamente rispetto al Guarini nella stessa quinta scena

d’atto, è poeticamente molto bello, quantunque sostanzialmente convenzionale:29

Satiro Sorge dal Mar l’aurora, e inostra il Cielo, Spiega pomposamente Apollo i raggi, E dolcemente geme Tra rotti sassi il cristallino fiume, Mentre van l’Api sussurando intorno Libando il mel dagli odorati fiori, Le pallide viole ecco fan mostra Di lor bellezza, e la vermiglia rosa Vagheggia il Sole, e tutt’in un concorde Ridon l’Acqua, la Terra, l’Aria, e ’l Cielo. […] Io sol miser Barcino a tante liete E del ciel, e dell’onde, e della terra Vaghezze non m’allegro, anzi più mesto Sembro, egual’ a quel sasso ov’io m’assido; Filli tu sola sei, Filli spietata Cagion del pallor mio, Filli crudele; Filli più dur’assai che dura selce; Non odi il pianger mio […] […] Filli perché mi sdegni? Ah la mia povertade Fors’è cagion di questo? O secolo corrott’, o mondo infame,

27 Felcinio-Silvio, tormentato dall’amore per la ninfa Eurilla teme che Acrinio la sposi per decreto del padre Aminta;

Filli, disperata perché ama Acrinio non riamata (lui ama Eurilla); Eurilla disperata per Felcinio che non riesce più a tro-vare dal giorno in cui, a causa di una furiosa tempesta, egli si era rifugiato nella sua casa facendola innamorare. Quale u-nico elemento di azione di questa sequenza, Panciatichi mostra la ninfa Filli, sorta di duplicato attanziale della guariniana Corisca, che, nel tentativo di vendicarsi di Eurilla, cui vanno i favori di Acrinio, inventa la fola che Felcinio ama un’altra ninfa e va in giro assieme a Solindro a dileggiare Eurilla definendola «infame donna» (I, 4): si capisce che la rivelazione, vero e proprio fulmine a ciel sereno, prostra Eurilla.

28 Per la figura, invero eccezionalmente importante, del Satiro cfr. almeno MARZIA PIERI, Breve storia di una compar-sa teatrale: il satiro-uomo selvaggio, in Diavoli e mostri in scena dal Medio Evo al Rinascimento, a cura di Maria Chia-bò e Federico Doglio, Viterbo, UPS, 1989, pp. 325-342 e FRANÇOISE LAVOCAT, La Syrinx au bûcher. Pan et le satyres à la Renaissance et à l’âge baroque, Paris, Droz, 2005. Da ultimo cfr. il saggio di Valentina Gallo contenuto nel presente vo-lume.

29 Si dovrà certo tenere presente anche Aminta, II, 1.

Poi che ti pasci d’oro, e vivi d’oro, E chi di quello non abbonda è vile Reputato da tutti, e senza fede; Non sangue illustre o memorabil prove, Non valor, non virtù, non gentilezza, Non cor sincero, o lealtà perfetta Giov’al pover’amante; Fuggon gli amici et i parenti insieme, E l’aborron qual mostro, o qual Arpia; Tu povertà tra gli infortuni nostri Tieni prima lo scettro e la corona, Tu principio agli affanni, Tu sei mez’al timore, E tu fin delle gioie, e de’ contenti, Teco non val virtù, non val ingegno. Un vizio sol che in pover huom si scorga Ancor che di virtù chiaro e sublime, Adombra ogni valor che in lui s’annide; E in ricco petto i vizij a mill’a mille Risplendon come stell’appresso il Sole Della ricchezza sua, del suo tesoro, L’ingannar, il mentir, l’esser tiranno Dell’altrui sangue, il ritener fatica D’un miser poverello, il tor l’honore Con empia forza alla sua cara donna, E violar di verginell’il fiore Con mill’altre ingiustizie è cosa pia? L’haver per Dio, per suo verace fine L’oro, è cosa magnanima e divina? Ivi di caritad’in vece splende L’usura, ivi pietade E ’l furor, il giuntar, l’esser crudele; Sì che puossi ben dir, che un pover huomo Viver non può, che no ’l giudichin tosto Ladro, omicidial, falsario, e tristo; Ben della povertà sei tu migliore Morte, fin degli affanni e dei tormenti. (I, 5)

Per la verità ciò che pare degno di nota in questi versi è, al di là del palese gioco intertestuale isti-

tuito con il celebre passo di Aminta, II, 1, 776-78130 (così sovraesposto sul piano ideologico) e della

puntuale ripresa testuale di alcuni suoi versi, l’inusitato e autonomo sviluppo conferito dal Pancia-

tichi al nucleo tematico della critica socioeconomica (il Satiro non è corrisposto perché è povero)

che viene articolato in estensione e profondità approfondendo il modello e certo con precise inten-

zioni ideologiche.31

Giova anche ricordare che tale tematica era stata espunta da Battista Guarini, e pour cause,

viste le sue preoccupazioni controriformistiche, dal Pastor fido, dove il Satiro è esclusivamente, e

assai più prudentemente che in Tasso, la consueta ipostasi scenica della selvatichezza e della vio-

lenza e il corifeo di una vieta topica misogina, invero piuttosto scialba. La questione, si capisce, me-

riterebbe degli approfondimenti: quel che è ragionevolmente probabile sostenere qui è che nel

Panciatichi (tratto fra i più significativi della sua personalità poetica) sembrano operare ambigua-

30 «Non sono io brutto, no, né tu mi sprezzi / perché sì fatto io sia, ma solamente / perché povero sono. Ahi, che le vil-

le / seguon l’essempio de le gran cittadi! / e veramente il secol d’oro è questo / poiché sol vince l’oro e regna l’oro». Il mo-tivo ha una qualche consistenza anche nel prologo dell’Aminta con Amore che si autopresenta come la divinità cui piace agguagliare la disagguaglianza de’ soggetti, quantunque senza che vi sia un discorso autenticamente centrato sulle con-traddizioni sociali ed economiche del mondo.

31 Sulla natura ideologica e, al limite, politica della figura del Satiro nell’Aminta cfr. ENRICO FENZI, Il potere, la morte, l’amore. Note sull’Aminta di Torquato Tasso, in «L’immagine riflessa», III, 1979, pp. 167-248.

mente, riverberandosi sulla concreta prassi della scrittura scenica (e fatalmente deflagrando nella

sua seconda pastorale, dove clamoroso sarà il ripudio paratestuale dell’ideologia e delle forme che,

attraverso il Pastor fido, materiano la sua tragicommedia), una decisa opzione guariniana per ciò

che concerne le soluzioni, le articolazioni, le strutture della pastorale e una non meno esplicita ade-

sione ideologica ed etica al pensiero del Tasso aminteo, perlomeno di quello non ambiguo del I co-

ro, con nettissime prese di posizione a favore (di cui proveremo a dare conto nel corso del presente

lavoro).

