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DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE
CORSO DI LAUREA
IN
SCIENZE POLITICHE E RELAZIONI INTERNAZIONALI
Tesi di Laurea in Storia dei Partiti Politici
UN “CORPO” POLITICO:
IL FEMMINISMO DEGLI ANNI SETTANTA
Relatrice: Candidata:
Prof.ssa Stefania Bartoloni Marika Pitoni
Anno Accademico 2013/2014
2
UN “CORPO” POLITICO:
IL FEMMINISMO DEGLI ANNI SETTANTA
Introduzione p. 4
Capitolo 1
Il Neofemminismo italiano
Alle origini del movimento femminista: il Sessantotto p. 9
Tra uguaglianza e differenza: il Manifesto di Rivolta Femminile p. 15
L’incontro con le Francesi p. 17
Come le organizzazioni politiche recepiscono il Femminismo p. 25
Capitolo 2
La bomba aborto
Uno scoglio da abbattere: l’aborto clandestino p. 34
Marie Claire Chevalier e Gigliola Pierobon p. 41
Il movimento si divide sull’aborto p. 47
Capitolo 3
La legge sull’aborto: una lunga gestazione
Come si organizza il movimento nell’assenza della legge p. 53
L’operato di Simonetta Tosi e il Gruppo San Lorenzo p. 60
Arriva la 194 p. 65
Bibliografia p. 72
3
A mia nonna, quella piccola grande donna che con i racconti della sua giovinezza passata tra
scioperi e lotte in fabbrica, mi ha fatto innamorare degli anni Settanta.
Grazie.
4
Introduzione
I documenti, le riflessioni e le testimonianze riportate in questo studio illustrano quanto il
femminismo degli anni Settanta sia stato fondamentale per la crescita di una sensibilità sulle
questioni della contraccezione e della salute delle donne nel nostro paese. A tale fine si è deciso di
concentrare l’attenzione sul valore simbolico celato dietro la parola “corpo”, metafora utilizzata in
questa tesi. Infatti l’espressione “corpo” politico, non allude soltanto al significato più immediato di
“interlocutore politico”1; qui la parola “corpo” si riferisce soprattutto al corpo vero e proprio, quello
fatto di carne e di ossa, quel corpo per il quale le femministe degli anni Settanta lottarono per
rivendicarne il controllo tanto che “Io sono mia”2 fu lo slogan gridato dalle donne durante le loro
manifestazioni.
Le femministe italiane di quel decennio, un po’ come le altre femministe occidentali, furono inclini
alle idee radicali portate avanti attraverso un atteggiamento senza compromessi nei confronti della
politica, lanciando gli attacchi più risoluti verso il “potere maschile” visto in tutte le sue
manifestazioni, dalla politica e l’economia all’esercizio professione medica3. Tuttavia, sebbene la
sua strategia politica fosse carente, tra i movimenti degli anni Settanta, il femminismo fu forse
quello che produsse le conseguenze più durature in quanto contribuì a ridefinire le relazioni di
genere ed ebbe un impatto sulla diminuzione dell’autorità sociale della Chiesa4.
Gli obiettivi portati avanti dai primi collettivi femministi volevano portare in superficie le
aspirazioni e la capacità di espressione delle donne, provando una mediazione tra il desiderio di
liberare la propria soggettività, e il bisogno di “cambiare il mondo”. Fu anche per queste
motivazioni che ad un tratto il neofemminismo italiano si divise in due strade: una segnata dallo
scavo del vissuto individuale e dalla pratica dell’autocoscienza, e l’altra volta all’agire politico
comunemente ribattezzato “pratica del fare”5. Ed è proprio all’agire politico che guarda questa tesi:
in qualche modo si è voluto ricostruire quel processo che portò soltanto nel 1978 alla formulazione
della legge sull’aborto, la famosa legge n. 194. Una norma che sollevò non pochi dibattiti e scontri
persino all’interno dello stesso movimento femminista, che si divise tra chi era favorevole ad una
legge sull’aborto libero e gratuito e chi invece preferiva una semplice depenalizzazione del “reato di
1 Con l’espressione “interlocutore politico” si vuole intendere quell’insieme di soggetti fisici con i quali lo Stato
intraprende un qualsiasi tipo di rapporto finalizzato alla politica. 2 P. Willson, Italiane. Biografia del Novecento, Laterza, Roma - Bari, 2010, p. 264.
3 Ibidem.
4 Ivi. pp. 264 – 265.
5Lussana Fiamma, Le donne e la modernizzazione, il neofemminismo degli anni Settanta, in Storia dell’Italia
repubblicana, a cura di Francesco Barbagallo (coordinatore), Giuseppe Barone, Giovanni Bruno, Franco De Felice,
Luisa Mangoni, Giorgio Mori, Mario G. Rossi, Nicola Tranfaglia, vol. III, L’Italia nella crisi mondiale. L’ultimo
ventennio, tomo. 2, Istituzioni, politiche, culture, Einaudi, Torino, 1997, p. 473.
5
aborto”. In tutto ciò le femministe provarono ad immaginare nuovi modi di vivere, di sentire e di
pensare il proprio corpo, la sessualità e la capacità di mettere al mondo dei figli6. Per realizzare
questo progetto, le donne agirono in prima persona sia ricavandosi spazi d’azione, sia inventando
gli strumenti necessari per la conoscenza di sé, la cura e il soccorso reciproco. Tutto ciò si verificò
prima nelle singole case, luoghi sicuri e protetti, poi in sedi condivise con gli altri gruppi del
movimento e solo alla fine in luoghi pubblici che furono chiamati consultori e centri per la salute7.
Nel corso dello studio fondamentale è stato il ricorso all’opera di Fiamma Lussana, Il movimento
femminista in Italia. Esperienze, storie e memorie che ricostruisce la storia del movimento
femminista italiano degli anni Settanta. Partendo dalle relazioni tra neofemminismo e movimento
studentesco del ’68, l’autrice ha ripercorso il decennio focalizzandosi sui passaggi fondamentali
come il referendum sul divorzio, la legge sull’aborto, la riforma del diritto di famiglia che, accanto
alla pratica dell’autocoscienza e all’esperienza dei collettivi femministi hanno rafforzato le
decisioni delle donne di prendere posizioni sulle tematiche che le riguardavano da vicino. Questioni
private solo in apparenza, riconosciute invece come politiche. Nel libro di Perry Willson Italiane.
Biografia del Novecento, l’autrice ha ritratto l’esperienza del femminismo italiano attraverso le sue
tappe più importanti fino al suo esaurimento. Il femminismo degli anni Settanta, a cura di Teresa
Bertilotti ed Anna Scattigno, ha proposto i contributi di alcune delle protagoniste di quel decennio e
ha ampliato la panoramica su un tema relativamente recente come il neofemminismo. Rilevante è
stata anche la voce Anni Settanta in Genesis: Rivista della Società italiana delle Storiche III/I del
2004 dove il saggio Cattoliche e cattolici di fronte all’aborto, di Paola Gaiotti de Biase, ha fornito
una ricostruzione dell’iter parlamentare della legge: dai progetti iniziali fino a quello approvato nel
19788. Il saggio ha contribuito a mettere in evidenza le relazioni che intercorrevano tra i partiti ,
evidenziando le posizioni della Democrazia cristiana, del Partito comunista e dei partiti laici
presenti in Parlamento. Fondamentale per la comprensione del pensiero di Carla Lonzi è stato L’io
in rivolta. Vissuto e pensiero di Carla Lonzi di Maria Luisa Boccia, in cui l’autrice ha ricostruito la
vita di Carla Lonzi e ha illustrato le riflessioni nascoste dietro le opere più importanti della
pensatrice femminista. Invece Un caso di aborto. Il processo Chevalier, a cura dell’Associazione
«Choisir», ha illustrato lo svolgimento di uno dei più celebri processi per aborto9 della storia recente
francese, riportando le deposizioni delle imputate e dei testimoni convocati in giudizio. Un
6 L. Percovich, La coscienza nel corpo. Donne, salute e medicina negli anni Settanta, Fondazione Badracco - Franco
Angeli, Milano, 2005, p. 10. 7 Ibidem.
8 Nel lavoro si sono voluti analizzare i seguenti progetti legge: progetto di legge dell’onorevole Loris Fortuna del 1973;
i cinque disegni di legge presentati nel 1975 dai socialdemocratici, dai comunisti, dai repubblicani, dai liberali e dai
democratici cristiani; il progetto di legge Pinto-Corvisieri del 1976; la legge n. 194 del 1978. 9 Il processo in questione è quello svoltosi a Bobigny, in Francia, nel 1972. La signora Chevalier veniva accusata dalla
corte di aver aiutato la figlia minorenne ad abortire. Commettere un aborto costituiva reato a quei tempi.
6
contributo va riconosciuto anche all’opera di Luciana Percovich La coscienza nel corpo. Donne,
salute e medicina negli anni Settanta che ha affrontato il rapporto donna-corpo, uno dei tasselli
principali di questa tesi.
Oltre alle fonti a stampa, ho fatto ricorso alle fonti audiovisive presenti negli archivi RAI del
programma Correva l’anno, disponibili online. Questo materiale, accanto alle immagini delle
manifestazioni femministe, contiene la testimonianza di Emma Bonino, allora attivista all’interno
del Centro di Informazione per la Sterilizzazione e l’Aborto10
. Inoltre rilevante è stata la
consultazione online di due articoli in inglese presenti sul quotidiano TIME del 25 giugno 1973: con
gli occhi di un paese come gli Stati Uniti, dove abortire non costituiva più un reato, gli articoli
hanno riportato alcune considerazioni su quel processo per aborto che in Italia vedeva imputata
Gigliola Pierobon11
.
La tesi si compone di tre capitoli. Il primo offre una panoramica su ciò che è stato il movimento
femminista italiano degli anni Settanta. Partendo dal confronto con il movimento degli studenti e il
rapporto che vigeva tra il giovane uomo e la giovane donna nell’ambito della critica alla società
patriarcale, esamina come, dopo un’iniziale collaborazione, le donne decisero di continuare sole la
loro protesta: si è giovani prima e durante il movimento studentesco, ma si è donne per tutta la vita.
Infatti, raggiunti gli obiettivi della protesta, sebbene i giovani studenti maschi da un lato avessero
aspirato a diventare la nuova classe dirigente sostituendo i loro padri, dall’altro continuarono ad
“opprimere” la “classe femminile”, riproponendo la medesima gerarchia patriarcale vigente prima
della protesta studentesca. Fondamentale è stata l’analisi del contributo teorico di Carla Lonzi
espresso nel Manifesto di Rivolta femminile seguita da quella dell’incontro tra movimento
femminista italiano e francese, che ha voluto illustrare come il movimento francese di Psych et Po12
avesse influenzato l’altro. Le italiane infatti si divisero in due anime: una legata alla pratica
dell’autocoscienza e l’altra alla pratica del fare. Il capitolo si chiude esaminando il modo in cui la
sinistra extraparlamentare e quella storica si posero nei confronti delle richieste delle loro militanti.
Il secondo capitolo si sofferma sul problema dell’aborto clandestino e il dramma delle donne che
decidevano di ricorrervi, portando alla luce un mercato sommerso che muoveva più di cinquanta
miliardi di lire annue. Costituendo l’aborto un reato non soltanto in Italia ma anche in altri paesi
democratici, si è deciso di proseguire raccontando l’esperienza tutta francese di un processo di
aborto che vide come protagonista Marie Claire Chevalier. Il caso poi è stato confrontato con il
processo per aborto che chiamava in accusa l’italiana Gigliola Pierobon, militante di Lotta
femminista. Infine il capitolo si chiude esaminando le diverse posizioni del movimento femminista
10
Il CISA, affiliato al Partito radicale, è nato a Milano nel 1973 per volere di Adele Faccio. 11
Gigliola Pierobon fu processata nel 1973 dal tribunale di Padova per aver abortito all’età di 17 anni. 12
Politique et Psychanalyse, nato a Parigi nel 1968 sotto la direzione di Antoinette Fouque.
7
davanti all’aborto, differenziando in particolar modo quelle del femminismo milanese, da quelle del
femminismo romano.
Il terzo capitolo si concentra sull’operato del femminismo principalmente romano che portò avanti
la pratica dell’agire cercando, attraverso manifestazioni e incontri con le istituzioni, di arrivare alla
legge sull’aborto. Si è scritto dell’esperienza di quei gruppi che aiutavano le donne ad abortire o
tramite l’organizzazione di viaggi verso quei paesi dove l’aborto non costituiva reato13
, oppure, ma
solo più tardi, praticando gli stessi gruppi l’aborto tramite il “metodo Karman”. Tutto ciò fino
all’approvazione della legge sui consultori familiari (1975) davanti la quale molti consultori
autogestiti dalle femministe decisero di chiudere mentre altri seguitarono con le loro pratiche. Tra
queste esperienze di autogestione il Gruppo San Lorenzo, capitanato da Simonetta Tosi, costituiva
un esempio di consultorio affiliato al Comitato Romano per l’Aborto e la Contraccezione14
. Il
capitolo, in conclusione, riporta l’intero iter legislativo che si chiuse con l’approvazione della legge
n. 194.
Se volessimo stilare un bilancio del decennio in questione, inevitabilmente gli anni Settanta
rappresentarono per l’Italia un’epoca decisiva nella storia delle relazioni di genere. Sebbene alcune
riforme giuridiche attuate fossero lontane dalla perfezione, inevitabilmente rappresentarono un
grande progresso per le donne che, almeno sulla carta, ottenevano finalmente la parità sul luogo di
lavoro e in famiglia. Inoltre, grazie alla “rivoluzione sessuale”, alle donne veniva consentito
l’accesso alla contraccezione e la legge sull’interruzione volontaria della gravidanza ridimensionò
fortemente il numero di donne morte per aborto clandestino. Il privato si faceva politico nel senso
che molte questioni attinenti alla sfera privata giungevano per la prima volta in Parlamento entrando
nel dibattito pubblico. Tutto questo processo mise in crisi l’autorità della Chiesa cattolica che, non
potendo modificare le sue opinioni sulla sessualità o sul matrimonio, fu costretta ad accettare che la
maggior parte degli italiani, compresi molti cattolici praticanti, rivendicassero la loro autonomia di
decisione in materia15
. Le militanti femministe, sebbene fossero soltanto una minoranza della
popolazione femminile, sollevarono questioni che esprimevano uno stato di disagio, di malessere e
insoddisfazione comune alla maggior parte delle donne italiane. Grazie alla rilevanza mediatica
riservata al movimento, le giovani femministe influenzarono gli atteggiamenti e le prospettive di
molte altre donne: i risultati schiaccianti del referendum sul divorzio e di quello sull’aborto
dimostrarono come furono in molti a sostenere il programma innovatore del movimento16
.
13
In particolar modo famosi erano i “viaggi a Londra”. 14
Tale comitato veniva comunemente denominato CRAC. 15
P. Willson, Italiane. Biografia del Novecento, cit., p. 296. 16
Ibidem.
8
Il bilancio stilato, tuttavia, presenta una serie di fattori negativi che non possono essere dimenticati.
Sebbene gli atti normativi approvati a favore delle donne fossero numerosi, essi non erano di certo
il meglio a cui si potesse aspirare. Basta già pensare alla citata legge n. 194: una norma moderata,
frutto della mediazione tra i partiti in Parlamento, approvata con l’intento di prevenire campagne in
favore di riforme più radicali17
. A dimostrazione di ciò si inserisce il principio dell’obiezione di
coscienza, tuttora vigente, riservato a tutti quei medici che, per convinzione morale, si fossero
rifiutati di praticare l’aborto. Così molte zone in Italia finirono per non essere coperte dal servizio
perché, soprattutto al Sud, le donne rischiavano di imbattersi in strutture ospedaliere dove tutti i
medici erano obiettori: in questi casi il “diritto all’aborto libero e gratuito” non veniva più garantito.
Inoltre ancora oggi la legge, fortemente voluta dalle donne, viene messa in discussione di continuo
e attaccata. Segno ulteriore che i diritti, come la democrazia, vanno sempre difesi e implementati.
17
Ivi. p. 293.
9
Capitolo 1
Il Neofemminismo italiano
1.1 Alle origini del movimento femminista : il Sessantotto
Con la sua strategia culturale il movimento femminista italiano ha anticipato e percorso quella
stagione straordinaria riflettendo più e meglio del ’68 studentesco la crisi italiana di quegli anni.
Fiamma Lussana18
Per Elda Guerra la storia delle donne poteva essere considerata una sorta di storia “altra” sia se il
’68 veniva interpretato come un evento originatosi dalle trasformazioni degli anni Sessanta ed
esauritosi nell’arco dell’anno, sia se lo si vedeva come una manifestazione delle speranze del
cambiamento collettivo destinate ad emergere nel corso degli anni successivi19
. Secondo
l’interpretazione di Nicola Gallerano, invece, il ’68 fu un evento/struttura nel senso di un processo e
di un evento i cui esiti e i cui lasciti furono insieme maggiori e minori non solo delle condizioni che
li determinarono, ma degli stessi eventi che li produssero20
. In ogni modo, seguendo queste
premesse, il ’68 non appariva né tempo di fine, né tempo di inizio, ma un crocevia nel quale, alle
donne di quella generazione, da una parte poterono aprirsi maggiori possibilità di espressione della
propria soggettività, dall’altra poterono esser loro attribuite contraddizioni legate al tempo
lunghissimo della storia delle relazioni tra i sessi e i generi.
Risulta impossibile negare che il neofemminismo esplose nel ‘68 ed ebbe in comune con il
movimento degli studenti il carattere “antiautoritario e antistituzionale”21
. Tuttavia non
sembrerebbe opportuno parlare di filiazione diretta tra i due movimenti sebbene, ad uno sguardo
poco attento, possano apparire simili.
L’Italia all’interno della quale si svolsero questi eventi era un paese che stava beneficiando di
un’ondata di benessere e sviluppo mai visti in precedenza tanto che il quinquennio compreso tra il
1958 e il 1963 venne ricordato come il “miracolo italiano”22
. Aumentarono le fabbriche di
elettrodomestici come la Candy, la Zanussi e la Ignis: questo era il boom economico. Come
sostiene Perry Willson:
18
F. Lussana, Il Movimento Femminista in Italia. Esperienze, storie, memorie (1965-1980), Carocci, Roma, 2012, p.
11. 19
E. Guerra, Femminismo/Femminismi: appunti per una storia da scrivere, in Anni Settanta, Genesis: Rivista della
Società italiana delle Storiche, n. III/I, Viella, Roma, 2004, p. 101. 20
Ibidem. 21
Lussana Fiamma, Le donne e la modernizzazione, il neofemminismo degli anni Settanta, in Storia dell’Italia
repubblicana, cit., p. 488. 22
F. Lussana, Il Movimento Femminista in Italia, cit., p. 25.
10
Un fattore fondamentale per la nascita del femminismo fu la trasformazione prodotta dal miracolo
economico. L’urbanizzazione, il miglioramento dell’istruzione e una ricchezza materiale senza precedenti
ebbero tutti un peso significativo. Molte donne della generazione precedente avevano lottato per la semplice
sopravvivenza. Ora le giovani donne volevano di più.23
L’Italia che si affacciava al nuovo decennio era un’Italia nuova che guardava Carosello, comprava a
rate la FIAT 600, cominciava ad ascoltare la musica rock gettonata nei juke-boxes, mentre
nascevano i primi rotocalchi destinati al pubblico femminile24
. Spopolava in tutto il paese
l’American Way of Life che appariva come un faro nella notte alla povera gente che usciva dalla
miseria del dopoguerra. Casalinghe perfette, con mariti e figli perfetti, con case perfette, rese
scintillanti da aspirapolveri e lucidatrici: questi erano i nuovi modelli e cominciava a dilagare il
consumismo.
Ma in tutto questo benessere le donne furono le prime ad essere tagliate fuori dalla produzione
industriale: il tasso di crescita dell’occupazione femminile si arrestò già dal primo quadrimestre del
1962 e in seguito alla crisi economica registrata tra il 1963-1964 si verificò la massiccia espulsione
della manodopera femminile concentrata soprattutto nel settore tessile e dell’agricoltura mentre
aumentava sempre più il numero delle cosiddette “casalinghe dorate”25
.
Negli Stati Uniti a scuotere le coscienze delle casalinghe intervenne l’opera della giornalista e
psicologa Betty Friedan intitolato La mistica della femminilità edita nel 1963. Esprimendoci con il
giudizio di Elda Guerra, l’autrice mostrava l’altra faccia dell’immagine di felicità domestica
propagandata dalla cultura americana attraverso i film e giornali femminili e svelava che le donne
delle classi medie, nel loro profondo, desideravano qualcosa di diverso dal marito, dai figli, dalla
casa: volevano qualcosa di più26
. Molte donne avevano la percezione di aver perso il contatto con la
propria identità, erano donne “inventate”27
, si erano trasformate in ciò che la pubblicità e i giornali
femminili volevano: «Sono una che mette il cibo a tavola, che infila i calzoncini ai bambini e rifà i
letti, una che si può chiamare quando si ha bisogno di qualcosa. Ma chi sono io?»28
Per Sarah Evans la presa di coscienza delle donne americane fu possibile grazie alla partecipazione
massiccia ai movimenti nei quali la generazione femminile aveva imparato a rispettare se stessa e
aveva vissuto nella nuova sinistra nuovi ideali di uguaglianza, l’importanza della comunità e della
cooperazione, la necessità di combattere per la libertà degli oppressi. Dopotutto negli Stati Uniti già
23
P. Willson, Italiane. Biografia del Novecento, cit., p. 265. 24
F. Lussana, Il Movimento Femminista in Italia, cit., p. 27. 25
Ivi. p. 25. 26
E. Guerra, Una Nuova Soggettività, in Il Femminismo degli Anni Settanta, a cura di T. Bertilotti e A. Scattigno,
Viella, Roma, 2005, p. 31. 27
F. Lussana, Il Movimento Femminista in Italia, cit., p. 28 28
B. Friedan, The Feminine Mystique, cit. in F. Lussana, Il Movimento Femminista in Italia, cit., p. 28.
11
a partire dalla metà degli anni Sessanta si stava avviando un processo complesso che avrebbe
portato, in seguito, alla nascita del neofemminismo come lo intendiamo oggi. Ma tale processo era
inserito in un quadro più vasto, colorato da movimenti che procedevano da quelli per i diritti civili
dei neri, a quelli di protesta contro la guerra in Vietnam. Chi si ribellava ora era un’intera
generazione fatta di giovani uomini e giovani donne, figli del benessere economico e della società
dei consumi ma anche testimoni di una nuova era fondata sulle disuguaglianze sociali nel mondo,
sulle lotte di liberazione dal colonialismo ma soprattutto fondata sulla Guerra Fredda. Lo Statement
di Port Huron affermava: «Ci siamo resi conto anche che ciò che un tempo avevamo ritenuto l’età
dell’oro americana non era di fatto che il declino di un’era»29
.
Affermazione significativa poiché la generazione dei ragazzi europei degli anni Sessanta era
cresciuta sui resti della devastazione legata alla Seconda Guerra Mondiale e quindi alla
consapevolezza raggiunta dopo il lancio delle due bombe atomiche che il mondo poteva finire e che
il progresso tecnologico portava in molti casi direttamente al disastro30
. Ma fu nel ‘68 che, per la
prima volta gli studenti costituirono il motore e l’anima del movimento di trasformazione.
A tale proposito Rossana Rossanda ha scritto: «La novità più sconcertante del ‘68, rispetto alla
tradizione delle lotte operaie, è lo studente. Lo studente come soggetto politico d’una totale rimessa
in causa del sistema democratico»31
. Gli studenti erano particolarmente in collera con le istituzioni
che venivano percepite come autoritarie, tra queste in primis la famiglia che, in seguito al miracolo
economico era diventata il principale centro propulsore della spesa per il consumo e
dell’educazione delle giovani generazioni. Padri e madri che avevano vissuto la guerra e la vera
povertà e che ora, nell’era del benessere, avevano riconquistato quella felicità prima negatagli
sfociata nel consumismo. Questa era l’accusa che spinse i giovani a rompere con i padri, che li
portò ad affermare in uno dei tanti slogan “voglio essere orfano”. Contro il conformismo e il
carrierismo che caratterizzò la generazione precedente, i giovani degli anni Sessanta preferivano
indossare blue jeans e scarpe da ginnastica, rifiutavano l’educazione finalizzata alla ricerca del
“famigerato posto fisso”, andavano in discoteca, facevano della musica il loro principale strumento
di comunicazione.
