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Guido Alliney «Utrum necesse sit voluntatem frui». Note sul volontarismo francescano inglese del primo Trecento 1. Il problema Obiettivo di questo studio è ricostruire la ricezione della dottrina della volontà di Scoto nell’ambiente francescano inglese dei primi decenni del XIV secolo, e non analizzare nella sua complessità la teoria scotiana stessa. Per una più esat- ta comprensione della questione è tuttavia necessario tratteggiarne preliminar- mente le linee principali. La teoria della volontà di Scoto è una dottrina articolata, che può essere in- tesa solamente in connessione con le principali opzioni metafisiche del suo au- tore. È il ricorso a concetti trascendentali, infatti, che consente a Scoto di co- struire una dottrina capace di distinguere la libertà umana da quella divina al- l’interno di un comune riferimento concettuale che garantisca la possibilità di un discorso che porti – se pur in maniera imperfetta – dall’umano al divino. Scoto, come si sa, amplia la categoria dei concetti trascendentali aggiungen- done due nuove tipi a quelli tradizionalmente definiti in base alla loro converti- bilità con l’essere, come buono e vero. Si tratta delle perfezioni pure e dei tra- scendentali disgiuntivi, ed ambedue queste categorie – come vedremo – gioca- no un ruolo decisivo nella formulazione della teoria della volontà scotiana. Pro- seguendo con ordine: le perfezioni pure sono attributi dell’ente che, pur non ap- partenendo ad ogni ente – come invece accade ai trascendentali tradizionali –, individuano tuttavia delle caratteristiche che in assoluto è meglio possedere, e per questo possono essere dette trascendentali. In questo modo Scoto si riferi- sce, ad esempio, alla razionalità o alla volontà: ogni ente sarebbe più perfetto se fosse dotato di volontà e ragione, anche se solo alcuni lo sono davvero. Venendo al caso che qui ci interessa, Scoto identifica così un concetto tra- scendentale di volontà applicabile ad ogni ente, e che proprio per questo è in sé privo delle determinazioni che necessariamente lo caratterizzano nel suo darsi in un ente particolare. Infatti, la ragione formale trascendentale della volontà non è altro che l’enunciazione di quanto è comune alla volontà infinita di Dio e «Quaestio», 8 (2008), 83-138 10.1484/J.QUAESTIO.1.100380 04_Alliney_8.QXD:00_Alliney_8 5-06-2009 13:01 Pagina 83

Utrum necesse sit voluntatem frui. Note sul volontarismo francescano inglese del primo Trecento

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Guido Alliney

«Utrum necesse sit voluntatem frui». Note sul volontarismo francescano inglese del primo Trecento

1. Il problema

Obiettivo di questo studio è ricostruire la ricezione della dottrina della volontàdi Scoto nell’ambiente francescano inglese dei primi decenni del XIV secolo, enon analizzare nella sua complessità la teoria scotiana stessa. Per una più esat-ta comprensione della questione è tuttavia necessario tratteggiarne preliminar-mente le linee principali.

La teoria della volontà di Scoto è una dottrina articolata, che può essere in-tesa solamente in connessione con le principali opzioni metafisiche del suo au-tore. È il ricorso a concetti trascendentali, infatti, che consente a Scoto di co-struire una dottrina capace di distinguere la libertà umana da quella divina al-l’interno di un comune riferimento concettuale che garantisca la possibilità diun discorso che porti – se pur in maniera imperfetta – dall’umano al divino.

Scoto, come si sa, amplia la categoria dei concetti trascendentali aggiungen-done due nuove tipi a quelli tradizionalmente definiti in base alla loro converti-bilità con l’essere, come buono e vero. Si tratta delle perfezioni pure e dei tra-scendentali disgiuntivi, ed ambedue queste categorie – come vedremo – gioca-no un ruolo decisivo nella formulazione della teoria della volontà scotiana. Pro-seguendo con ordine: le perfezioni pure sono attributi dell’ente che, pur non ap-partenendo ad ogni ente – come invece accade ai trascendentali tradizionali –,individuano tuttavia delle caratteristiche che in assoluto è meglio possedere, eper questo possono essere dette trascendentali. In questo modo Scoto si riferi-sce, ad esempio, alla razionalità o alla volontà: ogni ente sarebbe più perfetto sefosse dotato di volontà e ragione, anche se solo alcuni lo sono davvero.

Venendo al caso che qui ci interessa, Scoto identifica così un concetto tra-scendentale di volontà applicabile ad ogni ente, e che proprio per questo è in séprivo delle determinazioni che necessariamente lo caratterizzano nel suo darsiin un ente particolare. Infatti, la ragione formale trascendentale della volontànon è altro che l’enunciazione di quanto è comune alla volontà infinita di Dio e

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alla volontà finita dell’uomo, e proprio per questo essa è indifferente al modo incui poi si realizza negli enti che realmente ne sono dotati. Dunque, la volontà di-vina e la volontà umana, pur profondamente diverse fra loro, condividono unanozione trascendentale che evidenzia il contenuto minimo perché una potenzapossa dirsi volontà – e questo contenuto minimo è la libertà, che ne è la carat-teristica costitutiva.

Per precisare il concetto di libertà sul quale fa affidamento per definire la vo-lontà, Scoto introduce il secondo tipo di trascendentali con cui arricchisce latrattazione a lui precedente, i trascendentali disgiuntivi. Questa categoria è rap-presentata da coppie di caratteristiche opposte, incompatibili fra loro – appun-to disgiuntive –, che tuttavia coprono tutta l’estensione dell’essere. Ciò signifi-ca che ogni ente è caratterizzato da questo tipo di proprietà, ma che ne possie-de effettivamente solamente una delle due: o l’una o l’altra. Un esempio chiariràil punto, e ci ricondurrà al tema della volontà. Gli agenti che operano seguendola propria natura sono essenzialmente distinti dagli agenti che operano in basealla propria libertà ma, al tempo stesso, ogni agente appartiene necessariamen-te all’una o all’altra delle due classi così definite che, prive di elementi in co-mune, ciò nondimeno ricoprono tutto l’ente senza residui. Dunque ogni agente oè naturale o è libero: nei termini della metafisica scotiana questa conclusione èespressa dalla coppia di trascendentali disgiuntivi natura/libertà.

Riassumendo quanto detto fin qui: la volontà è una perfezione trascendenta-le dell’ente che si distingue per il fatto di essere costitutivamente provvisti del-la caratteristica della libertà. Gli enti dotati di volontà circoscrivono così unaclasse trascendentale di enti che – in quanto liberi – si distinguono da tutti glialtri enti che operano invece come nature.

Si è detto che, limitatamente al suo contenuto trascendentale, la volontà inquanto libera è comune per indifferenza a Dio e all’uomo. È tuttavia vero che lavolontà divina e la volontà umana hanno anche molte caratteristiche diverse, oaddirittura opposte. È allora necessario analizzare il processo che porta dallaunivocità trascendentale del concetto alle sue distinte occorrenze in Dio e nel-l’uomo. Scoto compie questa operazione facendo ricorso ad un’altra, e più fon-damentale, coppia di trascendentali disgiuntivi, quella che oppone il finito el’infinito: Dio è l’ente nel modo dell’infinità, l’uomo appartiene all’ente nel mo-do della finitudine. Con questa affermazione Scoto non intende indicare nel-l’ente un genere categoriale sommo diviso poi da differenze specifiche, quali sa-rebbero in questo caso l’infinità e la finitudine. Intende invece dire che per lasua generalità l’ente è il contenuto minimale predicabile di ogni cosa che è, sem-plicemente per il fatto di essere qualcosa. In altre parole, la mente può giunge-re ad un concetto di ente talmente povero di contenuti che non ci dice nulla dialcun particolare ente oltre a segnalarne l’esistenza, e che proprio per questo è

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predicabile di ognuno di essi. Ma ciò non significa che al concetto di ente cor-risponda un genere categoriale, perché di fatto l’ente esiste sempre e solo in unoo nell’altro dei suoi modi intrinseci fondamentali, l’infinità e la finitudine. Infi-nità e finitudine sono dunque i modi in cui l’ente sempre si dà nella sua con-cretezza, e proprio per questo sono modi intrinseci e costituitivi dell’ente, e noncaratteristiche specifiche categoriali che si possono aggiungere ad un concettogenerico per determinarlo dall’esterno – come è il caso della razionalità rispet-to all’animalità. L’ente non è dunque la categoria suprema, ma un concetto trans-categoriale che individua ciò che è comune ad ogni ente: il fatto di essere qual-cosa e non il nulla – di essere, appunto, un ente. L’ente reale, invece, è radical-mente distinto nell’ente infinito – Dio – e nell’ente finito – il creato – in base al-le caratteristiche trascendentali disgiuntive di infinito e finito che gli competo-no intrinsecamente.

Questa è la dottrina scotiana della univocità del concetto di ente, e ad essabisogna ricorrere per proseguire la nostra indagine metafisica sulla volontà. Ri-portando quanto ora esposto al nostro caso, possiamo dire che la volontà è, sì,una caratteristica trascendentale comune a Dio e all’uomo; tuttavia essa si di-stingue subito in base alla modalità dell’ente a cui inerisce. Detto altrimenti: lavolontà infinita di Dio e la volontà finita dell’uomo condividono le proprietà co-stitutive della volontà (come appunto la libertà), ma non le caratteristiche chederivano dalla modalità dell’ente che li distinguono.

Scoto descrive in dettaglio il passaggio dalla volontà dell’uomo alla volontàdi Dio tramite il ricorso al concetto trascendentale. In un primo momento è ne-cessario considerare la ragione formale della volontà in noi e depurarla di tuttele caratteristiche dovute all’imperfezione dello stato umano. Si giunge così alconcetto trascendentale, indifferente al modo in cui è colto nella sfera creatura-le. Il secondo momento consiste nel conferire al concetto per così dire nudo divolontà ogni perfezione che può competergli in base all’infinità di Dio. Il con-cetto trascendentale funge così da ponte metafisico che consente di passare dal-la predicazione degli attributi umani alla predicazione degli attributi divini tra-mite la purificazione del concetto dalle imperfezioni tipiche dello stato creatu-rale e la successiva attribuzione delle perfezioni proprie di Dio.

Dunque l’infinità risulta essere la caratteristica più intima e peculiare del di-vino: la volontà di Dio è una volontà infinita che proprio per questo può espri-mersi come perfezione assoluta e operare con l’assoluta necessità che contrad-distingue l’ente infinito. Per comprendere meglio questo punto è necessario ri-correre ad un’ulteriore coppia di trascendentali disgiuntivi, la necessità e la con-tingenza. Si tratta di una disgiunzione trascendentale che non si sovrappone aquella già esaminata di natura/libertà, ma le è in un certo senso ortogonale: lalibertà, infatti, si oppone alla natura, ma non ad ogni tipo di necessità, e proprio

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per questo la volontà di Dio può al tempo stesso essere libera e agire con asso-luta necessità. La volontà umana, invece, è contraddistinta dalla limitatezza on-tologica dell’ente finito, e non può perciò mantenersi al livello di perfezione as-soluta. Per questo, il suo modo di agire sarà libero e contingente.

Il punto è decisivo. Ricapitolando ancora: la volontà è una perfezione tra-scendentale comune a Dio e all’uomo, e la sua caratteristica costitutiva è quel-la di non essere un agente naturale, ma un agente libero. Questo è quanto di co-mune possiedono la volontà divina e la volontà umana. La volontà divina si dif-ferenzia, però, per possedere le caratteristiche modali dell’ente che caratteriz-za, ovvero l’infinità. Per questo, essa agisce con la necessità assoluta che con-traddistingue la perfezione di Dio. La volontà umana, invece, condivide la ca-ratteristica di finitudine dell’uomo, e proprio per questo non si può esprimeremai a livello di compiuta perfezione. Di conseguenza le è preclusa la necessitàche caratterizza la volontà divina, e le è assegnata la contingenza, che divienela cifra dell’agire umano.

Scoto precisa che è sufficiente che uno solo dei termini della relazione in-staurata dall’atto volontario sia un ente finito per impedire che tale atto si ma-nifesti nella sua perfezione. Questo vuol dire che a cagione della finitudine crea-turale è contingente sia l’azione divina nei confronti della creatura, sia l’azioneumana nei confronti di Dio. Il motivo è semplice: se qui si desse una necessità,non potrebbe essere la necessità assoluta dell’azione volontaria all’interno del-l’ente infinito – cioè la produzione trinitaria ad intra dell’essenza di Dio –, mal’unica necessità confacente all’ente finito, ovvero la necessità naturale. Ma que-sta necessità può riguardare solo gli agenti naturali, e per questo è incompatibi-le con la libertà della volontà: non in quanto necessità, ma in quanto naturale.Di conseguenza Scoto può affermare che la contingenza, se non è in assoluto laperfezione maggiore che possa competere alla volontà, nel caso dell’ente finitoè la perfezione relativa più alta possibile, perché distingue l’agire della volontàumana dall’agire di un agente naturale.

Dunque, pur unificate dal concetto trascendentale, la volontà divina e la vo-lontà umana hanno caratteristiche operative opposte: ambedue libere, l’una agi-sce con necessità assoluta (almeno ad intra), l’altra con la più radicale contin-genza, che rappresenta tuttavia una perfezione relativamente allo stato di fini-tezza dell’uomo, e che non può essere in alcun modo risolta nella necessità.

Dal punto di vista della filosofia pratica, la teoria della volontà così formula-ta prevede alcune conseguenze che si pongono al di fuori dei limiti del volonta-rismo quale si era delineato negli ultimi decenni del XIII secolo ad opera so-prattutto di Enrico di Gand. Infatti, la contingenza radicale della volontà finitacomporta che l’uomo mantiene la capacità di non volere (tramite un’astensionedall’azione) Dio stesso anche quando è conosciuto nella sua essenza in patria.

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Salvo rare eccezioni, ogni teologo precedente a Scoto aveva invece ritenuto che,in questo caso, la naturale tendenza al bene rendesse l’azione volontaria neces-saria, proprio perché così si realizzava compiutamente il fine ultimo dell’uomo.Coerentemente con l’impianto metafisico ora tratteggiato, per Scoto la tendenzanaturale al bene intrinseca alla volontà non è una forza attiva che possa muo-verla all’azione – dato che in questo caso la volontà sarebbe contraddittoria-mente capace di agire come una natura – ma è una semplice disposizione pas-siva ad accogliere l’oggetto della beatitudine.

La teoria della volontà di Scoto può essere compresa nei suoi distinti aspettisolo ripercorrendo le tappe della determinazione metafisica delle caratteristichetrascendentali dell’ente. I contemporanei di Scoto dovettero così affrontare siala complessità del suo pensiero – che non sempre fu colto nella sua profondità–, sia il risultato più rivoluzionario di esso – ovvero la dilatazione della sfera del-la contingenza umana anche all’atto beatifico, sia in via (cioè nei confronti delbene assoluto o di Dio colto per fede) sia in patria (cioè nei confronti di Dio vi-sto nella sua essenza). Si trattava di una posizione radicale che venne presto col-ta come l’esito più problematico della dottrina scotiana: su questo punto si eser-citano le critiche più violente dei suoi oppositori, ma si manifestano anche leperplessità più profonde dei suoi stessi allievi.

Infatti, pochi fra gli stessi discepoli di Scoto accettarono integralmente la suateoria della volontà, cercando piuttosto di modificarne il senso piegandola ad esi-ti più tradizionali. Data l’intima connessione fra volontarismo e metafisica onto-logica, questa operazione non poteva essere compiuta senza tradire le istanze piùprofonde del pensiero di Scoto; tuttavia furono tentate molte soluzioni di com-promesso, spesso basate su un’imprecisa comprensione della dottrina stessa.

Uno dei punti più esposti a possibili confusioni era quello delle distinte mo-dalità che possono caratterizzare un atto volontario. In base a ciò che abbiamoprecedentemente esposto, si può dire che l’atto volontario è sempre libero manon sempre contingente, dato che solo la necessità naturale gli è preclusa. Mala sovrapposizione delle modalità non è sempre così semplice, e la massimacomplicazione è raggiunta nel caso del beato in patria. Infatti, anche quando ilbeato decide di volere Dio, il suo atto resta contingente, perché segnato dalla fi-nitudine della volontà che lo compie, e per questo motivo solamente l’eterna li-bera scelta di Dio può garantire la perpetuità dello stato beatifico che non puòessere raggiunta dall’atto umano. Così, l’atto di fruizione del beato risulta esse-re al tempo stesso costitutivamente libero in quanto atto volontario; operativa-mente contingente in quanto prodotto da un agente libero e ontologicamente fi-nito; e infine relativamente necessario perché così voluto dalla libera volontà in-finita di Dio.

Nei testi scotiani il rapporto fra queste varie e apparentemente contradditto-

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rie modalità non risulta sempre del tutto chiaro, soprattutto perché quando trat-ta dell’agire umano Scoto tende a usare «libero» e «contingente» come sinoni-mi, senza ripetere la giustificazione metafisica di quella che in ogni caso reste-rebbe un’indubbia imprecisione. Anche l’univocità trascendentale della volontàè facile oggetto di fraintendimenti da parte di molti degli stessi allievi di Scoto,perché è spesso ridotta ad una unità reale fra volontà umana e divina. L’inesat-ta comprensione della dottrina dava però agio a sviluppare dottrine che, dietroun’adesione spesso puramente terminologica al pensiero di Scoto, erano tese ariportare il suo volontarismo radicale nell’alveo del volontarismo tradizionale,per il quale il limite della contingenza umana è proprio la fruizione di Dio.

In un’altra occasione si è cercato di ricostruire questo processo che è al tem-po stesso di adesione e di distanziamento nel pensiero dei maestri francescaniparigini del primo Trecento1; qui si tenterà un’analoga ricognizione nell’am-biente teologico oxoniense. Il focus di questo studio sarà la questione della con-tingenza della fruizione, dato che rifiutare tale contingenza significa rifiutare piùo meno coscientemente l’impianto stesso della dottrina di Scoto.

2. Uno sguardo a Parigi

Prima di affrontare i testi dei minoriti inglesi conviene però ricordare alcunedelle conclusioni raggiunte nello studio dei francescani parigini del periodo.L’indagine aveva portato a concludere che nessun teologo francescano avevaaccolto la dottrina scotiana nei suoi esiti più radicali fino a quando, intorno al1320, Francesco di Meyronnes la aveva apertamente difesa nel suo Commentoalle Sentenze. La reazione alle idee di Scoto era passata per varie fasi: inizial-mente era stata di scarsa comprensione della dottrina stessa, come nel caso diAlessandro d’Alessandria e di Giacomo d’Ascoli, poi era subentrata una fasedi perplessità, caratterizzata da una sospensione del giudizio, come nel caso diUgo di Novocastro e di Giovanni di Bassoles, infine si era avuta l’aperta presadi distanza di Guglielmo di Alnwick e di Pietro Aureolo – che per altro si po-ne completamente al di fuori dell’orbita scotista –, concordi quanto meno nelrifiutarne la conseguenza più estrema, cioè la contingenza della fruizione bea-tifica.

Particolarmente interessante si era rivelata la fase di dubbio, nella quale l’a-nalisi più approfondita della dottrina scotiana aveva messo in piena luce alcune

1 G. ALLINEY, La ricezione della teoria scotiana della volontà nell’ambiente teologico parigino (1307-1316), «Documenti e studi sulla tradizione filosofica me dievale», 16 (2005), pp. 339-404.

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delle sue conseguenze non esplicitate con chiarezza dal teologo scozzese. Così,era emersa la preoccupazione teologica riguardo alla perpetuità e sicurezza del-la beatitudine, ritenute parte della beatitudine stessa ma, al tempo stesso, nongarantite dalla teoria scotiana. Un tema che negli scritti di Scoto era restatoestraneo alla trattazione specifica dei modi di agire della volontà e della contin-genza della fruizione beatifica diviene allora centrale nei dibattiti sorti poco ol-tre il 1310. Proprio il commentario di Giovanni di Bassoles – databile al 1313in base all’explicit di un codice oggi perduto2 – ci testimonia sia la varietà delleposizioni discusse negli ambienti francescani, sia la perplessità diffusa, esem-plata dal rifiuto dello stesso Bassoles di assumere una posizione precisa sul pro-blema della necessità della fruizione.

La questione è I Sent., d. 1, q. 3, Utrum apprehenso fine ultimo per intellec-tum necesse sit voluntatem frui. Giovanni inizia con l’esposizione di cinque ar-gomenti a favore di tale necessità: la volontà vuole con necessità il fine ultimoappreso con chiarezza I) perché in esso è presente ogni caratteristica del bene emanca qualunque elemento di male, così che la volontà non ha motivo per al-lontanarsene con un atto di avversione o di astensione nei suoi confronti3; II) per-ché la necessità non si oppone alla libertà, dato che Dio vuole se stesso con ne-cessità e libertà: la libertà esclude solamente la necessità naturale4; III) perchése la volontà del beato potesse non volere la visione di Dio presentatale dall’in-telletto potrebbe peccare ed essere per questo dannata5; IV) perché se la volontàpotesse non fruire nulla potrebbe garantire la certezza della beatitudine6; V) per-

2 Per la datazione del testo di Bassoles si veda R.L. FRIEDMAN, The «Sentences» Commentary, 1250-1320. General Trends, the Impact of the Religious Orders, and the Test Case of Predestination, in G.R. EVANS

(ed.), Mediaeval Commentaries on the Sentences of Peter Lombard, Brill, Leiden 2002, pp. 74-75.3 «De secundo membro est una opinio quod voluntas necessario vult finem apprehensum in particu-

lari et clare sicut apprehendunt sancti Deum in patria voluntate tamen elevata per habitum glorie, quiaalias non potest secundum eos. Hoc probant. Tum quia nulla ratio mali invenitur in ultimo fine sic viso etomnis ratio boni, et ita voluntas non habet causam avertendi se nolendo vel etiam non volendo» (IOANNES

DE BASSOLES, In Sent., I, dist. 1, q. 3, art. 3, ed. Parisiis 1516, f. 43rb).4 «Tum quia non obstat libertas voluntatis sicut quia prius» (IOANNES DE BASSOLES, In Sent., I, dist. 1,

q. 3, art. 3, ed. Parisiis 1516, f. 43rb). Nell’articolo precedente, che riguardava il modo in cui è voluto ilbene in generale, si era così argomentato a favore della necessità: «Tum quia si non vellet ipsum neces-sario hoc videtur propter propriam libertatem quia necessitas et libertas videntur repugnare; sed neces-sitas quecumque et libertas non repugnant etiam secundum alios quia ipsi ponunt quod pater et filius ne-cessario producunt spritum sanctum et tamen libere. Similiter Deus vult libere seipsum et tamen neces-sario solum, ergo necessitas naturalis tollit, non autem necessitas immutabilitatis, ergo etc.» (IOANNES DE

BASSOLES, In Sent., I, dist. 1, q. 3, art. 2, ed. Parisiis 1516, f. 43ra).5 «Tum quia voluntas stante visione Dei in intellectu posset peccare si posset non velle et sic esse mi-

sera» (IOANNES DE BASSOLES, In Sent., I, dist. 1, q. 3, art. 3, ed. Parisiis 1516, f. 43rb).6 «Tum quia non esset aliunde assignare causam certitudinis de beatitudine ex quo voluntas posset

non frui» (IOANNES DE BASSOLES, In Sent., I, dist. 1, q. 3, art. 3, ed. Parisiis 1516, f. 43rb).

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ché gli stessi avversari ammettono che la volontà creata è univoca con quella diDio, e perciò come quella vuole con necessità Dio conosciuto con chiarezza7.

Gli argomenti sono quelli che saranno messi in campo dal volontarismo mo-derato degli anni successivi: che l’assenza di ogni ratio mali nell’essenza divi-na non offra alla volontà alcun motivo per non amarla sarà un’argomentazioneinvocata spesso, così come la tradizionale possibile connessione fra necessità elibertà. La questione della sicurezza e perpetuità della beatitudine, compro-messe dalla capacità di peccare della volontà in patria, è invece la nuova fron-tiera dei dibattiti postscotiani. Si tratta di un tema forse sottovalutato da Scoto,ma che preoccuperà invece i teologi successivi, che spesso lo useranno controle conclusioni dello scozzese, o che in caso contrario dovranno sviluppare la fret-tolosa trattazione scotiana in una dottrina più stabile. Come si vedrà, molti deidibattiti di questi anni verteranno su questo punto dogmaticamente imbaraz-zante. L’ultimo argomento indica uno dei possibili fraintendimenti della metafi-sica scotiana, ovvero intendere l’univocità trascendentale della volontà comeuna unità reale, che consenta un facile passaggio dalla necessità della volontàinfinita di Dio alla necessità della volontà creata dell’uomo.

Giovanni illustra poi la tesi opposta con altrettanti argomenti. La volontàcreata può non volere Dio conosciuto con chiarezza in patria I) perché in quan-to potenza limitata ha un unico modo di agire verso qualunque oggetto e, datoche in alcuni casi può volere o non volere, così può fare anche nei confronti diDio8; II) perché in quanto causa efficiente dell’atto beatifico lo ha in proprio po-tere9; III) perché la visione di Dio non è altro che una maggior vicinanza dell’og-getto, e questa non cambia il modo dell’atto, ma solamente la sua intensità10; IV)perché si può avere lo stesso abito della carità in via come in patria (con allu-sione alla visione di san Paolo), ma in via esso non rende necessario l’atto11; V)

7 «Tum quia voluntas creata est univoce cum voluntate increata secundum adversarios, ergo vult ali-quid necessario sicut illa, hoc non videtur <nisi> Deus clare visus etc., quare etc. Dicunt etiam plus quodDeus non posset oppositum scilicet quod stante visione voluntas non fruetur» (IOANNES DE BASSOLES, InSent., I, dist. 1, q. 3, art. 3, ed. Parisiis 1516, f. 43rb).