Altra conferma dell’irriducibilità della compresenza dei due modelli concorrenti si scorge

nella suggestiva sequenza metaletteraria in cui proprio al Satiro Barcino spetta la convocazione di

un’onomastica del tutto priva di referenti di realtà scenica interni all’Amicizia Costante, e che rin-

via senza dubbio, con raffinato e allusivo gioco letterario, al macrotesto tassiano-guariniano:

Satiro Io quel Barcino sono, Che a fiera lotta superò Montano, Quel che al gran corso vinse Ergasto, e Tirsi, E al grave cesto superò Mirtillo. (I, 5)

Montano e Mirtillo, come noto, sono personaggi (e non dei meno importanti) del Pastor fido; un

Ergasto è presente in entrambe le pastorali (e rimonta, come anche Montano, all’Arcadia sannaza-

riana); Tirsi appartiene invece all’Aminta. In un’ottica di gareggiamento coi modelli, il Panciatichi

può far dire al suo Satiro, spingendo sul pedale della facezia e del basso-mimetico, di essere atleti-

camente, fisicamente superiore ai vari personaggi che popolano le pastorali del Guarini e del Tasso:

ludus ironico niente affatto banale.

L’atto I si conclude con l’apparizione scenica del capraio Serpino, inviato da Filli a donare

una corona di fiori ad Acrinio. Il capraio – personaggio tipico, per esempio, della tradizione dei

Rozzi – rappresenta ancor più del Satiro sull’asse verticale alto/basso il secondo membro, parla in

maniera decisamente più rustica di lui e con un gradiente di lubrica volgarità ed è indispensabile

per fare esplodere la violenza ex-lege dello stesso Barcino, che, irritato, gli strappa con la forza la

coronoa, rompendola.

Il coro I è composto da sei sestine di ottonari con schema [ababcc] ed è un lamento per la

perdita dell’età dell’Oro in Arcadia, causata dall’affermazione di un Amore troppo complicato, tipi-

co del mondo delle città e delle corti.

Il II atto è di transizione rispetto al cuore diegetico della vicenda. Per ciò che concerne il

versante tragico della fabula, di assoluto rilievo è la presenza del topos del sogno prealbare (cfr. II,

1), rapidamente grammaticalizzatosi nella tragedia rinascimentale32 e poi riproposto dal Guarini.33

32 Notevole è, nella storia della tragedia, la fortuna del modulo del sogno profetico che prelude ad eventi futuri della

fabula e talvolta li anticipa integralmente: tra gli antichi, ricordiamo ESCHILO, Persai e Coephoroi ed EURIPIDE, Hekabe. Nel Cinquecento troviamo il sogno prealbare in tutti i testi-chiave della scena coturnata: cfr. G. G. TRISSINO, Sofonisba, vv. 101-117; G. RUCELLAI, Rosmunda, vv. 84-103; A. PAZZI DE’ MEDICI, Dido in Carthagine, p. 64; L. MARTELLI, Tullia, vv. 688 sgg.; G. B. GIRALDI CINZIO, Orbecche, vv. 2622-55; S. SPERONI, Canace, vv. 387-438; P. ARETINO, Orazia, vv. 559-624;

Nel Panciatichi, la ninfa Licori ha sognato un giovane pastore con una spada in mano che,

dopo averla dichiarata sua ministra di vita e di morte e aver tentato di involarle un bacio, si era tra-

fitto il cuore: Licori è naturalmente sconvolta, ma viene rassicurata dalla compagna Eurilla. Sul pi-

ano dell’azione l’atto è piuttosto esangue: a vivacizzare un po’ lo sviluppo è solo il rapimento di Filli

da parte del Satiro nella scena conclusiva (II, 5).

La sequenza di versi più notevole del II atto appartiene in realtà non all’episodio, bensì al

canticum corale. Il coro II formato da quartine di ottonari con schema [abab.bcbc, ecc.] è una pla-

teale riscrittura del celeberrimo sonetto Cura, che di timor di Giovanni Della Casa, 34 esemplare

specimen di quel petrarchismo grave che tanta parte ebbe nella vicenda fecondissima, cui qui non è

nemmeno il caso di accennare, della fortuna modellizzante dei Rerum vulgarium fragmenta

nell’ambito della lirica cinquecentesca.

L’adozione del versicolo, rispetto alla sostenuta dictio endecasillabica dell’originale, produ-

ce un cortocircuito straniante e si configura come parodica mise-en-burlesque del modello, tanto

più clamorosa perché esibitissima (quantunque non totalmente comprensibile, se non come disin-

volto riuso di una fonte alta):

Dubbia cura che ti pasci, E ti nutri di timore, Et hor muovi, et hor rinasci Al variar d’un finto core. Al variar d’un finto core, Che cangiando il mobil volto O amanti il foll’ardore Va schernendo in voi sepolto. Va schernendo in voi sepolto, Cinto sol di falsa spene, Ch’have all’alma il freno sciolto De tormenti e delle pene. De tormenti e delle pene Di cui tu condisci il mele Con che amor altri mantiene, Senza tosco e senza fele. Senza tosco e senza fele, Se già questo irato mostro Con la man troppo crudele Non turbass’il viver vostro. Non turbass’il viver vostro; Deh fia mai che tu che nasci Tra i lamenti e ’l pianto nostro, Con quiete un dì ne lasci. Con quiete un dì ne lasci, Senza mal, senza dolore, Dubbia cura che ti pasci, E ti nutri di timore.

L. DOLCE, Hecuba, vv. 263-297 e Medea, vv. 143-157. Il motivo aveva in realtà già goduto di buona fortuna romanza al di fuori della poesia scenica, ma con diversa funzione: cfr. D. ALIGHIERI, Inferno, XXVI, v. 7 e Purgatorio, IX, vv. 16 sgg.; F. PETRARCA, Triumphus Mortis, II; A. POLIZIANO, Stanze, II, 27.

33 Cfr. B. GUARINI, Pastor fido, I, 779-830. 34 GIOVANNI DELLA CASA, Rime, a cura di Roberto Fedi, Milano, Rizzoli, 1993, pp. 78-79.