In riferimento a ciò, riporto la storiella che Bruce Springsteen, celebre musicista americano, amava
raccontare fino a qualche tempo fa, durante i suoi concerti:
29
Dichiarazione di Port Huron, in P. Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, Editori Riuniti,
Roma, 1988, p. 232. 30
H. Arendt, Sulla violenza, in F. Lussana, Il Movimento Femminista in Italia, cit., p. 30. 31
M. Capanna, Lettera a mio figlio sul Sessantotto, Rizzoli, Milano, 1998, p. 44.
12
Quando ero ragazzo, io e mio padre litigavamo continuamente, per ogni cosa. Io avevo i capelli lunghi, giù
fino sotto le spalle. Avevo diciassette, diciotto anni, e lui non lo sopportava. E arrivammo al punto che
litigavamo tanto che io stavo quasi sempre fuori casa. […] Poi alla fine trovavo il coraggio di andare a casa;
mi fermavo lì nel viale e lui mi aspettava in cucina. Mi infilavo i capelli nel colletto, e entravo. La prima
cosa che mi chiedeva era, che pensavo di star facendo di me stesso? E il peggio di tutto è che non trovavo
mai il modo di spiegarglielo. […] Mi diceva sempre, non vedo l’ora che ti si pigli l’esercito. Quando ti si
piglia l’esercito, quelli ti fanno diventare un uomo. Ti tagliano i capelli, e faranno un uomo di te.32
L’attacco alla famiglia, cellula base della società, fu terreno d’azione comune sia del ’68
studentesco che del femminismo. Infatti come afferma Fiamma Lussana, la famiglia italiana
assomigliava sempre di più ad una sorta di roccaforte in cui si coltivava il sogno illusorio della
modernità e dei consumi grazie alla sempre più diffusa fruizione della televisione che divenne il
luogo di ritrovo intorno al quale si riuniva la famiglia. Inoltre proprio la famiglia finì per ingabbiare
le speranze delle casalinghe piccolo e medio-borghesi: le ragazze volevano trovare la libertà al di
fuori di essa e sognavano una vita diversa da quella delle loro madri.
Il movimento studentesco iniziò a conquistare le prime pagine dei principali quotidiani dalla
primavera del ‘68 quando, a partire dalla “battaglia” di Valle Giulia, dietro slogan come “guerra no,
guerriglia si” gli studenti si appellarono al pacifismo per sollecitare la fine della guerra in Vietnam.
Ma la battaglia terminò in un corpo a corpo con le forze dell’ordine romane che risposero alla
“guerriglia” con violente cariche della polizia. Contro un sistema politico che a parole faceva le
riforme, ma nei fatti puntellava la vecchia struttura autoritaria e baronale della scuola e
dell’università, ragazze e ragazzi del ’68 insorsero con la radicalità di chi si giocava il tutto per
tutto33
. A questo proposito tra riforme annunciate e realizzate si inserirono quella della scuola e
dell’università che però, invece di andare incontro alle richieste degli studenti, finirono per
accentuare le contraddizioni e le divisioni presenti tra studenti dei ceti medio-alti e i figli degli
operai, di immigrati e sottoproletariati bloccando ulteriormente la scalata sociale.
Fu in quest’ottica che il giovane uomo e la giovane donna decisero di unirsi per fronteggiare la
famiglia, nemico comune, all’interno della quale si sviluppava la personalità autoritaria del
capofamiglia che vi esercitava una supremazia economica e anche sessuale dato che era lui a
portare i soldi a casa, tranquillo della “fedeltà sacrale”( legittimata dalla legge) della donna. Carla
Lonzi, nel suo saggio Sputiamo su Hegel, riferendosi al legame che unisce donna e giovane
affermava:
32
M. Capanna, Lettera a mio figlio sul Sessantotto, cit., pp. 45 - 46. 33
F. Lussana, Il Movimento Femminista in Italia, cit., p. 37.
13
Prima di vedere nel rapporto tra madre e figlio una battuta di arresto dell’umanità, ricordiamoci della catena
che da sempre li ha oppressi in un legame solo: l’autorità paterna. Contro di essa si è creata l’alleanza tra la
donna e il giovane.34
In Lettera a mio figlio sul ’68 Mario Capanna invita a riflettere su una questione importante: se
prima del ’68 una ragazza tornava a casa la sera con mezz’ora di ritardo perché aveva perso
l’autobus, si prendeva un ceffone dal padre come monito; ma nel ’68 quella stessa ragazza
rimaneva fuori tutta la notte ad occupare con i suoi compagni l’università o la scuola media e non si
prendeva più nessuno schiaffo, anzi finiva per coinvolgere la famiglia in una discussione su quanto
di nuovo stava accadendo.
Il movimento studentesco appariva ad alcune donne come un’occasione per fare politica, farsi
coraggio, prendere il microfono ed intervenire nelle assemblee generali: il ’68 fu un trampolino di
lancio verso l’emancipazione femminile. Tuttavia l’alleanza tra il giovane e la donna finì per essere
precaria poiché, sempre in accordo con il giudizio di Carla Lonzi, ben presto:
Il giovane viene risucchiato in una dialettica prevista dalla cultura patriarcale, che è la cultura della presa del
potere; mentre crede di aver individuato col proletariato il nemico comune nel capitalismo, abbandona il
terreno suo proprio della lotta al sistema patriarcale. […] La donna, la cui esperienza femminista ha due
secoli di vantaggio su quella del giovane, e che all’interno della rivoluzione francese prima, di quella russa
poi ha cercato di unire la sua problematica a quella dell’uomo sul piano politico, afferma che il proletariato è
rivoluzionario nei confronti del capitalismo, ma riformista nei confronti del sistema patriarcale.35
Tra le ragazze e i ragazzi del movimento a poco a poco si andava delineando quella che fu la cesura
irreparabile, provocata dal riprodursi, anche all’interno della fraterna comunità degli studenti, di
quelle forme di leaderismo maschile percepito da molte compagne come autoritario che fece di esse
dei nuovi angeli, questa volta non del focolare, ma del ciclostile. Quello dell’uguaglianza divenne
così un valore fittizio. La testimonianza di Maria Rosaria Stabile risulta essere significativa per
comprendere come, nonostante la voglia di studiare e di capire la realtà politica circostante, le
donne si sentissero sempre ai margini: «Ho sperimentato direttamente quanto i “cari compagni”
sfruttavano noi ragazze: noi dovevamo stare lì a ciclostilare e avevano sempre da ridire, oppure da
ironizzare, sui nostri interventi»36
. Oppure come afferma Manuela Fraire:
34
C. Lonzi, Sputiamo su Hegel, Rivolta Femminile, Roma, 1970, p. 21. 35
Ivi. p. 11. 36
P. Stelliferi, Il Femminismo a Roma negli anni Settanta. Percorsi ed esperienze dei collettivi di quartiere., tesi di
laurea, relatrice prof.ssa F. Socrate, a.a. 2011 - 2012, p. 13.
14
[…] Il ’68 non l’ho mai amato, non l’ho mai rimpianto, non l’amerò mai, non è stato il mio movimento. […]
Per me c’è voluta la manifestazione, quella famosa, per la legge sull’aborto , perché io mi trovassi dentro una
manifestazione nuovissima, sconvolgente. Finalmente ero la protagonista di quella manifestazione .[…] Io
ho fatto delle manifestazioni molto importanti, la prima di cui è stata quella di Valle Giulia, ma dentro le
quali io mi sono trovata, ma non mi sono mai veramente identificata37
.
Alcune ragazze del movimento inoltre avevano la percezione frustrante che anche tra le stesse
compagne la politica venisse vissuta in modo diverso ma soprattutto faceva ancora più male la
scoperta che spesso le compagne più impegnate finivano per sembrare dei maschi travestiti: «Io
andavo alle porte tutta infagottata, volevo essere e sembrare un vero militante: il sesso l’avevo
liquidato, non pensandoci e dimenticandomi di essere donna, e così era risolto qualsiasi contrasto
tra la militanza e l’esser donna»38
. Oppure: «Gli angeli del ciclostile c’erano, eccome. Erano donne
come noi, solo totalmente identificate con i loro compagni […] erano totalmente identificate con
ordini di priorità dove la loro vita personale non era rappresentata. Anche se erano delle leaders»39
.
Ma l’alleanza tra le donne e i giovani del movimento fu provvisoria infatti, terminato il ’68, le
donne si ritrovarono sole, estranee ma diverse. L’appartenenza al proprio sesso non si cambiava
come un vestito: tutti si era giovani prima, durante e dopo l’esperienza della contestazione, ma si
era donne per tutta la vita40
.
In ogni modo ci fu una sorta di filiazione tra il movimento femminista e il ’68. Tuttavia oggi è
possibile affermare che per entrare in uno spirito femminista le giovani donne hanno dovuto
scardinare le parole d’ordine, i modi e i miti sessantotteschi. “È stato malgrado il ’68 e non grazie al
’68 che hanno potuto farlo”41
.
37
Ivi. p. 14. 38
Ivi. p. 12. 39
Ivi. p. 14. 40
F. Lussana, Il Movimento Femminista in Italia, cit., p. 43. 41
M.L. Boccia, L’io in rivolta. Vissuto e pensiero di Carla Lonzi, Tartaruga edizioni, Milano, 1990, p. 97.
15
1.2 Tra uguaglianza e differenza: il Manifesto di Rivolta Femminile
Abbiamo chiesto l’uguaglianza nel XVIII secolo e Olympe de Gouges è mandata sul patibolo per la sua
“Dichiarazione dei diritti delle donne”. La richiesta dell’uguaglianza delle donne con gli uomini sul piano
dei diritti coincide storicamente con l’affermazione dell’uguaglianza degli uomini fra loro. La nostra
presenza, allora, è stata tempestiva. Oggi abbiamo la coscienza di essere noi a porre la situazione.
Carla Lonzi42
Nella primavera del 1970, riunite all’isola d’Elba, tre donne, Carla Lonzi, Carla Accardi ed Elvira
Banotti, si accingevano alla stesura collettiva di un testo che rimase alla storia come il Manifesto
di Rivolta Femminile, atto di nascita di uno dei collettivi più originali e rilevanti del
neofemminismo italiano. Queste erano tre donne borghesi, per lo più quarantenni, che avevano un
solido lavoro alle spalle (Carla Lonzi era un’affermata critica d’arte, mentre Carla Accadi veniva
considerata una brava pittrice). Ma fu proprio nel mondo del lavoro che sperimentarono il disagio
e il conflitto con la società degli uomini. In Nove dimissioni e mezzo Adele Cambria ne fornisce
alcuni vividi ritratti:
La pittrice Carla Accardi la sentivo più vicina: siciliana di Trapani, accanita, accalorata, “spiritata”, a volte
come si dice da noi del Sud…
E con lei avevo visto una volta Carla Lonzi; una persona che stava per abbandonare, o aveva già
abbandonato, una professione autorevole e non facile per una donna, come quella dell’esercizio della critica
d’arte. […] ma Carla avrebbe maturato - dalla sua lucida rabbia – esperienze e riflessioni che avrebbero
dato il via alla produzione di un altro sapere.
[…] E il personaggio che spiazzava tutte era Elvira Banotti, una donna attraente, vistosa, “esotica”per
essere nata in Etiopia da genitori italiani43
.
Il manifesto si componeva di una serie di frasi incisive che vennero concepite dalle tre autrici
come una sorta di “liberazione”. Il testo si apriva con una celebre frase di Olympe De Gouges:
«Le donne saranno sempre divise le une dalle altre? Non formeranno mai un corpo unico?»44
e
proseguiva in modo epigrammatico con la contrapposizione tra l’uomo e la donna senza omettere
un attacco aperto alla cultura maschile:
42
C. Lonzi, Sputiamo su Hegel, cit., p. 3. 43
A. Cambria, Nove dimissioni e mezzo. Le guerre quotidiane di una giornalista ribelle, Donizelli editore, Roma, 2010,
p. 156. 44
Manifesto di Rivolta Femminile, 1970, disponibile online al sito:
http://www.ildialogo.org/donna/rivoltafemminile30052005.htm, consultato il 14/01/2014.
16
La donna è l’altro rispetto all’uomo. L’uomo è l’altro rispetto alla donna. L’uguaglianza è un tentativo
ideologico per asservire la donna a più alti livelli.[…] Le donne son persuase fin dall’infanzia a non
prendere decisioni e a dipendere da persona "capace" e "responsabile": il padre, il marito, il fratello...[…]
Denunciamo lo snaturamento di una maternità pagata al prezzo dell’esclusione […] Sputiamo su Hegel
[…] Comunichiamo solo con donne.45
Questo manifesto si fece portatore di un concetto molto importante che rese l’esperienza del
neofemminismo italiano diversa da quella dei neofemminismi degli altri paesi: sviluppava una
critica radicale contro la conquista dell’uguaglianza giuridica o della parità formale tra i sessi che,
fin dall’immediato secondo dopoguerra, era stata l’obiettivo principale da raggiungere per
l’Unione Donne Italiane (UDI) e il Centro Italiano Femminile (CIF). Infatti entrambe le
associazioni si battevano affinché le donne fossero integrate nella politica e nella società,
conquistassero il diritto di voto e raggiungessero un certo grado di emancipazione che permettesse
loro di accedere alla sfera pubblica. Questo tipo di emancipazione però avrebbe da una parte
esteso alle donne gli stessi diritti dell’uomo, e quindi il pieno diritto di cittadinanza, ma allo stesso
tempo non avrebbe evitato che le donne avessero continuato a svolgere da sole i compiti domestici
e familiari concepiti come appartenenti alla sfera della riproduzione e per questo prettamente
femminili. Nel 1950 il Parlamento approvò una legge di tutela della lavoratrice madre, modificata
poi nel 1971 (legge 30 dicembre 1971, n.1204). Tale legge, sebbene agevolasse le donne
nell’orario e nelle specifiche mansioni di lavoro, riconosceva implicitamente solo a quest’ultime i
doveri verso la cura dei figli e della casa46
.
Leggi come questa vennero criticate indirettamente dal manifesto di Rivolta Femminile poiché
non accettava un diritto il cui fine era quello di proteggere e tutelare le donne ritenendole il sesso
più svantaggiato: in questo modo veniva solo suggellata legalmente la loro “presunta debolezza” e
si gettavano le basi della conquista dell’uguaglianza formale con l’altro sesso sulla “doppia
militanza” delle donne che restavano comunque sempre divise tra casa e lavoro47
. Ed ecco che
Carla Lonzi scriveva: «L’uguaglianza è un tentativo ideologico per asservire la donna i più alti
livelli». Infatti il concetto di uguaglianza che si era affermato nella storia non era altro che un
barbaro tentativo di una forzata e innaturale omologazione della donna all’uomo. Non c’era
disuguaglianza più diseguale di quella che negava la differenza48
. In questo senso il
neofemminismo degli anni Settanta fu un movimento antiegualitario: soltanto attraverso il
45
Ibidem. 46
F. Lussana, Il Movimento Femminista in Italia. cit., pp. 32 - 33. 47
Ivi. p. 33. 48
Ibidem.
17
riconoscimento della differenza sessuale tra uomini e donne, i due sessi avrebbero finalmente
potuto raggiungere la parità. In Sputiamo su Hegel Lonzi scriveva:
L’uguaglianza è un principio giuridico […] La differenza è un principio esistenziale che riguarda i modi
dell’essere umano, la peculiarità delle sue esperienze, delle sue finalità, delle sue aperture […] Quella tra
donna e uomo è la differenza di base dell’umanità49
.
Infatti sempre secondo Lonzi, l’uguaglianza tra i sessi era la veste sotto la quale si celava
l’inferiorità della donna. Ma per raggiungere l’obiettivo della differenza bisognava prima de-
costruire il modello paritario separando la funzione riproduttiva (storicamente femminile) da
quella produttiva (storicamente maschile): ciò avrebbe rivalutato il ruolo biologico e naturale della
donna; in seguito occorreva mettere fine alla neutralità delle istituzioni e dello Stato rendendoli
luoghi sessuati. Solo così la differenza delle donne sarebbe potuta diventare un valore.
1.3 L’incontro con le francesi
In Vandea sono stata vista senza ricatti, senza condizioni ho dato diritto d’esistere al mio corpo per
quello che è, l’ho conosciuto.
Antonella Nappi50
Il Movimento femminista italiano, sul modello dei femminismi occidentali, adottò la pratica
dell’autocoscienza: questo fu il principale strumento che il femminismo italiano si diede fin dai suoi
primissimi anni per avviare un’analisi e pensare ad un intervento nel reale. Tuttavia l’esperienza
dell’autocoscienza non fu un processo linearmente codificabile e teorizzabile poiché si basava
principalmente su esperienze o analisi teoriche individuali e collettive, presenti, il più delle volte,
sotto forma di testimonianze. Le donne che la praticavano non consultavano gli scritti di filosofi
eminenti, ma cercavano le risposte che desideravano all’interno di loro stesse. Come suggerisce
Perry Willson, per molte partecipanti il gruppo di autocoscienza era un’esperienza che cambiava la
vita: «Ognuna di noi diceva qualcosa e qualunque cosa dicesse piccola o grande aveva la sua
importanza: per me questa è stata una cosa grandiosa! Unica! Un’esperienza unica»51
. Tuttavia non
tutte le esperienze furono positive: spesse volte all’interno dei gruppi venivano ad aprirsi questioni
che rimanevano irrisolte e le quali soluzioni non potevano essere trovate all’interno del gruppo.
49
C. Lonzi, Sputiamo su Hegel, cit., p. 4. 50
A. Nappi, , La nudità, in L. Melandri, Una visceralità indicibile. La pratica dell’inconscio nel movimento delle
donne degli anni Settanta, Fondazione Badracco - Franco Angeli, Milano, 2000, p. 146. 51
P. Willson, Italiane. Biografia del Novecento, cit., pp. 272 - 273.
18
La pratica del “piccolo gruppo”52
risaliva storicamente agli inizi del 1970 poiché restava legata ad
una prima generazione di femministe che vedevano in essa una ricerca di auto definizione: ben
presto tale pratica finì per rivelarsi non omogenea e profondamente contraddittoria. Le donne che
uscivano dal ’68 affermavano che “l’unica possibilità di liberazione di una donna passava attraverso
la presa di coscienza collettiva della propria condizione specifica”53
: sperimentando nuove forme
particolari di “oppressione”, le donne necessitavano pratiche diverse rispetto alla classica presa di
coscienza cara ai loro compagni maschi. All’interno del piccolo gruppo tra le donne che si
riconoscevano oppresse si creò una certa forma di solidarietà unità al desiderio profondo di un
rovesciamento della “supremazia” maschile.
Focalizziamo ora l’attenzione sui primi gruppi di autocoscienza: solo così sarà più facile
comprendere in che modo l’incontro con le francesi abbia condizionato lo svolgimento dei loro
lavori. DEMAU, Rivolta Femminile e Anabasi furono i gruppi su cui conviene focalizzarsi: tutti e
tre appartenevano all’esperienza milanese ma nonostante tutto tra di essi era possibile riscontrare
alcune differenze significative, al punto da poter affermare che “il femminismo degli anni Settanta
in realtà non fosse uno solo, ma tanti femminismi diversi”54
. (Sembrerebbe non conveniente
riportare l’esperienza dei gruppi del Sud Italia poiché, come scrive Perry Willson, nel Meridione le
donne riscontravano particolari difficoltà ad accedere agli spazi politici pubblici, tali da impedire il
radicamento del femminismo. Tuttavia a Napoli prese piede il vivace movimento delle
Nemesiatiche). Le donne che partecipavano alle riunioni dei tre gruppi milanesi erano diverse per
formazione politica poiché, come sostiene Maria Luisa Boccia in L’io in rivolta. Vissuto e pensiero
di Carla Lonzi, al gruppo DEMAU partecipavano donne che provenivano da organizzazioni
politiche della sinistra, di Anabasi facevano parte donne che provenivano dall’esperienza del ’68
mentre le donne di Rivolta erano quelle con minore esperienza politica pregressa. Inoltre la maggior
parte delle donne di DEMAU e Rivolta apparteneva ad una generazione più adulta rispetto a quella
del ’68, ciò significava che tali donne avevano familiarità con esperienze di lavoro e di matrimonio.
La provenienza sociale delle donne del movimento invece risultava mista, almeno agli inizi, anche
se predominava una componente intellettuale-borghese55
.
DEMAU era il gruppo più anziano: nasceva tra il dicembre del 1965 e il gennaio del 1966 a Milano
per iniziativa di Daniela Pellegrini e si distinse poiché fu un gruppo misto, anche se il gruppo vero e
proprio era formato da donne; agli uomini era consentita la partecipazione ad incontri oppure
solitamente venivano coinvolti in progetti che avevano lo scopo di riformulare i ruoli sessuali sia
52
M. Fraire, Lessico politico delle donne: teorie del femminismo, Fondazione Badracco - Franco Angeli, Milano, 2002,
p. 96. 53
Ibidem. 54
Ivi. p. 274. 55
M.L. Boccia, L’io in rivolta, cit., p. 79.
19
maschili che femminili (agli uomini si chiedeva soprattutto un atto di autocritica e il gruppo non era
immune da un intento provocatoriamente rieducativo). La parola “DEMAU” abbreviava
l’espressione “demistificazione e autoritarismo” in quanto, appena nato, lo scopo del gruppo era
quello di avviare un lavoro di studio da compiersi ricorrendo alla demistificazione dei valori e dei
ruoli che nel tempo avevano strutturato la società su una gerarchia sessuale. Il gruppo si muoveva
alla ricerca di un nuovo umanesimo inteso come la possibilità di rendere la donna un “essere umano
intero” in grado di astrarsi dal suo sesso (femminile), definito “secondario”: solo così si sarebbe
verificato il superamento dei ruoli sessuali distinti che avrebbe portato al raggiungimento di tutta la
pienezza dell’uomo in quanto tale56
. Questa prospettiva fu invece respinta da Rivolta.
Non sembra opportuno dilungarsi troppo sull’esperienza di Rivolta, ampiamente trattata nel
precedente paragrafo, al contrario sembrerebbe più consono far notare una particolarità:
Il gruppo di Rivolta Femminile si è formato a Roma nella primavera scorsa e ha segnalato la sua esistenza in
giugno. Esso intende svolgere un’azione diretta attraverso la pubblicazione e la diffusione di documenti
elaborati collettivamente e individualmente per una presa di coscienza della donna. Rivolta Femminile rifiuta
di comunicare con la stampa attraverso articoli o interviste e fornisce invece brevi comunicati. Il gruppo non
ha leader ed è ramificato a Milano e in altre città.57
“In altre città” è un’espressone significativa poiché invitava a riflettere sul fatto che già dalla
primavera del 1971 si costituirono gruppi omonimi a Torino, Genova e Roma, senza contare che
successivamente l’esperienza di Rivolta fu esportata anche a Firenze e Lugano. Le costanti del
movimento erano il separatismo (quindi l’esclusione dell’uomo dalle attività) e il rifiuto della
politica e della cultura ufficiali.
L’esperienza di Anabasi invece era legata alla figura di Serena Castaldi che nell’estate del 1970,
sempre a Milano, fondò questo gruppo che in principio si riuniva per analizzare i documenti del
Movimento femminista americano. Infatti fu negli Stati Uniti che Castaldi prese contatto con i
gruppi di autocoscienza. Ecco la sua esperienza:
Le prime volte ci siamo trovate dicendo: «Io vi racconto di questa esperienza». Poi una volta che eravamo
riunite lì, mi sono resa conto che invece di raccontare l’esperienza americana era più interessante applicare
quel modello che avevo visto usare lì, di dare la parola successivamente a ciascuna e vedere cosa veniva
56
Ivi. p. 154. 57
Ivi. p. 157.
20
fuori… Ognuno diceva la motivazione che l’aveva portata lì, e ora della fine della riunione era chiaro che
c’erano tanti di quei problemi che tutte erano interessate a ritrovarsi. E così è nato il gruppo.58
Il tema principalmente dibattuto dal gruppo era la sessualità, che venne messa a confronto con il
problema dell’omosessualità solo negli ultimi anni della sua pratica. Furono due le tendenze che si
svilupparono in Anabasi: le donne che fecero il ’68 si sentivano maggiormente attratte dalla pratica
dell’autocoscienza (e questa fu la tendenza prevalente); quelle che invece rimasero estranee al
movimento, non avendo mai militato in partiti o movimenti politici, sentirono invece maggiore la
necessità di un confronto diretto con la realtà esterna al gruppo (finirono per staccarsi presto da
Anabasi). Il gruppo si applicò per elaborare un progetto femminista di vita quotidiana59
, simile ad
un utopistico falansterio, che voleva sperimentare un modello di convivenza alternativo alla
famiglia tradizionale e alle sue dinamiche, dal quale l’uomo non era bandito. Anabasi inoltre avviò
una forma di pubblicazione collettiva60
molto apprezzata dalle militanti poiché permise loro di
restituire la qualità comunicativa propria della pratica dell’autocoscienza. Tale esperimento ebbe
successivamente una continuazione in testate come “Sottosopra” a Milano o “Differenze” a Roma.
L’autocoscienza fu comunicata dalle militanti di Anabasi anche attraverso pratiche gestuali e
corporee come la danza e tecniche comunicative non verbali. Tutto ciò fino al 1975 quando il
movimento si sciolse.
Ben presto, in questi vari gruppi, dalle donne scaturì l’esigenza di trovare una sede comune che nel
1972 venne indicata nella casa di via Cherubini 8 a Milano. Ora la pratica del piccolo gruppo
cedeva il passo all’esperienza del “collettivo” che concentrò la sua riflessione principalmente su
temi come la sessualità, l’omosessualità, il rapporto fra donne. Ed è proprio in questo passaggio che
possiamo rilevare l’influenza del femminismo francese e dello loro pratiche.