8 «Alia est opinio tota opposita isti, quod voluntas potest non velle absolute loquendo et sue libertatirelicta finem ultimum scilicet Deum, quantumcumque visum in particulari, dato quod in se habeat carita-tem comprehensorum per quam sit habitualiter elevata. Hoc probant. Tum quia voluntas ex se cum sit unapotentia limitata habet uniformem modum volendi omnia quia est una potentia sed aliqua visa potest vel-le vel non velle, ergo et Deum» (IOANNES DE BASSOLES, In Sent., I, dist. 1, q. 3, art. 3, ed. Parisiis 1516, f.43va).

9 «Tum quia in potestate sua est actus eius, supposito quod sit effectiva actus beatifici, ergo sic potestelicere et etiam non elicere» (IOANNES DE BASSOLES, In Sent., I, dist. 1, q. 3, art. 3, ed. Parisiis 1516, f. 43va).

10 «Tum quia maior approximatio ad obiectum non ponit necessitatem in actione, sed tantum inten-sionem. Visio autem non est nisi maior approximatio obiecti, ergo etc.» (IOANNES DE BASSOLES, In Sent., I,dist. 1, q. 3, art. 3, ed. Parisiis 1516, f. 43va).

11 «Tum quia equalis caritas potest haberi in via sicut in patria, et tamen in via non necessario elicit»(IOANNES DE BASSOLES, In Sent., I, dist. 1, q. 3, art. 3, ed. Parisiis 1516, f. 43va).

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perché la visione e la beatitudine non dipendono una dall’altra, ma ambeduedallo stesso oggetto, e perciò Dio può produrre l’una senza l’altra12.

È facile vedere in questa seconda serie di argomenti l’opinione di Scoto o diun suo difensore; vale però la pena di notare come nel primo argomento sia espo-sta con una certa confusione la dottrina scotiana per cui ogni potenza ha un so-lo modo di agire. Scoto con questa espressione intendeva dire che la volontà èsempre libera in ogni suo atto, indipendentemente dalla eventuale contingenzadell’azione stessa. Riassumendo ancora una volta il suo pensiero, egli è convin-to che la volontà umana abbia una doppia uniformità nell’agire: quella del mo-do intrinseco della libertà che condivide con la volontà divina, ma anche quel-la del modo estrinseco della contingenza con cui l’azione viene eseguita. Que-st’ultimo modo è imputabile alla finitezza ontologica della creatura: per questalimitazione, nell’uomo la volontà è incapace di mantenersi al livello di perfezio-ne pura come invece accade in Dio. Dunque la volontà umana in quanto poten-za limitata non può raggiungere la perfezione della necessità assoluta e si devecosì ridurre alla perfezione relativa della contingenza. Ora, in base a questa ri-costruzione, l’affermazione riportata nel primo argomento per cui una potenza li-mitata ha un solo modo di agire verso ogni oggetto, e questo modo è la contin-genza, nella sostanza è corretta, ma la sua formulazione rischia di far intendereche la contingenza sia il modo intrinseco della potenza, quello cioè collegato al-la sua definizione essenziale. Negli anni successivi lettori poco attenti o voluta-mente polemici faranno leva su questo possibile fraintendimento per criticarel’opinione di Scoto.

Ma l’aspetto più interessante della questione di Bassoles è però un altro: adifferenza di quanto normalmente ci si attende dalla lettura di una questionescolastica – che si apre con la presentazione degli argomenti a favore di opi-nioni diverse, ma prevede poi la presa di posizione dell’estensore e la conse-guente critica degli argomenti del parere contrario – qui il testo lascia apertol’interrogativo che titola la questione stessa, e cioè se la fruizione sia o meno ne-cessaria. Bassoles introduce, sì, numerosissime argomentazioni critiche riguar-do ai ragionamenti precedentemente esposti, ma queste argomentazioni sonoquasi equamente divise fra gli argomenti messi in campo a sostegno di ciascu-na delle due tesi contrapposte: si tratta cioè di un’esposizione e non di una pre-sa di posizione. Questo atteggiamento per così dire neutrale è esplicitamenteconfermato da Bassoles stesso, che apre l’articolo successivo – dove ha già an-

12 «Contra illud quod dicunt quod Deus non potest facere omnem formam absolutam priorem sine po-steriori: visio est huiusmodi respectu dilectionis et fruitionis, ergo etc. dicas quod verum est nisi ambodependent a tertio sicut in proposito, quia visio et fruitio beata dependent ab eodem obiecto» (IOANNES DE

BASSOLES, In Sent., I, dist. 1, q. 3, art. 3, ed. Parisiis 1516, f. 43va).

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nunciato che avrebbe espresso il proprio parere – affermando che «nessuna so-luzione dei due articoli precedenti è per noi dimostrabile con argomenti trattidalla fede o dalla ragione naturale»13.

Giovanni si limita così a chiarire le ragioni dei propri dubbi, che per certiversi parrebbero immotivati, se si considera che egli sembra approvare l’argo-mento per cui la volontà umana è dotata di una libertà difettiva che è una libertàdi contraddizione14. Da una tale posizione sembrerebbe conseguire facilmentela contingenza di ogni forma di fruizione; ma agli occhi di Bassoles questa sa-rebbe evidentemente una conclusione priva della sufficiente forza argomentati-va, dato che egli ribadisce subito dopo che «né la conclusione della secondaopinione – contingenza della fruizione – né quella della prima – necessità del-la fruizione – sono dimostrabili», e «così dunque tutta la questione resta in dub-bio»15.

Al di là dell’atteggiamento dottrinale del suo autore, il testo di Bassoles èdunque importante perché da un lato ci testimonia il senso di incertezza e di di-sagio che sembra permeare l’ambiente minorita parigino all’inizio del secondodecennio del secolo; e dall’altro ci offre un catalogo degli argomenti che avran-no maggior diffusione negli anni a venire fra i teologi francescani schierati sia afavore, sia contro le conclusioni scotiane in tema di volontà. Vedremo che la si-tuazione inglese, certo non identica a quella continentale, evidenzierà incertez-ze non del tutto diverse, e la conoscenza della questione di Bassoles potrà esse-re di aiuto alla sua comprensione.

3. Un avversario di Scoto: Riccardo di Conington

Riccardo di Conington è Maestro reggente a Oxford probabilmente nel 1306, ea quell’anno o a quelli immediatamente successivi si deve la composizione delsuo primo Quodlibet16. Il testo di Riccardo di Conington è stato studiato daStephen Dumont, che ha individuato nel francescano inglese l’interlocutore di

13 «De tertio articulo videtur mihi dicendum quod neutra pars utriusque articuli (de quo posite suntopiniones) est demonstrabilis nobis, nec ad aliquem earum potest haberi a nobis necessarium argumentumnec ex fide nec ex ratione» (IOANNES DE BASSOLES, In Sent., I, dist. 1, q. 3, art. 3, ed. Parisiis 1516, f. 43va).

14 «[...] voluntas ratione sue libertatis defective que est libertas sua quecumque contradictionis pote-st non velle ultimum finem, quia necessitas simpliciter repugnat libertati, sicut arguitur et bene» (IOAN-NES DE BASSOLES, In Sent., I, dist. 1, q. 3, art. 3, ed. Parisiis 1516, f. 44ra).

15 «Et ideo dico quod nec conclusio secunde opinionis nec prime sunt demonstrabiles. [...] Sic ergo totaquestio in dubio relinquatur» (IOANNES DE BASSOLES, In Sent., I, dist. 1, q. 3, art. 3, ed. Parisiis 1516, f. 44rb).

16 Per la datazione del Quodlibet si veda S.D. DUMONT, William of Ware, Richard of Conington and the«Collationes Oxonienses» of John Duns Scotus, in L. HONNEFELDER / R. WOOD / M. DREYER (eds.), JohnDuns Scotus. Metaphysics and Ethics, Brill, Leiden 1996, pp. 59-85.

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Scoto in una disputa sulla generazione trinitaria del Figlio. Secondo Dumont,Scoto avrebbe letto la critica di Conington, che riprende contro Scoto la posi-zione di Enrico di Gand, e l’avrebbe controbattuta in una delle questioni delleCollationes oxonienses, brevi testi elaborati probabilmente in incontri extrauni-versitari presso la scuola francescana di Oxford, e sui quali torneremo poi17. Perora ci basta prendere atto dell’impostazione dottrinale vicina a quella di Enricodi Gand – per altro attribuita a Conington anche da un anonimo contemporaneoche lo definisce appunto discipulus del Gandavense18 – e del fatto che Coning-ton scrive quando Scoto è ancora vivente. Si tratta, dunque, di una delle primereazioni dell’ambiente minorita inglese alle novità introdotte da Scoto.

Riguardo al tema della modalità dell’azione volontaria che qui ci interessa,Riccardo non segue però fino in fondo Enrico di Gand, ma sviluppa un pensie-ro originale che mette in opera materiali dottrinali di diversa provenienza pergiungere ad una conclusione per certi versi di compromesso fra le istanze tipi-che del volontarismo gandiano e le nuove conclusioni scotiane: nello stato at-tuale, la volontà è in grado di scegliere se volere o meno il fine ultimo, ma nel-lo stato futuro del beato la volizione di Dio diverrà del tutto necessaria. Questadottrina moderata rappresenta bene l’atmosfera dottrinale di Oxford in queglianni di inizio secolo, quando l’influenza di Enrico di Gand, ancora molto forte,è messa in discussione dalle nuove idee scotiane.

In apertura della prima delle tre brevi questioni dedicate al tema, Coningtonmette in chiaro che la volontà è per essenza in potenza ad agire. Questo signifi-ca che essa mantiene sempre la possibilità di compiere atti diversi, e di conse-guenza non è naturalmente determinata ad alcun atto specifico. Tuttavia, la vo-lontà è anche una potenza creata da Dio con una naturale tendenza al bene, eper questo motivo, quando un oggetto imprime nella volontà la percezione dellasua bontà la volontà lo vuole immediatamente e con necessità. In questo casol’atto deriva naturalmente da una causa esterna alla volontà che ne previene l’a-zione, e cioè dalla combinazione dell’inclinazione naturale con la percezionedell’oggetto. Anche se agisce spontaneamente e senza alcuna costrizione, la vo-lontà è allora sottomessa a tale causa e quindi, più che compiere l’azione, la su-bisce. Non si tratta dunque di un atto deliberato dall’agente, ma di un’azione na-turale che come tale non è libera19. La libertà della volontà si manifesta solo in

17 DUMONT, William of Ware cit., p. 73. 18 Si tratta dell’anonimo autore della questione Utrum aliquis conceptus simpliciter simplex prime in-

tentionis possit esse communis univoce Deo et creature, contenuta nei ff. 29a-39b del Ms. Città del Vatica-no, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 869, il quale, al foglio 32a, scrive «et hoc idem dicit Coningtondiscipulus eius (scilicet Henrici)». Il passo è citato in V. DOUCET, L’oeuvre scolastique de Richard de Co-nington, O. F. M., Ex Typographia Collegii S. Bonaventurae, Ad Claras Aquas 1936, p. 420, nota 1.

19 RICHARDUS DE CONINGTON, Quodlibet I, q. 6, Ms. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana,

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un secondo momento, cioè quando viene esercitata la scelta di continuare o me-no l’azione naturale impostale dalla propria stessa tendenza al bene. Dato chenon dipende da alcuna causa esterna, l’atto successivo della volontà è libero, maè anche contingente perché in sé la volontà è solo accidentalmente in potenza avolere un particolare bene, per cui ha l’effettivo potere di continuare o meno ilprimo atto naturale e indeliberato. Questa capacità di scelta non riguarda sola-mente i beni parziali ma, nello stato attuale, riguarda anche Dio conosciuto at-traverso la mediazione dei sensi come sommo bene. Solamente in patria il bea-to vorrà liberamente continuare la spontanea dilezione dell’essenza di Dio in mo-do tale che la libertà si unisca così alla necessità20.

Per comprendere questo cambiamento dalla contingenza dello status viae al-la necessità dello status patriae va analizzata più a fondo la dinamica dell’attovolontario. Anche nei suoi successivi atti liberi, la volontà resta dotata della na-turale tendenza al bene che le impone il primo atto indeliberato: la differenzaconsiste nel fatto che ora tale tendenza non è più necessitante, ma viene postasotto il controllo della volontà stessa. Questo, però, non significa che essa nonresti un fattore importante dell’azione volontaria: la volontà, infatti, può voleresolo ciò che è di per sé quantomeno un bene parziale, e può non volere un beneparziale solamente se esso, in base alla sua imperfezione, è considerato un ma-le relativo. Ora, quando concepiamo Dio come bene sommo ne abbiamo una co-noscenza meno perfetta di quando ne vediamo direttamente l’essenza, e questarelativa imperfezione è quanto basta alla nostra volontà per non volerlo con ne-

Ottob. Lat. 1126, f. 10va: «Voluntas de se est in potentia essentiali ad operandum [...] ex quo patet quodvoluntas de se non est naturaliter determinata ad aliquem actum. Sed voluntas affecta per impressionemin ea factam a bono in communi apprehenso est naturaliter determinata ad actum volendi ipsum subitumet indeliberatum, et hoc ostendo: voluntas enim, ut sic, non est in potentia nisi accidentali ad velle ipsum;ipsa etiam exercet illum necessario nisi impediatur ab aliquo, et hoc totum habet ab aliquo efficiente ethuiusmodi necessitante in potestate sibi». Come Conington spiega poi con maggiore chiarezza, «necessi-tas autem qua omnis voluntas creata vult commodum, quandocumque venit in mentem, statim et neces-sario est ei illata a causa differente a se et preveniente, scilicet a Deo voluntatem cum tali affectione crean-te et obiecto imprimente voluntati huiusmodi passionem naturaliter inclinantem. Unde voluntas est ob-noxia et subiecta et magis agitur quam agat [...] et ideo, licet sponte et non coacte velit, sed convenientersue inclinationi, non tamen libere sed naturaliter. Unde illa necessitas repugnat libertati» (RICHARDUS DE

CONINGTON, Quodlibet I, q. 8, ms. Ottob. Lat. 1126, f. 11rb).20 RICHARDUS DE CONINGTON, Quodlibet I, q. 7, ms. Ottob. Lat. 1126, f. 10vb: «[...] quod voluntas fer-

tur in Deum contingenter in via, falsum est quantum ad exercitationem subitam actus indeliberati. Sedverum est quantum est ad continuationem eiusdem actus; et cum in via, ergo et in patria voluntas conti-nuat actum contingenter, concedo, cum quo stat quod necessario continuat ipsum, ut patebit in proximaquestione. Et si queretur quare voluntas in via continuat actum volendi Deum ita contingenter quod nonnecessario, in patria vero continuat necessario licet contingenter, precipue cum obiectum utriusque sitomne bonum et sub ratione omnis boni apprehensum, dicendum quod omne bonum conceptum sub ra-tione omnis boni via sensus non est omne bonum sub ratione omnis boni ut est in se, sed ut potest colli-gi via sensus [...] ideo visio Dei sub ratione qua non potest apparere in eo defectus est causa huius ne-cessitatis in patria que non est in via».

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cessità. Quando invece vediamo direttamente Dio, non scorgiamo in Lui alcundifetto e nessuna mancanza, e per questo l’azione libera della volontà diviene al-lora necessaria.

Sembrerebbe così conclusa l’analisi dell’atto volontario, ma c’è un’ultima im-portante osservazione da fare. In quanto libera, la volontà stabilisce autonoma-mente la propria azione in base alla valutazione dei beni parziali che, per la lo-ro stessa imperfezione, ammettono considerazioni contrastanti. Dunque, la vo-lontà non agisce mai senza motivo, e tantomeno nei confronti dell’essenza divi-na, che è il fine sommo del suo agire. Ma se, per assurdo, ci fosse un bene di cuiil beato, volendo Dio, non gioisse nel modo più elevato, allora la volontà non so-lo avrebbe un motivo per preferire questo bene a Dio e volgersi ad esso, maavrebbe anche la capacità strutturale per farlo. Di conseguenza, l’azione neces-saria della volontà del beato nei confronti dell’essenza divina non è solamentelibera, ma anche contingente, perché la volontà mantiene intatta la propria ca-pacità di interrompere la fruizione.

L’atto necessario, libero e contingente è dunque immutabile solamente prop-ter defectum cur, per la mancanza di motivo di cambiarlo. Con le parole di Co-nington: «La necessità con cui ogni volontà che vede Dio continua necessaria-mente a volerlo [...] deriva solamente da una causa privativa che è la mancan-za di motivo (defectus cur). E che una causa privativa non abbia un effetto po-sitivo è evidente, poiché quella della volontà non è una necessità positiva, eperciò essa vuole immediatamente ma con assoluta contingenza perché, postoper assurdo che vi sia un bene desiderabile della cui bontà la volontà non giois-se nel modo più alto volendo Dio conosciuto dall’intelletto, la volontà avrebbeun motivo per preferire questo bene <a Dio> e, preferendolo, potrebbe rivol-gersi ad esso»21.

In accordo con Riccardo, questa sovrapposizione di modi d’agire apparente-mente contrastanti si riflette anche nel particolare tipo di necessità che compe-te all’atto beatifico. Non si tratta più della necessità determinata da una causapositiva che precede l’azione determinandola, come nel caso del primo atto in-deliberato, che infatti non è libero. Si tratta, invece, di una necessità indotta dauna causa privativa – la mancanza di motivo per volere altro – che è concomi-

21 RICHARDUS DE CONINGTON, Quodlibet I, q. 8, ms. Ottob. Lat. 1126, f. 11ra-b: «Necessitas autem quaomnis voluntas videntis Deum continuat necessario velle Deum non est immutabilitas nature voluntatiseius, sicut in Deo, nec est ei illata ab aliqua causa positiva. Manet tantum a causa privativa que est de-fectus cur, ut supra ostensum est. Et quod cause privative non est effectus positivus patet, quia illa vo-lunta<ti>s non est necessitas positiva, et ideo statim vult cum contingentia simpliciter, quia posito perimpossibile aliquod appetibile cuius bonitatem non gustasset modo eminentiori volendo Deum ap-prehensum per intellectum, voluntas haberetur cur posset prediligere ipsum et posset prodire in alterumprediligendum (ms.: prediligendi), nec autem esset hoc impossibile propter defectum cur».

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tante con l’azione stessa e per questo non implica alcuna sottomissione, ma in-dica solamente la spontaneità dell’atto22.

La dottrina di Conington contrasta in maniera nuova ed efficace la scomodaconclusione di Scoto per la quale la contingenza operativa resta inalterata anchein patria, e proprio per questo avrà una grande influenza sui dibattiti successi-vi. Come si è già accennato, nella formulazione della sua posizione moderataRiccardo riesce a coniugare l’impianto tradizionale del volontarismo di Enricodi Gand con le novità insite nell’insegnamento di Scoto. Peculiare di Enrico èl’analisi del tipo di necessità compatibile con la libertà in base al modo e al tem-po in cui la necessità interviene nell’atto: deve provenire dall’interno della po-tenza, aveva spiegato il Maestro di Gand, e non precedere l’azione, così da nonopporsi alla sua spontaneità. Ma scotiana è l’idea che necessità e contingenzapossano coesistere, in una sovrapposizione di modalità che, se non è stata inau-gurata da Scoto, da lui ha in ogni caso ricevuto un impulso decisivo. La soluzio-ne è di compromesso perché, contro Enrico, Riccardo ammette la mancanza dinecessità della fruizione in via mentre, contro Scoto – di cui per altro rifiuta l’i-dea di base dell’intrinsecità della determinazione modale dell’atto volontario,che non dipende in nulla dall’oggetto –, assegna una contingenza puramente teo-rica alla necessaria fruizione in patria.

Ma Conington si mostra poi originale in altri aspetti, per esempio nel negarela libertà dalle azioni naturali della volontà, che così non è più una potenza co-stitutivamente libera, ma è invece libera solamente quando si autodetermina. Lafonte lontana di Conington è forse Enrico di Gand, che al contrario di Scoto ave-va distinto fra volontà ut natura e volontà ut libera, ma l’esito futuro di questaseparazione sarà la teoria di Guglielmo d’Ockham, per la quale la volontà è li-bera solo quando agisce contingentemente.

A sostegno della sua conclusione generale (contingenza in via e necessità inpatria) Riccardo introduce dunque nuovi elementi dottrinali che godranno di no-tevole fortuna nell’ambiente minorita oxoniense: l’idea che una diversa cono-scenza dell’oggetto possa mutare il modo in cui questo è voluto, la distinzionefra causa positiva e causa privativa, ma soprattutto il fondamento della neces-sità della fruizione beatifica in base alla mancanza di un motivo per volere altro(propter defectum cur).

22 RICHARDUS DE CONINGTON, Quodlibet I, q. 8, ms. Ottob. Lat. 1126, f. 11rb: «Unde dico quod, quiahec necessitas non reddit voluntatem obnoxiam nec subditam alteri cause positive prevenienti et neces-sitatem positivam inferenti, ideo non includit aliquam servilitatem; et secundum: spontaneitas non mixtacum servilitate est libertas; patet quod voluntas videntis Deum concipiat actum volendi eum libere et ta-men necessario et contingenter, ut supra ostensum est».

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4. Le Collationes oxonienses: Scoto contro Scoto?

Si può trovare un primo esempio di applicazione di alcuni di questi argomentipochi anni dopo, nella serie di questioni sul tema della volontà alle quali si è giàaccennato e che, trascurate dagli storici, appaiono in realtà oltremodo significa-tive del clima del momento. Si tratta delle Collationes, conversazioni tenute congrande probabilità presso la scuola francescana di Oxford prima del 1310, e tra-dizionalmente attribuite allo stesso Scoto. La storia di questi testi è notevolmenteintricata, ma è necessario ripercorrerla brevemente per comprenderne la naturae la paternità, anche perché attualmente non vi è fra gli studiosi una posizioneunivoca a riguardo.

Fra gli scritti attribuiti al teologo scozzese nell’Opera omnia pubblicata daWadding nel 1639 compare anche una raccolta di brevi questioni, titolate Col-lationes, la cui autenticità non è mai stata messa in dubbio sia perché la scarsatradizione manoscritta è unanime nell’assegnarle a Scoto, sia perché nessunostudioso ha mai esaminato a fondo quest’opera, impedendo così lo sviluppo diuna critica dottrinale interna al testo stesso e avvalorando per silenzio l’ipotesidell’autenticità.

In ogni caso, ci si rese ben presto conto che l’insieme delle questioni tra-smesse dall’edizione waddinghiana era in realtà incompleto, e nel 1927 CharlesHarris integrò parzialmente la serie con l’edizione, mediocre perché basata suun unico codice, di alcune altre questioni23. Due anni dopo Carl Balic, in unostudio a tutt’oggi fondamentale, osservò che la serie di questioni trasmessa dal-l’edizione Wadding era in realtà un insieme confuso di due gruppi ben distintidi Collationes, le une tenutesi a Parigi, le altre a Oxford, e ne tentò un primo rior-dinamento24. Le ricerche di Balic furono riprese nel 1931 da Franz Pelster, ilquale si dichiarò d’accordo sulla divisione fra Collationes oxonienses e parisien-ses, e propose a sua volta una ricostruzione delle serie originali di questioni, an-cora parzialmente inedite25. Nonostante il non completo accordo fra i due stu-diosi riguardo ad alcuni aspetti anche rilevanti dell’indagine, come lo stesso nu-mero delle Collationes, fu in ogni caso possibile distinguere i due gruppi di que-stioni e tentare una prima ricognizione sui testi così riordinati26.

23 C.R.S. HARRIS, Duns Scotus, 2 voll., Cambridge 1927, Reprint Bristol 1994, II, Collationes in edi-tione Waddingi non inclusae, pp. 361-378.

24 C. BALIC, De Collationibus Ioannis Duns Scoti doctoris subtilis ac mariani, «Bogoslovni Vestnik», 9(1929), pp. 185-219.

25 F. PELSTER, Handschriftliches zur Überlieferung des «Quaestiones super libros Metaphysicorum» undder «Collationes» des Duns Scotus, 2. Die «Collationes Parisienses» und «Oxonienses», «PhilosophischesJahrbuch», 44 (1931), pp. 79-92.

