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ITALIANISTICA Rivista di letteratura italiana ANNO XXXIX · N. 1 GENNAIO/APRILE 2010 PISA · ROMA FABRIZIO SERRA EDITORE MMX estratto issn 0391-3368 issn elettronico 1724-1677

Realismo modernista. Un'idea del romanzo italiano (1915-1925)

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ITALIANISTICARivista

di letteratura italiana

ANNO XXXIX · N. 1

GENNAIO/APRILE 2010

PISA · ROMA

FABRIZIO SERRA EDITORE

MMX

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1677

ITALIANISTICARivista

di letteratura italiana

Periodico quadrimestrale diretto daDavide De Camilli, Bruno Porcelli

*Comitato di consulenza:

Johannes Bartuschat, Lucia Battaglia Ricci, Lina Bolzoni,Maria Cristina Cabani, Alberto Casadei, Marcello Ciccuto,

Guglielmo Gorni, François Livi, Martin McLaughlin, Cristina Montagnani,Emilio Pasquini, Lino Pertile, Michelangelo Picone†,

Gianvito Resta, Luigi Surdich

*Redazione:

Ida Campeggiani, Alberto Casadei, Marcello Ciccuto,Maiko Favaro, Eugenio Refini

*Inviare i dattiloscritti e i volumi per recensione, omaggio o cambio a

«Italianistica», presso Dipartimento di Studi Italianistici, Facoltà di Lingue,Via dei Mille 15, i 56126 Pisa, tel. e fax **39 050 553088

*«Italianistica» is a Peer-Reviewed Journal

REALISMO MODERNISTA.UN’IDEA DEL ROMANZO ITALIANO (1915-1925)

Riccardo Castellana

Il termine ‘modernismo’ non suona ancora familiare negli studi di italianistica, nonostante I recentisforzi di alcuni critici. Per di più, nella tradizione italiana la categoria di ‘modernismo’ è spesso con-fusa con quella di ‘avanguardia’. Scopo di questo studio è, dopo aver chiarito le differenze tra avan-guardia e modernismo, leggere il romanzo italiano tra il 1915 e il 1925 come una sintesi originale dimodernismo e realismo. I capolavori del ‘realismo modernista’ sono tre: Si gira… (Quaderni di Se-rafino Gubbio operatore) di Pirandello, Con gli occhi chiusi di Tozzi e La coscienza di Zeno di Svevo. Laseconda parte del saggio svolge un commento ad alcuni brani significativi tratti da questi tre libri.

‘Modernism’ is not a familiar word in Italian literary studies, although the recent efforts of some crit-ics. Moreover, in Italian tradition the category of ‘modernism’ is often mixed up with the concept of‘avant garde’. Aim of this study is to read the Italian novel between 1915 and 1925 as an original syn-thesis of modernism and realism. Three are the masterworks of ‘modernist realism’: Luigi Piran-dello’s Si gira… (Quaderni di serafino Gubbio operatore), Federigo Tozzi’s Con gli occhi chiusiand Italo Sve-vo’s La coscienza di Zeno. Passages from these books are commented in the second part of the essay.

1. Una proposta di periodizzazione

1. 1.

e ipotesi sulle quali lavorerò nelle pagine che seguono sono due: la prima è che ancheper la letteratura italiana sia possibile (e soprattutto vantaggioso) adottare la cate-

goria di modernismo; la seconda è che a caratterizzare il modernismo italiano – limitata-mente a un genere particolare, il romanzo, ed a un periodo storico molto circoscritto,quello che va dalla metà degli anni dieci alla metà dei venti – sia il realismo. Come cercheròdi mostrare, l’espressione realismo modernista non è una contraddizione in termini, né implica il riconoscimento di una presunta arretratezza del romanzo italiano rispetto aquello europeo coevo. Al contrario, come vedremo, nella definizione che propongo il sostantivo va inteso in un’accezione rigorosamente ‘debole’ e allargata: non è al realismocome poetica storicamente determinata e deducibile dalle opere dei grandi romanzieri‘realisti’ ottocenteschi (Balzac, Stendhal, Flaubert, Zola, Verga) che intendo richiamar-mi, bensì al realismo come imitazione seria e problematica della realtà quotidiana di persone ordinarie e comuni, compiuta non secondo i canoni e gli stereotipi della tradi-zione, ma al contrario mediante tecniche di straniamento, cioè di deautomatizzazionedei normali meccanismi percettivi. Quando Auerbach, in Mimesis, identificava il realismocon la Stilmischung, intendeva dire esattamente questo: se nella tradizione classicistica,infatti, la separazione degli stili inibisce all’origine la possibilità stessa di una mimesi delreale, il realismo mette in crisi proprio questa separazione, e riorganizza il sistema bloc-cato delle corrispondenze tra stili e contenuti attraverso il quale il testo classico ‘censu-ra’ il reale. Dato che questa riarticolazione del rapporto tra forme e referenti segue di vol-ta in volta strade diverse, quella di realismo non può che essere una nozione plurale.1

1 Ho discusso gli aspetti teorici di questo problema in R. Castellana, Sul metodo di Auerbach, «Allegoria», lvi,2007, pp. 55-83. Ha mostrato molto bene il carattere plurale della mimesi F. Orlando, nella sua relazione al Con-

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1. 2.

Se le due premesse di partenza sono vere, il realismo modernista è, nella storia della nar-rativa italiana, il vero elemento caratterizzante del decennio che va dalla prima guerramondiale alla definitiva affermazione del fascismo. Esso nasce parallelamente al pro-gressivo esaurimento della spinta propulsiva delle avanguardie, cioè verso la metà deglianni dieci, per concludersi subito dopo il 1925, quando altre poetiche indirizzeranno ilromanzo verso quella che, da sempre, è stata la sua massima vocazione: diventare la for-ma simbolica della modernità.

Parlare di realismo modernista comporta, secondo me, due vantaggi: in primo luo-go quello di limitare l’uso del termine decadentismo considerandolo come fenomenosquisitamente tardo-ottocentesco; in secondo luogo, quello di offrire una scansione piùprecisa della storia letteraria del primo Novecento in Italia. Una simile scansione sareb-be tripartita. Se il secolo comincia sotto il segno delle avanguardie storiche (dal 1908, an-no d’esordio de «La voce», fino al 1914, quando Prezzolini lascia la direzione della rivi-sta ed escono le ultime opere significative di vociani e futuristi), dopo lo scoppio dellaprima guerra mondiale i manifesti di Marinetti (che del movimento dell’avanguardia inItalia hanno costituito senza dubbio il punto di maggiore oltranza teorica) o avrannoperso l’originalità propositiva degli esordi oppure si rivolgeranno ad altre arti poten-zialmente più ‘moderne’, come farà non a caso il famoso manifesto della «cinemato-grafia futurista» del 1916. Un romanzo-chiave come Si gira… di Pirandello non appar-tiene già più a questa temperie, anzi si contrappone drasticamente proprio allamodernolatria futurista, ne rovescia puntualmente «i luoghi, i miti, le immagini», e, an-ziché esaltare il cinema come unica arte davvero capace di rappresentare il flusso dellavita, denuncia il suo proposito di sostituire alla realtà vera un suo surrogato vedendonepiuttosto il carattere di «artificio, finzione, simulazione di vita».1 Le due date della pri-ma edizione su rivista (la «Nuova Antologia», dal giugno all’agosto 1915) e dell’ultima involume col nuovo titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore (Bemporad, 1925) possonovalere indicativamente anche come i limiti cronologici del realismo modernista. Il feno-meno davvero nuovo che ad esso si contrapporrà, infatti, non sarà tanto, come si affer-ma di solito, il ‘ritorno all’ordine’ rondista, quanto il realismo esistenziale della fine deglianni venti e della prima metà degli anni quaranta: quel «nuovo» realismo2 che ne Gli in-differenti di Moravia (1929) troverà forse il suo capolavoro e che precede la stagione an-timodernista del neorealismo.

I narratori più rappresentativi del realismo modernista sono Pirandello, Tozzi e Sve-vo. A loro si devono innanzi tutto la ricostruzione e il rinnovamento di due generi – lanovella e il romanzo – messi al bando dalle avanguardie primonovecentesche perché daquelle giudicati irrimediabilmente compromessi con la cultura di massa. A questi generi, come si sa, le avanguardie avevano contrapposto forme radicalmente nuove e dirottura: l’‘antiromanzo’ di Palazzeschi Il codice di Perelà (1911) e l’autobiografismo

vegno su Auerbach tenutosi a Siena il 29 e 30 aprile 2008 (Unità o pluralità del realismo. Una lettura di «Mimesis»), icui Atti sono ora raccolti in La rappresentazione della realtà. Studi su Erich Auerbach, a cura di R. Castellana, Roma,Artemide, 2009 (il saggio di Orlando si trova alle pp. 17-62).

1 G. Mazzacurati, Pirandello nel romanzo europeo, Bologna, il Mulino, 1987, pp. 251 e 259.2 R. Luperini, Il Novecento. Apparati ideologici, ceto intellettuale, sistemi formali nella letteratura italiana contempo-

ranea, Torino, Loescher, 1981, pp. 484 sgg.