Si potrebbe dire che il 1972 fu un anno di svolta poiché in Francia furono organizzati dalle
femministe francesi due incontri suggestivi: uno si tenne a giugno a La Tranche sur Mer, in Vandea,
organizzato dal Mouvement de libération des femmes (MLF), il secondo si tenne dal 27 ottobre al
1° novembre in Normandia, vicino Rouen, nel castello settecentesco di Vieux-Villex, organizzato
questa volta dal parigino Politique et Psychanalise (Psych et Po). Il movimento Psych et Po
differiva dal tradizionale MLF poiché poneva al centro la scoperta, partendo da sé, di un femminile
nascosto e censurato dalle teorie dominanti, da compiere attraverso un percorso faticoso che
intrecciava politica e psicoanalisi per affrontare la dimensione simbolica e svelare l’esistenza di un
58
M.L. Boccia, L’io in rivolta, cit., p. 82. 59
F. Lussana, Il Movimento Femminista in Italia, cit., p. 160. 60
M.L. Boccia, L’io in rivolta, cit., p. 82.
21
“féminin…en soi”61
. Le femministe italiane provenienti da Milano, Torino, Trento e Verona
presero parte ai due raduni francesi e l’influenza di Psych et Po fu rilevante poiché comportò
un’accelerazione nel passaggio dall’autocoscienza alla pratica analitica.
Ecco come la giovane femminista Antonella Nappi raccontava la sua esperienza in Vandea:
In giugno sono stata ad un convegno europeo organizzato dal Movimento femminista francese in Vandea per
passare una settimana al mare, tra sole donne, fuori dalla contraddizione “quotidiana” del rapporto con
l’uomo. […] Divengono sette giorni di vita collettiva e questa non è facile da improvvisarsi tra donne che
non si sono mai viste prima, di lingua diversa. […] L’esperienza fondamentale per me a questo convegno è
stata la nudità.62
Per Antonella quella di La Tranche sur Mer non era la prima occasione in cui poté sperimentare il
nudo in pubblico in quanto aveva già partecipato al festival di “Re Nudo” a Zerbo sul Ticino, ma
l’esperienza tratta dai due incontri fu quasi opposta:
Ho detto che spogliarmi non mi veniva spontaneo, che non avevo mai visto nude delle donne in modo
familiare, ho raccontato di Zerbo ed ho posto il problema che vivevo la nudità delle donne similmente a
come la vivono gli uomini e cioè che ciò che è tradizionalmente coperto, se scoperto mi generava una
curiosità morbosa. […] Ho detto che spogliarci, se lo volevamo fare, non doveva prendere a pretesto il sole,
ma doveva essere una volontà di conoscere i nostri corpi, di guardarci e sentirci guardate per conoscerci
internamente non soltanto attraverso i discorsi che facevamo e per acquistare un’ottica nostra, delle donne
sulla nudità della donna.63
Il desiderio di conoscere il proprio corpo fu possibile ad Antonella solo dopo l’esperienza con le
francesi le quali avevano creato intorno alla tematica una riflessione molto profonda: «Nella nudità
invece acquistavano risalto, la faccia prima di tutto e poi le mani e i piedi, le spalle; nello stesso
tempo però il sedere, il pube soprattutto i seni erano un elemento estremamente caratteristico per
ognuna […] la varietà era infinita, ci si poteva riconoscere dal solo seno»64
.
Ma la scoperta principale a cui si arrivò dopo aver sperimentato la nudità fu che la persona non
poteva essere scissa dal suo corpo: «È impossibile camuffarsi quando si è nudi.[…] Constatare che
61
E. Guerra, Femminismo/femminismi: appunti per una storia da scrivere, cit., p. 104. 62
A. Nappi, La nudità, in L. Melandri, Una visceralità indicibile, cit., p. 141. 63
Ivi. p. 144. 64
Ivi. pp. 144 - 145.
22
questo mio corpo veniva non solo accettato ,a che la conoscenza di me era fisica assieme che
intellettuale, e che venivo amata interamente […] mi ha dato una grande forza»65
.
L’incontro di Vieux-Villez invece invitò le giovani a fare un lavoro diverso su se stesse. Nel corso
dell’incontro le donne riuscirono ad abbandonarsi per la prima volta a pratiche nuove come quella
del ballo. Gabriella descrive così la sua esperienza: «I balli collettivi erano un modo di incontrarsi
che non fosse la parola. Il giorno dopo era veramente diverso il rapporto che potevi avere con le
donne con cui avevi ballato, riuscivi a parlare senza sentire la sensazione di farlo in maniera un po’
ideologica»66
.
Stando così le cose, la pratica psicoanalitica fu vista come un’arma rivoluzionaria per affrontare il
nodo della sessualità femminile. L’omosessualità divenne lo strumento per definire la differenza
sessuale e per risalire, attraverso l’analisi collettiva, all’irrisolto rapporto con la madre. Tale
rapporto stava all’origine di tutto poiché era proprio la madre che aveva tenuto in grembo, nutrito e
accarezzato le sue figlie. Questo permise alle donne di formare una loro identità e creatività ma, con
le parole di Lea Melandri, fu proprio lì che ad un tratto si consumò il drammatico spostamento del
“desiderio sessuale della figlia per la madre”, quella “infamia originaria” imposta dalla società
patriarcale.67
Fu l’incontro con le francesi che suggerì alle femministe l’idea di una sessualità più
libera, sia essa omo o eterosessuale, la quale poteva essere raggiunta solo attraverso l’analisi
collettiva delle fantasie e delle censure implicate nel rapporto madre-figlia.
Vale la pena di riportare le impressioni di Silvia circa l’incontro di Vieux-Villez:
Quasi sempre il rapporto con l’uomo è indispensabile per non rimanere attaccati al rapporto simbiotico con
la madre, ti mette di fronte al diverso. […] Chi non riesce a fare questo passo di distacco è la lesbica
tradizionale che ricerca il rapporto con donne proprio perché è ancora legata alla madre in maniera non
libera. […] Il rapporto con le donne rappresenta un recupero della sessualità femminile. […] Non sono in
rapporto due sessualità perché la legge è una sola: quella maschile. […] Alle donne spetta recuperare la
propria sessualità.68
La madre viveva come la figlia all’interno della società maschile ed era proprio per tale ragione che
oltre ad apparire buona e gratificante, poteva rivelarsi anche cattiva e distruttiva. Elvio Facchinelli
la definisce una “madre mortifera”:
65
Ivi. p. 146. 66
Ivi. p. 150. 67
F. Lussana, Il Movimento Femminista in Italia, cit., p. 75. 68
L’incontro di Vieux-Villez. Registrazione di una discussione collettiva, in L. Melandri, Una visceralità indicibile,
cit., pp. 152 - 153.
23
Le donne sono a parte la madre. […] La madre è mortifera. Questo potere le viene in questa cultura perché
essa vi è come la negatività del padre, della cui legge è il supporto negativo. A lei in quanto tale sono
assegnati i figli. Quanto a noi, a lei è assegnato il nostro stesso corpo, le sue forme, organi, cicli e
ghiandole… Altro che rapporto naturale, biologico, quello tra la madre e il bambino.69
Dietro di lei si nascondeva un maschio travestito, che poteva influenzare in modo negativo anche il
rapporto della donna con l’uomo. La madre buona e gratificante era nello stesso tempo la strega
malefica e divoratrice. Il nutrimento e l’amore che essa ci dava erano continuamente minacciati,
nella fantasia infantile, dalla sua capacità distruttiva.70
Tuttavia dietro tutto ciò si celava anche una critica al rapporto lesbico tradizionale, modellato sulla
fase simbolica del rapporto madre-figlia. Si apriva allora una seconda fase, quella
dell’identificazione felice con la madre71
che poteva portare a rapporti progressivi tra le donne.
Molte avevano riscontrato un feedback positivo dall’incontro come ad esempio Cristina che
afferma:
Il rapporto con le donne ha messo in crisi il mio rapporto con l’uomo, non in crisi negativa ma in una crisi
stranamente positiva. Perché attraverso il rapporto con le donne sono riuscita a rivalutare il sesso e ad essere
molto più forte di prima. […] Ci sono io e il mio corpo. Questa è una fase. Adesso vivo il rapporto con le
altre donne (e quindi anche il possibile rapporto omosessuale) non più come un fatto di coppia (che non
desidero minimamente), ma come una specie di rapporti in cui si sperimentano insieme diversi modi di
esprimersi. All’interno del mio gruppo proponevo un rapporto con le donne molto più forte: affettivo e anche
sessuale. Però credo che sia indispensabile superare la fase di ricerca della madre. Adesso in effetti riuscite a
piacermi tutte senza particolari preferenze e il fatto di pensare anche ad avere un rapporto sessuale con voi
non mi sconvolge minimamente perché non comporta un invischiamento come nella coppia.72
Dopo l’incontro con le francesi di Psych et Po il femminismo italiano si arricchì di pratiche nuove
che finirono per affiancare il vecchio esercizio dell’autocoscienza che ora sembrava non essere più
adatto a soddisfare le nuove richieste delle donne che si muovevano verso un andare oltre la
sorellanza, il lesbismo, l’analisi dell’ambivalenza dei rapporti di potere tra donne. Era allora che
avveniva il passaggio dal “collettivo” alla “pratica analitica” la quale ebbe poi il compito di far luce
sulla perdita dell’amore materno originario.
69
E. Facchinelli, Madre Mortifera, in L. Melandri, Una visceralità indicibile, cit., p. 168. 70
Ivi. p. 170. 71
L. Passerini, Corpi e corpo collettivo, in T. Bertilotti e A. Scattigno, Il femminismo degli anni Settanta,
cit., p. 191. 72
L’incontro di Vieux-Villez. Registrazione di una discussione collettiva, in L. Melandri, Una visceralità indicibile, cit.,
pp. 154 - 155.
24
Sulla scia dell’esperienza francese, le donne italiane decisero di incontrasi a Varigotti, sulla riviera
ligure, nel 1973 in un incontro organizzato dai gruppi milanesi e torinesi. Vi parteciparono una
cinquantina di italiane e circa cinque o sei francesi ma la diversità delle due formazioni era netta
poiché le italiane continuavano a considerare il piccolo gruppo il passaggio principale per svelare il
proprio mondo interiore e liberare l’energia della soggettività femminile; le francesi invece, erano
ancora legate alle loro riflessioni sulla figura materna che le portava a scegliere il separatismo
radicale, fortemente connotato dal lesbismo e proponevano il confronto/scontro con la durezza dei
rapporti di potere. Ma quest’incontro fu il trampolino di lancio per la nascita in Italia di gruppi
devoti alla pratica psicoanalitica o dell’inconscio. Emersero “Analisi”, nato alla fine del 1973 e
“Pratica dell’inconscio”, voluto da Lea Melandri dopo il convegno di Pinarella di Cervia nel 1974.
Sebbene con le opportune diversità, erano gruppi che andavano oltre l’autocoscienza, trattavano
analiticamente la cultura psicoanalitica e i suoi strumenti. L’autocoscienza non bastava più.
Appariva fin da subito necessario superare la rigidità del rapporto cristallizzato fra analista e
analizzata e fare in modo che quanto emergeva dal rapporto venisse condiviso dal collettivo per
trasformarsi in sapere politico.73
Queste nuove tecniche volevano rimettere al centro della vita
emotiva la figura simbolica della madre. Vediamo come si svolgeva la pratica del nuovo gruppo:
Nel nostro gruppo c’erano donne in analisi, ma appunto non erano presenti insieme analiste e analizzate…
Ogni sera il discorso nasceva occasionalmente, su partenze non previste, non c’era un oggetto teorico,
culturale, su cui discutere. Il modo di procedere era per libere associazioni […] una diceva una cosa e
un’altra o seguiva il filo del discorso come in orizzontale, o cercava di interpretarlo, di attraversarlo. Il nostro
gruppo ha sopportato anche di avvicinarsi di più alla pratica analitica.74
Ma il primo convegno nazionale dei gruppi femministi si tenne a Pinarella di Cervia, sulla costa
adriatica, i primi di novembre del 1974. Fu a Pinarella che si evidenziarono le contraddizioni
interne al Movimento femminista italiano. Qui si rifletté sulla possibile evoluzione
dell’autocoscienza in pratica psicoanalitica ed si generò attrito tra quei gruppi come Lotta
Femminista che incentrarono la loro pratica sull’agire politico, e i collettivi come il Cherubini che
da contenitore dei diversi gruppi milanesi ora divenne gruppo a sé, incentrato sulla pratica analitica
e sul lesbismo come principale forma della comunicazione tra donne. Appunto per tale scelta di
azione le finirono per essere accusate di elitarismo e dogmatismo in quanto si staccarono dalla linea
generale di pratica del movimento.
73
F. Lussana, Il Movimento Femminista in Italia ,cit., p. 163. 74
Ivi. p. 165.
25
Anche il secondo convegno di Pinarella di Cervia del 1975 fu un confronto sulla pratica analitica,
ormai all’ordine del giorno per i gruppi milanesi, relazionata ai temi come la sessualità, l’aborto, il
salario alle casalinghe: non si riuscì più a trovare l’equilibrio tra la storia di sé e il corso naturale
della storia che, essendo in continua evoluzione, finì per spingere le donne all’impegno attivo nella
società, ad esempio attraverso le varie manifestazioni a favore dell’aborto.
In conclusione possiamo sostenere che l’effetto dell’incontro con le francesi sul Movimento
femminista italiano fu un vero e proprio terremoto che portò alla frattura dello stesso. Da una parte
c’erano le donne dei collettivi come il Cherubini che volevano analizzare la negazione della
sessualità, del corpo, della vita affettiva delle donne tramite la pratica analitica; dall’altra quelle che
lottavano per ottenere il consultorio e la legge sull’aborto, che scendono in piazza per chiedere
diritti e riforme, rivendicavano uno spazio pubblico tramite la pratica del fare. Esistenza o
cittadinanza. Pratica dell’inconscio o pratica del fare. Corpo negato o diritti negati. Si partiva
comunque dalla negazione di qualcosa, ma le strade si divisero.75
1.4 Come le organizzazioni politiche recepiscono il Movimento femminista
Nella politica del femminismo non entrano le ideologie e gli schieramenti. Si afferma invece un’idea
nuova, sostanzialmente laica e autosufficiente della politica che, nell’impegno costante a mantenere
vivi i legami col proprio io, diventa aspirazione a tenere insieme la pratica autoriflessiva e la pratica
del fare. […] Il femminismo si confronta con la politica istituzionale finché questa è percepita come
risposta a bisogni reali, umani. “L’umanità come orizzonte e come metodo”.
Fiamma Lussana76
Il movimento femminista degli anni settanta dietro lo slogan “il personale è politico” sintetizzava
quella che era la sua politica di azione nei confronti della società. Attraverso questo slogan, le
donne volevano dare il via ad una sorta di “rivoluzione copernicana” attraverso la quale avrebbero
finalmente chiuso con la politica dell’emancipazione, che prevedeva il raggiungimento
dell’uguaglianza giuridica tra gli uomini e le donne, portata avanti dalle loro “madri” dell’UDI.
Tuttavia tale uguaglianza era in realtà una falsa uguaglianza poiché le donne, anche se formalmente
godevano degli stessi diritti degli uomini, a livello pubblico non potevano considerarsi pienamente
cittadine in quanto sentivano il peso di un’ineguaglianza sostanziale che “le costringeva ad ignorare
75
F. Lussana, Il Movimento Femminista in Italia, cit., p. 82. 76
F. Lussana, Le donne e la modernizzazione, cit., p. 502.
26
e reprimere i loro bisogni, i loro desideri e la loro storia”77
rendendole sempre più frustrate e
insoddisfatte. Ma attraverso il motto “il personale è politico” le neofemministe avevano capito che
bisognava dare nuova luce al vissuto personale e alla soggettività delle donne: per fare ciò si doveva
necessariamente ripartire da sé.
Il personale si fa politico quando è il “privato”78
a diventare protagonista all’interno delle
riflessioni che le femministe portavano avanti attraverso la pratica dell’autocoscienza. Il termine
“privato” sottintendeva sia tutti i rapporti che si verificavano tra le mura domestiche, sia tutti i
problemi legati all’essere donna in una società dominata dagli uomini. Tutto ciò si realizzò proprio
perché le donne sentirono l’esigenza di uscire dalla loro realtà domestica, isolata e tipicamente
familiare, per venire allo scoperto, stare insieme alle altre donne e condividere insieme le
esperienze. Facendo così si organizzarono “in quanto donne”79
, obbligando l’uomo a rapportarsi
con loro come soggetto collettivo che aveva il compito di auto legittimarsi. Chiara Pasquinelli
definisce il concetto in questo modo:
“Il personale è politico” diventa così […] la sua formula di accesso alla storia. […] Che cosa vuol dire in
concreto questo sostantivo “il personale”?[…] Io tenderei a vedere “nel personale” già la critica immanente
del privato nella misura in cui non rinvia ad un soggetto psicologico, ma, proprio in quanto prefigura la
risoluzione della scissione, presuppone il soggetto politico. Nel personale si inscrive già la politicizzazione
del privato.80
Inoltre come ricorda Paola Di Cori, fu l’esperienza dei gruppi e dei collettivi negli anni Settanta a
suggerire che, in fin dei conti, nessuna esperienza era solo individuale: le donne agivano,
pensavano, sentivano in una misura che era sempre legata al gruppo: «Le idee sono collettive, i
volantini si firmano a nome del gruppo»81
.
Tuttavia, sempre secondo Paola Di Cori, era possibile rintracciare due fasi in questo processo: una
dal 1966 al 1974 in cui le protagoniste passarono dal confronto graduale ed esclusivo con le donne
del proprio gruppo a quello con gli “esterni”, rapportandosi con le femministe degli altri collettivi e
anche con gli uomini; la seconda fase, invece, dal 1975 quando i piccoli gruppi si concentrarono
prevalentemente sul mondo esterno, prediligendo alla comunicazione interna quella esterna con i
mass media e i partiti politici. Tutte le speranze racchiuse all’interno dello slogan “il personale è
politico” ora sembravano essere datate:
77
Ivi. p. 501. 78
M. Fraire, Lessico politico delle donne, cit., p.76. 79
Ivi. p. 77. 80
Ibidem. 81
P. Di Cori, Il movimento cresce e sceglie l’autonomia 1974 – 1975, in P. Stelliferi, Il Femminismo a Roma negli anni
Settanta, cit., p. 91.
27
Dal 1975 al 1977 […] con un baricentro spostato verso l’esterno, si raggiungono […] due risultati di rilievo.
Il primo riguarda l’affermazione pubblica di massa del femminismo. […] Il secondo risultato è lo sviluppo di
un grande impegno teorico e culturale. Gli anni 1975-76 sono molto fecondi per l’elaborazione interna e per
le iniziative con cui si “espande” la visibilità “pubblica” del femminismo.82
In ogni modo se da un lato la teoria del “personale è politico” venne abbandonata dalle femministe
storiche che preferirono scendere in piazza e manifestare per l’aborto libero, dall’altro bisognava
riconoscere che le femministe dei collettivi di recente costruzione tornavano a praticare
l’autocoscienza come strumento politico. Del resto il nuovo rapporto che si instaurava tra corpo e
sessualità che procedeva dall’aborto faceva si che le donne potessero ricorrere ad uno strumento di
analisi che andava dal partito, alla piazza o anche al vecchio gruppo di autocoscienza. Appunto per
tali motivazioni, tra il 1975 e il 1976, la pratica dell’autocoscienza si impose con forza negli
ambienti della sinistra extraparlamentare e, anche se in modo minore, in quelli del Partito
comunista, del Partito socialista e dei sindacati. Fu a questo punto che molte donne che da sempre
avevano diffidato delle organizzazioni politiche, finirono per esserne attratte e per formare dei
collettivi femministi in cui militare. A metà degli anni Settanta queste nuove militanti lottavano per
cambiare la cultura della sinistra, cominciando dal dibattito sulla questione uomo/donna,
interpretata finora soltanto in chiave economica. Nel 1976 in un numero di “Differenze” si leggeva:
[…] Noi donne non vogliamo il potere, lo aborriamo anzi profondamente perché lo abbiamo subito per
secoli sulla nostra pelle e sappiamo cosa significa, ma è giunto il momento di chiederci come fare per
realizzare i nostri obiettivi che sono anche i nostri bisogni, se non vogliamo ancora una volta rimanere
prigioniere di sterili meccanismo di difesa.83
La risposta a tale interrogativo può essere rintracciata nella “doppia militanza”. Maria Rosa Dalla
Costa infatti afferma: «Nella società della lotta la donna scopre ed esercita un potere che
effettivamente le dà una nuova identità. Identità che appunto può consistere in un nuovo grado di
potere sociale»84
.
Le donne che praticavano la doppia militanza vivevano una nuova autonomia che da una parte
permetteva loro di pronunciare una dura critica alle gerarchie di potere legate al concetto di
militanza; dall’altra faceva si che esse potessero prendere parte, in maniera superiore, alle decisioni
politiche. Ma tale fenomeno era da ricollegarsi all’irruenza con cui tematiche come l’aborto e la
82
Ivi. p. 92. 83
M. Fraire, Lessico politico delle donne, cit., p. 88. 84
Ivi. p. 89.
28
sessualità femminile, estremamente care alle femministe in quanto relative al loro “privato”,
investirono la nuova sinistra. Una femminista, Maria Zalai, esprimeva così il suo pensiero:
Io sono arrivata alla conclusione che la doppia militanza è un falso problema […]. Per non essere più divise è
necessario affrontare, anche in un partito, il privato e il pubblico insieme. Insomma, non mi è sembrato di
dover scegliere tra una o due militanze. Sono piuttosto gli uomini a dover meditare sul fatto che sono loro a
fare una mezza militanza, quella politica.85
Insomma la doppia militanza divenne una dimensione necessaria per tutte quelle donne che
volevano conciliare politica e femminismo, ma divenne pratica fondamentale per le altre che,
sebbene avessero deciso di continuare a lavorare negli ambienti di lavoro maschili, non
rinunciarono al loro ruolo di donne e, soprattutto, di femministe.
Passiamo ora ad esaminare come questa “doppia militanza” si relazionò sia con la nuova sinistra
(extraparlamentare) sia con la sinistra storica.
Il primo gruppo della sinistra extraparlamentare che affrontò la questione femminista fu il gruppo
del Manifesto che già dal 1971 sulle sue pagine accennava alla questione femminista
domandandosi: «La liberazione della donna è riconducibile nell’alveo della lotta di classe?»86
. La
risposta data, attraverso l’esponente del gruppo dirigente Lidia Menapace, era assolutamente
affermativa. Inoltre in questa prima fase il giornale riportava le notizie sulle prime manifestazioni
femministe negli Stati Uniti. Il 1972 fu un anno importante: la sconfitta elettorale del gruppo segnò
l’approdo di molte militanti al femminismo, inevitabile vista la progressiva emarginazione del
corpo politico femminile alle elezioni. Da ora in poi le compagne assunsero un ruolo sempre più
forte all’interno del movimento, riservandosi il compito di accentuare le scelte marxiste e
anticonformiste, battendo dall’interno la divaricazione esistente tra autocoscienza e intervento
esterno87
. Bisognava organizzarsi autonomamente. La pratica dell’autocoscienza era per queste
donne una prassi di routine che esercitavano con le altre nel collettivo romano di via Pomponazzi.
Intere pagine del giornale vennero allora dedicate alla condizione della donna, l’analisi della
famiglia, dei ruoli sociali e sessuali: la campagna per il referendum sul divorzio vide un forte
impegno della componente femminile del gruppo che privilegiò con fare crescente il Movimento
femminista a discapito del Manifesto stesso. Ma dopo la vittoria del referendum, il gruppo del
Manifesto si organizzò in partito: il Pdup per il comunismo88
. Adesso per le donne la pratica della
doppia militanza divenne sempre più difficile e il piccolo gruppo di autocoscienza venne messo in
85
P. Stelliferi, Il Femminismo a Roma negli anni Settanta, cit., p. 95. 86
M. Fraire, Lessico politico delle donne, cit., p. 124. 87
Ibidem. 88
Ivi. p. 125.
29
discussione. Dopo che le militanti romane avevano già espresso la loro volontà contraria, fu durante
il Congresso nazionale di scioglimento del Manifesto che le commissioni femminili furono
definitivamente rigettate perché considerate dei “ghetti”89
. In quest’occasione Giuseppina Ciuffreda
intervenne per sottolineare come gli interventi congressuali avessero dato poca rilevanza alla
questione delle donne:
Cosa significa per una femminista avere la tessera del Manifesto? La tradizione storica terzo
internazionalista indica alla donna una sola via: quella della commissione femminile che riproduce nel
partito lo stesso isolamento che la donna vive nella società. […] il compagno cui sfuggisse tutto questo
sarebbe non tanto un uomo triste, quanto un compagno illuso. […] La linea femminista non la elabora il
partito, ma le donne.90
In seguito a tale dibattito moltissime furono le attiviste che diedero fiducia al Pdup per il
comunismo continuando la pratica della doppia militanza; altrettante furono quelle che decisero di
uscire dal partito poiché questo era contrario a riconoscere la militanza delle compagne come
militanza politica effettiva.
