Upload
independent
View
0
Download
0
Embed Size (px)
Citation preview
1
Struttura ed evoluzione dell'industria italiana della birra (1860-1996)
L‟industria italiana della birra è divenuta solo di recente oggetto di un
interesse storiografico mirato a tracciarne le linee generali di evoluzione
dalla nascita dello Stato nazionale ad oggi: il presente saggio può dunque
considerarsi come un primo bilancio dell‟indagine fin qui svolta ed allo
stesso tempo un punto di partenza per ulteriori, necessari,
approfondimenti 1.
Studi svolti da personale addetto ai lavori, conosciuti in ambiti ristretti
perché pubblicati in riviste di settore o perché tenuti al di fuori dei
circuiti della distribuzione libraria, hanno dato le coordinate entro cui si è
mossa la ricerca, fornendo un quadro dei temi polemici salienti 2.
La disattenzione, o meglio, l‟assoluto silenzio degli storici
dell‟economia riguardo ad un settore come quello birrario trova
spiegazione nella diffusa abitudine di considerare la birra come un
prodotto estraneo alla cultura alimentare italiana e, come diretta
Nelle note al presente saggio non si è deliberatamente fatto riferimento alle carte
dell'archivio storico della Birra Peroni, trovandosi esso attualmente in corso di
riordinamento. Per la redazione del volume: Daniela Brignone, Birra Peroni 1846-1996.
150 anni di birra nella vita italiana, Milano, Electa, 1995, le carte aziendali,
provvisoriamente riordinate a fini di studio, sono state ampiamente consultate. 1) Si vedano il lavoro di Andrea Colli sull‟industria birraria in Lombardia e, dello stesso
autore, il quaderno di ricerca n. 3 dell‟Istituto di storia economica dell‟Università
Bocconi, dal titolo Per una storia del settore birrario italiano. Dalle origini alla
seconda guerra mondiale, dicembre 1995. 2) Si vedano, a titolo esemplificativo, gli scritti di Pietro Wührer, Origini e storia della
birra, Milano, Unione italiana fabbricanti birra, 1958; di A. Vanossi, Il freddo e
l’industria della birra in Italia, estratto dagli “Atti del V congresso internazionale del
freddo”, Roma 9-15 aprile 1930; Marcello Malgeri, L’industria della birra italiana e il
2
conseguenza, il relativo comparto produttivo come trascurabile nel
generale contesto dell‟economia nazionale. L‟analisi del ruolo svolto
dall‟industria birraria in tale quadro ha invece, a nostro parere, un
innegabile valore conoscitivo, che può, d‟altro canto, contribuire a
colmare un vuoto di ricerca storica riguardante l‟intero settore.
Pur avendo molti punti di contatto con l‟andamento evolutivo di altri
comparti, il settore birrario presenta aspetti peculiari, riconducibili alla
sua già accennata atipicità nel quadro economico italiano ma anche alla
specificità industriale del prodotto birrario. Su tali aspetti porremo la
nostra attenzione nelle pagine che seguono.
I: dagli Stati preunitari all’Italia unita, nascita e consolidamento
dell’industria birraria (1860-1914)
Nella prima metà del XIX secolo, in molte delle realtà statuali
preunitarie, furono emanate disposizioni normative riguardanti il regime
fiscale della fabbricazione della birra, resesi necessarie, evidentemente, in
seguito ad una certa diffusione di quella nuova attività produttiva: si
trattava, tuttavia, di una produzione priva di tradizione storica ed ancora
di tipo artigianale, sia per le limitate dimensioni di scala che per
l‟arretratezza della tecnologia e degli impianti utilizzati.
Concessioni di privative per la fabbricazione della birra rilasciate a
persone di nazionalità svizzera, austriaca e tedesca ma raramente di
provenienza indigena, tra la fine del „700 e l‟inizio del secolo successivo,
Mercato comune europeo, Milano 1960, “Birra e Malto”, 1960, n. 4; Gino Spaeth,
Quadro della birra italiana, “Birra e Malto”, 1987, n. 32.
3
lasciano pensare che prima di quella data la manifattura fosse sconosciuta
nella penisola italiana.
Dopo essere stata importata in Italia dal centro e dal nord dell‟Europa,
la fabbricazione della birra cominciò ad avere diffusione, in stretta
dipendenza dalla domanda dei consumatori, nei centri di turismo
internazionale e nei luoghi di stanziamento di truppe militari straniere. In
un paese di produzione e cultura vinicola come l‟Italia, solo l‟intervento
di elementi esogeni poteva, infatti, infrangere le abitudini del
consumatore e sprovincializzarne il gusto, consentendo ad una bevanda
allora considerata aliena come la birra l‟immissione sul mercato. Nelle
regioni settentrionali il settore conobbe uno sviluppo più significativo,
anche per via delle condizioni climatiche e geo-morfiche3, rispetto al
resto della penisola, ma nell‟insieme può dirsi che il grado di evoluzione
dell‟industria birraria alle soglie dell‟unificazione fosse assai modesto.
Nè, d‟altronde, il livello della produzione e del consumo subì
incrementi di rilievo nei primi decenni dell‟Italia unita, nei quali si
verificò, al contrario, una prima drastica riduzione nella quantità di birra
prodotta e nel numero delle unità produttive, spesso troppo deboli per
sostenere il regime di libera concorrenza subentrato alla protezione
doganale preunitaria. Alcuni dati relativi al consumo pro capite in alcuni
paesi europei e negli Stati Uniti attorno agli anni „70 dell‟800 faranno
3) Come la vicinanza alle valli alpine, che permetteva un facile reperimento del ghiaccio
necessario alla fabbricazione della birra a bassa fermentazione e alla sua conservazione,
oppure la presenza di cavità naturali naturalmente refrigerate, come i crotti di
Chiavenna, nell‟alta Lombardia.
4
comprendere a pieno la modestia del consumo italiano al confronto con
realtà di più radicata tradizione birraria 4:
Tabella 1: consumo pro capite in alcuni paesi europei e negli U.S.A. negli
anni '70 dell'800 (in litri).
Italia l. 0,5
Baviera l. 219
Francia l. 19
Olanda l. 37
Prussia l. 39,5
Austria l. 34
Gran Bretagna l. 139
Stati Uniti l. 26
Fonte: vedi nota 5.
La fabbricazione della birra ebbe una crescita disomogenea nelle
diverse regioni della penisola italiana, che venne così a contenere realtà
produttive assai differenziate. In alcune aree il numero delle unità
operative era elevato, ma la quantità di birra da esse prodotta si
4) La tabella è il frutto di una nostra rielaborazione dei dati contenuti in Luigi Figuier, Il
vino e la birra, Milano, Treves, 1882, p. 181; Enrico Raseri, Materiali per l’etnologia
italiana, “Annali di statistica”, serie 2°, vol. 8, 1879, pp. 91-96.
5
manteneva assai basso e la manodopera impiegata non superava le cinque
unità.
In zone in cui il consumo crebbe in misura relativamente più
accentuata, si assistè invece, ben presto, ad una contrazione del numero
delle fabbriche, che abbandonarono gli arcaici metodi produttivi per
affrontare un primo ammodernamento degli impianti.
L‟impatto con il regime di libera concorrenza, instaurato all‟indomani
del compimento dell‟unità italiana, fu traumatico per la maggior parte
delle fabbriche di birra e fatale per alcune di esse. Dell‟abolizione di ogni
residua protezione doganale si lamentarono i birrai italiani riuniti a
Bologna nel 1872, in occasione del primo congresso di categoria
organizzato su scala nazionale. Le tematiche messe a fuoco in quel
contesto ebbero una contemporanea esternazione nei questionari redatti
per l‟inchiesta industriale del 1870-1874: la categoria dei birrai chiamava
a gran voce su di sé l‟attenzione delle autorità governative, al fine di
indurle a proteggere gli interessi di un settore giovane ma, nell‟opinione
dei suoi operatori, meritevole di considerazione 5.
Il motivo primario di polemica risiedeva nell‟esosità ed incoerenza
dell‟imposizione fiscale sulla fabbricazione della birra: oltre a gravare il
fabbricante di un onere finanziario che non aveva pari nei paesi europei,
la tassa sulla produzione richiedeva, infatti, per la sua esazione, il
complicato calcolo dei cali naturali e delle dispersioni che si verificavano
5 ) Verbale delle deliberazioni prese nel congresso dei fabbricanti di birra in Italia
tenutosi in Bologna li 28 aprile 1872, Bologna, Società Tipografica dei Compositori,
6
nel corso della lavorazione. Attorno al cosiddetto abbuono d‟imposta,
ritenuto insufficiente dai birrai, si concentrò gran parte delle lamentele
rivolte alle autorità governative.
Pur vessatorio e catalizzante le attenzioni dei birrai, il carico fiscale
non esauriva le ragioni del loro malcontento: negli interventi al convegno
bolognese e nelle risposte ai questionari dell‟inchiesta industriale, i
fabbricanti di birra presentarono ufficialmente l‟insieme delle proprie
rimostranze. Trascurando gli aspetti meramente polemici, quel che
interessa è il quadro, che da quella presentazione scaturisce, dei caratteri
e della struttura dell‟industria birraria italiana, un quadro nella cui cornice
andrà a collocarsi di massima l‟evoluzione del settore negli anni
successivi.