Ancora una esibizione delle ambiguità e delle contraddizioni di genere presenti nel progetto

dell’Amicizia Costante: l’esperimento tragico-comico mostra qui le sue smagliature, i suoi limiti,

nella natura paradossale e istituzionalmente ossimorica della scelta compiuta dall’autore, inerme di

fronte all’esigenza di far corrispondere verba e res: non vi è, nel percorso pastorale del Panciatichi,

spazio poetico che più scopertamente di questo II coro si proponga di recuperare la lezione di gra-

vitas del più serio panorama petrarchistico, e che, d’altro canto, vanifichi irrimediabilmente ogni

sforzo usando una facies metrica troppo sbilanciata in senso frottolistico, canzonettistico, melico,

per essere reputata credibile nella comunicazione di contenuti alti e decorosi.

Il III atto si segnala per alcuni significativi sviluppi diegetici e per l’affoltarsi di memorie

strutturali amintee e guariniane. Brevemente ripercorriamo, tanto per segnalarne le giunture e gli

snodi decisivi, l’episodio centrale della tragicommedia, molto ricco di actio: Licori si addormenta

nel bosco dopo una battuta di caccia in cui si è sporcata di sangue la veste (= Silvia in Aminta, III,

2); Solindro si imbatte in lei casualmente e, vedendo il sangue, la crede morta.35

Ma il ‘tragico depotenziato’ che caratterizza la pastorale prevede l’immediata restituzione

della ninfa al mondo degli agonistài: quando Solindro, deciso a suicidarsi per il dolore della perdi-

ta, prova a baciare Licori (= Mirtillo in Pastor fido, II, 1, pur con le notevoli differenze funzionali),

ella si risveglia. A III, 4 Acrinio, non vedendo da tempo il Satiro, ne chiede contezza a Filli: la ninfa

risponde che, dopo che Barcino aveva tentato di rapirla, lei era riuscita a sfuggirgli nel bosco e il Sa-

tiro, nell’inseguirla, era caduto in una buca predisposta come trappola e ivi era morto (= Aminta in

Aminta, IV, 2 nel racconto di Ergasto).

Alleghiamo qui, trascegliendo i versi, la scena 8, topico monologo/lamento della ninfa Filli

che ama Acrinio non ricambiata. Esemplato sul modello del lamento di Amarilli in Pastor fido, III,

4, O Mirtillo, Mirtillo, anima mia, presenta un alto gradiente di patetismo e ha una spiccata musi-

calità (si noteranno i molti settenari e le frequenti rime):

Filli Fuggi pur, fuggi Acrinio, La vista di chi t’ama; e quella segui Di chi non può mirarti, ma desia Il tuo pianto, il tuo danno, e la tua morte,36 Ahi dispietata sorte! Da te riceve gioia, Chi forse anco t’annoia, Et io che sol t’adoro Da tuoi fugaci sguardi a poco, a poco, Mi vo struggendo in amoroso foco. […] E son tali i tormenti, Che soffre un core amando Nell’obedir a questo empio Signore; Che tali nell’Inferno

35 Naturalmente a monte vi è OVIDIO, Metamorphoses, IV, 99-107. 36 Si ricorderà Giovan Battista Marino di questo verso (in Adone, XVIII, 227, 8: «La sua morte, il tuo danno, e ’l pian-

to mio»)? Non è dato saperlo: certo sarebbe notevole.

Non patiscono l’alme tormentate; Già tal non è la tua O tormentato Tizio atroce pena, Benché continuamente Il rapace avoltore Del tuo corpo le viscere divori; Qual è quella che i servi D’amor sentono, et io Principalmente provo. […] Né Sisifo, né Tantalo, martirij Sentono così aspri L’uno del grave pondo, E l’altro delle poma fugitive E dell’acque bramate; Queste via più d’ogn’altro Tra la turba infinita De’ più miseri amanti, Miserissima io provo. Amore io faticoso De miei tormenti il grave incarco porto Su l’altissimo monte, ove la speme Di posarlo, e quetarmi Ogn’hora a caminar m’affretta e sprona, […] Famelica ancor io mio veggio in seno Il cibo desiato, E vicinissimo alla bocca mia, E nondimen ben tosto Quasi novello Tantalo infelice, Quando prenderlo io credo D’avanti gli occhi miei fuggir lo miro […] Così più sfortunata, o sfortunati Tizio, Sisifo, e Tantalo, son io Che tutti voi, e di continuo aspetto Altri più innumerabili martiri. (III, 8)

Dove il Panciatichi innova, rispetto alle auctoritates della pastorale, è nel riuso di un topos tragico

– quello dei peccatori avernali – che viene qui assai sviluppato e che è conferma di una significativa

attenzione dell’autore per le varie pratiche di scrittura drammatica del secolo.

Il modulo, di origine classica,37 era stato rilanciato prima dal Boccaccio nella Fiammetta,38

poi da certa lirica petrarchistica39 e, soprattutto, dalla tragedia rinascimentale: dall’Orbecche giral-

diana al Dolce della Didone che, per vari rispetti, mi pare la sinopia più presente nella reinvenzione

37 Il rinvio è a VIRGILIO, Aeneis, VI, 595-617 e a OVIDIO, Met., IV, 457-461 e X, 41-44. Ma il motivo transita poi nella

poesia coturnata senecana e pseudosenecana: si vedano SENECA, Hercules, 750-759; Medea, 744-749; Thyestes, 1-12; Oc-tauia, 621-623 ed Hercules Oetaeus, 940-946 e 1068-1082

38 GIOVANNI BOCCACCIO, Elegia di Madonna Fiammetta, VI (ed. Ageno): «Lo ’nferno, de’ miseri suppremo supplicio, in qualunque luogo ha in sé più cocente, non ha pena alla mia somigliante. Tizio ci è porto per gravissimo essemplo di pena dagli antichi autori, dicenti a lui sempre essere pizzicato dagli avoltoi il ricrescente fegato, e certo io non la stimo piccola, ma non è alla mia simigliante; ché se a colui avoltoi pizzicano il fegato, a me continuo squarciano il cuore cento milia sollecitudini più forti che alcun rostro d’uccello. Tantalo similmente dicono tra l’acque e li frutti morirsi di fame e di sete; certo e io, posta nel mezzo di tutte le mondane delizie, con affettuoso appetito il mio amante desiderando, né poten-dolo avere, tal pena sostengo quale egli, anzi maggiore, però che egli con alcuna speranza delle vicine onde e de’ propin-qui pomi pure si crede alcuna volta potere saziare, ma io ora del tutto disperata di ciò che a mia consolazione sperava, e più amando che mai colui che nell’altrui forza con suo volere è ritenuto, tutta di sé m’ha fatta di speranza rimanere di fuori. E ancora il misero Issione nella fiera ruota voltato non sente doglia sì fatta, che alla mia si possa agguagliare: io, in continuo movimento da furiosa rabbia per gli avversarii fati rivolta, patisco più pena di lui assai. E se le figliuole di Danao ne’ forati vasi con vana fatica continuo versano acque credendoli empiere, e io con gli occhi, tirate dal tristo cuore, sem-pre lagrime verso. Perché ad una ad una le infernal i pene io mi fatico di raccontare? Con ciò sia cosa che in me maggior pena tutta insieme si trova, che quelle in diviso o congiunte non sono».