Lotta continua pose l’interrogativo della questione femminile tra la fine del 1973 e l’inizio del 1974
quando si formarono le prime commissioni femminili. Le donne vennero scoperte come un nuovo
settore di intervento grazie anche ai dibattiti aperti dalla battaglia per il referendum sul divorzio alla
quale il gruppo dovette necessariamente aderire. Ma, come sottolinea Stefania Voli in Quando il
privato diventa politico, anche in questa occasione alle donne di Lotta continua veniva riservato un
ruolo marginale poiché il gruppo partecipava alla campagna in funzione essenzialmente
antidemocristiana e antifascista. Possiamo leggere:
Attraverso questo nuovo spazio concesso loro (non ancora ufficialmente), le compagne tentano, con fatica, di
dare al referendum una connotazione di genere. Ma questa è una strada che l’organizzazione lascia
percorrere alle sole commissioni, preferendo focalizzare la propria attenzione su una gestione della
campagna in senso antigovernativo.91
E, in una testimonianza lasciata dal militante di Lc Giovanni De Luna a Stefania Voli, si evince
come non sia il personale ad essere politico ma il “politico ad essere personale”:
89
Ivi. p. 126. 90
Ibidem. 91
S. Voli, Quando il privato diventa politico: Lotta Continua 1968 – 1976, Edizioni associate, Roma, 2006, p. 10.
30
La campagna del divorzio la facemmo in maniera fortissimamente convinta, ma soprattutto perché aveva uno
sfondo politico: la specificità della rivendicazione rispetto al diritto di divorziare c’era, ma insomma la cosa
più importante era sconfiggere la Dc e poi comunque riportare l’iniziativa dal basso alle fabbriche.92
Nel 1975 a Roma si tenne il convegno nazionale delle Commissioni femminili di Lc. Si pose
l’accento esclusivamente sul proletariato femminile e per tale motivo vennero mosse varie critiche
al Movimento femminista che fu definito movimento “culturale” e non movimento di “lotta”93
.
Ciononostante, il primo vero momento di contraddizione tra le donne e Lotta continua è il 6
dicembre 1975: giorno della manifestazione nazionale sull’aborto. Come riporta la testimonianza di
Franca Fossati fu grazie alla questione dell’aborto che le militanti di Lc smisero di guardare le cose
dal punto di vista degli operai per affidarsi a quello delle donne, aprendo una voragine che ben
presto portò allo scioglimento del gruppo stesso.94
Infatti nel corso della manifestazione il servizio
d’ordine di Lotta continua aggredì il corteo delle compagne sollevando a tal proposito delle voci
che ancora oggi non riescono a trovare una sincera spiegazione. Riportiamo una testimonianza
rilasciata alla rivista MicroMega nel 2006 da Franca Fossati:
Non ci fu un’aggressione vera e propria degli uomini contro le donne, come tramanda la vulgata. […] In
quella circostanza le donne rivendicarono il separatismo dagli uomini; e il gruppo del servizio d’ordine, che
era composto peraltro da donne e da uomini, non lo accettò. […] era considerato intollerabile che le donne si
dessero un proprio luogo di elaborazione, che prescindesse dalle gerarchie; […] gli uomini dovevano
rimanere i produttori generali delle idee e i responsabili dell’organizzazione. […] Perché però, poi le donne
di Lotta continua, che pure si sono mosse più tardi di tutte le altre, sono state più radicali di altre?95
Il 12 dicembre il leader di Lc Adriano Sofri partecipò al dibattito circa gli scontri del 6 dicembre
con un suo articolo dal titolo Le cose buone, le cose cattive e il modo di affrontarle con il quale
cercò invano di riparare agli errori commessi dal suo partito:
La divisione fra uomo e donna non è una fra le altre, ma è quella fondamentale. […] ha una qualità diversa e
superiore. […] È una divisione che separa in due l’umanità intera. […] per questo , la lotta delle donne
investe, con una forza che non ha eguali, il rapporto fra trasformazione collettiva trasformazione
individuale, che è una qualità decisiva del carattere comunista di un processo rivoluzionario.96
92
G. De Luna, testimonianza riportata in S. Voli, Quando il privato diventa politico, cit., p. 144. 93
M. Fraire, Lessico politico delle donne, cit., p. 127. 94
P. Stelliferi, Il Femminismo a Roma negli anni Settanta, cit., p. 102. 95
Ibidem. 96
Ivi. p. 104.
31
Ma ormai i rapporti tra l’intera organizzazione e il movimento femminista si erano incrinati e una
militante, un po’ a sintetizzare l’opinione delle donne di Lc, dichiarò: «Voglio ricomporre la mia
vita, il mio passato di militante, il mio passato di vita in Lotta continua per il momento lo lascio da
parte. A partire dal movimento femminista, dall’esperienza che ho, mi chiedo se mi può servire un
partito e che tipo di partito debba essere»97
.
Anche l’esperienza di Avanguardia operaia fu simile a quella di Lotta continua: l’avvicinamento
alla questione femminile anche per Ao si poteva ricollegare al referendum per il divorzio e
medesime erano le motivazioni:
La Dc combatte la legge sul divorzio. Nello stesso tempo obbliga al divorzio di fatto gli emigrati, costretti ad
abbandonare la famiglia: in 30 anni di potere democristiano oltre 3 milioni di uomini hanno lasciato il
Sud[…]. Vota no all’abolizione del divorzio. Vota no alla Dc.98
Inoltre le stesse commissioni femminili anche in Ao avevano un’autonomia limitata. Carla Caponi
ricorda:
[…] quando nacque questa “commissione donna” […] per poterci controllare ci mandarono una compagna
che era considerata “la rossa”. […] il rosso è quello che garantisce la linea politica. Lei, Paola Ottaviani […]
venne mandata per garantire la linea politica, per garantire che questo gruppo di donne sconsiderate non
facessero cose che poi non andavano bene per la linea del gruppo. Naturalmente, tempo tre giorni, Paola
divenne una di noi.99
Anche Avanguardia operaia considerava il movimento femminista un movimento di opinione e non
di lotta. Tuttavia il passaggio dalla “questione femminile” al “femminismo” avvenne principalmente
grazie all’impatto con le strutture di quartiere del gruppo: le donne femministe di Ao, per mezzo
dell’autocoscienza, portarono allo scoperto nel gruppo il problema della dipendenza sessuale
all’interno dell’organizzazione. Fu denunciato il maschilismo dei compagni e della stessa
Avanguardia operaia:
[…] Lui parla bene, parla tanto bene, sembra un compagno così a posto però poi quando torna a casa fa
questo […]. Questa era una cosa sconvolgente, non era stata messa in conto… questo privato veniva
97
M. Fraire, Lessico politico delle donne, cit., p. 128. 98
P. Stelliferi, Il Femminismo a Roma negli anni Settanta, cit., p. 100. 99
Ibidem.
32
considerato comunque privato, (una cosa) di cui non se ne parla, non importa quello che tu fai a casa.
Peccato che poi a casa si perpetuasse un gioco di ruoli che erano sempre a scapito delle donne.100
Fu all’interno della stessa Commissione femminile che alcune donne decisero di staccarsi da
Avanguardia operaia. Quelle che invece decisero di continuare a far parte del partito, cercarono di
usare la stessa Commissione come strumento per sensibilizzare al femminismo l’intera
organizzazione.
Ma passiamo ad analizzare il rapporto tra il movimento femminista e il Partito comunista italiano
(Pci). Come riporta Manuela Fraire, di recente il partito ha ammesso di non aver saputo affrontare
in modo tempestivo i problemi posti dal movimento delle donne. Infatti Perry Willson fa notare che
durante i primi anni Settanta i comunisti furono restii a mettere in discussione le idee cattoliche
sulla famiglia: questi erano gli anni del “compromesso storico”101
nel corso dei quali il Pci
mantenne un atteggiamento difensivo poiché aspirava ad entrare nel governo insieme alla
cattolicissima Dc102
. Il femminismo fu liquidato in quanto paragonato ad un semplice movimento di
stampo borghese, fatto di studentesse ed intellettuali le quali seguivano ostinatamente un pensiero
politico sbagliato. Fu soltanto sul finire del decennio, quando ormai il compromesso storico non
incalzava più, che i comunisti rivalutarono le tesi femministe, adottandole in alcuni casi, poiché
ormai la forza incisiva sprigionata dal movimento aveva portato all’ordine del giorno tematiche
come la contraccezione e la divisione del lavoro basata sul sesso. Tuttavia le questioni femministe
furono fatte proprie dal partito, ma private del loro significato iniziale: il divorzio fu sostenuto dal
Pci col fine di rafforzare l’istituto della famiglia; l’aborto era considerato invece una questione di
classe poiché per i comunisti le donne ricche potevano già ricorrere a tale pratica.
La svolta era da ricollegarsi alla VI Conferenza nazionale delle donne comuniste (febbraio 1976)
nel corso della quale al femminismo per la prima volta fu riconosciuto un valore politico. Questo
divenne un “fatto nuovo”103
che doveva necessariamente essere interpretato secondo la visione del
mondo comunista. Storicamente, a tale proposito, si era pronunciato Palmiro Togliatti, la cui scuola,
come ricorda Adriana Seroni (responsabile nazionale del partito per il problema della donna)
significò moltissimo per il partito104
. Tale “scuola” contribuì a ribaltare la condizione di subalternità
della donna:
100
Ivi. p.105. 101
P. Willson, Italiane. Biografia del Novecento, cit., p. 278. 102
P. Willson, Italiane. Biografia del Novecento, cit., p. 278. 103
M. Fraire, Lessico politico delle donne, cit., p. 130. 104
Ibidem.
33
Togliatti voleva riservare alle donne italiane spazi autonomi dentro il partito e nelle organizzazioni di massa;
far nascere cellule e gruppi (commissioni femminili), staccati da quelli maschili, il cui principale obiettivo
sarebbe stato lo studio specifico dei problemi relativi alla casa, alla famiglia, all’educazione dei figli. Ciò
avrebbe dato alle donne la possibilità di esprimersi più liberamente e di riunirsi nelle ore più adatte a loro.
Perché le donne, questa era l’idea del segretario del Pci, sono diverse dagli uomini.105
Anche il Pci, sulla scia di Lotta continua e Avanguardia operaia, attribuiva alle commissioni delle
donne il carattere di ghetto poiché voleva evitare che queste sperimentassero un impatto traumatico
con la politica. A tal proposito quelle che formavano la commissione venivano nominate dai
dirigenti maschi del partito. Il Pci non attribuì per lungo tempo ai gruppi femministi alcuna
legittimità politica: né DEMAU, né Rivolta Femminista furono legittimati a causa della distanza
culturale e soprattutto di pensiero politico che li separava dalla tradizione comunista tanto che il
primo terreno di scontro su cui si confrontarono fu appunto la famiglia. Il partito sembrava ignorare
l’estensione engelsiana della dialettica “servo-padrone”106
al rapporto tra la donna e l’uomo
all’interno della famiglia la cui integrità continuava invece ad essere difesa dal partito107
. A tale
proposito Nilde Jotti (presidente comunista della Camera dei deputati dal 1979 al 1992) scriveva su
“Rinascita”:
Le teorie considerate molto moderne sul superamento della famiglia, sulla inutilità del matrimonio, come
impegno e assunzione di responsabilità comune della coppia, sulla libertà sessuale più assoluta, non hanno
niente a che vedere con noi.108
Come accennato in precedenza, fu solo durante la VI Conferenza delle donne comuniste che il Pci
espresse una diversa opinione sul femminismo. Tale “ripensamento” riguardò principalmente
tematiche legate al personale: il movimento femminista veniva in un certo senso legittimato, ma
accettare la sua autonomia significava matematicamente accettarne il separatismo. Tale separatismo
non era indice di un rifiuto tout court della politica ma, come riscrive Manuela Fraire significava:
«Riconoscere la specificità di una diversa pratica politica su cui il movimento è cresciuto,
allargando il cerchio ristretto della politica, facendo emergere, insieme ad un nuovo soggetto, tutta
una serie di bisogni che investono sfere della vita sociale fino ad oggi ritenute non politiche »109
.
105
F. Lussana, Il Movimento Femminista in Italia, cit., p. 123. 106
C. Lonzi, Sputiamo su Hegel, cit., p. 6. 107
C. Lonzi, Sputiamo su Hegel, cit., p. 6. 108
M. Fraire, Lessico politico delle donne, cit., p. 136. 109
Ivi. p. 139.
34
Capitolo 2
La bomba aborto
2.1 Uno scoglio da abbattere: l’aborto clandestino
“È il mio corpo e ne farò quello che voglio!” 110
Palermo, reparto rianimazione dell’ospedale civico. 36 anni, Antonina Vitale lotta da quattordici ore contro
la morte: sulla cartella di ricovero è scritto: “aborto praticato presso ostetrica”. Il sostituto procuratore dottor
Celesti spicca mandato di cattura verso Antonina Blandano, 56 anni. L’ostetrica aveva aiutato la signora
Vitale a partorire gli ultimi due figli. Se la signora Vitale si salverà, raggiungerà l’ostetrica al carcere delle
benedettine. Muore.111
La signora Vitale fu solo una delle donne vittime dell’aborto clandestino che negli anni Settanta era
ancora l’unica e dolorosa soluzione in grado di porre termine ad una gravidanza indesiderata. I dati
riferiti al periodo in questione parlavano chiaro: «In Italia ci sono due milioni e mezzo di aborti
clandestini l’anno ed ogni 1.000 donne che abortiscono ne muoiono 15»112
. Le femministe italiane
conoscevano la soluzione a questo “massacro di massa”113
: bisognava lottare al fine di
sensibilizzare le istituzioni all’abolizione della legge contro l’aborto il cui unico “merito” era quello
di proteggere le mafie che costruivano intorno all’aborto un mercato molto proficuo114
.
Simone de Beauvoir, a proposito dell’aborto, scriveva: «La Francia è uno dei paesi più retrogradi
della nostra epoca»115
. Ma sarà stato veramente il più retrogrado? Domanda lecita dato che nei
codici penali degli altri paesi l’aborto era considerato un “reato contro la persona”; ma nel codice
penale italiano, il codice Rocco, lo stesso reato era compreso tra i delitti “contro l’integrità e la
sanità della stirpe”116
. Ancora durante il periodo repubblicano, l’aborto veniva visto come un “atto
direttamente contro lo stato”117
per il quale si poteva essere condannati a pene gravissime. Del reato
in questione si occupava il Titolo X del secondo libro del codice Rocco e tale legge puniva con la
reclusione da uno a quattro anni la donna che si procurava l’aborto; puniva con la reclusione da due
110
Il personale è politico. Quaderni di lotta Femminista n.2, materiali del Movimento femminista, Musolini, Torino,
1973, p. 76. 111
AZ un fatto: come e perché, 1973, in Diritti civili. Le grandi battaglie degli anni 70, disponibile online al sito:
http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-96c06cd9-0c74-4f12-9509-549f411a9330.html , consultato
il 22/01/2014. 112
L. Percovich, La coscienza nel corpo, cit., p. 90. 113
Ibidem. 114
Ibidem. 115
L. Tornabuoni, Nota Introduttiva, in Un caso di aborto. Il processo Chevalier, a cura dell’Associazione «Choisir»,
Einaudi, Torino, 1974, p. VIII. 116
Ibidem. 117
Il personale è politico. Quaderni di lotta Femminista n.2, cit., p. 65.
35
a cinque anni la donna che consentisse a lasciarsi praticare l’aborto e chiunque provocasse l’aborto
a una donna consenziente; puniva con la reclusione da sette a dodici anni chi provocava l’aborto a
una donna non consenziente; puniva con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque istigasse una
donna ad abortire. Inoltre se la donna non consenziente fosse morta in seguito all’aborto, la pena per
chi glielo avesse praticato variava da dodici a vent’anni, mentre se fosse morta la donna
consenziente gli anni di reclusione variavano da cinque a dodici.118
L’aborto terapeutico era
ammesso soltanto in rari casi concernenti la legittima difesa, ovvero quando c’era la necessità di
salvare se stessi e gli altri dal pericolo di un “danno grave alla persona”119
. D’accordo con questa
legge, in Italia venivano denunciate ogni anno 350 – 400 persone, ma erano soltanto 30 quelle che
venivano effettivamente processate: tali dati dimostravano che le denunce e i processi per il reato di
aborto erano poche, pochissime potremmo dire se confrontate con i dati che riguardavano gli aborti
clandestini. Il ministero della sanità ne registrava ben 850.000 l’anno, mentre secondo i dati
dell’Unesco le donne italiane che praticavano l’aborto clandestino arrivavano a ben 1.200.000
l’anno120
. L’argomento fece così scalpore tanto che il TIME, periodico americano, il 25 giugno del
1973, scriveva:
Yet abortion now ranks as Italy’s chief form of birth control. Each year an estimated 800.000 to 1.200.000
Italian women receive abortions - all of them illegal – and perhaps as many as 20.000 of these women die as
a result of inexpert operations carried out under unsanitary, clandestine conditions.121
Sebbene degli aborti clandestini la politica non si fosse ancora occupata, sarebbero diventati a breve
un problema politico con il quale fare i conti. Infatti il Partito radicale finì presto ad occuparsi di
queste tematiche: già nel gennaio 1968 il partito aveva organizzato al teatro Parioli di Roma un
convegno intitolato Repressione sessuale, oppressione sociale al quale aderirono il deputato
socialista Loris Fortuna, il sessuologo Luigi De Marchi, l’antropologo Tullio Seppilli, lo
psicoanalista Cesare Mussatti e lo scrittore e regista Cesare Zavattini: iniziava il confronto sulla
tematica della liberazione della donna che ben presto avrebbe caratterizzato l’operato del Partito
radicale.122
La riflessione iniziata sul movimento di liberazione delle donne americane e sulla nuova
sinistra made in USA portò nel 1970 alla nascita in Italia del Movimento di liberazione della donna
118
L. Tornabuoni, Nota Introduttiva, in Un caso di aborto. Il processo Chevalier, cit., p. VIII. 119
Ivi. pp. VIII – IX. 120
Ivi. p. IX. 121
Abortion on trial, TIME, 25 giugno 1973, disponibile online al sito:
http://www.femminismoruggente.it/femminismo/aborto.html, consultato il 22/01/2014. 122
F. Lussana, Il Movimento Femminista in Italia, cit., p. 58.
36
(MLD), federato al Partito radicale. Sul documento istitutivo dell’MLD si possono leggere i suoi
primi obiettivi:
L’informazione sui mezzi anticoncezionali anche nelle scuole e la distribuzione gratuita a tutti senza
discriminazione alcuna dei contraccettivi; la liberalizzazione e la legalizzazione dell’aborto, senza
distinzione di stato civile e di stato di necessità medica, nonché la creazione di apposite strutture sanitarie
che possano fare dell’aborto legalizzato una effettiva facoltà alla portata di quanti scelgano di usufruirne.123
Da subito, nel 1971, l’MLD si impegnò a portare avanti un disegno di legge a iniziativa popolare
per “depenalizzare e liberalizzare l’aborto” ma a stimolare le prime azioni dimostrative e legislative
contribuì la sentenza n.49 del 1971 della Corte Costituzionale che dichiarava l’illegittimità del
divieto della propaganda anticoncezionale, previsto dal Codice penale. La sentenza aggiungeva che
era necessario trattare tale materia in modo appropriato vista la delicatezza della questione la quale
aveva direttamente a che fare con la salute dell’individuo. Per tale motivo si doveva impedire
l’incitamento all’uso di mezzi riconosciuti dannosi per la salute stessa124
. Ma era evidente che
l’abrogazione dell’articolo in questione, il 553 del codice Rocco, nonostante le sue buone
intenzioni, in realtà aveva fatto ben poco poiché prima cosa non aveva garantito il libero accesso ai
contraccettivi e secondo poi non garantiva che questi potessero essere usati con competenza e
serenità. Infatti negli ambulatori degli ospedali alle donne veniva riservato un trattamento che
mostrava evidenti resistenze ad ogni nuova richiesta, sia rivolta verso l’ottenimento di un
contraccettivo125
, sia rivolta verso una decente assistenza nel parto126
. Inoltre, anche se i
contraccettivi sono stati per le donne una “liberazione” grazie ai numerosi vantaggi che
comportavano, in fin dei conti erano percepiti da alcune come “un’offesa” rivolta verso il proprio
corpo: «Non si possono ingoiare ormoni per ventuno giorni al mese, ogni mese, per anni senza
alterare il nostro equilibrio psicofisico, né si possono introdurre corpi estranei nell’utero femminile
e credere che tutto rimanga come prima»127
. Esistevano anche i contraccettivi “maschili”, ovvero i
classici preservativi, ma leggiamo la testimonianza di una giovane donna che, in poco tempo, si
trovava alla sua seconda gravidanza: «La sfortuna e un uomo egoista come mio marito, al quale non
piaceva fare l’amore con i preservativi perché non si divertiva abbastanza, mi misero incinta
123
Ibidem. 124
Ivi. p. 59. 125
Inizialmente la pillola in Italia veniva usata solo per scopi terapeutici come regolatore del ciclo mestruale, e solo più
tardi inizierà ad essere venduta in farmacia, esclusivamente dietro prescrizione di ricetta medica, come contraccettivo.
Tuttavia, nel paese il medicinale non sarà mai nazionale e soprattutto popolare perché le informazioni circa le sue
applicazioni e il suo uso resteranno limitate ad una cerchia ristretta di donne appartenenti alle categorie medio – alte.
(F. Lussana, Il Movimento Femminista in Italia, cit., p. 62.) 126
L. Percovich, La coscienza nel corpo, cit., p. 111. 127
Il personale è politico. Quaderni di lotta Femminista n.2, cit., p. 69.
37
un’altra volta»128
. È facile comprendere che i contraccettivi maschili, dai preservativi alla più rara
“sterilizzazione”, erano parole che suonavano come una “condanna a morte” alle orecchie del
maschio nostrano.
L’aborto clandestino veniva praticato da medici o da non medici, con metodi scientifici o barbarici.
Le benestanti ricorrevano al raschiamento, eseguito con anestesia parziale in uno studio medico
oppure in una clinica; le altre si affidavano ad ostetriche, infermiere, praticone dette “mammane”
oppure a se stesse attraverso mezzi meccanici o chimici. I mezzi meccanici consistevano
nell’introduzione nell’utero di un corpo estraneo affinché provocasse le contrazioni e l’espulsione
del feto; quelli chimici, invece, nel ricorso al decotto di prezzemolo o al chinino. Generalmente il
metodo più usato era l’introduzione nell’utero di una sonda o catetere di gomma, che provocava un
inizio di aborto con emorragia in seguito alla quale le donne potevano denunciare l’aborto come
“spontaneo” e farsi ricoverare in ospedale dove l’operazione sarebbe stata conclusa da un “legale”
raschiamento.129
Evidente è il fatto che dietro questo giro di aborti clandestini si nascondesse un
giro d’affari calcolato in 50 miliardi annui. Come riporta il TIME:
Prices for these abortions range from 50 dollars for a crude attempt performed without anesthesia by a
mammana (usually an old midwife or nurse) to 500 dollars for an operation by a qualified doctor in a private
clinic. All told, it adds up to big business – an estimated 250.000.000 dollars annually, “all of it tax free”, as
Milan’s weekly Tempo recently remarked.130
Riportiamo ora la testimonianza di una donna quarantenne, ricorsa svariate volte alla pratica
dell’aborto clandestino presso una mammana per comprendere attraverso il suo caso “l’angoscia
infinita” provata dalle donne che come lei ricorrevano a tale pratica:
Il primo aborto l’ho fatto a 18 anni. Non ero sposata e vivevo con i miei a Crotone. […] Ho parlato con una
donna anziana che la chiamavano la “medichessa”. Era conosciuta nel paese come quella che raddrizza le
ossa e aiuta la povera gente a curarsi senza spendere i soldi per il medico. Le donne ricorrevano a lei per
abortire di nascosto dagli uomini che pur sapendo non lo avrebbero ammesso mai. […] Ci andai di nascosto
per non farmi vedere da nessuno […]. Sono entrata a casa sua perché lasciava sempre la porta aperta […].
Poi ha fatto bollire il prezzemolo… tanto e mi diceva: «Lo vedi questo bel mazzo d’erba? Quando lo avrai
nelle budella quel bambino finirà di campare e poi se non riusciamo così non ti preoccupare: ti aiuto io!». Poi
mi ha detto di sedermi sulla sponda del letto e con una spinta mi ha buttato all’indietro… mi ha messo una
mano fra le cosce… poi mi ha infilato un dito lunghissimo e duro facendomi un male d’inferno. […] Poi mi
128
L. Percovich, La coscienza nel corpo, cit., p. 87. 129
L. Tornabuoni, Nota Introduttiva, in Un caso di aborto. Il processo Chevalier, cit., p. IX. 130
Abortion on trial, TIME, 25 giugno 1973, cit.