26 Per uno schematico confronto dei risultati conseguiti da Balic e da Pelster si veda V. DOUCET, De-

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Le questioni che trattano temi legati alla teoria della volontà contenute nel-l’edizione di Wadding sono cinque: due appartengono al gruppo parigino e tre aquello oxoniense. A queste ultime tre se ne poterono aggiungere altre due pub-blicate pochi anni prima da Harris, ricomponendo così quasi nella sua interez-za l’insieme delle Collationes oxonienses sulla volontà, dato che gli indici ma-noscritti pervenutici indicavano ancora inedita solamente una sesta questione.Un recente studio ha completato la serie con l’edizione anche dell’ultima que-stione, ed ha ricomposto questo dossier sulla volontà sia raccogliendo assiemetutte e sei le questioni, sia cercando di ovviare, sulla base della tradizione ma-noscritta, alle notevoli corruzioni testuali dell’edizione Wadding27. Si è così sta-bilita un’edizione di questo piccolo corpus – composto dalle questioni numera-te da 18 a 23 già dai più antichi indici manoscritti – certamente non definitiva,ma sufficientemente affidabile per comprenderne la dottrina espressa. L’anali-si dei testi ha portato al risultato sorprendente che la dottrina sostenuta nelleCollationes oxonienses sulla volontà, benché ancora bisognosa di ulteriori inda-gini per essere ricostruita nei dettagli, è in ogni caso del tutto diversa da quel-la difesa da Scoto nelle sue opere maggiori, dalla giovanile Lectura fino al tar-do Quodlibet.

La conclusione raggiunta dall’anonimo estensore delle questioni di Oxford èsemplice: nelle questioni 19 e 20 l’autore spiega che, nonostante l’inclinazionenaturale al bene supposta nella questione 1828, la volontà può non volere il fineultimo conosciuto in generale29. Questo tuttavia non significa che la volontà pos-sa astenersi da ogni azione nei confronti del fine ultimo, perché la stessa asten-sione sarebbe a sua volta un’azione: infatti, se anche si resiste all’inclinazionead agire determinata dall’oggetto conosciuto, si compie in ogni caso un atto, ap-punto l’atto di resistere30. Significa, invece, che nell’istante in cui l’intelletto ap-

scriptio codicis 172 Bibliothecae communalis assisiensis, «Archivum Franciscanum Historicum», 25(1932), p. 502, nota 8.

27 G. ALLINEY, The Treatise on the Human Will in the «Collationes oxonienses» attributed to John DunsScotus, «Medioevo», 30 (2005), pp. 209-269.

28 Pur con una serie di sottili distinzioni, l’autore non esclude che l’atto nei confronti del fine sia altempo stesso naturale e libero, discostandosi così radicalmente quanto meno dalla terminologia tipica diScoto, che aveva giudicato contraddittoria ogni naturalità dell’azione volontaria: «Sed tunc queritur utrumlibere fertur in finem, et cum hoc naturaliter. Dico quod sic» (ANONYMUS, Collationes oxonienses, q. 18,ed. G. Alliney, in ID., The Treatise on the Human Will cit., p. 257, §§ 23-24).

29 «[...] potest dici quod voluntas, apprehenso fine ultimo in universali, potest non velle illum»(ANONYMUS, Collationes oxonienses, q. 19, ed. Alliney, p. 258, § 3).

30 «[...] potest intelligi quod voluntas est ita libera ad actum, scilicet elicere vel non elicere, ita quod,bono in communi apprehenso, voluntas est in potentia <ad> actum omnem suspendere, et ita nec velle,nec nolle. Contra illud arguitur: ‘suspendere’ <vel est agere, vel non>; si est agere, ergo dicis oppositacontradictionis: tunc enim est suspendere actum suspendendi. Si non est agere, contra: impressio facta involuntate ab obiecto est pondus et inclinatio; sed omne pondus inclinans necessitat inclinatum suum ni-

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prende il concetto generale del bene, prima di esercitare qualunque atto nei suoiconfronti la volontà può comandare all’intelletto di considerare un altro beneparticolare, dato che nel concetto generale di bene sono contenuti i concetti diogni bene parziale31. Se in questo primo istante non esercita la propria libertà,la volontà vorrà poi immediatamente il bene in generale con un atto che non èpiù libero, ma che è invece naturale perché segue l’inclinazione naturale al be-ne posta in essa da Dio nella creazione32.

Diverso è il caso dell’azione volontaria nei confronti dell’essenza divina, stu-diato dalle due questioni successive, la 21 e la 22: a parere dell’autore, infatti,la volontà che vede distintamente Dio in patria non può non volerlo. Il motivo diquesto cambiamento – dalla contingenza alla necessità – è in un certo senso im-plicito in quanto è stato già precedentemente stabilito. La volontà, si è detto, nonpuò astenersi dall’azione nei confronti di un oggetto presentatole dall’intellettose non imponendo all’intelletto di considerare altro. Nel caso dell’essenza divi-na ciò non è però possibile, perché l’essenza contiene eminentemente in sé tut-ti i beni parziali: ovunque il beato volga l’attenzione dell’intelletto, egli vedràsempre Dio. Questo primo risultato non implica ancora che la volontà voglia ne-cessariamente Dio, ma solamente che la volontà debba necessariamente eserci-tare nei confronti di Dio un atto positivo, o di accettazione o di rifiuto. Per que-sto, l’esibizione dell’essenza divina non è la causa determinante dell’atto beati-fico, ma ne è piuttosto la causa dispositiva (causa inferens)33.

L’atto verso l’essenza divina è necessariamente un atto di dilezione perché

si inclinatum renitatur; sed non renititur nisi per actum; ergo etc.» (ANONYMUS, Collationes oxonienses, q.19, ed. Alliney, pp. 258-259, §§ 6-8).

31 «[...] licet idem bonum est bonum in communi <et in particulari, etsi sit apprehensum in commu-ni>, non tamen <est> omne in particulari; sed nullum bonum particulare est absens; ideo voluntas po-test tunc averti» (ANONYMUS, Collationes oxonienses, q. 19, ed. Alliney, p. 258, § 4).

32 «[...] in instanti in quo intelligitur bonum in communi, antequam voluntas eliciat actum circa illud,potest avertere intellectum ab illo ad aliud bonum: hoc patet. Tum statim sequitur quoddam velle, et [vo-luntas] est motus naturalis, non autem velle liberum, sed velle naturale sequens inclinationem naturaleminditam a creante, nec est in potestate mea quo viso tangar; tamen, antequam libere velim illud, possumavertere intellectum ut consideret aliud» (ANONYMUS, Collationes oxonienses, q. 20, ed. Alliney, p. 260, §6). Il testo dell’edizione è stato modificato con l’espunzione del termine «voluntas».

33 «[...] dico quod voluntas videntis Deum non potest non velle Deum. Hec necessitas est impossibi-litas non videndi. Causa istius impossibilitatis est causa alterius, non est causa determinativa voluntatis,cum sit libera. Ideo continua exhibitio et coniunctio obiecti cum intellectu, elicito habitu glorie, <in> po-tente videre Deum est causa necessaria continue contemplationis. Continua contemplatio obiecti est ne-cessaria causa impressionis in voluntate, et ideo causa continue inclinationis in Deum per modum natu-re est continua impressio in voluntatem, et inclinatio est causa non determinans ad ferendum sic vel sic,sed inferens vel concludens quod voluntas fertur per aliquem actum in Deum, vel per velle vel per nolle.Si esset causa determinans tolleret libertatem volendi, sed est causa inferens, quia sequitur per argumentadictam voluntatem habere actum circa Deum necessario» (ANONYMUS, Collationes oxonienses, q. 21, ed.Alliney, pp. 262-263, § 11). Si veda anche la nota seguente.

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«quando la volontà preferisce una cosa ad un’altra, o non vuole qualcosa, que-sto avviene per un motivo (propter aliquod cur), secondo Anselmo nel De verita-te; ma non c’è alcuna ragione per non volere Dio visto nella sua essenza, o perpreferirgli qualcosa d’altro». Infatti, Dio è il bene essenziale che non solo è deltutto privo di difetti che potrebbero motivare un atto di ripulsa nei suoi confron-ti, ma che contiene anche ogni bene in una forma più alta di quanto questo nonsia in sé34. Dunque l’essenza divina in quanto oggetto volibile che comprendeesemplarmente tutti gli altri oggetti volibili spinge la volontà all’azione nei suoiconfronti; in quanto bene assoluto che contiene in sé ogni bene particolare nel-la maniera più eminente è spontaneamente voluto con necessità.

La necessità della fruizione non esclude la libertà dell’atto volontario, per-ché non è una necessità che preceda l’atto e conferisca alla potenza la forza percompierlo, come è il caso sia del moto dei proiettili – che è causato da una for-za esterna –, sia della caduta dei gravi – che è causata da una forza naturale in-terna. Si tratta, invece, di una necessità che nasce spontaneamente con l’atto enon lo previene, e per questo è compatibile con la libertà35.

Come forse si può cogliere da questa schematica esposizione, non solo la dot-trina espressa dalle Collationes è ben distante da quella di Scoto – molti dei cuiargomenti sono per altro esposti per essere puntualmente controbattuti36 – ma sipresenta perfettamente inserita nell’ambiente dottrinale inglese del periodo.

34 «Intellectus enim beatus videt Deum per essentiam; Deus per essentiam est presens ubique et pre-sens intellectui beato; ideo quocumque vertit se videt beatus Deum ex quo potest videre Deum per es-sentiam: est Deus enim ubique per essentiam. Ergo si voluntas beati habentis Deum presentem per es-sentiam in intellectu informata per caritatem potest non velle Deum, hoc vel nullum actum eliciendo cir-ca Deum – hoc improbatum est prius –; aut divertit intellectum non cogitando de Deo – hoc improbatumest modo, quia ad quodcumque convertitur, etiam in genere proprio, videt Deum –; aut hoc est quia pote-st nolle Deum in preponendo aliud sibi: hoc impossibile. Probatio, quia quando voluntas preponit aliquidalii, vel non vult aliquid, hoc est propter aliquod cur, secundum Anselmum, De veritate; sed de Deo visoper essentiam nulla potest apparere ratio nolendi ipsum, vel preponendi aliquid sibi. Probatio, quia hocnon potest esse nisi quia hoc aliud cui preponitur est malum simpliciter, vel apparens malum; sed neu-trum est hic, quia est bonum in se. Sed aliud est simpliciter bonum et essentiale bonum; sed tamen quan-do unum non est aliud et sunt equalia, voluntas potest preponere unum alii: hoc non est hic, quia omnebonum includitur in hoc bono melius quam in se» (ANONYMUS, Collationes oxonienses, q. 21, ed. Alliney,pp. 263-264, §§ 19-20).

35 «Solutio: cum queritur an necessitas ut sic tollat libertatem vel diminuit, dico quod non. Manife-stum est in Deo, quia necessario vult se, nec potest non velle se; tamen libere vult se [...]. Sed una ne-cessitas includit in se subiectionem ab extrinseco vel intrinseco alicui alteri prevenienti vel inferenti<vim>; necessitas hec repugnat libertati et dicit servitutem; ideo que moventur ab extrinseco non mo-ventur libere, ut proiecta, nec similiter que moventur ab intrinseco secundum impetum nature, ut graviaet bruta, non moventur libere, quia natura preveniens ab intrinseco cum impetu movet ea: hec necessitasincludit subiectionem» (ANONYMUS, Collationes oxonienses, q. 23, ed. Alliney, pp. 268-269, §§ 8 e 10).L’edizione Wadding aggiunge: «Alia est necessitas spontanea in actu, non praeveniens, et illa stat cum li-bertate» (IOANNES DUNS SCOTUS, Collationes, q. 15, § 4, in IOANNES DUNS SCOTUS, Opera Omnia, ed. L. Wad-ding, Lugduni 1639, Nachdruck Olms, Hildesheim 1969 [d’ora in poi: Wadding], III, p. 381a).

36 Per esempio, all’inizio della questione 20 è presentato il classico argomento scotiano per cui «om-

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Oltre alla stessa soluzione generale del problema – contingenza in via e ne-cessità in patria –, un debito particolare sembra dovuto alle idee espresse nelQuodlibet di Conington, composto pochi anni prima. Ad esempio, per Coningtonil bene in generale è voluto immediatamente con un atto indeliberato che puòessere poi corretto dalla scelta volontaria; per le Collationes il bene in generalesarebbe voluto con un atto indeliberato se la volontà subito prima dell’azione nonne distogliesse l’intelletto. Si tratta di soluzioni diverse, ma che condividono pro-prio ciò che Scoto aveva voluto escludere: la possibilità di un atto naturale e in-deliberato verso il bene. Anche il tipo di causalità attribuita all’essenza divina,se pur chiamata in maniera distinta dai due autori (causa privativa secondo Co-nington, causa inferens secondo l’autore delle Collationes), resta di fatto quellodi una causa meramente dispositiva dell’oggetto.

Ma il debito delle Collationes nei confronti del Quodlibet di Riccardo è an-cora più evidente là dove si afferma che la necessità dell’atto di fruizione di Dioin patria è basata sulla mancanza di un motivo (defectus cur) per volere altro37.In questo caso, così come aveva fatto Riccardo di Conington, anche l’autore del-le Collationes sembra intendere che in base alle proprie capacità la volontà, sesolo ne trovasse ragione, potrebbe anche non volere Dio. L’unica differenza, pu-ramente argomentativa, è che ora il defectus cur avertere della volontà nei con-fronti di Dio è suffragato anche da una citazione dal De veritate di Anselmo diCanterbury, assente in Conington. Il ricorso a testi autoritativi di Anselmo (trat-ti alternativamente dal De veritate, dal De libero arbitrio e dal De casu diaboli)diverrà negli anni successivi sempre più frequente.

L’argomento che si sta diffondendo per difendere la necessità della volizionein patria non è però ancora sufficiente per controbattere la posizione di Scoto. Ilteologo scozzese, togliendo così vigore all’argomento del defectus cur già primache fosse formulato da Conington e ripreso dall’autore delle Collationes, aveva

ne movens necessario omnimodo necessario eque necessario amovet omne prohibens si potest, quia sem-per movet tale nisi impediatur; ergo voluntas necessario amoveret omnimodo necessario inconsideratio-nem boni in communi» (ANONYMUS, Collationes oxonienses, q. 20, ed. Alliney, pp. 259-260, § 3; per il te-sto scotiano si veda IOANNES DUNS SCOTUS, Ordinatio, I, dist. 1, pars 2, q. 2, ed. Vat., II, p. 67, § 93, cheviene poi sottoposto a critica in base alla concezione della necessità condizionata dall’esibizione dell’og-getto: «Agens necessario, ita quod per nullam potentiam suam potest non agere, necessario agit; voluntasautem potest divertere intellectum et se ad aliud; ideo habet necessitatem stante consideratione, non ta-men simpliciter» (ANONYMUS, Collationes oxonienses, q. 20, ed. Alliney, pp. 260-261, § 10).

37 «Ideo dico: quatuor concurrunt ad non nolendum Deum per essentiam in illo priori quo non vult,videlicet continua exhibitio, et evidentia obiecti visi per essentiam, et causa continue contemplationis –quocumque enim convertitur, etiam in genere proprio videndo, videt Deum per essentiam –, et continuaimpressio obiecti in voluntate. Ista continua impressio est quasi pondus et est causa voluntatis inferensvoluntatem exercere aliquem actum circa obiectum. Si enim nullum actum eliceret circa obiectum, pon-dus se haberet ad voluntatem ut necessitans eam; ergo non esset libera; sed defectus volendi aliud velspeculandi est defectus cur» (ANONYMUS, Collationes oxonienses, q. 22, ed. Alliney, p. 266, § 15).

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infatti esplicitamente escluso che fosse necessaria una ratio mali per consenti-re alla volontà di non volere un oggetto38, dato che il modo di agire di un prin-cipio attivo non può dipendere da un elemento esterno al principio stesso. La ne-cessità della fruizione potrebbe perciò derivare unicamente da un elemento in-trinseco alla volontà, ma «per il fatto che ora l’intelletto vede direttamente l’og-getto non si è aggiunto nulla di intrinsecamente nuovo al principio attivo dellafruizione, e perciò neppure una nuova necessità»39. Pur considerando tutti glielementi coinvolti nell’atto volontario – la volontà, l’oggetto e l’abito della carità–, la conclusione non cambia, dato che ciascuno di essi può essere il medesimoin via come in patria40.

Anche su questo punto si può seguire la genesi della risposta dei francesca-ni moderati al ragionamento di Scoto. Conington prende sbrigativamente in con-siderazione l’argomento scotiano per accantonarlo limitandone la validità allasola necessità di natura41, mentre l’estensore della Collatio 21 lo affronta conmaggior impegno teoretico. Egli ammette che i tre elementi in gioco nell’atto vo-litivo – la volontà, l’oggetto e l’abito della carità – effettivamente non siano sog-getti ad alcuna mutazione; muta però la comprensione dell’oggetto, prima cre-duto per fede, ora visto con chiarezza. In questo modo, anche se l’oggetto restail medesimo, è tuttavia presente alla volontà in maniera diversa42.

38 Scoto aveva escluso una tale linea argomentativa sostenendo che «ista posset concedi quod vo-luntas non potest resilire ab obiecto sive nolle obiectum in quo non ostenditur aliqua ratio mali nec ali-quis defectus bonus, quia sicut bonum est obiectum huius actus qui est velle, ita malum vel defectusboni, quod pro malo reputatur, est obiectum huius actus qui est nolle. Et tunc non sequitur ultra, “nonpotest nolle hoc, igitur necessario vult hoc”, quia potest hoc obiectum neque velle, neque nolle» (IOAN-NES DUNS SCOTUS, Quodlibet, q. 16, ed. T.B. Noone and H.F. Roberts, in John Duns Scotus’ Quodlibet. Abrief Study of the Manuscripts and an Edition of Question 16, in C. SCHABEL [ed.], Theological Quodli-beta in the Middle Ages. The Fourteenth Century, Brill-Boston 2007, p. 171, § 22).

39 «[...] necessitas agendi non potest esse nisi per aliquod intrinsecum principio activo; per hoc au-tem quod intellectus nunc videt obiectum, nihil novum est intrinsecum principio activo in fruitione; ergonec nova necessitas agendi» (IOANNES DUNS SCOTUS, Ordinatio, I, dist. 1, p. 2, q. 2, n. 137, ed. Vat., II, p.92). Si veda anche IOANNES DUNS SCOTUS, Ordinatio, I, dist. 1, pars 2, q. 2, ed. Vat., II, pp. 60-61, § 80.

40 Cf. IOANNES DUNS SCOTUS, Ordinatio, I, dist. 1, pars 2, q. 2, ed. Vat., II, p. 91, § 136.41 «Utrum voluntas sic passa a Deo viso possit impedire ne actum volendi ipsum statim exerceat. [...]

Et quod non necessitatur ostenditur, quia eadem potentia non mutata secundum naturam non fertur inidem obiectum nunc necessario nunc contingenter. Sed voluntas creata fertur in Deum in via contingen-ter. Ergo et in patria, ubi Deus videbitur, non ferretur necessario. [...] Ad principale dicendum quod maiorest vera de necessitate naturali que non potest stare cum contingentia» (RICHARDUS DE CONINGTON, Quod-libet I, q. 8, ms. Ottob. Lat. 1126, f. 11ra-b).

42 «Ad argumentum eorum: “idem principium activum et eodem modo se habens non aliquando eli-cit actum contingenter, aliquando necessario”, dico quod hoc est falsum. Per mutationem enim in alio fac-tam quam in principio vel obiecto, principium prius agens contingenter post necessario agit, ut moriensin caritate est beatus. Voluntas non mutatur, nec caritas, nec obiectum; diligam tunc Deum sicut modo,tamen tunc necessario, modo contingenter propter realem mutationem factam in intellectu: visio enim mo-do est fides, tamen obiectum non mutatur, sed alio modo se habet ad voluntatem» (ANONYMUS, Collatio-nes oxonienses, q. 21, ed. Alliney, p. 264, § 21, punteggiatura modificata).

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Ma le Collationes sulla volontà presentano ancora altri motivi di interesse.Ricordiamo brevemente che il suo anonimo autore giustifica la contingenza invia in base alla capacità della volontà di distogliere l’intelletto dal pensare al fi-ne ultimo rivolgendolo ad un bene particolare, e la necessità in patria, invece,in base all’impossibilità da parte della volontà del beato di compiere la medesi-ma operazione perché in questo caso l’intelletto, ovunque si volga, coglierebbesempre ogni bene particolare nella sua rappresentazione più eminente presentenell’essenza stessa di Dio.

Per quanto possa sembrare paradossale, le linee generali di questa doppiadimostrazione potrebbero indicare un debito verso le teorie domenicane svi-luppatesi in Inghilterra sul finire del secolo precedente. Come è noto, in quelperiodo numerosi teologi dell’ordine dei predicatori prendono posizione controle dure critiche a Tommaso avanzate dal francescano Guglielmo de la Mare nelpolemico libello Correctorium fratri Thomae. Stimolati dalle osservazioni diGuglielmo, in questi scritti apologetici spesso titolati Correctoria corruptoriifratri Thomae i seguaci dell’Aquinate non si limitano a ripeterne la dottrina mala sviluppano in maniera a volte originale, approfondendone i punti in discus-sione: i Correctoria ci trasmettono dunque le diverse declinazioni dell’insegna-mento di Tommaso prima che la dottrina tomista si stabilizzi per opera dellepersonalità di rilievo del secolo successivo, come Erveo di Nédellec. Fra i va-ri Correctoria è per noi particolarmente interessante il Sciendum – così chia-mato dal suo incipit – composto intorno al 1283 dal domenicano inglese Ro-berto di Orford43.

Rispondendo alle accuse di necessitarismo psicologico avanzate da Gugliel-mo de la Mare, Roberto fa riferimento ad una questione della Summa dove Tom-maso, in base alla distinzione fra esercizio e determinazione dell’atto, sostieneche «la volontà non è mossa di necessità da alcun oggetto: infatti, chiunque puònon pensare ad un determinato oggetto, e di conseguenza neppure volerlo in at-to»44. In questo passo Tommaso riprende una linea di pensiero che aveva già in-dicato nel giovanile De veritate, dove aveva apertamente sostenuto che la capa-

43 Su Roberto di Orford, o di Colletorto, si veda R.L. FRIEDMAN, Dominican Quodlibetal Literature, ca.1260-1330, in SCHABEL, Theological Quodlibeta in the Middle Ages cit., pp. 420-422.

44 «[...] voluntas movetur dupliciter, uno modo, quantum ad exercitium actus; alio modo, quantum adspecificationem actus, quae est ex obiecto. Primo ergo modo, voluntas a nullo obiecto ex necessitate mo-vetur, potest enim aliquis de quocumque obiecto non cogitare, et per consequens neque actu velle illud.Sed quantum ad secundum motionis modum, voluntas ab aliquo obiecto ex necessitate movetur, ab ali-quo autem non [...]. Unde si proponatur aliquod obiectum voluntati quod sit universaliter bonum et se-cundum omnem considerationem, ex necessitate voluntas in illud tendet, si aliquid velit, non enim pote-rit velle oppositum. Si autem proponatur sibi aliquod obiectum quod non secundum quamlibet conside-rationem sit bonum, non ex necessitate voluntas feretur in illud» (THOMAS DE AQUINO, Summa theologiae,Ia-IIae, q. 10, art. 2, Respondeo, ed. P. Caramello, Marietti, Torino-Roma 1963, p. 58).

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cità della volontà di non agire nei confronti di qualunque oggetto – quindi an-che di Dio – si conserva in ogni stato dell’uomo – e dunque anche in patria45.Certo per motivi assai diversi, quali il timore di essere forse accusato di un ec-cessivo intellettualismo, Tommaso difende così implicitamente una posizione si-mile a quella che sarà poi di Scoto: dato che può sempre astenersi dall’agire, lavolontà del beato non fruisce necessariamente dell’essenza divina vista in pa-tria.

Di norma, i teologi vicini a Tommaso non ricorrono a questi passaggi dell’A-quinate, e neppure ne considerano l’indesiderato esito contingentista. Questo èparticolarmente vero per i maestri domenicani inglesi attivi negli anni successi-vi alla diffusione dell’insegnamento di Scoto, e perciò impegnati in una polemi-ca del tutto nuova contro le idee del francescano scozzese. È il caso del non me-glio noto Tommaso Anglico, autore del Liber propugnatorius super primum Sen-tentiarum contra Johannem Scotum, il quale afferma esplicitamente che «se sidicesse che la volontà del beato può allontanare l’intelletto dalla considerazio-ne <del fine>, dico di no, perché tale considerazione ha la caratteristica del be-ne sommo e del fine, e il fine muove la volontà con necessità anche a questo»46,cioè alla sua stessa considerazione.

Questo non è però l’atteggiamento dei teologi che, scrivendo ancora negli an-ni ’80 del XIII secolo, non potevano ovviamente cogliere la vicinanza di questaposizione con il contingentismo radicale di Scoto, ancora di là da venire47. Taleè proprio il caso di Roberto di Orford, che si riferisce al passaggio della Summa

45 «Cum autem voluntas dicatur libera, in quantum necessitatem non habet, libertas voluntatis intribus considerabitur: scilicet quantum ad actum, in quantum potest velle vel non velle; et quantum adobiectum, in quantum potest velle hoc vel illud, etiam eius oppositum; et quantum ad ordinem finis, inquantum potest velle bonum vel malum. Sed quantum ad primum horum inest libertas voluntati in quo-libet statu naturae respectu cuiuslibet obiecti. Cuiuslibet enim voluntatis actus est in potestate ipsius re-spectu cuiuslibet obiecti. Secundum vero horum est respectu quorumdam obiectorum, scilicet respectueorum quae sunt ad finem, et non ipsius finis; et etiam secundum quemlibet statum naturae. Tertium ve-ro non est respectu omnium obiectorum, sed quorumdam, scilicet eorum quae sunt ad finem; nec re-spectu cuiuslibet status naturae, sed illius tantum in quo natura deficere potest» (THOMAS DE AQUINO,Quaestiones disputatae de veritate, q. 22, art. 6, Respondeo, ed. R. Spiazzi, Marietti, Torino-Roma 1964,p. 400).

