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Tra corni e corna: morfologia di un espediente semantico-musicale FEDERICO GON ‘Cornuto’: strano che questa parolina non abbia il femminile. (Jules Renard, Diario) Tra retorica e organologia La retorica è stata per secoli una fida compagna della scrittura musicale, 1 cugina diretta dell’ars oratoria di ascendenza classica che vanta in Gorgia, Cicerone e Quintiliano i suoi maggiori rappresentanti. Ad essa fanno capo istituzioni di ordine formale 2 nonché tutta una serie di topoi che più o meno mimeticamente tentano, tramite espedienti melodici, armonici e strumen- tali, di imitare alcuni aspetti della realtà extramusicale. Lasciando da parte in questa sede il concetto di madrigalismo, 3 possiamo dire che la mimesi si attua, ad esempio, in tutti i casi di imitatio resi tramite il timbro, quali l’uso dell’arpa per conferire un tono angelico alla melodia, i tromboni per evocare scenari soprannaturali, il flauto per il tono pastorale o virginale, la tromba per il mondo militare; pratiche che hanno piena cittadinanza nel 1. Senza scomodare testi fondamentali della retorica musicale come quelli di Athanasius Kircher (Musurgia Universalis, 1650), Johann Mattheson (Der vollkommene Capellmeister, 1739) o Hans-Heinrich Unger (Die Beziehungen zwischen Musik und Rhetorik im 16.–18. Jahrhundert, 1941), più recentemente vi si sono applicati con zelo LEONARD RATNER, Harmony: Structure and Style, New York, McGraw-Hill, 1962 (trad. it. Armonia. Struttura e stile, a cura e con una introduzione di Marco De Natale, Milano, BMG Ricordi, 1996); ID., Classic Music: Expression, Form, and Style, London, Macmillan, 1980; RAYMOND MONELLE, The Sense of Music: Semiotic Essays, Princeton, Princeton University Press, 2000; ID., The Musical Topic: Hunt, Military, and Pastoral, Bloomington, Indiana University Press, 2006. 2. Ad esempio la forma sonata, la cui strutturazione si può ricondurre a una sorta di dispo- sitio con tanto di exordium, narratio, argumentatio e peroratio simile a quella dell’ars oratoria; tale parallelo è adombrato da Charles Rosen, il quale sostiene che la sinfonia, influenzata dall’or- ganizzazione narrativa e formale del teatro d’opera, «era costretta a divenire una rappresen- tazione, e di conseguenza essa sviluppò qualcosa che assomigliava a una trama, con tanto di momento culminante seguito dalla riconciliazione, non solo, ma si diede anche un’unità di tono, di carattere e di azione che prima d’ora aveva raggiunto solo in parte». CHARLES ROSEN, The Classical Style. Haydn, Mozart, Beethoven, New York, The Viking Press, 1971; trad. it. Lo stile classico. Haydn, Mozart, Beethoven, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 178. 3. Per il quale si rimanda a UNGER, Die Beziehungen zwischen Musik und Rhetorik cit.

Tra corni e corna: morfologia di un espediente semantico-musicale

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Tra corni e corna: morfologia di un espediente semantico-musicale

Federico Gon

‘Cornuto’: strano che questa parolina non abbia il femminile.(Jules Renard, Diario)

Tra retorica e organologiaLa retorica è stata per secoli una fida compagna della scrittura musicale,1 cugina diretta dell’ars oratoria di ascendenza classica che vanta in Gorgia, Cicerone e Quintiliano i suoi maggiori rappresentanti. Ad essa fanno capo istituzioni di ordine formale2 nonché tutta una serie di topoi che più o meno mimeticamente tentano, tramite espedienti melodici, armonici e strumen-tali, di imitare alcuni aspetti della realtà extramusicale. Lasciando da parte in questa sede il concetto di madrigalismo,3 possiamo dire che la mimesi si attua, ad esempio, in tutti i casi di imitatio resi tramite il timbro, quali l’uso dell’arpa per conferire un tono angelico alla melodia, i tromboni per evocare scenari soprannaturali, il flauto per il tono pastorale o virginale, la tromba per il mondo militare; pratiche che hanno piena cittadinanza nel

1. Senza scomodare testi fondamentali della retorica musicale come quelli di Athanasius Kircher (Musurgia Universalis, 1650), Johann Mattheson (Der vollkommene Capellmeister, 1739) o Hans-Heinrich Unger (Die Beziehungen zwischen Musik und Rhetorik im 16.–18. Jahrhundert, 1941), più recentemente vi si sono applicati con zelo Leonard ratner, Harmony: Structure and Style, New York, McGraw-Hill, 1962 (trad. it. Armonia. Struttura e stile, a cura e con una introduzione di Marco De Natale, Milano, BMG Ricordi, 1996); id., Classic Music: Expression, Form, and Style, London, Macmillan, 1980; raymond moneLLe, The Sense of Music: Semiotic Essays, Princeton, Princeton University Press, 2000; id., The Musical Topic: Hunt, Military, and Pastoral, Bloomington, Indiana University Press, 2006.

2. Ad esempio la forma sonata, la cui strutturazione si può ricondurre a una sorta di dispo-sitio con tanto di exordium, narratio, argumentatio e peroratio simile a quella dell’ars oratoria; tale parallelo è adombrato da Charles Rosen, il quale sostiene che la sinfonia, influenzata dall’or-ganizzazione narrativa e formale del teatro d’opera, «era costretta a divenire una rappresen-tazione, e di conseguenza essa sviluppò qualcosa che assomigliava a una trama, con tanto di momento culminante seguito dalla riconciliazione, non solo, ma si diede anche un’unità di tono, di carattere e di azione che prima d’ora aveva raggiunto solo in parte». charLes rosen, The Classical Style. Haydn, Mozart, Beethoven, New York, The Viking Press, 1971; trad. it. Lo stile classico. Haydn, Mozart, Beethoven, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 178.

3. Per il quale si rimanda a UnGer, Die Beziehungen zwischen Musik und Rhetorik cit.

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teatro d’opera, il quale abbonda di scene pastorali, battaglie, temporali, incoronazioni, riti, maledizioni, evocazioni, celebrazioni e così via.4

Nell’infinito campionario di questi usi, un topos particolare – perché di comprensione non univoca e al contempo di scarsa diffusione – è rappre-sentato dall’uso del corno francese in relazione alla situazione drammatur-gica dell’infedeltà, sia essa coniugale o meramente affettiva (non fa diffe-renza se tale infedeltà sia perpetrata o subita, immaginata, futuribile o solo temuta). Per farla breve, in talune situazioni nelle quali in scena si parla, si pensa o si agisce in modo fedifrago, in orchestra risuona marcatamente il timbro del corno, o meglio, della coppia di corni. Questo divertente espe-diente è facilmente comprensibile a livello semantico per chiunque abbia una certa dimestichezza con la lingua italiana e i suoi usi gergali: in italiano infatti lo strumento che in inglese si definisce french horn viene detto corno (plurale corni ); al contempo, di colui che subisce l’infedeltà del partner si dice – usando una frase idiomatica – che ‘ha le corna’, nell’accezione delle corna animalesche, del toro o del caprone per intenderci, così come l’atto del tradire si definisce ‘mettere le corna’.5 Simile uso si ha nella lingua te-desca, dove l’espressione gehörnter Ehemann significa, per l’appunto, ‘marito cornuto’ (diverso il caso della lingua inglese, che traduce il tutto col termi-ne cuckoldry, ‘cornutaggine’).6

4. Limitandoci al melodramma, di importanza capitale in tal senso risultano essere gli studi di Joseph Kerman, Opera as Drama, New York, Knopf & Random House, 1956 (trad. it. Opera come dramma, Torino, Einaudi, 1990); Frits nosKe, The Signifier and the Signified: Studies in the Operas of Mozart and Verdi, The Hague, Martinus Nijhoff, 1977 (trad. it. Dentro l’opera. Struttura e figura nei drammi musicali di Mozart e Verdi, Venezia, Marsilio, 1993); LUca ZoppeL-Li, L’opera come racconto: modi narrativi nel teatro musicale dell’Ottocento, Venezia, Marsilio, 1994; marco BeGheLLi, La retorica del rituale nel melodramma ottocentesco, Parma, Istituto Nazionale di Studi Verdiani, 2004.

5. L’origine di questa immagine è remotissima: pare che l’imperatore bizantino Androni-co I Comneno facesse appendere, sulla porta di casa dei poveretti ai quali aveva sedotto le mogli, delle teste di cervi e altri animali dotati di corna da lui abbattuti a caccia. Da ciò nacque il modo di dire greco cherata poiein, mettere le corna, per indicare il pubblico infortunio coniugale subìto dai mariti sudditi di Andronico. Il 24 agosto 1185 i soldati dell’esercito siciliano di re Guglielmo II il Normanno conquistarono Salonicco. Stupiti nel vedere decine e decine di palazzi decorati con teschi di animali, quando ne conobbero il motivo diffusero l’epiteto ‘cornuto’ anche in Sicilia, da dove si trasmise a tutta l’Italia prima, e a tutta l’Europa poi. Sull’argomento si veda paoLo BartoLi, Tocca ferro: le origini magico religiose delle superstizioni su fortuna e sfortuna, Perugia, Protagon, 1994.