38
ha detto di stendermi di nuovo e con un ferro da calza ha cominciato a pungermi l’utero […]. Ho preso il
decotto e ci sono tornata per tre o quattro giorni di seguito per farmi punzecchiare l’utero. Poi ho abortito da
sola, a casa. […] Dopo il quarto aborto ho perso la sensibilità, non mi piace più fare l’amore. Io mi sento
invecchiata.131
Ma come accennato in precedenza, era possibile ricorrere all’aborto anche presso un medico
professionista. Certamente il costo della prestazione saliva e non tutte le donne avevano abbastanza
denaro per permetterselo. Emma Bonino, politica appartenente al Partito radicale, in un’intervista
registrata negli anni Settanta racconta con queste parole il suo singolare caso:
Però un giorno, avevo 24 anni, ho deciso addirittura di fare l’amore senza essere sposata. Credo sia un atto
rivoluzionario, ma solamente mi avevano spiegato che dovevamo premunirci prima e io ho cercato di
premunirmi nel senso che sono andata da un ginecologo che mi ha visitato per mesi e alla fine mi ha detto
che ero sterile e non avevo bisogno di contraccezioni. Se non che dopo due mesi ho scoperto che
probabilmente era il ginecologo a non aver bisogno di contraccezioni, quello che era sicuro era che io sterile
non lo ero! Alla fine di tutto questo mi racconta che se proprio volevo uccidere una “vita in fiore”, tutto si
poteva fare con sole 500.000 lire. Il che era possibile, ma mancava un particolare: non avevo le 500.000
lire.132
Il medico di cui parla Bonino è uno dei tanti “cucchiai d’oro” che, speculando sulla disperazione
delle donne poste di fronte una gravidanza indesiderata, si prestavano ad andare contro la legge
praticando l’aborto clandestino. In ogni modo effettuavano la prestazione esclusivamente dietro
lauta ricompensa. Ecco come una giovane donna sposata racconta la sua esperienza con uno di
questi medici:
Grosso modo sapevo cosa era un raschiamento e mi raccomandai che mi addormentassero. […] Quando Dio
volle arrivò il dottore con i ferri: tutto era pronto io dovevo sdraiarmi sul tavolo di cucina, fin qui tutto bene:
sapevo già che era una cosa clandestina, ma ancora non sentivo nessuno parlare di anestesia. Fu il dottore
che ad una mia precisa domanda mi rispose che non era assolutamente possibile. Cominciai a tremare come
una foglia, avevo una paura folle. Non me la sentivo. […] Dissi che avevo cambiato idea e che ora volevo il
figlio; allora il dottore, più per paura che per comprensione, mi propose di farmi ricoverare nella sua clinica,
dove avrei potuto essere anestetizzata. […] Tutto questo venne a costare a mia suocera 200.000 lire.133
131
F. Lussana, Il Movimento Femminista in Italia, cit., p. 59 – 60. 132
Intervista ad Emma Bonino, in Lina Merlin e Emma Bonino. Senza distinzione di sesso, disponibile online al sito:
http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-b603ebf2-8d75-4a48-a709-30b64c2a31e9.html, consultato
il 22/01/2014. 133
L. Percovich, La coscienza nel corpo, cit., pp. 87 – 88.
39
Buona parte di tali medici infatti, sebbene portassero a termine l’operazione, spesse volte
praticavano il raschiamento senza ricorrere all’anestesia, procurando alle donne un dolore
paragonabile solo a quello del parto. Tutto ciò doveva servire come monito per le altre che avessero
avuto l’intenzione di ricorrere all’aborto. Inoltre alle “fuorilegge” non veniva riservato un minimo
di educazione e rispetto da parte del personale medico o consulente che si rivolgeva alle donne con
modi alquanto brutali: «È a causa di gente scema come te, che non ha il buonsenso di usare metodi
anticoncezionali adatti, che la lista è così lunga» oppure: «Beh! Questo tipo di cose succede soltanto
al tipo di gente come te»134
. Ma non tutti i medici erano dei semplici approfittatori. Bonino stessa,
sempre nell’intervista precedente, racconta di come la sua gravidanza indesiderata avesse avuto un
“lieto fine” grazie all’aiuto del ginecologo Giorgio Conciani che a Firenze gestiva un ambulatorio
per le interruzioni di gravidanza agendo in accordo con il Centro d’Informazione sulla
Sterilizzazione e sull’Aborto (CISA): «Qualcuno mi ha segnalato tale dottor Conciani a Firenze e io
sono andata a Firenze e ho trovato questo signore che così mi ha fatto pagare 50.000 lire e che mi
ha spiegato che non mi faceva un raschiamento bensì l’aspirazione e da allora ho cominciato ad
accompagnare le donne a Firenze in gruppo due o tre volte alla settimana»135
. Infatti una piccola
parte dei medici sembrava mostrare un lato più “umano” come racconta questa donna che, ormai
incinta di ben dieci settimane, dopo aver ottenuto una serie di secchi “no” trovò finalmente un
medico disponibile a farla abortire clandestinamente per una cifra piuttosto ragionevole: «Poi mi
sono messa in contatto con un medico privato che mi avrebbe fatto abortire […]. È stato molto
comprensivo e mi ha detto semplicemente: “Qualsiasi donna che vuole avere un aborto dovrebbe
poterlo fare. Anzi – ha detto – sarebbe meglio se lo facesse gratis”»136
.
In ogni modo non tutte le donne riuscivano ad abortire e quindi portavano a termine la gravidanza,
sebbene indesiderata. Generalmente quelle che non riuscivano ad abortire appartenevano agli strati
“proletari” della società e agivano in modo perfettamente concorde alla legge dello Stato. Tuttavia,
lo stesso Stato che prima le aveva “costrette” alla maternità, dopo si “scrollava” di dosso ogni
responsabilità poiché lasciava alla madre e al padre il compito di mantenere il bambino. Aiutava i
genitori attraverso un contributo monetario di massimo 5.000 lire per il primo anno di vita, e di
massimo 2.500 lire fino a cinque anni. Ma spesse volte, chi aveva bisogno di 5.000 lire al mese per
vivere poiché non le possedeva neanche per se stesso, inevitabilmente non se ne faceva nulla
dell’incentivo dello Stato perché non sarebbe comunque riuscito a crescere un figlio. In questi
infelici casi accadeva che: «I bambini finiscono al brefotrofio, abbandonati dai genitori, e le 5.000
lire destinate alla madre si trasformano in 45.000 destinate per ciascun bambino agli istituti per
134
Il personale è politico. Quaderni di lotta Femminista n.2, cit., p. 77. 135
Intervista ad Emma Bonino, cit. 136
Il personale è politico. Quaderni di lotta Femminista n.2, cit., p. 77.
40
l’infanzia abbandonata»137
. Inoltre sebbene con la legge n.1044 del 6 dicembre 1971 fosse stato
approvato il “piano quinquennale per l’istituzione degli asili nido comunali col concorso dello
Stato”138
, questi finivano per essere pochi, inferiori alle esigenze delle lavoratrici-madri italiane che,
come di consueto, erano costrette o ad appoggiarsi sull’aiuto offerto loro dalle proprie madri o, nei
casi più estremi, dovevano rinunciare al lavoro per dedicarsi a tempo pieno alla cura dei loro figli.
Riporto la testimonianza di una donna alle prese con la conciliazione del suo lavoro dipendente e il
“mestiere” di madre:
Le mie difficoltà sono iniziate quando è nato il mio primo figlio. In quell'anno mio marito aveva lavori
saltuari, senza reddito fisso che potesse garantire la stabilità economica della famiglia. Perciò dovevo
assolutamente trovare un lavoro. L'occasione si presentò nel mese di luglio […] Mi recai subito alla sede
dell'ONMI per gli asili nido in via Porcilia, e, a forza di insistere, riuscii ad ottenere un posto all'asilo nido di
S. Carlo, all'estrema periferia della città. Fu un mese infernale, a dir poco. […] Per dargli il pasto al seno
delle 13:00, dovevo fare circa 20 km in bicicletta fra andata e ritorno, in un'ora e mezza circa. Tutto ciò senza
contare che da casa al filobus aveva circa 2 km per l'asilo, cioè circa 30 - 40 minuti, che il lavoro era
sfibrante e che avevo la casa da tenere in ordine. Alla fine del mese avevo perso circa 5 kg del mio peso
normale, il tutto per guadagnare 45.000 lire. […] Nacque il secondo bimbo. […]
Come la prima volta, a forza di pregare ed insistere ottenni due posti all'asilo ONMI di via Giotto.
Il favore che mi avevano fatto, considerata la situazione, era grande, però l'asilo teneva aperto fino alle
18:30. Andava bene perciò per chi aveva orario continuato, ma non per chi, come me, doveva andare in
ufficio fino alle 19:30. Perciò se io arrivavo alle 18:35 erano noie, con il principale, perché dovevo scappare
presto, e con le assistenti dell'asilo (ce ne erano di molto villane e scortesi), che continuavano a minacciare la
sospensione dei bimbi. Una volta li hanno veramente sospesi, e per farli riprendere ho dovuto fare una
enorme litigata in Sede Provinciale. La retta che pagavo equivaleva al 10% degli stipendi […].139
Ma non tutte le donne che praticavano l’aborto clandestino si sentivano mentalmente “libere”: per
alcune esso veniva definito come “un’infelicità che non si butta”140
. Infatti l’aborto non era
un’esperienza gettabile facilmente dietro le spalle in quanto cambiava e cambia tuttora la vita delle
donne che vi ricorrono. Esse affermavano: «Dopo non è più come prima. Anche se per quel figlio
non nato non si era pronti. Anche se interrompere la gravidanza è stata una necessità. Resta un lutto,
resta un senso di colpa. Ma la vita ricomincia»141
. Sembra opportuno citare l’esperienza di
Donatella, donna di neanche quarant’anni che ha avuto due aborti, entrambi per sua scelta. Ora non
137
Ivi. p. 165. 138
F. Lussana, Il Movimento Femminista in Italia, cit., p. 56. 139
Testimonianze, disponibile online al sito: http://www.femminismoruggente.it/femminismo/aborto.html, consultato il
23/01/2014. 140
F. Lussana, Il Movimento Femminista in Italia, cit., p. 60. 141
Ibidem.
41
può più avere figli. Vediamo cosa ha da dire:
L’aborto!!! Molti lo considerano una liberazione, altri un assassinio altri ancora una mancanza di
responsabilità da parte di chi lo pratica… ma io vorrei far provare questa esperienza a chi si permette di
giudicare senza sapere… ho abortito due volte nella mia vita. […] Ho vissuto un periodo tormentato… certi
giorni pensavo sì è l’unica cosa da fare, altri sentivo crescere in me la vita […] Anche se ancora (come
dicono i medici) fino a tre mesi non è ancora un essere umano… ma psicologicamente una donna dal primo
giorno di gravidanza si sente madre e io mi sono sentita così e mi sono sentita morire quando ho detto: devo
abortire! […] Ma la cosa più grande è il senso di colpa… il dolore è immenso e indimenticabile, un segno
indelebile che ti porti nell’anima. […] Aldilà della mia decisione sofferta, non ho cambiato idea sull’aborto,
sono sempre favorevole che esista una legge che dia la possibilità di scelta e spero che molte donne che
pensano il contrario arrivino a capire che non siamo tutte uguali e che abbiamo diritto tutte di fare la nostra
scelta, qualunque essa sia.142
Anche la giornalista Oriana Fallaci si era pronunciata nel corso di un programma RAI sul tema
dell’aborto esprimendo così il suo giudizio. È comprensibile notare l’influenza che su questo ha
rivestito la sua esperienza da reporter in Vietnam durante la guerra:
Esiste anche una cosa peggiore dell’aborto che si chiama guerra. Io sono stata alla guerra e ci sono stata per
tre anni in Vietnam e le assicuro onorevole che piangevo molto di più a vedere gli uomini che mandate voi a
morire a 20 anni che un embrione che galleggia in un bicchiere di alcol. Le assicuro è molto più drammatico,
la guerra è un infanticidio rinviato di venti anni.143
2.2 Marie Claire Chevalier e Gigliola Pierobon
Nessun uomo al mondo e nessuna legge al mondo obbligheranno le donne a non abortire, se esse hanno
deciso di farlo.
Gisèle Halimi144
Negli anni Settanta l’Italia non era l’unico paese in cui abortire corrispondeva a commettere un
reato. Infatti il “reato di aborto” compariva nei codici penali di molti altri stati che si consideravano
“democrazie evolute”: un po’ in tutti i paesi, specie quelli considerati più democratici, l’aborto
142
Ivi. pp. 60 – 61. 143
AZ un fatto come e perché, 1976, in Diritti civili. Le grandi battaglie degli anni 70, cit. 144
G. Halimi, Le arringhe della difesa, in Un caso di aborto. Il processo Chevalier, cit., p. 157.
42
veniva perseguito penalmente, sebbene le modalità del reato e la condanna variassero da paese a
paese145
.
Tra le cosiddette “democrazie evolute”, anche in Francia l’aborto costituiva un reato. In
un’inchiesta intitolata How easy is an abortion in Europe? edita dal giornale newyorkese TIME
circa la situazione francese, si poteva leggere:
Prewar laws permitting only “therapeutic” abortions – to save the mother’s life – are still in effect. Legal
abortions thus averaged barely three per month in the Paris region between 1966 and 1970, but throughout
France illegal operations are estimated to total between 300.000 and 1.000.000 yearly. New liberalizing
legislation is scheduled for a parliamentary vote next month.146
Dopotutto i cugini francesi non se la passavano meglio degli italiani. A questo punto vale la pena di
illustrare un avvenimento che, sebbene svoltosi in Francia, si ripropose, con protagonisti diversi,
anche in Italia. Nel 1972 in Francia, a Bobigny, l’azione giudiziaria mossa contro l’appena
diciassettenne Marie Claire Chevalier con l’accusa di aver interrotto la propria gravidanza di due
mesi, si trasformava in un clamoroso processo all’aborto147
: «L’11 ottobre 1972, Marie Claire, di 17
anni, compariva davanti al Tribunale dei Minori di Bobigny per aver abortito; l’aborto è un delitto
punito dall’articolo 317 del Codice penale»148
. La giovane Marie Claire viveva con sua madre e le
sue due sorelle in una casa popolare della banlieue parigina. Sua madre, la signora Chevalier, era
una madre nubile impiegata al métro di Parigi e percepiva un salario di 1.500 franchi al mese. Marie
Claire studiava all’istituto tecnico e fu lì che conobbe Daniel P…, il diciottenne che nel 1971, con la
scusa di fare un semplice giro in macchina, la violentò: «Mi ha minacciata di picchiarmi e poi mi ha
picchiata; mi ha dato degli schiaffi […] Poi sono scappata… ho avuto rapporti con lui solo una
volta»149
. Ma quell’unica volta bastò a Marie Claire per rimanere incinta, ma fu lasciata da Daniel
dopo che la giovane gli diede la notizia della gravidanza. Davanti alla crudeltà dei fatti Marie Claire
decise che non avrebbe più portato in grembo il “figlio di un mascalzone”150
: voleva continuare ad
andare a scuola e risparmiarsi la sofferenza patita da sua madre che aveva allevato, sola, tutte e tre
le figlie. L’aborto presso il ginecologo sarebbe venuto a costare alla signora Chevalier ben 4.500
145
Parecchi stati come i filosovietici Polonia, Ungheria o Jugoslavia o i più moderati Giappone e Stati Uniti
ammettevano l’aborto libero tanto che in Jugoslavia la mortalità era di 1,1 su 100.000 aborti praticati e negli Stati Uniti
di 4,6 su 100.000 nel primo anno di attività della legge, ma tale tasso scendeva a 3,5 morti su 100.000 già dal secondo
anno di attività. (Deposizione del professor Raoul Palmer, in Un caso di aborto. Il processo Chevalier, cit., pp. 57 –
58.) 146
How easy is an abortion in Europe?, TIME, 25 giugno 1973, cit. 147
L. Tornabuoni, Nota Introduttiva, in Un caso di aborto. Il processo Chevalier, cit., p. VII. 148
Un caso di aborto. Il processo Chevalier, cit., p. 5. 149
Ivi. pp. 5 – 6. 150
Ibidem.
43
franchi, cifra insostenibile per la madre single che, dopo essersi consultata con una collega, la
signora Duboucheix, riuscì ad ottenere tramite l’intercessione di un’altra collega, la signora Sausset,
il nome di una segretaria, la signora Bambuck, che aveva appreso le tecniche dell’aborto
praticandole su se stessa.151
Al processo, sotto giuramento davanti la corte, la signora Bambuck
definì così l’esperienza dalla quale percepì 1.200 franchi:
Mi ha spiegato che sua figlia aspettava un bambino e che non voleva tenerlo. In seguito a circostanze della
vita, sapevo fare certe cose. Ma non volevo farlo. Mi ha ritelefonato, ho avuto pietà. Mi dispiace
sinceramente di aver violato la legge, non lo farò più, è l’ultima volta; soltanto sul piano umano ho la
coscienza di non aver agito male. […] Sì, ho avuto dei soldi, 1.200 franchi. Avevo delle tasse da pagare, e
poiché ero vedova con due bambini, ho pagato le tasse con quei soldi.152
La diciassettenne fu sottoposta per cinque volte in quindici giorni a manovre effettuate dalla signora
Bambuck con una sonda artigianale e uno specolo che avrebbero dovuto praticarle un inizio di
emorragia in seguito alla quale la signora Chevalier avrebbe dovuto immediatamente portare la
figlia in una clinica il quale indirizzo sarebbe stato comunicato alla signora dalla stessa Bambuck.
Ecco come la signora Chevalier ricordava quel tragico episodio davanti la corte:
Nella notte del 20 novembre Marie Claire cominciò a soffrire orribilmente ed ebbe un principio di emorragia.
All’una e mezzo del mattino circa andai a telefonare al medico da una cabina pubblica e feci trasportare
Marie Claire in clinica, dove subì un raschiamento. Tuttavia appena arrivata in clinica, ecco una nuova
difficoltà. Mi chiesero 1.000 franchi di caparra: non li avevo. Tornai il giorno dopo da un’amica che mi
prestò di nuovo 1.000 franchi. Per far uscire Marie Claire dalla clinica, due giorni dopo feci un assegno
scoperto per 900 franchi.153
A denunciare il reato d’aborto compiuto da Marie Claire fu proprio Daniel P… che nel corso di un
interrogatorio per furto d’auto, denunciò la giovane. Subito partì l’istruttoria e il processo. Le
accusate erano le signore Chevalier, Duboucheix e Sausset, imputate di complicità in aborto, e la
signora Bambuck, con l’accusa di aver praticato l’aborto. Anche Marie Claire venne accusata ma,
essendo minorenne, fu giudicata in prima istanza dal Tribunale dei Minori. La sua deposizione
davanti ai giudici si concluse con tali parole: «Non rimpiango di aver abortito, perché il bambino
151
Ibidem 152
Ivi. p. 20. 153
Ivi. p. 24.
44
sarebbe stato un disgraziato abbandonato alla pubblica assistenza»154
. Il tribunale decise a fine
processo di proscioglierla dall’accusa.
Ma il processo rivolto contro le quattro signore fu tutta un’altra cosa e con questo si intendeva
creare un “caso”. L’avvocatessa Gisèle Halimi riuscì a richiamare l’appoggio di un ingente numero
di testimoni, tra i quali figuravano la scrittrice Simone de Beauvoir, il ginecologo Paul Milliez, il
professor Raoul Palmer o addirittura politici, come il deputato Michel Rocard, impegnati nella
stesura della proposta di legge volta a liberalizzare la pratica dell’aborto155
. Quest’ultimo si rivolse
con queste parole alla corte:
Sono un parlamentare ed è appunto come parlamentare che ho cominciato a riflettere su questo problema.
[…] Poiché sono anche un militante socialista rivoluzionario, non posso fare a meno di interessarmi delle
condizioni economiche nelle quali succedono queste cose. […] Non esito a dichiarare che ai miei occhi
Marie Claire Chevalier era nel suo diritto di scegliere di dare la vita o di non darla, perché le condizioni nelle
quali aspettava il bambino ponevano problemi estremamente difficili per il suo avvenire.156
Invece il ginecologo Paul Milliez, nel corso della sua testimonianza manifestò la sua vicinanza alla
signora Chevalier affermando in modo aperto: «Se la signora Chevalier fosse venuta a trovarmi,
l’avrei certamente aiutata»157
e poi aggiunse di avere esso stesso effettuato un aborto quando era più
giovane: «Credo di aver sempre fatto il mio dovere, qualunque sia la legge. Ho aiutato le donne che
si confidavano con me»158
. Milliez, nonostante la sua fede cattolica, aiutava ad abortire
specialmente le ragazze che subivano violenza: «Ho sempre fatto abortire ragazze violentate che
sono venute a cercarmi: bisogna aver vissuto il dramma di una ragazza violentata, per capire
l’atteggiamento che può assumere un medico che viene consultato in simili condizioni»159
. Infine
fece notare che, stando così le cose, non si aveva neanche la possibilità di far abortire quelle donne
che avrebbero potuto trasmettere al bambino mostruosità per la vita poichè affette da malattie
durante la gravidanza160
. A tal proposito disse: «Se una delle mie figlie avesse domani una rosolia o
una toxoplasmosi durante le prime sei settimane di gravidanza, giuro che la farei abortire»161
.
Ma nel corso del processo l’avvocatessa Halimi chiamò a testimoniare anche una giovane ragazza
madre costretta a proseguire la gravidanza poiché suo padre non voleva che abortisse sia per ragioni
154
Ivi. p. 7. 155
Ivi. pp. 175 – 176. 156
Ivi. p. 43. 157
Ivi. p. 45. 158
Ibidem. 159
Ibidem. 160
Ivi. p. 48. 161
Ibidem.
45
morali che per la paura delle eventuali ripercussioni dovute alla violazione della legge. La ragazza
in questione è Claire Saint-Jacques, madre nubile di appena 18 anni che trascorse la sua gravidanza
in un istituto per gestanti. Halimi voleva dimostrare alla corte cosa accadeva alle ragazze che
osservano la legge. Ecco la sua testimonianza:
In tutti gli istituti la stessa cosa: si spingono le madri all’abbandono perché gli istituti ricevono premi per i
bambini abbandonati. Se non abbandonano i figli, vanno poi o nelle Case per ragazze madri, oppure negli
istituti […]; nelle Case devono dare dal 60% al 95% del loro salario che spesso non supera 1.000 franchi;
non c’è assolutamente via d’uscita per loro. Negli istituti lavorano otto ore al giorno: il bambino resta con
loro, ma esse subiscono ogni genere di umiliazione e vengono chiamate “puttane” tutti i giorni. […] Durante
la giornata, il bambino resta rinchiuso e vede la madre solo la sera nel momento in cui va a dormire; non c’è
assolutamente vita in comune tra madre e figlio.162
Tutto ciò accadeva quando alla ragazza non restava nemmeno l’appoggio della famiglia poiché:
«Quando ho comunicato a mio padre che ero incinta, mi ha detto che non voleva più parlarmi. […]
sono stata molto male, ma mio padre non ha fatto nulla per aiutarmi, e tutto per difendere il suo
prestigio, per nascondere agli occhi della gente che ero una “puttana”, secondo la sua
espressione»163
.
Durante il corso del processo, una delle linee guida seguite da Gisèle Halimi fu il problema
dell’educazione sessuale. Nella sua arringa finale affermò:
Quello che vorrei sapere è quante Marie Claire in Francia hanno saputo che avevano un corpo, come era
fatto, i suoi limiti, le sue possibilità, i suoi tranelli, il piacere che ne potevano ricevere. Quante? Pochissime
temo. […] Vorrei sapere quanti genitori – e parlo di genitori che hanno i mezzi materiali e intellettuali per
farlo – affrontano ogni sera a cena il tema dell’educazione sessuale dei loro figli. La signora Chevalier, come
vie è stato detto, non aveva mezzi materiali e non aveva ricevuto lei stessa educazione sessuale. […]
Comunque sia, non è possibile stabilire che i genitori abbiano l’intera responsabilità dell’educazione
sessuale164
La soluzione proposta dall’avvocatessa era quella di coinvolgere lo Stato in tale pratica, prima di
tutto attraverso educatori specializzati e, solo in modo complementare, tramite l’azione dei genitori.
162
Ivi. p. 87. 163
Ivi. pp. 87 – 88. 164
Ivi. pp. 149 – 150.
