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1 Struttura ed evoluzione dell'industria italiana della birra (1860-1996) L‟industria italiana della birra è divenuta solo di recente oggetto di un interesse storiografico mirato a tracciarne le linee generali di evoluzione dalla nascita dello Stato nazionale ad oggi: il presente saggio può dunque considerarsi come un primo bilancio dell‟indagine fin qui svolta ed allo stesso tempo un punto di partenza per ulteriori, necessari, approfondimenti 1 . Studi svolti da personale addetto ai lavori, conosciuti in ambiti ristretti perché pubblicati in riviste di settore o perché tenuti al di fuori dei circuiti della distribuzione libraria, hanno dato le coordinate entro cui si è mossa la ricerca, fornendo un quadro dei temi polemici salienti 2 . La disattenzione, o meglio, l‟assoluto silenzio degli storici dell‟economia riguardo ad un settore come quello birrario trova spiegazione nella diffusa abitudine di considerare la birra come un prodotto estraneo alla cultura alimentare italiana e, come diretta Nelle note al presente saggio non si è deliberatamente fatto riferimento alle carte dell'archivio storico della Birra Peroni, trovandosi esso attualmente in corso di riordinamento. Per la redazione del volume: Daniela Brignone, Birra Peroni 1846-1996. 150 anni di birra nella vita italiana, Milano, Electa, 1995, le carte aziendali, provvisoriamente riordinate a fini di studio, sono state ampiamente consultate. 1 ) Si vedano il lavoro di Andrea Colli sull‟industria birraria in Lombardia e, dello stesso autore, il quaderno di ricerca n. 3 dell‟Istituto di storia economica dell‟Università Bocconi, dal titolo Per una storia del settore birrario italiano. Dalle origini alla seconda guerra mondiale, dicembre 1995. 2 ) Si vedano, a titolo esemplificativo, gli scritti di Pietro Wührer, Origini e storia della birra, Milano, Unione italiana fabbricanti birra, 1958; di A. Vanossi, Il freddo e l’industria della birra in Italia, estratto dagli “Atti del V congresso internazionale del freddo”, Roma 9-15 aprile 1930; Marcello Malgeri, L’industria della birra italiana e il

Struttura ed evoluzione dell'industria della birra in Italia (1860-1996), in “Rivista calabrese di storia contemporanea”, n. 2/1998

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Struttura ed evoluzione dell'industria italiana della birra (1860-1996)

L‟industria italiana della birra è divenuta solo di recente oggetto di un

interesse storiografico mirato a tracciarne le linee generali di evoluzione

dalla nascita dello Stato nazionale ad oggi: il presente saggio può dunque

considerarsi come un primo bilancio dell‟indagine fin qui svolta ed allo

stesso tempo un punto di partenza per ulteriori, necessari,

approfondimenti 1.

Studi svolti da personale addetto ai lavori, conosciuti in ambiti ristretti

perché pubblicati in riviste di settore o perché tenuti al di fuori dei

circuiti della distribuzione libraria, hanno dato le coordinate entro cui si è

mossa la ricerca, fornendo un quadro dei temi polemici salienti 2.

La disattenzione, o meglio, l‟assoluto silenzio degli storici

dell‟economia riguardo ad un settore come quello birrario trova

spiegazione nella diffusa abitudine di considerare la birra come un

prodotto estraneo alla cultura alimentare italiana e, come diretta

Nelle note al presente saggio non si è deliberatamente fatto riferimento alle carte

dell'archivio storico della Birra Peroni, trovandosi esso attualmente in corso di

riordinamento. Per la redazione del volume: Daniela Brignone, Birra Peroni 1846-1996.

150 anni di birra nella vita italiana, Milano, Electa, 1995, le carte aziendali,

provvisoriamente riordinate a fini di studio, sono state ampiamente consultate. 1) Si vedano il lavoro di Andrea Colli sull‟industria birraria in Lombardia e, dello stesso

autore, il quaderno di ricerca n. 3 dell‟Istituto di storia economica dell‟Università

Bocconi, dal titolo Per una storia del settore birrario italiano. Dalle origini alla

seconda guerra mondiale, dicembre 1995. 2) Si vedano, a titolo esemplificativo, gli scritti di Pietro Wührer, Origini e storia della

birra, Milano, Unione italiana fabbricanti birra, 1958; di A. Vanossi, Il freddo e

l’industria della birra in Italia, estratto dagli “Atti del V congresso internazionale del

freddo”, Roma 9-15 aprile 1930; Marcello Malgeri, L’industria della birra italiana e il

2

conseguenza, il relativo comparto produttivo come trascurabile nel

generale contesto dell‟economia nazionale. L‟analisi del ruolo svolto

dall‟industria birraria in tale quadro ha invece, a nostro parere, un

innegabile valore conoscitivo, che può, d‟altro canto, contribuire a

colmare un vuoto di ricerca storica riguardante l‟intero settore.

Pur avendo molti punti di contatto con l‟andamento evolutivo di altri

comparti, il settore birrario presenta aspetti peculiari, riconducibili alla

sua già accennata atipicità nel quadro economico italiano ma anche alla

specificità industriale del prodotto birrario. Su tali aspetti porremo la

nostra attenzione nelle pagine che seguono.

I: dagli Stati preunitari all’Italia unita, nascita e consolidamento

dell’industria birraria (1860-1914)

Nella prima metà del XIX secolo, in molte delle realtà statuali

preunitarie, furono emanate disposizioni normative riguardanti il regime

fiscale della fabbricazione della birra, resesi necessarie, evidentemente, in

seguito ad una certa diffusione di quella nuova attività produttiva: si

trattava, tuttavia, di una produzione priva di tradizione storica ed ancora

di tipo artigianale, sia per le limitate dimensioni di scala che per

l‟arretratezza della tecnologia e degli impianti utilizzati.

Concessioni di privative per la fabbricazione della birra rilasciate a

persone di nazionalità svizzera, austriaca e tedesca ma raramente di

provenienza indigena, tra la fine del „700 e l‟inizio del secolo successivo,

Mercato comune europeo, Milano 1960, “Birra e Malto”, 1960, n. 4; Gino Spaeth,

Quadro della birra italiana, “Birra e Malto”, 1987, n. 32.

3

lasciano pensare che prima di quella data la manifattura fosse sconosciuta

nella penisola italiana.

Dopo essere stata importata in Italia dal centro e dal nord dell‟Europa,

la fabbricazione della birra cominciò ad avere diffusione, in stretta

dipendenza dalla domanda dei consumatori, nei centri di turismo

internazionale e nei luoghi di stanziamento di truppe militari straniere. In

un paese di produzione e cultura vinicola come l‟Italia, solo l‟intervento

di elementi esogeni poteva, infatti, infrangere le abitudini del

consumatore e sprovincializzarne il gusto, consentendo ad una bevanda

allora considerata aliena come la birra l‟immissione sul mercato. Nelle

regioni settentrionali il settore conobbe uno sviluppo più significativo,

anche per via delle condizioni climatiche e geo-morfiche3, rispetto al

resto della penisola, ma nell‟insieme può dirsi che il grado di evoluzione

dell‟industria birraria alle soglie dell‟unificazione fosse assai modesto.

Nè, d‟altronde, il livello della produzione e del consumo subì

incrementi di rilievo nei primi decenni dell‟Italia unita, nei quali si

verificò, al contrario, una prima drastica riduzione nella quantità di birra

prodotta e nel numero delle unità produttive, spesso troppo deboli per

sostenere il regime di libera concorrenza subentrato alla protezione

doganale preunitaria. Alcuni dati relativi al consumo pro capite in alcuni

paesi europei e negli Stati Uniti attorno agli anni „70 dell‟800 faranno

3) Come la vicinanza alle valli alpine, che permetteva un facile reperimento del ghiaccio

necessario alla fabbricazione della birra a bassa fermentazione e alla sua conservazione,

oppure la presenza di cavità naturali naturalmente refrigerate, come i crotti di

Chiavenna, nell‟alta Lombardia.

4

comprendere a pieno la modestia del consumo italiano al confronto con

realtà di più radicata tradizione birraria 4:

Tabella 1: consumo pro capite in alcuni paesi europei e negli U.S.A. negli

anni '70 dell'800 (in litri).

Italia l. 0,5

Baviera l. 219

Francia l. 19

Olanda l. 37

Prussia l. 39,5

Austria l. 34

Gran Bretagna l. 139

Stati Uniti l. 26

Fonte: vedi nota 5.

La fabbricazione della birra ebbe una crescita disomogenea nelle

diverse regioni della penisola italiana, che venne così a contenere realtà

produttive assai differenziate. In alcune aree il numero delle unità

operative era elevato, ma la quantità di birra da esse prodotta si

4) La tabella è il frutto di una nostra rielaborazione dei dati contenuti in Luigi Figuier, Il

vino e la birra, Milano, Treves, 1882, p. 181; Enrico Raseri, Materiali per l’etnologia

italiana, “Annali di statistica”, serie 2°, vol. 8, 1879, pp. 91-96.

5

manteneva assai basso e la manodopera impiegata non superava le cinque

unità.

In zone in cui il consumo crebbe in misura relativamente più

accentuata, si assistè invece, ben presto, ad una contrazione del numero

delle fabbriche, che abbandonarono gli arcaici metodi produttivi per

affrontare un primo ammodernamento degli impianti.

L‟impatto con il regime di libera concorrenza, instaurato all‟indomani

del compimento dell‟unità italiana, fu traumatico per la maggior parte

delle fabbriche di birra e fatale per alcune di esse. Dell‟abolizione di ogni

residua protezione doganale si lamentarono i birrai italiani riuniti a

Bologna nel 1872, in occasione del primo congresso di categoria

organizzato su scala nazionale. Le tematiche messe a fuoco in quel

contesto ebbero una contemporanea esternazione nei questionari redatti

per l‟inchiesta industriale del 1870-1874: la categoria dei birrai chiamava

a gran voce su di sé l‟attenzione delle autorità governative, al fine di

indurle a proteggere gli interessi di un settore giovane ma, nell‟opinione

dei suoi operatori, meritevole di considerazione 5.