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espressionistico e frammentista de Il mio Carso (1912) di Slataper rappresentano bene ladoppia anima della narrativa antitradizionalista di quegli anni, almeno quanto Il pecca-to di Boine (1913-1914) ne mostra invece la crisi incipiente, ponendosi esattamente sullalinea di confine tra la negazione avanguardistica del genere e il ritrovato interesse (tipi-camente modernista) per la forma-romanzo.

È solo nel decennio seguente, però, con la pubblicazione di tre opere fondamentalicome Si gira… di Pirandello (1915 e 1925), Con gli occhi chiusi di Tozzi (1919) e la Coscien-za di Zeno di Svevo (1923), che il romanzo tornerà ad occupare stabilmente una posizio-ne centrale nel sistema dei generi. Agli autori che ho appena menzionato si richiame-ranno non a caso, in un modo o nell’altro (e pur in un’ottica diversa da quella delrealismo modernista), tutti i romanzieri della generazione successiva; e se Pirandello ègià un punto di riferimento per il giovanissimo Moravia quando scrive il suo primo romanzo, Gli indifferenti, la riscoperta di Svevo e di Tozzi avverrà pochissimo tempo dopo, grazie soprattutto a «Solaria», che ai due scrittori dedicherà altrettanti numerimonografici rispettivamente nel 1929 e nel 1930.

1. 3.

Realismo e modernismo non sono tra di loro incompatibili. L’interpretazione ‘antirea-lista’ dei romanzi di Proust, di Virginia Woolf o di Joyce, ancor oggi largamente domi-nante, è dovuta ad almeno tre ragioni: la prima è di ordine terminologico, ed ha a chefare con la forte ambiguità semantica che da sempre accompagna il termine ‘realismo’e, più in generale, il concetto di mimesis.1 Una lettura diversa del romanzo modernistaeuropeo – una lettura che sappia considerare nella giusta prospettiva le conseguenzedella scoperta modernista della autonomia del linguaggio letterario, senza però ridurnel’importanza storica a questa sola scoperta – è tuttavia perfettamente legittima, ed è stata avviata sessant’anni fa da Erich Auerbach nell’ultimo capitolo di Mimesis, di cuiparleremo più avanti. La lettura di Auerbach è peraltro tornata ad essere di stringenteattualità non a caso proprio negli ultimi anni, in corrispondenza del declino dell’ideo-logia postmodernista, che ha spesso enfatizzato la continuità tra modernismo e po-stmodernismo proprio sotto l’aspetto dell’autoriflessività e del carattere metatestualedella letteratura.2

Le altre due ragioni della sfortuna dell’interpretazione realista del modernismo han-no invece motivazioni storiche e chiamano in causa, entrambe, l’aspetto della ricezio-ne: in primo luogo, quella degli stessi autori, perché sull’interpretazione del moderni-smo hanno pesato sin dall’inizio le dichiarazioni di poetica dei diretti interessati, quasisempre fortemente critiche nei confronti del naturalismo e del realismo ottocentesco equindi del realismo tout court. Una storia del realismo apparsa di recente in Italia racco-glie molte di queste dichiarazioni. Ne riporto alcune tra le più eloquenti: «ciò che chia-miamo realtà è un certo tipo di rapporto fra le sensazioni e i ricordi che ci circondanosimultaneamente» (Proust), «diffido della realtà, della sua meschinità» (Virginia Woolf ),

1 Sul problema troppo vasto per poter essere qui anche solo sfiorato, cfr. ora l’ampia panoramica, con biblio-grafia, di A. Borsari, “Mimesis”, le peripezie di una famiglia concettuale, in Politiche della mimesis, a cura di Idem, Mi-lano, Mimesis, 2003, pp. 7-28.

2 Non è però il caso, ovviamente, di Fredric Jameson, che ha invece puntato soprattutto sugli elementi di di-scontinuità tra modernismo e postmodernismo (cfr. tra gli altri il suo The Modernist Papers, London, Verso, 2007).Da quanto ho detto sinora, risulta chiaro che per me la descrizione offerta da Jameson è valida, ma non condivi-sibile nel giudizio di merito.

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«non esiste che il mondo spirituale» (Kaf ka).1 Ma fino a che punto è legittimo ricostruirel’idea di realismo nella letteratura occidentale basandosi sui programmi e sulle asser-zioni degli autori? Conta più quel che il testo dice o l’intenzione di chi lo ha scritto? Noncredo che la storia letteraria debba esaurirsi nella storia delle poetiche, né che quest’ul-tima possa diventare una scorciatoia per giungere al vero nodo della questione.

Il terzo motivo per cui l’interpretazione antirealista del modernismo ha prevalso è an-cora più vicina a noi e va cercata nella storia della sua ricezione negli anni sessanta, neimodi cioè in cui alcuni autori modernisti sono stati canonizzati dalle nuove avanguardiein cerca di padri nobili da collocare in cima al proprio albero genealogico. In Italia, comesi sa, è stato un critico legato al Gruppo 63, Renato Barilli, a lanciare la formula, ancor og-gi molto popolare soprattutto nella scuola, della «barriera del naturalismo», e l’idea di unsuo presunto «superamento» da parte di Pirandello e di Svevo.2 La tesi che qui propongoè invece un’altra, e cioè che ad infrangere la barriera del naturalismo siano state (nei termini che vedremo tra breve) le avanguardie storiche, con le quali però Svevo, Piran-dello (e Tozzi) nulla o quasi hanno avuto a che fare. Il Novecento ha un doppio comin-ciamento, insomma, e proprio il rapido esaurirsi e la precoce istituzionalizzazione delleavanguardie dopo il 1915 dimostrano che le istanze di cui anche la nuova avanguardia de-gli anni sessanta si farà promotrice (l’antitradizionalismo, l’antirealismo, la contestazio-ne rumorosa del vecchio establishment culturale, ecc.) saranno le stesse – magari un po’più secolarizzate e mondane – delle avanguardie storiche. Al contrario, invece, in una prospettiva di lunga durata, il realismo modernista del periodo 1915-1925 si pone in strettacontinuità con quello ottocentesco (o se si preferisce con il realismo tout court).

Ciò che è accaduto in Italia ricorda molto da vicino, mi sembra, quanto Frank Ker-mode aveva individuato nel contesto culturale anglosassone già nel 1965. Ne Il senso del-la fine il critico inglese distingueva tra un primo modernismo di tipo «tradizionalista»(anni dieci e venti: Pound, Yeats, Wyndham Lewis, Eliot e Joyce) e il nuovo «moderni-smo antitradizionalista» a lui contemporaneo (Ginsberg, la beat generation e il nouveauroman francese), che ripeteva il gesto dell’avanguardia storica, senza recuperare (ad ec-cezione forse di Beckett) la tradizione del primo modernismo. Mentre il primo moder-nismo era caratterizzato da un «colto scetticismo» e da un profondo senso della tradi-zione, il secondo, nel suo furore iconoclasta e antipassatista, non guardava oltre Dadae il surrealismo.3 Ebbene, in Italia è avvenuto esattamente lo stesso: una linea di conti-nuità e una saldatura si è creata (di fatto e al di là dei proclami teorici) solo tra le avan-guardie storiche e la Neoavanguardia, mentre la linea Pirandello-Tozzi-Svevo ha svoltoparallelamente un’idea della letteratura, e del romanzo in particolare, molto diversa,che in prospettiva di lunga durata non ha comportato nessuna vera rottura con la tra-dizione del realismo ottocentesco, ma ha semmai instaurato con esso (e con Verga inparticolare) una relazione dialettica, fatta è vero di contrasti, ma anche di permanenze.Insomma, il romanzo del Novecento non ha affatto destituito la letteratura di una fun-zione referenziale e rappresentativa.

1 Tutte le citazioni sono riportate in F. Bertoni, Realismo e letteratura. Una storia possibile, Torino, Einaudi, 2007,pp. 265-266.

2 R. Barilli, La barriera del naturalismo, Milano, Mursia,1964 e La linea Svevo-Pirandello, Milano, Mursia, 1972.3 F. Kermode, Il senso della fine. Studi sulla teoria del romanzo, Milano, Sansoni, 2004, pp. 91-101.

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2. Avanguardia e modernismo

2. 1.

Ho usato sinora la formula realismo modernista: avrei potuto forse parlare di modernismoe basta, senza che la tesi di fondo della mia argomentazione cambiasse di molto. Se nonl’ho fatto, è perché quello che mi interessa non è la categoria di modernismo in sé (chealcuni critici di lingua inglese cominciano peraltro a trovare troppo comprensiva e po-co precisa), ma l’interpretazione che se ne può dare: la mia idea è infatti che il roman-zo modernista italiano e buona parte di quello europeo (quella che per noi oggi contadi più) sia interpretabile in chiave realista. Ciò non significa, naturalmente, che il modernismo italiano non abbia conosciuto anche altre modalità espressive: non potreicerto affermare, p. es., che i Sei personaggi in cerca d’autore (1921), senza alcun dubbio unodei capolavori del nostro modernismo, sono un dramma realista, né che Pirandello, nelle novelle ‘surreali’ degli anni trenta, intenda in alcun modo rappresentare la realtàquotidiana. Ma Pirandello romanziere, per circa un decennio e fino al consolidamentodel regime fascista, rivela esattamente una dominante realista-modernista.