6. L’inglese cuckoldry deriva da cukoo, ossia cucù, poiché la femmina di questo esemplare ha l’abitudine di cambiare frequentemente compagno, nonché di deporre le uova anche in nidi diversi dal proprio; esempi d’uso di questa radice (e dell’aggettivo cuckold, cornuto) si ritrovano negli shakespeariani Pene d’amor perdute (canzone dell’atto V: «The cuckoo then

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Per uno spettatore avvezzo alla lingua italiana, è assai facile attribuire per estensione allo strumento ‘corno’ le peculiarità buffe e al contem-po canzonatorie e spietate delle ‘corna’: per dirla con Peirce,7 un segno (il suono del corno) rimanda a un oggetto (in questo caso un atto d’infedeltà) tramite un interpretante, da intendersi tanto in senso soggettivo (il singolo ascoltatore) quanto oggettivo e assolutamente comprensibile (il pubblico inteso come entità unica). Come si vedrà tra breve, tale espediente com-pare in alcuni melodrammi a cavallo tra Sette e Ottocento. La partita si gioca soprattutto sul piano del timbro: se in generale possiamo affermare che «il timbro puro definisce un oggetto isolato in rapporto al tutto»8 (si pensi all’effetto di ‘primo piano’ creato dagli a solo strumentali che fanno da introduzione ad alcune scene operistiche), qui siamo in presenza di un meccanismo associativo prodotto dall’impasto timbrico di due strumenti uguali, una coppia di corni. Si tratta di un’ inferenza che permette di cor-relare un tal personaggio o le sue azioni a un altro (chi tradisce con chi è tradito o viceversa), tramite lo scarto semantico corni → corna, un gioco tra entità plurali. A monte di questa particolare connessione timbrica e dei suoi risvolti psichici e semantici vi sono – come insegna Curt Sachs9 – l’or-ganologia e la storia della prassi esecutiva.

Il corno francese ha sofferto per secoli delle stesse limitazioni di into-nazione ed estensione intrinseche alla produzione del suono negli ottoni; il corno naturale (o da caccia, come lo si definì fino a tutto il Settecento) possedeva una gamma a dir poco disarmante di suoni emettibili, model-lata sugli armonici naturali del suono fondamentale fino al sedicesimo.

on every tree | Mocks married men; for thus sing he |Cuckoo | Cuckoo cuckoo! Oh word of fear | Unpleasing to the married ear!»), Otello (atto IV, Otello: «I will chop her into mes-ses! Cuckold me!») e Le allegre comari di Windsor (atto II, Ford: «Cuckold! Wittol! Cuckold!»). Sull’argomento si veda GeoFFey hUGes, An Encyclopedia of Swearing: The Social History of Oaths, Profanity, Foul Language, and Ethnic Slurs in the English-Speaking World, Armonk, M.E. Sharp Inc., 2006, pp. 107 e segg.

7. Peirce intende per segno qualsiasi cosa susciti un’interpretazione (immagine, melodia, gesto, ad esempio, il disegno di una casa), mentre l’oggetto è il significato che ognuno at-tribuisce al segno (ad es. la nostra idea di casa); tali istanze sono correlate dall’interpretante, ossia la relazione soggettiva tra segno e oggetto, la quale può variare nel tempo anche in presenza di segni e oggetti simili (ad esempio una diversa idea di casa che ci sovviene guardando lo stesso disegno). Si veda charLes saUnders peirce, Studies in Logic, by Mem-bers of The Johns Hopkins University, Boston, Little Brown, 1883.

8. ZoppeLLi, L’opera come racconto cit., p. 99.

9. cUrt sachs, The History of Musical Instruments, New York, Norton, 1940; trad. it. Storia degli strumenti musicali, Milano, Mondadori, 1995.

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Per spostarsi da una serie all’altra si era costretti a ricorrere ai ritorti, tubi mobili aggiuntivi che, mutando la lunghezza del canneggio, permettevano l’instaurarsi di una nuova fondamentale sulla quale produrre gli armonici; la bravura del cornista, nell’aggiustare l’intonazione con le labbra e con la mano nella campana, faceva il resto.10

La ristretta gamma di suoni a disposizione si fossilizzò in un tipo par-ticolare di scrittura che va sotto il nome di ‘quinte dei corni’, secondo una successione di questo tipo:11

A questo particolare tipo di scrittura si associò nei secoli anche tutta una gamma di segnali di chiara origine venatoria; il più noto è senza dubbio la sourcillade, retaggio dei richiami utilizzati per stanare gli animali dai loro rifugi:12

10. Per una panoramica completa sulle caratteristiche storiche e tecniche del corno fran-cese si rimanda agli ottimi siti internet dell’International Horn Society (www.hornsociety.org) e del progetto della Western Michigan University (www.hornhistory.com). Per una bibliografia essenziale sugli ottoni in generale, e sul corno in particolare, si vedano ho-race FitZpatricK, The Horn and Horn Playing and the Austro-Bohemian Tradition from 1680 to1830, London, Oxford University Press, 1970; reGinaLd morLey-peGGe, The French Horn, London, Benn, 1973; anthony Baines, Brass Instruments: Their History and Devel-opment, London, Faber, 1976 (trad. it., Gli ottoni, a cura di Renato Meucci, Torino, EdT, 1991); The Cambridge Companion to Brass Instruments, a cura di Trevor Herbert and John Wallace, Cambridge, Cambridge University Press, 1997; KUrt JanetZKy – Bernhard BrüchLe, Das Hörn, Mainz, Schott, 1984; Barry tUcKweLL, Horn, London, Kahn & Ave-rill, 2002.

11. samUeL adLer, The Study of Orchestration, London – New York, Norton & Company, 1982; ed. it. Lo studio dell’orchestrazione, a cura di Lorenzo Ferrero, Torino, EdT, 2008, p. 338.

12. moneLLe, The Sense of Music cit., p. 39. I richiami storici della caccia furono raccolti da André-Danican Philidor, padre dell’omonimo e più noto operista.

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L’effetto sourcillade compare in innumerevoli lavori, tra i quali la Sinfonia n. 73 in re maggiore, La caccia, di Haydn (1782), i vari concerti scritti da Vivaldi, Telemann, Molter, Quantz, Pokhorny, Leopold e Wolfgang Ama-deus Mozart, nonché il primo dei Brandeburghesi di Bach, perdurando sino al XIX secolo, quando si rese un indispensabile servizio ad agilità e into-nazione con l’introduzione dei moderni pistoni,13 che cambiarono sensi-bilmente anche il timbro dello strumento.14

Sebbene il corno sia stato impiegato svariate volte in teatro sin dai tem-pi dell’Erminia sul Giordano di Michelangelo Rossi (1633),15 delle Nozze di Teti e Peleo di Cavalli (1639)16 o del balletto La Princesse d’Elide di Lully (1664),17 risale al 1700 il primo vero esempio di corno francese impiegato integralmente in una partitura operistica, Diana rappacificata con Venere e con Amore di Carlo Agostino Badia.18 Da lì in avanti, grazie ai lavori di Ales-sandro Scarlatti, Porpora, Caldara, Leo, Händel, Hasse, Gluck, Traetta e Sarti, il corno entrò in modo pressoché stabile nell’organico orchestrale destinato al melodramma.19

13. Invenzione di Heinrich Stoelzel (1814): cfr. John Q. ericson, Why Was the Valve Inven-ted?, «The Horn Call» 28, n. 3, 1998, pp. 35-40.

14. È nota la predilezione di Brahms per il corno naturale; dal canto suo già Berlioz, nel suo Trattato di strumentazione (1844), scrive che «il tono del corno a pistoni è un po’ differente da quello del corno naturale; non lo sostituirei in ogni occasione. Sono fermamente convinto che non si dovrebbe mai definirlo un miglioramento del corno, dal quale differisce nella qua-lità del suono» (ed. it. a cura di Ettore Panizza, 4 voll, Milano, Ricordi, 1955-58, III, p. 139).

15. La partitura venne stampata quattro anni più tardi: erminia sUL Giordano: dramma mUsicaLe rappresentato neL paLaZZo deLL’iLLUstrissimo d. taddeo BarBerino | posto in mUsica da micheLanGeLo rossi, Roma, Masotti, 1637 (Rist. Bologna, Forni, 1970); si tratta del primo libretto di argomento profano del cardinale Giulio Rospigliosi, futuro papa Clemente IX.

16. Non si tratta di una vera e propria opera, bensì di un’«Opera scenica» o «Festa teatra-le», come risulta dal manoscritto autografo (Venezia, Marciana) e dal libretto (Venezia, Sarzina, 1639).

17. Si tratta propriamente di una comédie-ballet di Molière con musiche di scena di Lully.

18. Libretto di autore ignoto; data a Vienna il 21 aprile 1700. Sull’argomento cfr. thomas hieBert, The Horn in the Baroque and Classical Periods, in The Cambridge Companion to Brass Instruments cit., p. 104; KLaUs haLLer, Partituranordnung und musikalischer Satz, Tutzing, Schneider, 1970, p. 176.

19. «Anche i corni, che dalla metà del secolo avevano parzialmente assunto la funzione del precedente continuo, occupano in orchestra una posizione centrale» (nosKe, Dentro l’opera cit., p. 144).

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Prime occorrenzeMozart seppe valorizzare come pochi altri la voce dei singoli strumenti, caricandone il timbro di significati drammaturgici;20 le prime applicazioni di questo sottile Witz semantico-musicale – che compare nell’agone me-lodrammatico di fine Settecento – trovano un primo esempio compiuto nelle Nozze di Figaro. «Aprite un po’ quegli occhi» è una «deliziosa filippi-ca dello stesso Figaro contro le donne»,21 apostrofate con un corredo di metafore non proprio lusinghiere, rivolte indirettamente a Susanna che Figaro crede a torto l’amante del Conte:

Aprite un po’ quegli occhi,uomini incauti e sciocchi, guardate queste femmine, guardate cosa son.

Queste chiamate deedagli ingannati sensi, a cui tributa incensi la debole ragion.

Son streghe che incantanoper farci penar, sirene che cantano per farci affogar,civette che allettanoper trarci le piume, comete che brillano per toglierci il lume;son rose spinose, son volpi vezzose, son orse benigne, colombe maligne,maestre d’inganni,amiche d’affanni che fingono, mentono,

20. Ad esempio in Mozart l’oboe «è usato spesso per esprimere l’idea di solidarietà e, più particolarmente, di fedeltà in amore, amicizia o sottomissione. “Se il tuo duol” di Arbace (Idomeneo, ii, n. 10a), “Come scoglio” di Fiordiligi (Così fan tutte, i, n. 14) e “Tu fosti tradi-to” di Annio (La clemenza di Tito, ii, n. 17) sono esempi evidenti di arie che esprimono il concetto di fedeltà». nosKe, Dentro l’opera cit., p. 146.