Il motivo primario di polemica risiedeva nell‟esosità ed incoerenza

dell‟imposizione fiscale sulla fabbricazione della birra: oltre a gravare il

fabbricante di un onere finanziario che non aveva pari nei paesi europei,

la tassa sulla produzione richiedeva, infatti, per la sua esazione, il

complicato calcolo dei cali naturali e delle dispersioni che si verificavano

5 ) Verbale delle deliberazioni prese nel congresso dei fabbricanti di birra in Italia

tenutosi in Bologna li 28 aprile 1872, Bologna, Società Tipografica dei Compositori,

6

nel corso della lavorazione. Attorno al cosiddetto abbuono d‟imposta,

ritenuto insufficiente dai birrai, si concentrò gran parte delle lamentele

rivolte alle autorità governative.

Pur vessatorio e catalizzante le attenzioni dei birrai, il carico fiscale

non esauriva le ragioni del loro malcontento: negli interventi al convegno

bolognese e nelle risposte ai questionari dell‟inchiesta industriale, i

fabbricanti di birra presentarono ufficialmente l‟insieme delle proprie

rimostranze. Trascurando gli aspetti meramente polemici, quel che

interessa è il quadro, che da quella presentazione scaturisce, dei caratteri

e della struttura dell‟industria birraria italiana, un quadro nella cui cornice

andrà a collocarsi di massima l‟evoluzione del settore negli anni

successivi.

Il dato che per primo emerge con evidenza è l‟alta concentrazione di

fabbriche nelle regioni dell‟Italia settentrionale: sulle 70 ditte che

risposero al questionario dell‟inchiesta industriale, cinquanta

provenivano da Lombardia, Piemonte, Veneto, Friuli e dall‟Emilia. Delle

altre, una dozzina si divideva tra Lazio, Marche e Toscana, lasciando alle

regioni meridionali e alle isole le rimanenti unità produttive. Questa

distribuzione regionale delle fabbriche di birra troverà conferma,

nonostante il variare del loro numero, nelle prime statistiche sull‟imposta

di fabbricazione, compilate dal Ministero delle finanze a partire dalla fine

degli anni „70 dell‟Ottocento.

1872; Atti del comitato dell’inchiesta industriale (1870-1874). Deposizioni scritte,

categoria 1§ 6, Birra, Roma, Stamperia Reale, 1873, pp. 3-42.

7

Una certa uniformità nei tipi di birra prodotti era riscontrabile

sull‟intera superficie nazionale: la birra “uso Vienna”, giallognola e poco

amara, e la birra “uso Monaco” o “uso Baviera”, contraddistinta dal

colore bruno e dal sapore dolciastro, entrambe prodotte con il metodo a

bassa fermentazione. Tale metodo, che si distingueva da quello ad alta

fermentazione per l‟uso di basse temperature, fu introdotto in Baviera

attorno al 1810-1820 ed ebbe rapida diffusione in Europa dopo essere

stato presentato ufficialmente all‟esposizione universale di Parigi del

1867.

Le birre uso Monaco e uso Vienna incontravano il gusto dei

consumatori italiani perché più adatte al clima mediterraneo rispetto alle

forti birre stout inglesi o alle corpose birre ad alta fermentazione e

maggiore gradazione alcolica, di provenienza germanica.

La nicchia di mercato che automaticamente veniva ad aprirsi in Italia

per il prodotto birrario, considerato “igienico” e dissetante, era quella

legata ad un consumo di tipo saltuario, confinato ai mesi estivi e, per

ragioni d‟alto prezzo, alle classi sociali più abbienti.

L‟estraneità della birra alla cultura alimentare italiana era legata ad un

altro fattore tutt‟altro che trascurabile: la provenienza dall‟estero delle

materie prime utilizzate per la sua fabbricazione. Sia l‟orzo distico, una

speciale qualità di orzo, che viene trasformato in malto tramite

germinazione e poi essiccazione, sia il luppolo, pianta rampicante dai cui

fiori è tratta la sostanza che conferisce alla bevanda il tipico sapore

amaro, venivano infatti importate nella loro totalità da paesi stranieri. Ciò

conferiva alla birra una reputazione scomoda, se chiamata a confrontarsi

8

con il vino, prodotto naturale italiano e bevanda nazionale per

antonomasia.

Oltre al fattore climatico, dunque, un insieme di altre condizioni

ponevano la birra tra i beni di consumo voluttuario, il che escludeva, in

teoria, un diretto antagonismo con il vino, a cui spettava in Italia la

soddisfazione di bisogni di altro genere. In pratica, però, nella mentalità

del consumatore ed in quella degli stessi operatori dei due settori,

scattava come un riflesso condizionato una sorta di competizione.

L‟evoluzione futura dei due rami industriali e dei consumi delle due

bevande, dimostrerà, al contrario, la loro reciproca autonomia.

Il consumo di vino, infatti, subirà un forte calo dal secondo

dopoguerra in avanti, in stretta dipendenza dall‟urbanizzazione e dalla

modifica dei modelli alimentari. Nello stesso periodo, come conseguenza

di una trasformazione del gusto, il consumo di birra conoscerà una

notevole impennata. I due fenomeni, per quanto riconducibili entrambi al

processo di trasformazione della società italiana, vanno tenuti separati

l‟uno dall‟altro, per non incorrere nel pericolo di interpretarli in un

rapporto di causa ed effetto.

Nell‟ultimo decennio del secolo scorso il numero delle fabbriche di

birra operative sul territorio nazionale subì una forte contrazione e la loro

produzione venne ad essere praticamente dimezzata: il fattore scatenante

di quella profonda e prevedibile crisi fu il raddoppio della tassa di

fabbricazione, introdotto con decreto catenaccio nel 1891. Il maggiore

carico fiscale mise infatti in ginocchio le manifatture più deboli, che già

trascinavano un‟esistenza precaria. Le fabbriche operative, che erano

9

arrivate ad essere oltre 140 nell‟esercizio finanziario 1889-1890, con una

produzione complessiva di 157.629 ettolitri, scesero a meno di 90, con un

prodotto totale che non raggiungeva i 100.000 ettolitri.

Per confrontare le ragioni del proprio malessere, i birrai italiani si

incontrarono nuovamente a Milano e a Torino, costituendosi in

associazione di categoria nel 1891. Tra di loro prendeva sempre maggior

piede l‟istanza protezionista, rinfocolata dall‟approvazione della tariffa

doganale del 1887, che lasciava ancora il prodotto italiano esposto alla

concorrenza, agguerrita ed in costante aumento, delle birre straniere. Tra

queste, particolare preoccupazione suscitavano le birre tedesche,

austro-ungariche e svizzere, favorite dalle tariffe d‟importazione

convenzionali stabilite dai trattati internazionali 6.

Il rimborso della tassa di fabbricazione per la birra esportata e

l‟esenzione dell‟orzo destinato alla fabbricazione della birra e del luppolo

dal dazio d‟entrata, pur salutate con soddisfazione dai birrai italiani, non

riuscirono a frenare la progressiva riduzione del numero delle unità

operative.

L‟andamento evolutivo dell‟industria birraria nel nuovo secolo

proseguì il processo selettivo inaugurato nel secolo precedente,

introducendo tuttavia elementi di novità che si risolsero nell‟emergere di

6 ) Archivio Banca d‟Italia, Fondo 37, Stringher Pers., B. 37, “Progetto di legge

Magliani. Revisione della tariffa doganale, 25 novembre 1882”, p. 2, pp. 43-44; Ivi, B.

40, “Commissione per il regime economico-doganale. Notizie illustrative e voti per

ciascuna categoria della tariffa doganale italiana. Categoria I, Spiriti, bevande e oli.”,

Roma 1903, pp. 149-152. Vedi anche Le birre all’esposizione generale italiana in

Torino 1884. Relazione di Giuseppe Amedeo Farinati degli Uberti, Torino, Stamperia

Reale Paravia, 1886.

10

alcune aziende leader e nell‟avvio di una significativa concentrazione

industriale7.

Tabella 2: fabbriche operative e produzione totale annuale dal 1879 al

1915 (in ettolitri).

Anno o esercizio Unità

operative

Produzione

1879 133 112.328

1880 132 116.216

1881 132 127.364

1882 130 131.254

1883 128 121.954

1884 129 130.270

1884-1885 131 144.189

1885-1886 135 167.833

1886-1887 - -

1887-1888 143 174.921

1888-1889 139 137.744

1889-1890 142 157.629

7 ) I dati dal 1879 all‟esercizio 1893-1894 sono tratti dalle statistiche delle tasse di

fabbricazione del Ministero delle finanze. Dal 1894-1895 riprendiamo, invece, i dati

riportati nella pubblicazione dell‟Unione italiana fabbricanti birra, L’industria della

birra in Italia e nel mondo. Notizie e dati statistici, Roma, Tipografica editrice romana,

1960, p. 42.

11

1890-1891 139 156.223

1891-1892 - -

1892-1893 120 99.198

1893-1894 119 93.855

1894-1895 114 95.497

1895-1896 * 114.873

1896-1897 * 106.940

1897-1898 * 109.488

1898-1899 * 132.696

1899-1900 99 145.024

1900-1901 95 163.495

1901-1902 95 162.188

1902-1903 95 176.406

1903-1904 95 217.188

1904-1905 95 219.572

1905-1906 95 304.633

1906-1907 95 359.921

1907-1908 95 447.493

1908-1909 95 547.802

1909-1910 90 567.186

1910-1911 86 598.315

1911-1912 86 721.456

1912-1913 81 672.907

1913-1914 82 652.275

12

1914-1915 75 525.601

* Si preferisce non riportare le stime relative alle unità operative, presenti nella

pubblicazione da cui sono tratti i presenti dati, perché troppo discostanti dalla linea

evolutiva degli anni precedenti.