46
Halimi affermava che se non si voleva l’aborto, bisogna insegnare l’educazione sessuale
direttamente nelle scuole.165
Il 5 aprile 1971, un anno prima del processo di Bobigny, Le Nouvel Observateur pubblicò un
manifesto dal titolo Je me suis fait avoter, firmato da 343 donne tra le quali saltavano subito
all’occhio i nomi di noti personaggi pubblici come Simone de Beauvoir, Marguerite Duras,
Catherine Deneuve. Queste donne si autodenunciarono per aver praticato l’aborto.166
In particolar
modo la scrittrice Simone de Beauvoir fu molto attiva nella lotta attraverso la creazione
dell’Associazione Choisir la cui lotta può essere sintetizzata così:
La lotta per la diffusione della contraccezione e per il libero aborto intrapresa dall’Associazione Choisir ha
più di uno scopo e più di un significato. Si tratta in primo luogo di rendere inutile l’aborto diffondendo i
metodi anticoncezionali ufficialmente autorizzati, ma che solo il 7% delle francesi usano. Si tratta di
difendere le donne che abortiscono con i loro “complici” contro una società che decide arbitrariamente di
infierire contro le più indifese tra loro. Si tratta di mobilitare l’opinione pubblica. […] Quando la donna avrà
ottenuto – grazie alla diffusione degli anticoncezionali e della libertà dell’aborto – di essere padrona del suo
corpo, essa sarà disponibile per altre lotte.167
In conclusione del processo, il Tribunale condannò la signora Chevalier Michèle alla pena di 500
franchi di ammenda col beneficio della condizionale, mentre la signora Bambuck a un anno di
carcere col beneficio della condizionale.168
Ma anche l’Italia ha avuto la sua “Bobigny”: il 5 giugno 1973 a Padova si aprì il processo contro
Gigliola Pierobon, del collettivo Lotta femminista, incolpata per un aborto avvenuto nel 1967
quando era ancora minorenne.169
Una ragazza diciassettenne come tante nell'Italia di quegli anni,
figlia di agricoltori di San Martino dei Lupari (Padova), rimasta incinta, venne subito abbandonata
dal ventisettenne padre del bambino. Gigliola ricorda così quegli attimi: «A 17 anni filavo con un
ragazzo e non mi pareva sbagliato fare l’amore con lui. Della pillola, o cose simili, in un piccolo
paese di campagna, come il mio, se ne parla poco anche adesso; figurarsi otto anni fa… così è
successo che rimasi incinta»170
Tra i motivi per cui decise di interrompere la gravidanza c'era
soprattutto il terrore per la possibile reazione dei genitori: «I miei sarebbero diventati lo zimbello di
165
Ibidem. 166
F. Lussana, Il Movimento Femminista in Italia, cit., p. 60. 167
S. de Beauvoir, Prefazione, in Un caso di aborto. Il processo Chevalier, cit., p. XVII. 168
Sentenza del tribunale di Bobigny, in Un caso di aborto. Il processo Chevalier, cit., p. 185. 169
F. Lussana, Il Movimento Femminista in Italia, cit., p. 64. 170
G. Pierobon, Lettera aperta di una donna a tutte le donne, in L. Percovich, La coscienza nel corpo, cit., p. 220.
47
tutti, m'avrebbero cacciata di casa e quindi dal paese, ero senza soldi e senza assistenza, confusa,
impaurita. Cos'altro potevo fare?»171
.
Due casi emblematici, quello della francese Marie Claire e quello della nostra connazionale
Gigliola, che stavano ad indicare che i tempi fossero ormai maturi per l’abolizione del reato di
aborto e la stesura, finalmente, di una legge che lo avrebbe riposto tra i “diritti fondamentali”
salvaguardati dalla Costituzione. In Italia iniziava il cammino verso la legge n. 194.
2.3 Il movimento si divide sull’aborto
“Se da una parte ci serve di poter abortire nelle condizioni migliori, dall’altra proprio la legalizzazione ci
pone di fronte al fatto che dovremmo continuare ad abortire. La soluzione a questo problema non può però
consistere nella formazione di centri abortivi alternativi, gestiti dalle femministe”172
Il 6 dicembre 1975, a Roma, si svolgeva una grande manifestazione nazionale per sensibilizzare la
società e le istituzioni circa la liberalizzazione dell’aborto. Vi presero parte le donne dei collettivi
femministi del Pdup, di Avanguardia operaia e di Lotta continua e a queste si associarono anche le
compagne socialiste e alcune sezioni dell’UDI. Era una delle prime volte in cui le donne
scendevano per le strade, pronte a manifestare per un diritto che gli apparteneva, ma che non veniva
loro riconosciuto dato che l’aborto costituiva ancora reato.
Partiti, istituzioni e movimento delle donne si confrontavano, per la prima volta, su di un problema
come l’aborto, che costituiva un’esperienza privata e dolorosa, soprattutto se affiancata dalle
riflessioni circa l’aborto clandestino. I gruppi e i collettivi femministi non si fecero sfuggire
un’occasione del genere per scendere in campo, ma le posizioni che presero a tal proposito furono
le più svariate, tanto da dividere il movimento in due: da una parte c’erano le femministe radicali
dell’MLD o del Movimento femminista romano (MFR) di Via Pompeo Magno a Roma, per le quali
la liberalizzazione dell’aborto costituiva una tappa verso la liberazione della donna, nonché una
battaglia individuale il cui scopo sarebbe dovuto essere stato interamente politico; invece per
Rivolta Femminile e gli altri gruppi, principalmente milanesi, devoti alla pratica
dell’autoriflessione, la libertà di abortire non costituiva affatto una “causa di libertà” e di
conseguenza: per porre fine alla tragedia dell’aborto, secondo loro, non serviva alcuna legge173
.
171
G. Galeotti, Dagli anni Cinquanta ad oggi (1951 – 2011). Pierobon Gigliola, disponibile online al sito:
http://www.150anni.it/webi/index.php?s=60&wid=2005, consultato il 25/01/2014. 172
L. Percovich, La coscienza nel corpo, cit., p. 100. 173
F. Lussana, Il Movimento Femminista in Italia, cit., p. 66.
48
Schematizzando possiamo dire che nel movimento femminista c’erano due correnti: una che vedeva
la conquista di un diritto civile e il riconoscimento sociale dei diritti e della forza delle donne nella
formulazione di una legge volta a legalizzare e rendere l’aborto assistito e gratuito; l’altra posizione
che invece non riteneva utile per le donne una riforma sociale, poiché sarebbe stata attuata da un
sistema che non avrebbe compreso le donne e nel quale le donne non avrebbero avuto alcun diritto
di espressione174
.
Le donne di Rivolta Femminile erano fermamente convinte che prima che lo Stato “patriarcale e
repressivo” avesse approvato una legge volta a legalizzare l’aborto, le militanti del movimento
l’avrebbero dichiarata “decaduta di fatto”. Non bastava una legge per cambiare la realtà all’interno
della quale, con o senza legge, la donna avrebbe inevitabilmente continuato a vivere nella
“subalternità sessuale”: «L’uomo ha lasciato la donna sola di fronte ad una legge che le impedisce
di abortire: sola, denigrata, indegna della collettività. Domani finirà per lasciarla sola di fronte una
legge che non le impedirà di abortire: sola, gratificata, degna della collettività»175
. Ma gli
interrogativi che toccavano la donna andavano oltre. Infatti questa si chiedeva: «Per il piacere di chi
sono rimasta incinta? », oppure: «Per il piacere di chi sto abortendo? ». È attraverso tali quesiti che
la donna si sarebbe avviata verso la sua liberazione o, come avrebbe affermato Carla Lonzi, era
attraverso la sua formulazione che le donne abbandonavano l’identificazione con l’uomo e
trovavano la forza di rompere un’omertà che era il coronamento della “colonizzazione”176
. Non ci si
deve stupire del fatto che Lonzi abbia usato un termine così forte come quello di “colonizzazione”
per riferirsi alla sessualità. Infatti conformemente al suo pensiero l’atto sessuale altro non era che
una forma di dominio imperialistico attraverso il quale l’uomo si procurava il piacere condannando
la donna alla procreazione177
. Infatti l’uomo raggiungeva il piacere nell’atto stesso della
riproduzione mentre per la donna la situazione era diversa. Sempre citando Carla Lonzi:
Meccanismo del piacere e meccanismo della riproduzione sono comunicanti, ma non coincidono. Avere
imposto alla donna una coincidenza che non esisteva come dato di fatto nella sua fisiologia è stato un gesto
di violenza culturale che non ha riscontro in nessun altro tipo di colonizzazione.178
Stando così le cose, la legalizzazione della pratica dell’aborto, un po’ come la stessa cultura
dell’egualitarismo (a sua volta criticata da Lonzi perché presupponeva l’esistenza di una
disuguaglianza tra i sessi), finiva per nascondere sia le considerazioni “pretestuosamente
174
C. Pallotta, S. Costantini e G. Emili, Aborto, in L. Percovich, La coscienza nel corpo, cit., p. 208. 175
F. Lussana, Il Movimento Femminista in Italia, cit., p. 62. 176
Ibidem. 177
Ivi. p. 63 178
Ibidem.
49
filantropiche e umanitarie”, sia la prevalenza di un sesso sull’altro. La vera conquista per le donne,
a questo punto, per la scrittrice non era tanto la “bramata” legge sull’aborto, ma la rivendicazione
di un godimento sessuale autonomo, incentrato sull’orgasmo clitorideo e non più su quello vaginale,
in modo da porre fine all’uso “imperialistico” della virilità che portava l’uomo ad imporre alla
donna il suo piacere, che si concludeva con la fecondazione del corpo femminile179
.
L’esperienza dell’aborto non era uguale per tutte le donne. Per alcune l’aborto corrispondeva ad un
semplice metodo anticoncezionale, era essenzialmente una “cosa da nulla”; per altre invece apriva
un mondo fatto di dolore ed era percepito come una sorta di “mutilazione”. Tali differenze legate al
mondo femminile, meritavano di essere ascoltate, soprattutto per farsi un’idea di quella che era la
riflessione che portava le donne ad abortire. Infatti:
Di aborto ne parlano tutti. E le donne cosa dicono? Per noi donne il problema dell’aborto è strettamente
legato a tanti altri problemi di cui vogliamo parlare tra noi. Dietro l’aborto noi sappiamo che c’è il rapporto
con l’uomo, la sessualità, la maternità. Su tutte queste cose vorremmo poter confrontare e discutere le nostre
esperienze. Per questo abbiamo deciso di incontrarci.180
In poche parole, secondo l’opinione di questi gruppi che come Rivolta Femminile praticavano
l’autoriflessione, era attraverso la regolamentazione giuridica dell’aborto che si rischiava di
azzerare l’impensata ricchezza delle differenti esperienze che la pratica femminista rivelava.
All’interno del dibattito “aborto sì, aborto no” si inseriva anche l’intellettuale Pierpaolo Pasolini, il
quale apertamente si dichiarò contro l’aborto attraverso un articolo edito sul Corriere della Sera nel
gennaio del 1975. Nell’articolo lo scrittore, oltre a dichiararsi contro l’aborto, si pronunciò contro la
cieca intransigenza della Chiesa e guardava con strazio alle donne morte per aborto clandestino. La
soluzione che proponeva per risolvere la questione era quella di arrivare alla creazione di una
sessualità “non procreante”. Inoltre, dal suo punto di vista di omosessuale, criticava le femministe
per non aver analizzato il rapporto che intercorreva tra eterosessualità, procreazione e aborto181
.
Carla Lonzi non perse tempo e rispose con un articolo182
indirizzato allo stesso Pasolini, visto che il
Corriere della Sera si rifiutò di pubblicarlo.
179
Ibidem. 180
L. Percovich, La coscienza nel corpo, cit., pp. 238 – 239. 181
F. Lussana, Il Movimento Femminista in Italia, cit., p. 69. 182
L’articolo in questione, Sessualità femminile e aborto, era stato scritto dall’autrice ben cinque anni prima, e ribadiva
il concetto che l’aborto non è altro che una “tappa obbligata del patriarcato che si rinnova per sopravvivere”. Ma
invitava a riflettere sul rifiuto del quotidiano di pubblicare lo scritto dicendo che quando ad esprimersi sono le donne,
gli scritti vengono passati completamente sotto silenzio: «Il fratello continua ad arrivare prima della sorella a farsi
ascoltare». (Ibidem.)
50
Ma allora qual era l’alternativa che questi gruppi femministi proponevano in cambio della stesura
di una “legge sulla liberalizzazione dell’aborto”? La risposta è una e semplice: la depenalizzazione
dell’aborto. A tal proposito è diventato celebre un articolo intitolato Noi sull’aborto facciamo un
lavoro politico diverso scritto da un gruppo di donne del Collettivo femminista milanese di via
Cherubini. Si apriva con queste parole: «Non abbiamo aderito né partecipato alla manifestazione
per l’aborto libero e gratuito» e subito, a riguardo, esponeva il pensiero “alternativo” di queste
femministe:
L’aborto libero e gratuito ci farà spendere dei soldi in meno e ci risparmierà alcune sofferenze fisiche: per
questo nessuna di noi è contro una riforma sanitaria e giuridica che tratti la prevenzione della gravidanza e
secondariamente la sua interruzione, ma tra questo e il fare manifestazioni abortiste in generale e per di più
con gli uomini ce ne passa. Perché tali manifestazioni sono in contrasto con la pratica politica e la
consapevolezza che le donne in lotta hanno espresso in questi anni.183
Proprio a tal proposito affermavano:
Con gli uomini potremmo fare altre manifestazioni emancipatorie (per i servizi sociali, per il diritto al
lavoro) ma non questa sull’aborto dove la contraddizione tra sessualità maschile e femminile esplode. Dove
la violenza chirurgica sul corpo della donna non è che la drammatizzazione della violenza sessuale.
Richiedere l’aborto libero e gratuito insieme agli uomini è farsene complici e consenzienti anche a livello
politico.184
Ma la riflessione più importante che facevano era legata ad un problema più serio, ovvero la
limitazione delle nascite che secondo loro sarebbe stata legittimata grazie all’eventuale legge
sull’aborto poiché questa sarebbe potuta diventare lo strumento della società “capitalista” che, non
potendo arrivare a soddisfare le esigenze di tutti, avrebbe finito per imporre alle donne l’aborto. In
questo modo si sarebbe riproposta la situazione diametralmente opposta: da un divieto di abortire,
ad un divieto di procreare:
È il suo corpo (della donna) che sbaglia perché fa bambini che il capitalismo non può mantenere ed educare.
Si arriva all’ossessione americana: “siamo troppi, non respireremo più, non mangeremo più ecc.” e il
problema da risolvere diventa quello del controllo delle nascite e non il cambiamento della struttura sessista
e capitalista della società. Non possiamo essere complici di questa falsa coscienza.185
183
Noi sull’aborto facciamo un lavoro politico diverso, in L. Percovich, La coscienza nel corpo, cit., p. 104. 184
Ivi. p. 105. 185
Ibidem.
51
Il 18 febbraio 1975 fu il giorno in cui la Corte Costituzionale pronunciò la sentenza n. 27, ovvero
quella che, modificando l’articolo 546 del codice Rocco, riconosceva la non punibilità dell’aborto
terapeutico186
. Questa fu la scintilla necessaria affinché in Parlamento i partiti iniziassero ad
elaborare le diverse proposte di legge sull’aborto. Tuttavia critiche giunsero dal Collettivo
femminista milanese di Viale Col di Lana attraverso un documento intitolato Non esprime tutto il
movimento. Nel pamphlet le femministe prendevano le distanze da qualunque proposta di legge
sull’aborto, ma, in particolar modo, da quella presentata dai due deputati della nuova sinistra
Silvestro Corvisieri e Mimmo Pinto187
. Nel documento si poteva leggere:
Non esprime tutto il movimento delle donne la proposta di legge che alcuni gruppi […] hanno presentato in
parlamento; non esprime per esempio noi che, pur vivendo la contraddizione dell’aborto, non vogliamo che
questa nuova sofferenza venga confermata e legiferata. È evidente che l’abolizione dell’aborto non si ottiene
attraverso la sua legalizzazione. […] L’unica cosa che vogliamo è la cancellazione del reato, dunque la sua
depenalizzazione.188
“Depenalizzazione” era la parola chiave e permetteva così alle femministe di prendere distacco
anche da termini come “autodeterminazione” e “aborto libero”:
“Autodeterminazione” a proposito di aborto può pertanto avere solo un significato molto restrittivo, quello
cioè di rivendicare alla donna la possibilità di difendersi, contro gli interessi e/o il disinteresse degli altri
(mariti, compagni, medici, preti, leggi, ecc.) lo stesso vale per l’aggettivo “libero”: aborto libero vuol dire
solo libero dalla sanzione, non affermazione di una pienezza di sé, conquistata attraverso l’aborto. Aborto
libero solo perché “liberatorio” da un male peggiore.189
E contro la proposta di legge Pinto-Corvisieri erano ferme:
E se in questo caso parlare di libertà di scelta rispetto al proprio corpo e alla propria sessualità è un
autoinganno, ci pare anche un inganno credere di difendere realmente le donne “concedendo” per legge
illimitati limiti: la proposta Pinto-Corvisieri a noi risulta terroristica verso le donne stesse, perché scavalca
senza incertezze e timori tutto il dramma legato all’aborto e la disperazione che sola può spiegare
l’interruzione di gravidanza, e scarica sulla donna lasciata sola a decidere la violenza sessuale, sociale ed
economica di tutta la società.190
186
F. Lussana, Il Movimento Femminista in Italia, cit., p. 70. 187
Ivi. p. 71. 188
Non esprime tutto il movimento, in L. Percovich, La coscienza nel corpo, cit., p. 250. 189
Ivi. p. 252. 190
Ibidem.
52
Poco più di un anno prima a Roma, nel giugno del 1975, per volere di alcune donne fuoriuscite
dall’MLD, di donne del Collettivo femminista comunista romano, del Collettivo femminista
Magliana, del Movimento femminista romano, del Nucleo femminista medicina, di Lotta continua,
Avanguardia operaia e Pdup-Manifesto, nasceva il Comitato romano per l’aborto e la
contraccezione, comunemente denominato CRAC, che s’impegnava a praticare l’autogestione
dell’aborto come momento di lotta in centri in cui venisse eseguito, gratuitamente e in condizioni
igieniche e sanitarie sicure191
. S’impegnava a diffondere l’informazione sugli anticoncezionali e
sulla sessualità in consultori controllati dalle donne e riconosciuti dallo Stato, coinvolgendo il
personale medico e paramedico. Il CRAC sosteneva i progetti di legge che venivano presentati in
Parlamento per legalizzare l’aborto e appoggiava il referendum abrogativo delle leggi presenti nel
codice Rocco192
. Era l’altra faccia del movimento femminista, quella condannata dalle femministe
milanesi, la più attiva e concreta il cui slogan affermava: “aborto libero, gratuito, sicuro, subito”193
.
Il CRAC s’impegnò ad organizzare una grande manifestazione nazionale, come la già citata
manifestazione del 6 dicembre 1975, che per la prima volta vedeva scendere tutti i gruppi e i
collettivi femministi che volevano l’aborto libero, gratuito e assistito. Le donne che riuscì a
mobilitare furono più di 20 mila. Il CRAC scelse di affiancare alla pratica autoriflessiva, tipica dei
gruppi femministe, una nuova modalità d’azione che presupponeva di uscire allo scoperto e di
dialogare con le istituzioni194
. È grazie anche all’operato del CRAC che si arrivò alla legislazione a
tutela dell’aborto.
191
F. Lussana, Il Movimento Femminista in Italia, cit., p. 72. 192
L. Percovich, La coscienza nel corpo, cit., p. 103. 193
Ibidem. 194
F. Lussana, Il Movimento Femminista in Italia, cit., p. 72.
53
Capitolo 3
La legge sull’aborto: una lunga gestazione
3.1 Come si organizza il movimento nell’assenza della legge
“Ci si era battute con i denti per creare spazi autogestiti dalle donne e ora si deve invece lottare, se si può,
per cambiare dal di dentro i nuovi consultori pubblici”195
Tra il 1974 e il 1975 presero piede in Italia una serie di iniziative legate a quello che evidentemente
era un bisogno della popolazione femminile. Cominciarono a stabilirsi contatti tra le varie città e i
vari gruppi di donne unificati dalla comune volontà di sottrarre ai medici e agli ospedali la gestione
della salute. Tuttavia questi sodalizi si differenziarono uno dall’altro, spesso su variabili legate al
luogo geografico196
. La medicina, fin dagli albori, era stata una materia che aveva interessato da
vicino il mondo femminile. Come riporta Barbara Henrenreich in Le streghe siamo noi, le donne
sono state le prime guaritrici, i primi medici e i primi farmacisti della storia, un potere
ridimensionato dagli uomini nel momento in cui si cominciarono a formar le professioni borghesi.
Così quelle donne furono come “streghe”:
Le donne sono sempre state guaritrici. Sono state i primi medici e anatomisti della storia occidentale.
Sapevano procurare gli aborti, fungere da infermiere e consigliere. Le donne sono state le prime farmaciste,
che coltivavano le erbe medicinali e si scambiavano i segreti del loro uso. Erano esse le levatrici che
andavano di casa in casa, di villaggio in villaggio. Per secoli le donne sono state medici senza laurea, escluse
dai libri e dalla scienza ufficiale: apprendevano le loro conoscenze reciprocamente trasmettendosi le loro
esperienze da vicina a vicina, da madre a figlia. La gente del popolo le chiamava le “sagge”, le autorità
streghe o ciarlatane. La medicina è parte della nostra eredità di donne, della nostra storia, del nostro
patrimonio.197
Ma il protagonismo femminile all’interno di questa pratica finì per essere accantonato dalla nascita
della figura del “medico”. Inevitabilmente questo processo ebbe ripercussioni su quelle pratiche
biologiche e naturali, come la gravidanza, che da sempre avevano riguardato le donne che da sole
erano solite gestire il momento della gravidanza e del parto. L’offerta di cura era spesse volte
195
F. Lussana, Il Movimento Femminista in Italia, cit., p. 188. 196
L. Percovich, La coscienza nel corpo, cit., p. 52. 197
B. Henrenreich, Le streghe siamo noi. Il ruolo della medicina nella repressione della donna, La Salamandra,
Milano, 1977, p. 17.
54
parziale e solitamente l’utenza si imbatteva in operatori sanitari poco rispettosi. A fronte di tutto ciò
le donne decisero di riappropriarsi della cura della loro salute, organizzandosi in strutture da loro
autogestite dove, al corpo della donna, veniva reso il giusto rispetto e la dovuta accortezza nei
trattamenti medici.
I convegni nazionali sulla salute della donna che si tennero a Roma nell’aprile del 1975 e a Firenze
nel febbraio del 1976, erano stati preceduti dagli incontri con le “americane” che giunsero in Europa
e in Italia col fine di mostrare la pratica del self help e di condividere l’approccio da loro
sperimentato con successo sui temi della salute e della cura198
. Ma in cosa consisteva questa pratica
innovativa proveniente da oltreoceano? Il self help o auto-aiuto era una pratica volta alla ricerca
della conoscenza dell’apparato genitale femminile. Da sempre le donne venivano abituate a vivere i
loro organi genitali come qualcosa da nascondere perché vergognosa. Per superare tale scoglio
bisognava imparare ad autovisitarsi. Lo strumento di cui tutte dovevano dotarsi era il cosiddetto
speculum199
. Ogni donna avrebbe dovuto servirsene periodicamente per controllare la propria salute
ed eventualmente osservare una malattia allo stato iniziale: «Molte di noi prima della visita erano
convinte di avere malformazioni o anomalie del tutto particolari, tutte viste come malattia piuttosto
che come normale caratteristica del proprio corpo. […] Ci si può confrontare con le altre donne in
tutto, compresi i nostri genitali»200
. Una giovane del self help romano così parlava del progetto al
quale stava lavorando col suo gruppo:
Stiamo preparando delle schede basate sull’osservazione quotidiana dell’apparato genitale. È una ricerca mai
fatta: nessun ginecologo infatti potrà mai avvalersi della conoscenza delle variazioni giornaliere. Il medico
interviene sempre dopo, a malattia scoppiata: noi, con le autovisite ginecologiche così come con l’esame
regolare delle mammelle, potremo invece scoprire uno stato patologico molto prima di loro, perché ormai ci
conosciamo e sappiamo qual è il nostro stato normale.201
I gruppi di self help segnarono un momento molto importante che attraversò la parte più
consapevole del Movimento per la salute. Tutto ciò rese possibile l’incontro, sulla stessa lunghezza
d’onda, con le donne che provenivano dal consultorio.
Nel 1973 a Milano, nel mese di settembre, nasceva il Centro d’informazione sulla sterilizzazione e
l’aborto (CISA) per iniziativa di Adele Faccio, Emma Bonino e Maria Adelaide Aglietta. Nel
novembre dell’anno successivo il CISA diventò un organismo federato del Partito radicale tanto che
198
Ivi. p. 53. 199
Lo speculum era un semplice divaricatore meccanico che serviva per dilatare la vagina, per mettere in evidenza il
collo dell’utero al fine di poter osservare gli organi genitali interni. 200
Ivi. p. 55. 201
Ibidem.