21. Bernhard paUmGartner, Mozart: mit Noten- und Handschriftenproben und 8 Illustrationen, Berlin, Wegweiser, 1927; trad. it. Mozart, Torino, Einaudi, 1956, p. 374.

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amore non senton, non senton pietà. Il resto nol dico,già ognuno lo sa.

Il distico finale («Il resto nol dico | ognuno lo sa») è evidentemente un’allusione alla loro – presunta – inclinazione al tradimento. A infram-mezzare le ultime tre enunciazioni del testo (che concludono l’aria) vi è un rapido arpeggio dei corni soli, le prime due volte suonato piano, nell’ultima ripetizione fortissimo, come a voler far ‘aprire gli occhi’ (secon-do quanto vien detto in esordio) anche a chi non aveva capito fino a quel momento il sottile significato allusivo dell’utilizzo dei corni:

Ecco l’espediente definitivamente codificato, dal punto di vista sia musi-cale sia drammatico, in poche significative battute. Abert così sintetizza la questione:

Nella coda prorompono improvvisamente i corni e ci rivelano cosa sia quel fatale ‘resto’ che Figaro ci ha accanitamente taciuto: un drastico simbolismo stru-mentale evidentemente voluto da Mozart.22

Potremmo perciò considerare Mozart come l’inventore di questo «simbo-lismo strumentale»,23 giacché proprio l’Abert – insuperato nel reperire re-lazioni e connessioni tra il teatro mozartiano e quello degli autori coevi o posteriori – non ne mette in relazione l’uso con prassi altrui, ascrivendolo al contrario alla volontà individuale del compositore salisburghese.

22. hermann aBert, W. A. Mozart, Leipzig, Breitkopf & Härtel, 1919-24; ed. it. Mozart, a cura di Paolo Gallarati, 2 voll., Milano, Il Saggiatore, 1984-85, II: La maturità: 1783-1751, p. 306 (corsivo mio).

23. Idea sottintesa, per i corni, anche da Frits Noske: in Mozart «si possono rilevare le occasionali deviazioni dal loro ruolo neutrale (ad esempio il famoso ‘gioco di parole’ nell’aria del quarto atto di Figaro “Aprite un po’ quegli occhi”) ma questo è vero anche per gli archi» (nosKe, Dentro l’opera cit., p. 144).

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Dopo l’esempio delle Nozze, ecco Don Giovanni e Così fan tutte, l’uno a sublimare il concetto di tradimento in tragica filosofia dell’esistenza, l’al-tro a sondarne gli effetti più prosaici e quotidiani; ebbene in Don Giovanni – in modo non dissimile dai casi verdiani più avanti analizzati – le poten-zialità e le aspettative vengono totalmente eluse,24 non essendo presente in questo lavoro nemmeno un’istanza che possa essere ricollegata all’e-spediente ‘corni-corna’, all’opposto di quanto accade in Così fan tutte. E a nulla vale, per capire questa disparità, sindacare sulla natura stessa dei due lavori: Da Ponte li definisce entrambi «dramma giocoso» (le Nozze erano «Commedia in musica»), sebbene al nobile sivigliano si addica una elevatezza di temi estranea alle avventure delle due civettuole ferraresi.25 Per questo Don Giovanni e la sua anima noire rappresentano non una chance perduta, ma un diverso approccio alla drammaturgia: l’infedeltà (o le sue conseguenze) subita da Don Ottavio, Donna Elvira o Masetto si elevano a un livello superiore rispetto agli intrallazzi di Fiordiligi, Dorabella, Fi-garo, Susanna, Almaviva o la Contessa, tanto da avere ripercussioni nella sfera del sacro e del soprannaturale. È la presenza del Commendatore a rendere serissima la questione, e al contempo impossibile l’uso di un espediente così farsesco.

In Così fan tutte, invece, la calibrata e disincantata sapienza di Don Al-fonso è di tutt’altra pasta, e l’approccio musicale alla drammaturgia ne risulta alleggerito; nel rondò di Fiordiligi, «Per pietà ben mio perdona» (n. 25), le parole sono sempre inframmezzate da interventi della coppia di corni (si veda l’esempio nella pagina accanto).26

L’uso dei corni conferisce un che di eroico al canto, specialmente qualora lo si legga in riferimento alla simulata lontananza di Guglielmo per motivi bellici; tuttavia l’esplicita e pervasiva presenza, quasi concertante, che questi strumenti hanno lungo tutto il corso dell’aria si può naturalmente porre in relazione con quanto Ferrando ha appena combinato, inducendo in tenta-zione Dorabella, che ha ceduto alle sue avances (duetto «Il core vi dono», n. 23), unico vero atto di infedeltà esplicita di tutta l’opera. Investe l’intero bra-

24. E non mancherebbero le occasioni: su tutte, l’aria di Masetto nell’atto I, «Ho capito signor sì» (n. 6), nella quale il giovane neo-sposo mette a fuoco la pericolosità delle avances che Don Giovanni rivolge a Zerlina.

25. Sull’argomento cfr. emanUeLe senici, Tipologia dei generi nel teatro musicale, in Enciclopedia della musica, a cura di Jean-Jacques Nattiez, Mario Baroni, Margaret Bent e Rossana Dal-monte, Torino, Einaudi, 2004, IV, pp. 624-640.

26. Jessica waLdoFF, Recognition in Mozart Operas, Oxford, Oxford University Press, 2006, p. 244.

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no un’obliqua e nostalgica melanconia, non dispersa nemmeno nella malizia che l’espediente ‘corni-corna’ richiede: l’ironia ne risulta anzi decuplicata. Stupisce, al contrario, l’affermazione di Abert, secondo il quale quest’aria «contiene le più incantevoli melodie di tutta l’opera, come e più dell’aria di Ferrando (n. 17), che anzi supera per l’assoluta assenza di ironia».27 Ambi-guità che si coglie anche in «Donne mie, la fate a tanti» (n. 26) intonata da Guglielmo, così simile all’invettiva di Figaro nelle Nozze e così diversa per la totale assenza del topos da noi analizzato; forse, fu per l’appunto il timore di creare un doppione che indusse il musicista salisburghese a rinunciarvi.

Nel vasto catalogo mozartiano solo due dei tre capolavori su libretto di Da Ponte28 appaiono caratterizzati da questo utilizzo, che manca sia nei Singspiele (Il ratto dal serraglio, Il flauto magico) sia nella produzione eminente-mente seria (Idomeneo, La clemenza di Tito). Si può perciò azzardare l’ipotesi che proprio lo stretto contatto col fine umorismo dell’abate di Ceneda possa aver suggerito a Mozart un altrettanto sottile gioco di rimandi: tale uso idiomatico si applica in maniera naturale a una trilogia concepita per un pubblico, seppur germanofono, avvezzo sin dai tempi dei ‘poeti cesa-rei’ Zeno e Metastasio alla lingua dell’opera italiana.

Non avendo registrato occorrenze nel repertorio operistico precedente, probabilmente la palma d’oro quale inventore di questo calembour semantico-musicale spetta proprio a Mozart; in ogni caso, è perlomeno certo che con l’esplicitazione di questo espediente egli avesse finalmente trovato il modo «di dar molto da fare ai corni», così come auspicava scrivendo una sinfonia nella tenera fanciullezza.29

27. aBert, Mozart cit., p. 579.

28. Lo studioso particolarmente incline alla speculazione potrebbe ravvisare un’altra pre-senza del nesso corni-corna, stavolta paradossalmente in absentia: il duetto Annio-Servilia nel primo atto «Ah perdona il primo affetto» (n. 7) della mozartiana Clemenza di Tito (1791) non prevede l’uso dei corni, seppur essi facciano parte dell’organico orchestrale; una lancia spezzata in favore dell’unica coppia realmente innamorata e fedele presente nell’opera?

29. Ricordo di Marianne ‘Nannerl’ Mozart relativo al viaggio londinese (1765), in Noch

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Tuttavia accanto ai casi mozartiani si ritrova, nel repertorio del tardo Settecento, un’ulteriore occorrenza del topos, se si vuole ancora più esplici-ta, nell’intermezzo-cantata Il maestro di cappella che la tradizione attribuisce a Domenico Cimarosa.30 Il protagonista eponimo, all’inizio della seconda parte, intona la quartina

Ci sposeremofra suoni e canti,sposi brillantipieni d’amor.

Dopodiché chiama uno a uno gli strumentisti in orchestra («Voglio i violini | Voglio il violone [...] Voglio il fagotto | con l’oboè»), ottenendo da ognuno, in risposta, un breve passaggio caratteristico per estensione, colore e timbro. A un certo punto però, non richiesti, ecco i corni intonare un riconoscibi-lissimo quanto breve inciso marziale che ricalca le citate ‘quinte’. L’inciso viene seccamente commentato dal maestro di cappella: «No! No! No! No! | questo strumento non fa per me!», scena che si ripete un paio di volte, rendendolo sempre più spazientito: non c’è di che meravigliarsi, dato che l’intromissione dei corni (e con essi delle ‘corna’) avviene in un canto che dovrebbe essere una sorta di marcia nuziale!

Se non vi fosse questo esempio si potrebbe concludere che il nostro espe-diente nasce e muore con Mozart; d’altra parte esso compare solo nel Maestro di cappella ed è irreperibile in altre partiture dello stesso Cimarosa31

einige Anekdoten aus Mozarts Kinderjahren. Mitgetheilt von dessen Schwestern, der Reichsfreyin, Frau von Berthold zu Sonnenburg, «Allgemeine musikalische Zeitung» 2 (22 gennaio 1800).

30. Non esiste, a tutt’oggi, una partitura autografa del brano; l’unica fonte è lo spartito per canto e pianoforte edito a Lipsia da Hoffmeister (1813): la paternità cimarosiana è perciò tutt’altro che acclarata.