Il dato che per primo emerge con evidenza è l‟alta concentrazione di
fabbriche nelle regioni dell‟Italia settentrionale: sulle 70 ditte che
risposero al questionario dell‟inchiesta industriale, cinquanta
provenivano da Lombardia, Piemonte, Veneto, Friuli e dall‟Emilia. Delle
altre, una dozzina si divideva tra Lazio, Marche e Toscana, lasciando alle
regioni meridionali e alle isole le rimanenti unità produttive. Questa
distribuzione regionale delle fabbriche di birra troverà conferma,
nonostante il variare del loro numero, nelle prime statistiche sull‟imposta
di fabbricazione, compilate dal Ministero delle finanze a partire dalla fine
degli anni „70 dell‟Ottocento.
1872; Atti del comitato dell’inchiesta industriale (1870-1874). Deposizioni scritte,
categoria 1§ 6, Birra, Roma, Stamperia Reale, 1873, pp. 3-42.
7
Una certa uniformità nei tipi di birra prodotti era riscontrabile
sull‟intera superficie nazionale: la birra “uso Vienna”, giallognola e poco
amara, e la birra “uso Monaco” o “uso Baviera”, contraddistinta dal
colore bruno e dal sapore dolciastro, entrambe prodotte con il metodo a
bassa fermentazione. Tale metodo, che si distingueva da quello ad alta
fermentazione per l‟uso di basse temperature, fu introdotto in Baviera
attorno al 1810-1820 ed ebbe rapida diffusione in Europa dopo essere
stato presentato ufficialmente all‟esposizione universale di Parigi del
1867.
Le birre uso Monaco e uso Vienna incontravano il gusto dei
consumatori italiani perché più adatte al clima mediterraneo rispetto alle
forti birre stout inglesi o alle corpose birre ad alta fermentazione e
maggiore gradazione alcolica, di provenienza germanica.
La nicchia di mercato che automaticamente veniva ad aprirsi in Italia
per il prodotto birrario, considerato “igienico” e dissetante, era quella
legata ad un consumo di tipo saltuario, confinato ai mesi estivi e, per
ragioni d‟alto prezzo, alle classi sociali più abbienti.
L‟estraneità della birra alla cultura alimentare italiana era legata ad un
altro fattore tutt‟altro che trascurabile: la provenienza dall‟estero delle
materie prime utilizzate per la sua fabbricazione. Sia l‟orzo distico, una
speciale qualità di orzo, che viene trasformato in malto tramite
germinazione e poi essiccazione, sia il luppolo, pianta rampicante dai cui
fiori è tratta la sostanza che conferisce alla bevanda il tipico sapore
amaro, venivano infatti importate nella loro totalità da paesi stranieri. Ciò
conferiva alla birra una reputazione scomoda, se chiamata a confrontarsi
8
con il vino, prodotto naturale italiano e bevanda nazionale per
antonomasia.
Oltre al fattore climatico, dunque, un insieme di altre condizioni
ponevano la birra tra i beni di consumo voluttuario, il che escludeva, in
teoria, un diretto antagonismo con il vino, a cui spettava in Italia la
soddisfazione di bisogni di altro genere. In pratica, però, nella mentalità
del consumatore ed in quella degli stessi operatori dei due settori,
scattava come un riflesso condizionato una sorta di competizione.
L‟evoluzione futura dei due rami industriali e dei consumi delle due
bevande, dimostrerà, al contrario, la loro reciproca autonomia.
Il consumo di vino, infatti, subirà un forte calo dal secondo
dopoguerra in avanti, in stretta dipendenza dall‟urbanizzazione e dalla
modifica dei modelli alimentari. Nello stesso periodo, come conseguenza
di una trasformazione del gusto, il consumo di birra conoscerà una
notevole impennata. I due fenomeni, per quanto riconducibili entrambi al
processo di trasformazione della società italiana, vanno tenuti separati
l‟uno dall‟altro, per non incorrere nel pericolo di interpretarli in un
rapporto di causa ed effetto.
Nell‟ultimo decennio del secolo scorso il numero delle fabbriche di
birra operative sul territorio nazionale subì una forte contrazione e la loro
produzione venne ad essere praticamente dimezzata: il fattore scatenante
di quella profonda e prevedibile crisi fu il raddoppio della tassa di
fabbricazione, introdotto con decreto catenaccio nel 1891. Il maggiore
carico fiscale mise infatti in ginocchio le manifatture più deboli, che già
trascinavano un‟esistenza precaria. Le fabbriche operative, che erano
9
arrivate ad essere oltre 140 nell‟esercizio finanziario 1889-1890, con una
produzione complessiva di 157.629 ettolitri, scesero a meno di 90, con un
prodotto totale che non raggiungeva i 100.000 ettolitri.
Per confrontare le ragioni del proprio malessere, i birrai italiani si
incontrarono nuovamente a Milano e a Torino, costituendosi in
associazione di categoria nel 1891. Tra di loro prendeva sempre maggior
piede l‟istanza protezionista, rinfocolata dall‟approvazione della tariffa
doganale del 1887, che lasciava ancora il prodotto italiano esposto alla
concorrenza, agguerrita ed in costante aumento, delle birre straniere. Tra
queste, particolare preoccupazione suscitavano le birre tedesche,
austro-ungariche e svizzere, favorite dalle tariffe d‟importazione
convenzionali stabilite dai trattati internazionali 6.
Il rimborso della tassa di fabbricazione per la birra esportata e
l‟esenzione dell‟orzo destinato alla fabbricazione della birra e del luppolo
dal dazio d‟entrata, pur salutate con soddisfazione dai birrai italiani, non
riuscirono a frenare la progressiva riduzione del numero delle unità
operative.
L‟andamento evolutivo dell‟industria birraria nel nuovo secolo
proseguì il processo selettivo inaugurato nel secolo precedente,
introducendo tuttavia elementi di novità che si risolsero nell‟emergere di
6 ) Archivio Banca d‟Italia, Fondo 37, Stringher Pers., B. 37, “Progetto di legge
Magliani. Revisione della tariffa doganale, 25 novembre 1882”, p. 2, pp. 43-44; Ivi, B.
40, “Commissione per il regime economico-doganale. Notizie illustrative e voti per
ciascuna categoria della tariffa doganale italiana. Categoria I, Spiriti, bevande e oli.”,
Roma 1903, pp. 149-152. Vedi anche Le birre all’esposizione generale italiana in
Torino 1884. Relazione di Giuseppe Amedeo Farinati degli Uberti, Torino, Stamperia
Reale Paravia, 1886.
10
alcune aziende leader e nell‟avvio di una significativa concentrazione
industriale7.
Tabella 2: fabbriche operative e produzione totale annuale dal 1879 al
1915 (in ettolitri).
Anno o esercizio Unità
operative
Produzione
1879 133 112.328
1880 132 116.216
1881 132 127.364
1882 130 131.254
1883 128 121.954
1884 129 130.270
1884-1885 131 144.189
1885-1886 135 167.833
1886-1887 - -
1887-1888 143 174.921
1888-1889 139 137.744
1889-1890 142 157.629
7 ) I dati dal 1879 all‟esercizio 1893-1894 sono tratti dalle statistiche delle tasse di
fabbricazione del Ministero delle finanze. Dal 1894-1895 riprendiamo, invece, i dati
riportati nella pubblicazione dell‟Unione italiana fabbricanti birra, L’industria della
birra in Italia e nel mondo. Notizie e dati statistici, Roma, Tipografica editrice romana,
1960, p. 42.
11
1890-1891 139 156.223
1891-1892 - -
1892-1893 120 99.198
1893-1894 119 93.855
1894-1895 114 95.497
1895-1896 * 114.873
1896-1897 * 106.940
1897-1898 * 109.488
1898-1899 * 132.696
1899-1900 99 145.024
1900-1901 95 163.495
1901-1902 95 162.188
1902-1903 95 176.406
1903-1904 95 217.188
1904-1905 95 219.572
1905-1906 95 304.633
1906-1907 95 359.921
1907-1908 95 447.493
1908-1909 95 547.802
1909-1910 90 567.186
1910-1911 86 598.315
1911-1912 86 721.456
1912-1913 81 672.907
1913-1914 82 652.275
12
1914-1915 75 525.601
* Si preferisce non riportare le stime relative alle unità operative, presenti nella
pubblicazione da cui sono tratti i presenti dati, perché troppo discostanti dalla linea
evolutiva degli anni precedenti.
Fonte: statistiche del Ministero delle finanze sull'imposta di
fabbricazione e statistiche dell'Unione italiana fabbricanti birra.
Le peculiarità della fabbricazione della birra divennero oggetto
d‟osservazione e di studio solo quando il comparto birrario venne ad
assumere una certa rilevanza nel quadro dell‟industria italiana,
abbandonando le dimensioni artigianali delle origini e dando vita a
moderne realtà aziendali. Il che avvenne appunto, con sostanziose
differenze regionali, a partire dai primi anni del Novecento.
Alle specificità industriali della fabbricazione della birra - la necessità
di forti immobilizzi iniziali e di frequenti aggiornamenti tecnologici degli
impianti, utili al raggiungimento di un livello qualitativo standard del
prodotto ma anche all‟abbassamento dei costi di produzione - si
sommavano quelle legate alla stagionalità del consumo, fenomeno tipico
italiano, che dal mercato ricadeva su tutti gli aspetti dell‟attività
industriale.
Per soddisfare le richieste estive del mercato, le aziende birrarie
dovevano rifornirsi per tempo delle materie prime e dei materiali per il
confezionamento: tali forniture, effettuate nei mesi invernali, esponevano
i fabbricanti a problemi di liquidità, da fronteggiare con la contrazione di
13
debiti proporzionali ai volumi trattati. L‟esposizione bancaria, e dunque il
carico di oneri passivi, veniva poi aggravata dal pagamento della tassa di
fabbricazione con un anticipo di circa tre mesi rispetto alla vendita del
prodotto finito.