Rispetto al modernismo anglosassone però, che di solito si fa iniziare un po’ prima,a partire dal 1910 (l’anno in cui, come scrisse Virginia Woolf, «il personaggio uomo ècambiato»),1 sono necessari alcuni distinguo, e non solo perché quello italiano è inizia-to con qualche anno di ritardo (non prima della guerra, come si è detto). Il primo e piùimportante è questo: mentre in ambito anglosassone la categoria di modernismo nonviene di solito contrapposta a quella di avanguardia, ma ne è considerata parte inte-grante, in Italia (e probabilmente in tutta l’Europa continentale: di certo in Francia e inGermania), è molto più utile vedere le differenze tra avanguardia e modernismo. La cri-tica inglese infatti considera generalmente il modernismo come un movimento d’avan-guardia, oppure ne mostra le radici storiche nell’avanguardia. Ma se ciò può avere unsenso nel contesto anglosassone (dove peraltro l’avanguardia autoctona stricto sensu haavuto un ruolo di scarsa rilevanza), lo stesso non si può dire in ambito continentale: tragli espressionisti tedeschi degli anni dieci e il modernista Thomas Mann c’è uno scartoevidente, così come anche tra Proust e i surrealisti in Francia, e tra i futuristi e Piran-dello in Italia, mentre Pound e Eliot risulterebbero incomprensibili senza fare riferi-mento al vorticismo e all’imagismo di Hulme.2

Che si possa parlare di modernismo per il decennio in questione, lo dimostrano comemeglio non si potrebbe alcuni tratti distintivi che l’opera di Pirandello Tozzi e Svevo trail 1915 e il 1925 presenta rispetto alla produzione narrativa d’avanguardia degli anni immediatamente precedenti. Nati entrambi dalle ceneri dell’idealismo e del positivi-smo ottocenteschi, avanguardia e modernismo non credono (con la sola eccezione delfuturismo) nel progresso: la tradizione letteraria, per loro, non è più un lungo fiumetranquillo alla cui corrente sia possibile affidarsi con la fiducia di un tempo. Tra il pas-sato e il presente si è creata una frattura profonda. Diverso è però il modo in cui i dueatteggiamenti reagiscono a questo stato di cose.

1 V. Woolf, Bennet e la signora Brown (1924), in Saggi, prose, racconti, Milano, Mondadori, 1998, p. 245.2 Per una introduzione al modernismo anglosassone il lettore italiano può utilmente consultare l’ampia pano-

ramica curata da G. Cianci, Modernismo/Modernismi. Dall’avanguardia storica agli anni Trenta e oltre, Milano, Prin-cipato, 1991.

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2. 2.

Proverò a sintetizzare le differenze tra avanguardia e modernismo italiano in sei punti.a) La concezione del lavoro intellettuale. Mentre l’avanguardia presuppone la dimensio-

ne del gruppo o del movimento organizzato, lo scrittore modernista parla sempre a ti-tolo personale: Pirandello, Tozzi e Svevo sono degli isolati, così come Joyce, Woolf,Proust, Mann e Kaf ka.

b) Il rapporto tra intenzione e risultato artistico. Sul piano operativo, la dimensione delgruppo o del movimento artistico-letterario comporta necessariamente l’elaborazionedi poetiche condivise (e spesso transartistiche), la stesura o la sottoscrizione di manife-sti, la redazione di riviste: l’avanguardia privilegia nettamente il ‘gesto’ (di rottura e diprovocazione) e l’intenzione rispetto al risultato. L’artista d’avanguardia pratica delibe-ratamente quello che Compagnon chiama il «terrorismo teoretico»,1 mentre, al con-trario, lo scrittore modernista, anche quando scrive di poetica e di critica letteraria, nonantepone mai l’intenzione all’opera ed è solo a quest’ultima che attribuisce effettivo va-lore artistico, non al gesto che la precede.

c) Tendenza centrifuga vs tendenza centripeta nel «campo» letterario. All’interno del«campo» intellettuale, per dirla con Bourdieu,2 avanguardia e modernismo si trovanocosì ad occupare posizioni nettamente distinte: la prima si colloca volontariamente alla sua estremità più avanzata, consapevole che il proprio ruolo è appunto quello dianticipare i tempi, di precorrerli. In nome della ‘rivoluzione permanente’ artistica dicui si fa portavoce, l’avanguardia rovescia i rapporti gerarchici tra centro e periferia,guarda al futuro e non al presente, è arte ‘giovane’ fatta da giovani, introietta e pre-vede il suo stesso esaurimento: non a caso la vita media dei singoli movimenti d’avan-guardia è sempre stata molto breve. Ogni scrittore modernista vuole invece situarsial centro del «campo» letterario, ambisce ad un riconoscimento del proprio valore nelpresente e non nel futuro, vuole fondare una tradizione del nuovo ricollegandosi al-la Tradizione. Il recupero della forma-romanzo è, da questo punto di vista, sociolo-gicamente molto interessante: significa che lo scrittore modernista vuole alludere al-la possibilità di una interpretazione unitaria del reale, ma non va inteso come unritorno nostalgico a forme ottocentesche. Il ritorno al romanzo indica piuttosto l’esi-genza di tornare a concepire la letteratura come mediazione, laddove l’avanguardia,con la sua poetica del frammento, dell’incompiutezza costitutiva dell’opera, del valo-re del mero gesto artistico, rifiutava la mediazione in quanto tale. Nell’interpretazio-ne di Fortini (che a sua volta si richiamava a Lukács), l’avanguardia si caratterizza ap-punto per il suo rifiuto di ogni mediazione, la sua caratteristica principale essendoquella di «essere un modo di arte e di letteratura che pone immediatamente le con-traddizioni (forma-contenuto, soggettivo-oggettivo, arbitrario-necessario, razionale- irrazionale, psicologismo-naturalismo)».3

d) Pro e contro l’estetica della rappresentazione. Le diversità sociologiche tra avanguar-dia e modernismo si riflettono nelle rispettive concezioni della letteratura e del rapporto con la tradizione. Nella sua iconoclastia assoluta, l’avanguardia respinge in

1 A. Compagnon, I cinque paradossi della modernità, Bologna, il Mulino, 1993, p. 69.2 Cfr. P. Bourdieu, Le regole dell’arte. Genesi e struttura del campo letterario, Milano, il Saggiatore, 2005.3 F. Fortini, Avanguardia e mediazione [1968], in Verifica dei poteri. Scritti di critica e di istituzioni letterarie, Torino,

Einaudi, 1989, pp. 73-83: p. 77.

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blocco l’estetica della ‘rappresentazione’: esistono, per lei, solo il soggetto (anchequando se ne chiede rumorosamente la morte, come fanno i futuristi) e il linguaggio.Il modernismo invece scommette sulla funzione comunicativa della letteratura, escommette anche sulla convenzione rappresentativa che, per tutto l’Ottocento, era statal’espressione più compiuta di quella funzione: per lo scrittore modernista il mondoesterno esiste e può essere raccontato, ma solo attraverso lo specchio della coscienza.Una mediazione tra soggettivo e oggettivo è ancora possibile. Auerbach leggeva in Tothe Lighthouse di Virginia Woolf il tentativo più estremo e rigoroso di cogliere la se-rietà e la tragicità del quotidiano nell’attimo qualunque, nell’evento più insignificantee banale della vita di ogni giorno, che si riverbera nella coscienza soggettiva di chi lovive. Che poi lo scrittore modernista consideri la letteratura come un ‘codice’, comeun vetro opaco dotato di una sua realtà e di una vita autonoma, è vero, ed è esatta-mente ciò che distingue il realismo ottocentesco da quello modernista. Tozzi definivaPirandello uno scrittore realista, ma con questa precisazione: «Il realismo di Pirandel-lo non è incosciente; come quello di Zola o del Maupassant. Si potrebbe chiamare,piuttosto, la coscienza del realismo».1 La ‘coscienza’ della natura convenzionale delrealismo non ne diminuisce però la capacità d’indagine e di scoperta: paragonare lascrittura a un vetro opaco e non trasparente non significa, per i modernisti, negare chevi sia qualcosa oltre quel vetro. Non siamo ancora all’esaltazione postmoderna del-l’autoriflessività dell’arte.

e) L’ideologia. Abbiamo iniziato questo discorso dicendo che il sostrato filosofico e cul-turale di avanguardia e modernismo è identico: ciò che li accomuna è il nichilismo e piùin generale la crisi dei fondamenti già iniziata alla fine dell’Ottocento. Schopenhauer,Nietzsche, Bergson sono punti di partenza e maestri tanto per i vociani quanto per Pi-randello, Tozzi e Svevo. E tuttavia, alla frammentazione dell’io, alla critica radicale deivalori, all’anarchismo individualista, l’avanguardia fa seguire sempre anche il movi-mento opposto: l’utopia visionaria, il volontarismo etico e vitalistico, l’esigenza di unapalingenesi collettiva, l’etica del lavoro cui si appella, p. es., Scipio Slataper nella con-clusione de Il mio Carso. Il pensiero dell’Apocalisse nei modernisti è invece sempre ac-colto con cupo pessimismo: l’«esplosione enorme» che, nel finale della Coscienza, chiu-de la riflessione di Zeno sulla malattia chiamata vita ne è forse l’immagine più esatta. Imodernisti non rispondono alla crisi con l’utopia: si impossessano invece di un passatoe di una tradizione per cercarvi una parvenza di ordine sul quale puntellare le rovine delpresente. Il rapporto con i classici non è più dato per scontato, come era ancora per Car-ducci e d’Annunzio, ma diventa oggetto di una scommessa. La tradizione diventa con-venzione e non viene più assorbita passivamente e per forza d’inerzia.