31. Delle novantanove opere scritte da Cimarosa si sono potute prendere in esame L’i-

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e di autori coevi32 (il che potrebbe anche costituire un indizio a favore dell’ipotesi che il Maestro non sia di Cimarosa). Nemmeno i maestri del cosiddetto ‘interregno tra Cimarosa e Rossini’ (per dirla con Stendhal)33 sembrano consci di questo portato mozartiano; a ridare nuova linfa al binomio ‘corni-corna’ penserà proprio il giovane pesarese.

RossiniLa retorica musicale specifica del teatro rossiniano – campo che da un ven-tennio è stato oggetto di studi di ambito sia formale sia analitico34 – è stata non a torto definita la «chiave di volta»35 del melodramma ottocentesco, avendo delineato o codificato tutta una serie di topoi che le generazioni suc-cessive avrebbero assimilato e adoperato. Il corno è tra gli strumenti che ne risultano maggiormente valorizzati. Vi sono sinfonie rossiniane carat-terizzate da un uso magistrale del corno in funzione solistica (ad esempio,

taliana in Londra (1779), Il pittor parigino (1781), Giannina e Bernardone (1781), I due baroni di Rocca Azzurra (1783), L’olimpiade (1784), I due supposti conti (1784), L’impresario in angustie (1785), Il matrimonio segreto (1792), Gli Orazi e i Curiazi (1797).

32. Ad esempio Paisiello (L’idolo cinese, 1767; Don Chisciotte de la Mancia, 1769; Socrate imma-ginario, 1775; La frascatana, 1774; Il matrimonio inaspettato, 1779; Il barbiere di Siviglia, 1782; Il mondo della luna, 1782; Re Teodoro in Venezia, 1784; Pirro, 1787; Nina, o sia la pazza per amore, 1789; La molinara, 1789) e Sarti (Giulio Sabino, 1781; Tra i due litiganti il terzo gode, 1782; Enea nel Lazio, 1799).

33. stendhaL, Vie de Rossini, Paris, Boulland, 1824; trad. it. Vita di Rossini, Firenze, Pas-sigli, 1990, p. 18. A tal proposito si sono presi in esame i lavori di Fioravanti (Le cantatrici villane, 1799; I virtuosi ambulanti, 1807; I matrimoni per magia, 1794), Pavesi (Ser Marcantonio, 1810; Agatina, 1814), Generali (Adelina, 1810), Mosca (L’italiana in Algeri, 1808), Farinelli (I riti d’Efeso, 1803), Mayr (Che originali!, 1798; Ginevra di Scozia, 1801; Alonso e Cora, 1803; Medea in Corinto, 1813), Morlacchi (Raoul di Crequì, 1811; Il barbiere di Siviglia, 1816), Zinga-relli (Giulietta e Romeo, 1796; Edipo a Colono, 1802). L’indagine ha riguardato a latere anche alcuni lavori seri come Clotilde di Coccia (1816), La vestale di Spontini (1807), Medea di Cherubini (1797), anche di poco posteriori, Le maître de chapelle di Paër (1821).

34. Tra gli altri, scott L. BaLthaZar, Rossini and the Development of the Mid-Century Lyric Form, «Journal of the American Musicological Society» 41, 1988, pp. 102-125; marco BeGheLLi, La retorica del melodramma: Rossini chiave di volta, in Gioachino Rossini 1792-1992: il testo e la scena, Atti del Convegno internazionale di studi (Pesaro, 25-28 giugno 1992), a cura di Paolo Fab-bri, Pesaro, Fondazione Rossini, 1994, pp. 49-77; saverio Lamacchia, ‘Solita forma’ del duetto o del numero? L’aria in quattro tempi nel melodramma del primo Ottocento, «Il Saggiatore musicale» VI, 1999, pp. 119-144; danieLa tortora, Il personaggio recluso. Un topos drammaturgico dello scioglimento, in Gioachino Rossini 1792-1992 cit., pp. 273-295; LorenZo Bianconi, «Confusi e stupidi»: di uno stupefacente (e banalissimo) dispositivo metrico, ivi, pp. 129-161.

35. Vedi nota 34.

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l’introduzione lenta del Turco in Italia) o in più combinazioni (in Semiramide, i quattro corni nell’Andantino del Finale Primo); contemporaneamente, all’interno di arie, duetti e insiemi, l’utilizzo degli a solo è variegato, gene-ralmente in linea con la prassi compositiva dell’epoca.36 Alcuni esempi aiutano a delineare come essi si diversifichino in base alla diversa funzione che rivestono nella drammaturgia: – funzione ‘struggente’: utilizzo che tende a esprimere una certa affinità tra il timbro dello strumento e il languido struggimento di chi ripensa a un amore geograficamente o sentimentalmente lontano (ad esempio, in «Languir per una bella» dall’Italiana in Algeri, o in «Perché mai se son tradito» dal Turco in Italia, o ancora in «Ah perché, perché la morte» da Matilde di Shabran). So-vente il corno, nelle sezioni veloci di dette arie, assume il ruolo di strumento concertante, capace di passaggi altamente virtuosistici;

– funzione ‘atmosferica’: punta a suggerire l’ovattata e lunare atmosfera notturna di certe ambientazioni (ad esempio l’ultima scena dell’Inganno fe-lice, o l’iniziale duetto dell’eco nella Pietra del paragone);– funzione di ‘couleur locale’: associa il suono del corno a determinati am-bienti, generalmente alpestri e montani, come accade per le Highlands della Donna del lago o per le Alpi del Tell; – funzione ‘onomatopeica’: sottile frutto dell’ingegno rossiniano,37 come nel caso del mi1 utilizzato per descrivere gli ipotrtici rintocchi di un campa-nile nella cabaletta «Quando suona mezzanotte» nella Scala di seta.38

36. Altri formidabili a solo introduttivi si ritrovano nella cantata Il pianto d’Armonia (n. 2) o an-cora in Otello (scena e duettino Desdemona-Emilia, n. 4), quest’ultimo di estrema difficoltà; tuttavia il melodramma coevo offre altri casi, tra i quali il mirabile – e altamente rossiniano – «Mentre guardo oh Dio! me stessa» in Le bestie in uomini di Giuseppe Mosca (1808), repe-ribile nell’album A Hundred Years of Italian Opera 1810-1820, cd Opera Rara, 1989. Per una panoramica sulla filologia del corno nel melodramma ottocentesco cfr. phiLip Gossett, Divas and Scholars: Performing Italian Opera, Chicago, Chicago University Press, 2007; trad. it. Dive e maestri. L’opera italiana messa in scena, Milano, il Saggiatore, 2009, pp. 450-456.

37. Un caso noto lo si ritrova però in Mozart, nel duettino Figaro-Susanna all’inizio delle Nozze di Figaro («Se a caso madama», n. 2), nel quale il suono del campanello del Conte viene reso anche grazie all’utilizzo dei corni («din din – don don»), non senza umori-smo nell’accostare l’onomatopeico suono del campanello al titolo onorifico di «Don» che compete ad Almaviva, essendo egli «grande di Spagna».

38. A differenza di altri strumenti quali l’oboe, il clarinetto o il fagotto, al corno – e non solo in Rossini – sembra essere preclusa qualsiasi funzione ‘mimica’, ossia la possibilità che «gli strumenti possano costituire i personaggi di una narrazione orchestrale» (edward t. cone, The Composer’s Voice, Berkeley, UCLA Press, 1974, p. 87), rappresentando con il

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L’uso dei corni in coppia è ancor più generalizzato, sebbene volto ad altre funzioni:

– funzione ‘iconica’: nei casi di mimesi mediante topoi strumentali volti alla rappresentazione, ad esempio, di un temporale39 o di una scena venatoria;40

– funzione ‘regale’ o ‘cerimoniale’: l’uso degli ottoni, e dunque anche dei corni, può richiamare sia la sacralità di gesti e azioni, sia la grandeur dei personaggi in scena.41

In questi ultimi casi, secondo la terminologia saussuriana,42 il suono pro-dotto dal corno è chiaramente un significante che rimanda a una serie di significati (la furia degli elementi e i reali strumenti utilizzati nella caccia e nelle cerimonie). Il nesso che mette in relazione lo strumento con la rappresentazione dell’infedeltà coniugale appare tuttavia estraneo a questa casistica; ciononostante, la funzione (che potremmo definire ‘linguistica’) insita nel calembour ‘corni-corna’, già fissata nel teatro mozartiano, presenta in Rossini esempi altrettanto espliciti.

Nell’Equivoco stravagante (1811) – opera che, pur scadendo talvolta nel tri-viale, fa del gioco di parole una sorta di marchio di fabbrica43 – vi sono due casi limite tra funzione cerimoniale e linguistica: il duettino tra Gamberotto e Buralicchio, «Ah vieni al mio seno» (n. 3), è preceduto da un a solo del cor-no – per l’appunto più cerimoniale – mentre nel Finale Primo (n. 10) alle parole «Figliola equivoca d’un semideo | d’un Mardocheo di nostra età», che Gamberotto pronuncia e fa pronunciare a Buralicchio al cospetto di

loro timbro un personaggio assente, a guisa di canto «deverbalizzato» (ZoppeLLi, L’opera come racconto cit., p. 94).

39. In Rossini gli esempi abbondano: La pietra del paragone, L’occasione fa il ladro, Il barbiere di Siviglia, La Cenerentola, Le Comte Ory, Guillaume Tell, senza dimenticare la Tempesta che chiude l’ultima delle giovanili Sonate a quattro.

40. Marco Beghelli (La retorica del rituale nel melodramma ottocentesco cit., p. 546) definisce idiomatico l’uso dei corni per richiamare l’ambiente venatorio, poiché all’epoca di Rossini il corno aveva capacità ben più ampie delle semplici armonie che se ne potevano ricavare nei secoli precedenti. Nondimeno, le cosiddette ‘quinte dei corni’ rappresentavano anco-ra allora il topos della caccia. Si vedano, per esempio, il coro «A caccia mio signore» dalla Pietra del paragone, n. 12, oppure l’Intoduzione della Donna del lago.