Calibrando la quantità di manodopera, la capacità produttiva ed i
mezzi di trasporto sui picchi della domanda estiva, si dovevano lasciare
gli impianti in parte inutilizzati durante i mesi di minor consumo.
L‟ammontare complessivo delle quote di interesse e di ammortamento,
per il capitale fisso e quello circolante, veniva calcolato per le fabbriche
italiane nella misura di £ 10,26 per ettolitro, contro le £4,32 per ettolitro
gravanti sulle fabbriche tedesche 8.
I pesanti immobilizzi di capitale - gli impianti per la fabbricazione
della birra provenivano nella quasi totalità dall‟estero - non erano
ammortizzabili su dodici mesi e costringevano ad elevare il prezzo del
prodotto sul mercato, con la conseguenza di circoscrivere il consumo alle
classi sociali più abbienti 9.
Tranne poche ma significative eccezioni, le aziende birrarie soffrivano
di cicliche crisi di sovradimensionamento degli impianti e dei danni
provocati da eccessivi tempi di stoccaggio. Il circolo vizioso in cui
l‟industria birraria si dibatteva non lasciava, al momento, via d‟uscita:
8 ) I dati si riferiscono all‟anno finanziario 1910-1911 e sono tratti dall‟opuscolo a cura
dell‟Unione italiana fabbricanti birra, L’industria italiana della birra in rapporto alla
tariffa doganale ed ai trattati di commercio, Milano, La Stampa commerciale, 1922, p.
7. 9 ) Archivio Banca d‟Italia, Fondo 37, Stringher Pers., B. 42, “Commissione reale per
lo studio del regime doganale e dei trattati di commercio, Industrie manifatturiere e
14
nonostante le statistiche sulla produzione nazionale registrassero, in
concomitanza con l‟innalzamento del reddito nazionale e dei consumi
privati avutasi dal 1900 in poi, un costante incremento, i motivi di
malessere rimanevano invariati.
Ciò che suscitava la crescente preoccupazione dei birrai italiani era poi
l‟aumento della percentuale di birra importata. Il crescente consumo di
birra straniera, il cui ingresso in Italia era favorito dal trattamento
doganale e dalle tariffe di trasporto, trovava spiegazione - secondo i
produttori - nella diffusa esterofilia dei consumatori italiani in materia
birraria: il prezzo lievemente più elevato, lungi da impedirne il consumo,
sostanziava psicologicamente la maggiore qualità del prodotto forestiero.
Tabella 3: importazione ed esportazione di birra dal 1898 al 1915 (in
ettolitri).
Anno solare Importazione Esportazione
1890 42.981 65
1898 46.920 -
1899 48.028 -
1900 50.738 -
1901 59.171 -
1902 63.855 -
1903 68.545 -
minerarie. Birra Acque gassose Ghiaccio, risposte ai questionari”, Roma 1913-1914, pp.
12-13.
15
1904 78.882 -
1905 89.376 234
1906 98.044 -
1907 98.623 -
1908 91.454 -
1909 92.502 -
1910 85.934 2.972
1911 93.963 3.028
1912 94.551 4.831
1913 86.317 5.558
1914 61.724 6.368
1915 21.382 11.811
Fonte: statistiche dell'Unione italiana fabbricanti birra.
Come si nota, a fronte di un visibile incremento annuo degli ettolitri
importati, vi era una quantità irrisoria di birra destinata all‟esportazione.
La scarsa competitività del prezzo della birra italiana sui mercati
stranieri, gli alti costi di trasporto, le dispersioni durante il viaggio, il
ritardo nella restituzione della tassa di fabbricazione, allontanavano le
aziende birrarie da propositi di maggiori investimenti in quella direzione.
Il mercato interno diveniva, di conseguenza, il terreno unico dello
scontro di una moltitudine di aziende di dimensioni assai diversificate,
ma accomunate dalla percezione della propria vulnerabilità, in un
mercato altamente concorrenziale.
16
La difesa del segmento di mercato locale di diretto dominio, della
propria area di influenza, fu la risposta di ogni fabbrica alle condizioni
dettate dal mercato. L‟arretratezza della rete distributiva sostenne la
reazione localistica dei birrai italiani, i quali, infatti, per i maggiori
margini assicurati dalla vendita diretta rispetto a quelli realizzati tramite i
depositari, prediligevano lo smercio nella città sede di fabbrica. Nei
centri urbani si diffuse l‟uso di vendere la birra presso lo stabilimento di
produzione, mentre le aziende più intraprendenti si dotarono di “spacci”
propri.
La vendita della birra associata a quella del ghiaccio, bene altamente
deperibile, che vincolava le aziende ad un raggio d‟azione assai ridotto,
congiunta agli elevati costi di trasporto e alle frequenti rotture del
materiale di confezionamento, specialmente le bottiglie - di cui si andava
diffondendo l‟uso, in sostituzione dei fusti, per assecondare la domanda
del consumatore - motivavano l‟arroccamento dei birrai nella difesa dei
propri feudi industriali e commerciali.
La tentazione di bloccare il mercato tramite accordi per la spartizione
delle aree di influenza prese i birrai italiani già nel periodo precedente la
prima guerra mondiale: le trattative, però, svoltesi principalmente tra i
fabbricanti settentrionali, daranno esiti compiuti solo nel corso degli anni
„20, in una cornice politica ed economica più consona alla loro
maturazione. Per il momento, esse condussero alla realizzazione di
generiche convenzioni sulle condizioni di vendita e sui prezzi.
Alcune trasformazioni interessarono, nel frattempo, la distribuzione
geografica della produzione, con l‟emergere di una azienda romana in
17
posizione leader, nei primi anni „10. Avvantaggiata dalla mancanza di
diretti concorrenti nel mercato centro-meridionale, la società Birra Peroni
compì un salto di capacità produttiva che la portò al primo posto nella
graduatoria delle aziende italiane. La Birra Poretti di Induno Olona, in
provincia di Varese, che aveva fino ad allora detenuto la leadership,
retrocesse così al secondo posto, penalizzata dalla concorrenza di aziende
di media grandezza, operanti anch‟esse in territorio ligure, lombardo e
piemontese.
La crescita dimensionale delle unità produttive localizzate nelle
regioni centromeridionali della penisola procedeva assai più velocemente
che nelle regioni settentrionali, dove la maggiore frammentazione del
mercato lasciava coesistere, accanto ad aziende di media grandezza,
piccole realtà produttive radicate nel tessuto economico locale 10
.
Tabella 4: produzione suddivisa per azienda nell‟esercizio 1913-1914 (in
ettolitri).
Aziende Produzione
Peroni, Roma 67.653
Poretti, Varese 53.671
Birra Italia, Milano 32.255
Birrerie Meridionali, Napoli 27.814
Cervisia, Genova 24.543
10
) In merito vedi Andrea Colli, Per una storia del settore birrario italiano, cit., p. 32.
18
Pedavena, Feltre 21.786
Wuehrer, Brescia 21.530
Dormisch, Udine 21.543
Metzger, Torino 17.806
Paszkowski, Firenze 16.969
Moretti Luigi, Udine 14.926
Cappellari (poi Itala Pilsen), Padova 14.276
Spluga, Chiavenna 13.619
Ronzani, Bologna 12.921
Bosio & Caratsch, Torino 11.205
Menabrea e figli, Biella 9.862
De Giacomi, Livorno 6.523
Orobia, Bergamo 5.082
Aosta, Aosta 2.835
Birra Roma, Roma 2.604
Summano Zanella, Rocchette 2.557
Stringa, Voghera 1.743
Faramia Francesco, Savigliano 1.307
Parola, Borgo S. Dalmazzo 885
fabbriche minori, cessate e frazioni 246.544
Totale 652.275
NOTA: le fabbriche Dreher e Forst, rispettivamente di Trieste e Merano, già in territorio
austriaco, entreranno nella statistica italiana solo nell‟esercizio 1923-1924.
19
Fonte: statistiche del Ministero delle finanze sull'imposta di
fabbricazione.
La presenza dominante di alcune aziende birrarie impose un correttivo
alla situazione in cui si era trovato il settore fino ad allora: il salto verso
un mercato extraregionale, compiuto dalle fabbriche più grandi, negli
anni di poco precedenti la guerra, ebbe due effetti, connessi tra di loro.
Da una parte, provocò la crisi di molte delle società minori che, incapaci
di resistere alla concorrenza di prodotti di migliore qualità offerti a prezzi
competitivi, chiusero i battenti; dall‟altra, innescò una spirale di
assorbimenti e di acquisizioni delle aziende in crisi e dei relativi marchi,
di importanza regionale, da parte delle fabbriche maggiori, la cui crescita
si realizzò dunque nell‟ambito di una sostenuta concentrazione
industriale 11
.
Lo scopo perseguito dalle aziende, indipendentemente dalle
dimensioni, in tale stato di cose, era la libertà di manovra commerciale
che una condizione di semimonopolio, coniugata ad una sapiente
gestione del bene societario, avrebbe concesso loro. Il mantenimento di
quella posizione di privilegio sarà il segreto della sopravvivenza di
alcune fabbriche minori.
Durante il fascismo la spartizione del mercato avrà una consacrazione
ufficiale con i Patti di rispetto della clientela, una soluzione consona ai
11
) Nel 1914, alle soglie del conflitto, il 45% circa della produzione nazionale di birra
era prodotto dalle 11 principali aziende birrarie italiane, tutte società per azioni di cui tre
20
principi di politica economica governativa che ben si sposerà con i
caratteri storici dell‟industria birraria italiana.