Fonte: statistiche del Ministero delle finanze sull'imposta di

fabbricazione e statistiche dell'Unione italiana fabbricanti birra.

Le peculiarità della fabbricazione della birra divennero oggetto

d‟osservazione e di studio solo quando il comparto birrario venne ad

assumere una certa rilevanza nel quadro dell‟industria italiana,

abbandonando le dimensioni artigianali delle origini e dando vita a

moderne realtà aziendali. Il che avvenne appunto, con sostanziose

differenze regionali, a partire dai primi anni del Novecento.

Alle specificità industriali della fabbricazione della birra - la necessità

di forti immobilizzi iniziali e di frequenti aggiornamenti tecnologici degli

impianti, utili al raggiungimento di un livello qualitativo standard del

prodotto ma anche all‟abbassamento dei costi di produzione - si

sommavano quelle legate alla stagionalità del consumo, fenomeno tipico

italiano, che dal mercato ricadeva su tutti gli aspetti dell‟attività

industriale.

Per soddisfare le richieste estive del mercato, le aziende birrarie

dovevano rifornirsi per tempo delle materie prime e dei materiali per il

confezionamento: tali forniture, effettuate nei mesi invernali, esponevano

i fabbricanti a problemi di liquidità, da fronteggiare con la contrazione di

13

debiti proporzionali ai volumi trattati. L‟esposizione bancaria, e dunque il

carico di oneri passivi, veniva poi aggravata dal pagamento della tassa di

fabbricazione con un anticipo di circa tre mesi rispetto alla vendita del

prodotto finito.

Calibrando la quantità di manodopera, la capacità produttiva ed i

mezzi di trasporto sui picchi della domanda estiva, si dovevano lasciare

gli impianti in parte inutilizzati durante i mesi di minor consumo.

L‟ammontare complessivo delle quote di interesse e di ammortamento,

per il capitale fisso e quello circolante, veniva calcolato per le fabbriche

italiane nella misura di £ 10,26 per ettolitro, contro le £4,32 per ettolitro

gravanti sulle fabbriche tedesche 8.

I pesanti immobilizzi di capitale - gli impianti per la fabbricazione

della birra provenivano nella quasi totalità dall‟estero - non erano

ammortizzabili su dodici mesi e costringevano ad elevare il prezzo del

prodotto sul mercato, con la conseguenza di circoscrivere il consumo alle

classi sociali più abbienti 9.

Tranne poche ma significative eccezioni, le aziende birrarie soffrivano

di cicliche crisi di sovradimensionamento degli impianti e dei danni

provocati da eccessivi tempi di stoccaggio. Il circolo vizioso in cui

l‟industria birraria si dibatteva non lasciava, al momento, via d‟uscita:

8 ) I dati si riferiscono all‟anno finanziario 1910-1911 e sono tratti dall‟opuscolo a cura

dell‟Unione italiana fabbricanti birra, L’industria italiana della birra in rapporto alla

tariffa doganale ed ai trattati di commercio, Milano, La Stampa commerciale, 1922, p.

7. 9 ) Archivio Banca d‟Italia, Fondo 37, Stringher Pers., B. 42, “Commissione reale per

lo studio del regime doganale e dei trattati di commercio, Industrie manifatturiere e

14

nonostante le statistiche sulla produzione nazionale registrassero, in

concomitanza con l‟innalzamento del reddito nazionale e dei consumi

privati avutasi dal 1900 in poi, un costante incremento, i motivi di

malessere rimanevano invariati.

Ciò che suscitava la crescente preoccupazione dei birrai italiani era poi

l‟aumento della percentuale di birra importata. Il crescente consumo di

birra straniera, il cui ingresso in Italia era favorito dal trattamento

doganale e dalle tariffe di trasporto, trovava spiegazione - secondo i

produttori - nella diffusa esterofilia dei consumatori italiani in materia

birraria: il prezzo lievemente più elevato, lungi da impedirne il consumo,

sostanziava psicologicamente la maggiore qualità del prodotto forestiero.

Tabella 3: importazione ed esportazione di birra dal 1898 al 1915 (in

ettolitri).

Anno solare Importazione Esportazione

1890 42.981 65

1898 46.920 -

1899 48.028 -

1900 50.738 -

1901 59.171 -

1902 63.855 -

1903 68.545 -

minerarie. Birra Acque gassose Ghiaccio, risposte ai questionari”, Roma 1913-1914, pp.

12-13.

15

1904 78.882 -

1905 89.376 234

1906 98.044 -

1907 98.623 -

1908 91.454 -

1909 92.502 -

1910 85.934 2.972

1911 93.963 3.028

1912 94.551 4.831

1913 86.317 5.558

1914 61.724 6.368

1915 21.382 11.811

Fonte: statistiche dell'Unione italiana fabbricanti birra.

Come si nota, a fronte di un visibile incremento annuo degli ettolitri

importati, vi era una quantità irrisoria di birra destinata all‟esportazione.

La scarsa competitività del prezzo della birra italiana sui mercati

stranieri, gli alti costi di trasporto, le dispersioni durante il viaggio, il

ritardo nella restituzione della tassa di fabbricazione, allontanavano le

aziende birrarie da propositi di maggiori investimenti in quella direzione.

Il mercato interno diveniva, di conseguenza, il terreno unico dello

scontro di una moltitudine di aziende di dimensioni assai diversificate,

ma accomunate dalla percezione della propria vulnerabilità, in un

mercato altamente concorrenziale.

16

La difesa del segmento di mercato locale di diretto dominio, della

propria area di influenza, fu la risposta di ogni fabbrica alle condizioni

dettate dal mercato. L‟arretratezza della rete distributiva sostenne la

reazione localistica dei birrai italiani, i quali, infatti, per i maggiori

margini assicurati dalla vendita diretta rispetto a quelli realizzati tramite i

depositari, prediligevano lo smercio nella città sede di fabbrica. Nei

centri urbani si diffuse l‟uso di vendere la birra presso lo stabilimento di

produzione, mentre le aziende più intraprendenti si dotarono di “spacci”

propri.

La vendita della birra associata a quella del ghiaccio, bene altamente

deperibile, che vincolava le aziende ad un raggio d‟azione assai ridotto,

congiunta agli elevati costi di trasporto e alle frequenti rotture del

materiale di confezionamento, specialmente le bottiglie - di cui si andava

diffondendo l‟uso, in sostituzione dei fusti, per assecondare la domanda

del consumatore - motivavano l‟arroccamento dei birrai nella difesa dei

propri feudi industriali e commerciali.

La tentazione di bloccare il mercato tramite accordi per la spartizione

delle aree di influenza prese i birrai italiani già nel periodo precedente la

prima guerra mondiale: le trattative, però, svoltesi principalmente tra i

fabbricanti settentrionali, daranno esiti compiuti solo nel corso degli anni

„20, in una cornice politica ed economica più consona alla loro

maturazione. Per il momento, esse condussero alla realizzazione di

generiche convenzioni sulle condizioni di vendita e sui prezzi.

Alcune trasformazioni interessarono, nel frattempo, la distribuzione

geografica della produzione, con l‟emergere di una azienda romana in

17

posizione leader, nei primi anni „10. Avvantaggiata dalla mancanza di

diretti concorrenti nel mercato centro-meridionale, la società Birra Peroni

compì un salto di capacità produttiva che la portò al primo posto nella

graduatoria delle aziende italiane. La Birra Poretti di Induno Olona, in

provincia di Varese, che aveva fino ad allora detenuto la leadership,

retrocesse così al secondo posto, penalizzata dalla concorrenza di aziende

di media grandezza, operanti anch‟esse in territorio ligure, lombardo e

piemontese.

La crescita dimensionale delle unità produttive localizzate nelle

regioni centromeridionali della penisola procedeva assai più velocemente

che nelle regioni settentrionali, dove la maggiore frammentazione del

mercato lasciava coesistere, accanto ad aziende di media grandezza,

piccole realtà produttive radicate nel tessuto economico locale 10

.

Tabella 4: produzione suddivisa per azienda nell‟esercizio 1913-1914 (in

ettolitri).

Aziende Produzione

Peroni, Roma 67.653

Poretti, Varese 53.671

Birra Italia, Milano 32.255

Birrerie Meridionali, Napoli 27.814

Cervisia, Genova 24.543

10

) In merito vedi Andrea Colli, Per una storia del settore birrario italiano, cit., p. 32.

18

Pedavena, Feltre 21.786

Wuehrer, Brescia 21.530

Dormisch, Udine 21.543

Metzger, Torino 17.806

Paszkowski, Firenze 16.969

Moretti Luigi, Udine 14.926

Cappellari (poi Itala Pilsen), Padova 14.276

Spluga, Chiavenna 13.619

Ronzani, Bologna 12.921

Bosio & Caratsch, Torino 11.205

Menabrea e figli, Biella 9.862

De Giacomi, Livorno 6.523

Orobia, Bergamo 5.082

Aosta, Aosta 2.835

Birra Roma, Roma 2.604

Summano Zanella, Rocchette 2.557

Stringa, Voghera 1.743

Faramia Francesco, Savigliano 1.307

Parola, Borgo S. Dalmazzo 885

fabbriche minori, cessate e frazioni 246.544

Totale 652.275

NOTA: le fabbriche Dreher e Forst, rispettivamente di Trieste e Merano, già in territorio

austriaco, entreranno nella statistica italiana solo nell‟esercizio 1923-1924.

19

Fonte: statistiche del Ministero delle finanze sull'imposta di

fabbricazione.

La presenza dominante di alcune aziende birrarie impose un correttivo

alla situazione in cui si era trovato il settore fino ad allora: il salto verso

un mercato extraregionale, compiuto dalle fabbriche più grandi, negli

anni di poco precedenti la guerra, ebbe due effetti, connessi tra di loro.