41. BeGheLLi, La retorica del rituale nel melodramma ottocentesco cit., pp. 182, 185 e 538.

42. Ferdinand de saUssUre, Cours de linguistique générale, a cura di Charles Bally, Albert Riedlinger e Albert Sechehaye, Lausanne-Paris, Payot, 1916.

43. marco BeGheLLi, Stravaganze, equivoci, pregiudizi, in L’equivoco stravagante, programma di sala per il Rossini Opera Festival 2008, Pesaro, Rossini Opera Festival, 2008, pp. 13-25.

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Ernestina, si ode la coppia di corni sottolineare la cerimoniosità della scena. Sebbene la fedeltà di Buralicchio sia rivendicata tutt’altro che apertis verbis,44 in questo caso Rossini non fornisce elementi che richiamino in modo uni-voco il nostro topos. Altra storia nel concertato del secondo atto (scena 9). Lì Gamberotto indica Buralicchio (che spia la promessa Ernestina mentre flirta con Ermanno) senza usare mezzi termini: «Che testa è questa o stelle!| Cor-nelio egual non l’ha». Sulla ripetizione della parola «Cornelio» (nome proprio di origine latina, che «rimanda paronomasticamente a cornuto»)45 Rossini ha previsto uno scoperto arpeggio ascendente dei corni:

Questo è il caso più evidente, la vera pietra di paragone (si perdoni il calembour): l’atteggiamento del Pesarese non è casuale, ma segue lo stesso preciso fil rouge semantico ed espressivo che già Mozart aveva seguito.

Nella farsa successiva, La scala di seta (1812), il quartetto (n. 4) presenta un’occorrenza curiosa: sulle impegnative parole «Di tutti i sposi sarò il mi-glior» che il libertino Blansac rivolge alla presunta futura sposa Giulia, i dise-gni ascendenti dei corni sembrano voler sottolineare proprio la disparità tra le sue ostentate promesse da marinaio e le reali tendenze da tombeur de femmes:

44. «Ch’io sia bello convengono | tutti i scrittori greci, e ormai la fama | vola da Trabi-sonda a Casalicchio | della rara beltà di Buralicchio» (I, 3).

45. FaBio rossi, Quel ch’è padre, non è padre...: lingua e stile nei libretti rossiniani, Roma, Bonac-ci, 2005, p. 92.

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Nell’Occasione fa il ladro (1812) l’uso del corno è particolare nell’aria con pertichini di Berenice, «Voi la sposa pretendete» (n. 6): il cantabile «Deh non tradirmi amore» viene preceduto da una lunga frase patetica, tipi-ca della funzione ‘struggente’ sopra descritta. Lo strumento assurge poi quasi a ruolo concertante durante i subitanei interventi di Alberto e Par-menione, mentre la cabaletta «Io non soffro questo oltraggio» è intro-dotta dalla coppia di corni all’unisono con un inciso che oscilla tra tonica e dominante. Anche se un uso più esplicito dei corni ben si adatterebbe alle vicissitudini, incomprensioni e furberie sentimentali del triangolo Be-renice-Alberto-Parmenione, come per l’Equivoco stravagante non si può qui affermare con sicurezza che il compositore abbia sottolineato il paralleli-smo ‘corni-corna’ more solito e il risultato sonoro appare in bilico con altre istanze (cerimoniali, struggenti).

Nel Signor Bruschino (1813) – per certi versi un vero e proprio campiona-rio di effetti orchestrali, non ultimo l’arcinoto e pre-schaefferiano battere degli archetti dei secondi violini durante la sinfonia – l’espediente ricom-pare: nell’Introduzione (n. 1) il duettino tra Florville e Sofia è preparato da un inciso melodico dei corni (che, come da prassi, procedono secondo le quinte), poi ripreso dalle due voci, trattate alla medesima maniera. Il testo del duetto è il seguente:

Quant’è dolce a un’alma amante riveder l’amato oggetto! D’un fedel, sincero affetto più s’accende il vivo ardor. Si rammentano le pene d’un’assenza tanto amara, e l’immagine più cara del suo ben si rende al cor.

Rossini ne fa un piccolo gioiello di autentico pathos amoroso. Si leggano però le parole del duetto alla luce degli eventi immediatamente precedenti: la cameriera Marianna ha appena confermato Florville nel suo sospetto che l’amata sia stata destinata dal padre ad altro sposo; tutti i tentativi del giovane di mettrsi in contatto con Sofia si sono rivelati vani. Al risuonare dei corni nell’Introduzione, tutta quella mirabile comunione di intenti fi-nisce per assumere una tinta farsesca, come se sulla reale percezione dei sentimenti di Sofia da parte di Florville incombesse la spada di Damocle di un pericoloso e ignoto terzo incomodo (il fantomatico Bruschino junior).46

46. Si tratta di un autopimprestito, proveniente dal duetto Lisinga-Siveno «Questo cor ti giura amore», nel primo atto di Demetrio e Polibio (1806); anche nel contesto originario è

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Nella di poco successiva Italiana in Algeri (1813) si trova uno dei casi più complessi e al contempo palesi. All’inizio del Finale Secondo (n. 16) vi è l’entrata in scena del coro dei Pappataci, pronti per la buffissima inve-stitura di Mustafà («Dei Pappataci | s’avanza il coro»); nel breve inciso strumentale che prelude al canto, ecco risuonare soli e scoperti i due corni, secondo le usuali ‘quinte’:

La natura di questo richiamo si palesa man mano che la cerimonia entra nel vivo: i corni si odono una seconda volta tra l’intervento di Lindoro e la risposta del coro, sulle parole «I corni suonino, che favoriti | son più dei timpani nei nostri riti», doppio senso quanto mai palese se si pensa a quali siano gli attributi del titolo di Pappataci, ben riassunti sia nel giuramento che segue di lì a poco (II, scena 14):

presente l’introduzione della coppia di corni, forse in relazione al rapimento di Lisinga da parte di Eumene/Polibio durante la prima notte di nozze.

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Di veder e non veder,di sentir e non sentir,per mangiare e per goder di lasciare e fare e dir [...] Giuro inoltre all’occasiondi portar torcia e lampion,47

sia nel terzetto Lindoro-Taddeo-Mustafà «Pappataci! che mai sento!» di poco precedente (II, 9)

Fra gli amori e le bellezze,fra gli scherzi e le carezze dee dormir, mangiare e bere, ber, dormir, e poi mangiar.

Caratteristiche che tutte si associano a colui che è abituato – per forza o per indole – a subire in silenzio le conseguenze dell’infedeltà altrui. E sono questi attributi a far pensare che l’utilizzo del corno sia qui ‘linguistico’ (non-ché altamente sarcastico) e non ‘cerimoniale’, sebbene si tratti di un rito para-massonico.48 La differenza si coglie confrontando il passo con quanto accade nell’originale Italiana in Algeri di Luigi Mosca (1808). Qui, alle parole «I corni suonino», fa eco una semplice nota ribattuta dei corni nel registro acuto – nel più puro stile della funzione ‘cerimoniale’ – mentre all’atto del giuramento («Io qui giuro e poi scongiuro | Pappataci Mustafà») si palesano, scoperte, le quinte affidate ai corni. Queste ultime appaiono, però, più un at-tributo della solenne pompa che non – come in Rossini – una sottolineatura dei poco lusinghieri attributi che il titolo di Pappataci porta con sé.

Tornando all’Italiana del 1813, una terza e ultima volta l’inciso risuona al termine del sopraddetto intervento corale; l’ultima occorrenza è riser-vata alla chiusa della sezione, dopo che Mustafà, Lindoro e Taddeo hanno cantato «Questa è una grazia | particolar | Ih…ih… dal ridere | sto per schiattar».

Nei lavori successivi, Rossini sembra abbandonare l’espediente ‘corni-corna’, già di per sé relegato al solo campo dell’opera comica. Ne risultano

47. ‘Fare il lampione’ è un’altra frase idiomatica italiana; essa definisce il terzo incomodo in una relazione a due, ed equivale al più noto ‘reggere il moccolo’: deriva dall’uso che i nobili avevano di farsi fare luce da un servitore (che ovviamente non partecipava alla liaison) durante le loro tresche amorose.

48. Si veda paoLo FaBBri, Due boccon per Mustafà, in L’italiana in Algeri, Pesaro, Fondazione Rossini, 1997 (I libretti di Rossini, 4), pp. 9-48.

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completamente privi lavori buffi o semiseri quali Il barbiere di Siviglia (1816), La Cenerentola (1817), La gazza ladra e Adina (1818), Matilde di Shabran (1821), Il viaggio a Reims (1825) e Le Comte Ory (1828). Lavori che pure abbondano di situazioni nelle quali la virtù coniugale è messa a durissima prova, ma che presentano un tipo di comicità meno greve e più sottile rispetto alle farse veneziane. Un’occasione ulteriore però c’è: nel Turco in Italia la cavatina di Geronio, «Vado in traccia d’una zingara» (n. 2) ne è forse la quintessenza. Durante la lettura della mano Zaida, assieme al coro di zingarelle, così apo-strofa Geronio:

Zaida Siete nato...Geronio Sì... in che giorno?Zaida Era il sole in Capricorno.Geronio Son garzone od ammogliato?Zaida Qua la fronte. Maritato.Geronio Quando... come vi accorgete?Zaida Sotto il segno dell’Ariete.Zaida, ZinGare Infelice! poveretto!Geronio Cos’è stato, cos’è nato?Zaida, ZinGare Che fatal costellazione!Geronio Qual è?Zaida, ZinGare Il segno del montone!

La parola ‘corna’ non viene mai nominata; tuttavia su «Qua la fronte. Ma-ritato» si sente una breve fanfara dei corni, svettante rispetto al tessuto orchestrale che accompagna il canto di Zaida:49

49. La parte dei corni viene messa in evidenza con una figurazione che è stata definita «eroicizzante» (cfr. BeGheLLi, La retorica del rituale nel melodramma ottocentesco cit., p. 174). Tale figurazione è composta da un attacco acefalo seguito da due semicrome e da due crome – praticamente un ritmo anapestico – che qui compare significativamente per l’unica volta all’interno del numero.