II: Guerra mondiale e fascismo (1914-1940)
Gli anni del conflitto bellico misero a dura prova la debole industria
birraria nazionale, che dalle 82 fabbriche attive nell‟esercizio 1913-1914
passò a 46 nell‟esercizio 1918-1919. La paralisi dei trasporti, la
deficienza delle materie prime, il calo dei consumi incisero in maniera
profonda sul settore birrario, accelerando il processo selettivo in atto
dall‟inizio del secolo.
Le difficoltà cui soccombettero molte strutture industriali minori
innescarono tuttavia un processo che nel breve periodo portò ad un
rafforzamento del settore: da una parte, la selezione tenne in vita gli
organismi più vitali e competitivi, vivacizzando le condizioni generali del
mercato; dall‟altra, rinfocolando l‟orgoglio di categoria, cementò un
rapporto di solidarietà tra i birrai, i quali, compatti sul fronte interno, si
concentrarono sulla soluzione di problemi comuni.
Il primo terreno di prova del nuovo spirito collaborativo fu quello del
reperimento delle materie prime necessarie al funzionamento
dell'industria: interrotto il rifornimento di orzo da parte di Austria e
Germania, le aziende da una parte ricorsero all‟importazione di malto
inglese, americano e danese, dall‟altra si consorziarono per dar vita a
stabilimenti di maltazione dell‟orzo. Nel frattempo, presso l‟Unione
- la Birra Milano, la Birra Busalla di Genova e la Birra Paszkowski di Firenze - quotate
in borsa.
21
italiana fabbricanti birra, venne costituito un Consorzio per gli
approvvigionamenti delle materie prime, incaricato di regolare la
distribuzione di orzo greggio alle fabbriche dotate di una propria malteria
e di orzo già maltato alle fabbriche che ne erano sprovviste, in base alla
loro produzione 12
.
Un certo impulso venne dato alla coltivazione dell‟orzo distico in
Italia, nell‟obiettivo, raggiunto molti anni più tardi, di rendere autonoma
l‟industria per quanto riguardava le materie prime. Con veemenza i birrai
protestarono contro le autorità governative, accusate di sostenere a parole
lo sviluppo dell‟industria birraria e maltaria, mentre nei fatti nessun
argine veniva posto dalle tariffe doganali all‟importazione di malto
dall‟estero.
La solidarietà della “famiglia dei birrai” non riuscì tuttavia a porre
argine ad uno spropositato aggravio dei costi di produzione, solo
parzialmente compensato dal ricarico sul prezzo di vendita.
L‟abbassamento della capacità d‟acquisto della popolazione limitava
infatti al minimo la possibilità di manovra rispetto a quest‟ultima
variabile.
L‟uso di succedanei quali castagne, saggina, fichi, in percentuali
consentite dalla legge, la fornitura alle truppe militari - per ora limitata
ma destinata a ben altro sviluppo nel corso del secondo conflitto
mondiale - l‟avvio di un timido flusso di esportazioni, facilitato dal
12
) Paolo Polli, Come il Governo aiuta le nuove industrie d’Italia, “Il Giornale del
Commercio”, 2 marzo 1919; Paolo Polli, Le fabbriche italiane di birra e il problema del
malto, “Il Giornale del Commercio”, 19 marzo 1919.
22
blocco delle importazioni da parte degli imperi centrali, furono i
principali motivi della sopravvivenza delle fabbriche di birra italiane nel
corso della Grande Guerra.
Nel 1917, tuttavia, il precipitare delle condizioni sociali ed
economiche, aggravate dalle difficoltà al fronte e dalla crisi politica
interna, trascinò con sè le strutture industriali più deboli: afflitti dalla
mancanza di materie prime, dall‟incontrollata crescita dei costi, dal crollo
verticale della domanda, molti impianti interruppero la fabbricazione, per
riprenderla al termine delle ostilità.
La firma dei trattati di pace non si tradusse in un immediato
miglioramento delle condizioni generali del paese: le materie prime
continuavano a scarseggiare e l‟ascesa dei prezzi non conosceva sosta. La
birra fu inserita nel 1919 tra i beni di prima necessità sottoposti a
calmiere13
. Nel frattempo, la protesta sociale arrivò ad interessare il
comparto birrario, fino ad allora caratterizzato da una scarsa combattività
operaia.
Nonostante il quadro complessivo non inducesse all‟ottimismo, molte
delle fabbriche di birra che avevano chiuso i battenti in tempo di guerra
ripresero la fabbricazione: il numero delle unità produttive risalì
rapidamente, recuperando la posizione anteguerra già all‟inizio degli anni
‟20.
La modifica della tariffa doganale, nel 1921, pur lasciando ancora una
volta insoddisfatta la categoria dei birrai, innalzò le barriere difensive
13
) Il calmiere fu istituito con D. R. 13 luglio 1919 n. 1146.
23
contro l‟importazione delle birre estere, che difatti subì un certo
ridimensionamento. La revisione delle tariffe doganali comportò,
tuttavia, una maggiorazione del dazio sull‟orzo tallito ossia germogliato,
che avrebbe funzionato, in seguito, da stimolo alla coltivazione interna,
ma che per il momento si tradusse in un aggravio di spesa per i
fabbricanti.
In tale quadro che, tra mille difficoltà, tendeva a schiarirsi, cominciò
d'altra parte a profilarsi il pericolo di una crisi di sovrapproduzione,
specialmente nelle regioni settentrionali della penisola, dove evidente era
lo squilibrio tra l‟elevata concentrazione di fabbriche - e la relativa
offerta - e la contenuta domanda dei consumatori 14
. Questa conobbe una
breve fase di espansione nella prima metà degli anni „20, per poi flettersi
nuovamente, dimostrando la vulnerabilità di un settore, quello birrario,
produttore di beni di consumo elitario, con uno scarso radicamento nelle
abitudini alimentari degli italiani.
A ciò si aggiunse il decreto antialcolico del settembre 1923, che
ridusse il numero delle licenze dei pubblici esercizi, al fine di porre un
limite al consumo degli alcolici: la stretta proibizionista colpiva
indifferentemente la birra, il vino ed i superalcolici, senza tener conto
della diversa gradazione delle tre categorie. All‟evidente nonsenso venne
posto rimedio nel febbraio 1926, quando si decise di correggere la
normativa, lasciando il limite di un esercizio ogni 1.000 abitanti solo per
14
) Vedi Riccardo Bachi, L’Italia economica nell’anno 1921, Città di Castello, s.e.,
1922, p. 215.
24
gli alcolici di gradazione superiore ai 4° e mezzo 15
. La nuova
disposizione, che equiparava il fenomeno dell‟alcolismo a quello del
“vinismo”, ossia il consumo smodato e patologico di vino a quello
moderato e intelligente, dava soddisfazione ai fabbricanti di birra e alle
loro battaglie istituzionali e di opinione pubblica.
Una campagna di informazione sulle proprietà nutritive della birra e
sulla sua non nocività per la salute accompagnò la lotta condotta dai
birrai a livello istituzionale. Il medesimo scopo educativo venne
perseguito con la prima campagna pubblicitaria collettiva organizzata dai
produttori italiani di birra sul finire degli anni „20 e l‟inizio del decennio
successivo.
Le campagne informative degli anni „20 e „30, miranti ad allargare
l'area dei consumatori di birra ed allo stesso tempo a favorire una
familiarizzazione con il prodotto, invitando ad una diversificazione e
moltiplicazione delle occasioni di consumo, certamente contribuirono
alla maggior diffusione della bevanda. Tuttavia, con il calo verticale del
potere d‟acquisto delle classi sociali meno abbienti, il consumo di birra
subì una drastica contrazione, già evidente nella seconda metà degli anni
„20 ed accentuata in seguito alla crisi del „29 16
. La disponibilità di birra
passò dai 3,5 litri pro capite del 1922 ai 3,8 del 1924, per scendere a 2,2
litri nel 1930 e poi toccare il picco negativo di 0,8 litri nel 1936.
15
) I fabbricanti di birra e il decreto contro l’alcolismo, “La Sera”, 30 ottobre 1923; La
propaganda contro l’alcolismo. Una discussione movimentata, “Il Sole”, 31 ottobre
1923.
25
I dati sulla produzione nazionale ed il numero delle fabbriche
operative dal 1921 al 1939 evidenziano l‟andamento evolutivo che si è
tentato di descrivere.
Tabella 5: numero delle aziende operative e produzione nazionale dal
1921 al 1940 (in ettolitri).
Esercizio
finanziario
Numero fabbriche Produzione
1921/1922 65 1.369.438
1922/1923 73 1.187.508
1923/1924 85 1.465.217
1924/1925 79 1.281.029
1925/1926 78 1.218.249
1926/1927 74 1.295.719
1927/1928 70 982.517
1929/1930 62 1. 127.300
1930/1931 50 902.189
1931/1932 44 672.323
1932/1933 40 433.089
1933/1934 38 422.254
1934/1935 38 372.368
16
) Vera Zamagni, La dinamica dei salari nel settore industriale, in L’economia
italiana nel periodo fascista, a cura di Pierluigi Ciocca e Gianni Toniolo, Bologna, Il
Mulino, 1976, p. 331 e 339.
26
1935/1936 38 289.046
1936/1937 38 497.452
1937/1938 38 576.900
1938/1939 35 612.669
1939/1940 35 708.700
Fonte: statistiche dell'Unione italiana fabbricanti birra.