39 BERNARDO TASSO, Rime, I, 22, da leggere tutta.

del Panciatichi, anche per non secondarie affinità (poi di fatto smentite) fra i personaggi dolenti e

meschini della regina cartaginese, sedotta e abbandonata da Enea, e la povera ninfa. Leggiamo i

versi 1499-1513 dalla Didone del Dolce: 40

Didone Tra le prive di luce alme dolenti In sempiterne pene, Non è doglia, e martir, ch’in me non sia; Ch’io sento il sasso sopra a le mie spalle Ond’è Sisifo grave, E nel cuor l’Avoltor, che Titio pasce: E con Tantalo posta a la fontana, Veggo, che da me fugge Il frutto, e l’acqua, ond’ho più fame e sete. Poi mi volge la ruota d’ogni intorno De’ miei martiri in cima Con Ision: né spero D’uscir vivendo, s’altri nol consente. È ver, che col morire Avrà fine il mio duol, ch’in voi fia eterno.

Nella conclusione del lamento, il Panciatichi inserisce un tipico dispositivo che si era grammatica-

lizzato dopo l’affermazione del Pastor fido:41 la celebre scena dell’eco, perfetto ludus anfibologico,

in cui Filli crede di dialogare con Amore. La scena ha una precisa funzione strutturale, avviando le

vicende che porteranno allo scioglimento e al finale della fabula.

Procedendo per specimina, ci permettiamo di trascurare il coro III (ancora composto di se-

stine di ottonari con schema [ababcc] e dedicato alla celebrazione della dea Amicizia), transitando

al IV atto che subito si segnala per l’agnizione, invero un po’ macchinosa (date le premesse), dei

due protagonisti: casualmente sentendo Solindro che si lamenta, Felcinio gli palesa la propria iden-

tità: è quel Silvio che abitava le rive dell’Arno. Solindro, a sua volta, svela di essere Tirsi (IV, 2).

Il V e ultimo, simmetricamente rispetto al Pastor fido, inizia da premesse tragico-sacrificali,

salvo poi virare nella direzione dello happy ending. Felcinio (V, 1) racconta che mentre Eurilla, du-

rante una caccia collettiva, si stava riposando col suo cane Melampo (altro nome autorizzato da

Guarini: è il cane di Silvio), era stata attaccata alle spalle da Acrinio che Solindro aveva prontamen-

te respinto, ferendolo. Al balio Titiro, che fa le veci del Nuntius, spetta narrare il prosieguo (V, 2):

presentatosi al tempio del padre coperto di ferite, Acrinio aveva invocato la vendetta contro la cop-

pia di amici Felcinio-Solindro, per aver cercato di lasciare l’Arcadia con Eurilla, sua promessa spo-

sa, e per averlo ferito. Aminta, padre di Acrinio, non può esimersi dal condannare a morte Solin-

dro, che viene condotto nel tempio di Diana, in attesa del sacrificio. A questo punto l’erofilomachia,

che ha contraddistinto la fabula fin qui (al di là del titolo assegnatole dal Panciatichi), si sbilancia

40 Si cita dall’edizione moderna: L. DOLCE, Didone, a cura di Stefano Tomassini, Parma, Archivio Barocco, Edizioni

Zara, 1996. 41 B. GUARINI, Pastor fido, IV, 8, 1031 sgg..

clamorosamente in direzione delle ragioni dell’amicizia: Felcinio, saputo della condanna dell’ami-

co, decide di consegnarsi e di morire con lui.42

A interrompere una progressione tragica di flagrante sapore rituale/sacrificale e a sciogliere

il nodo diegetico che sembra avviluppare gli eventi è l’arrivo di Ergasto a V, 4, secondo una dinami-

ca che è platealmente suggerita dalla pastorale guariniana. Ministro minore di Venere, giunge ad

interrompere il sacrificio (proprio come fa Carino nel Pastor fido, V, 4) e invita a condurre i con-

dannati nel tempio di Venere, secondo un trasparentissimo disegno simbolico. Ivi sarà il neoeletto

sacerdote Carino a decidere della loro sorte.

Carino – che è forse la maschera dietro la quale il Panciatichi intende alludere, celebrando-

ne le qualità umane e politiche, ad Enrico IV di Francia – viene presentato a V, 6, nel tripudio dei

vari cori della fabula, come colui che ha ricondotto in Arcadia nientemeno che l’età dell’Oro. Il suo

modus operandi, improntato ad una clementia che non ritiene nulla dell’austero e controriformi-

stico cipiglio del sacerdote rivale Aminta, va interpretato, da un lato, come apologetico riconosci-

mento della funzione storica di pacificatore religioso che Enrico IV aveva oggettivamente avuto;

dall’altro, può essere inteso come auspicio a un rinnovamento della pubblica religione granducale

in direzione diversa dal greve moralismo post-tridentino. Va da sé che queste sono semplici sugge-

stioni, essendo davvero troppo lacunoso il quadro biografico riguardante Vincenzo Panciatichi.

A un vero e proprio Nunzio spetta il compito di raccontare a V, 8 cosa è accaduto a Solin-

dro/Tirsi e a Felcinio/Silvio: Carino ha riconosciuto, un po’ meccanicamente, nel secondo il figlio

creduto morto, ed ha ordinato che subito fosse graziato e slegato anche l’amico. Per concludere la

fabula ha patrocinato addirittura un triplice matrimonio fra Felcinio ed Eurilla, Solindro e Licori,

Acrinio e Filli.