f ) La concezione della storia. Lo scetticismo dei modernisti nei confronti del presentestorico è radicale, e non viene mai meno neanche quando essi cercano di conciliare illoro pessimismo con il sentimento religioso: il cristianesimo di Tozzi mantiene sempreil fondo nicciano di partenza, e il simbolismo religioso di alcuni suoi romanzi (Tre cro-ci) e novelle (Il crocifisso) non esprime un’alternativa all’orrore presente, ma indica piut-tosto la radicale distanza di Dio dalle sue creature. Basti pensare a come i modernistielaborano l’esperienza traumatica della prima guerra mondiale: Svevo nella Coscienza,e un anno dopo Thomas Mann nella Montagna incantata, lasceranno addirittura che laguerra irrompa fragorosamente come vero elemento risolutivo nel plot dei loro ro-

1 F. Tozzi, Luigi Pirandello, in Idem, Pagine critiche, a cura di G. Bertoncini, Pisa, ets, 1993, p. 269.

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manzi proprio nel finale, a dare senso e compiutezza alle loro storie. Dopo il 1914-1915,raccontare il mondo significa fare i conti più o meno direttamente con l’evento che piùin profondità ha lacerato la coscienza europea nel primo quarto del secolo. Dopo que-sta data la narrativa subisce una svolta, e se è vero che la guerra non muta la strutturaproduttiva monopolistica e imperialista dell’economia e della società italiana del 1918,1è altrettanto difficile dubitare che essa abbia contribuito a radicalizzare il pessimismo dichi ne aveva compreso l’assurda insensatezza. E va da sé che anche questo è un ele-mento che divide il modernismo dalle avanguardie, che avevano appunto creduto di vedere nella guerra una forma di «igiene del mondo» e di palingenesi sociale.

3. Altri modernismi

Dopo il 1925 l’eredità del realismo modernista sarà raccolta, ma solo in parte, dai gio-vani narratori: più esattamente, essa consiste soprattutto, a mio avviso, nel travaso dialcuni temi caratteristici della narrativa (e del teatro) di Pirandello e, in misura minore,del romanzo di Tozzi e Svevo, mentre da un punto di vista formale la rottura è netta. Il‘nuovo’ realismo di Moravia, Vittorini e Bilenchi abbandona l’espressionismo per adot-tare uno «stile semplice»2 e una lingua media e colloquiale. Anche le strutture narrati-ve perdono quel carattere sperimentale tipico dell’altomodernismo, e non è ovvia-mente un caso che Montale, negli anni trenta e quaranta, considerasse Senilità, e non laCoscienza, il vero capolavoro di Svevo, ma la preferenza accordata al secondo romanzodi Svevo va considerata come il riflesso di un gusto condiviso, di un ritorno cioè (alme-no nella narrativa) alle forme più tradizionali della modernità ottocentesca.

Il fenomeno che davvero caratterizza gli anni trenta e quaranta è, a ben guardare, ladivaricazione sempre più ampia che si viene a creare tra la tradizione modernista (di-ciamo Gadda, che però è anche un unicum e si comprende molto meglio chiamando incausa la tradizione della prosa d’arte novecentesca, o la linea espressionistica e maca-ronica, più che il modernismo)3 da quella del realismo – una divaricazione le cui con-seguenze si vedranno per altri versi con l’avvento del neorealismo degli anni quarantae cinquanta.

La discontinuità tra realismo modernista e realismo esistenziale degli anni venti etrenta si coglie molto bene ne Gli indifferenti di Moravia (1929), il primo dei romanzi piùsignificativi della nuova fase. Moravia guarda a Pirandello come a un maestro, ma giànel 1927, in un articolo pubblicato sulla «Fiera Letteraria», ne prende le distanze e affer-ma che il romanzo, per sopravvivere, necessita di un «equilibrio rigoroso del pensieroe dell’azione», laddove Pirandello aveva ecceduto in «cerebralità».4 Ne Gli indifferenti laripresa di tematiche pirandelliane (la maschera e il volto) è persino troppo evidente, matolte alcune pagine (il sogno di Carla nel decimo capitolo e il processo ‘immaginario’ diMichele nel quindicesimo) la forma della narrazione ha ben poco di sperimentale, so-prattutto se la si paragona ai Quaderni di Serafino Gubbio operatore o, e il paragone è le-

1 È il principio su cui si basa la periodizzazione proposta da Luperini, Il Novecento, cit., soprattutto pp. xv sgg.2 E. Testa, Lo stile semplice. Discorso e romanzo, Torino, Einaudi, 1997.3 Cfr., soprattutto, C. Segre, La tradizione macaronica da Folengo a Gadda (e oltre), in Semiotica filologica. Testi e

modelli culturali, Torino, Einaudi, 1979, pp. 169-183. Una interpretazione di Gadda in rapporto al modernismo europeo è invece quella sostenuta da R. Donnarumma, Gadda modernista, Pisa, ets, 2006, in part. pp. 14-19.

4 L’articolo è stato riproposto da Pasquale Voza su «Belfagor» nel marzo 1982 (Nel Ventisette sconosciuto: Moraviaintorno al romanzo, pp. 207-210), e cfr. anche le osservazioni in proposito di S. Guerriero, «Gli Indifferenti» nella storia del romanzo, «Belfagor», maggio 2008, pp. 259-270.

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cito trattandosi di un romanzo assai ‘teatrale’ e dialogato, ai Sei personaggi. La novità de-gli Indifferenti è dovuta semmai al cortocircuito tra la forma romanzesca tradizionale ela squallida, asfittica realtà altoborghese che essa contiene: nulla della violenza espres-sionistica di Pirandello arriva fino a questo libro, la cui cifra è piuttosto un’oggettivitàfredda e apatica, resa attraverso una prosa grigia, parlata, priva di scarti.

Anche Romano Bilenchi, uno degli autori più notevoli degli anni trenta, pur essendodebitore nei confronti di Tozzi per certe rappresentazioni della psicologia dell’adole-scente, in Conservatorio di Santa Teresa (1940) si guarda bene dal sovvertire le leggi dellagrammatica e della sintassi, aderendo ad una colloquialità e a una compostezza di tonoche non vogliono mai aggredire il lettore. In Bilenchi e in altri scrittori di questo perio-do (Pratolini, Tobino e Cassola) l’elemento esistenziale è, inoltre, sempre molto più for-te e molto più marcato che nel realismo modernista: anzi, il vero obiettivo della loronarrativa è quello di raccontare l’esistenza in termini assoluti e universali – un obietti-vo non troppo diverso da quello dei poeti ermetici di cui in molti casi sono amici e so-dali. Il paradosso di Conservatorio è che a un massimo di denotatività, di trasparenza edi semplicità stilistica corrisponde una mancanza di realismo inteso come rappresenta-zione seria e problematica del quotidiano e di vero interesse per ciò che sta fuori dallacoscienza. Qualcosa di simile si potrebbe dire per Conversazione in Sicilia (1938-1939), for-se il romanzo più sopravvalutato di quest’epoca, dove la riproposizione manieristica dialcuni procedimenti del modernismo angloamericano (quello che T. S. Eliot chiamavail «metodo mitico») e la presenza di un simbolismo molto più esasperato, ha in questomomento per Vittorini un’importanza ben maggiore della preoccupazione ‘realistica’in senso stretto. Conversazione in Sicilia mostra molto bene l’avvenuta separazione trarealismo e modernismo, che sono ormai, a questa altezza, fenomeni distinti e autono-mi. Lo stesso Vittorini, del resto, potrà riproporsi al pubblico nel 1945 come scrittoreneorealista con Uomini e no, lasciandosi tranquillamente alle spalle modernismo e sperimentalismo, così come faranno del resto quasi tutti gli scrittori di questo periodo(salvo rari casi, come il Fenoglio de Il partigiano Johnny, che però non può essere sceltocome il romanzo più rappresentativo di questa stagione.

4. Due paradigmi del modernismo

La categoria di modernismo, come si sa (e tranne poche eccezioni), non viene corren-temente utilizzata per la letteratura italiana, mentre ha ampio corso altrove ed identifi-ca un gruppo di autori e di opere decisivi della letteratura angloamericana del primoNovecento: modernisti sono considerati alcuni romanzi come The Rainbow (1915) di D.H. Lawrence, A Portrait of the Artist as a Young Man (1916) e Ulysses di James Joyce (1922),To the Lighthouse di Virginia Woolf (1927). Molti di questi libri hanno in comune tantotemi (l’interesse per il ‘primitivismo’, o il motivo apocalittico) quanto forme e tecnichenarrative (il flusso di coscienza, il poliprospettivismo, ecc.), ma per poter utilizzare lacategoria di modernismo in ambito europeo (e dunque anche italiano), è necessario ri-salire ancora oltre i temi e le forme, e cercare di comprendere i caratteri del moderni-smo come ‘forma simbolica’. Chi si è spinto più avanti in questa direzione è stato a mioavviso Erich Auerbach nell’ultimo capitolo di Mimesis, Il calzerotto marrone.