55
la sua sede a Milano coincise con la sede milanese del partito. Lo scopo della struttura era quello di
offrire a tutte le donne informazioni e assistenza relativamente agli anticoncezionali, alla
sterilizzazione e all’aborto202
. Come si poteva leggere in una sua locandina risalente al 1974, il
centro si impegnava a risolvere i problemi di tutte le donne che non potevano, non volevano oppure
che non erano in condizioni di avere figli:
Intendiamoci bene: "Noi facciamo gli aborti perché siamo contro l'aborto". Gli anticoncezionali (pillola,
spirale, induzione di mestruazione, diaframma, ecc.) dovrebbero evitare di arrivare all'aborto. Ma finché gli
anticoncezionali non saranno debitamente diffusi, o quando per qualche motivo falliscono, ecco che allora
interviene l'aborto come estremo rimedio.203
Il CISA iniziò la sua attività organizzando viaggi a basso costo con voli charter per Londra e per
l’Olanda, presso cliniche precedentemente contattate, dove era possibile abortire a prezzi ridotti e
con la garanzia di ricevere un trattamento conforme alle massime condizioni igienico-sanitarie
vigenti. Ma ben presto il centro diventò famoso poiché, gestendo direttamente cliniche e consultori,
permetteva alle donne di abortire tramite il “metodo Karman204
”, un metodo meno invasivo rispetto
al classico raschiamento, che invece era un vero e proprio intervento chirurgico, micidiale per
l’utero. Il prezzo “politico” al quale era possibile usufruire del servizio veniva concordato con i
medici che prestavano il loro aiuto al centro e si aggirava intorno alle 100.000 lire, cifra che a volte
poteva diminuire grazie alla pressione delle militanti che in certi casi riuscivano ad ottenere dai
medici che alcuni interventi particolari venissero praticati gratuitamente205
. Ma al CISA non si
effettuavano solo aborti e non si distribuivano solamente anticoncezionali. Infatti spesse volte le
militanti si scontravano con casi di vita dolorosi ai quali, prima di tutto, dovevano provare a dare
una soluzione. Ad esempio, in un’intervista Emma Bonino aveva detto:
Casi di vita difficili, strampalati, dolorosi. Uno ebbe come soluzione che una bambina di un anno mi venisse
affidata; l’altro, a distanza di dodici mesi, che una seconda piccola venisse a stare a casa mia. Forse perché
non avevo altra scelta e perché queste due storie mi avevano particolarmente coinvolto, forse perché io ne
avevo bisogno.206
202
F. Lussana, Il Movimento Femminista in Italia, cit., p. 68. 203
CISA – Centro di informazione sulla sterilizzazione e l’aborto, disponibile online al sito:
http://radicali.radicalparty.org/search_view.php?id=45370&lang&cms=12, consultato il 02/02/2014. 204
Il metodo Karman, praticato dai medici, consisteva in un sistema meccanico con cui, per mezzo di una piccola canna
e di una pompa aspirante, veniva aspirato il contenuto dell’utero, ancora informe e grumoso, prima del terzo mese,
ovvero prima che l’ovulo fecondato si agganciasse alla parete dell’utero dando inizio al ciclo morfologico dal quale
avrebbe preso vita il feto. 205
CISA – Centro di informazione sulla sterilizzazione e l’aborto, cit. 206
Intervista ad Emma Bonino, in Lina Merlin e Emma Bonino. Senza distinzione di sesso, cit.
56
Ma le difficoltà iniziarono nel 1975: il 10 gennaio a Firenze fu arrestato il ginecologo Giorgio
Conciani, che era il responsabile di un ambulatorio per le interruzioni di gravidanza che operava in
accordo col CISA. Il medico venne fermato con l’accusa di aver praticato aborti clandestini. In
seguito a questo primo arresto se ne verificarono diversi che coinvolsero anche alcuni esponenti del
Partito radicale, come il segretario Gianfranco Spadaccia accusato del reato di “procurato aborto”.
Conseguentemente a questo arresto, i radicali misero in atto una nuova forma di protesta: Adele
Faccio si fece arrestare pubblicamente e platealmente; vennero raccolte poi 2.700 autodenunce,
compresa quella del leader Marco Pannella. Emma Bonino, dopo essersi autodenunciata, sparì a
Parigi per una breve latitanza e ricomparì in giugno al seggio elettorale di Bra: dopo aver votato,
dichiarò di essere ricercata mettendo in imbarazzo i carabinieri che a quel punto furono costretti ad
arrestarla207
.
In Italia le cose stavano a poco a poco cambiando e anche le istituzioni dovevano tenerne conto
tanto che, nel luglio del 1975, con esattezza il 29 luglio, venne approvata dal Parlamento la legge
quadro che istituiva i “consultori familiari pubblici” (legge n. 405 del 1975)208
. L’importanza
ricoperta da tale legge fu enorme soprattutto perché finì per legittimare, facendolo rientrare sotto
una cornice statuale, l’operato di tanti centri che si applicavano per la salvaguardia della salute della
donna. Ma in cosa consistevano questi consultori pubblici? Erano dei luoghi, istituiti presso le unità
sanitarie locali all’interno dei quali si cercava di tutelare la salute della donna e del bambino, offrire
informazioni idonee a facilitare o prevenire la gravidanza da parte del personale addetto. Ecco
l’articolo 1 della legge che istituiva i consultori:
Il servizio di assistenza alla famiglia e alla maternità ha come scopi: l’assistenza psicologica e sociale per la
preparazione alla maternità e alla paternità responsabile e per i problemi della coppia e della famiglia […]; la
somministrazione dei mezzi necessari per conseguire le finalità liberamente scelte dalla coppia e dal singolo
in ordine alla procreazione responsabile […]; la tutela della salute della donna e del prodotto del
concepimento; la divulgazione delle informazioni idonee a promuovere ovvero a prevenire la gravidanza
consigliando i metodi e i farmaci adatti a ciascun caso […].209
La legge non concepiva come suo destinatario soltanto la donna e il suo corpo, che apparentemente
sarebbero potuti sembrare i protagonisti e unici interessati alla questione. Esaminandola, si poteva
notare che il legislatore proponeva un’assistenza psicologica e sociale da riferirsi all’intera coppia e
alla famiglia: non si riferiva solo alla maternità ma parlava anche di “paternità responsabile”. Tale
207
Ibidem. 208
F. Lussana, Il Movimento Femminista in Italia, cit., p. 85. 209
R.E. Marcoz, Sessualità e consultori familiari, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1980, p. 87.
57
sfaccettatura data alla norma non fu condivisa dalle femministe, infatti alcune volontarie dei centri
affermarono: «Riteniamo che i consultori per i problemi della coppia, quali li prevedono gli attuali
progetti di legge, siano una scelta politica che ancora una volta sancisce l’identità coppia-famiglia.
[…] Per questo vogliamo che i consultori pubblici siano della donna e per la donna»210
. Ma
dopotutto questi erano consultori “familiari” e non consultori “delle donne”. L’articolo 2 invece
affidava alla Regione la fissazione delle leggi e dei criteri per la programmazione, il funzionamento,
la gestione e il controllo del servizio svolto dai consultori, ma poi i consultori di assistenza alla
famiglia e alla maternità venivano istituiti o dai comuni stessi o dai loro consorzi. In ogni modo la
legge permetteva anche che i consultori potessero essere istituiti da istituzioni o da enti pubblici e
privati che avessero finalità sociali, sanitarie e assistenziali, ovviamente senza scopo di lucro211
.
Questo processo iniziato nel 1975 sferrò un durissimo colpo ai consultori femminili che erano nati
nelle varie regioni: buona parte dei consultori autogestiti, che si basavano sul self help e che
praticavano aborti con il metodo Karman, finirono per chiudere i battenti. Tra di essi figurava il
consultorio della Bovisa a Milano insieme ad altre strutture analoghe che, sebbene riuscirono a
coesistere per un breve periodo con i consultori pubblici, decisero poi di sciogliersi212
.
Ma perché la convivenza non era possibile? Qual era la differenza tra un consultorio femminista e
un consultorio pubblico? Prima di tutto i consultori femministi, autogestiti, fornivano assistenza non
tanto alla coppia quanto alla donna: attraverso i gruppi di self help e i centri per la salute della
donna, si voleva superare il rapporto di tipo medico-assistenziale che veniva percepito dalle donne
come autoritario. Accanto al medico infatti era possibile trovare una serie di figure, principalmente
femminili, che aiutavano le donne a superare le paure, disagi o anche bisogni213
. Erano dei luoghi
diversi da un semplice ambulatorio medico dove le donne potevano stare insieme, socializzare e
condividere le loro problematiche senza dover più rispettare il “religioso silenzio” loro imposto
durante l’attesa per una visita in ospedale.
Per coordinare l’attività dei consultori autogestiti, sorti principalmente nell’Italia centro-
settentrionale, nel 1976 nacque il Coordinamento nazionale per i consultori al quale, oltre al CRAC,
che divenne il punto di riferimento e di controllo per le strutture pubbliche, vi aderirono anche il
Centro per la salute della donna di Torino, alcuni collettivi milanesi attivi nelle fabbriche, Donne in
lotta per l’aborto e la contraccezione di Venezia, alcuni collettivi di Trento, il Collettivo femminista
210
L. Percovich, La coscienza nel corpo, cit., p. 253. 211
R.E. Marcoz, Sessualità e consultori familiari, cit., p. 87. 212
F. Lussana, Il Movimento Femminista in Italia, cit., p. 85. 213
Ibidem.
58
comunista di Bologna, l’MLDA di Reggio Emilia, alcuni collettivi di Firenze, il Collettivo
comunista donne di Ferrara214
.
Come si è visto in precedenza, nel giugno del 1975 a Roma nasceva il CRAC, che da subito si
impegnò nella creazione di consultori autogestiti di quartiere nella capitale. Con esso collaboravano
militanti del Movimento femminista, militanti dei gruppi extraparlamentari (Pdup, Ao, Lc) e tutte
quelle donne che, fuori da ogni tipo di organizzazione, si battevano contro questo aspetto
drammatico della loro oppressione215
. Il CRAC presentò la sua piattaforma politica nel giugno 1975
durante una manifestazione al teatro Spazio Zero di Roma. Al suo interno era possibile rintracciare
tutti gli impegni che il comitato intendeva portare avanti nell’ambito della campagna per la
liberalizzazione dell’aborto di cui si faceva promotore. Prima di tutto si impegnava a lottare per il
diritto alla maternità contro chi speculava sulla vita delle donne imponendo loro l’aborto
clandestino e contro chi costringeva le donne agli aborti bianchi come conseguenza delle
intollerabili condizioni di lavoro216
. Inoltre tra i suoi principi fondatori si potevano constatare:
Il comitato si è formato per: ottenere il diritto all’aborto libero, gratuito ed assistito nelle strutture sanitarie
pubbliche per tutte le donne, anche minorenni, per decisione della donna, senza interventi censori di
cosiddetti esperti; sviluppare una politica di prevenzione, con una rete di consultori controllati dalle donne,
per l’informazione e la distribuzione gratuita degli anticoncezionali sicuri e non nocivi.
Il comitato si impegna a: praticare l’autogestione dell’aborto come momento di lotta in centri in cui l’aborto
venga eseguito in condizioni igieniche e sanitarie sicure e di gratuità, in relazione alla crescita del
movimento delle donne, che aggreghi intorno a sé la più ampia mobilitazione di massa; diffondere
l’informazione sugli anticoncezionali e sulla sessualità in consultori controllati dalle donne che vengano
riconosciuti dallo Stato […]; coinvolgere sui problemi dell’aborto e della contraccezione il personale medico
e paramedico[…]; appoggiare la legge Fortuna con tutti gli emendamenti che si ritengono necessari per il
miglioramento della stessa.217
Con la legge regionale sui consultori, il CRAC prese una posizione più articolata sul problema e
aprì gli spazi alla partecipazione dei collettivi di quartiere e a riunioni per organizzare le lotte da
fare sul terreno dei consultori pubblici, attraverso la formazione dei consultori autogestiti dalle
donne. Fu proprio in questa direzione che andò a costruirsi l’esperienza del consultorio autogestito a
San Lorenzo218
.
214
Ivi. pp. 85 – 86. 215
Effe: mensile femminista autogestito, anno III, n. 5, cit. in P. Stelliferi, Il Femminismo a Roma negli anni Settanta,
cit., p. 142. 216
Ibidem. 217
Ibidem. 218
L. Percovich, La coscienza nel corpo, cit., p. 211.
59
Con il CRAC collaboravano altri collettivi romani di quartiere. Ad esempio, il Collettivo
femminista comunista della Magliana, dopo aver portato avanti per qualche tempo l’attività di
autocoscienza e self help, decise di aprire un consultorio autogestito e di organizzarsi al fine di dare
aiuto morale e soprattutto materiale alle donne che avessero avuto l’intenzione di abortire. Era un
comitato di quartiere e per tale motivo prestava aiuto a tutte le donne della Magliana, ma in
particolar modo alle proletarie e sottoproletarie anche se, come afferma in un’intervista Paola
Carlini, a quei tempi militante del collettivo, quando si parlava di contraccezione e aborto si era
tutte sulla “stessa barca” perché, nonostante i vari accorgimenti, anche alle donne più acculturate
capitava di rimanere incinte219
. Il collettivo, collaborando col CRAC, era diventato il punto di
raccolta delle richieste di aborto da parte delle donne della Magliana e dei quartieri limitrofi.
Inizialmente si organizzavano i famosi “viaggi a Londra” e per tale motivo il centro rimaneva
aperto ogni martedì dalle 18:00 in poi per permettere alle donne che fossero interessate di avere
maggiori informazioni circa le modalità del viaggio, o per prendere appuntamento per una visita
preliminare con un ginecologo “solidale” che collaborava con il collettivo. Inoltre in questi incontri
era addirittura possibile assegnare, a chi non poteva permetterselo, un biglietto aereo gratuito: infatti
ogni dieci prenotate, la compagnia di volo metteva a disposizione un biglietto omaggio che in
genere veniva concesso alle proletarie che non potevano permetterselo220
.
Ma nell’attesa di una legge sull’aborto che tardava ad arrivare, mentre le discussioni sulle varie
proposte di legge si facevano sempre più complesse e accese, i casi di decessi causati dagli aborti
clandestini continuavano a ripetersi e le richieste di viaggi a Londra ad aumentare. Ben presto il
collettivo comprese che il “viaggio a Londra” non poteva essere “la” soluzione poiché, nonostante
tutte le agevolazioni offerte, erano ancora numerosissime le donne che non potevano pagarselo e
per di più altrettante non potevano permettersi di assentarsi da casa per più di due giorni poiché
avevano figli piccoli e mariti da accudire. Queste riflessioni spinsero il collettivo a prendere la
decisione di creare al suo interno un “nucleo aborto” che, in modo clandestino, si sarebbe occupato
di praticare gli aborti col metodo Karman, ovviamente cambiando ogni volta sede: «Chi poteva
metteva a disposizione la propria casa e facevamo divenire politico un gesto di grave
insubordinazione, di violazione della legge, che peraltro chiedevamo ormai da tempo»221
. Tuttavia
sebbene all’interno del collettivo fossero molte le militanti che avessero acconsentito a portare
avanti tale impegno, in fin dei conti quelle che si dimostrarono disponibili a prendersi l’onere di
praticare gli aborti furono poche. Quelle che non se la sentivano aiutavano nel modo che potevano,
magari occupandosi dell’accoglienza che allo stesso modo era importante.
219
P. Stelliferi, Il Femminismo a Roma negli anni Settanta, cit., p. 159. 220
Ibidem. 221
Ivi. p. 162.
60
Anche il collettivo Appio-Tuscolano presentò un’evoluzione simile: imparò la pratica del self help e
avviò un’intensa mobilitazione sul tema dell’aborto. Una delle prime iniziative fu intrapresa nel
febbraio del 1976 nel quartiere popolare del Lamaro: fu messo in scena all’interno dei cortili delle
case popolari un piccolo spettacolo con scopo didattico poiché inscenava la rappresentazione di
alcune streghe che insegnavano ad una casalinga a diffidare di preti e “praticoni”222
. Sebbene il
collettivo fosse stato attivo nell’organizzazione dei viaggi a Londra, alla fine decise di non formare,
a differenza del collettivo Magliana, un nucleo aborto e quindi decise di non apprendere il metodo
Karman: «Il nostro collettivo il metodo Karman non ha mai voluto nemmeno impararlo. Perché era
cosa dura, era una cosa molto pesante da portare avanti. […] Ci sembrava una cosa troppo pesante
da gestire sia dal punto di vista psicologico che anche strettamente medico»223
.
3.2 Simonetta Tosi e il Gruppo San Lorenzo
Perché la salute della donna non è solo una pillola da mandare giù e un utero da mantenere sano. È anche
sentirsi un essere umano fra gli altri esseri umani.
Simonetta Tosi224
In varie città italiane, tra il 1972 e il 1973, iniziarono a formarsi dei gruppi facenti riferimento al
“Movimento per la medicina e/o per la salute delle donne” che avevano lo scopo di riappropriarsi
della conoscenza del corpo, di sottrarsi dal controllo medico maschile e di liberare la sessualità
dagli schemi imposti dalle “leggi del patriarcato”. Tutto ciò iniziò pian piano a svolgersi prima nelle
case, poi presso le sedi di altri gruppi femministi per infine approdare all’interno di luoghi autonomi
dove vennero realizzati dei consultori autogestiti e dei centri della salute225
. Tuttavia, a Roma il
femminismo riuscì da subito a trovare un suo tratto distintivo circa le problematiche legate al corpo,
alla sessualità e alla salute delle donne. Infatti la gran parte dei gruppi romani portò avanti la
mobilitazione attiva, scendendo direttamente in campo attraverso manifestazioni e prese di
posizione. Vista la vicinanza delle istituzioni, dei centri del potere, del cuore della politica, le
femministe romane, condizionate in gran parte dalla sinistra extraparlamentare, sentivano più delle
altre femministe il bisogno di “fare”, di attivarsi per cambiare la situazione. Così la pratica del fare
le spinse a negoziare con la stessa politica al fine di trovare dei compromessi sia per depenalizzare
222
Ivi. p. 179. 223
Intervista a Ombretta Coppi, in P. Stelliferi, Il Femminismo a Roma negli anni Settanta, cit., p. 182. 224
F. Lussana, Il Movimento Femminista in Italia, cit., pp. 190 – 191. 225
P. Stelliferi, Il Femminismo a Roma negli anni Settanta, cit., p. 38.
61
il reato di aborto, sia, dopo l’approvazione della legge sui consultori, a femminilizzare i consultori
familiari dando loro un tocco più umano, “smedicalizzato”226
.
A Roma il primo gruppo interessato al tema della salute e del corpo si formò all’interno del
collettivo Pompeo Magno con l’idea di promuovere iniziative di sensibilizzazione sul tema della
contraccezione. Una delle primissime iniziative intraprese da questo gruppo fu quella di allestire,
nell’autunno del 1972 nel quartiere San Lorenzo, una mostra che, sebbene da una parte fosse
ispirata a quella messa a punto dal Pompeo Magno a Piazza Navona nel maggio del 1971, questa,
oltre ad andare contro la “pubblicità offensiva”, venne ampliata da una “contro-mostra227
” intitolata
“Chi sei veramente?” 228
che raffigurava le donne nella loro realtà quotidiana. La scelta del quartiere
San Lorenzo non era stata casuale: questo era un quartiere prima di tutto popolare e secondo era
estremamente vicino al consultorio del Policlinico Umberto I. In seguito a questa iniziativa le
militanti del Movimento femminista romano si convinsero che senza una “riappropriazione della
medicina” e un’analisi preliminare su se stesse e sui problemi del proprio corpo, non si sarebbe
instaurata una comunicazione efficace con le altre donne229
. A portare avanti questa “battaglia” ci
pensò il Gruppo San Lorenzo.
Il Gruppo San Lorenzo nacque tra il 1973 e il 1974 come gruppo di lavoro interno al Movimento
femminista romano di Via Pompeo Magno. La sua attività finì spesse volte per intrecciarsi con la
biografia umana e professionale di Simonetta Tosi, una biologa che scelse di lavorare con le donne
e per le donne, fin quando una malattia, non diagnosticata in tempo, se la portò via. L’attività del
gruppo era in particolare la contraccezione e l’aborto, ma al suo interno la figura di Simonetta fu
molto rilevante poiché, con la sua passione e generosità, ispirava ed animava il progetto. Silvia
Tozzi la ricorda così:
Viveva stabilmente a Roma dal 1971, anno in cui era diventata ricercatrice presso il Laboratorio di Biologia
Cellulare del CNR. Fino al 1972 ha svolto ricerche sulla genetica e biochimica degli anticorpi.[…]
Gradualmente aveva maturato un rifiuto per le pratiche scientifiche che si svolgono nel chiuso dei laboratori,
e la sua stessa preparazione medica l’aveva portata ad occuparsi degli aspetti sociali della salute. […]
All’inizio degli anni Settanta il suo lavoro si era trasformato, e aveva cominciato a coincidere con l’impegno
politico nel campo della salute della donna, in particolar modo sui temi della contraccezione e aborto.[…]
Simonetta si collocava così, con uno stile particolare, nell’intersezione tra il mondo della ricerca, le
226
F. Lussana, Il Movimento Femminista in Italia, cit., p. 181. 227
Prima di mettere a punto la mostra però venne effettuato dalle femministe uno studio sulla diffusione della
contraccezione tra le donne di San Lorenzo, realizzato attraverso la somministrazione “casa per casa” di un
questionario. Incontrate da sole nelle loro abitazioni, le donne si erano potute sfogare, esternando i loro problemi.
(Donnità: cronache del movimento femminista romano, cit. in P. Stelliferi, Il Femminismo a Roma negli anni Settanta,
cit., p. 39). 228
Ivi. p. 38.. 229
F. Lussana, Il Movimento Femminista in Italia, cit., p. 181.
62
istituzioni sanitarie e le spinte al rinnovamento di idee e pratiche […] che facevano capo alla nuova sinistra
e, poi, ai primi gruppi femministi.230
Durante gli anni di servizio prestati al San Lorenzo, Simonetta tenne una serie di quaderni e agende
che era solita annotare a mano giorno per giorno, che riportavano in modo sistematico gli incontri
che la biologa teneva con le casalinghe del quartiere. I quaderni erano delle schede “tecniche” sulle
esperienze di ciascuna delle donne intervistate. Con queste Simonetta instaurò un rapporto non solo
professionale ma anche profondamente umano che le permise di accedere alla sofferenza e
solitudine provata dalle donne che abortivano affidandosi alle “mammane” e che per ignoranza
continuavano ancora a diffidare dei metodi anticoncezionali. Il metodo di lavoro della Tosi
procedeva “dal basso” ed era innovativo sia per quanto concerneva il linguaggio sia per la
comunicazione: questo fu il motivo che permise al suo gruppo di differenziarsi dagli altri collettivi
che si occupavano di self help e contraccezione perché oltre alla semplice divulgazione di
informazioni “tecniche”, voleva instaurare una relazione umana con le “pazienti”231
. Leggiamo ora
alcune righe di questi suoi appunti:
Luglio ‘73
[…] due figli, 4 e 8 anni, sposata da dieci anni […]
Il marito è favorevole agli anticoncezionali. Se aspettasse un figlio, non abortirebbe perché ha visto abortire
un’amica in condizioni pietose. Insoddisfatta del lavoro casalingo. Vorrebbe trovarsi con altre donne per
parlare dei suoi problemi. Andata con me al Centro di Pianificazione. Visitata. Analisi di laboratorio. Pillola
iniziata dopo l’estate, interrotta per disturbi.
Giov. 17/1/74
Da sola (doveva venire Carla ma si è dimenticata)
Via degli Equi 69 […]. Casa di due stanze e una cucina, ha quattro figli e aspetta per luglio il quinto, in
cinque anni. Voleva abortire, ma le hanno chiesto 200.000 lire; il marito non ha voluto per la spesa e per la
paura dell’intervento. È molto stanca e rassegnata. Mi ha detto che sono arrivata tardi. […] ANDARE IN
AGOSTO.232
Nel 1974, quello che ufficialmente si chiamava Collettivo femminista di San Lorenzo e che dopo
prese il nome di Gruppo San Lorenzo del Collettivo femminista romano, aprì un consultorio in uno
230
Ivi. pp. 184 – 185. 231
Ivi. p. 185. 232
Ivi. p. 186.
63
scantinato al numero 100 di Via dei Sabelli233
. Essendo un locale adibito ad ambulatorio medico,
prima di poter iniziare le attività del consultorio, le responsabili dovettero ottenere il sì da parte
dell’Ufficio di igiene, l’autorizzazione dei condomini e soprattutto dovettero trovare dei medici
disposti a collaborare col loro progetto. Vista la rinuncia da parte dell’Associazione italiana per
l’educazione demografica (Aied) a concedere alcun tipo di finanziamento, il locale fu preso in
affitto a nome di Simonetta Tosi e veniva pagato tramite l’autotassazione e l’autofinanziamento
mentre le strutture necessarie per le visite venivano pagate con i ricavi della vendita di vestiti usati:
Per ora siamo un consultorio autogestito e autofinanziato. Autogestito significa gestione collettiva, non
gestione sociale che è quella degli asili nido o dei consigli di fabbrica ecc.; significa invece gestione
assembleare e controllo sul personale tecnico che però farà parte di questa gestione.234
Il gruppo San Lorenzo portava avanti il suo lavoro da una parte continuando a praticare
l’autocoscienza e dall’altra aprendosi alle iniziative rivolte alle donne del quartiere come la pratica
del self help, la contraccezione e l’aborto. La struttura rimaneva aperta tutti i giorni eccetto la
domenica e forniva i suoi servizi in modo totalmente gratuito. L’unica cosa a pagamento erano gli
anticoncezionali che, riportando il giudizio delle militanti del gruppo, “purtroppo erano carissimi in
Italia”235
. Manuela Fraire ricorda così la sua esperienza di auto-visita a Via dei Sabelli:
Poi sono tornata anni dopo al collettivo San Lorenzo a fare self help, quella è stata un’esperienza enorme.