Da una parte, provocò la crisi di molte delle società minori che, incapaci

di resistere alla concorrenza di prodotti di migliore qualità offerti a prezzi

competitivi, chiusero i battenti; dall‟altra, innescò una spirale di

assorbimenti e di acquisizioni delle aziende in crisi e dei relativi marchi,

di importanza regionale, da parte delle fabbriche maggiori, la cui crescita

si realizzò dunque nell‟ambito di una sostenuta concentrazione

industriale 11

.

Lo scopo perseguito dalle aziende, indipendentemente dalle

dimensioni, in tale stato di cose, era la libertà di manovra commerciale

che una condizione di semimonopolio, coniugata ad una sapiente

gestione del bene societario, avrebbe concesso loro. Il mantenimento di

quella posizione di privilegio sarà il segreto della sopravvivenza di

alcune fabbriche minori.

Durante il fascismo la spartizione del mercato avrà una consacrazione

ufficiale con i Patti di rispetto della clientela, una soluzione consona ai

11

) Nel 1914, alle soglie del conflitto, il 45% circa della produzione nazionale di birra

era prodotto dalle 11 principali aziende birrarie italiane, tutte società per azioni di cui tre

20

principi di politica economica governativa che ben si sposerà con i

caratteri storici dell‟industria birraria italiana.

II: Guerra mondiale e fascismo (1914-1940)

Gli anni del conflitto bellico misero a dura prova la debole industria

birraria nazionale, che dalle 82 fabbriche attive nell‟esercizio 1913-1914

passò a 46 nell‟esercizio 1918-1919. La paralisi dei trasporti, la

deficienza delle materie prime, il calo dei consumi incisero in maniera

profonda sul settore birrario, accelerando il processo selettivo in atto

dall‟inizio del secolo.

Le difficoltà cui soccombettero molte strutture industriali minori

innescarono tuttavia un processo che nel breve periodo portò ad un

rafforzamento del settore: da una parte, la selezione tenne in vita gli

organismi più vitali e competitivi, vivacizzando le condizioni generali del

mercato; dall‟altra, rinfocolando l‟orgoglio di categoria, cementò un

rapporto di solidarietà tra i birrai, i quali, compatti sul fronte interno, si

concentrarono sulla soluzione di problemi comuni.

Il primo terreno di prova del nuovo spirito collaborativo fu quello del

reperimento delle materie prime necessarie al funzionamento

dell'industria: interrotto il rifornimento di orzo da parte di Austria e

Germania, le aziende da una parte ricorsero all‟importazione di malto

inglese, americano e danese, dall‟altra si consorziarono per dar vita a

stabilimenti di maltazione dell‟orzo. Nel frattempo, presso l‟Unione

- la Birra Milano, la Birra Busalla di Genova e la Birra Paszkowski di Firenze - quotate

in borsa.

21

italiana fabbricanti birra, venne costituito un Consorzio per gli

approvvigionamenti delle materie prime, incaricato di regolare la

distribuzione di orzo greggio alle fabbriche dotate di una propria malteria

e di orzo già maltato alle fabbriche che ne erano sprovviste, in base alla

loro produzione 12

.

Un certo impulso venne dato alla coltivazione dell‟orzo distico in

Italia, nell‟obiettivo, raggiunto molti anni più tardi, di rendere autonoma

l‟industria per quanto riguardava le materie prime. Con veemenza i birrai

protestarono contro le autorità governative, accusate di sostenere a parole

lo sviluppo dell‟industria birraria e maltaria, mentre nei fatti nessun

argine veniva posto dalle tariffe doganali all‟importazione di malto

dall‟estero.

La solidarietà della “famiglia dei birrai” non riuscì tuttavia a porre

argine ad uno spropositato aggravio dei costi di produzione, solo

parzialmente compensato dal ricarico sul prezzo di vendita.

L‟abbassamento della capacità d‟acquisto della popolazione limitava

infatti al minimo la possibilità di manovra rispetto a quest‟ultima

variabile.

L‟uso di succedanei quali castagne, saggina, fichi, in percentuali

consentite dalla legge, la fornitura alle truppe militari - per ora limitata

ma destinata a ben altro sviluppo nel corso del secondo conflitto

mondiale - l‟avvio di un timido flusso di esportazioni, facilitato dal

12

) Paolo Polli, Come il Governo aiuta le nuove industrie d’Italia, “Il Giornale del

Commercio”, 2 marzo 1919; Paolo Polli, Le fabbriche italiane di birra e il problema del

malto, “Il Giornale del Commercio”, 19 marzo 1919.

22

blocco delle importazioni da parte degli imperi centrali, furono i

principali motivi della sopravvivenza delle fabbriche di birra italiane nel

corso della Grande Guerra.

Nel 1917, tuttavia, il precipitare delle condizioni sociali ed

economiche, aggravate dalle difficoltà al fronte e dalla crisi politica

interna, trascinò con sè le strutture industriali più deboli: afflitti dalla

mancanza di materie prime, dall‟incontrollata crescita dei costi, dal crollo

verticale della domanda, molti impianti interruppero la fabbricazione, per

riprenderla al termine delle ostilità.

La firma dei trattati di pace non si tradusse in un immediato

miglioramento delle condizioni generali del paese: le materie prime

continuavano a scarseggiare e l‟ascesa dei prezzi non conosceva sosta. La

birra fu inserita nel 1919 tra i beni di prima necessità sottoposti a

calmiere13

. Nel frattempo, la protesta sociale arrivò ad interessare il

comparto birrario, fino ad allora caratterizzato da una scarsa combattività

operaia.

Nonostante il quadro complessivo non inducesse all‟ottimismo, molte

delle fabbriche di birra che avevano chiuso i battenti in tempo di guerra

ripresero la fabbricazione: il numero delle unità produttive risalì

rapidamente, recuperando la posizione anteguerra già all‟inizio degli anni

‟20.

La modifica della tariffa doganale, nel 1921, pur lasciando ancora una

volta insoddisfatta la categoria dei birrai, innalzò le barriere difensive

13

) Il calmiere fu istituito con D. R. 13 luglio 1919 n. 1146.

23

contro l‟importazione delle birre estere, che difatti subì un certo

ridimensionamento. La revisione delle tariffe doganali comportò,

tuttavia, una maggiorazione del dazio sull‟orzo tallito ossia germogliato,

che avrebbe funzionato, in seguito, da stimolo alla coltivazione interna,

ma che per il momento si tradusse in un aggravio di spesa per i

fabbricanti.

In tale quadro che, tra mille difficoltà, tendeva a schiarirsi, cominciò

d'altra parte a profilarsi il pericolo di una crisi di sovrapproduzione,

specialmente nelle regioni settentrionali della penisola, dove evidente era

lo squilibrio tra l‟elevata concentrazione di fabbriche - e la relativa

offerta - e la contenuta domanda dei consumatori 14

. Questa conobbe una

breve fase di espansione nella prima metà degli anni „20, per poi flettersi

nuovamente, dimostrando la vulnerabilità di un settore, quello birrario,

produttore di beni di consumo elitario, con uno scarso radicamento nelle

abitudini alimentari degli italiani.

A ciò si aggiunse il decreto antialcolico del settembre 1923, che

ridusse il numero delle licenze dei pubblici esercizi, al fine di porre un

limite al consumo degli alcolici: la stretta proibizionista colpiva

indifferentemente la birra, il vino ed i superalcolici, senza tener conto

della diversa gradazione delle tre categorie. All‟evidente nonsenso venne

posto rimedio nel febbraio 1926, quando si decise di correggere la

normativa, lasciando il limite di un esercizio ogni 1.000 abitanti solo per

14

) Vedi Riccardo Bachi, L’Italia economica nell’anno 1921, Città di Castello, s.e.,

1922, p. 215.

24

gli alcolici di gradazione superiore ai 4° e mezzo 15

. La nuova

disposizione, che equiparava il fenomeno dell‟alcolismo a quello del

“vinismo”, ossia il consumo smodato e patologico di vino a quello

moderato e intelligente, dava soddisfazione ai fabbricanti di birra e alle

loro battaglie istituzionali e di opinione pubblica.

Una campagna di informazione sulle proprietà nutritive della birra e

sulla sua non nocività per la salute accompagnò la lotta condotta dai

birrai a livello istituzionale. Il medesimo scopo educativo venne

perseguito con la prima campagna pubblicitaria collettiva organizzata dai

produttori italiani di birra sul finire degli anni „20 e l‟inizio del decennio

successivo.

Le campagne informative degli anni „20 e „30, miranti ad allargare

l'area dei consumatori di birra ed allo stesso tempo a favorire una

familiarizzazione con il prodotto, invitando ad una diversificazione e

moltiplicazione delle occasioni di consumo, certamente contribuirono

alla maggior diffusione della bevanda. Tuttavia, con il calo verticale del

potere d‟acquisto delle classi sociali meno abbienti, il consumo di birra

subì una drastica contrazione, già evidente nella seconda metà degli anni

„20 ed accentuata in seguito alla crisi del „29 16

. La disponibilità di birra

passò dai 3,5 litri pro capite del 1922 ai 3,8 del 1924, per scendere a 2,2

litri nel 1930 e poi toccare il picco negativo di 0,8 litri nel 1936.

15

) I fabbricanti di birra e il decreto contro l’alcolismo, “La Sera”, 30 ottobre 1923; La

propaganda contro l’alcolismo. Una discussione movimentata, “Il Sole”, 31 ottobre

1923.

25

I dati sulla produzione nazionale ed il numero delle fabbriche

operative dal 1921 al 1939 evidenziano l‟andamento evolutivo che si è

tentato di descrivere.

Tabella 5: numero delle aziende operative e produzione nazionale dal

1921 al 1940 (in ettolitri).