Le pagine da To the Lighthouse e dalla Recherche che Auerbach esamina con la sua len-te d’ingrandimento ci permettono di individuare i due paradigmi fondamentali dellanarrativa modernista, quelli che chiamerò paradigma ‘verticale’ e paradigma ‘orizzon-tale’. Proust, scrive l’Autore di Mimesis, ha fatto proprie le tecniche del «romanzo del

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soggettivismo unipersonale»1 di fine Ottocento per creare però qualcosa di nuovo: lacoscienza di Marcel, infatti, «vede in prospettiva i propri strati passati […] confrontandolicontinuamente tra di loro»2 e in questo modo relativizza e storicizza se stessa, superala tentazione dell’isolamento solipsistico. Proust, a differenza di Huysmans e del ro-manzo decadente (in Italia si pensi al Piacere di d’Annunzio), ci mostra la molteplicità ela frammentazione dell’io. To the Lighthouse, secondo Auerbach, percorre invece una se-conda strada, combinando la prospettiva temporale proustiana con la «rappresentazio-ne della coscienza pluripersonale»3 in un ampio e variegato quadro «polifonico»:4 ciòche Proust aveva ottenuto mediante uno scavo ‘verticale’, attraverso lo stratificarsi deitempi interiori dentro la coscienza di un solo soggetto, Marcel, in Virginia Woolf è rag-giunto ‘orizzontalmente’, mediante il rifrangersi della realtà nella coscienza polipro-spettica di tanti soggetti. Anche qui però lo straniamento è massimo e il realismo nondà un’immagine pacificata e totalizzante del presente.

La verticalità e la stratificazione della coscienza di Proust e l’orizzontalità policentri-ca della Woolf sono assunti, nel capitolo conclusivo di Mimesis, come paradigmi noncontrapposti ma (mi sembra) complementari del realismo modernista. In entrambi i ca-si è, infatti, sempre la quotidianità il vero contenuto della narrazione (sebbene non sipossa più parlare di una sua ‘rappresentazione’ oggettiva e distaccata). Il processo chemette in moto lo sguardo interiore in Proust non nasce mai da esperienze eccezionalio privilegiate, bensì da fatti casuali e comuni, come il sapore di un biscotto che rievocanel narratore il ricordo dell’infanzia a Combray. Analogamente, nel lungo brano di Tothe Lighthouse che apre il ventesimo capitolo di Mimesis, le varie voci tentano di spiega-re l’espressione di tristezza che corre sul volto della signora Ramsay mentre sta pro-vando al piccolo James il calzerotto che all’indomani, se sarà bel tempo, dovrà essereregalato al figlio del guardiano del faro: l’insieme dei «piccoli avvenimenti esteriori» forma la cornice oggettiva e concreta entro la quale una pluralità di soggetti (la stessasignora Ramsay, la «gente» e gli ospiti della casa) elabora ipotesi, fornisce ragioni, espri-me punti di vista. Il ‘mistero’ della realtà quotidiana risulta così accerchiato da più par-ti: oppone la più strenua resistenza all’attribuzione di un senso, ma la sua consistenzaoggettiva non è mai seriamente messa in dubbio.

Il doppio paradigma implicitamente proposto da Auerbach nell’ultimo capitolo diMimesis funziona altrettanto bene, credo, per il realismo modernista italiano: al model-lo verticale di Proust sono assimilabili I quaderni di Serafino Gubbio operatore, i Ricordi diun giovane impiegato e La coscienza di Zeno; al paradigma orizzontale di Woolf, invece, ilcapolavoro assoluto di Tozzi, Con gli occhi chiusi e, con risultati artistici inferiori, ancheIl podere. Per comprendere la novità di questi romanzi è però necessario andare oltrel’esame stilistico ed esplorarne le forme del contenuto: trama, intreccio, funzioni deipersonaggi.

5. Il canone del realismo modernista italiano: Pirandello, Svevo, Tozzi

L’epoca del realismo modernista coincide con la fase artisticamente più significativa del-l’attività letteraria di Pirandello, di Tozzi e di Svevo. La storia del romanzo pirandellia-no conosce tre fasi: quella tardoverista, che va dal 1893 (L’esclusa) al 1913 (I vecchi e giova-ni), con la sola, significativa eccezione del Fu Mattia Pascal (1904), un romanzo che si

1 E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Torino, Einaudi, 1956, vol. ii, p. 320.2 Ivi, p. 326 (c.m.). 3 Ivi, p. 320. 4 Ivi, p. 324.

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potrebbe forse definire ‘paleomodernista’,1 e che nel suo ostentato antinaturalismo coniuga le suggestioni della tradizione sterniana e di un certo romanticismo con le esigenze del mercato e della letteratura di consumo allora in voga. È solo dopo questafase di transizione che ha inizio quella centrale dei Quaderni (e parallelamente, in ambito teatrale, dei Sei personaggi in cerca d’autore, 1921, un dramma indubbiamente modernista e non realista); dopodiché si avrà l’involuzione di Uno nessuno e centomila(1925-1926), un concentrato dei più vieti luoghi comuni del pirandellismo ridotto a si-stema ideologico e decaduto a mero ‘codice’ letterario. Tozzi invece, dopo la fallita prova giovanile di Adele, un tentativo abortito di romanzo dannunziano e simbolista,esordisce nel genere romanzo nel 1919 con Con gli occhi chiusi (iniziato però alcuni anniprima, forse nel 1913), che insieme alla Coscienza di Zeno è il grande capolavoro del realismo modernista. La cronologia dei tre romanzi di Svevo, infine, parla da sé: Una vi-ta (1892) e Senilità (1898) si collocano l’uno nella tarda stagione del naturalismo, l’altroin quell’epoca di transizione dai caratteri mobili e ancora indefiniti che chiude l’Otto-cento. E benché Svevo già in Senilità avesse compiuto un netto passo in avanti, sia dalpunto di vista della maturità stilistica sia da quello della consapevolezza letteraria, ri-spetto al primo libro, è solo grazie a La coscienza di Zeno (1923) che possiamo conside-rarlo oggi uno dei pochi scrittori italiani di rilevanza europea.

Pur appartenendo a due generazioni diverse (Svevo e Pirandello a quella degli annisessanta, Tozzi a quella degli anni ottanta dell’Ottocento), tutti e tre gli autori del reali-smo modernista scrivono (o riscrivono) molte delle opere per le quali oggi li ricordia-mo nello stesso torno di tempo, tra il 1914-1915 e il 1925. Anche la loro formazione è as-sai eterogenea: Svevo ha una cultura più europea che italiana, e in parte questo valeanche per Pirandello, che però è allo stesso tempo profondamente legato a Verga e al-la tradizione siciliana. Tozzi è l’unico dei tre ad avere realmente ‘attraversato’ il simbo-lismo e d’Annunzio (che per buona parte degli anni giovanili resta il suo principale punto di riferimento), mentre tanto Svevo quanto Pirandello hanno alle loro spallel’esperienza del naturalismo, che Tozzi recupererà in seconda battuta solo negli ultimianni di vita, grazie alla rilettura che di Verga stava facendo in quel momento propriol’amico Pirandello. Eppure, nonostante la diversa formazione culturale, tutti e tre sonoimpegnati nello stesso progetto: ridare senso alla forma-romanzo (e alla forma-novel-la), facendone lo strumento di rappresentazione dei conflitti della modernità, del nuo-vo rapporto tra io e mondo, delle angosce del presente.

Fra i tre, è forse proprio l’Autore senese ad incarnare più pienamente, e non solo perragioni anagrafiche (essendo coetaneo di Kaf ka, anche lui nato nel 1883, oltre che di Joyce e della Woolf, entrambi del 1882), lo spirito del realismo modernista. Lo incarnatanto come romanziere quanto come autore di novelle, un genere nel quale, a partireanche in questo caso dagli anni della guerra (e non prima, come sostiene una parte del-la critica più recente),2 Tozzi ha prodotto un gran numero di piccoli capolavori ancorapoco conosciuti, paragonabili per forza espressiva ai più celebrati racconti di Pirandel-lo, ma di quelli tanto più amari e desolati.

1 Uso il termine in una accezione molto più ristretta di quella che trovo in F. Kermode, Continuities, London,Routledge & Kegan Paul, 1968, pp. 8 sgg. Kermode chiama «palaeo-modernism» tutto ciò che prefigura il mo-dernismo vero e proprio degli anni 1910-1925 (romanticismo e simbolismo compresi), e specularmente «neo-mo-dernism» l’insieme delle poetiche che a questo, di fatto e in sostanziale continuità, si richiamano (da Rauschen-berg alla musica aleatoria di Cage).

2 È la tesi sostenuta da L. Baldacci, Tozzi moderno, Torino, Einaudi, 1993, pp. 100-133.

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Nella vicenda di Tozzi storia e autobiografia scorrono parallele con particolare sin-cronia: il 1914-1915 è l’anno del definitivo passaggio dalla fase giovanile, dannunziana esimbolista, all’età adulta, che reca l’impronta di Borgese (il critico accademico più in-telligente di quegli anni) e di Pirandello. Da Siena si trasferisce proprio nel 1914 a Romaper cercare un impiego nell’industria culturale capitolina, ma l’anno dopo sarà arruo-lato nella Croce Rossa: come Pirandello e come Svevo non vive quindi direttamentel’esperienza del fronte, ma osserva a distanza le conseguenze del conflitto mondiale sul-la vita quotidiana dei borghesi, e dal suo isolamento ritrae un’umanità sconfitta e reifi-cata. Il suo tono apocalittico e il suo cupo pessimistico non sono mitigati dalla sua reli-giosità ‘medievale’, che anzi accentua fino all’esasperazione lo iato tra il mondo degliuomini abbandonato da dio e la trascendenza. Proprio negli anni della guerra, e poi neidue che ancora gli resteranno da vivere prima della morte per polmonite nel 1920, scri-verà le sue pagine migliori.