La crisi dei consumi accelerò il fenomeno della concentrazione
industriale del settore birrario, già in atto, come dicevamo, nel periodo
anteguerra: la razionalizzazione del mercato, con l‟eliminazione delle
strutture produttive meno vitali, fu d‟altro canto ampiamente sostenuta
dalla politica economica del governo fascista. Con la riorganizzazione
della struttura sindacale padronale, l‟avallo dato alla pratica degli accordi
per la divisione del mercato in aree di influenza esclusiva, il sostegno alla
politica consortile, esso appose un sigillo istituzionale alla trasformazione
in atto in molti settori produttivi e non ultimo in campo birrario.
In osservanza della legge del 3 aprile 1926 sulla disciplina giuridica
dei rapporti collettivi di lavoro, l‟associazione di categoria dei birrai, fino
ad allora autonoma, entrò a far parte della neocostituita Federazione
nazionale delle industrie delle acque gassate, della birra e del freddo, pur
mantenendo una rappresentanza indipendente, al pari degli altri due
gruppi industriali. La comunanza di obiettivi dei tre rami produttivi,
affini e spesso congiunti - anche per la necessità di far fronte alla
27
stagionalità dei proventi derivanti dalla commercializzazione della birra17
- doveva tradursi in una maggiore compattezza del fronte industriale nei
rapporti con le istituzioni e con tutti gli altri interlocutori. Diretto
corollario della nuova politica industriale fu la sigla di accordi
commerciali denominati Patti di rispetto, che prevedevano una
zonizzazione delle forniture in base all‟accertamento delle quote di
mercato delle singole ditte ad una determinata data, definita di
“bloccamento”18
.
La costituzione di gruppi interregionali di fabbriche di birra, suddivisi
per aree geografiche, ingessò il mercato in una rigida disciplina che
decretò la fine della libera scelta della marca da parte dei grossisti e dei
rivenditori al minuto. Questi ultimi, d‟altro canto, vedendo assottigliarsi i
propri margini di guadagno, iniziarono a rifarsi sul consumatore ultimo,
con sregolati aumenti dei prezzi.
Una levata di scudi della categoria dei commercianti, rappresentati
dalla propria confederazione generale, contro le pretese totalitarie degli
industriali, sortì gli effetti sperati: d‟accordo con la Confindustria venne
ripristinata una certa libertà di manovra degli esercenti, sotto gli aupici
17
) Considerazioni estere nei riguardi dell’industria birraria italiana, “L‟industria
della birra”, ottobre 1932, n.10, p. 16: la rivista di categoria riporta la traduzione di un
articolo apparso sulla tedesca “Allgemeine Breuer und Hopfen-Zeitung”, n. 183, del 6
agosto 1932. 18
) Federazione nazionale fascista delle industrie delle acque gassate, della birra e del
freddo, Gruppo nazionale industria della birra, Statuto dell’accordo tra fabbricanti di
birra Italia centrale-Sardegna, Roma, Tipografia delle terme, s.d.; Gruppo
lombardo-ligure-piemontese industria della birra, Statuto del “patto di rispetto”,
Milano, Tipografia Castiglioni, 1927; vedi anche Archivio storico Banca commerciale
italiana, Sofindit (SOF), cart. 67, fasc. 3.
28
delle autorità governative, interessate ad una composizione degli interessi
di entrambe le categorie.
Con la cristallizzazione delle posizioni commerciali delle fabbriche di
birra, vincolate dai Patti di rispetto, venne ad essere sottolineato quel
legame con il mercato locale che abbiamo visto essere tipico
dell‟industria birraria italiana. Contro tale tendenza alla stasi, ma solo in
apparente contraddizione con essa, si pose la volontà di procedere sulla
via della concentrazione industriale, che si realizzò attraverso
l‟assorbimento delle unità produttive minori da parte delle maggiori, o
attraverso la chiusura tout court.
Un forte stimolo alla concentrazione venne con la rivalutazione della
lira a “quota novanta”, che spinse le aziende a razionalizzare gli impianti
produttivi ed insieme la struttura generale del settore. Nel dicembre 1927
i birrai italiani effettuarono, nel rispetto delle disposizioni governative,
un ribasso dei prezzi da un minimo di 5 lire ad un massimo di 15 lire per
ettolitro.
I principali gruppi birrari vennero ampiamente favoriti da tale stato di
cose, poiché poterono acquisire le aree di mercato esclusive delle aziende
minori, assorbendole, e realizzare così una crescita commerciale non
indifferente. Il tutto, comunque, in un quadro generale tendenzialmente
depresso, che ebbe il suo massimo picco negativo negli anni
immediatamente successivi alla crisi del „29, ma che nel complesso non
induceva all'ottimismo gli operatori del settore. Schiacciati da una parte
dal peso dell‟imposta di fabbricazione, che arrivava a incidere sul prezzo
del prodotto in misura superiore al 70 %, dall‟altra fortemente penalizzati
29
dal crollo dei consumi, molti birrai italiani furono costretti ad
interrompere l‟attività.
Il numero delle fabbriche operative sul territorio nazionale passò,
come abbiamo visto, da 62 nel 1929 a 38 nel 1933/1934. Solo nella
seconda metà del decennio l‟orizzonte accennerà a schiarirsi, per il
convergere di fattori interni al settore birrario e di fattori dipendenti dal
generale contesto economico nazionale ed internazionale.
Oltre che dall‟aumento dei consumi, la ripresa del settore venne
facilitata dall‟ingrossarsi della corrente di esportazione verso l‟Africa
Orientale Italiana, che a partire dal 1935 registrò valori considerevoli.
Tabella 6: importazione ed esportazione di birra dal 1920 al 1940 (in
ettolitri).
Anno solare Importazione Esportazione
1920 31.940 6.164
1921 33.774 11.170
1922 15.056 10.098
1923 5.984 9.289
1924 4.100 13.124
1925 5.204 19.749
1926 4.888 21.437
1927 5.636 18.675
1928 13.373 14.762
30
1929 24.643 14.365
1930 30.272 17.634
1931 26.211 18.522
1932 19.202 18.216
1933 15.256 17.718
1934 13.133 18.025
1935 12.073 59.312
1936 8.217 208.950
1937 7.610 184.224
1938 7.386 111.870
1939 7.115 159.530
1940 6.588 106.110
Fonte: statistiche dell'Unione italiana fabbricanti birra..
Il flusso delle importazioni, che negli anni „20 aveva subito una
drastica contrazione, negli anni della crisi assunse invece dimensioni
allarmanti, se comparate al totale della produzione nazionale,
predisponendo i birrai italiani all‟accettazione della politica autarchica
del governo fascista. L‟adozione di quest‟ultima da una parte provocò
una sensibile diminuzione delle importazioni di prodotto finito e
dall‟altra funzionò da incentivo sulla via della “nazionalizzazione”
dell‟industria birraria italiana, avviata dal governo, con la collaborazione
31
delle aziende già negli anni „20, con l‟obiettivo principale di svincolare il
paese dalla dipendenza dall‟estero per la fornitura delle materie prime 19
.
I birrai si impegnarono su due direttrici: venne rafforzato l‟impegno
nella coltivazione di orzo distico in Italia, conseguendo risultati
incoraggianti, e venne dato impulso allo sviluppo dell‟industria maltaria
nazionale. Nel 1938 venne costituita una holding maltaria, denominata
Società anonima produzione e lavorazione dell‟orzo (SAPLO), il cui
capitale venne sottoscritto dalle principali aziende birrarie, con in testa la
Dreher, la Forst e la Birra Peroni. Il contingentamento delle materie
prime completò quella irregimentazione del settore già sancita sul piano
commerciale dai Patti di Rispetto della clientela.
Lo spirito consociativo, sorretto dalla politica industriale del governo e
della Confindustria, portò il gruppo delle società birrarie emergenti a
sottoscrivere una serie di iniziative atte a regolamentare l‟attività di
esportazione in Africa Orientale: nel 1936 fu fondata, sotto forma di
società per azioni, la Compagnia imperiale per la birra, seguita nel 1937
dalla Società anonima birra Africa orientale, ed infine dal Consorzio
esportatori birra in Africa orientale, nel 1939, che regolamentò le
spedizioni in base alle quote spettanti alle singole ditte consorziate 20
.
Dimentichi dei momenti più bui attraversati negli anni della crisi, i
birrai italiani godettero di quella fase di attivismo e dell‟entusiasmo
19
) Vedi Archivio storico della Confindustria, b. 23, “Malto e birra”, 1936-1942. 20
) Per le vicende qui narrate vedi gli anni 1936-1939 della rivista “Cerevisia”, l‟ex
“L‟industria della birra”, organo ufficiale del gruppo birrario. Per l‟attività consortile,
disciplinante sia l‟esportazione che la vendita in territorio nazionale, vedi Archivio
32
destato dalla ripresa dei consumi. La monografia pubblicata dall‟Istituto
centrale di statistica in contemporanea ai risultati del censimento
industriale del 1937, fece in tempo a registrare la ripresa del settore: i dati
in essa contenuti si riferiscono comunque ad un numero di unità
operative assai esiguo - quale era divenuto in seguito ai numerosi
“smobilizzi” degli anni precedenti - ed a risultati di esercizio inferiori alle
medie annuali del periodo precedente alla crisi del „29. Alcuni di essi
meritano di essere riportati, perché utili alla comprensione della struttura
del comparto e delle sue linee evolutive nel lungo periodo.
I due terzi delle imprese presenti sul territorio nazionale, che spesso
esercitavano attività quali la produzione di malto o di estratti di malto
congiunte alla fabbricazione della birra, erano costituiti da società in
accomandita e società anonime e corrispondevano ai tre quarti dell‟intera
produzione nazionale. Su 42 ditte, ben 36 avevano un solo stabilimento
di produzione, 4 ne avevano 2, una ne aveva tre e una sola ne aveva
quattro. Inoltre, solo uno stabilimento raggiungeva i 100.000 ettolitri di
birra e 7 superavano i 20.000, rappresentando più del 65 % della intera
produzione nazionale.