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Si è lasciato volutamente per ultimo questo esempio, per il semplice fatto che tale cavatina non è di pugno di Rossini, ma è opera di un suo anonimo collaboratore occasionale, che redasse anche l’aria di Albazar (n. 12) e il Finale Secondo (n. 16).50 Philip Gossett, in un suo saggio fondamentale,51 ha ipotizzato che l’ignota manu sia quella di Vincenzo Lavigna (1776-1836), allievo e protetto di Paisiello, maestro al cembalo alla Scala dal 1802, ope-rista dalle alterne fortune e noto ai più per essere stato il maestro del gio-vane Giuseppe Verdi.

Questo episodio limite – oltre a sollevare «il problema di quel linguag-gio standard cui l’artigianato dei minori poteva agevolmente e con perfetta dignità pervenire»52 – induce a una riflessione: c’è da chiedersi se colui che scrisse questa cavatina vi abbia introdotto l’espediente ‘corni-corna’ per-ché in linea con una prassi all’epoca codificata o perché parte integrante dell’imitazione del personale stile rossiniano. Appare più ragionevole pro-pendere per la seconda ipotesi, non solo per i pochi esempi finora rilevati ma anche in virtù delle ancor più alterne fortune che accompagneranno questo topos nel prosieguo dell’Ottocento musicale.

Otto e NovecentoSi potrebbe essere indotti a credere che il nostro espediente, se conside-rato come elemento dello stile buffo rossiniano, possa aver condiviso una larga fortuna presso le successive generazioni di compositori. Ebbene, ci sbaglieremmo: nemmeno il Donizetti facile (al limite dello sbracato) delle Convenienze ed inconvenienze teatrali (1827)53 o quello caustico del Don

50. Si veda Il turco in Italia, edizione critica a cura di Margaret Bent, Pesaro, Fondazione Rossini, 1988.

51. phiLip Gossett, Le fonti autografe delle opere teatrali di Rossini, «Nuova rivista musicale italiana» II, 1968, pp. 936-960.

52. paoLo isotta, Per una lettura del Turco in Italia, «Nuova rivista musicale italiana» XIX, 1985, p. 234.

53. Di Donizetti si sono prese in esame Enrico di Borgogna (1818), Il falegname di Livonia (1819), Zoraida di Granata (1822), L’ajo nell’imbarazzo (1824), Le convenienze ed inconvenienze teatrali (1827), Elisabetta al castello di Kenilworth (1829), Anna Bolena (1830), L’elisir d’amore (1832), Il furioso nell’isola di San Domingo (1833), Lucrezia Borgia (1833), Gemma di Vergy (1834), Maria Stuarda (1835), Marino Faliero (1835), Lucia di Lammermoor (1835), Belisario (1836), Il campanello (1836), Roberto Devereux (1837), Poliuto (1838), La fille du régiment (1840), La favorite (1840), Rita (1841), Linda di Chamounix (1842), Don Pasquale (1843), Maria di Rohan (1843). Tra gli autori coevi, di Pacini si sono considerate Gli arabi nelle Gallie (1827), Saffo (1840), Medea (1845); di Mercadante, Il bravo (1839), La vestale (1840), Il reggente (1843), Medea (1851).

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Pasquale (1843)54 – opera nella quale le situazioni propizie abbondano – sembra interessarsene. Più logico riscontrarne l’assenza nell’Elisir d’amore (1832), opera che per poco non sconfina nel larmoyant, genere in cui un espediente così grossolano faticherebbe ad avere diritto di cittadinanza. Idem dicasi per il Bellini (non tragico) della Sonnambula (1832).

Flebili tracce portano inaspettatamente sul versante opposto, quello del dramma serio: nel duetto «Se pur giungi a trucidarlo» (n. 4) dal Marino Fa-liero (1835), ad esempio, l’accordo in fortissimo immediatamente successivo alle dure e inequivocabili parole di Israele, che rinnova a Faliero le insi-nuazioni sull’infedeltà della moglie, suona sibillino a un ascoltatore smali-ziato pur non essendo il solito espediente tout court. Inoltre, con le parole «quell’obbrobrio che ricoprì tua fronte» il librettista Giovanni Emanuele Bidera fa inequivocabile riferimento alle corna:

israeLe La non mertata infamia di tua consorte? e l’onta del doge? e quell’obbrobrio che ricoprì tua fronte? Scosso da tante ingiurie non ti risvegli ancor?

FaLiero (Ahi qual rampogna! oh furie! oh Steno! oh, mio rossor!)

Giuseppe Verdi non si discosta dal comportamento degli illustri predeces-sori. È abbastanza ovvio che il topos ‘corni-corna’ sia assente dal suo teatro (Un giorno di regno compreso). Questa assenza diventa macroscopica in al-cuni luoghi che parrebbero ideali per inserirvi beffarde quinte dei corni, momenti in cui la tensione del tragico viene mitigata da sprazzi di assoluta comicità: si pensi a «In testa che avete, signor di Ceprano?», nell’Introdu-zione di Rigoletto (1851); o alla sorpresa dei congiurati che in Un ballo in maschera (1859) scoprono – contemporaneamente al marito – l’infedeltà notturna di Amelia con Riccardo nel «campo solitario», deridendo sotto i baffi Renato («Ah! ah! ah! | E che baccano sul caso strano, | e che com-menti per la città! | Ve’, la tragedia mutò in commedia»). Il primo caso si può ragionevolmente spiegare chiamando in causa la verosimiglianza: sia-mo a una festa da ballo, la scena è completamente sostenuta da una banda interna e da un ensemble di archi sul palco (si tratta dunque di musica die-

54. Inizialmente Donizetti aveva destinato al corno l’assolo di violoncello che, nella sinfo-nia, cita l’aria «Com’è gentil» di Ernesto; cfr. Gossett, Dive e maestri cit., p. 466.

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getica55), e in quel punto l’intervento di qualsiasi altro strumento sarebbe risultato forzato. Il caso del Ballo induce invece a una riflessione, giacché lì i corni si sarebbero potuti usare comodamente; ma ormai, come aveva già intuito Rossini, il gusto era mutato, e l’espediente ‘corni-corna’ poteva risultare demodé, quando non addirittura triviale.

Innanzitutto, Verdi ne conosceva l’uso idiomatico: «Evvivano i cor-ni: benedetti!... oh se... potessi farne sempre!», scrive a Piave il 10 agosto 1846, a proposito di una nuova aria per il tenore Nicola Ivanoff da inserire nell’Attila.56 Pochi anni dopo, però, ragionando sulle scelte drammatur-giche relative all’Ernani veneziano del 1844, scriveva all’impresario della Fenice Carlo Marzari (il 14 dicembre 1850): «Chi può dire questo farà effetto, e quello no? Una difficoltà di questo genere c’era pel corno di Ernani: ebbene, chi ha riso al suono di quel corno?».57 Questa riflessione lascia presumere il timore, da parte dell’impresario, che ancora a quel tem-po il pubblico potesse associare al suono di un corno qualcosa di comico (anziché di estremamente tragico qual è in Ernani ). Verdi, d’altro canto, se ne infischiò, e con lui il pubblico, segno che il già debole fil rouge che un tempo collegava il corno all’infedeltà coniugale si era, nel 1844, ormai spezzato. Solo l’anno precedente Donizetti, scrivendo il Don Pasquale per le scene parigine, si era ben guardato dall’associare qualsivoglia riferimen-to musicale all’evidente provocazione insita nel toponimico cognome del protagonista, Don Pasquale da Corneto. Se si può obiettare che tale scelta fu dettata anche dal diverso gusto imperante in Francia, rispetto all’Italia,58 non bisogna dimenticare che solo otto anni prima il Marino Faliero era stato composto proprio per il Théâtre Italien: la prudenza di Donizetti e

55. Sull’argomento cfr. BeGheLLi, La retorica del rituale nel melodramma ottocentesco cit., p. 528; gli studi sul cinema hanno saputo analizzare con più profondità la dicotomia diegetico vs extra-diegetico. Cfr. ennio simeon, Manuale di storia della musica nel cinema, Milano, Rugginenti, 2006.

56. Lettera a Piave del 16 agosto 1846, in Giuseppe Verdi: autobiografia dalle lettere, a cura di Aldo Oberdorfer, Milano, Mondadori, 1941, p. 96.

57. Lettera a Carlo Marzari, 14 dicembre 1850, in GiUseppe verdi, Lettere, a cura di Miche-le Porzio, Milano, Mondadori, 2000, pp. 425, 211.

58. «La musica, e la poesia teatrale francese hanno un cachet tutto proprio al quale ogni compositore deve uniformarsi; sia nei recitativi sia nei pezzi di canto; per esempio, bando ai crescendi, bando alle solite cadenze felicità felicità felicità; poi in tra l’una e l’altra cabaletta avvi sempre una poesia che innalza l’azione senza la solita ripetizione de’ versi di cui i nostri poeti fanno uso etc. etc.». Lettera di Donizetti a Giovanni Simone Mayr, 8 aprile 1839, in GUido Zavadini, Donizetti. vita – musica – epistolario, Bergamo, Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1948, p. 494.