Sorta di parentesi digressiva rispetto a queste vicende che monopolizzano diegeticamente

l’ultimo atto, è l’ultimo monologo del Satiro (V, 7), che rivela di essere uscito dalla buca nella quale

era precipitato solo grazie alla sua prodigiosa forza e che maledice, in un rictus apparentemente

misogino ancora ispirato al personaggio del Pastor fido, tutte le donne, salvo poi – con sorpren-

dente scarto riflessivo/argomentativo – virare in tutt’altra direzione, secondo una prospettiva ideo-

logica che dipende dal finale riposizionamento di Amore nella panoplia assiologica ed etica dell’au-

tore, lontanissimo dal celebrare l’honestade e anzi convinto che essa sia la causa della sofferenza

umana. Nuova conferma di una scissura, non componibile nel Panciatichi, fra estetica ed etica: fino

in fondo il modello del Guarini è seguito con scrupolo (quantunque in una logica di gareggiamento

e riscrittura emulativa), ma è al Tasso aminteo del I coro che vanno i favori ideologici dell’autore:

42 Dietro la coppia di amici che si sacrificherebbero reciprocamente, vi è anche una allusione (nemmeno troppo vela-

ta) alla coppia Mirtillo-Amarilli. A V, 3, nell’ottica di un gareggiamento piuttosto scoperto e con perfetta simmetria ri-spetto al testo guariniano, il coro di pastori recita un inno a Diana, composto da tre versi intercalari: «O casta, o santa Dea / O vago lume del notturno orrore, / Pietà, pietà di lui ti scaldi il core», dove il lui, riferito in un primo momento al solo Solindro, si muterà in lor nelle due successive occorrenze, coinvolgendo anche Felcinio. Naturalmente l’inno è varia-zione di Pastor fido, V, 3: «O figlia del gran Giove, / o sorella del Sol, ch’al cieco mondo / splendi nel primo ciel, Febo se-condo!».

Satiro Ma perché nelle donne Tant’honestà? Chi l’inventore è stato Di questo se non l’huomo? Da cui apprendono esse Ogni disonestade? Qual legge è che volendo Quei che la fa che ciaschedun l’osservi, Che non sia egli ad osservarla il primo? […] O huomini infelici, o stolti, e ciechi, Come è possibil mai, S’in voi splende valor, prudenza, e ardire, Come voi dite, che habbiate con questa Invenzion mal nata d’honestade; Il vostro honor più che la vita caro Posto nel petto d’una debil donna Che stimate sì fragile e leggiera? (V, 7)

Ed anche nella scena 9, con cui si conclude la fabula, se da un lato l’autore riafferma la sua relazio-

ne agonistica, manieristica, con la pastorale guariniana (due fidi pastori hanno trionfato nell’Ami-

cizia Costante contro il solo Mirtillo del Guarini), dall’altro, nondimeno, non può esimersi dal riba-

dire ancora, così ci pare, la propria decisa opzione ideologica per il discorso etico che sottende il I

coro dell’Aminta. Nel conflitto fra Realitätsprinzip e Lustprinzip, il Panciatichi sostiene certamen-

te le ragioni della seconda categoria (che sarà da declinarsi sia come amore erotico, sia come amore

amicale):

Eurilla […] E con eterna fama De duoi fidi pastori, E di sì rara e bella AMICIZIA COSTANTE Sen voli al Cielo il glorioso nome. In questo giorno, Arcadia Tutta di gioia piena, Scarca d’ogni dolore Risuoni Amore, Amore. (V, 9)

3.

Gli Amorosi Affanni è la seconda pastorale del Panciatichi.43 Venne pubblicata a Venezia nel 1605

(e 1606) dal più prestigioso editore di poesia pastorale fra Cinque e Seicento, il senese Giovan Bat-

tista Ciotti, già notissimo per aver pubblicato nel 1602 l’edizione definitiva del Pastor fido guari-

niano. L’edizione presenta varie incisioni che raffigurano i principali personaggi della fabula inseri-

ti in un preciso contesto boschereccio.

Che non si tratti di una meccanica ristrutturazione della prima pastorale, conseguita magari

attraverso un semplice maquillage dell’onomastica, è dimostrato anche dalla scelta di non definirla

43 GLI AMOROSI AFFANNI. FAVOLA PASTORALE DEL CAVALIER VINCENZIO PANCIATICHI L’AGITATO, Accademico Spensierato. Dedi-cata al Sereniss. Carlo Emanuel Duca di Savoia, Principe di Piemonte etc., CON PRIVILEGIO, Appresso Gio. Battista Ciotti Senese, 1605 (non è indicato il luogo che è certamente Venezia). Si è consultata anche analoga edizione che reca però la data del 1606, precisa ristampa della princeps.

tragicomedia, bensì favola pastorale, con recupero di istanze della pastorale pre-guariniana (così

aveva sottotitolato il suo Sacrificio Agostino Beccari), ma soprattutto conferma flagrante che, a

quest’altezza, la pastorale si era ormai ritagliata uno spazio vitale non più reversibile fra i generi

della poesia scenica (senza più l’obbligo di perseguire una poesia drammatica contemporaneamen-

te tragico-comica per adeguarsi ai dettami del verbo aristotelico).

A differenza dell’Amicizia Costante, legata ad una precisa cornice celebrativa e festosa, gli

Amorosi Affanni pare opera più ambiziosa (ma non per questo più riuscita), come sta a dimostrare

il corredo paratestuale allegato dal Panciatichi, comprensivo di una dedicatoria e di una importan-

tissima lettera A i gentilissimi lettori.

Andiamo per ordine. La dedicatoria è rivolta, come si evince già dal frontespizio, a Carlo

Emanuele I di Savoia (1562-1630), cui come si sa Guarini aveva dedicato una delle redazioni del

suo Pastor fido, poi perduta. Quali che siano i motivi della scelta, certo è che il Savoia fu tra i prin-

cipali alleati di Enrico IV di Francia (e Maria de’ Medici) in funzione antiasburgica, la qual cosa po-

trebbe far pensare ad un interessato tentativo di riposizionamento politico del Granducato di To-

scana dopo la morte, nel 1574, di Cosimo I: riposizionamento che passava anche attraverso il lavoro

di letterati ed artisti. Ma lasciamo agli storici di indagare più in profondità su tali questioni.