Esercizio

finanziario

Numero fabbriche Produzione

1921/1922 65 1.369.438

1922/1923 73 1.187.508

1923/1924 85 1.465.217

1924/1925 79 1.281.029

1925/1926 78 1.218.249

1926/1927 74 1.295.719

1927/1928 70 982.517

1929/1930 62 1. 127.300

1930/1931 50 902.189

1931/1932 44 672.323

1932/1933 40 433.089

1933/1934 38 422.254

1934/1935 38 372.368

16

) Vera Zamagni, La dinamica dei salari nel settore industriale, in L’economia

italiana nel periodo fascista, a cura di Pierluigi Ciocca e Gianni Toniolo, Bologna, Il

Mulino, 1976, p. 331 e 339.

26

1935/1936 38 289.046

1936/1937 38 497.452

1937/1938 38 576.900

1938/1939 35 612.669

1939/1940 35 708.700

Fonte: statistiche dell'Unione italiana fabbricanti birra.

La crisi dei consumi accelerò il fenomeno della concentrazione

industriale del settore birrario, già in atto, come dicevamo, nel periodo

anteguerra: la razionalizzazione del mercato, con l‟eliminazione delle

strutture produttive meno vitali, fu d‟altro canto ampiamente sostenuta

dalla politica economica del governo fascista. Con la riorganizzazione

della struttura sindacale padronale, l‟avallo dato alla pratica degli accordi

per la divisione del mercato in aree di influenza esclusiva, il sostegno alla

politica consortile, esso appose un sigillo istituzionale alla trasformazione

in atto in molti settori produttivi e non ultimo in campo birrario.

In osservanza della legge del 3 aprile 1926 sulla disciplina giuridica

dei rapporti collettivi di lavoro, l‟associazione di categoria dei birrai, fino

ad allora autonoma, entrò a far parte della neocostituita Federazione

nazionale delle industrie delle acque gassate, della birra e del freddo, pur

mantenendo una rappresentanza indipendente, al pari degli altri due

gruppi industriali. La comunanza di obiettivi dei tre rami produttivi,

affini e spesso congiunti - anche per la necessità di far fronte alla

27

stagionalità dei proventi derivanti dalla commercializzazione della birra17

- doveva tradursi in una maggiore compattezza del fronte industriale nei

rapporti con le istituzioni e con tutti gli altri interlocutori. Diretto

corollario della nuova politica industriale fu la sigla di accordi

commerciali denominati Patti di rispetto, che prevedevano una

zonizzazione delle forniture in base all‟accertamento delle quote di

mercato delle singole ditte ad una determinata data, definita di

“bloccamento”18

.

La costituzione di gruppi interregionali di fabbriche di birra, suddivisi

per aree geografiche, ingessò il mercato in una rigida disciplina che

decretò la fine della libera scelta della marca da parte dei grossisti e dei

rivenditori al minuto. Questi ultimi, d‟altro canto, vedendo assottigliarsi i

propri margini di guadagno, iniziarono a rifarsi sul consumatore ultimo,

con sregolati aumenti dei prezzi.

Una levata di scudi della categoria dei commercianti, rappresentati

dalla propria confederazione generale, contro le pretese totalitarie degli

industriali, sortì gli effetti sperati: d‟accordo con la Confindustria venne

ripristinata una certa libertà di manovra degli esercenti, sotto gli aupici

17

) Considerazioni estere nei riguardi dell’industria birraria italiana, “L‟industria

della birra”, ottobre 1932, n.10, p. 16: la rivista di categoria riporta la traduzione di un

articolo apparso sulla tedesca “Allgemeine Breuer und Hopfen-Zeitung”, n. 183, del 6

agosto 1932. 18

) Federazione nazionale fascista delle industrie delle acque gassate, della birra e del

freddo, Gruppo nazionale industria della birra, Statuto dell’accordo tra fabbricanti di

birra Italia centrale-Sardegna, Roma, Tipografia delle terme, s.d.; Gruppo

lombardo-ligure-piemontese industria della birra, Statuto del “patto di rispetto”,

Milano, Tipografia Castiglioni, 1927; vedi anche Archivio storico Banca commerciale

italiana, Sofindit (SOF), cart. 67, fasc. 3.

28

delle autorità governative, interessate ad una composizione degli interessi

di entrambe le categorie.

Con la cristallizzazione delle posizioni commerciali delle fabbriche di

birra, vincolate dai Patti di rispetto, venne ad essere sottolineato quel

legame con il mercato locale che abbiamo visto essere tipico

dell‟industria birraria italiana. Contro tale tendenza alla stasi, ma solo in

apparente contraddizione con essa, si pose la volontà di procedere sulla

via della concentrazione industriale, che si realizzò attraverso

l‟assorbimento delle unità produttive minori da parte delle maggiori, o

attraverso la chiusura tout court.

Un forte stimolo alla concentrazione venne con la rivalutazione della

lira a “quota novanta”, che spinse le aziende a razionalizzare gli impianti

produttivi ed insieme la struttura generale del settore. Nel dicembre 1927

i birrai italiani effettuarono, nel rispetto delle disposizioni governative,

un ribasso dei prezzi da un minimo di 5 lire ad un massimo di 15 lire per

ettolitro.

I principali gruppi birrari vennero ampiamente favoriti da tale stato di

cose, poiché poterono acquisire le aree di mercato esclusive delle aziende

minori, assorbendole, e realizzare così una crescita commerciale non

indifferente. Il tutto, comunque, in un quadro generale tendenzialmente

depresso, che ebbe il suo massimo picco negativo negli anni

immediatamente successivi alla crisi del „29, ma che nel complesso non

induceva all'ottimismo gli operatori del settore. Schiacciati da una parte

dal peso dell‟imposta di fabbricazione, che arrivava a incidere sul prezzo

del prodotto in misura superiore al 70 %, dall‟altra fortemente penalizzati

29

dal crollo dei consumi, molti birrai italiani furono costretti ad

interrompere l‟attività.

Il numero delle fabbriche operative sul territorio nazionale passò,

come abbiamo visto, da 62 nel 1929 a 38 nel 1933/1934. Solo nella

seconda metà del decennio l‟orizzonte accennerà a schiarirsi, per il

convergere di fattori interni al settore birrario e di fattori dipendenti dal

generale contesto economico nazionale ed internazionale.

Oltre che dall‟aumento dei consumi, la ripresa del settore venne

facilitata dall‟ingrossarsi della corrente di esportazione verso l‟Africa

Orientale Italiana, che a partire dal 1935 registrò valori considerevoli.

Tabella 6: importazione ed esportazione di birra dal 1920 al 1940 (in

ettolitri).

Anno solare Importazione Esportazione

1920 31.940 6.164

1921 33.774 11.170

1922 15.056 10.098

1923 5.984 9.289

1924 4.100 13.124

1925 5.204 19.749

1926 4.888 21.437

1927 5.636 18.675

1928 13.373 14.762

30

1929 24.643 14.365

1930 30.272 17.634

1931 26.211 18.522

1932 19.202 18.216

1933 15.256 17.718

1934 13.133 18.025

1935 12.073 59.312

1936 8.217 208.950

1937 7.610 184.224

1938 7.386 111.870

1939 7.115 159.530

1940 6.588 106.110

Fonte: statistiche dell'Unione italiana fabbricanti birra..

Il flusso delle importazioni, che negli anni „20 aveva subito una

drastica contrazione, negli anni della crisi assunse invece dimensioni

allarmanti, se comparate al totale della produzione nazionale,

predisponendo i birrai italiani all‟accettazione della politica autarchica

del governo fascista. L‟adozione di quest‟ultima da una parte provocò

una sensibile diminuzione delle importazioni di prodotto finito e

dall‟altra funzionò da incentivo sulla via della “nazionalizzazione”

dell‟industria birraria italiana, avviata dal governo, con la collaborazione

31

delle aziende già negli anni „20, con l‟obiettivo principale di svincolare il

paese dalla dipendenza dall‟estero per la fornitura delle materie prime 19

.

I birrai si impegnarono su due direttrici: venne rafforzato l‟impegno

nella coltivazione di orzo distico in Italia, conseguendo risultati

incoraggianti, e venne dato impulso allo sviluppo dell‟industria maltaria

nazionale. Nel 1938 venne costituita una holding maltaria, denominata

Società anonima produzione e lavorazione dell‟orzo (SAPLO), il cui

capitale venne sottoscritto dalle principali aziende birrarie, con in testa la

Dreher, la Forst e la Birra Peroni. Il contingentamento delle materie

prime completò quella irregimentazione del settore già sancita sul piano

commerciale dai Patti di Rispetto della clientela.

Lo spirito consociativo, sorretto dalla politica industriale del governo e

della Confindustria, portò il gruppo delle società birrarie emergenti a

sottoscrivere una serie di iniziative atte a regolamentare l‟attività di

esportazione in Africa Orientale: nel 1936 fu fondata, sotto forma di

società per azioni, la Compagnia imperiale per la birra, seguita nel 1937

dalla Società anonima birra Africa orientale, ed infine dal Consorzio

esportatori birra in Africa orientale, nel 1939, che regolamentò le

spedizioni in base alle quote spettanti alle singole ditte consorziate 20

.

Dimentichi dei momenti più bui attraversati negli anni della crisi, i

birrai italiani godettero di quella fase di attivismo e dell‟entusiasmo

19

) Vedi Archivio storico della Confindustria, b. 23, “Malto e birra”, 1936-1942. 20

) Per le vicende qui narrate vedi gli anni 1936-1939 della rivista “Cerevisia”, l‟ex

“L‟industria della birra”, organo ufficiale del gruppo birrario. Per l‟attività consortile,

disciplinante sia l‟esportazione che la vendita in territorio nazionale, vedi Archivio

32

destato dalla ripresa dei consumi. La monografia pubblicata dall‟Istituto

centrale di statistica in contemporanea ai risultati del censimento

industriale del 1937, fece in tempo a registrare la ripresa del settore: i dati

in essa contenuti si riferiscono comunque ad un numero di unità

operative assai esiguo - quale era divenuto in seguito ai numerosi

“smobilizzi” degli anni precedenti - ed a risultati di esercizio inferiori alle

medie annuali del periodo precedente alla crisi del „29. Alcuni di essi

meritano di essere riportati, perché utili alla comprensione della struttura

del comparto e delle sue linee evolutive nel lungo periodo.