Riguardo alla distribuzione territoriale, permaneva lo squilibrio tra le
regioni settentrionali e quelle centromeridionali, che insieme alle isole
ospitavano una dozzina di unità operative.
Il valore aggiunto ammontava a £ 49.986.087, ossia al 194 % del
valore delle materie prime e ausiliarie impiegate; esso costituiva il 66%
storico della Confindustria, b. 90, sff. 1-2, “Consorzi”, 1937-1939; Ivi, b. 88, f. 1, sf. 20,
“Cassa di conguaglio dell‟esportazione della birra”, 1938-1940.
33
del valore della produzione ed era rappresentato per il 21,3% dai salari
21.
Seppure il confronto con i dati del censimento industriale del 1903
evidenziasse una produzione nazionale quasi triplicata, una potenza dei
motori primari quasi sestuplicata ed una potenza elettrica quintuplicata, il
livello del consumo e della produzione era rimasto assai al di sotto delle
aspettative degli operatori del settore: fortemente penalizzata
dall‟abbassamento del potere d‟acquisto della popolazione e dal crollo
dei consumi verificatosi nella prima metà degli anni „30 - fenomeni che
non mancarono di danneggiare pesantemente altri consumi alimentari,
come quello dei prodotti vinicoli22
- l‟industria birraria italiana,
produttrice di un bene considerato ancora voluttuario, aveva mostrato,
una volta di più, la sua vulnerabilità.
III: dal secondo conflitto mondiale ad oggi (1940-1996)
Le conseguenze della ripresa dei consumi della seconda metà degli
anni „30 si fecero sentire per qualche tempo ancora, dopo l‟entrata
dell‟Italia in guerra. La domanda di birra rimase elevata fino a tutto il
1942, mentre nei mesi a seguire subì una drastica contrazione. Il settore
21
) Vedi Istituto centrale di statistica del Regno d‟Italia, Censimento industriale 1937.
Le industrie del malto, della birra e degli estratti di malto, Roma, Tipografia Failli,
1939, pp. 7-23. 22
) Sebbene il consumo di vino risentisse della congiuntura negativa post „29, esso non
registrò un crollo simile a quello verificatosi nel consumo di birra, assumendo invece un
andamento altalenante, con picchi negativi di 71,9 litri pro capite nel 1935 e improvvise
34
birrario cominciò tuttavia a soffrire della mancanza di materie prime e
dell‟aumento dei prezzi di quest‟ultime già verso la fine del 1941.
Gli utili delle aziende furono sostenuti ancora per il 1941 da una
maggiorazione del prezzo della birra concesso dalle autorità governative,
ma nel giro di qualche mese tali rimedi apparvero come puri palliativi ad
una crisi che si abbatté incondizionatamente su tutte le attività
economiche della nazione.
Ad aggravare una situazione già compromessa dalla deficienza delle
materie prime e dei materiali ausiliari alla produzione, giunsero la
difficoltà dei trasporti e l‟assottiglimento della manodopera, in gran parte
richiamata alle armi. Il rientro in patria del personale, in maggioranza
tecnico, di nazionalità tedesca e austriaca impiegato in posti chiave nelle
aziende italiane pose con urgenza il problema della formazione di tecnici
autoctoni, alla cui soluzione le aziende tesero con tempi e modi diversi
dagli anni „50 in avanti.
La mancanza di materie prime rese ben presto indispensabile il
contingentamento della birra, provocando una drastica contrazione dei
volumi prodotti. La produzione passo' cosi' dagli 897.379 ettolitri del
1941 ai 520.171 del 1942, per scendere a 223.686 ettolitri nel 1943. Dopo
quel picco negativo, grazie alle forniture di materie prime da parte delle
truppe alleate, la produzione riprese lievemente quota, pur essendo
esclusa fino a tutto il 1945 e buona parte del „46 la vendita ai civili.
impennate come quella del 1936, in cui il consumo pro capite risalì a 101,2 litri. Il
tempo dei 142 ,9 litri, raggiunti nel 1924, era comunque lontano.
35
La sorte degli impianti per la fabbricazione della birra durante gli anni
di guerra fu varia: alcuni stabilimenti riportarono danni ingenti durante i
bombardamenti alleati, altri furono saccheggiati dalle truppe tedesche,
altri ancora, come lo stabilimento romano della Wührer, non requisiti
dalle forze angloamericane, ripresero presto la fornitura alla popolazione
civile 23
. Solamente 4 fabbriche dovettero interrompere del tutto l‟attività
nell‟inverno „43-‟44, per riprenderla nell‟esercizio successivo.
Il numero delle fabbriche attive, che era di 32 nel 1940, conobbe un
lieve incremento nel dopoguerra, per poi calare nuovamente, a seguito
della irreversibile tendenza alla concentrazione industriale che la pausa
bellica ebbe l‟effetto di accelerare.
L‟interruzione delle ostilità non portò sollievo immediato alle attività
produttive. Il livello dei consumi si mantenne basso per tutto il „46
mentre l‟alto costo delle materie prime - contingentate ancora per tutto
il 1947 - riduceva al minimo i profitti delle aziende, i cui utili erano
anche compressi dai prezzi di vendita imposti dall‟amministrazione
alleata.
Con il ritorno alla normalità commerciale, le aziende birrarie si
trovarono di fronte al caos generato dalla rottura dei patti di rispetto
vigenti nell‟anteguerra: la loro inconciliabilità con un mercato moderno e
dinamico verrà lentamente alla luce nel corso degli anni „50, non
impedendo tuttavia il funzionamento di accordi per la regolamentazione
delle forniture per buona parte di quel decennio.
23
) Vedi Ufficio provinciale del commercio e dell‟industria, Relazione sull’andamento
economico della Provincia [di Roma], maggio-giugno 1946, p. 7.
36
La ripresa dei consumi, visibile dal 1947, fece poi emergere il
problema dell‟arretratezza tecnologica degli impianti per la fabbricazione
della birra: la loro obsolescenza gonfiava oltre misura i costi fissi ed
appesantiva ingiustificatamente l‟intera gestione societaria 24
. La capacità
innovativa delle aziende birrarie italiane dipese da un insieme di fattori
tra cui, non ultima, l‟abilità imprenditoriale delle famiglie proprietarie,
che in alcuni significativi casi seppero coniugare il rispetto e la
salvaguardia della tradizione con una moderna ed efficiente
intraprendenza.
La sorte indubbiamente poco felice che sarebbe spettata a molte di
esse, in tempi a noi recenti, può essere considerata da una parte il frutto
di fatali abbagli strategici, ma dall‟altra una conseguenza delle condizioni
di elevata competitività dettate dal mercato italiano, considerato uno dei
più ardui e difficili del mondo intero.
Quel mercato, che pure alla fine degli anni „40 dava segni di risveglio,
solo nel 1950 arrivò ad assorbire la stessa produzione di circa trenta anni
prima, 1.567.432 ettolitri, dimostrando in tutta la sua evidenza quanto
limitata fosse la ripresa dei consumi. Di fronte all‟entusiasmo dei
fabbricanti, il direttore della rivista di settore invitava ad andar cauti e,
cifre alla mano, dimostrava che tenendo conto dell‟aumento della
24
) Secondo la Confindustria, nel 1948 il grado di sfruttamento degli impianti di
fabbricazione della birra era pari al 50% circa della potenzialità produttiva; vedi
Confederazione generale dell‟industria italiana, L’industria italiana alla metà del secolo
XX, Roma, s.e., 1953, p. 1026.
37
popolazione, il consumo pro capite non era affatto aumentato, ma
presentava al contrario una preoccupante staticità 25
.
Sul prezzo di vendita, largamente responsabile del contenimento della
domanda, era naturale che i fabbricanti di birra tendessero a scaricare il
peso della tassa di fabbricazione, che nel 1948 era passata da 150 lire per
grado/ettolitro a ben 250 lire. La vulnerabilità dell‟industria birraria a
fattori quali l‟andamento climatico nella stagione estiva o l‟oscillazione
del prezzo delle materie prime - in forte aumento nella prima metà degli
anni „50 - rimaneva assai elevata, ritardando gli effetti della congiuntura
economica positiva.
Nel 1956, tuttavia, con una inversione di tendenza piuttosto repentina
ma che si stava preparando ormai da qualche anno, la produzione
nazionale ebbe un'impennata, che seppur ridimensionata l‟anno
successivo da un transitorio calo, segno‟ l‟avvio di una stagione di
eccezionale vitalità. Alla base di tale exploit vi erano i corposi
investimenti effettuati, all‟indomani della fine del conflitto mondiale, dai
principali gruppi birrari per il potenziamento della capacità produttiva
degli impianti 26
.
25
) Mario Baglia Bambergi, Festa in famiglia, “Birra e Malto”, 1955, n. 9, p. 19: Baglia
Bambergi rapportava i dati del 1923-1924, quando con una popolazione di 42 milioni ed
una produzione di 1.461.809 ettolitri, il consumo pro capite era stato di 3,5 litri, a quelli
del 1955, in cui il consumo pro capite era salito a 3,6 litri, con una popolazione di 47
milioni di abitanti ed una produzione nazionale di birra di 1.761.264 ettolitri. 26
) Per un quadro delle condizioni dell‟industria birraria italiana nel 1950 vedi
Confederazione generale dell‟industria italiana, L’industria italiana..., cit., pp.