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le rivendicazioni verdiane lasciano supporre, con ragionevole fondatezza, che negli anni Quaranta si sia verificata una mutazione definitiva e deter-minante nei gusti del pubblico, parallela alla mutazione del repertorio.59

Bisogna arrivare al Verdi dell’assoluta maturità per ritrovarne qualche uti-lizzo sui generis. Nell’introduzione alla scena e al cantabile di Filippo, «Ella giammai m’amò» (n. 10) dal Don Carlo (1886),60 l’acciaccatura dei corni che s’insinua nell’assolo del violoncello (richiamo della medesima acciaccatura che caratterizza il preludio del primo atto) potrebbe rappresentare un retag-gio inconscio di tale pratica, giacché sottolinea la presa di coscienza da parte del sovrano che l’amore per Elisabetta di Valois non è mai stato corrisposto (la liaison è infatti col figlio Don Carlo):61

Che Verdi si sia qui ricordato – pur rielaborandolo – di un topos del teatro d’opera risalente agli anni della sua giovinezza? L’esempio di «Ella giammai m’amò» può essere messo in relazione con quanto accade nell’ultimo ca-polavoro comico: per dirla con Julian Budden, nel Don Carlo «l’uso cupo ed evocativo di due corni in tonalità minore è nuovo in Verdi e sarà richiamato nel monologo di Ford nel Falstaff».62 Nel suo notissimo monologo («È sogno o realtà?», atto II), appena accortosi che sua moglie Alice ha dato un appun-tamento galante a quello spaccone di sir John Falstaff, Ford così si esprime sulla misera condizione di marito tradito, non disdegnando un attacco gene-

59. Sull’argomento cfr. FaBriZio deLLa seta, Italia e Francia nell’Ottocento, Torino, EdT, 1993, p. 174 e segg.

60. Ci si riferisce ovviamente alla versione scaligera; in essa, a differenza dell’originale in francese del 1867, il preludio è affidato ai corni all’unisono, nell’andamento melodico dei quali compaiono già le acciaccature che poi contraddistingueranno «Ella giammai m’amò».

61. Julian Budden, nel suo noto studio sulle opere verdiane, così si esprime: «Le pesanti acciaccature singhiozzanti di corni, fagotti ed archi trasmettono quell’angoscia che sta nel cuore non solo di Filippo, ma dell’opera nel suo complesso» (JULian BUdden, The Operas of Verdi, New York, Oxford University Press, 1978-1983; trad. it. Le opere di Verdi, Torino, EdT, 1985-1988, vol. III, p. 126).

62. Ivi, p. 127.

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rale all’universo femminile e inveendo contro la moglie in una maniera che Boito riuscì a trarre fedelmente dall’originale shakespeariano:63

È sogno o realtà?... Due rami enormi crescon sulla mia testa. È un sogno? Mastro Ford! Mastro Ford! Dormi? Svegliati! Su! Ti desta! Tua moglie sgarra e mette in mal assetto l’onore tuo, la casa ed il tuo letto! L’ora è fissata, tramato l’inganno; sei gabbato e truffato![...]Quella brutta parola in cor mi torna: «Le corna!» Bue! Capron! le fusa torte! Ah! «le corna! le corna!»[...]Laudata sempre sia nel fondo del mio cor la gelosia.

Passo, per giunta, non poi così dissimile da quello di Figaro nelle Nozze. Ebbene, a punteggiare il distico «L’ora è fissata, tramato l’inganno | sei gabbato e truffato!», vi è l’intervento scoperto dei corni che, pur risultan-do alquanto schumanniano,64 procede in realtà sempre seguendo la succes-sione di intervalli collegata alle ‘quinte’:

A confermare l’importanza dei corni nell’economia dell’aria vi è la coda strumentale che segue «Laudata sempre sia | nel fondo del mio cor la ge-losia»: dopo un enfatico e arcisonoro tutti, Verdi lascia la parola proprio ai corni, con una scala di terzine discendenti, quasi a voler irridere le ire e i patemi coniugali del povero Ford.

63. Si veda la nota 6.

64. Sempre Budden lo definisce, forse troppo enfaticamente, «il sinistro motivo ricorren-te dei corni» (Verdi cit., p. 506).

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Con questo esempio, Verdi riscatta l’espediente ‘corni-corna’ da più di cinquant’anni di oblio. Fin dagli ‘anni di galera’ covava la segreta ambizio-ne di potersi dedicare all’opera buffa, accantonata dopo il sonoro fiasco di Un giorno di regno (1840).65 Non appare dunque improbabile che – pro-fondo conoscitore del teatro di Cimarosa e Rossini,66 e allievo del citato Vincenzo Lavigna – Verdi abbia pensato di immettere nel gran calderone di Falstaff alcuni aspetti dell’âge d’or dell’opera buffa67 che fino a quel mo-mento non aveva voluto o potuto mettere in pratica.

Quella di Falstaff è l’ultima occorrenza nota, e giunge dopo più di mezzo secolo di silenzio, non interrotto nemmeno dagli esiti comici di Antonio Cagnoni (Don Bucefalo, 1847), dei fratelli Ricci (Crispino e la comare, 1850), di Mascagni (Le maschere, 1900), di Ermanno Wolf-Ferrari (Il campiello, 1936) o di Nino Rota (Il cappello di paglia di Firenze, 1945). Le uniche eccezioni – che godono però del beneficio del dubbio – si riscontrano in due lavori molto noti, ossia Carmen (1876) di Bizet e The Rake’s Progress (1951) di Stravinskij. Il dialogo chiave tra Don José e Carmen, «Que je meure si tu n’es pas jaloux! | Eh oui, je suis jaloux!», nel recitativo che prelude al duetto n. 16, viene sottolineato da una nota in sforzando tenuta dai corni soli. Se si considera che Bizet fu per tutta la vita un assiduo ammiratore dell’opera italiana (in particolare delle opere italiane di Mozart e di Rossini),68 l’apparentamento

65. «Sono quarant’anni che desidero scrivere un’opera comica» (lettera a Gino Monaldi del 3 dicembre 1890, in verdi, Lettere cit., p. 375). Sull’argomento si veda heLen m. GreenwaLd, Decoding Verdi’s Comic Vision: Toward a Theory of Comedy for the Late Nineteenth Century, in Verdi 2001, Atti del Convegno internazionale di studi (Parma – New York – New Haven, 24 gen-naio – 1° febbraio 2001), 2 voll., a cura di Fabrizio Della Seta, Roberta Montemorra Marvin e Marco Marica, Firenze, Olschki, 2003, I, pp. 281-291.

66. «Finché si dice che Cimarosa era un uomo di genio, e che il Matrimonio segreto è forse la più bella opera del suo tempo, sono d’accordo» (lettera a Opprandino Arrivabene del 28 luglio 1868, in verdi, Lettere cit., p. 112); «Confesso che non posso che credere Il barbiere di Siviglia per abbondanza di idee, per verve comica e per verità di declamazione, la più bella opera buffa che esista» (lettera a Camillo Bellaigue del 2 maggio 1898, ivi, p. 440).

67. Sui rimandi di Falstaff al mondo dell’opera buffa si vedano Linda hUtcheon – mi-chaeL hUtcheon, «Tutto nel mondo è burla». Rethinking Late Style in Verdi (and Wagner), in Verdi 2001 cit., pp. 245-258, emanUeLe senici, Verdi’s Falstaff at Italy’s Fin de Siècle, «The Musical Quarterly» LXXXV/2, 2001, pp. 247-310, nonché Johannes streicher, Opera buffa e commedia dell’arte in Boito, in Arrigo Boito, Atti del Convegno internazionale di studi dedicato al centocinquantesimo della nascita di Arrigo Boito, a cura di Giovanni Morelli, Firenze, Olschki, 1994, pp. 453-472.

68. Tanto da voler musicare nel 1857 un ormai vetusto libretto di Cambiaggio per Fiora-vanti (1844), a sua volta tratto da I pretendenti delusi di Prividali-Mosca (1811), per cavarne l’opera buffa Don Procopio.

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di questa occorrenza con la tradizione è un’ipotesi da non scartare. Stesso discorso vale per lo Stravinskij neoclassico, nella cui produzione i rimandi alla tradizione settecentesca sono molteplici.69 Nell’aria di Baba del secon-do atto «Scorned! Abused!», la risposta alla domanda «Why is it?» è un di-stinto richiamo dei corni, che ben si addice al testo e alla situazione (Baba è gelosa dell’antico amore di Tom, Anne) e che pare una citazione letterale del passo analogo nell’aria di Figaro nelle Nozze. In The Rake’s Progress il de-bito di Stravinskij nei confronti di Mozart (e non solo) è palese,70 ed è ra-gionevole pensare che vi possa rientrare anche il nostro topos ‘corni-corna’.

Finis comoediaeUna breve, sporadica parentesi nel mare magnum della retorica musicale, oppure, per rifarsi ancora alla linguistica, un singolo tassello della parole che non è mai riuscito a divenire parte della langue: ecco come si può definire il topos che abbiamo etichettato come ‘corni-corna’, giacché la casistica che nel secolo intercorre tra Le nozze di Figaro e Falstaff appare davvero esigua se paragonata a quella di altri espedienti, ben più duraturi, di cui abbonda la storia del teatro d’opera. Non potendone conoscere con assoluta cer-tezza le origini (la paternità mozartiana è solo un’ipotesi plausibile), si è tentato perlomeno di sondarne la storicità, nonché di comprenderne la na-tura. Ma allora, un inciso dei corni che sottolinea sardonicamente l’infedeltà è da considerarsi musica diegetica, ossia appartenente alla realtà narrata alla stregua delle danze di Don Giovanni o della tromba di Fidelio? No. È forse mimetica, giacché tenta di imitare un suono di natura (Naturlaut) alla stregua di quanto fanno Mahler nella Prima Sinfonia e – con premesse poetiche diametralmente opposte – Rossini nei celeberrimi temporali che sconquas-sano le sue opere? Nemmeno. Si tratta in definitiva di un caso limite, con tutta probabilità unico nel suo genere: una compenetrazione tra sfera del reale, linguaggio verbale e linguaggio musicale, che va ben oltre il rapporto segno-suono come lo si è qui illustrato. Per dirla con Umberto Eco,71 essa rappresenta una ratio difficilis, poiché non vi è una correlazione lineare e diretta tra la singola occorrenza e il codice espressivo di fondo: nulla lega il concreto suono del corno all’infedeltà, come invece avviene nel caso della

69. Su tutti Pulcinella (1920), Oedipus Rex (1927) e Dumbarton Oaks (1937); sull’argomento cfr. GianFranco vinay, Stravinsky neoclassico: l’invenzione della memoria nel ’900 musicale, Ve-nezia, Marsilio, 1987.