6. Pirandello: la coscienza del realismo

Il realismo di Pirandello non è incosciente;come quello di Zola o del Maupassant.Si potrebbe chiamare, piuttosto, la coscienza del realismo.F. Tozzi, Luigi Pirandello, 1919

Quello della rappresentazione è uno dei temi principali dei Quaderni di Serafino Gubbiooperatore, ed è, come si sa, un tema tipicamente modernista. Chi non ama questo ro-manzo ne critica però, di solito, l’aspetto da feuilleton, il concentrato di luoghi comunidella commedia, del film e del romanzo borghese che, indubbiamente, vi è presente:una femme fatale, Varia Nestoroff, i suoi amori e tradimenti, i rancori che ne derivano, ilricordo del suicidio del fidanzato di lei, Giorgio Mirelli, e il delitto passionale compiu-to da Aldo Nuti alla fine del libro. Sembra non mancare nulla in questo intreccio tantoforte quanto inverosimile ed improbabile e questo romanzo potrebbe facilmente esse-re confuso con uno dei tanti e anonimi prodotti della letteratura di consumo dell’epo-ca, se non fosse per la presenza straniante e ambigua del narratore autodiegetico, Sera-fino, che annota quanto accade (e lo commenta) con la stessa «impassibilità di cosa» concui riprende la truculenta scena finale in cui Nuti, dentro la gabbia della tigre, spara al-la Nestoroff che siede accanto al suo amante e viene subito dopo sbranato dall’anima-le mentre Serafino, ammutolito, riprende la scena.

C’è però una pagina del libro che mi sembra particolarmente significativa, anche piùdell’ultima, per capire la vera novità dei Quaderni. È quella in cui la Nestoroff gira unascena del film La donna e la tigre: il seno nudo, con una fascia che le copre solamente ifianchi e il pube, danza sensualmente davanti all’operatore che, impassibile come al so-lito, continua a girare la manovella della cinepresa di fronte a lei, come se nulla fosse:

Ebbene, questa mattina, mentre giravo la macchinetta, ho avuto tutt’a un tratto il terribile sospet-to, ch’ella – rappresentando, al solito, come una forsennata, la sua parte – volesse uccidersi: sì, sì,proprio uccidersi, davanti a me. Non so com’io abbia fatto a conservare la mia impassibilità; a direa me stesso: “Tu sei una mano, gira! Ella ti guarda, ti guarda fiso, non guarda che te, per farti intendere qualche cosa; ma tu non sai nulla, tu non devi intender nulla; gira!”

S’è cominciato a iscenare il film della tigre, che sarà lunghissimo e a cui prenderanno parte tutt’equattro le compagnie. Non mi curerò minimamente di cercare il bandolo di quest’arruffata matassadi volgari, stupidissime scene. So che la Nestoroff non vi prenderà parte, non avendo ottenuto chele fosse assegnata quella della protagonista. Solo questa mattina, per una particolare concessione

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al Bertini, ha posato per una breve scena di “colore”, in una particina secondaria, ma non facile, digiovane indiana, selvaggia e fanatica che s’uccide eseguendo “la danza dei pugnali”.

Segnato il campo nello sterrato, Bertini ha disposto in semicerchio una ventina di comparse, ca-muffate da selvaggi indiani. S’è fatta avanti la Nestoroff quasi tutta nuda, con una sola fascia suifianchi a righe gialle verdi rosse turchine. Ma la nudità meravigliosa del saldo corpo esile e pienoera quasi coperta dalla sdegnosa noncuranza di esso, con cui ella si è presentata in mezzo a tuttiquegli uomini, a testa alta, giù le braccia coi due pugnali affilatissimi, uno per pugno.

Bertini ha spiegato brevemente l’azione:- Ella danza. È come un rito. Tutti stanno ad assistere religiosamente. A un tratto, a un mio gri-

do, in mezzo alla danza, ella si trafigge il seno coi due pugnali e stramazza. Tutti accorrono e le sifanno sopra, stupiti e sgomenti. Sù, sù, attenti, attenti al campo! Voi di là, avete capito? state prima,serii, a guardare; appena la signora stramazza, accorrete tutti! Attenti, attenti al campo per ora!

La Nestoroff, facendosi in mezzo al semicerchio coi due pugnali branditi, ha preso a guardarmicon una così acuta e dura fissità, ch’io, dietro al mio grosso ragno nero in agguato sul treppiedi, misono sentito vagellar gli occhi e intorbidare la vista. Per miracolo ho potuto obbedire al comandodi Bertini:

- Si gira!E mi son messo, come un automa, a girar la manovella.Tra i penosi contorcimenti di quella sua strana danza màcabra, tra il luccichìo sinistro dei due

pugnali, ella non staccò un minuto gli occhi da’ miei, che la seguivano, affascinati. Le vidi sul senoanelante il sudore rigar di solchi la manteca giallastra, di cui era tutto impiastricciato. Senza darsialcun pensiero della sua nudità, ella si dimenava come frenetica, ansava, e pian piano, con voce af-fannosa, sempre con gli occhi fissi ne’ miei, domandava ogni tanto:

- Bien comme ça? bien comme ça?Come se volesse saperlo da me; e gli occhi erano quelli d’una pazza. Certo, ne’ miei leggevano,

oltre la maraviglia, uno sgomento prossimo a cangiarsi in terrore nell’attesa trepidante del gridodel Bertini. Quando il grido uscì ed ella si ritorse contro il seno la punta de’ due pugnali e stramazzòa terra, io ebbi veramente per un attimo l’impressione che si fosse trafitta, e fui per accorrere an-ch’io, lasciando la manovella, allorché Bertini su le furie incitò le comparse.

- A vojaltri, perdio! accorrere! fatemi la controparte! … Così … così … basta!Ero sfinito; la mano m’era diventata come di piombo, seguitando da sé, meccanicamente, a girar

la manovella.Ho visto Carlo Ferro accorrer fosco, pieno di collera e di tenerezza, con un lungo mantello

violaceo, ajutar la donna a rialzarsi, avvolgerla in quel mantello e portarsela via, quasi di peso, nelcamerino.

Ho guardato nella macchinetta, e mi sono trovata in gola una curiosa voce sonnolenta per an-nunziare al Bertini:

- Ventidue metri.1

La pagina è interessante per più di una ragione. Intanto per il rapporto del tutto parti-colare tra la vicenda e il suo commento. La scena della danza selvaggia è infatti prece-duta (anziché seguita, come sarebbe logico aspettarsi in un racconto tradizionale) dalcommento del narratore, che anticipa la reazione da lui provata e persino il brevissimomonologo interiore che dovremmo idealmente collocare verso la fine della danza or-giastica, quando la Nestoroff guarda negli occhi Serafino («Tu sei una mano, gira! Ellati guarda, ti guarda fiso, non guarda che te, per farti intendere qualche cosa; ma tu nonsai nulla, tu non devi intender nulla; gira!»). La dislocazione del commento rispetto alracconto genera attesa e attira l’attenzione del lettore, ma soprattutto ne orienta da su-bito l’interpretazione della scena che sta per essere raccontata. Lo schema è, in picco-

1 L. Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, in Tutti i romanzi, ii, a cura di G. Macchia e M. Costan-zo, Milano, Mondadori, 1973, pp. 597-599.

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lo, lo stesso adottato nel racconto del «fatto atrocissimo» che chiuderà il libro (pp. 729-735). Ed è uno dei molti, ma impercettibili, effetti di smontaggio della fabula e di rottu-ra dell’ordine narrativo che rendono i Quaderni il romanzo più originale di Pirandello.

Subito dopo la breve prolessi, Serafino racconta la storia ordinatamente e dall’inizio,non senza, però, un ammicco scopertamente metanarrativo: «Non mi curerò minima-mente di cercare il bandolo di quest’arruffata matassa di volgari, stupidissime scene».L’arruffata matassa di scene volgari e stupidissime è (come un lettore attento può ar-guire) non solo quella del film che si sta girando, fatto di quegli ingredienti che poteva-no piacere allo spettatore medio degli anni dieci (corpi femminili generosamente mo-strati e avventurismo coloniale): è anche quella dei Quaderni di Serafino Gubbio, che dalpunto di vista della trama sono un vero pasticcio di triti luoghi comuni conditi con unpoco di erotismo soft.1 Dunque: entra la Nestoroff. Serafino ne osserva il corpo, ed è at-tratto soprattutto dal seno scoperto: lo sconcerta la mancanza di pudore nel mostrarlo,sia quando lei entra sul set e ascolta con disinvoltura assieme alle comparse le indica-zioni del regista, sia quando comincia l’azione vera e propria. La Nestoroff si agita e fis-sa con occhi da pazza Serafino (o più verosimilmente guarda in camera, senza preoc-cuparsi di chi vi sta dietro), chiedendo, in francese, se la ripresa stia andando bene. Poi,al segnale convenuto, si pugnala, ponendo fine alla danza sacrificale.