C’era Valeria Ascoli e Simonetta Tosi, con loro due ed altre feci la prima esperienza di auto-visita, in quel
posto assolutamente straordinario, le immagini forti, se io fossi una regista… ci sono immagini enormi di
questa presenza femminile del corpo, dall’aborto al cerchio di donne sedute per terra che sono state per me
una rivoluzione incredibile.236
Ed è proprio quella dell’aborto l’attività principale praticata dal collettivo: venivano organizzati i
viaggi a Londra tramite accordi con agenzie di viaggio e il personale di alcune cliniche inglesi,
oppure l’aborto veniva direttamente praticato nelle case delle volontarie o delle pazienti per mezzo
del più semplice metodo di aspirazione “Karman”237
.
233
La piccola sede del consultorio era uno scantinato umido, adibito a “studio medico” soltanto grazie al lavoro di
pulizia e arredo fatto dalle sue organizzatrici. (Ivi. p. 187). 234
“Effe”, anno IV, n. 6, cit. in P. Stelliferi, Il Femminismo a Roma negli anni Settanta, cit., p. 41. 235
F. Lussana, Il Movimento Femminista in Italia, cit., p. 187. 236
Un anno durato decenni. Vite di persone comuni prima, durante e dopo il ’68, a cura del circolo Gianni Bosio,
Odradek, Roma, 2006, p. 106. 237
F. Lussana, Il Movimento Femminista in Italia, cit., p. 187.
64
Il 1975 fu un anno ricco di eventi e non solo. Per tutti i gruppi sulla salute, ma in particolar modo
per il collettivo di Via dei Sabelli, iniziò una fase difficile all’interno della quale non risultò facile
continuare a portare avanti il canale aperto con le istituzioni. Nonostante la presa di posizione delle
donne-medico del CRAC, tra cui la stessa Tosi, nel 1976 il Movimento femminista romano decise
di interrompere la pratica abortiva, che era stata delegata al CISA di Milano e al CRAC di Roma.
Dietro tale decisione si nascondeva la paura che il confronto con le istituzioni avrebbe rischiato di
essere perdente e quindi di trasformarsi in scontro238
. In seguito a tali decisioni, all’interno del
gruppo San Lorenzo si aprì una discussione interna che vedeva schierarsi da una parte le donne che
volevano continuare con la pratica dell’aborto e il servizio sul territorio del consultorio autogestito;
dall’altra c’erano quelle che volevano tirarsi indietro e chiudere. Tuttavia prevalse l’idea di
continuare e per Simonetta e le altre il consultorio non poteva assolutamente essere inteso come un
servizio alla famiglia. Infatti bisognava continuare a confrontarsi con le istituzioni, ma i servizi
elargiti dai consultori non dovevano essere solo “ambulatoriali”: alle donne servivano spazi in cui
trovare risposte ai propri problemi ginecologici, ma soprattutto il contatto umano, che le leggi non
prevedevano. Ecco perché i consultori dovevano essere esclusivamente per la donna239
. Simonetta
era fortemente convinta di ciò e per questo durante la sua seppur breve vita, si impegnò
incessantemente a portare il femminismo dentro le strutture pubbliche. Questo fu il motivo per cui,
nell’estate del 1978, dopo l’approvazione della legge sull’aborto, d’accordo con altri gruppi
femministi, le infermiere del Collettivo Policlinico e le ragazze della “Lista di lotta” che spingevano
per essere assunte all’interno dell’ospedale, partecipò all’occupazione del cosiddetto “repartino” del
Policlinico Umberto I. Si protestava contro l’obiezione di coscienza dei medici ammessa ormai
dalla legge sull’aborto, e si voleva promuovere la pratica dell’aborto con il metodo Karman. Ma
l’esperienza di autogestione si concluse nel settembre dello stesso anno a causa dell’intervento
della polizia. Da quel momento in poi la Tosi mise a disposizione di tutti coloro che fossero
interessati la sua esperienza per formare il personale addetto al servizio pubblico e per migliorare e
“umanizzare” le strutture sanitarie240
.
Ma, come accennato precedentemente, Simonetta scoprì nella tarda primavera del 1977 di essere
ammalata di cancro al seno: ciò trasformò il suo impegno nelle istituzioni in una vera e propria
battaglia esistenziale e morale che affrontò portando avanti, fino al 1981, una campagna per
diffondere l’informazione preventiva dei tumori femminili, che allora era ancora molto arretrata,
affinché le donne colpite dal suo stesso male avessero potuto accorgersi in tempo della malattia per
238
Ivi. p. 189. 239
Ivi. pp. 189 – 190. 240
Ivi. p. 191.
65
iniziare in tempo il ciclo di chemio necessario alla guarigione241
. Nel suo triste caso, i medici che la
tenevano in cura avevano sottovalutato la gravità della questione, infatti:
Questo nodulo me lo ero sentito per la prima volta circa quindici giorni fa dopo le mestruazioni e me lo sono
sentito così: duro come una nocciolina, mobile, non dolente: segni tutti, apparenti, di benignità. Lo stesso
hanno pensato i due medici che mi hanno visitato. […] «Se vuoi toglierlo vedi tu, è senz’altro benigno», […]
«Non è da togliere assolutamente questa è una mastopatia, fai questa cura e fra un mese è tutto
scomparso».242
Ma la determinazione di Simonetta la portò ad effettuare comunque per scrupolo l’operazione e
infatti l’esame istologico parlava chiaro: carcinoma intraduttale243
,. Da qui la sua riflessione: «A
pensare che la decisione è stata solo mia c’è da avere paura sapendo a chi è affidata la nostra salute,
a quale leggerezza e incompetenza degli esperti andiamo incontro senza saperlo»244
, e aggiunse:
«Nel mio caso, se avessi saputo qual era la prevenzione corretta per i tumori al seno avrei fatto
qualche esame periodico anche senza sintomi»245
. Ed era proprio la “prevenzione” il messaggio che
la Tosi voleva fosse trasmesso dopo la sua morte, per evitare che altre donne morissero per sciocchi
errori dei medici come nel suo caso.
3.3 Arriva la 194
“È nostro diritto avere il controllo del nostro corpo: affermare questo oggi significa anche chiedere l‘aborto
e un aborto gratuito e per tutte”246
D’accordo con l’opinione di Perry Willson, la battaglia per il diritto all’aborto, interamente volta
alla sua legalizzazione, ebbe particolare risonanza in Italia poiché qui l’accesso alla contraccezione
era limitato soprattutto per la presenza di norme antiabortive nel codice Rocco. Ciò non significava
che negli altri paesi occidentali la questione non fosse stata rilevante (basta solo pensare alla
Francia per ricredersi), ma in Italia la campagna fu particolarmente sentita per via dell’influenza che
la Chiesa cattolica esercitava sui maggiori partiti politici. Questi, opponendosi ad una legislazione
241
Ibidem. 242
Ivi. p. 192. 243
Il carcinoma intraduttale è una forma maligna di tumore che si sviluppa all’interno dei dotti galattofori della
mammella. 244
F. Lussana, Il Movimento Femminista in Italia, cit., p. 192. 245
Ibidem. 246
Il personale è politico. Quaderni di lotta Femminista n.2, cit., p. 168.
66
favorevole all’aborto, rendevano difficile l’iter legislativo di qualsiasi progetto volto a porre
“l’aborto” tra i diritti fondamentali dell’individuo247
. La campagna iniziò ufficialmente nel 1971,
lanciata dal movimento femminista: sebbene durante la battaglia per il divorzio le femministe
avessero svolto un ruolo modesto, l’impegno che esse riservarono a quella sull’aborto fu totale,
mostrando a tutti che, nonostante tutto, all’interno dello stesso movimento le posizioni prese dalle
donne erano delle più svariate.
Verso la fine del febbraio 1971, durante il primo Congresso nazionale dell’Mld, il movimento si
fece portatore di un disegno di legge di iniziativa popolare per depenalizzare e liberalizzare
l’aborto. Ma ciò che contribuì ad innescare le prime azioni dimostrative e legislative fu la sentenza
pronunciata dalla Corte Costituzionale nel marzo del 1971 la quale, dichiarando l’illegittimità del
divieto della propaganda anticoncezionale, cambiò radicalmente lo scenario sociale e politico del
paese248
. Tale provvedimento fu necessario in quanto, come si poteva leggere nella sentenza stessa,
era necessario che lo Stato intervenisse nel disciplinare la materia al fine di “impedire l’incitamento
all’uso di mezzi riconosciuti dannosi per la salute”249
. Era un piccolo passo verso la legge
sull’aborto, anche se in fin dei conti il percorso da compiere era ancora lungo.
A livello parlamentare si potette assistere alla “sterzata verso destra” della Dc, suggellata alla fine
del 1971, dall’elezione di Giovanni Leone al Quirinale, avvenuta soprattutto grazie ai voti
determinanti dell’Msi. Infatti alle elezioni politiche del 1972, sebbene venne confermato il ruolo
centrale della Dc e la tenuta del Pci, l’Msi vide raddoppiare i suoi consensi. In un periodo dominato
dalla crisi economica con tanto di aumento dell’inflazione, la Dc non riusciva più a tenere insieme
un paese che veniva messo in ginocchio dalle bombe e dal terrorismo rosso e nero. L’unica
soluzione che si prospettava era quella di un ritorno all’alleanza di centrosinistra con il cosiddetto
“patto di Palazzo Giustiniani” sottoscritto nel 1973 da Moro e Fanfani250
. Come afferma Paola
Gaiotti de Biase in Cattoliche e cattolici di fronte all’aborto :
Per i partiti laici la spinta delle donne offre l’occasione di un rinnovato protagonismo dell’area laica e ciò è
stato certamente rafforzato e favorito dall’irrigidimento democristiano. Dall’altra parte, come per il divorzio,
il tema dell’aborto sembra offrire elementi al ricompattamento di una linea d’unità politica dei cattolici che,
dopo il Concilio e la contestazione giovanile, era già fortemente discussa e in crisi.251
247
P. Willson, Italiane. Biografia del Novecento, cit., p. 285. 248
F. Lussana, Il Movimento Femminista in Italia, cit., p. 58. 249
Ivi. p. 59. 250
Ivi. p. 65. 251
P. Gaiotti de Biase, Cattoliche e cattolici di fronte all’aborto e il mutamento degli equilibri della Repubblica, in Anni Settanta, cit., p. 74.
67
Infatti Moro scelse di tenere l’aborto fuori dagli accordi di governo, lasciandolo alle questioni di
coscienza individuali. Ma agendo di tal maniera, il centrosinistra finì per rinunciare a porsi come
guida della società civile, accentuando il carattere strumentale e provvisorio delle alleanze
governative, sulle quali non si poteva far affidamento per costruire progetti comuni252
. Tuttavia
inizialmente anche il Pci si oppose ad una legislazione “pro-aborto” e l’eco del suo dissenso
risuonava anche negli Stati Uniti dove il TIME, riferendosi ai due più grandi partiti italiani, Dc e
Pci, si esprimeva in questo modo :
The ruling Christian Democrat party in Italy is liberal on many social issues, but not on those touching
Catholic morality as set forth by the Vatican. Nor is there any inclination by the Christian Democrats to
change the legislation, dating from the Mussolini era, that makes abortion an offense “against the integrity of
the race”. […] Even the Communists, who never stop trying to woo Catholic voters, are very wary of
tampering with the old harsh laws.253
Tuttavia, caduta nel 1971, con la fine della quinta legislatura, una proposta di legge intesa a
legalizzare l’aborto terapeutico presentata dal senatore Banfi e dall’onorevole Brizioli, l’iter
ufficiale del primo “vero” progetto di legge sull’aborto iniziò l’11 febbraio 1973 con la
presentazione alla Camera dei deputati del progetto di legge il cui primo firmatario era l’onorevole
Fortuna, ma al quale aderirono ben altri onorevoli tra cui Craxi, Mancini, Lombardi, Signorile e tra i
tanti anche una donna, Maria Magnani Noya. Alcune testate dell’epoca riportavano in anticipo la
notizia che i comunisti non avrebbero appoggiato tale progetto di legge: all’interno del partito
vigeva un conflitto che schierava da un lato il nuovo segretario Enrico Berlinguer e Nilde Jotti
mentre dall’altro vedeva le donne dell’UDI. La Jotti affermava: «È chiaro che la legge deve essere
cambiata, ma questo non significa che siamo favorevoli a una totale liberalizzazione»254
. In ogni
modo, nel dettaglio, il progetto di legge dell’on. Loris Fortuna (lo stesso dell’approvata legge sul
divorzio) ammetteva l’aborto, ma a certe condizioni:
L’aborto è lecito se la gravidanza è opera di un medico iscritto all’Albo professionale e purché altri due
medici, iscritti all’Albo, certifichino “che la continuazione della gravidanza potrebbe causare un rischio per
la vita della donna incinta o pregiudizio alla salute fisica e psichica della donna stessa maggiori se la
252
Ibidem. 253
Abortion on trial, TIME, 25 giugno 1973, cit. 254
P. Gaiotti de Biase, Cattoliche e cattolici di fronte all’aborto e il mutamento degli equilibri della Repubblica, in
Anni Settanta, cit., p. 75.
68
gravidanza fosse interrotta, o che vi sia il rischio che il nascituro possa riportare anomalie fisiche e
mentali”.255
Inoltre aggiungeva che:
Il provocato aborto quando il consenso della donna manchi o sia stato estorto con la violenza o minacce ecc.
viene colpito con pene dai sei ai dodici anni. Il consenso è efficace se dato da una donna che abbia compiuto
i 18 anni e sia capace di intendere e di volere. Il consenso di una donna dai 14 ai 18 anni è valido se
congiunto a quello dei genitori o del legale rappresentante o del Tribunale dei Minorenni. Sanzioni severe
sono previste anche nei casi di morte della donna non consenziente all’aborto, oppure di morte o lesione
conseguente all’opera di chi non sia iscritto all’ordine dei medici.256
Una delle novità introdotte da questo progetto di legge era “l’obiezione di coscienza” che spettava
ad ogni medico che non avesse avuto la forza di praticare l’aborto per via delle sue convinzioni
personali. In ogni modo anche a questi medici spettava l’obbligo di prestare l’assistenza necessaria
per salvaguardare la vita delle donne o per prevenire un’offesa grave alla salute fisica o psichica di
una donna incinta257
. Ma, avversato dai gruppi femministi, che rivendicavano alla donna il diritto di
decisione che in tal maniera veniva rimesso ai medici, dopo un anno e mezzo dalla sua
presentazione in Parlamento, tale progetto non iniziava ancora il suo cammino parlamentare.
Sebbene il Pci si avvicinò successivamente alle idee femministe, cedendo a poco a poco alle
pressioni esercitate dalle donne del partito, non abbracciò mai veramente l’idea del “diritto delle
donne alla libertà di scelta”. Dal canto suo la Dc era fermamente contraria e quindi solo il piccolo
Partito radicale sostenne pienamente il principio dell’autodeterminazione della donna258
. Infatti nei
primi mesi del 1975, il Partito radicale, in collaborazione con il settimanale “L’Espresso”, iniziò la
raccolta delle firme necessarie per attivare la richiesta di un referendum abrogativo di tutti gli
articoli del Codice penale che facevano dell’aborto un reato. A tale iniziativa presero parte anche il
gruppo Pdup-Manifesto, Avanguardia operaia e Lotta continua259
. Inoltre il 18 febbraio del 1975
venne pronunciata una nuova sentenza della Corte Costituzionale (sentenza n. 27, 1975) che
modificò l’art. 546 del codice Rocco, riconoscendo la non punibilità dell’aborto terapeutico. Per di
più affermava un principio fondamentale stabilendo che: «I diritti inviolabili del concepito possono
“venire in collisione” con i diritti costituzionali della madre» e aggiungeva che: «Il diritto alla vita e
255
Il personale è politico. Quaderni di lotta Femminista n.2, cit., p. 67. 256
Ivi. pp. 67 – 68. 257
Ivi. p. 68 258
P. Willson, Italiane. Biografia del Novecento, cit., p. 286. 259
F. Lussana, Il Movimento Femminista in Italia, cit., p. 70.
69
alla salute “propri di chi è già persona”, come la madre, non è uguale a quello dell’embrione che
persona deve ancora diventare»260
. In conclusione, la sentenza finiva per riconoscere la legittimità
dell’aborto quando veniva minacciata la salute psichica e fisica della madre, mettendo fine al
pericolosissimo ricorso alle mammane per la pratica dell’aborto clandestino. Tale sentenza spinse i
partiti ad elaborare diverse proposte di legge sull’aborto, proposte che il Movimento femminista
osteggiò tutte. Furono presentati in tutto cinque disegni di legge: quelli di Corti, Cariglia e altri per i
socialdemocratici; Seroni, Natta, Spagnoli, Jotti e altri per il Pci; Mammì, del Pennino e altri per il
Pri; Altissimo, Malagodi, per il Pli; Piccoli, Scalfaro per la Dc261
. Tutti e cinque i progetti
concordavano sul fatto che fosse impossibile una completa liberalizzazione dell’aborto. A loro
avviso questo, in certi casi particolari, avrebbe dovuto continuare ad essere considerato come un
“illecito penale”. Il testo unificato venne realizzato da un Comitato ristretto nel quale al Pci spettava
il ruolo di bilanciere tra la Dc e i partiti laici. Ma il quadro politico influenzò l’andamento dell’iter
legislativo poiché il Pci protendeva di più verso i partiti laici, buoni alleati di governo a livello
locale, e ciò influì poiché il testo che ne venne fuori era abbastanza aperto: riconosceva alla donna
la libera scelta sull’aborto. In conclusione, grazie alla pressione esercitata dal Vaticano, l’Msi
approvò l’emendamento presentato da Piccoli262
, il quale in un certo senso cambiò radicalmente il
testo provocando il ritiro dei relatori, il ritorno del progetto di legge in Commissione ma soprattutto
aprì alla crisi di governo che portò allo scioglimento delle Camere e a nuove elezioni nel 1976263
.
La nuova legislatura vide la presentazione di un ulteriore progetto di legge pro-aborto: il disegno di
legge Pinto-Corvisieri, comunemente denominato “legge delle donne”. Presentato alla Camera dai
due deputati, di cui Corvisieri apparteneva ad Ao e Pinto a Lc, il progetto prevedeva l’estensione
illimitata del concetto di autodeterminazione femminile, consentendo alla donna di interrompere la
gravidanza senza limiti temporali, anche al nono mese. Questa proposta racchiudeva alcune
proposte portate avanti dal Movimento consultori di Torino e concedeva alla madre il diritto di
decidere della vita e della morte del bambino. A causa di ciò venne etichettata come un’aberrazione
tanto che lo stesso gruppo di Democrazia proletaria, del quale facevano parte i due deputati, finì per
astenersi nella votazione finale del testo264
.
260
Ibidem. 261
P. Gaiotti de Biase, Cattoliche e cattolici di fronte all’aborto e il mutamento degli equilibri della Repubblica, in
Anni Settanta, cit., p. 75. 262
L’emendamento presentato alla Camera da Flaminio Piccoli era fortemente restrittivo, snaturava il testo unificato del
progetto di legge riaffermando il principio dell’aborto come grave reato e consentiva lì interruzione della gravidanza
solo nel caso dell’aborto terapeutico e della violenza sessuale. (F. Lussana, Il Movimento Femminista in Italia, cit., p.
71). 263
Ivi. pp. 76 – 77. 264
F. Lussana, Il Movimento Femminista in Italia, cit., p. 71.
70
L’effettiva (e attuale) legge sull’aborto, arrivò soltanto nel maggio nel 1978 quando il Parlamento,
dopo una serie di lavori ripresi nel gennaio del 1977, approvò la famosa legge n. 194. Questa
sebbene fosse il risultato di lunghe contrattazioni tra i partiti politici, finì per essere talmente al di
sotto delle rivendicazioni femministe tanto che il Partito radicale votò contro265
. L’art. 1 affermava
che l’interruzione volontaria della gravidanza non era un mezzo per il controllo delle nascite ed
inoltre la legge prevedeva la possibilità di interrompere la gravidanza entro i primi tre mesi (90
giorni) se il parto e la maternità avessero comportato un serio pericolo per la salute fisica o psichica
della donna in relazione anche alle condizioni economiche, sociali o familiari o in previsione di
anomalie o malformazioni del bambino. Tuttavia, e questa era la novità più interessante, permetteva
di abortire alla donna anche tra il quarto e il quinto mese, ma solo per motivi terapeutici, ovvero se
fosse stata a rischio la vita della donna o se fossero state riscontrate rilevanti anomalie o
malformazioni del nascituro, che avrebbero comportato un grave pericolo per la salute fisica o
psichica della donna266
. L’influenza esercitata dalla Dc in sede di discussione del progetto di legge,
ispirò l’art. 5 nel quale si concedeva alla donna, prima di essere sottoposta ad aborto, un
“ripensamento”. Per questo motivo l’aborto non veniva effettuato immediatamente, ma solo dopo
che fossero passati sette giorni dalla richiesta. Inoltre, sempre per pressione della Dc, venne
ammesso il principio “dell’obiezione di coscienza” che permetteva ai medici di esentarsi dal
praticare l’aborto per loro convinzioni personali. Tuttavia, riprendendo il progetto di legge Fortuna,
se fosse stata in serio pericolo la vita della donna, i medici sarebbero stati costretti alla pratica (art.
9). Infine l’art. 12 estendeva anche alle minorenni il diritto di aborto, ma solo dopo previa
autorizzazione da parte dei genitori o di chi avesse esercitato la patria potestà o la tutela.
L’autorizzazione poteva essere omessa solo se i medici avessero riscontrato che la gravidanza
avrebbe compromesso la salute della minorenne267
.
In ogni modo la 194 lasciò un po’ tutti scontenti. Scontente erano le militanti dell’UDI, che
criticavano soprattutto l’attacco all’autodeterminazione femminile, che secondo loro era il principio
inviolabile su cui la legge si sarebbe dovuta fondare, ma che finì per essere trascurato dalla
discussione in Parlamento. Scontento era il Vaticano che non poteva riconoscere una legge
sull’aborto, che in ogni caso per la religione continuava ad essere considerato un crimine. Scontente
erano le femministe per via dell’obiezione di coscienza che consentiva, specialmente nel Sud Italia,
ampi margini alla non applicabilità della legge e continuava a porre le donne nell’inevitabile
necessità di ricorrere all’aborto clandestino. Le femministe affermavano:
265
Il Pci rifiutò di adottare una posizione più radicale e insieme all’influenza esercitata dalla Dc contribuirono a
spiegare l’impianto definitivo della legge. (P. Willson, Italiane. Biografia del Novecento, cit., p. 287). 266
F. Lussana, Il Movimento Femminista in Italia, cit., p. 106. 267
Ibidem.
71
Le istituzioni […] ignorano comunque il senso e il valore della differenza sessuale; perciò si presentano
come se fossero neutre e anche quando non favoriscono il sesso maschile, danneggiano il sesso femminile il
cui valore dipende dal fatto che la sua differenza sia significativa, visibile, parlante da sé.268
Tuttavia non è possibile negare che la 194 non fosse stata un traguardo, la fine di un percorso
durante il quale un intero paese ne uscì cambiato. L’Italia capì che nonostante quella dell’aborto
fosse una tragedia privata, chiamava in causa tutti. Con l’approvazione della legge sull’aborto
cadeva il referendum abrogativo, proposto dai radicali, degli articoli del Codice penale che
prevedevano ancora il reato di aborto. Ma gli oppositori della legge tentarono in tutti i modi di
ostacolarla attraverso la richiesta di due referendum abrogativi: uno proposto dal Movimento per la
vita, dietro il quale si celava il mondo cattolico più integralista; l’altro suggerito dai radicali che
invece chiedevano una pratica abortiva più libera, che avrebbe dovuto estendere l’aborto libero
anche alle minorenni. Tali referendum si svolsero nel maggio del 1981 ma ebbero esito negativo: i
cattolici ottennero solo il 32% contro il 68% del “fronte del no”; i radicali a malapena raggiunsero
l’11%269
. L’esito schiacciante del referendum dimostrò che l’Italia, dopo un decennio di battaglie e
mobilitazioni portate avanti dalla società civile, era davvero cambiata. Gli scontri e le lotte avevano
dato vita ad un paese nuovo, pronto ad aprirsi ad un nuovo decennio.
268
Ivi. p. 107. 269
Ivi. p. 108.
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