I due terzi delle imprese presenti sul territorio nazionale, che spesso

esercitavano attività quali la produzione di malto o di estratti di malto

congiunte alla fabbricazione della birra, erano costituiti da società in

accomandita e società anonime e corrispondevano ai tre quarti dell‟intera

produzione nazionale. Su 42 ditte, ben 36 avevano un solo stabilimento

di produzione, 4 ne avevano 2, una ne aveva tre e una sola ne aveva

quattro. Inoltre, solo uno stabilimento raggiungeva i 100.000 ettolitri di

birra e 7 superavano i 20.000, rappresentando più del 65 % della intera

produzione nazionale.

Riguardo alla distribuzione territoriale, permaneva lo squilibrio tra le

regioni settentrionali e quelle centromeridionali, che insieme alle isole

ospitavano una dozzina di unità operative.

Il valore aggiunto ammontava a £ 49.986.087, ossia al 194 % del

valore delle materie prime e ausiliarie impiegate; esso costituiva il 66%

storico della Confindustria, b. 90, sff. 1-2, “Consorzi”, 1937-1939; Ivi, b. 88, f. 1, sf. 20,

“Cassa di conguaglio dell‟esportazione della birra”, 1938-1940.

33

del valore della produzione ed era rappresentato per il 21,3% dai salari

21.

Seppure il confronto con i dati del censimento industriale del 1903

evidenziasse una produzione nazionale quasi triplicata, una potenza dei

motori primari quasi sestuplicata ed una potenza elettrica quintuplicata, il

livello del consumo e della produzione era rimasto assai al di sotto delle

aspettative degli operatori del settore: fortemente penalizzata

dall‟abbassamento del potere d‟acquisto della popolazione e dal crollo

dei consumi verificatosi nella prima metà degli anni „30 - fenomeni che

non mancarono di danneggiare pesantemente altri consumi alimentari,

come quello dei prodotti vinicoli22

- l‟industria birraria italiana,

produttrice di un bene considerato ancora voluttuario, aveva mostrato,

una volta di più, la sua vulnerabilità.

III: dal secondo conflitto mondiale ad oggi (1940-1996)

Le conseguenze della ripresa dei consumi della seconda metà degli

anni „30 si fecero sentire per qualche tempo ancora, dopo l‟entrata

dell‟Italia in guerra. La domanda di birra rimase elevata fino a tutto il

1942, mentre nei mesi a seguire subì una drastica contrazione. Il settore

21

) Vedi Istituto centrale di statistica del Regno d‟Italia, Censimento industriale 1937.

Le industrie del malto, della birra e degli estratti di malto, Roma, Tipografia Failli,

1939, pp. 7-23. 22

) Sebbene il consumo di vino risentisse della congiuntura negativa post „29, esso non

registrò un crollo simile a quello verificatosi nel consumo di birra, assumendo invece un

andamento altalenante, con picchi negativi di 71,9 litri pro capite nel 1935 e improvvise

34

birrario cominciò tuttavia a soffrire della mancanza di materie prime e

dell‟aumento dei prezzi di quest‟ultime già verso la fine del 1941.

Gli utili delle aziende furono sostenuti ancora per il 1941 da una

maggiorazione del prezzo della birra concesso dalle autorità governative,

ma nel giro di qualche mese tali rimedi apparvero come puri palliativi ad

una crisi che si abbatté incondizionatamente su tutte le attività

economiche della nazione.

Ad aggravare una situazione già compromessa dalla deficienza delle

materie prime e dei materiali ausiliari alla produzione, giunsero la

difficoltà dei trasporti e l‟assottiglimento della manodopera, in gran parte

richiamata alle armi. Il rientro in patria del personale, in maggioranza

tecnico, di nazionalità tedesca e austriaca impiegato in posti chiave nelle

aziende italiane pose con urgenza il problema della formazione di tecnici

autoctoni, alla cui soluzione le aziende tesero con tempi e modi diversi

dagli anni „50 in avanti.

La mancanza di materie prime rese ben presto indispensabile il

contingentamento della birra, provocando una drastica contrazione dei

volumi prodotti. La produzione passo' cosi' dagli 897.379 ettolitri del

1941 ai 520.171 del 1942, per scendere a 223.686 ettolitri nel 1943. Dopo

quel picco negativo, grazie alle forniture di materie prime da parte delle

truppe alleate, la produzione riprese lievemente quota, pur essendo

esclusa fino a tutto il 1945 e buona parte del „46 la vendita ai civili.

impennate come quella del 1936, in cui il consumo pro capite risalì a 101,2 litri. Il

tempo dei 142 ,9 litri, raggiunti nel 1924, era comunque lontano.

35

La sorte degli impianti per la fabbricazione della birra durante gli anni

di guerra fu varia: alcuni stabilimenti riportarono danni ingenti durante i

bombardamenti alleati, altri furono saccheggiati dalle truppe tedesche,

altri ancora, come lo stabilimento romano della Wührer, non requisiti

dalle forze angloamericane, ripresero presto la fornitura alla popolazione

civile 23

. Solamente 4 fabbriche dovettero interrompere del tutto l‟attività

nell‟inverno „43-‟44, per riprenderla nell‟esercizio successivo.

Il numero delle fabbriche attive, che era di 32 nel 1940, conobbe un

lieve incremento nel dopoguerra, per poi calare nuovamente, a seguito

della irreversibile tendenza alla concentrazione industriale che la pausa

bellica ebbe l‟effetto di accelerare.

L‟interruzione delle ostilità non portò sollievo immediato alle attività

produttive. Il livello dei consumi si mantenne basso per tutto il „46

mentre l‟alto costo delle materie prime - contingentate ancora per tutto

il 1947 - riduceva al minimo i profitti delle aziende, i cui utili erano

anche compressi dai prezzi di vendita imposti dall‟amministrazione

alleata.

Con il ritorno alla normalità commerciale, le aziende birrarie si

trovarono di fronte al caos generato dalla rottura dei patti di rispetto

vigenti nell‟anteguerra: la loro inconciliabilità con un mercato moderno e

dinamico verrà lentamente alla luce nel corso degli anni „50, non

impedendo tuttavia il funzionamento di accordi per la regolamentazione

delle forniture per buona parte di quel decennio.

23

) Vedi Ufficio provinciale del commercio e dell‟industria, Relazione sull’andamento

economico della Provincia [di Roma], maggio-giugno 1946, p. 7.

36

La ripresa dei consumi, visibile dal 1947, fece poi emergere il

problema dell‟arretratezza tecnologica degli impianti per la fabbricazione

della birra: la loro obsolescenza gonfiava oltre misura i costi fissi ed

appesantiva ingiustificatamente l‟intera gestione societaria 24

. La capacità

innovativa delle aziende birrarie italiane dipese da un insieme di fattori

tra cui, non ultima, l‟abilità imprenditoriale delle famiglie proprietarie,

che in alcuni significativi casi seppero coniugare il rispetto e la

salvaguardia della tradizione con una moderna ed efficiente

intraprendenza.

La sorte indubbiamente poco felice che sarebbe spettata a molte di

esse, in tempi a noi recenti, può essere considerata da una parte il frutto

di fatali abbagli strategici, ma dall‟altra una conseguenza delle condizioni

di elevata competitività dettate dal mercato italiano, considerato uno dei

più ardui e difficili del mondo intero.

Quel mercato, che pure alla fine degli anni „40 dava segni di risveglio,

solo nel 1950 arrivò ad assorbire la stessa produzione di circa trenta anni

prima, 1.567.432 ettolitri, dimostrando in tutta la sua evidenza quanto

limitata fosse la ripresa dei consumi. Di fronte all‟entusiasmo dei

fabbricanti, il direttore della rivista di settore invitava ad andar cauti e,

cifre alla mano, dimostrava che tenendo conto dell‟aumento della

24

) Secondo la Confindustria, nel 1948 il grado di sfruttamento degli impianti di

fabbricazione della birra era pari al 50% circa della potenzialità produttiva; vedi

Confederazione generale dell‟industria italiana, L’industria italiana alla metà del secolo

XX, Roma, s.e., 1953, p. 1026.

37

popolazione, il consumo pro capite non era affatto aumentato, ma

presentava al contrario una preoccupante staticità 25

.

Sul prezzo di vendita, largamente responsabile del contenimento della

domanda, era naturale che i fabbricanti di birra tendessero a scaricare il

peso della tassa di fabbricazione, che nel 1948 era passata da 150 lire per

grado/ettolitro a ben 250 lire. La vulnerabilità dell‟industria birraria a

fattori quali l‟andamento climatico nella stagione estiva o l‟oscillazione

del prezzo delle materie prime - in forte aumento nella prima metà degli

anni „50 - rimaneva assai elevata, ritardando gli effetti della congiuntura

economica positiva.

Nel 1956, tuttavia, con una inversione di tendenza piuttosto repentina

ma che si stava preparando ormai da qualche anno, la produzione

nazionale ebbe un'impennata, che seppur ridimensionata l‟anno

successivo da un transitorio calo, segno‟ l‟avvio di una stagione di

eccezionale vitalità. Alla base di tale exploit vi erano i corposi

investimenti effettuati, all‟indomani della fine del conflitto mondiale, dai

principali gruppi birrari per il potenziamento della capacità produttiva

degli impianti 26

.