Molto più rilevante sul piano squisitamente letterario, ma anche causa di un fraintendimen-

to sul rapporto fra le due pastorali del Panciatichi su cui ci siamo soffermati supra, è la lettera A i

gentilissimi lettori che ci pare opportuno riportare integralmente:

Non vi sia di meraviglia, Cortesissimi Lettori, se peraventura in questa mia Pastorale conoscerete qualche verso, Concetto, o Episodio, simili all’altra mia nominata l’Amicitia Costante: perciò che non è nato questo da mia disav-vertenza, o mancamento d’inventione; ma sì bene è da me stato fatto à posta acciò, che così servendomi del mi-gliore, benché in minima parte, che in quella sia, maggiormente io venga ad annullare in tutto il nome suo, come è stato desiderio mio nel compor la presente; la quale sola bramo, che viva, come mio leggitimo [sic!] parto nel co-spetto del Mondo; dimostrando, che non d’haver fatto due Pastorali, ma una sola, che è questa, mi son proposto nell’animo. Di più non vi dia fastidio, se nella parte del semplice Volpino sentirete voci storpiate, barbarismi, et al-tro fuor delle regole; percioché in tal parte io ho finto un ordinario nostro Contadino, che di nuovo sia arrivato in quelle parti, e però non lo fo uscire della natural sua favella, et ho introdotto simile strione sì per rallegrar la favo-la, non essendo proibito da Aristotele nelle sue regole, che di questa sorte di Poema espressamente non scrive; come ancora perché alcune cose necessarie al tessimento d’essa non si convenivano à nobili Pastori. Prendete dunque la Rosa, e non la Spina, e Dio vi felici.

Con questa lettera il Panciatichi – non sappiamo se per ragioni di autopromozione della novità edi-

toriale, per l’esigenza di prendere le distanze da un’operazione di aemulatio e gareggiamento assai

critica, sul piano ideologico, nei confronti del Pastor fido (testo di punta nel catalogo del Ciotti) o

sulla base di sincere motivazioni artistiche e letterarie – rinnega l’Amicizia Costante, ridimensio-

nandone platealmente l’originalità e consegnando ai posteri, come sua sola opera degna, la seconda

pastorale.

Ribadiamo qui che, quantunque vi siano inevitabili isotopie strutturali e tematiche, analogia

di stilemi e di soluzioni sceniche fra le due fabulae, le pastorali del Panciatichi paiono, al di là dei

problematici pronunciamenti d’autore, opere sufficientemente e decorosamente autonome.

Ciò detto, la lettera è estremamente interessante per un altro motivo: la giustificazione della

presenza di un personaggio, il bifolco Volpino, che appartiene alla tipica tradizione nenciale tosca-

na, che pertanto non ha nulla di classicistico nel linguaggio che parla (che è anzi assai più rustico di

quello parlato dal suo omologo nell’Amicizia Costante: il capraio Serpino) e che è del tutto estraneo

alla codificazione di Aristotele (il quale, d’altra parte, ‘di questa sorte di Poema espressamente non

scrive’), pare un evidente tentativo di alzare la temperatura comica e giocosa dell’opera, per venire

incontro alle rinnovate esigenze di diletto di un pubblico di lettori e non di spettatori.44 La strategia

seguita dal Panciatichi guarda alla tradizione dei Rozzi e non ha alcuna legalità tassiana e guarinia-

na, quindi può essere concepita come arcaizzante rispetto alla nuova grammatica della pastorale

d’avanguardia.

Gli interlocutori sono: la Musa Toscana (con le tre Grazie) che fa il prologo, Florindo e So-

lindro (i pastori amici), Floribio (sacerdote di Giove), Timbri (suo figlio), Rosalba (sorella di Solin-

dro), Perillo (balio di Florindo), Tersilla (ninfa innamorata di Timbri), un Satiro, il bifolco Volpino,

i ministri del tempio Foresto e Rosmindo, il pastore Eurillo, il Nunzio; inoltre vi sono tre cori (di

sacerdoti di Giove, di pastori, di ninfe). La fabula si svolge a Fiesole.

Il prologo è del tutto indipendente dalle vicende successivamente sceneggiate ed ha un pre-

cipuo valore culturale, con la Musa Toscana che si autopresenta con un coturno e un socco ai piedi,

icastica rappresentazione della natura ibrida e metamorfica della poesia pastorale, e con una cetra

in mano (attributo tipico della lirica): il Panciatichi energicamente riafferma la centralità della To-

scana nella vicenda delle lettere italiane, confermata dal fatto che le tre Grazie che seguono la Musa

recano rispettivamente in mano ‘tre lumi ardenti’ delle nostre lettere: Dante, Petrarca, Boccaccio.

L’atto I inizia con un bel notturno recitato da Solindro, eroe topicamente dolente e anàlo-

gon dell’omonimo personaggio dell’Amicizia Costante:

Solindro O tenebrosi orrori De l’altrui faticar riposo e pace; O stelle amiche, o Dea che rassereni Co ’l vago lume l’acciecata Notte, Ecco io ritorno a voi, che mentre un dolce Sonno lusinga i miseri mortali, Me rio pensier mai sempre ange, e tormenta; Onde per mio conforto indarno sorge Nel celeste sentier la bella Diva Co ’l suo Carro stellato, e ’l crine ombroso, Che è duro campo di battaglia il letto A queste membra; e sol pianti, e sospiri Son requie à miei dolori, à miei martiri. (I, 1)45

Dialoga con lui, sul far dell’alba, il balio Perillo (omologo del Titiro di Amicizia Costante): il loro

confronto ha anche funzione riepilogativa ed espositiva (essendo in partenza liquidata questa pos-

sibilità nel prologo). Solindro dapprima esprime il suo risentito disagio politico ed etico per la città

44 Come già perfettamente notava L. RICCÒ, Minotauri, centauri, ermafroditi: misti e mostri teatrali italiani, cit., p.

91. 45 Ancora qualche suggestione a valle: cfr. GIOVAN BATTISTA MARINO, Adone, XX, 114: «Disse, e già fuor de’ tenebrosi

horrori / Trahea di vive perle il corno pieno / Cinthia, e spargea di cristallini albori / Il taciturno e gelido sereno. / Tacea-no i venti, o languidetti i fiori / Giaceano a l’herba genitrice in seno. / Nel suo placido letto il mar dormiva, / Del cui gran sonno il fremito s’udiva».

di Firenze, divenuta «corrotta da mille empi costumi / Qual son pur l’altre ch’han più pregio al

mondo, / Di menzogne, d’inganni / E di corrotto oprar fatta sentina» (I, 1), cosa che ha spinto gli

spiriti liberi della città a spostarsi a Fiesole, ove è sorta una Novella Arcadia su un colle chiamato

Ninfeo (ivi sono stati persino costruiti – in un tipico spazio utopico e ucronico – templi dedicati a

Giove, Diana, Venere e Amore).