Il racconto di Serafino mima la progressione concitata della danza, il climax ne ri-produce il crescendo orgiastico, e ci rivela il punto di vista tutt’altro che impassibile edistaccato dell’osservatore. Un piccolo particolare non necessario come il sudore che riga il seno di Varia Nestoroff sciogliendone il cerone rende tutto molto credibile, creacon la sua evidente gratuità quell’‘effetto di reale’ che permette l’immedesimazione dellettore. Al termine della scena, quando l’attrice cade a terra, Serafino è «sfinito». La ma-no gli pesa per il movimento prolungato, ma il suo spossamento è forse anche dovutoalla forte eccitazione che la scena ed il corpo bellissimo e nudo della donna hanno in-dubbiamente provocato in lui. Il sottinteso erotico (e più esattamente onanistico) è pre-sente anche nelle parole dell’attrice («Bien comme ça? bien comme ça?»), che potrebberoessere le stesse di chi chiedesse all’amante se lo sta soddisfacendo, se ha provato o staprovando piacere nell’atto sessuale. Ma è pura virtualità, e qui l’impressione di Serafi-no è esattamente quella che potrebbe provare lo spettatore dello stesso film seduto nel-la poltrona di un cinematografo. L’unica differenza è che Serafino è lì, sul set, e imma-gina che la Nestoroff, in carne ed ossa, stia guardando proprio lui…

Ingannato lui stesso dalla verosimiglianza dell’azione, sta quasi per correre in soc-corso di Varia, caduta a terra dopo la (finta) pugnalata, ma non lo fa, perché il suo com-pito, lui lo sa bene, è quello di stare dietro alla macchina. Per tutta la durata della scenasi limita a girare la manovella. Con una voce «sonnolenta», che sorprende lui stesso,quasi come se a parlare non fosse stato lui, ma un altro se stesso. Serafino annuncia in-fine al regista che la scena ha richiesto ventidue metri di pellicola: ma anche questa fra-se è rivolta al lettore e lo richiama alla dimensione metaletteraria. Come a dire: «Ecco,è tutto qui, la storia è finita e non era niente altro che una storia». Il cinema è finzione,ma anche la letteratura non è niente altro che finzione.

1 Quella della danza orgiastica non è la sola scena di erotismo soft presente nel romanzo: «Ecco qua: una gio-vane attrice, in costume di “divette” o di ballerina, va correndo col torso ignudo per le piattaforme e gli sterrati;si ferma qua e là a conversare col seno imbandito sotto gli occhi di tutti; ebbene, il giovanotto suo amico le viendietro con la scatola e il piumino della cipria in mano, e ogni tanto glielo ripassa su la pelle, su le braccia, su la nu-ca, sotto la gola, orgoglioso che un siffatto ufficio spetti a lui» (ivi, p. 593).

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C’è però un particolare che non quadra in questa pagina. Varia Nestoroff è una pes-sima attrice: la sua recitazione caricata e scomposta ne rende inverosimile il personag-gio e costringe la troupe a ripetere la registrazione numerose volte (pp. 555-556), e tuttisanno che l’unico motivo del suo successo, l’unica sua qualità è la bellezza, il fascino fe-rino (quel fascino che rende facile assimilarla alla tigre in gabbia che dovrà essere sacri-ficata per il film). Eppure in questa scena lei è assolutamente credibile, tanto che Sera-fino, l’impassibile ed esperto Serafino, ingannato dal ‘realismo’ di quel finto suicidio,come si è detto, sta per accorrere in suo soccorso. Ora, Varia Nestoroff risulta inaspet-tatamente credibile quando recita il proprio finto suicidio perché, in questo caso, la fin-zione coincide con la realtà, e la maschera è il volto: la Nestoroff vorrebbe davvero, se-gretamente, porre fine alla propria vita. La sua ansia di autodistruzione sarà esplicitatapiù oltre, quando proprio lei confiderà a Serafino, nel Quaderno vi (cap. iii): «Non lo te-mo, non lo temo [Aldo Nuti]! […] Non temo mi possa venire da lui nessun male, nep-pure se m’uccidesse […] Un altro delitto, la prigione, la morte stessa, sarebbero per memali minori di quello che soffro adesso e nel quale voglio restare».1 Solo la morte po-trebbe placare il rimorso per aver provocato il suicidio di Giorgio Mirelli.

Ecco il punto: la danza sacrificale recitata con tanta insolita immedesimazione rivelaquesto desiderio nascosto e anticipa la vera morte di Varia Nestoroff, che sarà uccisa dalcolpo di fucile di Aldo Nuti, l’amante rifiutato ma anche l’esecutore materiale di quel-lo che, a veder bene, non è affatto un omicidio ma un suicidio accuratamente pianifi-cato, al quale ne segue un altro, quello di Aldo Nuti, responsabile anche lui della mor-te dell’amico. Varia è credibile perché, in questo film assurdo e senza capo né coda, starecitando se stessa.

Sangue, rivalità mimetica, erotismo: gli ingredienti del dramma passionale e del ro-manzesco, nonché ovviamente del cinema muto degli anni Dieci, sono tutti presentiin abbondanza in questo libro di Pirandello. Ma lo sono per due motivi: il primo è perché il modernismo non nutre affatto per il ‘romanzesco’ il disprezzo mostrato dal-le avanguardie. Il secondo motivo, è che, come si è visto, il romanzesco è funzionale aqualcos’altro. I Quaderni di Serafino Gubbio operatore non sono solo una caricatura polemica della nuova arte di massa, ma anche una riflessione che l’arte narrativa fa suse stessa. In questo romanzo il problema della rappresentazione non ha, però, quel carattere di autoreferenzialità e metadiscorsività che è tipico di alcune delle forme piùestreme del modernismo europeo e che sarà dominante nel postmoderno: la rappre-sentazione interessa il Pirandello romanziere nella misura in cui gli consente di inda-gare un nodo realmente problematico della vita dell’uomo contemporaneo, vale a direla perdita di significato dell’esperienza, la sostituzione del vissuto con la sua rappre-sentazione virtuale, il mutamento del modo di vivere la quotidianità provocato daimass-media e dalle nuove tecnologie dell’immaginario. L’espressione più compiuta della moderna perdita di contatto con la realtà è, per Pirandello, il cinema. Il cinema èl’arte del racconto ridotta a tecnica, a pura e semplice ‘registrazione’. Gli attori non recitano di fronte ad un pubblico in carne ed ossa, come a teatro, ma davanti a una macchina e ad uno spettatore virtuale: e dietro la macchina non c’è un narratore o unpoeta, ma un tecnico, qualcuno che sa come farla funzionare. Serafino, dopo aver coltivato in gioventù sogni scapigliati e ideali artistici si è ora ridotto a fare il tecnicocinematografico per sbarcare il lunario ed ha accettato di diventare una mano dietro auna manovella.

1 Ivi, p. 696.

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Quella del cinema è però ben più che una semplice metafora: è la manifestazioneconcreta del processo di degradazione che l’arte, come ogni altra attività umana, hasubito nel moderno. È la sineddoche più efficace che si potesse usare, nel 1915, per raccontare la disumanizzazione dell’arte e il tramonto dell’umanesimo. Mentre la me-tafora teatrale del volto e della maschera dei Sei personaggi dice (o pretende di dire)qualcosa di universalmente vero, al di là di ogni tempo e situazione storica, la sined-doche cinematografica è portatrice di una verità parziale e storicamente determinata:solo l’uomo della modernità novecentesca, infatti, ha potuto sperimentare quella radicale trasformazione delle facoltà sensoriali e intellettive, della coscienza di sé e della morale di cui Serafino-personaggio è l’esempio vivente e di cui Serafino-narratoreè la coscienza.

Il realismo dei Quaderni sta esattamente qui: nel mostrare il mondo del cinemato-grafo non come metafora universale e senza tempo della condizione umana, ma comesineddoche della trasformazione antropologica dell’artista e dunque anche dell’uomocontemporaneo, della modificazione del suo immaginario. Il suo modernismo sta in-vece nel mostrare questa trasformazione attraverso la prospettiva soggettiva e defor-mante di un narratore-personaggio inattendibile e scisso, sdoppiato; di un testimoneinaffidabile che continuamente si contraddice, che omette di dire e che nega quello chenon vuole ammettere neppure a se stesso. Benché si sforzi di negarlo, Serafino è infat-ti irresistibilmente attratto da Varia Nestoroff, ed ecco un altro (forse il vero) motivo percui era stato sul punto di correre in suo soccorso al termine della danza orgiastica. Neè attratto, ma lo nega recisamente, perché la sua coscienza morale (il residuo di uma-nesimo che è in lui) non tollera alcuna compromissione con chi si è reso responsabiledella morte di Giorgio Mirelli, il suo vecchio amico ed allievo:

se dicessi apertamente questo ch’io penso di lei a’ miei compagni operatori, agli attori, alle attricidella Casa, tutti sospetterebbero subito che mi sia anch’io innamorato della Nestoroff, non mi cu-ro di questo sospetto.1

Perché Serafino mette le mani avanti così scopertamente? Cos’ha da nascondere? Per-ché tutti dovrebbero sospettare che ama la Nestoroff? L’affermazione di Serafino ha tut-to l’aspetto della denegazione freudiana, e del resto: non è il desiderio (morboso, in-confessabile) di rivedere la donna per cui l’amico si è suicidato ad indurre Serafino adaccettare la proposta di Cocò Polacco di lavorare alla Kosmograph?2