25

) Mario Baglia Bambergi, Festa in famiglia, “Birra e Malto”, 1955, n. 9, p. 19: Baglia

Bambergi rapportava i dati del 1923-1924, quando con una popolazione di 42 milioni ed

una produzione di 1.461.809 ettolitri, il consumo pro capite era stato di 3,5 litri, a quelli

del 1955, in cui il consumo pro capite era salito a 3,6 litri, con una popolazione di 47

milioni di abitanti ed una produzione nazionale di birra di 1.761.264 ettolitri. 26

) Per un quadro delle condizioni dell‟industria birraria italiana nel 1950 vedi

Confederazione generale dell‟industria italiana, L’industria italiana..., cit., pp.

1024-1027; dati sull‟andamento del settore sono anche negli Annuari della

Confindustria.

38

Nella tabella che segue osserviamo l‟andamento della produzione di

birra dall‟esercizio 1940/1941 a quello 1957/1958:

Tabella 7: numero delle aziende operative e produzione nazionale dal

1940 al 1958 (in ettolitri).

Esercizio

finanziario

Numero fabbriche Produzione

1940/1941 32 814.683

1941/1942 32 632.668

1942/1943 32 299.141

1943/1944 32 299.963

1944/1945 32 346.848

1945/1946 32 696.439

1946/1947 35 897.949

1947/1948 34 1.079.797

1948/1949 32 1.029.497

1949/1950 32 1.361.365

1950/1951 31 1.567.432

1951/1952 31 1.462.068

1952/1953 31 1.584.221

1953/1954 31 1.496.285

1954/1955 32 1.735.689

1955/1956 32 1.565.973

39

1956/1957 31 1.832.896

1957/1958 29 1.657.633

Fonte: statistiche dell'Unione italiana fabbricanti birra.

La stazionarietà del numero delle unità produttive operanti nel

territorio nazionale celava il fenomeno crescente delle acquisizioni e

delle fusioni societarie, che dal periodo prebellico aveva caratterizzato la

vita del settore, modificandone ampiamente la struttura. Tale fenomeno,

destinato ad assumere dimensioni ancora più evidenti nel corso degli anni

„60, disegnava una tendenza comune ad altri paesi europei ma accentuata

ed inasprita dalle condizioni specifiche del mercato birrario italiano 27

.

La particolarità italiana risiedeva, come sottolinearono i

contemporanei, nel fatto che la concentrazione non era concretamente

stimolata dalla crescita della domanda, come avveniva in altri paesi, ma

era invece il frutto di una deliberata scelta degli imprenditori 28

.

Il mercato, disturbato oltretutto da una importazione crescente di

prodotto finito dall‟estero, diveniva terreno di scontro di pochi e forti

gruppi birrari, facenti ancora capo alle antiche dinastie familiari 29

: la

27

)Vedi, per esempio, per l‟industria birraria britannica, Terry Gourvisch and Richard

Wilson, The British brewing industry 1830-1980, Cambridge, University Press 1994, in

particolare il capitolo Merger mania 1955-1980, pp. 447-497. 28

) Emilio Soria, A proposito di “un sasso nello stagno”, “Birra e Malto”, 1958, n. 5,

pp. 19-20. 29

) La proprietà e la presenza familiare nelle aziende birrarie italiane provocarono una

“assenza pressoché totale di gerarchie manageriali”, come scrive Andrea Colli nel suo

lavoro già citato. La ricostruzione della vicenda aziendale della Birra Peroni, tuttavia,

ha messo in luce la presenza di una significativa eccezione a quel paradigma: manager di

40

società Birra Peroni, leader nazionale, solidamente in mano alla famiglia,

aveva avviato sin dai primi anni „20 la pratica degli assorbimenti di

società di piccole e medie dimensioni, tramite la quale, in stretta

osservanza della logica fissata dai patti di rispetto della clientela, aveva

realizzato una continua crescita commerciale.

Sia la Birra Peroni, sia la famiglia Luciani, proprietaria del secondo

gruppo birrario dagli anni „30 in avanti, procedendo sulla via

dell‟assorbimento di aziende d‟importanza regionale, ne tenevano in vita

i relativi marchi. La sopravvivenza, fino ai nostri giorni, di marchi come

la Birra Raffo in provincia di Taranto, l‟Itala Pilsen nell‟area padovana,

la Birra Ichnusa nel cagliaritano o la Birra Messina nell‟omonima

provincia siciliana - strategicamente voluta dai gruppi proprietari per il

loro radicamento nel tessuto locale - può essere considerata una traccia

dell‟antica frammentazione localistica del mercato birrario italiano.

Tenendo conto dell‟arretratezza del sistema distributivo, basato ancora

totalmente sul vuoto a rendere, delle difficoltà e degli alti costi del

trasporto, e della necessità, almeno fino alla fine degli anni „50, di

associare la vendita del ghiaccio a quella della birra, la presenza sul

territorio, tramite unità produttive, impianti di imbottigliamento e

depositi concessionari, divenne obiettivo primario delle società birrarie

che miravano alla conquista o al mantenimento di un mercato

extra-regionale.

nazionalità italiana, spesso chiamati a svolgere importanti funzioni direttive oltre che

tecniche e tecnologiche, vennero sin dagli anni „20 ad affiancare i membri della famiglia

proprietaria.

41

Per meglio comprendere la distribuzione e la dimensione delle unità

produttive presenti sul territorio nazionale riportiamo di seguito i dati

riferiti al 1960:

Tabella 8: produzione di birra suddivisa per aziende nel 1960 (in

ettolitri).

Aziende Produzione Totali parziali

Peroni Adriatica S.p.A., Bari 104.012

Peroni S.p.A., Livorno 60.519

Peroni Meridionale S.p.A., Napoli 324.599

Peroni S.p.A., Roma 264.776

Peroni Piemontese S.p.A., Savigliano 4.324

Dormisch S.p.A., Udine 45.424 Gruppo Peroni

Hl. 803.654

Pedavena S.p.A, Belluno 121.200

Cervisia S.p.A., Genova 60.722

Bosio & Caratsch, Torino 34.429

Metzger S.p.A., Torino 75.363

Dreher S.p.A., Trieste 215.386 Gruppo Luciani

Hl. 507.100

42

Wuehrer Pietro S.p.A., Brescia 122.880

Wuehrer S.p.A., Casalecchio di Reno 29.080

Wuehrer S.p.A., Firenze 40.950

Wuehrer S.p.A., Roma 89.501 Totale Wuehrer

Hl 282.411

Itala Pilsen S.p.A., Padova (50% Peroni e

50% Luciani)

166.496

Poretti S.p.A., Induno Olona 163.793

Forst S.p.A., Merano 109.071

Vinalcool S.p.A., Cagliari 84.355

Messina S.p.A., Messina 78.755

Moretti Luigi, Udine 67.134

Compagnia Italo-Danese S.p.A., Catania 48.726

Italia S.p.A., Milano 39.996

Wuenster S.p.A., Bergamo 28.877

Raffo S.p.A., Taranto 28.657

Menabrea, Biella 9.259

Sempione S.p.A., Verbania 8.425

Aosta, Aosta 7.163

Parola, Borgo San Dalmazzo 3.039

Frazioni 13

43

Totale 2.485.957

Fonte: statistiche dell'Unione italiana fabbricanti birra.

Fu grazie agli investimenti effettuati dai principali gruppi birrari -

dietro alla Birra Peroni ed al gruppo Luciani si ponevano, all‟inizio degli

anni „60, la società Wührer, la Itala Pilsen di Padova, la Poretti di Varese

e la Forst di Merano - che l‟industria birraria italiana poté compiere tra la

fine degli anni ‟50 ed il decennio successivo, il salto qualitativo e di

potenzialità che la pose su livelli standard europei e d‟oltreoceano.

La partecipazione dei tecnici italiani alle riunioni dell‟European

brewery convention, la fondazione di una Associazione italiana dei

tecnici birrari e di una rivista di categoria di carattere prevalentemente

tecnico, misero le aziende italiane al passo dei partner europei in termini

di formazione ed aggiornamento professionale 30

. Dalla seconda metà

degli anni „50 vennero inoltre registrati importanti progressi nella

coltivazione dell‟orzo distico, avviata a livello sperimentale nel 1955 ma

capace, in seguito, di svincolare l‟Italia dall‟estero per il rifornimento di

tale cereale, con il conseguente alleggerimento dei costi di produzione.

L‟entrata in vigore della libera circolazione delle merci dopo la firma

del trattato di Roma e la creazione del Mercato comune europeo

30

) L‟E.B.C., fondata nel 1947, si riunisce da allora ogni due anni per illustrare e

confrontare i progressi scientifici ed applicativi compiuti in campo birrario. Per

l‟A.I.T.B. vedi il volumetto 1959-1989, Trent’anni dell’Associazione italiana dei

tecnici della birra e del malto, Brescia, AEB S.p.A., 1989.

44

funzionarono da ulteriori stimoli alla razionalizzazione ed all‟aumento di

competitività.

L‟ammodernamento tecnologico degli impianti e la vera e propria

rivoluzione dei modelli organizzativi proveniente dagli Stati Uniti

d‟America, seguita con entusiasmo da alcuni pionieri 31

, segnarono una

svolta epocale nel mondo birrario italiano, nel quale ormai il livello del

consumo pro capite rimaneva l‟unico parametro arretrato rispetto ad altre

realtà europee.

Nonostante la crescita dei consumi sostenesse gli investimenti ed

invogliasse a proseguire nella direzione intrapresa, ancora nel 1963

l‟Annuario della Confindustria segnalava che l'utilizzazione degli

impianti non superava il 75% delle potenzialità produttive. Il pericolo

rappresentato da un eccesso dell'offerta, per ora celato dalla crescita dei

consumi, rimaneva una costante spada di Damocle.

All'aumento delle quantità di birra importate dall‟estero, fenomeno

destinato ad assumere dimensioni allarmanti in tempi recenti,

corrispondeva quindi una diminuzione di capacità di assorbimento

dell‟offerta locale da parte dei consumatori.