46 «Si autem dicatur quod voluntas beati potest divertere intellectum a considerationem, dico quodnon, quia talis consideratio habet rationem summi boni et finis, ad quod finis movet etiam necessario»(THOMAS ANGLICUS, Liber propugnatorius super primum Sententiarum contra Johannem Scotum, dist. 2, q.1, ed. Venetiis 1523, Reprint Minerva GMBH, Frankfurt a. M. 1966, f. 19 r). Sulle ipotesi riguardo all’i-dentità dell’autore – che escludono in ogni caso Thomas Sutton – si veda FRIEDMAN, Dominican Quodli-betal Literature cit., p. 423, e la letteratura lì citata.

47 La questione sarebbe capire se i teologi domenicani del periodo ritengono la conclusione applica-bile anche alla volontà del beato in patria – come il testo di Tommaso del De veritate esplicitamente so-stiene – o se la limitano al viator – come il testo di Tommaso della Summa potrebbe far pensare. I passia nostra disposizione non ci danno una risposta conclusiva, probabilmente perché l’astensione dalla bea-titudine in patria è una possibilità che non è ancora presa in seria considerazione nei dibattiti pre-Scoto.

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di Tommaso per esplicitarne le conseguenze. Egli afferma infatti che l’azionedell’uomo nei confronti del fine ultimo va considerata da due distinti punti di vi-sta, appunto quello della determinazione e quello dell’esercizio. Quanto alla de-terminazione dell’atto, l’uomo non agisce liberamente ma con necessità, così chela sua azione può essere solo di volizione dell’oggetto beatifico; tuttavia, prose-gue Roberto, «quanto all’esercizio dell’atto egli agisce liberamente: può infattinon pensare al fine né volere attualmente compiere tale atto»48, cioè la volizio-ne del fine.

Ora, il plesso dimostrativo delle Collationes sulla volontà è centrato propriosulla possibilità da parte della volontà in via di distogliere l’intelletto dalla con-siderazione del fine, mentre la dimostrazione della necessità in patria è invecebasata sull’impossibilità di eseguire la medesima operazione in presenza del-l’essenza stessa di Dio, che racchiude esemplarmente in sé ogni bene partico-lare. Sembrerebbe dunque che l’autore delle Collationes da un lato, cioè limi-tatamente allo status viae, assuma l’idea – già espressa dal Correctorium «Scien-dum» – che la volontà possa distrarre l’intelletto dalla contemplazione del be-ne in generale, mentre dall’altro ne neghi la tenuta nello status patriae per l’im-possibilità psicologica di pensare ad altro da Dio conosciuto nella sua essenza.La notevole affinità fra l’impianto delle due dottrine farebbe dunque sospettareche l’autore delle Collationes abbia assunto questa linea argomentativa, del tut-to alternativa rispetto a quella di Conington, da Roberto di Orford o da suoieventuali epigoni49. Il francescano si dimostrerebbe poi più moderato del do-menicano, ma questa diversità non escluderebbe affatto una sua dipendenza dalCorrectorium «Sciendum» del quale, pur rifiutando le conclusioni particolari,mette comunque in opera lo schema generale. Questo dato confermerebbe allo-ra il profondo radicamento delle Collationes nella realtà oxoniense, difficil-

48 «Vel igitur fit sermo de actione eius (scilicet agentis) respectu finis vel respectu eorum quae suntad finem; si respectu finis, vel quantum ad exercitium actus vel quantum ad determinationem actus. Siquantum ad exercitium actus, libere agit; potest enim de fine non cogitare et per consequens nec actu vel-le hoc agere, et per consequens voluntas potest in hoc tendere. Si quantum ad determinationem actus, sicnon est ibi libertas sed necessario vult» (Le correctorium corruptorii sciendum, ed. P. Glorieux, Vrin, Pa-ris 1956, p. 208). La teoria della volontà di Roberto è stata giudicata intellettualista da Alexander BRUNGS

(Intellekt, Wille und Willensschwäche im Korrektorienstreit Einheit des Menschen vs. Homunculi, in T. HOFF-MANN / J. MÜLLER / M. PERKAMS, Das Problem der Willensschwäche in der mittelalterichen Philosophie, Pee-ters, Leuven 2006, p. 279), a conferma che la presa di posizione riguardo all’esercizio dell’atto non im-plica alcuna reale concessione al volontarismo, ma solo un’assicurazione contro le critiche di Guglielmode la Mare.

49 È interessante notare che il domenicano Thomas Sutton nelle sue Quaestiones ordinariae – scritteforse già nei primi anni del XIV secolo in esplicita polemica con Scoto – ripete ancora la posizione di Ro-berto quando afferma che «[...] potest voluntas non continuo actu velle beatitudinem. Potest enim averte-re intentionem ab apprehensione eius, et ita quoad exercitium actus non necessitatur velle beatitudinem»(THOMAS DE SUTTON, Quaestiones ordinariae, q. 6, ed. J. Schneider, Verlag der bayerischen Akademie derWissenschaften, München 1977, p. 169).

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mente possibile se l’autore ne fosse Scoto, ormai da tempo lontano dalla cittàuniversitaria inglese.

L’analisi delle Collationes non si può però dire ancora conclusa. In prece-denza si è accennato come il dibattito parigino testimoniato dalla questione diGiovanni di Bassoles prendesse in considerazione problemi del tutto nuovi ri-spetto a quelli tipici dei tempi di Scoto, e in particolare la preoccupazione pret-tamente teologica per l’impeccabilità del beato e per la perpetuità della beati-tudine, ambedue apparentemente compromesse dalla possibilità che lo stessobeato decida di non volere l’essenza divina. In maniera del tutto indipendente,e dunque in base ad una comune sensibilità religiosa, anche le Collationes oxo-nienses trattano questi nuovi aspetti dottrinali. L’esigenza di escludere dal bea-to la capacità di peccare è anzi così forte da essere questa la prima e unica ra-tio quod sic contrapposta, in apertura della questione 21 sulla necessità dellafruizione in patria, a quelle tipicamente scotiane: se la fruizione non fosse ne-cessaria, l’atto volontario potrebbe essere un peccato, ma i beati non possonopeccare50.

C’è di più: sempre nella questione 21 sono riportate una serie di argomenta-zioni in competizione fra loro per giustificare l’impeccabilità del beato – l’im-peccabilità è imputata all’azione efficiente della volontà divina (opinione di Sco-to), alla volontà umana, all’essenza stessa della beatitudine che ne implica la si-curezza, all’oggetto beatifico come causa finale (opinione dell’autore)51 – , e nel-la successiva questione 22 il punto è ripreso con un’ulteriore esposizione di so-luzioni alternative, in parte ripetute – l’impeccabilità è dovuta all’azione coope-rante della volontà divina, all’essenza della beatitudine, alla carità, allo sfrena-to desiderio della volontà umana, all’oggetto beatifico (di nuovo l’opinione del-

50 Conviene riportare l’incipit della questione: «Utrum voluntas informata caritate posset non velleDeum visum per essentiam in patria. Arguitur quod sic: idem principium activum eodem modo se habensnon elicit actum modo contingenter modo necessario circa idem obiectum; caritas et voluntas sunt eedemet huiusmodi ubi fertur contingenter; ergo etc. Item, visus est liber per participationem, et non necessita-tur plus respectu solis quam respectu primi obiecti. Item, que causa illius necessitatis? Si obiectum, vo-luntas non est libera; si voluntas tantum, tunc claritas visionis nihil faceret. Contra. Hoc est peccatum ali-quod; beati non possunt peccare» (ANONYMUS, Collationes oxonienses, q. 21, ed. Alliney, p. 261, §§ 1-4).

51 «Et isti dicerent forte: licet de libertate voluntatis possunt non velle Deum, tamen quia Deus teneteos in beatitudine ut efficiens non possunt peccare. Aliqui assignant causam quare non possunt peccarebeati a parte voluntatis. Alii dicunt quod causa est voluntas divina confirmans et efficiens, ita quod nonpossunt velle oppositum illius quod Deus vult. Hoc videtur secundum Augustinum, II Confessionum, etXXII De civitate Dei, capitulo ultimo. Alii dicunt quod securitas est aliquid beatitudinis, ideo sunt securise non casuros, et falsum non scitur, ideo etc. Alii dicunt causam ex parte obiecti beatifici non ut est effi-ciens, sed ut est finis» (ANONYMUS, Collationes oxonienses, q. 21, ed. Alliney, p. 263, §§ 15-19). Va notatoche con gli isti che sostengono la prima spiegazione si allude proprio a Scoto, che non tratta il problemanei testi dedicati alla contingenza dell’azione volontaria, ma altrove, proponendo proprio questa spiegazio-ne: si veda IOANNES DUNS SCOTUS, Opus oxoniense, IV, d. 49, q. 6, ed. Wadding, X, pp. 454-455, §§ 10-11.

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l’autore)52 –, segno questo dell’assenza di una dottrina condivisa e, dunque, diun acceso dibattito in corso.

In base a tutti questi elementi – che sicuramente non giocano a favore di unasicura attribuzione a Scoto – si possono forse azzardare delle conclusioni prov-visorie. Se si tiene a mente da un lato la reazione ostile alle novità scotiane at-testata in Inghilterra dalla presa di distanza di Riccardo di Conington e, dall’al-tro, la perplessità dell’ambiente minorita parigino testimoniate dal Commento diGiovanni di Bassoles, si è tentati di attribuire anche ai francescani di Oxfordun’analoga incertezza sulla posizione da assumere sulla dottrina di Scoto. Comesi vedrà fra breve, anche negli anni successivi la maggioranza dei maestri fran-cescani inglesi confermerà il punto di vista critico assunto da Conington riguar-do alle novità scotiane in ambito di filosofia pratica e manterrà posizioni certodiverse, ma tutte lontane dagli esiti più radicali della dottrina del Dottor Sotti-le. In base a questo comune atteggiamento si può forse supporre che, come a Pa-rigi, anche a Oxford sorgessero discussioni tese ad elaborare soluzioni modera-te che si ponessero in una prospettiva di relativa continuità con le posizioni piùtradizionali dei teologi precedenti. Se così fosse, le Collationes ne sarebbero laconferma, e registrerebbero gli esiti misurati del dibattito interno alla scuolafrancescana oxoniense sui punti più delicati della dottrina della volontà del teo-logo scozzese.

Queste considerazioni, avvalorate dalle esplicite polemiche antiscotiste di-stribuite in tutte le questioni sulla volontà, portano a dubitare seriamente del-l’autenticità delle Collationes, ma così il problema dell’attribuzione e della da-tazione dell’opera si complica notevolmente, perché Stephen Dumont, nel suogià citato studio, è giunto alla fondata conclusione che la questione sulla Trinitàda lui analizzata sia perfettamente in linea con l’opinione di Scoto e rappresen-

52 «Dicendum quod non secundum sanctos; cuius causa est ex parte Dei tantum, quia Deus vult quodangelus feratur continue sicut modo fertur, vide XII Confessionum. Contra: ponatur quod Deus committatangelum sibiipsi absque tamen velle, ita quod nec vellet nec nollet; tamen, supposita generali influentia,et quod angelus haberet habitum glorie et videret Deum per essentiam, angelus non posset peccare neceum nolle, nec aliud sibi preponere, nec eum minus velle: patet prius; ergo. Alii dicunt quod secura scien-tia de non cadendo est de ratione illius status, ideo status est ratio. Contra: licet scientia certa non essetde eius ratione, adhuc videns Deum per essentiam non posset peccare etc. per argumentum alterius po-sitionis. Alii dicunt quod caritas, que est donum gratuitum, est ratio impeccabilitatis. Illud non valet: tuncenim voluntas non esset libera. Caritas enim vie et patrie sunt eiusdem rationis, et eadem que in via estin patria; nunquam enim excidit; ergo sequitur quod caritas immobilitabit voluntatem in via sicut in pa-tria; ergo si caritas dominatur voluntati etc. Item, illud donum (ed. bonum) inclinat per modum nature etnon libere quantum est de se; ergo voluntas necessitatur a forma inclinante per modum nature; ergo si-militer sic non est libera. Alii dant causam ex parte voluntatis effrenate ferentis se in obiectum, et e con-verso de demonibus. Contra: in priori per naturam quo beatus videt Deum, ante velle habet nolle; ideoprior est impossibilitas peccandi quam effrenatio ferendi. Ideo dico [...] finis ultimus habitus perfecte estcausa quare quietatur ultimate» (ANONYMUS, Collationes oxonienses, q. 22, ed. Alliney, pp. 265-266, §§6-16, modificata).

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ti un’ulteriore fase del dibattito fra Scoto stesso e Riccardo di Conington. Du-mont ritiene così rafforzata l’autenticità delle Collationes e ne propone una da-tazione immediatamente successiva alla composizione del Quodlibet di Coning-ton, che ne è il bersaglio polemico. Per questi motivi egli suggerisce di prende-re in considerazione una ulteriore presenza di Scoto ad Oxford pochi anni primadell’insegnamento e della morte a Colonia, cioè nel 1305-130653.

Poiché le Collationes oxonienses ci sono sempre state consegnate dalla tradi-zione manoscritta come un insieme unico e coerente di questioni – solo con l’e-dizione Wadding sono state poi mischiate a quelle parigine –, e poiché lo stessoScoto in due passi dell’Ordinatio rimanda esplicitamente ad alcune delle Colla-tiones oxonienses (in particolare alle questioni 1, 14 e 16)54, sembrebbe di esse-re giunti ad un punto morto: una parte delle questioni è certamente autentica,ma se si estendesse l’autenticità a tutte bisognerebbe supporre un radicale mu-tamento nella posizione dottrinale del teologo scozzese in merito alla dottrinadella volontà. Dunque, o Scoto ha cambiato idea sulla volontà negli ultimissimianni della sua vita, esprimendo questa sua nuova posizione ai confratelli diOxford, ma non ai suoi allievi di Parigi e di Colonia; o tutte le Collationes oxo-nienses sono apocrife, ma non tutte dottrinalmente distanti dalla posizione diScoto; o il corpus dei testi è stato manomesso con l’inserimento di questioni spu-rie già nel XIV secolo, data del manoscritto più antico.

La prima ipotesi, pur essendo immune a critiche, è però difficilmente difen-dibile dal punto di vista dottrinale; la seconda non urterebbe contro l’analisi diDumont, ma certamente contro gli espressi riferimenti di Duns Scoto, e control’attribuzione concorde della tradizione manoscritta. Resterebbe allora da con-siderare la terza alternativa, ovvero l’inserimento di questioni apocrife sulla vo-lontà all’interno di un preesistente gruppo di questioni autentiche.

Se il motivo e il modo in cui questi testi sarebbero stati inseriti fra le ope-re autentiche del Maestro restano oscuri, la manipolazione sarebbe in ogni ca-so passata inosservata a causa della scarsa tradizione manoscritta e della cao-tica disposizione delle questioni nell’edizione Wadding, che hanno per lungotempo impedito un’esatta valutazione dottrinale delle questioni oxoniensi che,mischiate con quelle parigine, per secoli hanno composto un groviglio testua-le in cui venivano sostenute posizioni del tutto contraddittorie – dato che le

53 DUMONT, William of Ware cit., pp. 84-85.54 Cf. IOANNES DUNS SCOTUS, Ordinatio, I, dist. 2, p. 2, q. 1, Adnotatio a Duns Scoto cancellata, ed.

Vat., II, p. 309 per la citazione di una questione delle Collationes oxonienses successivamente identifica-ta dagli editori moderni nella questione 16; Ordinatio, I, dist. 5, p. 2, q. un., Adnotatio a Duns Scoto can-cellata, ed. Vat., IV, p. 70 per gli espliciti rimandi alle questioni 1 e 14. Si veda DUMONT, William of Wa-re cit., p. 69, nota 25, e pp. 81-83.

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questioni francesi, certamente autentiche, espongono la tradizionale dottrinadi Scoto55.

5. L’eredità di Enrico di Gand: Roberto Cowton e Riccardo Drayton

Ma, al di là del problema dell’eventuale inautenticità delle Collationes, a Oxfordla resistenza alle tesi di Scoto è rafforzata da altri elementi certi: negli anni im-mediatamente successivi al 1310, seppur con dinamiche distinte, l’atteggiamen-to dell’ambiente minorita resta ostile alle dottrine di Scoto. Le posizioni a noi no-te dei teologi di questo periodo confermano da un lato la duratura influenza delpensiero di Enrico di Gand, che a Oxford godette a lungo di notevole credito, edall’altro la circolazione delle nuove argomentazioni sviluppate da Riccardo diConington.

È esemplare in questo senso la posizione di Roberto Cowton, uno dei teologipiù influenti nei primi decenni del secolo. Nel suo Commento alle Sentenze, com-posto intorno al 1309-131156, contro la nuova opinione di Scoto egli ribadisce laposizione di Enrico di Gand, e cioè che la volontà vuole con necessità il fine ul-timo in qualunque modo esso sia conosciuto – sia in generale, sia a maggior ra-gione in particolare – e che questa necessità non compromette la libertà del vo-lere57.

Per giustificare questa conclusione Cowton si limita a citare dalla Summa diEnrico un lungo passo dove questi aveva indicato quale, fra i vari tipi di neces-sità, fosse compatibile con la libertà. Il Maestro di Gand aveva escluso, come èovvio, la necessità di costrizione, ma aveva poi distinto nella necessità dell’im-mutabilità quella che precede l’atto, ed è quindi determinata da una causa di-

55 Le Collationes Parisienses sono molto chiare sia nell’escludere la possibilità di un cambiamentodalla contingenza in via alla necessità in patria: «si igitur voluntas moveatur necessario in finem ultimumet contingenter in ea quae sunt ad finem, sequitur quod non erit eadem potentia et natura, quoniam ea-dem natura non potest esse principium agentis necessario et contingenter quantum est ex se» (IOANNES

DUNS SCOTUS, Collationes parisienses, q. 8 [= Collationes, q. 17, ed. Wadding, III, p. 384b, § 9]). Questotesto peraltro rappresenta bene l’imprecisione lessicale in cui incorre a volte Scoto, e che ingenera spes-so confusione fra i teologi a lui successivi: la modalità immodificabile della potenza volitiva non è la con-tingenza, ma la libertà, che nel caso della volontà umana comporta la contingenza.

56 Per la datazione si veda FRIEDMAN, The «Sentences» Commentary cit., p. 76.57 «Contra opinionem (scilicet non necesse est voluntatem frui fine ultimo, sed manet in libertate con-

tradictionis ad fruendum vel non fruendum quantum est ex parte voluntatis in se) primo ostendo quod vo-luntas naturaliter vult finem ultimum in universali, et ex hoc concludo quod necessario vult finem ulti-mum in particulari, scilicet beatitudinem perfectam in obiecto quod natum est eam perfecte beatificare.Secundo ostendam quod sic velle beatitudinem de necessitate non repugnat libertati voluntatis, et tertioquod ille actus quo sic vult finem non procedit ab ea ut est arbitrio libera, sed magis ut libera est» (RO-BERTUS COWTON, I Sent., dist. 1, q. 4, Ms. Oxford, Merton College 117, f. 23vb).

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stinta dalla potenza che agisce, come è il caso di un sasso che cade per la formadella gravità che gli è intrinseca e che determina l’azione. Questo tipo di neces-sità naturale è incompatibile con la libertà, mentre non lo è la necessità del-l’immutabilità che è concomitante all’atto. Infatti, se la volontà agisce in manie-ra autonoma e del tutto spontanea, può imporsi da sé la necessità dell’azione vo-lendo il bene assoluto, e così agisce nel modo più libero. La libertà non è dun-que collegata al potere di agire o non agire, ma piuttosto alla spontaneità di un’a-zione che, anche se di fatto manca di ogni alternativa, proprio in quanto sponta-nea si può ritenere compiuta quasi tramite una scelta: «l’essenza della libertà inassoluto non comporta poter volere e poter non volere, come sostengono alcunidi parere contrario, ma soltanto volere secondo la propria disposizione affettivae quasi tramite una scelta (affectualiter et quasi eligibiliter)». Questa necessitàche perfeziona l’agente ha origine sia dal sommo potere attrattivo dell’oggetto,sia dal desiderio della volontà nei confronti del bene supremo. In altre parole,la naturale inclinazione della volontà verso il bene trova la propria compiuta rea-lizzazione nell’oggetto che lo rappresenta nel modo più completo, così che l’at-trazione del bene e la tendenza della volontà si integrano vicendevolmente in unatto perfettamente necessario e libero58.

58 «Secundo declaro quod hec necessitas non repugnet eidem (ms.: eadem) libertati in hoc, quod vo-luntas vult finem de necessitate determinatione etiam determinante actum volendi ut egreditur a volun-tate. Distinguendum est tamen de necessitate secundum quod Philosophus distinguit de necessitate VMetaphysice et Augustinus V De Civitate Dei: quod est quedam necessitas violentie sive coactionis ab alio,et est quedam necessitas immutabilitatis, que est ex seipsa absque aliqua alia causa. Necessitas primomodo non cadit in voluntate respectu actus interioris, quamvis posset cadere in ea respectu actus alicuiusexterioris, quia talis necessitas respectu doloris est contristabilis secundum Commentatorem V Metaphy-sice “de necessario”, et ista repugnat voluntatis libertati. Necessitas tamen immutabilitatis bene cadit cir-ca voluntatem in eliciendo actum circa finem, nec ista repugnat libertati. De hac tamen necessitate im-mutabilitatis subdistinguo, quia potest considerari ut previa vel quasi previa ad voluntatem, ut voluntasintelligatur cadere sub ipsa necessitate in eo quod ab ipsa egreditur actus voluntatis, vel potest conside-rari ut est concomitans ipsam voluntatem, ut ipsa necessitas intelligatur cadere sub ipsa voluntate in eli-ciendo actum diligendi finem. Necessitas primo modo aufferret libertatem in eliciendo actum voluntati itaquod in eliciendo non esset aliud quam natura, et sic non esset plus libertatis in voluntate in eliciendoactum quam in natura ut natura, sed precisa necessitas coactionis. Unde de hoc modo necessitatis, ut in-cludit voluntatem, dico quod voluntas non vult finem de necessitate, sed libere tantum. Secundo autemmodo considerata necessitate dico quod non aufert libertatem sed magis firmat eam in actu suo ita quodvoluntas talem actum volendi delectabiliter et eligibiliter eliciat, et hoc modo Deus libere vult se et ta-men de necessitate, et similiter beati in patria, ubi erunt liberioris voluntatis, volendo tantum bonum,quam modo sumus volendo bonum vel malum. Et si queris unde surgit ista necessitas concomitans vo-luntatem in eliciendo actum respectu finis, dico quod partim surgit ex obiecto summe alliciente et partimex voluntate que, propria libertate stabiliente (ms.: stabilitatem) in summo bono affectando, necessitatemhuius sibi ipsi imponit, <non> quod [non] preveniat voluntatem vel quod voluntas cadat sub ipsa ne-cessitate, sed magis eadem necessitas cadit sub voluntate, et solum concomitetur voluntatem in elicien-do actum. Unde de ratione libertatis simpliciter non est posse velle et non velle, ut dicunt aliqui de con-traria opinione, sed affectualiter solum et quasi eligibiliter velle» (ROBERTUS COWTON, I Sent., dist. 1, q.4, ms. Oxford, Merton College 117, ff. 24va - 24vb). Dal paragrafo che inizia con «Distinguendum est ta-men... » il passo ora trascritto è una citazione letterale, ma non esplicita, dalla Summa di Enrico: si veda

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Proprio per essere ripresi con lievi modifiche da Enrico, gli argomenti cheCowton avanza non si dimostrano del tutto pertinenti a controbattere le nuoveragioni scotiane, che di fatto non vengono prese in considerazione. Dal punto divista della ricostruzione storica, la messa in opera di materiali dottrinali tradi-zionali da parte di un maestro affermato come Cowton sembra indicare la scar-sa diffusione in ambito universitario della nuova dottrina di Scoto, che proprioper questo non richiede ancora particolari controargomentazioni, anche se è giàdiscussa in modo informale nella scuola francescana, come le Collationes dimo-strerebbero.

Poco tempo dopo Roberto Cowton un altro maestro francescano, Riccardo Dray-ton, anch’egli attivo nei primi anni del secondo decennio del secolo, affronta asua volta il problema della necessità della fruizione. Ciò che resta delle opere diquesto teologo sono le poche citazioni consegnatateci dal Commento alle Sen-tenze del francescano Giovanni di Reading, di cui si dirà poi. Pur nella scarsitàdei testi a disposizione, è tuttavia possibile ricostruire qualche elemento dellasua posizione, che appare del tutto tradizionale quando ammette – in accordocon Cowton e a differenza di Conington e delle Collationes – la necessità dellafruizione sia in patria sia in via59. Questa è però solo un’impressione superficialeperché, se la conclusione generale è quella tipicamente gandiana, a sua difesanon sono messe in campo solamente le citazioni dalla Summa di Enrico – comeaveva fatto Roberto Cowton – ma sono invece utilizzati diversi dei nuovi argo-menti elaborati da Riccardo di Conington nel suo Quodlibet.