70. Si veda paUL GriFFiths, The Rake’s Progress, Cambridge, Cambridge University Press, 1982.

71. UmBerto eco, Trattato di semiotica generale, Milano, Bompiani, 1975, pp. 246-253.

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caccia. Il topos ‘corni-corna’ si motiva autonomamente, creando ex novo un’associazione tra singola occorrenza e codice, e quest’ultimo si dota così di un’ulteriore possibilità.72 Come a dire: da che qualcuno ebbe l’intuizione di collegare istintivamente il suono fisico del corno a qualcosa di assolu-tamente diverso, astratto e lontano come l’infedeltà, grazie all’assonanza fonetica con la parola ‘corna’, il vocabolario dei compositori si è arricchito di una possibilità espressiva in più. I casi di ratio facilis soggiacciono a un le-game più lineare e diretto, nel quale la connessione col codice è pressoché immediata: ad esempio, il timbro del flauto per richiamare quello del canto degli uccelli, così come l’icona che nelle toilettes rappresenta un omino coi pantaloni o una donnina con la gonna richiamano in maniera inequivoca-bile fattezze e attributi maschili o femminili.

L’aspetto più straordinario della questione è che tale slittamento seman-tico non investe alcun altro strumento, giacché – tornando a Saussure – si attua non a livello di significato (per esempio, suono di tromba → ambiente militare), bensì grazie alla prossimità fonologica di due vocaboli, ossia a li-vello di significante, creando un’eccezionale interferenza tra codice linguistico e codice musicale. Si tratta di nulla più che un Witz freudianamente inteso, un motto di spirito estemporaneo che, come tutte le entità che soggiacciono al comico, permette al soggetto di esprimere i contenuti dell’inconscio – so-litamente repressi – nel modo meno aggressivo per l’interlocutore.73 Resta da stabilire chi siano rispettivamente il soggetto e l’interlocutore; l’uno è senza

72. Così Eco: «sorge un problema meno facile quando si considerano nuove unità di contenuto indefinibili, ovvero nebulose di contenuto che non possono essere analiz-zate in unità definibili. Si tratta di discorsi che non hanno interpretanti soddisfacenti. Supponiamo di dover esprimere la situazione seguente: “Salomone incontra la regina di Saba, ciascuno dei due capitanando un corteo di signore e gentiluomini vestiti in stile Rinascimento, immersi nella luce immobile di un mattino incantato in cui i corpi assumono l’aspetto di statue fuori dal tempo... ecc”. Chiunque avrà riconosciuto in queste espressioni verbali qualcosa di vagamente simile al testo pittorico di Piero della Francesca nella chiesa di Arezzo: ma sarebbe azzardato dire che il testo verbale ‘in-terpreta’ quello pittorico. Al massimo lo ‘richiama’ o lo suggerisce, e solo perché quel testo pittorico è stato tante volte verbalizzato dalla cultura in cui viviamo. E, anche in questo caso, solo alcune delle espressioni verbali si riferiscono a unità di contenuto riconoscibili (Salomone, la regina di Saba, incontrare eccetera), mentre altre veicolano contenuti del tutto diversi da quelli che si potrebbero realizzare guardando direttamen-te l’affresco [...] Quando il pittore ha cominciato a lavorare, il contenuto che voleva esprimere (nella sua natura di nebulosa) non era ancora sufficientemente segmentato. Così egli ha dovuto inventare» (ivi, p. 253).

73. siGmUnd FreUd, Der Witz und seine Beziehung zum Unbewussten, Leipzig-Wien, Deuticke, 1905; trad. it. I motti di spirito ed il loro rapporto con l’inconscio, Roma, Newton Compton, 1970.

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dubbio il compositore, il quale anima il personaggio con la propria ‘voce’74 e inserisce il topos ‘corni-corna’ nell’«atmosfera morale del dramma»;75 l’al-tro è lo spettatore, unico destinatario del calembour, come illustra lo schema seguente:76

Dunque l’impiego del nostro topos è ristretto e non sistematico, ma trac-ce di un suo utilizzo più o meno consapevole si ritrovano nelle pagine dei compositori più importanti. Stupisce di conseguenza il silenzio che lo cir-conda. Personalità artistiche quali Rossini, Bellini, Donizetti e Verdi nei loro epistolari,77 o Pacini nelle sue preziose e acutissime memorie,78 teorici e mu-sicografi di vaglia del calibro di Asioli, Lichtenthal, Perotti e Boucheron79 nonché storici quali Burney o Basevi:80 nessuno di essi menziona il trait d’u-nion ‘corni-corna’, nemmeno di sfuggita. Emblematico – e perciò meritevole di essere riportato nella sua interezza – quanto scrive Raimondo Boucheron nella sua Filosofia della musica ed estetica applicata a quest’arte (1842):

74. Parafrasando il titolo di un noto saggio di edward t. cone, The Composer’s Voice cit.

75. antonio ZanoLini, Biografia del Maestro G. Rossini e passeggiata del medesimo col Signor A. Zanolini, di Bologna, Milano, Tipografia Lampato, 1837, p. 21.

76. LUca ZoppeLLi, L’opera come racconto cit., p. 17, il quale si rifà a cesare seGre, Teatro e romanzo, Torino, Einaudi, 1984, p. 17.

77. Rispettivamente, Gioachino rossini, Lettere e documenti, 4 voll., a cura di Bruno Cagli e Sergio Ragni, Pesaro, Fondazione Rossini, 1992-2000; Vincenzo Bellini, Nuovo epistola-rio (1819-1835), a cura di Carmelo Neri, Catania, Agorà, 2005; ZanoLini, Donizetti cit. e Contributo all’epistolario di Gaetano Donizetti, lettere inedite o sparse, raccolte da Guglielmo Barblan e Frank Walker, «Studi donizettiani» 1, 1962; verdi, Lettere cit.

78. Giovanni pacini, Le mie memorie artistiche, Firenze, Guidi, 1865.

79. BoniFaZio asioLi, Trattato d’armonia, Milano, Ricordi, s.d. [1813]; pietro Lichten-thaL, Dizionario e bibliografia della musica, 4 voll., Milano, Antonio Fontana, 1826; Giovan-ni aGostino perotti, Dissertazione sullo stato attuale della musica in Italia, Venezia, Picotti, 1811; raimondo BoUcheron, Filosofia della musica o estetica applicata a quest’arte, Milano, Ricordi, 1842.

80. charLes BUrney, The Present State of Music in France and Italy, London, T. Becket and Co. in the Strand, 1771; aBramo Basevi, Studio sulle opere di Giuseppe Verdi, Firenze, Tofani, 1859.

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Pieno, energico, maestoso e dolce a un tempo, il corno da caccia è uno di quegli strumenti utilissimi nelle nostre orchestre. Fate che sotto un leggiero mormorio di violini, o sotto un canto, egli sostenga le armoniose sue terze, quinte o seste, od un sommesso pedale, e vi sembrerà di udire lo spirto di un’aura amica, e siccome può rinforzare e diminuire mirabilmente il suono, aggiunge ai forti ed ai fortissimi una pienezza ed un nervo che nessun altro istromento può produrre con pari bellezza. Se poi canta egli stesso, vi darà l’idea di un sentimento radicato nel più profondo del cuore, di un affetto la di cui impressione è incancellabile. Uditelo nel bellissimo finale di Giulietta e Romeo di Vaccaj; egli vi annunzia quale inconsolabile dolore sta per essere rappresentato sulla scena di quei ferali sepolcri. Nel medesimo senso lo tro-vate usato nella Sonnambula, all’introduzione dell’aria «Tutto è sciolto». E per tale sua proprietà si scorge poi come più ancora del violoncello rifugga dalla molta agilità, e si trovi per se stesso mal atto ad esprimere la vivacità, il brio della gioia, ed ami meglio i canti semplici, spianati, ed affettuosi.81

Non una riga in merito, anzi: vi vengono descritte funzioni già prese in esame, ma con un senso diametralmente opposto a quello suggerito dal topos ‘corni-corna’. È tuttavia significativo che l’opinione di Boucheron – compositore e musicologo di vaglia, interpellato da Verdi durante la com-posizione del «Confutatis» per la Messa per Rossini (1869) – sia espressa all’inizio degli anni Quaranta dell’Ottocento, un periodo che abbiamo in-dividuato come una sorta di spartiacque tra una prassi legata maggiormen-te al genere buffo di ascendenza farsesca e la nascente, ombrosa sensibilità romantica, cui Verdi darà una sonora spallata proprio con Falstaff.

Altrettanto significativo è che sia stato proprio Rossini – massimo re-tore musicale dell’opera ottocentesca – l’autore che, epifania mozartia-na a parte, sembra aver maggiormente contribuito a codificare e ad aver adoperato con maggior consapevolezza questo bizzarro quanto geniale espediente, pur confinandolo in una manciata di titoli buffi che suscitaro-no, per quest’aspetto, assai scarso proselitismo. D’altronde, che altro ci si poteva attendere da un compositore che di se stesso diceva «Io sono figlio d’un corno»?82

81. BoUcheron, Filosofia della musica cit, p. 62.

82. Riportato in Gino Giardini, Rossini a Lugo alla scuola dei Malerbi, Lugo, Walberti, 1992, p. 15.

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aBstract – Among the myriad of extra-musical references typical of the lan-guage of opera, the relationship between the sound of the French horn and marital infidelity is, although relatively rare, one of the subtlest topoi of opera. This is based on the etymology of the Italian word: this verbal joke denotes the attention that authors such as Cimarosa, Mozart, Rossini, Donizetti, Verdi (and even Stravinsky) devoted to musical imagery, a field in which the relation-ship horns vs ‘horns’ is frequently adopted. With the purpose of proposing a taxonomy, this hilarious gimmick can be interpreted according to the dictates of modern linguistics and semiotics.