Poi spiega i motivi della sua sofferenza: il suo amico Florindo ha ucciso casualmente in uno

scontro il pastore Eurillo e perciò ha dovuto allontanarsi da Fiesole, portando con sé la sorella Flo-

rinda, promessa sposa di Solindro. Motore diegetico della fabula è questo antefatto cruento, che

verrà progressivamente decostruito e spiegato.

Nelle scene successive (I, 2, 3, 4) si presentano, perlopiù attraverso monologhi, altri perso-

naggi (in particolare Tersilla che ama Timbri, ma non è corrisposta e Timbri che ama Rosalba, so-

rella di Solindro, non corrisposto). A I, 5 Tersilla e Rosalba dialogano sull’amore: il nome parlante

di quest’ultima è il pretesto per una raffinata e digressiva comparatio lirica che, recuperando la le-

zione di Ariosto (Orl. fur., I, 42-43), pare già preludere a soluzioni di sapore barocco:46

Tersilla Mira poi quella Rosa Di tutti alma Regina, Come se’ tu d’ogni più bella donna; Come si sta pomposa, De la porpora sua superba cinta: Come par che ogni fiore a lei s’inchini, E ceda di beltà, di leggiadria? Come a lei d’accostarsi Par che dubbioso ognun quasi paventi? Né meraviglia è già, poiché d’intorno Le fan guardia, e corona acute spine, Ma se s’ardisce al fine Di rapirla dal suo nativo stelo, Sol conoscesi in quella Infinita bellezza, odor sì grato, Che non han più soave Indi o Sabei, Or perché avvien che sì dissimil sia Agli effetti di lei, S’è pur simile il nome, L’oprar tuo, che s’altrui lieto ti mira, Scorge, et ammira in te grazia, beltade, Gentilezza, e pietade; ma se poscia Con la mano d’Amor tenta rapire Da lo spinoso stel del tuo bel seno Il fior d’una parola, o d’un sospiro, Pur lieve premio a generoso amante; Sente come tu pungi, e come sei Piacevole nel nome, Discortese ne l’opre, Rosa nel rimirarti, Ma spina nel toccarti. (I, 5)

La scena 6 rappresenta una svolta diegetica di pretto sapore comico: Florindo torna a casa en tra-

vesti come Florinda, contando di avere l’appoggio dell’amico Solindro e dell’amata Rosalba (secon-

do un movimento che rinvia anche al motivo dell’erofilomachia: chi sarà decisivo nella salvezza di

46 Cfr. GIOVAN BATTISTA MARINO, Adone, III, 156-161, col celeberrimo elogio della rosa.

Florindo, l’amico o l’amata?): comincia una sequenza connotata dal codice della commedia degli

equivoci.

Di notevole interesse pare, nella scena successiva e al di là della topica mobilitata, la rifles-

sione anticortigiana che Florindo pronunzia, e per l’indiscutibile emersione di un dato autobiogra-

fico inerente al Panciatichi, e per il preciso riuso scenico della tormentata vicenda biografica di

Torquato Tasso, citato attraverso una limpidissima perifrasi nel penultimo verso della sequenza qui

allegata:

Florindo Troppo s’asconde tormentoso stato Sotto i tetti dorati; e ’l civil manto Ricopre tradimenti, inganni, frodi, Animi finti e desideri insani; Troppo è quivi d’ogn’huom corrotto il gusto, E sia detto con pace Di molti, che vi son di virtù spegli, Che non sol io fra i cigni il men sublime Ma quegli a cui dié il ciel divina voce, Ivi son dispregiati, e lo san bene Quel grande, che cantò l’armi pietose, E tanti e tanti a cui dar nome è vano. (I, 7)

Non si può non pensare a precisi dolori e a delusioni personalmente vissute, in uno spazio in cui la

pagina scritta si fa, anche solo per pochi momenti, specchio di un’esistenza: sicura è comunque una

profonda sensibilità dell’autore per la figura, umana e letteraria, del Tasso.

La scena I, 8, con cui si conclude l’atto, è certamente modellata su I, 5 di Amicizia Costante:

si tratta di un monologo del Satiro con tipica scena d’eco nella parte finale. La novità, invero degna

di nota, è che a fare l’eco, con uno spunto di sicura efficacia scenica, è il furbo bifolco Volpino, il cui

fiorentino è ricchissimo di parole e iuncturae idiomatiche di pretto sapore nenciale (scinfia, vivi un

poco, come fo io, millanta, I’ non t’haveva punto conosciuto, bestiaccia, putte, crapa, bastonaccio,

cotesto, apricesso, ve’ un po’ come le son più di tantine, lagorare, ecc.) e che inoltre storpia pure le

parole di coloro con cui dialoga. Volpino è un doppio ancor più basso del Satiro (sorta di sua spalla

comica), che non per caso lo utilizza come ambasciatore, commissionandogli il compito di andare a

regalare all’amata Tersilla un capro appena cacciato.

Rinviamo, per ora, l’analisi dei cori, ripromettendoci di tornare sulla questione in coda al

presente contributo.

Il II atto, per il resto caratterizzato dall’adozione di moduli consolidati (il lamento del pasto-

re, la topica riflessione sulla necessità di ricambiare l’amore, l’inevitabile assalto del Satiro alla nin-

fa, ecc.), presenta una scena su cui è opportuno soffermarsi: la sesta. In essa il Panciatichi affida al

Satiro, con un nuovo gioco di allusioni intertestuali, alcune deprecative riflessioni culturali decisa-

mente rubricabili sotto il segno dell’ideologia e dell’assiologia amintea. La mediazione del Tasso è

talmente esibita che non mette nemmeno conto approfondire:

Satiro O secol fortunato, o bella etade Aminta che fu quella Di cui nel mondo vive il nome solo Non lusinghe, o repulse, O dolori, o martiri, Ma un concorde volere Facea contenti i desiosi amanti. Non era ferità, non crudeltade, Com’ora dentro al sen d’amata Ninfa, Cui mercé si vedessi Donna pregiar chi l’odia, odiar chi l’ama; Gioir ne l’altrui danno Finger pietoso un guardo: irato un core Per nutrir l’alme in servitù d’Amore. (II, 6)

Anche il III atto è soprattutto un nuovo contenitore di moduli e nuclei strutturali tipici della gram-

matica della pastorale: è l’episodio che avvia lo scioglimento dell’azione attraverso l’agnizione di

Florindo (il quale si rivela per quello che è all’amico Solindro).