Come Cowton, anche Drayton prende avvio dalla classificazione gandiana deivari tipi di necessità, tuttavia egli non si limita a ripeterla, ma la approfondisceinvece ulteriormente in base alla distinzione – già introdotta da Riccardo di Co-nington – fra causalità positiva e causalità privativa. Riccardo distingue così lanecessità dell’immutabilità che deriva da un principio interno alla potenza, co-me è il caso di una pietra che cade verso il basso, dalla necessità dell’immuta-bilità che deriva da un fattore esterno alla potenza stessa. La prima forma di ne-cessità non ammette libertà, mentre per quel che riguarda la seconda bisognaancora distinguere. Se il fattore esterno che genera la necessità dell’immutabi-

HENRICUS DE GANDAVO, Summa quaestionum ordinariarum, a. 47, q. 5, Parisiis 1520 (Reprint The Fran-ciscan Institute, St. Bonaventure, New York), II, 1953, ff. 27v-28v, Y-Z.

59 «Alii, tenentes eandem conclusionem, quod scilicet voluntas finem apprehensum sive in univer-sali obscure, sive clare in particulari, necessario vult finem ita quod non potest suspendere actum volen-di, arguunt sic: Deus necessario fruitur se ipso, ergo quelibet alia voluntas habens idem obiectum presensnecessario fruitur. Consequentia patet, quia nihil impedit, ut videtur, nisi libertas, sed istud non repugnat,quia ubi libertas est perfectissima, ut in Deo, non repugnat» [RICARDUS DRAYTON, testo citato in IOANNES

DE READING, In Sent., I, dist. 1, q. 6, § 24, ed. G. Alliney, in G. ALLINEY, Fra Scoto e Ockham: Giovanni diReading e il dibattito sulla libertà a Oxford (1310-1320), «Documenti e studi sulla tradizione filosoficame dievale», 7 (1995), pp. 243-368: p. 296].

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lità imprime nel soggetto una disposizione necessitante, allora anche questa ne-cessità, al pari della precedente, si riduce alla necessità di natura. Ma se il fat-tore esterno non è una causa positiva bensì meramente privativa, tale cioè da noninfluire in alcun modo sulla potenza, che resta la causa unica dell’azione, allo-ra la necessità dell’immutabilità non si oppone alla libertà dell’atto. In questocaso, infatti, la causa privativa è una mera causa sine qua non che si limita adoffrire alla potenza l’oggetto su cui esercitare la propria azione, indispensabileall’atto senza tuttavia qualificarlo. Così «la nostra volontà volendo necessaria-mente il fine ultimo e compiendo tale atto riceve la necessità da qualcos’altro,ma non positivamente bensì privativamente per la mancanza di motivo (propterdefectum cur)». La necessità di volere il fine ultimo non è dunque prodotta dauna causa positiva esterna, ma consegue dal fatto che alla volontà manca il mo-tivo di volere altro dall’oggetto a lei presente, e per questo «è una necessità re-lativa e anche una certa contingenza da parte della volontà perché, se la volontàtrovasse un motivo per allontanarsi, liberamente lo farebbe». Poiché non impli-ca alcuna soggezione ad un agente esterno, questa necessità è compatibile conla libertà assoluta, comune a Dio e all’uomo, che consiste nell’autonomia e nel-la spontaneità (ultroneitas et spontaneitas) della potenza60.

Questo sforzo tassonomico di Riccardo mostra notevoli elementi di interesseper la nostra ricostruzione delle influenze dottrinali nell’ambiente francescanoinglese dei primi anni del secolo. Da un lato, infatti, Drayton si dimostra forte-mente influenzato da Enrico di Gand, sia nelle conclusioni generali – la neces-sità della fruizione sia in via sia in patria – sia nel lessico, soprattutto quando

60 «Dicunt tunc isti quod voluntas necessario vult finem ultimum apprehensum in universali vel inparticulari. Hoc tamen alio modo declarant quam precedentes, sic: aliqua est necessitas violentie et coac-tionis, et hec repugnat voluntati quia est semper cum tristitia et contra inclinationem voluntatis. Alia estnecessitas immutabilitatis, et ista quandoque oritur in potentia a parte principii determinantis potentiamad certum et immutabilem motum, sicut grave determinatur ad deorsum, et ista repugnat voluntati [...].Aliquando non oritur ab aliquo ex parte potentie, sed ab extrinseco, et hoc vel positive, quando imprimi-tur sibi aliquid, qua dispositione impressa necessario determinatur ad talem actum, et ista necessitas re-ducitur ad necessitatem nature, quia illa dispositio inclinat naturaliter. Vel privative, quando obiectumnihil agit in potentiam, sed totus actus est a parte potentie, et est obiectum causa sine qua non. Et tuncex obiecto est ibi alia necessitas, quia a parte obiecti deficit cur vel unde possit se avertere vel suspen-dere, et ista est necessitas secundum quid, et contingentia quedam a parte voluntatis, quia, si voluntasinveniret cur vel unde posset se divertere, libere se diverteret. Unde Anselmus, De libero arbitrio et Decasu diaboli, ponit istam causam, quia non potest voluntas invenire cur se avertat, ideo necessario stat.Libertas etiam quedam est oriens a parte voluntatis, que est libertas simpliciter que est communis Deo etnobis. Unde necessitas Dei volendi se ipsum non est sibi illatio ab extrinseco preveniente actum suum,sed ab intranea libertate sua habet talem necessitatem, quia spontanee et ultronee excedit se in actum.[...] Voluntas autem nostra in necessario volendo finem ultimum et concipiendo actum habet necessitatemistam ab aliquo, non positive, sed privative propter defectum cur; unde non est illata ab extrinseco posi-tive. Unde ultroneitas et spontaneitas cum non subiectione est ratio libertatis. Alia est libertas oriens aparte obiecti, quia divertit se quandoque ab obiecto quia invenit defectum bonitatis et quia invenit cur;ista est libertas pertinens ad electionem voluntatis» (RICARDUS DRAYTON, testo citato in IOANNES DE REA-DING, In Sent., I, dist. 1, q. 6, ed. Alliney, p. 298, § 31).

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utilizza il concetto gandiano, già duramente criticato da Scoto, di causa sine quanon per indicare la causa puramente dispositiva che dà occasione alla volontàdi agire con necessità. Drayton, però, impiega una terminologia gandiana peresporre le più recenti dottrine di Riccardo di Conington, dato che nel testo fa ri-corso alla distinzione fra causazione positiva e causazione privativa, ma soprat-tutto giustifica la necessità autoimpostasi dal soggetto volente in presenza delsommo bene con la stessa locuzione impiegata prima da Conington e poi dalleCollationes: la volontà vuole il fine ultimo con necessità propter defectum cur.Analogamente alle Collationes, Drayton corrobora questa affermazione ricorren-do a citazioni da Anselmo di Canterbury, questa volta tratte dal De libero arbi-trio e dal De casu diaboli. Conseguentemente Drayton – prendendo così decisa-mente congedo dal pensiero di Enrico di Gand – attribuisce esplicitamente allavolontà che vuole con libera necessità Dio una contingentia quaedam che po-trebbe divenire operativa se, appunto, la volontà trovasse motivo per usarla.

Il tratto che distingue in modo più evidente Drayton da Conington e dall’au-tore delle Collationes resta la sua conclusione generale per cui il fine ultimo èvoluto con necessità in qualunque modo sia conosciuto. In realtà, Drayton di-fende questa necessità con considerazioni molto simili a quelle già espresse dal-l’autore delle Collationes, ma questi le aveva considerate conclusive solamentein riferimento all’essenza divina mentre, forse con più ragione, Drayton le giu-dica invece valide anche riguardo al concetto generale di bene. Questo il ragio-namento: chi è in contemplazione del fine ultimo vede in esso ogni bene; di con-seguenza, se volesse allontanarsi dal fine rivolgendosi ad un bene diverso, do-vrebbe ancora rivolgersi al fine ultimo che lo contiene. Egli giungerebbe così al-la situazione paradossale di voler compiere contemporaneamente due azioni op-poste – l’allontanarsi e l’avvicinarsi – nei confronti dello stesso oggetto61.

Grazie al commentario di Reading ci sono giunti anche frammenti testuali attri-buiti a Pietro Sutton, francescano inglese la cui reggenza è da collocare intornoal 131062 – e che non va in nessun modo confuso con il P. de Ang. autore dei duequodlibeta editi da Etzkorn con la dubbia attribuzione di Petrus Sutton (?)63. Ri-

61 «Nec video quod potest dici nisi quod utitur propria libertate pro obiecto; sed hoc non potest nisisub ratione boni, sed hoc non potest stante consideratione finis ultimi, quia stante illa consideratione vi-detur omne bonum et non potest se avertere ab illo nisi ratione alicuius boni a parte illius ad quod se con-vertit, sed bonitatem illius videtur in illo obiecto beatifico, et non potest simul avertere se et convertereab eodem; ergo non potest se avertere ab obiecto beatifico et convertere se ad bonum particulare» (RI-CARDUS DRAYTON, testo citato in IOANNES DE READING, In Sent., I, dist. 1, q. 6, ed. Alliney, p. 297, § 28).

62 Per questa data si veda G. ETZKORN, Petrus Sutton (?), O.F.M., Quodlibeta, «Franciscan Studies»,23 (1963), p. 70.

63 L’identificazione di «P. de Ang.» con Pietro Sutton, già avanzata da Glorieux, è sempre rimasta in-certa e soprattutto dottrinalmente problematica. William DUBA (Continental Franciscan «Quodlibeta» af-ter Scotus, in SCHABEL, Theological Quodlibeta in the Middle Ages cit., pp. 570-571) e Martin PICKAVÉ (The

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conoscendo la necessità della fruizione solo in patria Pietro si pone sulla stessalinea dottrinale di Conington e dell’autore delle Collationes; troppo poco ci è peròpervenuto dei suoi argomenti per poter tentare una valutazione complessiva delsuo pensiero sulla volontà. Ciò che si può osservare è che Sutton attribuisce la ne-cessità della fruizione ad una necessità intrinseca alla volontà stessa, e per que-sto distinta dalla necessità naturale, che non lascerebbe alcuna autonomia all’a-gente. La volontà, infatti, è determinata solo nei confronti del fine, ma non neiconfronti dei beni parziali che consentono di raggiungerlo, e che sono moltepli-ci. Per questo motivo, in via la volontà può astenersi dall’esercitare un atto di vo-lizione nei confronti di qualunque oggetto, mentre in patria la capacità di non vo-lere il fine ultimo viene a mancare perché implicherebbe la possibilità di un attomalvagio64. Sutton pare lontano dalla linea di pensiero che attribuisce la neces-sità della fruizione in patria alla mancanza di motivo di volere altro (propter de-fectum cur), perché spiega questo mutamento con un esempio tratto dal mondo fi-sico: l’essenza divina attira irresistibilmente la volontà senza modificarne la na-tura libera così come un magnete attira verso l’alto un oggetto metallico che al-trimenti cadrebbe in basso65, ma il parallelo non è del tutto felice perché non sem-

Controversy over the Principle of Individuation in «Quodlibeta» (1277-ca. 1320): a Forest Map, in SCHA-BEL, Theological Quodlibeta in the Middle Ages cit., pp. 56-57) hanno correttamente riconosciuto che lequestioni quodlibetali del francescano devono essere collocate prima di Scoto, e dunque alla fine deglianni ’80 del XIII secolo. Questa ipotesi trova conferma nell’analisi della breve questione che qui ci inte-ressa, Utrum essentia divina videri possit absque hoc quod diligatur. In essa non è esposto alcun argomentoa favore della possibilità di una risposta affermativa alla domanda iniziale, a meno di una generica cita-zione scritturistica, indicando così che al momento della stesura del testo la posizione di Scoto non eraancora conosciuta, e probabilmente neppure formulata. La posizione di Pietro d’Anglia è quella tradizio-nale del XIII secolo, ed espressa per di più con un linguaggio notevolmente vicino a quello tomista: «[...]bonum non movet appetitum nisi ut apprehensum. Quandoque autem illud, quod non est bonum secun-dum se, apparet bonum videnti ex eo quod non videtur sicuti est sicut adulterium adultero et e converso.Illud autem quod secundum se est bonum, si videtur ut est, nullo modo non bonum apparere potest et perconsequens neque non diligibile. Essentia ergo divina, visa sicuti est, non diligi omnino non potest»(ETZKORN, Petrus Sutton (?), O.F.M., Quodlibeta cit., p. 130).

64 «Alii dicunt, aliter volentes tenere eandem conclusionem cum istis (scilicet Cowton et Drayton),saltem quoad voluntatem in patria, quod scilicet necessitas ab intrinseco, scilicet a naturali inclinatione,stat cum libertate. Unde dicitur: aliquid potest determinari ad finem et ad omnia que sunt ad finem, ali-quid autem ad finem sed non ad actum tendendi in finem et modum. Et illa est naturalis necessitas, quoddeterminetur ad locum et ad medium et motum et actum et eadem necessitate, et ideo dicitur quod ina-nimata non movent, sed aguntur magis quam agant. Aliquid terminatur ad aliquid, non tamen ad actum;et sic voluntas terminatur ad finem, sed non terminatur ad medium tendendi in finem, quia multis modisvenitur ad finem, et variis viis, et quia voluntas movet se non ab alio; ideo in potestate sua est elicere ac-tum et non elicere, licet determineretur ad finem; [...] et ista non manet in patria, quia potest esse respectumali» (PETRUS SUTTON, testo citato in IOANNES DE READING, In Sent., I, dist. 1, q. 6, ed. Alliney, p. 299, §32). Come si vede, Giovanni di Reading ci consegna questa citazione dall’opera di Sutton riconoscendo-ne una vicinanza dottrinale con i francescani inglesi suoi stretti contemporanei.

65 «[...] grave ut ferrum necessario descendit, secundum omnes, et adamante apposito non descendit,sed necessario ascendit; et hoc quia, licet necessario inclinetur ad inferius, cum hoc etiam necessario in-clinatur ad adamantem» (PETRUS SUTTON, testo citato in IOANNES DE READING, In Sent., I, dist. 1, q. 6, ed.Alliney, p. 319, § 112).

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bra garantire, come era invece riuscito ad altri, la libera intrinsecità dell’azionevolontaria.

La fase iniziale di elaborazione dottrinale si conclude così con un primo ten-tativo di formulare risposte adeguate agli argomenti scotiani per difendere posi-zioni più moderate. Se Cowton e Drayton restano fedeli alla posizione di Enricodi Gand, il quale aveva ammesso la necessità del volere sia in via sia in patria,Sutton, Conington e l’autore della Collationes oxonienses cercano un compro-messo fra le posizioni contrapposte e limitano la necessità all’atto di fruizione inpatria – e a Oxford come a Parigi questa sarà la posizione più seguita dai teolo-gi francescani successivi. Intanto si sono formate opinioni condivise, che a vol-te – ma non sempre – si innestano sul tronco speculativo della tradizione gan-diana: alla sfida dottrinale di Scoto si risponde sempre più frequentemente ar-gomentando sulla scorta dei testi di Anselmo d’Aosta che la volontà resta liberae contingente anche nella necessaria fruizione, dato che questa necessità non èaltro che la mancanza di ogni motivo di volere altro. In questa prospettiva, le Col-lationes sulla volontà esprimono gli atteggiamenti e indicano i percorsi dimo-strativi che più frequentemente circolano nel primo decennio del secolo, collo-candosi così con perfetta naturalità all’interno del processo di elaborazione didottrine originali più aggiornate di quelle di Enrico di Gand ma in ogni caso al-ternative a quelle di Scoto.

6. Le novità da Parigi: Guglielmo di Alnwick e Pietro Aureolo

Poco dopo la metà del secondo decennio del secolo le vicende della terra ingle-se si intrecciano strettamente con quelle del continente. Infatti, fra il 1315 e il1318 si diffondono a Oxford gli importanti Commenti alle Sentenze di due mae-stri di formazione parigina, Guglielmo di Alnwick e Pietro Aureolo.

Alnwick legge le sentenze a Parigi fra il 1313 e il 1314 poi, probabilmentenel 1315-1316, diviene maestro reggente a Oxford dove, come di costume, ope-ra una revisione del proprio Commento alle Sentenze66. In questo modo egli faconoscere oltre Manica la propria opinione, che del resto si intona assai bene alclima dottrinale dell’isola.

Per quanto ne sappiamo, a Parigi Alnwick è il primo discepolo diretto di Sco-to a prendere esplicitamente posizione contro il Maestro e ad opporgli una com-piuta dottrina alternativa. Egli, infatti, nella questione titolata Utrum necesse sit

66 Per la cronologia delle opere di Alnwick si veda G. ALLINEY, «Quaestiones de tempore» o II «Sent.»,d. 2, qq. 1-3? Chiarimenti sulla tradi zione manoscritta di Guglielmo di Alnwick, «Archivum Francisca-num Historicum», 92 (1999), 1-2, p. 138.

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voluntatem frui ultimo fine sibi ostenso a ratione, espone l’opinione di Scoto se-condo la quale il fine ultimo è voluto contingentemente in qualunque modo siaconosciuto per poi concludere che, benché questa opinione sia molto probabile,essa non è tuttavia accettabile perché la volontà, così come rifiuta necessaria-mente il male, altrettanto necessariamente vuole il bene67. Sostenendo così unateoria del tutto estranea alle idee di base del volontarismo scotiano, Alnwick di-fende dunque la necessità della fruizione non solo in patria ma anche in via68,allontanandosi così dalle posizioni moderate e in una certa misura ambigue pro-prie dell’ambiente parigino – si pensi a Ugo di Novocastro e a Giovanni di Bas-soles – ma anche dalle opinioni che in quegli anni iniziano a diffondersi fra iteologi francescani inglesi.

Nonostante l’apparente coincidenza fra le rispettive soluzioni generali, ladottrina di Alnwick non è una ripetizione di quella di Enrico di Gand, che ave-va appunto sostenuto la necessità della fruizione in ogni stato umano, ma è unadottrina originale che riesce a coniugare la posizione moderatamente contin-gentista ormai diffusa con una struttura di base necessitarista. In altre parole,Alnwick ritiene che la volontà umana, per quel che le compete, vuole semprecon necessità il bene perfetto, che per l’assenza di ogni elemento di malvagitàattira la volontà soddisfacendo del tutto la sua intrinseca propensione al bene69

– ed è proprio qui che il discepolo si allontana dal maestro, il quale aveva spie-gato che l’inclinazione al bene della volontà non è una virtus attiva che possamuovere la potenza, ma solo una disposizione passiva ad accogliere la perfezio-ne della potenza70.

Alnwick spiega però che questa tendenza naturale, di per sé necessaria, pro-duce l’atto dovuto solo quando sono date le condizioni che lo rendono possibile,

67 «Licet hec opinio sit multum probabilis, arguitur tamen sic contra eam, et primo contra primum ar-ticulum: voluntas necessario respuit malum, igitur necessario vult bonum» (GUILELMUS DE ALNWICK, InSent., I, dist. 1, q. 1, ed. G. Alliney, in ID., È necessario amare Dio? Una questione inedita di Guglielmodi Alnwick sulla fruizione beatifica, in G. ALLINEY / L. COVA (eds.), Parva Mediaevalia. Studi per MariaElena Reina, Pubblicazioni dell’Università di Trieste, Trieste 1993, pp. 87-128: p. 118, § 27.

68 «Dico igitur ad questionem quod, quocumque trium modorum posteriorum ostendatur obiectumfruibile, vel hoc in generali et obscure, vel in particulari et obscure, vel in particulari et clare, voluntasnecessario fruitur» (GUILELMUS DE ALNWICK, In Sent., I, dist. 1, q. 1, ed. Alliney, pp. 121-122, § 53).

69 A differenza di Enrico di Gand, Alnwick non ritiene però che l’azione della volontà verso il benesia naturale perché accetta la lezione scotiana dell’opposizione metafisica fra potenze naturali e potenzelibere: «[...] dico quod diversi modi agendi formales arguunt diversas potentias, non autem materiales,nec autem agere contingenter et necessario sunt modi formales; agere vero per modo nature et per modolibertatis sunt diversi modi formales» (GUILELMUS DE ALNWICK, In Sent., I, dist. 1, q. 1, ed. Alliney, p. 128,§ 86).

70 «Dico quod voluntas naturalis, ut sic, non est voluntas, neque potentia, sed tantum dicit inclina-tionem potentiae ad recipiendum perfectionem, non ad agendum [...]; unde naturalis voluntas non tendit,sed est ipsa tendentia, qua voluntas absoluta tendit, et hoc passive ad recipiendum» (IOANNES DUNS SCO-TUS, Opus oxoniense, III, dist. 17, q. un., ed. Wadding, VII, p. 380, § 5).

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e in particolare la perfetta conoscenza dell’oggetto da parte dell’intelletto, mauna tale conoscenza non è possibile nel nostro stato presente, in cui l’attività ra-zionale è ostacolata dagli appetiti sensibili che conseguono all’unione con il cor-po71. Non si tratta perciò di una necessità assoluta che possa essere contrastatasolamente da qualcosa che ne vinca la natura, come è il caso della pietra che,quando cade, può essere fermata solo da un sostegno che freni la sua tendenzaverso il basso, e che per questo è un ostacolo in senso proprio72. Si tratta, inve-ce, della necessità condizionata di un principio che agisce necessariamente pre-supponendo però l’azione di un altro agente. Nel caso della volontà la premessache ne condiziona la necessità è l’azione dell’intelletto che deve presentarle l’og-getto di cui fruire. La mancata conoscenza dell’oggetto beatifico, tuttavia, non èun ostacolo in senso proprio, perché non si tratta di un vincolo che supera la ten-denza della volontà, ma solo di un impedimento che ne contrasta l’esplicarsi73 –tanto più che l’atto intellettivo è normalmente in potere della volontà, trannequando le immagini sensibili interferiscono con i suoi ordini, impedendo così lacontinua contemplazione intellettuale del fine74.

71 «[...] quantum est ex parte voluntatis eque intense et equaliter fruetur si eque perfecte ostendituret non sunt aliunde impedimenta, sed nunc non equaliter ostenditur et multa prius sunt occursa impedi-menta ut distractio, infirmitas et huiusmodi. Sic inclinatio appetitus sensitivi ordinatur ad alia cuius in-clinationem magis sequitur homo dum est in hoc corpore quod aggravat animam quantum intensionemvel inclinationem appetitus irrationalis» (GUILELMUS DE ALNWICK, In Sent., I, dist. 1, q. 1, ed. Alliney, p.126, § 70).

72 Per la volontà l’ostacolo in senso proprio è rappresentato dalla sua stessa malvagità, che può dive-nire invincibile: si veda il testo nella nota seguente.

73 «[...] necessitas est duplex, scilicet absoluta et conditionata, ita et agens necessarium est duplex,et dico agens necessarium necessitate absoluta quod non potest impediri in actionem suam nisi per ali-quod vincens naturam suam; agens vero necessarium ex conditione dico quod agit presupponendo aliudvel actionem alterius. Dico igitur quod maior (il riferimento è al sillogismo “si voluntas velit finem ulti-mum necessario, igitur intellectus necessario intelligeret semper ultimum finem”) est vera primo modo,non secundo, precipue quando actio alterius est in potestate sua sicut in proposito: actio intellectus pre-supposita est in potestate voluntatis. Ad probationem dico quod grave necessitatur primo modo, undenon est simile. [...] dico quod est duplex impedimentum, scilicet proprie dictum, quod vincit virtutemactivam agentis, sicut columpna vincit virtutem gravis quoad descensum, et large dictum in quantumscilicet est aliquid presuppositum ab aliquo, cuius cessatione posita non potest aliquid eveniri, non ta-men vincere eius virtutem. Primo modo verum est, unde quando est tanta tristitia in voluntate quod ab-sorbet virtutem eius ita quod non potest tendere in finem, voluntas removet istam si potest, si non sit ali-quid impedimentum; secundo modo non, et precipue quando cessatio talis posita est in potestate sua,sed isto modo est in proposito» (GUILELMUS DE ALNWICK, In Sent., I, dist. 1, q. 1, ed. Alliney, pp. 123-124,§§ 59-61).

74 «Aliter potest ad hoc dicere, concessa maiore, quod minor (si veda il sillogismo a cui si fa riferi-mento nel testo della nota precedente) ut videtur non est vera quia non videtur esse in potestate volun-tatis tenere intellectum semper in consideratione finis, immo experimur quod non potest tenere per unamdiem interam in consideratione unius conclusionis, et causam huius assignat Augustinus, I De libero ar-bitrio <capitulo> 5, quod non est in potestate nostra quibus visis tangamur. Secundum enim quod phan-tasma fortius movet intellectum, natum est fortius intellectu, nec est in potestate voluntatis quod sensi-bile occurrat intellectui» (GUILELMUS DE ALNWICK, In Sent., I, dist. 1, q. 1, ed. Alliney, p. 124, § 63).