Tabella 9: produzione, importazione ed esportazione, e disponibilità al

consumo dal 1961 al 1990 (in ettolitri).

31

) Tullio Zangrando, Cenni storici sullo sviluppo dell’industria birraria negli Stati

Uniti d’America, “Birra e Malto”, 1957, n. 3, pp. 29-33. Il primo impianto costruito nel

mondo dopo la fine della guerra fu lo stabilimento di Napoli della Birra Peroni, nel

quale furono adottate le nuove soluzioni logistiche ed organizzative di provenienza

americana.

45

Anno Produzione Importazione Esportazione Disponibilità

1961 3.081.018 102.216 14.927 3.168.307

1962 3.703.866 131.522 15.998 3.819.390

1963 3.753.284 164.378 15.828 3.901.834

1964 4.208.387 160.940 16.975 4.386.302

1965 4.558.340 166.837 24.818 4.700.359

1966 5.179.224 200.464 30.333 5.349.355

1967 5.544.700 208.559 30.739 5.722.520

1968 5.391.227 210.157 26.273 5.575.111

1969 5.750.221 237.166 32.069 5.955.318

1970 5.949.854 297.398 39.829 6.207.423

1971 6.286.158 330.688 48.256 6.568.590

1972 6.550.021 361.794 52.699 6.859.116

1973 8.629.380 449.355 44.011 9.034.724

1974 8.007.721 570.962 59.029 8.519.654

1975 6.464.911 651.605 50.258 7.066.258

1976 7.307.576 594.192 46.720 7.855.048

1977 7.300.860 545.293 55.723 7.790.430

1978 7.962.742 575.449 76.635 8.461.556

1979 8.899.423 833.758 92.001 9.641.180

1980 8.569.097 1.049.861 79.553 9.539.405

1981 9.021.851 1.188.342 84.525 10.125.668

1982 10.152.807 1.561.602 91.482 11.622.927

1983 10.114.752 1.760.653 69.546 11.805.859

1984 9.142.383 1.717.701 83.831 10.776.253

1985 10.317.536 2.169.619 71.497 12.415.658

1986 11.082.036 2.149.874 66.260 13.165.650

1987 11.121.727 2.162.846 73.742 13.210.831

46

1988 11.252.955 2.090.092 79.253 13.263.794

1989 10.383.045 2.057.889 95.408 12.345.526

1990 11.066.644 2.420.229 200.543 13.286.330

Fonte: statistiche dell'Associazione degli industriali della birra e del

malto.

Tabella 10: percentuale delle importazioni sulle quantità di birra

disponibili al consumo (in ettolitri).

Anno Disponibilità % Importazione

1961 3.168.307 3,23%

1962 3.819.390 3,44%

1963 3.901.834 4,21%

1964 4.386.302 3,70%

1965 4.700.359 3,55%

1966 5.349.355 3,75%

1967 5.722.520 3,64%

1968 5.575.111 3,77%

1969 5.955.318 3,98%

1970 6.207.423 4,79%

1971 6.568.590 5,03%

1972 6.859.116 5,27%

1973 9.034.724 5,97%

1974 8.519.654 6,70%

1975 7.066.258 9,22%

1976 7.855.048 7,56%

1977 7.790.430 7,00%

47

1978 8.461.556 6,80%

1979 9.641.180 8,65%

1980 9.539.405 11,01%

1981 10.125.668 11,74%

1982 11.622.927 13,44%

1983 11.805.859 14,91%

1984 10.776.253 15,94%

1985 12.415.658 17,47%

1986 13.165.650 16,33%

1987 13.210.831 16,37%

1988 13.263.794 15,76%

1989 12.345.526 16,67%

1990 13.286.330 18,22%

Fonte: ufficio marketing information S.p.A. Birra Peroni Industriale.

Se negli anni „60 la quantità di birra importata non aveva ancora

raggiunto dimensioni allarmanti, altri fattori vennero a complicare il

quadro con cui le aziende birrarie italiane furono chiamate a confrontarsi:

la frenata congiunturale del 1963 fece delineare nuovamente all‟orizzonte

il pericolo della sottoutilizzazione degli impianti. La crescita del settore

procedette allora più faticosamente, minacciata prima da una stagione di

combattività operaia che interessò anche il tranquillo settore birrario, e

poi da un incremento dei costi di produzione. Al lievitare dei costi

relativi alla manodopera ed alle materie prime, cui si aggiunse un

aumento dell‟imposta di fabbricazione, i birrai risposero nel 1970 con un

ritocco dei prezzi di listino.

48

Importanti trasformazioni in corso nella società italiana cominciarono

nel frattempo a ricadere sul mercato, obbligando le realtà industriali ad

un rapido adeguamento. La diffusione dei supermercati, inizialmente

circoscritta al nord della penisola ma poi estesasi anche alle regioni

centrali e meridionali, modifico‟ radicalmente la realtà distributiva e con

essa le logiche del mercato. La vendita da asporto venne ad assumere una

rilevanza via via crescente, a scapito del consumo effettuato in locali

pubblici, che un tempo assorbivano la quasi totalità del prodotto.

L‟avvento del vuoto a perdere, con i relativi costi per gli imprenditori,

richiese a questi ultimi, con tempi e modalità differenti, una profonda

revisione della propria organizzazione commerciale.

Trasformazioni di tale portata sconvolsero la realtà birraria italiana,

già altamente competitiva ed allo stesso tempo eccezionalmente

vulnerabile: si scatenò tra le società birrarie una guerra al raggiungimento

di elevati volumi di vendita. La lotta venne poi esacerbata dal crollo del

consumo verificatosi nel 1974, in concomitanza con la crisi petrolifera.

Prima di quella data, nel 1973, le vendite avevano subito una improvvisa

quanto illusoria impennata in seguito all‟arbitraria inclusione della birra

tra i generi di prima necessità. Il ritorno ai normali prezzi di listino,

congiunta alla incerta congiuntura politica ed economica in cui si trovò

l‟Italia fino alla fine degli anni „70, ebbero un effetto deprimente sui

consumi birrari, fortemente sensibili, come in passato, alle flessioni della

capacità di acquisto della popolazione.

Non appena il paese uscì, infatti, dalle difficoltà in cui si era trovato

per buona parte del decennio, il settore birrario ebbe una forte ripresa, a

49

conferma delle attese degli esperti, che avevano segnalato le potenzialità

di crescita del consumo di birra.

Tale crescita, tuttavia, si è sempre più tradotta, come dicevamo, in un

incremento delle quantità di prodotto importato dall‟estero, non

comportando, in misura rilevante come avrebbe potuto, quel balzo nella

produzione nazionale da lungo tempo atteso. Uno sguardo all‟andamento

della produzione nazionale negli ultimi vent‟anni circa conferma

l‟innegabile ma frenata crescita del settore (tabella 9).

I dati evidenziano, dopo la crescita dei primi anni „70, una brusca

frenata nel 1975, seguita da un calo e poi dal raggiungimento di una

nuova soglia produttiva negli anni 1979-1982. Gli anni successivi sono

invece caratterizzati da una tendenza alla stagnazione piuttosto

pronunciata.

In tale quadro, che già delinea una situazione assai difficile per le

poche unità produttive ormai esistenti - da 31 nel 1980, si è passati a 21

nel 1991 - è andata a giustapporsi la presenza sempre più incisiva di

società multinazionali, che similmente a quanto avvenuto in altri

comparti del settore alimentare e da ultimo in quello delle bevande

alcoliche, hanno svolto la parte del leone nel processo di concentrazione

in atto nel mercato e sono oggi proprietarie della gran parte dei marchi

italiani.

Poche eccezioni - la Birra Peroni, ancora in mano alla famiglia

originaria per oltre il 75% del pacchetto azionario, e la Forst-Menabrea,

sapientemente fedele alla difesa del proprio mercato locale ed allo stesso

tempo dinamica sull‟intero territorio nazionale, anche come punto di

50

riferimento di etichette di importazione - fronteggiano i giganti

internazionali Heineken, Interbrew, United Breweries32

, penetrati in parte

o totalmente nel capitale sociale delle antiche società birrarie italiane.

Quali ripercussioni, sul piano della capacità contrattuale e dei margini

retributivi, la presenza delle società multinazionali abbia avuto in un

mondo distributivo sempre più dominato dalle regole della grande

distribuzione è facile immaginare.

In seguito alle trasformazioni avvenute a partire dal 1975 - dopo la

frenata dei consumi - ed in misura crescente negli anni „80 e „90, il

mercato birrario italiano presentava, al termine del 1994, la seguente

conformazione:

Tabella 11: il mercato italiano nel 1994.

Società/Gruppo Vendite (1.000 Hl) Quota di mercato %

Birra Peroni 4.550 30,4

Dreher/Heineken 4.150 27,8

Interbrew/Labatt 1.370 9,2

Poretti/Carlsberg 1.270 8,5

Forst/Menabrea 680 4,5

Castelberg 290 1,9

32

) Nel 1995 la filiale italiana della società belga Interbrew è stata assorbita dalla

olandese Heineken, secondo gruppo birrario mondiale. Le United Breweries sono

proprietarie del 50% delle Industrie Poretti.

51

Import 2.648 17,7

Totale mercato 14.958 100,0%

Fonte: stima ufficio marketing information S.p.A. Birra Peroni

Industriale.

E‟ recente quello che difficilmente può essere considerato l‟ultimo

atto di un processo di concentrazione in corso, senza sosta, dall‟inizio del

secolo: l‟assorbimento della storica ditta Moretti di Udine, già da tempo

peraltro controllata dal gruppo canadese Labatt, da parte della olandese

Heineken, che ha visto così crescere di un 9,2 % la propria quota di

mercato conquistando il primato nel settore, ha mutato ancora una volta

le regole del gioco. A chi l‟ultima parola?