1024-1027; dati sull‟andamento del settore sono anche negli Annuari della
Confindustria.
38
Nella tabella che segue osserviamo l‟andamento della produzione di
birra dall‟esercizio 1940/1941 a quello 1957/1958:
Tabella 7: numero delle aziende operative e produzione nazionale dal
1940 al 1958 (in ettolitri).
Esercizio
finanziario
Numero fabbriche Produzione
1940/1941 32 814.683
1941/1942 32 632.668
1942/1943 32 299.141
1943/1944 32 299.963
1944/1945 32 346.848
1945/1946 32 696.439
1946/1947 35 897.949
1947/1948 34 1.079.797
1948/1949 32 1.029.497
1949/1950 32 1.361.365
1950/1951 31 1.567.432
1951/1952 31 1.462.068
1952/1953 31 1.584.221
1953/1954 31 1.496.285
1954/1955 32 1.735.689
1955/1956 32 1.565.973
39
1956/1957 31 1.832.896
1957/1958 29 1.657.633
Fonte: statistiche dell'Unione italiana fabbricanti birra.
La stazionarietà del numero delle unità produttive operanti nel
territorio nazionale celava il fenomeno crescente delle acquisizioni e
delle fusioni societarie, che dal periodo prebellico aveva caratterizzato la
vita del settore, modificandone ampiamente la struttura. Tale fenomeno,
destinato ad assumere dimensioni ancora più evidenti nel corso degli anni
„60, disegnava una tendenza comune ad altri paesi europei ma accentuata
ed inasprita dalle condizioni specifiche del mercato birrario italiano 27
.
La particolarità italiana risiedeva, come sottolinearono i
contemporanei, nel fatto che la concentrazione non era concretamente
stimolata dalla crescita della domanda, come avveniva in altri paesi, ma
era invece il frutto di una deliberata scelta degli imprenditori 28
.
Il mercato, disturbato oltretutto da una importazione crescente di
prodotto finito dall‟estero, diveniva terreno di scontro di pochi e forti
gruppi birrari, facenti ancora capo alle antiche dinastie familiari 29
: la
27
)Vedi, per esempio, per l‟industria birraria britannica, Terry Gourvisch and Richard
Wilson, The British brewing industry 1830-1980, Cambridge, University Press 1994, in
particolare il capitolo Merger mania 1955-1980, pp. 447-497. 28
) Emilio Soria, A proposito di “un sasso nello stagno”, “Birra e Malto”, 1958, n. 5,
pp. 19-20. 29
) La proprietà e la presenza familiare nelle aziende birrarie italiane provocarono una
“assenza pressoché totale di gerarchie manageriali”, come scrive Andrea Colli nel suo
lavoro già citato. La ricostruzione della vicenda aziendale della Birra Peroni, tuttavia,
ha messo in luce la presenza di una significativa eccezione a quel paradigma: manager di
40
società Birra Peroni, leader nazionale, solidamente in mano alla famiglia,
aveva avviato sin dai primi anni „20 la pratica degli assorbimenti di
società di piccole e medie dimensioni, tramite la quale, in stretta
osservanza della logica fissata dai patti di rispetto della clientela, aveva
realizzato una continua crescita commerciale.
Sia la Birra Peroni, sia la famiglia Luciani, proprietaria del secondo
gruppo birrario dagli anni „30 in avanti, procedendo sulla via
dell‟assorbimento di aziende d‟importanza regionale, ne tenevano in vita
i relativi marchi. La sopravvivenza, fino ai nostri giorni, di marchi come
la Birra Raffo in provincia di Taranto, l‟Itala Pilsen nell‟area padovana,
la Birra Ichnusa nel cagliaritano o la Birra Messina nell‟omonima
provincia siciliana - strategicamente voluta dai gruppi proprietari per il
loro radicamento nel tessuto locale - può essere considerata una traccia
dell‟antica frammentazione localistica del mercato birrario italiano.
Tenendo conto dell‟arretratezza del sistema distributivo, basato ancora
totalmente sul vuoto a rendere, delle difficoltà e degli alti costi del
trasporto, e della necessità, almeno fino alla fine degli anni „50, di
associare la vendita del ghiaccio a quella della birra, la presenza sul
territorio, tramite unità produttive, impianti di imbottigliamento e
depositi concessionari, divenne obiettivo primario delle società birrarie
che miravano alla conquista o al mantenimento di un mercato
extra-regionale.
nazionalità italiana, spesso chiamati a svolgere importanti funzioni direttive oltre che
tecniche e tecnologiche, vennero sin dagli anni „20 ad affiancare i membri della famiglia
proprietaria.
41
Per meglio comprendere la distribuzione e la dimensione delle unità
produttive presenti sul territorio nazionale riportiamo di seguito i dati
riferiti al 1960:
Tabella 8: produzione di birra suddivisa per aziende nel 1960 (in
ettolitri).
Aziende Produzione Totali parziali
Peroni Adriatica S.p.A., Bari 104.012
Peroni S.p.A., Livorno 60.519
Peroni Meridionale S.p.A., Napoli 324.599
Peroni S.p.A., Roma 264.776
Peroni Piemontese S.p.A., Savigliano 4.324
Dormisch S.p.A., Udine 45.424 Gruppo Peroni
Hl. 803.654
Pedavena S.p.A, Belluno 121.200
Cervisia S.p.A., Genova 60.722
Bosio & Caratsch, Torino 34.429
Metzger S.p.A., Torino 75.363
Dreher S.p.A., Trieste 215.386 Gruppo Luciani
Hl. 507.100
42
Wuehrer Pietro S.p.A., Brescia 122.880
Wuehrer S.p.A., Casalecchio di Reno 29.080
Wuehrer S.p.A., Firenze 40.950
Wuehrer S.p.A., Roma 89.501 Totale Wuehrer
Hl 282.411
Itala Pilsen S.p.A., Padova (50% Peroni e
50% Luciani)
166.496
Poretti S.p.A., Induno Olona 163.793
Forst S.p.A., Merano 109.071
Vinalcool S.p.A., Cagliari 84.355
Messina S.p.A., Messina 78.755
Moretti Luigi, Udine 67.134
Compagnia Italo-Danese S.p.A., Catania 48.726
Italia S.p.A., Milano 39.996
Wuenster S.p.A., Bergamo 28.877
Raffo S.p.A., Taranto 28.657
Menabrea, Biella 9.259
Sempione S.p.A., Verbania 8.425
Aosta, Aosta 7.163
Parola, Borgo San Dalmazzo 3.039
Frazioni 13
43
Totale 2.485.957
Fonte: statistiche dell'Unione italiana fabbricanti birra.
Fu grazie agli investimenti effettuati dai principali gruppi birrari -
dietro alla Birra Peroni ed al gruppo Luciani si ponevano, all‟inizio degli
anni „60, la società Wührer, la Itala Pilsen di Padova, la Poretti di Varese
e la Forst di Merano - che l‟industria birraria italiana poté compiere tra la
fine degli anni ‟50 ed il decennio successivo, il salto qualitativo e di
potenzialità che la pose su livelli standard europei e d‟oltreoceano.
La partecipazione dei tecnici italiani alle riunioni dell‟European
brewery convention, la fondazione di una Associazione italiana dei
tecnici birrari e di una rivista di categoria di carattere prevalentemente
tecnico, misero le aziende italiane al passo dei partner europei in termini
di formazione ed aggiornamento professionale 30
. Dalla seconda metà
degli anni „50 vennero inoltre registrati importanti progressi nella
coltivazione dell‟orzo distico, avviata a livello sperimentale nel 1955 ma
capace, in seguito, di svincolare l‟Italia dall‟estero per il rifornimento di
tale cereale, con il conseguente alleggerimento dei costi di produzione.
L‟entrata in vigore della libera circolazione delle merci dopo la firma
del trattato di Roma e la creazione del Mercato comune europeo
30
) L‟E.B.C., fondata nel 1947, si riunisce da allora ogni due anni per illustrare e
confrontare i progressi scientifici ed applicativi compiuti in campo birrario. Per
l‟A.I.T.B. vedi il volumetto 1959-1989, Trent’anni dell’Associazione italiana dei
tecnici della birra e del malto, Brescia, AEB S.p.A., 1989.
44
funzionarono da ulteriori stimoli alla razionalizzazione ed all‟aumento di
competitività.
L‟ammodernamento tecnologico degli impianti e la vera e propria
rivoluzione dei modelli organizzativi proveniente dagli Stati Uniti
d‟America, seguita con entusiasmo da alcuni pionieri 31
, segnarono una
svolta epocale nel mondo birrario italiano, nel quale ormai il livello del
consumo pro capite rimaneva l‟unico parametro arretrato rispetto ad altre
realtà europee.
Nonostante la crescita dei consumi sostenesse gli investimenti ed
invogliasse a proseguire nella direzione intrapresa, ancora nel 1963
l‟Annuario della Confindustria segnalava che l'utilizzazione degli
impianti non superava il 75% delle potenzialità produttive. Il pericolo
rappresentato da un eccesso dell'offerta, per ora celato dalla crescita dei
consumi, rimaneva una costante spada di Damocle.
All'aumento delle quantità di birra importate dall‟estero, fenomeno
destinato ad assumere dimensioni allarmanti in tempi recenti,
corrispondeva quindi una diminuzione di capacità di assorbimento
dell‟offerta locale da parte dei consumatori.
Tabella 9: produzione, importazione ed esportazione, e disponibilità al
consumo dal 1961 al 1990 (in ettolitri).