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In base a queste premesse, di fatto solamente la fruizione in patria è opera-tivamente necessaria, e di conseguenza gli argomenti che Alnwick sviluppa a so-stegno della propria posizione trattano soltanto il caso particolare dell’azione delbeato nei confronti dell’essenza divina. Schematicamente, si possono riportarein questo modo: I) colui che vede l’essenza divina la giudica sommamente voli-bile, perciò se non la volesse peccherebbe, in contraddizione con il suo stato dibeato75; II) se il beato potesse non fruire di Dio, non sarebbe certo della beatitu-dine, quando invece tale certezza ne è parte integrante76; III) Dio, che ha ogni ca-ratteristica di bene, attira la volontà secondo la sua naturale inclinazione, e per-ciò non può non essere voluto77; IV) la volontà conviene a Dio e all’uomo univo-camente; dunque, se la perfezione della libertà comportasse poter agire semprecontingentemente, così agirebbe anche la volontà divina, il che è falso; perciò lalibertà non implica la contingenza78; V) la volontà può rifiutare solo il male e vo-lere solo il bene; ma l’essenza divina non ha alcuna caratteristica malvagia, percui chi la vede la deve volere necessariamente79.

Per quanto innovativa, la dottrina di Alnwick si è in ogni caso formata nel vi-vace ambiente della capitale francese di cui Bassoles ci ha descritto le dispute;non deve perciò stupire che dei cinque argomenti principali avanzati a sostegnodella propria tesi tre siano notevolmente simili a quelli esposti proprio da Bas-

75 «Ideo aliter arguo ad principale sic: quicumque iudicat aliquid summe diligibile, et a se summedebere diligi, si non diligit peccat, quia dimittit illud ad quod iudicat se teneri; sed videns divinam essentiam iudicat eam summe diligibilem et ab eo debere summe diligi, igitur non potest non diligere ni-si peccet; sed videns divinam essentiam non potest peccare, ergo» (GUILELMUS DE ALNWICK, In Sent., I, di-st. 1, q. 1, ed. Alliney, p. 120, § 40).

76 «Preterea, secundum Augustinum, magna pars beatitudinis est certitudo continuationis. Sed si vo-luntas beati posset non frui, nullus beatus posset esse certus de sua beatitudine, cum non sit necessitasa parte obiecti voluntatis, nec sit certitudo ad qualem partem se determinet voluntas in futuro, quia de fu-turis contingentibus non est determinata veritas. Igitur non est perfecte beatus» (GUILELMUS DE ALNWICK,In Sent., I, dist. 1, q. 1, ed. Alliney, p. 120, § 41).

77 «Preterea, voluntas allecta ad fruendum quantum allici nata est, necessario fruitur. Sed videndoDeum est voluntas sic allecta, quia ostensum est sibi quicquid natum est allicere voluntatem cum sit ibiomnis ratio boni. Ergo. Maior patet ex opposito: si enim non potest frui, vel potest non frui, potest ad fruen-dum allici et per consequens non est tantum allecta quantum nata est allici» (GUILELMUS DE ALNWICK, InSent., I, dist. 1, q. 1, ed. Alliney, p. 120, §§ 42-43).

78 «Preterea, voluntas, ut dicit perfectionem simpliciter, eque convenit Deo et creaturis, et secundumistos univoce. Ergo, si de perfectione voluntatis vel libertatis sit posse in omnia contingenter, igitur vo-luntas divina potest in omnia contingenter, et per consequens in essentiam propriam, quod est falsum. Igi-tur oportet dicere, secundum eos, quod non est de perfectione libertatis posse in opposita» (GUILELMUS DE

ALNWICK, In Sent., I, dist. 1, q. 1, ed. Alliney, p. 120, § 44).79 «Preterea, Anselmus, De casu diaboli, innuit talem rationem quia sancti non possunt peccare sicut

voluntas non potest velle nisi sub ratione boni, ita nec respuere nisi sub ratione mali. Sed videns divinamessentiam nihil mali videt ibi, ergo. Unde dicit sic: beati angeli tantum sunt adepti et vident quantum ap-petere possunt, et ideo non possunt avertere se ad aliquid aliud appetendum, nec peccare» (GUILELMUS DE

ALNWICK, In Sent., I, dist. 1, q. 1, ed. Alliney, p. 120, § 45).

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soles nella sua lunga questione – il primo argomento sulla peccabilità del bea-to80, il secondo argomento sulla certezza della beatitudine81 e il quarto argo-mento sull’univocità della volontà82. Non si tratta certamente di citazioni, per-ché l’esposizione di Alnwick è più ampia e di conseguenza diversa sia nella let-tera sia nell’andamento; è difficile, tuttavia, non imputare al comune entourageminorita francese la condivisione di queste argomentazioni, in particolare quel-le riguardanti la capacità di peccare del beato e la perpetuità della beatitudine,che paiono essere il risultato della disamina teologica della dottrina scotiana adopera dei confratelli parigini. Dunque le discussioni testimoniate dalla questio-ne di Bassoles, e gli stessi dubbi di Ugo di Novocastro e dello stesso Bassoles,ora si risolvono in una presa di posizione fermamente contraria alla dottrina delScoto, e proprio per opera di chi gli era stato segretario ed allievo.

Durante la reggenza oxoniense Alnwick sottopone a revisione il proprio Com-mento, ma non per questo le sue ragioni si avvicinano alla caratteristica linea ar-gomentativa sviluppata ad Oxford negli anni precedenti al suo arrivo – e cioèche la volontà vuole con necessità l’essenza divina perché non ha motivo per vo-lere altro. Al contrario, Alnwick ritiene che l’assenza di ogni caratteristica mal-vagia non rappresenti solamente un defectus cur compatibile con la contingenza– per citare i testi inglesi prima esaminati –, ma una vera impossibilità per ilbeato, che ne è necessariamente attratto. È invece rilevabile quanto meno unaconvergenza di opinioni nella soluzione che Alnwick propone ad una delle piùdiscusse argomentazioni di Scoto, quella – già presa in considerazione da Co-nington e dall’autore della Collatio 21 – dell’impossibilità da parte di una po-tenza che agisce per soli motivi intrinseci di passare dalla contingenza in via al-la necessità in patria. In realtà Alnwick non avrebbe bisogno di affrontare l’ar-gomento scotiano, dato che egli ritiene che, a meno di ostacoli esterni, ogni azio-ne della volontà nei confronti del fine ultimo sia sempre necessaria, e che per-ciò non abbia luogo alcun cambiamento di modalità: come egli stesso precisa, ilragionamento di Scoto «suppone il falso, cioè che la volontà possa non predili-gere il fine ultimo presentato in generale»83.

80 «Tum quia voluntas stante visione Dei in intellectu posset peccare si posset non velle et sic essemisera» (IOANNES DE BASSOLES, In Sent., I, dist. 1, q. 3, art. 3, ed. Parisiis 1516, f. 43rb).

81 «Tum quia non esset aliunde assignare causam certitudinis de beatitudine ex quo voluntas possetnon frui» (IOANNES DE BASSOLES, In Sent., I, dist. 1, q. 3, art. 3, ed. Parisiis 1516, f. 43rb).

82 «Tum quia voluntas creata est univoce cum voluntate increata secundum adversarios, ergo vult ali-quid necessario sicut illa, hoc non videtur <nisi> Deus clare visus etc., quare etc. Dicunt etiam plus quodDeus non posset oppositum scilicet quod stante visione voluntas non fruetur» (IOANNES DE BASSOLES, InSent., I, dist. 1, q. 3, art. 3, ed. Parisiis 1516, f. 43rb).

83 «Ad responsionem [...] dico: primo, quod supponit falsum, et quod esset pro beatitudine, scilicetquod voluntas, ostenso ultimo fine in generali vel in particulari, potest non ferri in illud» (GUILELMUS DE

ALNWICK, In Sent., I, dist. 1, q. 1, ed. Alliney, p. 126, § 75).

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Ciò nonostante Alnwick spiega come questo cambiamento possa operativa-mente avvenire, chiarendo che l’insorgere della nova necessitas così perentoria-mente escluso da Scoto è invece possibile anche in assenza di un mutamento so-stanziale della potenza: è infatti sufficiente che muti il rapporto fra l’oggetto e lapotenza, così come succede nel caso del combustibile prima bagnato e poiasciutto o, meglio, prima distante e poi vicino al fuoco. Nel caso del fine ultimo,questo nuovo rapporto deriva dalla maggiore chiarezza con cui è presentato l’og-getto, che di conseguenza attira maggiormente la volontà84, superando così le di-strazioni sensibili. Come si vede, si tratta di una soluzione assai simile a quellaproposta dall’autore della Collatio 21, e che, collegandosi poi con le discussio-ni sulla conoscenza astrattiva e intuitiva inaugurate anch’esse da Scoto, negli an-ni a venire avrà molto seguito fra gli scotisti moderati, come ad esempio Gu-glielmo di Rubione.

I termini specifici delle teorie gnoseologiche del periodo vengono introdotti peropera dell’altro teologo francescano precedentemente citato, Pietro Aureolo. Ilsuo Commento alle Sentenze, composto a Parigi fra il 1316 e il 131885, si diffon-de rapidamente anche oltre Manica, dove è noto già nel 1318, un paio d’anni do-po il commentario di Alnwick.

Aureolo prende consapevolmente le distanze dai dibattiti francescani del pe-riodo quando afferma che «la difficoltà che oggi si ha riguardo alla definizioneformale della libertà nasce da questo errore, che si pensa che essere liberi e ave-re potere sulle proprie azioni siano la stessa cosa»86. Il teologo francese analiz-za poi i modi degli atti volontari e naturali per concludere che sia gli uni sia glialtri possono essere a volte necessari, a volte contingenti: non c’è una regolaritàdella causazione naturale che non ammetta eccezioni, come è esemplato dal fat-to che «a volte i vecchi non incanutiscono»87, né c’è un controllo delle proprie

84 «[...] conceditur quod ibi sit nova necessitas, non tamen propter aliquid novum intrinsecum abso-lutum, nec hoc oportet, sed propter novam habitudinem potentie ad obiectum; nam ex nova habitudinenecessaria creatur nova necessitas agendi, sicut patet de calefactivo et aliquo calefactibili prius humidoet postea sicco vel prius distante et postea approximato. Talis autem habitudo creatur ex hoc quod obiec-tum, prius obscure visum, postea videtur clare, et per consequens magis ostenditur, et ita voluntas magisallicitur <quam> prius. Tamen est habitudo ista in obiecto quantum in voluntate, licet tenent secundumrationem, quia non est in essentia secundum se, sed in comparatione ad potentiam» (GUILELMUS DE

ALNWICK, In Sent., I, dist. 1, q. 1, ed. Alliney, p. 127, § 77).85 Per la datazione si veda FRIEDMAN, The «Sentences» Commentary cit., p. 82.86 «[...] ex hac deceptione oritur difficultas, que habetur hodie circa formalem rationem libertatis, quia

putant homines quod idem sit esse liberum et habere dominium sui actus» (PETRUS AUREOLUS, Scriptumin I Sent., dist. 1, sect. 8, ed. E.M. Buytaert, The Franciscan Institute, St. Bonaventure (N.Y.) 1952, p.451, § 120).

87 «Natura etiam est eadem potentia, et tamen movetur contingenter et raro et movetur necessario etimmutabiliter, sicut patet quod senes aliquando non canescunt» (PETRUS AUREOLUS, In I Sent., dist. 1, sect.8, ed. Buytaert, p. 448, § 108).

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azioni da parte degli agenti volontari che escluda ogni forma di necessità, comeè evidente in Dio, che si ama nel modo più libero possibile, e tuttavia immuta-bilmente88. Bisogna quindi abbandonare ogni rigida connessione fra le modalitàdell’azione e le caratteristiche del principio.

In realtà, questa conclusione non è particolarmente rivoluzionaria: non solonessun teologo dell’epoca aveva mai sostenuto che la libertà implicasse imme-diatamente la possibilità di scelta dato che – quanto meno in Dio dove è più per-fetta – essa è connessa alla necessità assoluta, ma alcuni di essi, come Enricodi Gand, l’avevano esplicitamente escluso89. La nuova prospettiva di Aureoloconsiste dunque non tanto nel limitare la connessione fra contingenza e libertàa casi specifici – operazione che, se pur in maniera diversa, era stata compiutaanche da Scoto –, quanto nell’abbandonare questa linea di indagine per un’al-tra a suo parere più proficua, basata sulla separazione nel comportamento uma-no dell’aspetto potestativo dall’aspetto affettivo. Detto altrimenti: se il dominiosui propri atti non è la caratteristica costitutiva dell’essere liberi, allora questacaratteristica andrà cercata altrove, con un procedimento di indagine empiricatipico di Aureolo che prende avvio dall’indagine fenomenologica dell’atto libe-ro: «Chiunque venga interrogato sul motivo di un’azione, risponderà perché co-sì mi piace. Se lo si interroga sul perché così gli piaccia, risponderà ancora per-ché mi piace, come se fosse evidente che il piacere è in suo potere e non neces-sita di alcuna causa». Dunque, l’unico imprescindibile elemento distintivo cheaccomuna ogni azione libera è il piacere provato dall’agente nel compierla. Lavolontà è allora costitutivamente libera perché è una potenza che produce sem-pre atti dettati dal compiacimento90. Questa nuova concezione della libertà si

88 «Non est idem liberum et dominativum actus, alioquin Pater et Filius non spirarent libere, cum nonpossint dominative suspendere actum spirationis; nec etiam Deus libere se amaret» (PETRUS AUREOLUS, InI Sent., dist. 1, sect. 8, ed. Buytaert, p. 451, § 120).

89 «[...] de ratione libertatis simpliciter non est posse velle et non velle, ut dicunt aliqui de contrariaopinione, sed affectualiter solum et quasi eligibiliter velle» (HENRICUS DE GANDAVO, Summa quaestionumordinariarum, a. 47, q. 5, ed. Badius., f. 28v, Z).

90 «[...] formalis ratio libertatis consistit in potentia ex actu complacentie et delectationis. Actus enimcomplacentie est formaliter liber; potentia autem, que quidquid agit agit ex complacentia, dicitur libera;nec aliquid aliud exigitur ad rationem libertatis. Et quod hoc sit verum, potest multipliciter declarari. Li-berum enim dicitur quod est gratia sui [...]. Sed solus actus complacentie est gratia sui; quod patet, quiaultimo reducitur pro causa omnis actus. Interrogatus enim unusquisque de quovis opere cur sic agit, re-spondet quia placet mihi. Ulterius autem interrogatus quare placet, respondebit quia placet, ac si sit perse notum quod placere est sui gratia, nec oportet quod habeat aliquam causam. Nullus autem alius actusvidetur esse gratia sui. Ergo solus actus complacentie est liber formaliter» (PETRUS AUREOLUS, In I Sent.,dist. 1, sect. 8, ed. Buyatert, pp. 449-450, § 114). Aureolo spiega poco oltre che «Remota enim contin-gentia potentie circa actum, utpote quia non possit actum suspendere, adhuc remanet libertas si adsitcomplacentia, ut patet quia Deus liberrime diligit se, quia complacenter quamvis immutabiliter; et Spiri-tus Sanctus emanat liberrime quia per modum complacentiae, quamvis emanet necessitate nature. Posi-ta autem contingentia et remota complacentia, nullo modo est ibi libertas, ut patet in agentibus naturali-

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colloca in maniera originale nel panorama dottrinale dell’epoca, ed implica an-che alcune conseguenze relativamente sorprendenti, come il fatto che lo stessoappetito sensitivo sia in qualche misura libero, e di conseguenza risultino libe-ri gli agenti irrazionali capaci di provare spontaneamente piacere, come i bam-bini e gli animali91.

Riguardo alla questione che in quegli anni accende i dibattiti scolastici, Au-reolo assume la posizione maggiormente condivisa: la fruizione è contingente invia, necessaria in patria92. Come è forse prevedibile, data la formazione parigi-na del suo autore, le motivazioni di questa posizione sono distanti da quelle ad-dotte dai teologi inglesi (il defectus cur), e semmai più vicine ad alcune sugge-stioni presenti nella questione di Bassoles. L’assunto di base è che ogni bene at-tira in una certa misura l’amore e il piacere della volontà93, tanto che questa nonpuò allontanarsene se non a ragione di un bene in cui compiacersi maggior-mente94. La volontà, però, non desidera necessariamente il bene sommo cono-sciuto astrattivamente perché esso è colto nel concetto come universale, dotatocioè di un essere intenzionale che rappresenta solo potenzialmente la sua rea-lizzazione nell’individuale concreto – cioè Dio. Data la superiorità dell’indivi-duo rispetto al concetto, questa potenzialità implica una mancanza di bene e diperfezione, e per questo motivo la volontà non desidera necessariamente il be-ne così concepito95. Quando Dio è colto intuitivamente in patria, invece, la vo-

bus, in quibus est contingentia absque libertate. Ergo ratio libertatis consistit in complacentia» (PETRUS

AUREOLUS, In I Sent., dist. 1, sect. 8, ed. Buytaert, pp. 450-451, § 117).91 «[...] sine dubio verum est, quod pueri et animalia voluntarium et spontaneum participant, et per

consequens libertatem, sicut expresse dicit Philosophus III Ethicorum. Electioni autem et dominativo ac-tus non participant, pro eo quod non habent actum in potestate sua. Non est idem liberum et dominati-vum actus, alioquin Pater et Filius non spirarent libere, cum non possint dominative suspendere actumspirationis; nec etiam Deus libere se amaret» (PETRUS AUREOLUS, In I Sent., dist. 1, sect. 8, ed. Buytaert,p. 451, § 120).

92 «[...] fine ultimo qualitercumque citra intuitivam notitiam apprehenso, voluntas non de necessita-te elicit actum complacentie aut desiderii respectu illius» (PETRUS AUREOLUS, In I Sent., dist. 1, sect. 8,ed. Buytaert, p. 457, § 130).

93 «[...] aliqua ratio bonitatis, finita tamen, inducit in voluntate aliquem gradum difficultatis ita ut nonpossit voluntas sine difficultate aliqua resilire» (PETRUS AUREOLUS, In I Sent., dist. 1, sect. 8, ed. Buytaert,p. 454, § 123).

94 «[...] voluntas non potest a bono aliquo resilire, nisi ratione alicuius in quo amplius complacet»(PETRUS AUREOLUS, In I Sent., dist. 1, sect. 8, ed. Buytaert, p. 455, § 128).

95 «Illud namque non necessario voluntas desiderat, aut nec in illo necessario delectatur, in quo de-fectum boni reperit et rationem alicuius mali. Lata enim super illam rationem mali aut defectum boni, ap-paret quod non necessario complacebit. Sed bonum summum apprehensum in universali habet ut sit ap-prehensum defectum boni et rationem alicuius mali. Universale enim est in potentia; et idcirco in uni-versali apprehenso, capitur sub quadam imperfectione. Unde in esse cognito est imperfectum, puta po-tentiale, obscurum, non satians, non quietans; que omnia includunt rationem alicuius defecti et mali. Er-go non apparet qualiter sic conceptum necessitet voluntatem ad complacendum in se et delectabiliterquiescendum» (PETRUS AUREOLUS, In I Sent., dist. 1, sect. 8, ed. Buytaert, p. 457, § 130).

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lontà è attratta da un bene infinito realmente esistente. Ora, lo sforzo per resi-stere all’attrazione di ogni bene particolare è commisurato al grado del bene stes-so, così che maggiore è il bene, maggiore è la difficoltà della volontà ad oppor-si. Ma se il bene è infinito, non basterà neppure uno sforzo infinito per resister-gli, dato che la resistenza non deve solo eguagliare la forza attrattiva, bensì es-serle superiore, ma l’infinito non ha gradi96. Dunque, in questo caso la volontàumana raggiunge quella necessità che, a differenza della contingenza, è una per-fezione assoluta97.

Per il tentativo di ricostruzione qui operato è interessante osservare alcuneulteriori caratteristiche del pensiero di Aureolo che lo pongono più strettamen-te a contatto con le discussioni parigine del suo tempo. Si è detto come uno deinuovi argomenti giocati contro Scoto fosse quello dell’impeccabilità del beato edella perpetuità della beatitudine; anche Aureolo prende avvio da questa preoc-cupazione teologica per affermare che è proprio per garantire la stessa beatitu-dine che bisogna ammettere l’incapacità di peccare del beato, dato che la sicu-rezza della durata è una parte essenziale della felicità connessa allo stato beati-fico98. Aureolo analizza questo aspetto notando che la volontà del beato, dopo laconfermazione divina, non può più peccare; ma questo passaggio dalla peccabi-lità all’impeccabilità non deriva dall’abito della carità, perché esso non è unacaratteristica esclusiva del beato ma può essere eccezionalmente ottenuto anchein via, né dall’azione della volontà divina, perché in questo caso la volontà del-la creatura subirebbe una violenza. È dunque il rapporto fra la potenza e l’og-getto che rende impeccabile il beato99, dato che nessuna potenza è dotata di una

96 «[...] omnis motiva ratio, que in aliquo gradu existens, inducit difficultatem resiliendi a seipsa involuntate, in gradu infinito existens inducit resiliendi impossibilitatem. Constat enim quod voluntas,quanto cum maiori difficultate movetur, tanto movetur cum maiori conatu. Conatus autem voluntatis fini-tus est. Restat igitur ut, si ab aliqua ratione finita voluntas resilire non possit sine difficultate et conatuad oppositum, quod tantum intendatur conatus quantum intendetur illa ratio; et per consequens, si fiat in-finita, necesse est quod voluntas debens resilire ab ea, resiliat cum infinito conatu; immo nec posset re-silire, quia virtus resiliens habet excedere difficultatem et vincere eam. Infinitus autem conatus non ex-cederet infinitam difficultatem; et per consequens, non vinceret eam, quia infinito non est maius. Sed ra-tio bonitatis, in gradu finito existens, inducit in voluntate difficultatem a se resiliendi» (PETRUS AUREO-LUS, In I Sent., dist. 1, sect. 8, ed. Buytaert, p. 453, § 123).

97 «Necessitas enim et contingentia sic opponuntur, quod necessitas est perfectio simpliciter, contin-gentia vero non» (PETRUS AUREOLUS, In I Sent., dist. 1, sect. 8, ed. Buytaert, p. 456, § 129).

98 «[...] aut voluntati attribuitur hoc privilegium, quod viso Deo possit suspendere dilectionis actum [...]ut salvetur eius defectus, qui est peccabilitas. [...] Nec etiam potest attribui ut salvetur defectus eius quiest peccabilitas [...] quia, si peccabilitas et mobilitas ac vertibilitas in malum est inseparabilis a voluntateintellectuali causata, non est capax status beatifici et felicis, cum de ratione beatifici status sit immobili-tatio et perpetuari in eo» (PETRUS AUREOLUS, In I Sent., dist. 1, sect. 8, ed. Buytaert, pp. 456-457, § 129).

99 «[...] relinquitur quod confirmatio ista proveniat vel ex conditione potentie in ordine ad obiectum,vel ex conditione habitus quodammodo alligantis ad ipsum. Non potest autem poni quod sit ex conditio-ne habitus, quia caritas forte in eodem gradu potest esse in viatore et comprehensore [...]. Unde et Pau-

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necessità o di una contingenza assolute, ma solo in relazione agli oggetti versocui agisce100.

Come si può notare, si tratta di una soluzione che si è già visto sostenuta dal-l’autore delle Collationes oxonienses: in questo periodo in cui le novità scotianevengono valutate criticamente accade spesso che elementi dottrinali facciano laloro comparsa in teorie anche diverse fra loro, come è qui il caso. A differenzadell’autore delle Collationes, infatti, Aureolo indica alla speculazione del suotempo una direzione diversa, non più centrata sulle distinzioni formali fra i variaspetti metafisici delle potenze, ma su una più diretta presa empirica sul reale.

7. La reazione scotista a Oxford: Giovanni di Reading

A dieci anni dalla morte di Scoto nessun teologo francescano inglese sembradunque aver difeso le posizioni autenticamente scotiane. Le dottrine elaboratein questo periodo oscillano fra diverse forme di prudenti revisioni del volontari-smo del secolo precedente: dalla sostanziale ripetizione della posizione di Enri-co di Gand effettuata da Cowton alle diverse declinazioni della nuova posizioneche – accogliendo almeno parzialmente gli esiti della riflessione scotiana – li-mita la necessità della fruizione al solo beato operata da Conington e dall’auto-re delle Collationes fino alla più originale dottrina di Alnwick, che riesce a con-ciliare in modo nuovo la necessità e la contingenza nella fruizione in via. A com-plicare ulteriormente il panorama dottrinale dell’isola interviene nel dibattitoanche Pietro Aureolo che, pur difendendo una posizione sufficientemente diffu-sa – contingenza in via, necessità in patria –, reimposta tuttavia la questione conl’impiego di materiali concettuali del tutto nuovi.

Non possono di conseguenza stupire le notevoli dimensioni della questionededicata alla difesa della contingenza della fruizione in via come in patria inse-rita nel Commento alle Sentenze di Giovanni di Reading, baccelliere sentenzia-rio a Oxford intorno al 1316-1317 e primo teologo francescano a sostenere in In-ghilterra la posizione di Scoto. Nella difesa della dottrina del Maestro, Readingtratta brevemente anche le posizioni dottrinali legate alla tradizione gandianache ammettono la necessità della fruizione in ogni caso, rappresentate sia da Ro-

lus habuit equalem habitum caritatis post raptum, cum habitu quam habebat in raptu. Cum igitur in vianon sit confirmatio voluntatis, apparet quod non est ex habitu. Relinquitur ergo quod sit ex presentiaobiecti» (PETRUS AUREOLUS, In I Sent., dist. 1, sect. 8, ed. Buytaert, p. 453, § 122).