Il IV atto è monocromaticamente tragico: Timbri, disperato per Rosalba che ama Florindo e

non lo degna di alcuna attenzione, decide di vendicarsi. Sapendo che Florindo è a Fiesole, ne de-

nunzia la presenza e lo fa condannare assieme all’amico Solindro. Qui Panciatichi segue la falsariga

della sezione liturgico-sacrificale della sua prima pastorale, in nulla o pochissimo innovando.

L’atto conclusivo comincia sulle stesse tonalità cupe e chiaroscurali del precedente (Solin-

dro sembra essere morto in carcere; il sacerdote Floribio prepara Florindo al sacrificio che porrà

fine alla sua vita, ecc.), ma dalla scena 3 in poi il Panciatichi sviluppa la peripezia: Solindro è vivo

(aveva solo sorbito un potentissimo sonnifero) e il pastore Eurillo, presuntivamente ucciso da Flo-

rindo, ‘risorge’ e si presenta in scena accusando Timbri di aver macchinato il suo imprigionamento

per volersi vendicare mortalmente di Florindo. Dice anche che a liberarlo dal carcere era stato il Sa-

tiro (in una nuova, sorprendente dimostrazione del diverso ruolo assegnato dall’autore al perso-

naggio, abitualmente solo brutale e violento). Spetta a Rosalba, nella scena successiva, aggiungere

qualche particolare: Timbri aveva architettato un complesso, cervellotico stratagemma per ottenere

il suo amore, inviando a Solindro e Florindo due coppe di vino. Nella prima aveva sciolto un poten-

te sonnifero in modo che Solindro, creduto morto, fosse esposto nel bosco alle fiere e fosse salvato

dalla sorella Rosalba solo grazie alle precise indicazione di Timbri in cambio del suo cuore.

La scena 7 è quella che segna la fine, diegeticamente parlando, della fabula: il Nunzio canta,

con versi che rimano al mezzo e in cui notevole è ancora la caratura melica, le gioie dell’amicizia:

Nuncio Ben doppo pioggia con irati lampi, Che valli, e campi, collinette, dumi Par, che consumi; de l’aurato crine Spiegando alfine Apollo il chiuso velo Serena il Cielo. E con bel nembo di dorata luce Tosto radduce nel primiero stato I poggi, e ’l prato; onde ogni nobil fiore D’almo colore si dipinge, e torna

La terra adorna. Ma d’amor queste opre non sono usate? Ei d’impietate pria cingendo il seno, In un baleno oscuro nembo apporta (Con dubbia scorta) di sospiri, e pianti Ai cori amanti. Ma doppo brevi tempestosi giorni Fa che ritorni il desiato Sole, Torna qual suole in lui ridente il ciglio, Ben degno figlio d’amorosa diva, Che ’l mondo avviva. O mille volte fortunato, e mille Chi di faville avvampa così rare, Lacrime care de suoi fidi amici, Poi che felici han doppo brevi pene Eterno bene. (V, 7)

Dopo di che il Nunzio riporta quanto è accaduto: le accuse rivolte a Timbri, che ha confessato, han-

no interrotto il sacrificio e portato alla giusta liberazione dei due amici Solindro e Florindo. Timbri

stesso, che in un primo momento viene condannato a morte dal padre Floribio, viene comunque

perdonato e non può mancare il matrimonio che di prammatica chiude la storia: Timbri sposa Ter-

silla, Florindo sposa Rosalba, Solindro sposa Florinda. La pastorale si chiude con una apoteosi di

cori in cui si ribadisce il valore dell’amicizia.

Prima della conclusione, ci sia permesso fare qualche riflessione sui cori, che data la notevo-

le congruenza tematica, è opportuno considerare in unica soluzione. A differenza dei cori in ottona-

ri della prima pastorale, negli Amorosi Affanni il Panciatichi sceglie di adottare la mixtura di sette-

nari ed endecasillabi con schemi metrici non troppo variati (I = [ABbAcC]; II = [abABcC]; III = [A-

bCAbC]; IV = [ABacBcDD]), ma quel che più ci interessa è la scelta di dedicare ciascun canticum ad

una stagione, dalla primavera all’inverno in sequenza, secondo un modus operandi che risente for-

se delle logiche della spettacolarità intermediale.

Per concludere: Vincenzo Panciatichi non ha scritto, nonostante i suoi pronunciamenti, una

pastorale, bensì due e certo nel transito editoriale da Firenze a Venezia ha dovuto aggiustare la sua

originaria ispirazione (particolarmente sollecitata anche da urgenze celebrative e cerimoniali), re-

cuperando – con ripiegamento arcaizzante – soluzioni linguistiche estreme, quantunque confinate

nell’esclusivo e rassicurante perimetro dello spazio scenico ex-lege assegnato al bifolco Volpino, per

riuscire ad ottenere, ben al di là della sostanziale, seria sobrietà del suo primo plot, il diletto del

pubblico.

Inoltre, le preoccupazioni tragicomiche esplicitate nel frontespizio e nello sviluppo, decisa-

mente chiaroscurato, dell’Amicizia Costante, svaniscono di fatto, qualche anno dopo, negli Amoro-

si Affanni: con ciò però, se non liquidano del tutto, quantomeno riducono anche quella ambigua

coincidentia oppositorum a matrice guariniana e tassiana che materia così eccezionalmente la pri-

ma prova del Panciatichi, in cui le scelte strutturali forti sono certo prelevate dal Pastor fido, ma la

cui sostanza etica e ideologica pare dipendere decisamente dall’Aminta (e certo anche dalla sua

‘ambigua armonia’):47 nodo su cui abbiamo provato a richiamare l’attenzione del lettore.

47 GIOVANNI DA POZZO, L’ambigua armonia. Studio sull’Aminta del Tasso, Firenze, Olschki, 1983.

Per questi motivi, non già agli Amorosi Affanni va la palma di migliore pastorale di Vincen-

zo Panciatichi, nonostante le riserve d’autore, bensì all’Amicizia Costante, da cui quella deriva mo-

duli, stilemi, strutture e soluzioni, pur distinguendosene per vari aspetti.

A spalle più robuste spetterà il compito di approfondire quelle che qui abbiamo presentato

soprattutto come suggestioni.