31
) Tullio Zangrando, Cenni storici sullo sviluppo dell’industria birraria negli Stati
Uniti d’America, “Birra e Malto”, 1957, n. 3, pp. 29-33. Il primo impianto costruito nel
mondo dopo la fine della guerra fu lo stabilimento di Napoli della Birra Peroni, nel
quale furono adottate le nuove soluzioni logistiche ed organizzative di provenienza
americana.
45
Anno Produzione Importazione Esportazione Disponibilità
1961 3.081.018 102.216 14.927 3.168.307
1962 3.703.866 131.522 15.998 3.819.390
1963 3.753.284 164.378 15.828 3.901.834
1964 4.208.387 160.940 16.975 4.386.302
1965 4.558.340 166.837 24.818 4.700.359
1966 5.179.224 200.464 30.333 5.349.355
1967 5.544.700 208.559 30.739 5.722.520
1968 5.391.227 210.157 26.273 5.575.111
1969 5.750.221 237.166 32.069 5.955.318
1970 5.949.854 297.398 39.829 6.207.423
1971 6.286.158 330.688 48.256 6.568.590
1972 6.550.021 361.794 52.699 6.859.116
1973 8.629.380 449.355 44.011 9.034.724
1974 8.007.721 570.962 59.029 8.519.654
1975 6.464.911 651.605 50.258 7.066.258
1976 7.307.576 594.192 46.720 7.855.048
1977 7.300.860 545.293 55.723 7.790.430
1978 7.962.742 575.449 76.635 8.461.556
1979 8.899.423 833.758 92.001 9.641.180
1980 8.569.097 1.049.861 79.553 9.539.405
1981 9.021.851 1.188.342 84.525 10.125.668
1982 10.152.807 1.561.602 91.482 11.622.927
1983 10.114.752 1.760.653 69.546 11.805.859
1984 9.142.383 1.717.701 83.831 10.776.253
1985 10.317.536 2.169.619 71.497 12.415.658
1986 11.082.036 2.149.874 66.260 13.165.650
1987 11.121.727 2.162.846 73.742 13.210.831
46
1988 11.252.955 2.090.092 79.253 13.263.794
1989 10.383.045 2.057.889 95.408 12.345.526
1990 11.066.644 2.420.229 200.543 13.286.330
Fonte: statistiche dell'Associazione degli industriali della birra e del
malto.
Tabella 10: percentuale delle importazioni sulle quantità di birra
disponibili al consumo (in ettolitri).
Anno Disponibilità % Importazione
1961 3.168.307 3,23%
1962 3.819.390 3,44%
1963 3.901.834 4,21%
1964 4.386.302 3,70%
1965 4.700.359 3,55%
1966 5.349.355 3,75%
1967 5.722.520 3,64%
1968 5.575.111 3,77%
1969 5.955.318 3,98%
1970 6.207.423 4,79%
1971 6.568.590 5,03%
1972 6.859.116 5,27%
1973 9.034.724 5,97%
1974 8.519.654 6,70%
1975 7.066.258 9,22%
1976 7.855.048 7,56%
1977 7.790.430 7,00%
47
1978 8.461.556 6,80%
1979 9.641.180 8,65%
1980 9.539.405 11,01%
1981 10.125.668 11,74%
1982 11.622.927 13,44%
1983 11.805.859 14,91%
1984 10.776.253 15,94%
1985 12.415.658 17,47%
1986 13.165.650 16,33%
1987 13.210.831 16,37%
1988 13.263.794 15,76%
1989 12.345.526 16,67%
1990 13.286.330 18,22%
Fonte: ufficio marketing information S.p.A. Birra Peroni Industriale.
Se negli anni „60 la quantità di birra importata non aveva ancora
raggiunto dimensioni allarmanti, altri fattori vennero a complicare il
quadro con cui le aziende birrarie italiane furono chiamate a confrontarsi:
la frenata congiunturale del 1963 fece delineare nuovamente all‟orizzonte
il pericolo della sottoutilizzazione degli impianti. La crescita del settore
procedette allora più faticosamente, minacciata prima da una stagione di
combattività operaia che interessò anche il tranquillo settore birrario, e
poi da un incremento dei costi di produzione. Al lievitare dei costi
relativi alla manodopera ed alle materie prime, cui si aggiunse un
aumento dell‟imposta di fabbricazione, i birrai risposero nel 1970 con un
ritocco dei prezzi di listino.
48
Importanti trasformazioni in corso nella società italiana cominciarono
nel frattempo a ricadere sul mercato, obbligando le realtà industriali ad
un rapido adeguamento. La diffusione dei supermercati, inizialmente
circoscritta al nord della penisola ma poi estesasi anche alle regioni
centrali e meridionali, modifico‟ radicalmente la realtà distributiva e con
essa le logiche del mercato. La vendita da asporto venne ad assumere una
rilevanza via via crescente, a scapito del consumo effettuato in locali
pubblici, che un tempo assorbivano la quasi totalità del prodotto.
L‟avvento del vuoto a perdere, con i relativi costi per gli imprenditori,
richiese a questi ultimi, con tempi e modalità differenti, una profonda
revisione della propria organizzazione commerciale.
Trasformazioni di tale portata sconvolsero la realtà birraria italiana,
già altamente competitiva ed allo stesso tempo eccezionalmente
vulnerabile: si scatenò tra le società birrarie una guerra al raggiungimento
di elevati volumi di vendita. La lotta venne poi esacerbata dal crollo del
consumo verificatosi nel 1974, in concomitanza con la crisi petrolifera.
Prima di quella data, nel 1973, le vendite avevano subito una improvvisa
quanto illusoria impennata in seguito all‟arbitraria inclusione della birra
tra i generi di prima necessità. Il ritorno ai normali prezzi di listino,
congiunta alla incerta congiuntura politica ed economica in cui si trovò
l‟Italia fino alla fine degli anni „70, ebbero un effetto deprimente sui
consumi birrari, fortemente sensibili, come in passato, alle flessioni della
capacità di acquisto della popolazione.
Non appena il paese uscì, infatti, dalle difficoltà in cui si era trovato
per buona parte del decennio, il settore birrario ebbe una forte ripresa, a
49
conferma delle attese degli esperti, che avevano segnalato le potenzialità
di crescita del consumo di birra.
Tale crescita, tuttavia, si è sempre più tradotta, come dicevamo, in un
incremento delle quantità di prodotto importato dall‟estero, non
comportando, in misura rilevante come avrebbe potuto, quel balzo nella
produzione nazionale da lungo tempo atteso. Uno sguardo all‟andamento
della produzione nazionale negli ultimi vent‟anni circa conferma
l‟innegabile ma frenata crescita del settore (tabella 9).
I dati evidenziano, dopo la crescita dei primi anni „70, una brusca
frenata nel 1975, seguita da un calo e poi dal raggiungimento di una
nuova soglia produttiva negli anni 1979-1982. Gli anni successivi sono
invece caratterizzati da una tendenza alla stagnazione piuttosto
pronunciata.
In tale quadro, che già delinea una situazione assai difficile per le
poche unità produttive ormai esistenti - da 31 nel 1980, si è passati a 21
nel 1991 - è andata a giustapporsi la presenza sempre più incisiva di
società multinazionali, che similmente a quanto avvenuto in altri
comparti del settore alimentare e da ultimo in quello delle bevande
alcoliche, hanno svolto la parte del leone nel processo di concentrazione
in atto nel mercato e sono oggi proprietarie della gran parte dei marchi
italiani.
Poche eccezioni - la Birra Peroni, ancora in mano alla famiglia
originaria per oltre il 75% del pacchetto azionario, e la Forst-Menabrea,
sapientemente fedele alla difesa del proprio mercato locale ed allo stesso
tempo dinamica sull‟intero territorio nazionale, anche come punto di
50
riferimento di etichette di importazione - fronteggiano i giganti
internazionali Heineken, Interbrew, United Breweries32
, penetrati in parte
o totalmente nel capitale sociale delle antiche società birrarie italiane.
Quali ripercussioni, sul piano della capacità contrattuale e dei margini
retributivi, la presenza delle società multinazionali abbia avuto in un
mondo distributivo sempre più dominato dalle regole della grande
distribuzione è facile immaginare.
In seguito alle trasformazioni avvenute a partire dal 1975 - dopo la
frenata dei consumi - ed in misura crescente negli anni „80 e „90, il
mercato birrario italiano presentava, al termine del 1994, la seguente
conformazione:
Tabella 11: il mercato italiano nel 1994.
Società/Gruppo Vendite (1.000 Hl) Quota di mercato %
Birra Peroni 4.550 30,4
Dreher/Heineken 4.150 27,8
Interbrew/Labatt 1.370 9,2
Poretti/Carlsberg 1.270 8,5
Forst/Menabrea 680 4,5
Castelberg 290 1,9
32
) Nel 1995 la filiale italiana della società belga Interbrew è stata assorbita dalla
olandese Heineken, secondo gruppo birrario mondiale. Le United Breweries sono
proprietarie del 50% delle Industrie Poretti.
51
Import 2.648 17,7
Totale mercato 14.958 100,0%
Fonte: stima ufficio marketing information S.p.A. Birra Peroni
Industriale.
E‟ recente quello che difficilmente può essere considerato l‟ultimo
atto di un processo di concentrazione in corso, senza sosta, dall‟inizio del
secolo: l‟assorbimento della storica ditta Moretti di Udine, già da tempo
peraltro controllata dal gruppo canadese Labatt, da parte della olandese
Heineken, che ha visto così crescere di un 9,2 % la propria quota di
mercato conquistando il primato nel settore, ha mutato ancora una volta
le regole del gioco. A chi l‟ultima parola?