100 «[...] nulli enim potentie inest necessitas aut contingentia absolute, sed in ordine ad diversa obiec-ta et materias super quas transit [...] et ideo voluntas respectu aliquorum obiectorum poterit agere con-tingenter; respectu autem divine bonitatis non» (PETRUS AUREOLUS, In I Sent., dist. 1, sect. 8, ed. Buytaert,p. 456, § 129).

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berto Cowton sia da Riccardo Drayton, che fa più modernamente uso del nuovolinguaggio concettuale inaugurato da Riccardo di Conington. Tuttavia, il teolo-go inglese concentra la sua attenzione quasi esclusivamente sul commentario diPietro Aureolo, che si sta diffondendo nell’isola proprio nel periodo della com-posizione e della rielaborazione del Commento readinghiano, che è per altro sog-getto a revisioni per più di un quinquennio101.

I motivi di questa scelta sono del tutto comprensibili: in primo luogo Aureo-lo è un teologo che, a differenza di altri, non rifiuta solamente le conclusioni piùestreme, ma lo stesso apparato concettuale di Scoto, ponendo così il proprio co-me un pensiero del tutto alternativo a quello scotiano. Inoltre, in I Sent., d. 1,sect. 8 Aureolo sottopone ad una critica puntuale la dottrina di Scoto analizzan-done meticolosamente una delle questioni al tempo considerate più rappresen-tative del suo pensiero (Ord., I, d. 1, p. 2, q. 2) e individuando nel testo delloscozzese ben tredici argomenti che egli giudica errati102. Si tratta, in altre paro-le, di un attacco in grande stile che va ben oltre gli atteggiamenti sicuramentecritici, ma senz’altro più cauti degli altri teologi, una sfida alla quale Readingnon può quindi sottrarsi.

Se queste osservazioni possono spiegare a sufficienza la centralità della po-lemica con Aureolo nella questione di Reading, resta tuttavia in qualche misu-ra sorprendente il fatto che il teologo inglese non prenda in considerazione laposizione di Guglielmo di Alnwick, appena giunto da Parigi per ricoprire la ca-rica di magister regens. Certo Reading non poteva ignorarne la presenza nellacittà universitaria inglese, come è per altro provato dalle vivaci polemiche fra idue francescani sul tema dello statuto scientifico della teologia103; è perciò ve-rosimile che la grande varietà di avversari abbia consigliato il teologo inglese di

101 Per i problemi legati alla cronologia assoluta e relativa del commentario readinghiano si veda AL-LINEY, Fra Scoto e Ockham cit., pp. 275-276.

102 I passi citati da Reading sono i seguenti: PETRUS AUREOLUS, Scriptum in I Sent., dist. 1, sect. 8, ed.Buytaert, p. 446, § 101 (citato in IOANNES DE READING, In Sent., I, dist. 1, q. 6, ed. Alliney, p. 313, § 86);dist. 1, sect. 8, ed. Buytaert, pp. 446-447, § 102 (citato in IOANNES DE READING, In Sent., I, dist. 1, q. 6,ed. Alliney, pp. 318-319, § 110); dist. 1, sect. 8, ed. Buytaert, p. 447, § 103 (citato in IOANNES DE REA-DING, In Sent., I, dist. 1, q. 6, ed. Alliney, p. 321, § 118); dist. 1, sect. 8, ed. Buytaert, p. 447, § 104 (ci-tato in IOANNES DE READING, In Sent., I, dist. 1, q. 6, ed. Alliney, p. 320, § 114); dist. 1, sect. 8, ed. Buy-taert, p. 447, § 105 (citato in IOANNES DE READING, In Sent., I, dist. 1, q. 6, ed. Alliney, p. 323, § 132); di-st. 1, sect. 8, ed. Buytaert, p. 447, § 106 (citato in IOANNES DE READING, In Sent., I, dist. 1, q. 6, ed. Alli-ney, p. 324, § 138); dist. 1, sect. 8, ed. Buytaert, p. 448, § 108 (citato in IOANNES DE READING, In Sent., I,dist. 1, q. 6, ed. Alliney, pp. 325-326, § 148); dist. 1, sect. 8, ed. Buytaert, p. 448, § 109 (citato in IOAN-NES DE READING, In Sent., I, dist. 1, q. 6, ed. Alliney, p. 328, § 163); dist. 1, sect. 8, ed. Buytaert, p. 448,§ 110 (citato in IOANNES DE READING, In Sent., I, dist. 1, q. 6, ed. Alliney, p. 328, § 164); dist. 1, sect. 8ed. Buytaert, p. 448, § 111 (citato in IOANNES DE READING, In Sent., I, dist. 1, q. 6, ed. Alliney, p. 328, §165). Le repliche di Reading seguono immediatamente ciascun argomento.

103 Si veda J. PERCAN, Teologia come scienza pratica secondo Giovanni di Reading, Ad Claras Aquas,Grottaferrata 1986, p. 23* e pp. 84*-85*.

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concentrarsi sulle personalità al momento più rappresentative dell’ambienteuniversitario oxoniense – come Cowton, Drayton e Sutton – o più pericolose dalpunto di vista dottrinale – come Aureolo – senza disperdersi in polemiche congiovani teologi meno influenti di Cowton e meno originali di Aureolo. Questaipotesi spiegherebbe anche il limitato impatto sul testo di Reading delle con-temporanee, e a lui ben note, teorie occamiane – ma di questo si parlerà poi.

In ogni caso, la questione di Reading è molto importante per ricostruire letappe della ricezione del pensiero di Scoto in Inghilterra, e per questo convienesoffermarsi adeguatamente sulla sua analisi. La polemica Scoto-Aureolo-Rea-ding è giocata con acribia testuale: se Aureolo aveva attaccato tredici passi del-la questione di Scoto, Reading prende a sua volta in esame dieci delle argo-mentazioni critiche di Aureolo per controbatterle in difesa del Maestro. Siamocosì di fronte al primo esplicito dibattito sulla saldezza degli stessi fondamentidottrinali del pensiero di Scoto, messi in discussione da Aureolo in base alla suaconcezione fondamentalmente antimetafisica delle potenze attive alla quale si ègià accennato. Ma quali sono le critiche mosse da Aureolo a Scoto?

Nella sostanza, esse si concentrano su alcuni aspetti ben precisi del pensie-ro di Scoto, in particolare sulla rigida connessione fra potenza e modalità in-trinseca del suo agire. Come si è già visto, Aureolo rifiuta tale connessione: sela volontà è libera in quanto agisce sempre con spontaneità e piacere, ciò nonimplica sempre la contingenza della sua azione. In realtà, questa affermazionenon è affatto in opposizione a quanto Scoto aveva sostenuto, e cioè che i modiintrinseci di una potenza sono immodificabili, ma i modi con i quali l’azione sicompie possono variare. Scoto aveva apertamente ammesso che i modi succes-sivi, cioè la necessità e la contingenza dell’atto, possono mutare in funzione dioggetti speciali, riferendosi in primo luogo all’oggetto infinito voluto dal sogget-to infinito – ovvero all’attività ad intra di Dio –, ma alludendo, nella q. 16 delsuo Quodlibet, anche agli eventi naturali. Ciò che oppone Aureolo a Scoto non èdunque la possibilità di mutamento del modo in cui l’atto viene esercitato, ma ilfatto che la diversa conoscenza dell’oggetto possa mutare la modalità dell’azio-ne anche nel caso della volontà umana nel passaggio dallo status viae allo statuspatriae. Ancora una volta – così come era accaduto con gli stessi allievi del teo-logo scozzese che si erano allontanati dal Maestro –, la posta più o meno consa-pevolmente in gioco è il fondamento ontologico-metafisico della questione, ov-vero la connessione fra i modi dell’essere (finito/infinito) e il modo di agire del-le potenze attive (contingente/necessario).

Tuttavia, i testi dove Scoto afferma l’inestinguibile contingenza della volontàcreata non permettono sempre di cogliere le motivazioni di metafisica ontologi-ca che la fondano, e insistono piuttosto sui motivi particolari per cui la volontànon può assumere la nova necessitas di cui abbiamo già parlato. In più, non sem-

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pre egli usa i termini nelle precise accezioni da lui stesso stabilite, dando cosìl’impressione al lettore che «libertà» e «contingenza» siano effettivamente si-nonimi, quando sarebbe più corretto affermare che nel modo finito dell’ente es-se si implicano a vicenda.

Sia per l’indubbia ambiguità di alcuni testi di Scoto, che avevano tratto in er-rore alcuni dei suoi stessi discepoli, sia per un malcelato intento polemico, leprincipali accuse che Aureolo muove a Scoto si basano proprio su questo frain-tendimento: che «libertà» e «contingenza» siano termini sinonimi. Per questo,Aureolo riassume impropriamente l’opinione di Scoto affermando che «una po-tenza ha un solo modo di agire, cioè o immutabile o contingente». Da qui è fa-cile per Aureolo sviluppare un’argomentazione critica che prende in considera-zione il diverso comportamento della volontà divina ad intra e ad extra e l’irre-golarità degli effetti degli agenti naturali per concludere che «la contingenza ela necessità non modificano la potenza perché non le competono in modo asso-luto, ma in rapporto agli oggetti», e dunque «non è inconveniente che la volontàagisca a volte con necessità a volte con contingenza»104.

Questa inesatta ermeneutica dei testi scotiani non è interessante solo cometestimonianza dell’incomprensione con la quale spesso viene valutata la teoriadella volontà di Scoto, ma anche per la risposta successivamente fornita da Rea-ding. Invece di esporre la dinamica scotiana fra le due coppie di trascendentalidisgiuntivi necessità/contingenza e natura/libertà, Reading avalla l’interpreta-zione di Aureolo e la controbatte con una citazione, tratta dalla stessa questionescotiana contestata da Aureolo, per la quale «ogni potenza ha un solo modo diprodurre l’azione, perché modi diversi implicano potenze diverse; dato allorache la volontà agisce liberamente verso le cose che sono ordinate al fine, in mo-do tale che può agire o non agire, agirà altrettanto liberamente anche nei con-fronti del fine»105. In questo modo Reading da un lato corrompe il passo scotia-no – in cui il Maestro intendeva escludere la sola necessità naturale dalla mo-

104 «Unius potentie est unus modus agendi, puta immobiliter vel contingenter. Sed divina voluntasuna est. Ergo si movetur respectu creaturarum contingenter, et respectu sue bonitatis contingenter move-bitur; vel si necessario et immutabiliter respectu sui, eodem modo respectu creaturarum; cuius opposi-tum ipsi dicunt. Natura etiam est eadem potentia, et tamen movetur contingenter et raro movetur neces-sario et immutabiliter, sicut patet quod senes aliquando non canescunt. Oritur autem ista diversitas ex va-rietate materie. Ergo et secundum varietatem obiectorum, non est inconveniens quod voluntas moveaturquandoque necessario quandoque contingenter. Unde contingentia et necessitas non variant potentiam,ut videtur, quia non insunt sibi absolute, sed in ordine ad obiecta; sicut patet de intellectu qui respectuprincipiorum immutabiliter verum dicit, respectu conclusionum potest verum et falsum dicere contin-genter» (PETRUS AUREOLUS, In I Sent., dist. 1, sect. 8, ed. Buytaert, p. 448, § 108).

105 «[...] arguitur: “unius potentie est unus modus eliciendi actum quia diversi modi operandi arguuntdiversas potentias; cum ergo libere voluntas feratur in ea que sunt ad finem – ita quod potest ferri vel nonferri – ergo et libere sic fertur in finem”» (IOANNES DE READING, In Sent., I, dist. 1, q. 6, ed. Alliney, p. 325,§ 145).

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dalità dell’atto volontario – inserendo l’inciso «in modo tale che può agire o nonagire», assente nel testo originale106, dall’altro conferma come spesso frettolosesemplificazioni – nelle quali Reading incorre anche altrove107 – possano com-promettere l’esatta comprensione della dottrina scotiana.

Nello sviluppo della questione, tuttavia, Reading chiarisce con sufficienteprecisione il suo pensiero, che è in realtà coerente con le intenzioni del Maestro.Ad esempio, egli recupera correttamente l’idea scotiana di univocità quandoconsidera che fra libertà creata e libertà divina non vi è un rapporto di unità rea-le, ma di univocità trascendentale che, come tale, non implica l’identità dellemodalità operative, e rifiuta così la critica per cui, se la stessa libertà competeall’uomo e a Dio, essa non può comportare in un caso la contingenza e nell’altrola necessità108. Si tratta di un argomento del tutto coerente con il pensiero di Sco-to, rafforzato dal passo subito successivo in cui il teologo inglese afferma in ma-niera più generale «che non appartiene all’essenza della libertà in assoluto po-ter volere o non volere; tuttavia, parlando della libertà creata, ciò non è vero»109.Se pur mai trattato per esteso, l’aspetto ontologico della dottrina del Maestro èaccennato quando Reading sviluppa il concetto scotiano di perfezione assoluta.In questa occasione egli afferma che in base alla sua definizione formale la li-bertà è una perfezione assoluta, ma la limitazione in cui incorre nello stato crea-turale implica un’imperfezione, quella appunto di poter sospendere l’atto versoqualunque oggetto, e dunque anche verso l’essenza divina110.

Qui Reading arriva al punto: non è dal versante dell’oggetto che si valuta ilmodo di agire della volontà umana, come se bastasse un oggetto più attraente per

106 IOANNES DUNS SCOTUS, Ordinatio, I, dist. 1, p. 2, q. 2, ed. Vat., II, p. 60, § 80.107 Ad esempio quando scrive che «quando improbat quod nulli potentie inest contingentia vel ne-

cessitas absolute, sed in ordine ad diversa obiecta, nego istam» (IOANNES DE READING, In Sent., I, dist. 1,q. 6, ed. Alliney, p. 362, § 303): più correttamente, le caratteristiche assolute e immodificabili di una po-tenza sono natura o libertà.

108 «[...] dico quod voluntas Dei et nostra non habent unitatem in re, quamvis habeant univocationemin conceptu; et ex hoc non sequitur idem modus volendi illa que volunt, quia Deus immutabiliter vultquicquid vult, voluntas nostra non; eodem modo in proposito» (IOANNES DE READING, In Sent., I, dist. 1, q.6, ed. Alliney, p. 341, § 216).

109 «[...] quod non est de ratione libertatis simpliciter posse velle et non velle, concedo de ratione li-bertatis in generali; tamen, loquendo de libertate creata, non est verum» (IOANNES DE READING, In Sent., I,dist. 1, q. 6, ed. Alliney, p. 342, § 218).

110 «[...] cum dicitur quod ratio libertatis est perfectio simpliciter, ergo nec consistit in aliquo quoddicit imperfectionem, cuiusmodi est contingentia, respondeo: secundum hoc videtur quod Deus non pos-set libere velle vel non velle creaturas, quia tunc vellet contingenter creaturas quas vellet, et contingen-tia secundum eum includit imperfectionem. Potest ergo dici quod libertas, si secundum rationem suamformalem sit perfectio simpliciter, tamen libertas limitata sive creata addit limitationem super libertatem,que limitatio non est perfectio simpliciter, sed dicit aliquam imperfectionem. Quamvis ergo non esset deratione libertatis in communi posse suspendere actum, tamen de ratione libertatis, in quantum limitata,est posse suspendere actum respectu cuiuscumque obiecti divisim» (IOANNES DE READING, In Sent., I,dist. 1, q. 6, ed. Alliney, p. 353, § 273).

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renderne l’atto necessario; al contrario di quello che pensano i suoi avversari,tale valutazione va invece compiuta dal versante opposto, quello della potenza,che oltre delle generali caratteristiche essenziali (la libertà) è dotata anche diparticolari caratteristiche operative collegate alla maggiore o minore perfezionedel suo stato ontologico (la necessità e la contingenza). Per questo, sulla scortadell’autorità del Maestro, egli può affermare che

«altra è l’opinione del Dottor Sottile, e cioè che la volontà creata non produce neces-sariamente il proprio atto nei confronti del fine ultimo conosciuto oscuramente e in ge-nerale, e neanche nei confronti del fine ultimo visto con chiarezza ma, per quanto lecompete, può non volere il fine appreso in un modo o nell’altro; benché non possa non-volerlo, può però sospendere sia l’atto di volizione sia quello di nolizione ed ogni al-tro atto nei confronti del fine, in modo tale che può immediatamente voler non agirenei confronti di quell’oggetto»111.

La necessità dell’azione potrebbe dunque inerire alla volontà solo per la per-fezione del principio a lei intrinseco, perfezione che però manca alla volontàcreata. È quindi impossibile che qualcosa di estrinseco, come la differente co-noscenza dell’oggetto, possa indurre una nova necessitas e rendere così neces-sario ciò che necessario non è, come del resto dimostra proprio l’esempio del fuo-co e del combustibile più o meno vicino: se il fuoco non fosse un agente natura-le necessario, a nulla varrebbe spostare il combustibile112.

Agli occhi di Reading, gli argomenti a favore della necessità della fruizione

111 «[...] est alia opinio doctoris subtilis, quod voluntas creata circa finem cognitum obscure et in ge-nerali non necessario elicit actum volendi, nec etiam circa finem ultimum clare visum, sed quantum estex ratione sui potest non velle finem sic vel sic cognitum; quamvis non posset nolle ipsum, potest tamensuspendere actum volendi et etiam nolendi et omnem actum voluntatis respectu illius finis, ita quod po-test velle protinus non elicere actum circa illud obiectum» (IOANNES DE READING, In Sent., I, dist. 1, q. 6,ed. Alliney, pp. 334-335, § 192).

112 «[...] aut ista necessitas volendi finem est ab ipso fine necessario movente, sed hoc non potest sta-re, quia ad nullum actum creatum necessario movet. Nec est a voluntate, quia diversa approximatio passiad agens non causat necessitatem agendi, sed tantum intensionem; sed diversa presentia obiecti cogniti,puta visi et non visi, non videtur esse nisi quasi diversa approximatio voluntatis ad obiectum; ergo hoc nondiversificat necessitatem et non necessitatem agendi, sed tantum facit actum intensiorem vel minus inten-sum» (IOANNES DE READING, In Sent., I, dist. 1, q. 6, ed. Alliney, p. 327, § 160). Si veda anche il seguentepasso: «Quamvis enim diversa approximatio agentis ad passum quandoque variet actionem, sicut ignis velsol uno modo approximatus passo causat tantum calorem in illo, alio tamen modo approximatus causatignem in eodem passo – patet manifeste de igne et etiam de sole et speculo comburente – , tamen tam ignisquam sol eque necessario agit effectum quem potest quando uno modo approximatur et quando alio, quiaeque necessario causat sol vel ignis calorem in ligno secundum unam approximationem, et ignem in eo-dem secundum aliam approximationem; et ita non est simile de modo necessario agendi et non necessariosecundum diversam approximationem. Cum ergo voluntas non necessario, secundum eos, vult finem ob-scure cognitum, non necessario volet finem clare cognitum, cum ista et illa cognitio faciant tantum diver-sam approximationem voluntatis ad obiectum» (IOANNES DE READING, In Sent., I, dist. 1, q. 6, ed. Alliney,pp. 328-329, § 167).

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in patria perdono così la loro forza, anche se non per questo nella sua lunghis-sima questione – l’edizione moderna l’ha divisa in 334 paragrafi – ne elude l’a-nalisi critica. Uno degli argomenti più importanti sviluppato da Conington e ri-preso da Drayton era stato quello della causazione privativa, cioè l’assunto chel’oggetto induca un’azione necessaria della volontà non imponendole positiva-mente questa necessità, ma solamente evitando di fornirle motivi di volere altroo di sospendere l’azione. A parere di Reading il ragionamento non regge perchénon è solo l’atto ad avere una causa positiva, ma anche la modalità dell’atto, «da-to che la necessità non è qualcosa di distinto dall’atto»113.

Reading controbatte infine la prova centrale della necessità della fruizioneesposta nelle questioni di Conington e di Drayton e nelle Collationes che – co-me si è visto – è basata sulla mancanza di ogni motivo per volere altro (propterdefectum cur). Il ragionamento si sostiene spesso anche con citazioni di Ansel-mo, sia dal De veritate (Collationes), sia dal De casu diaboli (Drayton), e Readingribatte con altre citazioni anselmiane – ancora dal De casu diaboli – questa vol-ta a suo vantaggio114; ma la risposta più coerente con l’impostazione generale delsuo pensiero, così come di quello di Scoto, è quella per cui motivo sufficienteper astenersi dall’agire nei confronti dell’essenza divina è semplicemente volerfare esperienza della propria libertà: se questa possibilità fosse negata, la vo-lontà umana non sarebbe più una potenza del tutto contingente nella propria fi-nitudine, ma sarebbe invece costretta al proprio atto115.

113 «Contra opinionem alterius, quando dicunt quod necessitas volendi finem cognitum est ab obiec-to, sed privative, sed totus actus est a parte potentie, et exponitur sic, quia a parte obiecti defficit cur vo-luntas possit se suspendere ab actu volendi: omnis actus positivi, et etiam necessitatis in actu, est causaaliqua positiva; huiusmodi est actus volendi Deum. Ergo eius causa erit positiva. Non obiectum per te, er-go voluntas. Item, a quacumque causa sicut a precisa causa est aliquid, ab illa est modus actus; si ergoactus sit a voluntate, [et] ergo et modus actus; ille modus est necessitas per te, ergo». Dunque, concludeReading, «a quocumque agente est positive actus, ab illo est necessitas in actu, quia necessitas non vi-detur aliquid distinctum ab actu necessario» (IOANNES DE READING, In Sent., I, dist. 1, q. 6, ed. Alliney,pp. 342-343, §§ 220-224).

114 «Item, hoc videtur esse intentio Anselmi, De Casu Diaboli, capitulo 22, ubi vult quod angelus sci-vit se non debere velle quod voluit, ergo non habuit cur a parte obiecti; ergo non requiritur dicere “sci-vit”, idest “non ignoravit”; non tamen scivit actu. Unde non consideravit, ideo fuit in <non> consideran-do. Contra: ibi, capitulo 27, “cur voluit quod non debuit?”. Respondet quod nulla causa precessit hancvolitionem, nisi quia potuit. Potuit et post non tamen voluit, quia potuit sine alia causa. Cur ergo voluit?Non nisi quia voluit, nec alia causa attrahens nec impellens; ergo sequitur quod necessario volens habetcur» (IOANNES DE READING, In Sent., I, dist. 1, q. 6, ed. Alliney, pp. 343-344, §§ 231-232).

115 «Contra illud quod additur, quod non potest non velle finem, quia non habet cur in obiecto re-spectu aversionis; quia, licet non sit cur in essentia respectu aversionis, tamen in obiecto, quod est aver-sio a fine, potest esse cur potest velle aversionem; et etiam libertas, sive experientia libertatis, potest es-se cur possumus avertere» (IOANNES DE READING, In Sent., I, dist. 1, q. 6, ed. Alliney, p. 343, § 228). Per-ciò, «[...] quando offertur voluntati aliquid ad finem, potest suspendere actum volendi et nolendi respec-tu illius obiecti, volendo tantum experiri libertatem, et ita habet ibi cur experientiam; ergo si finis visusvel visio ipsa impediunt eam, ne possit sic experiri, cum sint aliqua extrinseca, videtur esse coactio»(IOANNES DE READING, In Sent., I, dist. 1, q. 6, ed. Alliney, p. 343, § 230).

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È importante notare che il teologo francescano non controbatte qui solamen-te gli autori dei quali riporta le argomentazioni principali, quali Pietro Aureolo,Roberto Cowton e Riccardo Drayton (e quindi indirettamente Riccardo di Co-nington), ma prende in considerazione critica anche il nucleo dimostrativo del-le Collationes 21 e 22, dove si era appunto provata la necessità della fruizionein patria. Infatti, Reading nega esplicitamente uno dei punti qualificanti delladimostrazione formulata dall’estensore delle Collationes oxonienses, e cioè chela volontà non possa astenersi dall’agire perché lo stesso astenersi sarebbe a suavolta un’azione: se per interrompere ogni atto ne fosse necessario un altro, ri-batte Reading, si avrebbe un regresso all’infinito116.

La controversia sembrerebbe ancora indirizzata contro le Collationes anchequando Reading rifiuta un altro dei suoi passaggi argomentativi più rilevanti, làdove si sostiene che il beato vede ogni bene incluso nell’essenza divina, per cuiovunque volga la sua attenzione resta in contemplazione dello stesso oggetto. Inrealtà, non è del tutto chiaro a chi Reading faccia riferimento, sia perché lo stes-so argomento era stato poi ripetuto in forma diversa anche da Drayton, sia per-ché Reading lo distorce sensibilmente riportandone così l’andamento: chi vo-lesse allontanarsi da Dio, in ogni caso vedrebbe tale separazione nell’essenzastessa di Dio, e dunque ne vorrebbe ancora comunque l’essenza. Il francescanoinglese ribatte che a parere del suo stesso avversario il beato non può peccare;ma allora, vedendo ogni cosa nell’essenza divina, egli vedrà in essa anche l’odiodi Dio, e potrebbe di conseguenza volere tale odio e così peccare: il ragiona-mento dell’avversario sarebbe dunque contraddittorio117.

Riguardo poi ad uno degli argomenti centrali delle discussioni del periodo,quello della perpetuità della beatitudine, tradizionalmente considerata partedella beatitudine stessa, Reading esclude che essa sia conseguibile con un’a-zione della volontà umana. Neppure se questa volesse necessariamente Dio, in-fatti, il beato potrebbe per questo essere sicuro del proprio stato, perché non ècerto che Dio da parte sua cooperi con altrettanta necessità. La sicurezza della

116 «Dices: non potest avertere cessando ab omni actu nisi volendo aversionem. Contra: ergo erit pro-cessus in infinitum, quia cessaret ab illo actu per alium actum, et ab illo per alium in infinitum» (IOAN-NES DE READING, In Sent., I, dist. 1, q. 6, ed. Alliney, p. 344, § 237). Cf. il testo di nota 30.

117 «Et si dicas quod non potest velle experientiam vel aversionem avertendo se a Deo, quia illa aver-sio presentata est in essentia divina visa, ergo videt illam in Deo, ergo non avertit a Deo volendo illam,contra: si est visa in Deo et potest eam ibi velle, ergo ponatur quod velit aversionem a Deo et quod aver-tat se a Deo, cum hoc scit non velle Deum, et habetur propositum. Confirmatur: secundum eos beati nonpossunt avertere a Deo, nec per consequens velle aversionem, aliter peccarent, et tamen illam vident inDeo; ergo contradictoria dicuntur. Item, sicut beati vident aversionem a Deo in ipsa essentia, sic videturodium Dei et non esse Dei; ergo secundum hoc possunt velle odium Dei, vel velle odire Deum, et vellenon esse Dei; quod est contra eos» (IOANNES DE READING, In Sent., I, dist. 1, q. 6, ed. Alliney, p. 345, §§240-242).

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beatitudine non è perciò garantita dall’azione dell’uomo, ma unicamene dalladecisione stabilita da Dio dall’eternità118: anche qui Reading esprime corretta-mente le intenzioni di Scoto, così come aveva già fatto pochi anni prima Basso-les a Parigi119.

Al di là delle argomentazioni critiche di Reading, in sede di ricostruzione sto-rica è importante notare come il teologo inglese polemizzi con quasi tutti gli au-tori che abbiamo precedentemente considerato, reagendo così alla tendenza va-gamente concordista fra le istanze scotiane e i risultati del volontarismo del se-colo precedente che si può vedere attiva nel pensiero dei francescani inglesi delperiodo. Il fatto poi che Reading critichi gli argomenti più importanti esposti nel-le Collationes indica da un lato la circolazione di questi testi nell’ambiente mi-norita oxoniense, ma dall’altro fa sospettare anche l’assenza di un’esplicita econdivisa attribuzione a Scoto che Reading, pur con un certo imbarazzo, non po-trebbe in questo caso tacere. Dunque l’inautenticità delle sei collationes sullavolontà trova qui ulteriori elementi a suo favore.

8. Un’opinione indipendente: Guglielmo d’Ockham

A Oxford fra il 1317 e il 1319 – dunque pochi anni dopo la reggenza di Alnwick,la diffusione del commentario di Aureolo e il Commento di Giovanni di Reading– un giovane baccelliere francescano, Guglielmo d’Ockham, legge a sua volta leSentenze e affronta di petto il pensiero di Scoto120.

A differenza di Enrico di Gand e di Pietro Aureolo i quali, se pur per motividiversi, avevano esplicitamente escluso il controllo dei propri atti dalla defini-zione formale della libertà, Guglielmo d’Ockham afferma invece che «la libertàè una forma di indifferenza e di contingenza che si distingue dal principio atti-

118 «[...] cum dicitur: aliter beatus non posset esse certus de beatitudine quod semper staret, respon-deo quod, licet voluntas necessario vellet finem, non posset esse securus, quia Deus non necessario coo-peratur voluntati, et ipso non cooperante voluntas non posset velle beatitudinem, nec per consequens es-se beata. Dico ergo quod certitudo et securitas de beatitudine continuanda non est ex ratione potentie in-tellective vel affective, sed solum ex hoc quod Deus certificat beatum de eternitate sue beatitudinis; ideo,propter securitatem beatitudinis non oportet quod voluntas necessario velit finem» (IOANNES DE READING,In Sent., I, dist. 1, q. 6, ed. Alliney, p. 338, § 206).

119 «Tu dicis ipsa peccaret si nollet cooperari; dico quod verum est et nihilominus haberet beatitudi-nem et intellectus et voluntatis: et esset in eis confirmata non ex se sed a Deo eliciente actum totaliter,nec habetur pro inconvenienti quod voluntas ex se non vellet et haberet actum volendi Deum ad alio pu-ta a Deo. Unde non video contradictionem quin Deus beatificare posset et in beatitudinem confirmareunum peccatorem» (IOANNES DE BASSOLES, In Sent., I, dist. 1, q. 3, art. 3, ed. Parisiis 1516, f. 44va).

120 Sulla cronologia delle opere di Ockham si veda P.V. SPADE (ed.), The Cambridge Companion toOckham, Cambridge University Press, Cambridge 1999, pp. 1-29.

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vo naturale»121. Per questo – prosegue Guglielmo in una direzione opposta aquella già presa da Aureolo –, gli esseri irrazionali non sono dotati di libero ar-bitrio, perché chi ha il libero arbitrio ha potere e controllo sui propri atti122, e ta-le potere si manifesta proprio nella contingenza dell’azione. Ockham sembra ri-petere, generalizzandole, le conclusioni sulla libertà creaturale di Scoto, il qua-le aveva distinto fra la libertà infinita di Dio verso se stesso, che non implica al-cuna forma di contingenza ma invece la necessità assoluta, e la libertà umana,che in quanto limitata è contingente e dotata del pieno controllo dei propri attiin ogni circostanza. In un certo senso questo è vero, ma la differenza è che perOckham non c’è una definizione trascendentale di libertà alla quale fare riferi-mento per unificare le diverse occorrenze del concetto che, a seconda dei casi,comporta distinte caratteristiche modali.

Al contrario, Ockham si mostra insofferente al procedere scotiano basato sul-la sovrapposizione di modalità apparentemente opposte, ma considerate in ac-cezioni particolari che le rendono compatibili. Per Ockham non ha significatocercare di dimostrare – come aveva fatto Scoto – che la necessità e la libertà pos-sono caratterizzare lo stesso atto volontario rispetto allo stesso oggetto123, perchési tratta di un puro gioco di parole: se ogni atto della volontà è libero, allora laquestione è semplicemente se la volontà possa agire con necessità, e su questonon ci sono dubbi, come mostra la volontà di Dio che vuole con necessità la pro-pria essenza124 e necessariamente produce lo Spirito Santo. Se si identifica in-vece la libertà con una forma di contingenza, in questo caso la libertà non è com-patibile con la necessità125. Si tratta di accordarsi sul contenuto semantico delvocabolo «libertà» che, proprio in quanto tale, non può essere dimostrato; tutta-via, il secondo è il significato maggiormente invalso nell’uso di molti autori, in

121 «[...] libertas est quaedam indifferentia et contingentia, et distinguitur contra principium activumnaturale» (GUILELMUS DE OCKHAM, I Sent., dist. 1, q. 6, ed. G. Gál, The Franciscan Institute, St. Bonaven-ture (N.Y.) 1967 [«Opera Theologica», 1], p. 501).

122 «[...] bruta non habent liberum arbitrium, quia magis aguntur quam agant» (GUILELMUS DE OCKHAM,I Sent., dist. 1, q. 6, ed. Gál, p. 502).

123 «[...] aliqui primo probant quod necessitas stat cum libertate respectu eiusdem. Secundo osten-dunt in quo consistit ratio libertatis» (GUILELMUS DE OCKHAM, I Sent., dist. 10, q. 2, ed. G.J. Etzkorn, TheFranciscan Institute, St. Bonaventure (N.Y.) 1977 [«Opera Theologica», 3], p. 331).

124 «Sed salva reverentia quorumcumque, magis videtur hic esse difficultas de verbis quam de re.Quia supponendo quod omnis actio voluntatis sit libera, et quod produci libere non sit aliud quam pro-duci a voluntate, non est alia quaestio quaerere “utrum libertas stet cum necessitate” vel quaerere “utrumvoluntas possit aliquid necessario velle” [...]. Et tamen de hoc non faciunt magnam diffcultatem, suppo-nendo quod voluntas possit aliquid necessario velle, maxime divina» (GUILELMUS DE OCKHAM, I Sent., dist. 10, q. 2, ed. Etzkorn, p. 335).

125 «Arguendo contra praedictam opinionem, primo ostendam quod secundum usum auctorum liber-tas, secundum quod distinguitur contra principium naturale activum, est quaedam contingentia et indif-ferentia; ex quo sequitur quod libertas non stat cum necessitate» (GUILELMUS DE OCKHAM, I Sent., dist. 10,q. 2, ed. Etzkorn, p. 335).

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particolare di Aristotele126, e in base ad esso Ockham afferma che «se la volontàvuole qualcosa necessariamente, non lo vuole liberamente», e che quindi nep-pure lo Spirito Santo è prodotto con libertà127. In conclusione, gli argomenti diScoto hanno tutti un presupposto errato, e cioè che la libertà sia qualcosa di rea-le distinto dalla volontà, mentre si tratta solamente di un termine che significadirettamente la volontà e connota che essa può compiere delle azioni contin-genti129. Il piano dell’analisi degli atti volontari non deve perciò essere quellodella metafisica delle potenze attive, ma piuttosto quello linguistico e quello del-l’esperienza128 in stretta interazione fra loro.

È dunque Ockham – e non Scoto – ad impiegare «libero» e «contingente»come termini sinonimi, anche se poi ambedue i francescani concludono che lavolontà umana può fruire liberamente del fine ultimo in qualunque modo essosia conosciuto130. Diverse, perciò, le motivazioni: per Scoto, si basano sulla dif-ferenza modale che struttura l’ente nella sua generalità; per Ockham, invece, so-no più particolari. In via, la contingenza può derivare dall’errata convinzionedell’intelletto che non crede raggiungibile la beatitudine ultraterrena, ma repu-ta lo stato presente l’unico a noi concesso131; in patria, dalla capacità della vo-lontà umana di conformarsi a quella divina, dato che Dio può volere che essa

126 «Primum non potest ratione probari, sicut nec significata vocabulorum. Et ideo arguam per auc-toritates. Primo, auctoritate Philosophi, II Phisicorum [...]. Praeterea, IX Metaphisicae [...]» (GUILELMUS DE

OCKHAM, I Sent., dist. 10, q. 2, ed. Etzkorn, pp. 335-336).127 «Si autem intelligatur quod “liberum” sit idem quod “contingenter” vel “indifferens”, sicut mihi

videtur esse de intentione auctorum, sic dico quod si voluntas aliquid velit necessario, non vult illud li-bere. Et ideo sic Spiritus Sanctus non producitur libere, sicut nec contingenter. Et isto modo libertas nonstat cum necessitate respectu eiusdem; sed quicquid necessario producitur, non libere producitur» (GUI-LELMUS DE OCKHAM, I Sent., dist. 10, q. 2, ed. Etzkorn, p. 341).

128 «[...] experimur quod libere et contingenter ante volitionem efficacem sanitas possumus appeterepotionem amaram vel non appetere» (GUILELMUS DE OCKHAM, I Sent., dist. 1, q. 6, ed. Gál, p. 499).

129 «Unde illa ratio et sequens procedunt ex falsa imaginatione. Imaginatur enim ac si libertas essetaliquid unum reale distinctum aliquo modo ex natura rei a voluntate, vel non omnino idem cum volunta-te, quod tamen non est verum. Sed est unum nomen connotativum importans ipsam voluntatem vel natu-ram intellectualem connotando aliquid contingenter posse fieri ab eadem. [...] Per hoc ad ultimum dicoquod <libertas> non est sic condicio intrinseca potentiae, sed est unum nomen vel conceptus quod nonpotest verificari de natura nisi sit perfecta, et hoc in ordine ad aliud – non ad quodcumque, sed in ordi-ne ad illud respectu cuius contingenter se habet. Ad argumentum principale concedo quod voluntas estpotentia libera, non tamen respectu cuiuscumque, sed respectu illius ad quod contingenter se habet»(GUILELMUS DE OCKHAM, I Sent., dist. 10, q. 2, ed. Etzkorn, pp. 344-345).

130 «[...] dico quod finem ultimum, sive ostendatur in generali sive in particulari, sive in via sive in pa-tria, potest absolute voluntas eum velle vel non velle vel nolle» (GUILELMUS DE OCKHAM, I Sent., dist. 1, q.6, ed. Gál, p. 506).

131 «[...] illud potest esse nolitum a voluntate quod potest intellectus dictare esse nolendum; sed in-tellectus potest credere nullam beatitudinem esse possibilem, quia potest credere tantum statum quemde facto videmus esse sibi possibilem; ergo potest nolle omne illud quod isti statui quem videmus repu-gnat, et per consequens potest nolle beatitudinem» (GUILELMUS DE OCKHAM, I Sent., dist. 1, q. 6, ed. Gál,p. 503).

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manchi per sempre della fruizione beatifica132 e per potenza assoluta può ancheeliminare il piacere connesso con la visione beatifica in modo tale che la volontàdel beato consideri l’essenza divina un intralcio e di conseguenza eserciti un at-to di avversione nei suoi confronti133. Come Ockham stesso riconosce, si trattadelle stesse conclusioni di Scoto, ma difese da ragioni ben diverse134: non più inbase all’autonomia della volontà come potenza costitutivamente libera, ma in ba-se all’errore dell’intelletto in un caso, e al comando di una volontà superiore aquella umana nell’altro.

Per la quasi totalità del testo, la questione dedicata da Ockham alla modalitàdella fruizione è un lungo commento critico alla dottrina espressa da Scoto inOrd., I, d. 1, p. 2, q. 2 – la stessa questione che era stato il riferimento polemi-co di Aureolo – e, marginalmente, a quella di Enrico di Gand, mentre non sonoprese in considerazione le dottrine che in quegli anni si stanno consolidando tan-to a Parigi quanto a Oxford. Ockham non si pone così con continuità all’internodel dibattito sulla ricezione della teoria scotiana della volontà, ma al contrarioprende le distanze da un approccio filosofico a lui estraneo.

Il suo è perciò un contributo di rottura rispetto al panorama dottrinale ingle-se della fine del secondo decennio del secolo, proprio quando Reading tenta dirilanciare quello che egli ritiene l’autentico pensiero di Scoto. Come è provatodalle reciproche citazioni, il Commento di Reading e quello di Ockham si so-vrappongono nelle diverse stesure e nelle rispettive critiche, che però toccanosolo marginalmente il tema della fruizione beatifica. Reading mostra di cono-scere il testo di Ockham, e ne mette in discussione gli argomento principali infavore della contingenza della fruizione beatifica135. Come si è detto, il ragiona-

132 «[...] videns essentiam et carens fruitione beatifica potest nolle illam fruitionem. Haec probatur,quia [...] quaelibet voluntas potest se conformari voluntati divinae in volito; sed Deus potest velle ipsumpro semper carere fruitionem beatificam; ergo etc. Praeterea, quidquid potest esse volitum vel nolitum prouno tempore, et pro semper; sed voluntas talis potest nolle habere beatitudinem pro aliquo tempore de-terminato, puta quamdiu Deus vult eam non habere fruitionem beatificam; ergo potest nolle eam simpli-citer» (GUILELMUS DE OCKHAM, I Sent., dist. 1, q. 6, ed. Gál, p. 505).

133 «[...] talis videns divinam essentiam, carens per potentiam divinam absolutam dilectione Dei, [...]potest nolle Deum. Haec probatur sic vel persuadetur: omne incommodum potest esse obiectum nolitio-nis, sive sit vere incommodum sive aestimatum [...]; sed Deus potest tali esse incommodum, saltem ae-stimatum; igitur Deus potest esse obiectum nolitionis» (GUILELMUS DE OCKHAM, I Sent., dist. 1, q. 6, ed.Gál, pp. 505-506).

134 «Quamvis istae conclusiones (scilicet Scoti), ut credo, sunt tenendae, tamen rationes non videnturprobare sufficienter, ideo arguo contra eos» (GUILELMUS DE OCKHAM, I Sent., dist. 1, q. 6, ed. Gál, p. 490).

135 «Tertium dubium est quod opinio dicit quod voluntas non potest nolle finem visum, quia voluntasque potest habere actum nolendi respectu alicuius obiecti pro aliquo tempore potest pro quocumque, itaquod non repugnat sibi; voluntas nostra est huiusmodi respectu volutionis essentie. Probo: potest seconformare precepto divino; Deus potest precipere quod nolit essentiam pro A, ergo. Unde, cum Deus pos-sit precipere unum actum sibi inesse pro A tempore, et etiam actum nolendi tunc sibi inesse fine osten-so in particulari, potest illum nolle. Item, beatus potest nolle incommodum; sed Deus potest esse incom-modum respectu alicuius» (IOANNES DE READING, In Sent., I, dist. 1, q. 6, ed. Alliney, p. 366, §§ 321-322).

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mento del venerabilis inceptor è basato sia sull’obbedienza della volontà umanaal precetto della volontà divina, che può comportare un atto di ripulsa nei con-fronti della beatitudine, sia sull’atto di imperio della volontà di Dio che puòescludere il piacere connesso alla beatitudine tanto da rendere la propria stes-sa essenza un incomodo per la volontà creata, che può così esercitare verso diessa un atto di avversione. Si tratta di un primo accenno al tema dell’odium Dei,che sarà poi oggetto di accese discussioni negli anni successivi, e sul quale lostesso Ockham prenderà in seguito una posizione più prudente. Reading pren-de in considerazione ambedue gli argomenti occamiani; rispondendo al primo,si limita ad escludere recisamente la stessa possibilità di un tale ordine da par-te di Dio136, mentre al secondo ribatte che, in tal caso, l’essenza sarebbe avver-sata in quanto ostacolo per la volontà, e non in quanto essenza137. Le rispostepaiono frettolose e poco pregnanti, ma sono in linea con l’atteggiamento di ge-nerale disinteresse di Reading nei confronti della teoria della volontà diOckham. A differenza di quanto aveva fatto nel caso di Aureolo, infatti, nella suaquestione Reading non prende neppure in considerazione le ampie e puntualicritiche di Ockham alla questione de frui di Scoto. Probabilmente Reading, giàimpegnato a polemizzare con i numerosi magistri che a vario titolo mettono indiscussione le stesse conclusioni generali del Maestro, nel caso di un giovane epoco conosciuto laureando in teologia – quale è Ockham in quel momento – siaccontenta di una se pur apparente convergenza dottrinale.

9. Conclusione

Volendo riepilogare quanto è emerso da questa investigazione, si possono indi-viduare tre fasi distinte della ricezione della teoria della volontà scotiana aOxford.

1. Una prima fase, databile approssimativamente fra il 1305 e il 1310, sem-bra essere caratterizzata dal pensiero di Riccardo di Conington. Questo teologo,apertamente ostile a Scoto anche su altri punti dottrinali, sviluppa una teoriadella volontà dai contenuti nuovi. Conington limita la necessità della fruizioneal solo beato; il centro del suo pensiero è l’idea di causazione privativa – che pa-

136 «Ad aliud dubium dico quod Deus non potest precipere ita quod velit, hoc scilicet ipso viso, vo-luntatem nolle pro illo instanti quo videt» (IOANNES DE READING, In Sent., I, dist. 1, q. 6, ed. Alliney, p.368, § 332).

137 «Ad secundum dico: tunc essentia est nolita sub ratione incommodi, non sub ratione essentie, quiaillud incommodum est nolitum, non essentia» (IOANNES DE READING, In Sent., I, dist. 1, q. 6, ed. Alliney,p. 368, § 333).

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re uno sviluppo del concetto di causa dispositiva, o causa sine qua non – e del-la mancanza di motivo (defectus cur) per la volontà di volere altro a fronte del-l’essenza divina. In questo modo egli può attribuire all’atto del beato contempo-raneamente libertà, necessità e contingenza. Conington si mostra dunque ag-giornato sulla proliferazione delle modalità dell’atto volontario inaugurata daScoto, e disposto ad utilizzarla contro le intenzioni del suo stesso ideatore. Il nu-cleo argomentativo di Conington pare essere ripreso dall’autore delle Collatio-nes – che difficilmente può essere davvero Scoto – in connessione con l’idea chela volontà solo in via sia capace di sviare l’intelletto dalla considerazione del fi-ne, dato che in patria l’essenza divina contiene eminentemente ogni altro possi-bile oggetto pensabile. Su questo punto è forse possibile individuare una in-fluenza della letteratura tomista prescotiana, e in particolare di Roberto diOrford.

2. Una seconda fase, da porsi fra il 1310 e il 1315, vede lo sviluppo di dot-trine più tradizionali legate alla forte influenza che Enrico di Gand mantiene sul-la speculazione minorita inglese. Questo gruppo è rappresentato da RobertoCowton, che cita ampiamente dalla Summa di Enrico senza adeguarsi al nuovoclima dottrinale; ma anche da Riccardo Drayton, che mette in opera le argo-mentazioni di Conington (causa dispositiva e defectus cur) per difendere anch’e-gli le conclusioni tradizionali della doppia necessità della fruizione, in via comein patria. Pietro Sutton – per quel che si può capire del suo pensiero in base aipochi brani delle sue opere giunti fino a noi – sembra seguire l’impostazione diEnrico di Gand nel ritenere che non sia la mancanza di motivo, ma il potere at-trattivo dell’essenza divina a rendere necessaria la fruizione del beato. D’altraparte egli, come Conington e l’autore delle Collationes, limita la necessità al so-lo stato beatifico. Questa fase non pare caratterizzata da una particolare com-pattezza dottrinale, ma piuttosto da un più ampio ricorso a materiali dottrinali diprovenienza gandiana, spesso messi in opera con elementi derivati dalle nuovelinee speculative inaugurate da Riccardo di Conington.

3. Nella terza e più articolata fase, da collocare fra il 1315 e il 1320, si assi-ste allo scontro diretto fra orientamenti di pensiero che si sono consolidati in dot-trine più precise. Ciò avviene in primo luogo per la diffusione dei Commentaridi Guglielmo di Alnwick e di Pietro Aureolo, ambedue licenziatisi a Parigi. Laconoscenza del pensiero francescano continentale segna una svolta decisiva neldibattito inglese: tanto Alnwick quanto Aureolo, infatti, sviluppano teorie dellavolontà autonome sia rispetto a quella di Enrico di Gand, sia rispetto a quella diScoto. Le conclusioni restano quelle già raggiunte da Conington e dalle Colla-tiones – contingenza in via, necessità in patria – ma il contesto dottrinale è orapiù articolato. Il problema centrale di questo tipo di dottrine resta sempre quel-lo di spiegare come la volontà possa modificare il proprio modo di agire nei con-

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fronti dello stesso oggetto – Dio – in base al diverso modo in cui esso è cono-sciuto. Ammettendo la possibilità di una nova necessitas Alnwick impiega cer-tamente elementi del linguaggio concettuale scotiano, ma per formulare una teo-ria fondamentalmente incompatibile con quella del Maestro; egli certifica cosìle resistenze al radicalismo di Scoto anche da parte dei francescani che ne fu-rono diretti discepoli. Aureolo rappresenta invece una linea della speculazioneminorita del tutto alternativa a quella di Scoto, come è evidente dalle critiche ri-solute che egli indirizza al teologo scozzese. Il teologo provenzale sviluppa in-fatti una nuova concezione della volontà, che è considerata libera in quanto ca-pace di ricavare piacere dai propri atti spontanei.

A fronte di queste teorie decisamente distanti dal pensiero di Scoto, che vie-ne ora esplicitamente criticato, Giovanni di Reading prende le parti del teologoscozzese, ripetendone la dottrina. Si tratta della prima completa adesione, aOxford, alla teoria della volontà scotiana, che Reading difende facendo ricorso– se pur non in maniera sistematica – ai necessari presupposti metafisici.

Il clima culturale nell’ambiente francescano è però ormai distante da Scoto,come testimonia la teoria della volontà di Guglielmo d’Ockham, che apre unaprospettiva teoretica ancora diversa da quelle di Alnwick e di Aureolo. Pur con-dividendo i risultati di Scoto, infatti, Ockham abbandona ogni considerazionemetafisica e reimposta la questione in termini prettamente linguistici.

Così si conclude il secondo decennio del secolo: dieci anni dopo la morte diScoto le posizioni dei teologi francescani inglesi si sono ormai aperte in un ven-taglio dottrinale di grande ampiezza. Alle faticose discussioni precedenti al1310 si sono infatti affiancate teorie della volontà compiutamente formulate ealternative fra loro, senza che alcuna di esse riesca a porsi come dottrina predo-minante. Rivolta principalmente agli esiti moderati assunti dal volontarismofrancescano del tempo, la reazione di Reading manca in realtà il bersaglio, per-ché sarà l’approccio logico-linguistico di Ockham a segnare lo sviluppo dottri-nale degli anni successivi. Come è stato già scritto,

«in quegli anni sul finire del secondo decennio del secolo, poco prima che l’abban -dono di interessi metafisici a vantaggio di indagini di argomento fisico provochi quel-la che Courtenay chiama “the disappearance of schools of thought”, lo scotismo, la-sciando il campo a teologi più vicini all’occamismo come Walter Chatton e Adam Wo-deham, perde così in Inghilterra un’ultima opportunità di rilancio»138.

138 ALLINEY, Fra Scoto e Ockham cit., p. 290.

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