Il mondo del cinema descritto nei Quaderni ricorda da vicino, al lettore del nostrotempo, il mondo della televisione narrato in uno dei migliori romanzi italiani degli ul-timi anni: Troppi paradisi (2006) di Walter Siti. Entrambi i libri parlano dell’industria del-l’irrealtà, rispettivamente all’inizio e al culmine della sua storia. Il libro di Siti è stato eti-chettato come ‘postmodernismo critico’. Il postmodernismo, però, fa dell’esperienzauna pura funzione del mondo virtuale: non racconta, cioè, la realtà vissuta, ma evocanostalgicamente il vissuto collettivo, attingendo all’immaginario comune (film, canzo-ni, programmi televisivi, personaggi dello sport). Siti fa anche questo, ma va oltre: non

1 Ivi, p. 554.2 Beatrice Stasi afferma che «niente nella trama e nelle parole che le germinano addosso autorizza a ipotizza-

re un’attrazione erotica dell’operatore verso l’attrice» (B. Stasi, La trama dei «Quaderni di Serafino Gubbio operato-re», «Per leggere», iv, 6, 2004, p. 89). Credo invece che tanto alcuni motivi della trama (la scena della danza sacrifi-cale e l’accettazione della proposta di Cocò) quanto le parole di Serafino (la denegazione) dicano esattamente ilcontrario e siano l’esempio migliore di quella inattendibilità e reticenza del narratore che proprio il saggio dellaStasi vuole mettere in evidenza.

Realismo modernista. Un’idea del romanzo italiano (1915-1925) 39

si accontenta della superficie e racconta dall’interno il funzionamento dell’industria del-l’irrealtà, i meccanismi produttivi dell’immaginario postmoderno. Per questo anzichédi postmodernismo credo sia più appropriato parlare nel suo caso (e anche nel caso diPhilip Roth, di Abraham Yehoshua, di Oz, di Franzen, di Houellebecq) di recupero erinnovamento della tradizione del realismo modernista.

7. Tozzi o il realismo del desiderio

Agostino figliolo di un cavallaio che aveva due poderi a confine con Poggio a Meli, non voleva chePietro parlasse troppo con Ghìsola; per quell’amor proprio che nell’adolescenza somiglia alla ge-losia. E capì che doveva odiare il rispetto ingenuo di Pietro; e compatirlo come una debolezza. Ghì-sola infatti dava al suo padroncino un senso di disagio e d’impaccio; ma egli voleva essere forte ecercava di convincersi che preferiva l’amicizia di Agostino; e con lui doventava remissivo ed obbe-diente; procurando d’indovinare le cose che pensava e che non diceva a posta. Talvolta gli raccat-tava una pietra com’egli comandava soltanto guardandola; per tirarla a pena visto un uccello sopraun ramo accanto alla strada. E come il vento gonfiava la camicia d’Agostino, tutta sbottonata! Per-ché non aveva i polsi eguali a lui, le ciglia, gli orecchi, la camicia? E perché quando si provava a fa-re come lui, con la stessa aria di noncuranza, si trovava perso d’animo, senza fiato, con la paura diprovocare la sua collera che lo faceva tremare? Perché non poteva sostenere il suo sguardo cruc-ciato, impenetrabile e lucido, quando si provava a non rispondere alle sue domande e quando nonaveva indovinato? Quello sguardo lo impauriva […]1

Il quinto capitolo di Con gli occhi chiusi racconta l’origine del desiderio di Pietro, l’ado-lescente protagonista del romanzo, per Ghìsola, la piccola contadina che vive con i non-ni al podere di Poggio a’ Meli. Il mediatore di questo desiderio è un altro giovane, Ago-stino. Solo nel momento in cui lui entra in scena, la Ghìsola dal volto «tranquillamenteinsignificante e sciatto», la contadina «troppo semplice e quasi stupida» con indosso quel«largo cappello di paglia, che le calava sempre sopra un orecchio, guarnito con un na-stro di raso liso e con due rosette buttate via da Anna» e «la sottana rimendata male»,2si trasforma in oggetto del desiderio.

Agostino è il doppio speculare di Pietro: se questi è brutto, timido e introverso, Ago-stino è bello, forte e sicuro di sé, si trova a proprio agio in ogni situazione ed è invi diatoda Pietro, che vorrebbe essere come lui e che, pur di stargli vicino, accetta una posizio-ne subalterna: Agostino ostenta nei confronti di Ghìsola una confidenza che affascina(ma esclude) Pietro: Agostino e Ghìsola condividono un loro gergo, dialogano in unalingua segreta, ridotta alla pura funzione fàtica, fatta di espressioni senza senso che noncomunicano nulla, se non la stessa voglia di intimità. Pietro invidia questa segreta inti-mità e vorrebbe apprenderne anche lui la lingua, ma ovviamente non può. Prova, os-servandola dal di fuori, da escluso, «sentimenti inaspettati ai quali da solo non avrebbemai sognato». «Da solo»: Pietro è incapace di desiderare secondo sé e può farlo solo se-condo l’altro: è necessario che a desiderare per suo conto sia qualcuno che ammira (e chesa nascondere ‘ipocritamente’ il proprio desiderio); al tempo stesso però non può cheodiarlo in quanto minaccia di sottrargli proprio quell’oggetto di cui gli ha rivelato la preziosità e il valore. All’illusione romantica dell’amore assoluto e spontaneo, basatosull’affinità elettiva di due anime che si riconoscono l’una nell’altra come soggetto e og-getto del desiderio reciproco, Tozzi contrappone la realtà di un desiderio che ha origi-ne per imitazione.

1 F. Tozzi, Con gli occhi chiusi, in I romanzi, a cura di G. Tozzi, Firenze, Vallecchi, 1961, pp. 17-18.2 Ivi, pp. 18-19.

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La natura del desiderio di Pietro nei confronti di Ghìsola è, dunque, inequivocabil-mente triangolare. Esso nasce solo quando il giovane si accorge che Agostino cerca l’in-timità della ragazza, quando si avvede che l’insignificante Ghìsola è un essere desidera-bile agli occhi di qualcuno che lui ammira e invidia al tal punto da voler essere come lui(«Perché non aveva i polsi eguali a lui, le ciglia, gli orecchi, la camicia?»). Senza la me-diazione di Agostino, Ghìsola avrebbe vissuto per sempre nel limbo dell’insignificanzaentro il quale sono confinati tutti gli altri personaggi del libro, ad eccezione della ma-dre e, ovviamente, dei mediatori del desiderio. Il carattere mimetico del desiderio è con-fermato da molti particolari che al lettore attento non devono sfuggire: con Agostino,Ghìsola ha un sorriso piacevole, ride, tanto che Pietro soffre di non poter godere delrapporto privilegiato che la ragazzina ha con l’altro e le fa dei dispetti, si vendica con lepiccole crudeltà di cui è capace il bambino geloso della madre.

Il meccanismo triangolare in Con gli occhi chiusi è tanto importante da essere replica-to, con piccole ma non sostanziali variazioni, con la comparsa di un secondo perso-naggio, Antonio. Anche lui avrà la funzione di mediatore del desiderio, nel capitoloquattordicesimo, quando andrà ad occupare il vertice superiore del triangolo lasciato li-bero (così almeno crede Pietro) da Agostino («e Agostino, che aveva antipatia per An-tonio, fu sostituito»).1 Non bello («Anche quando non parlava gli si vedevano tutti i den-ti di sopra, sani ma storti: sembrava che li avesse piantati nel labbro. E aveva il nasopiegato da una parte»),2 Antonio è tuttavia più forte di Pietro: «s’erano bisticciati, pic-chiandosi su la schiena; ed egli [Pietro] aveva piuttosto voglia di smettere e di piangere,disperato che l’altro, invece, ci si divertisse».3 Il nuovo mediatore possiede inoltre qual-cosa che Pietro cerca disperatamente ma non ha: la stima e l’affetto di Domenico Rosi,il padre di Pietro. È il figlio forte e sano che Domenico avrebbe voluto.

Anche Antonio, come Agostino, vanta una confidenza e un’intimità speciale con Ghì-sola. Dice all’amico di averle parlato di nascosto, ma quando i due la incontrano e le par-lano, Ghìsola dichiara inaspettatamente di preferire il padroncino:

Antonio, per fare il più bravo, le mosse incontro in fretta. Ma Ghìsola rise di più a Pietro; e dette acapire che si fermava lì per lui. Allora Antonio si mosse per cogliersi una piccia di ciliegie, lascian-doli discosti; e Pietro le domandò: - È vero che vuoi bene soltanto a me? Dimmelo. Se non fossevero…Gli rispose con dolcezza: - Soltanto a lei… Però, Antonio non vorrebbe.4

I rapporti di forza sembrerebbero ora invertiti: adesso è Pietro, partito in svantaggio, atrovarsi nel ruolo del rivale vincente. È lui il preferito (o così crede). Ma il mutamentoè solo apparente, perché Pietro è del tutto incapace di sfruttare la posizione privilegia-ta in cui si trova: Antonio è ancora il più forte, e Pietro continua a temerne la superio-rità fisica:

Antonio, vedendo Pietro assorto, lo urtò. Quegli per non cadere fece un passo innanzi, presso Ghì-sola; ma non fiatò perché Antonio non volesse picchiarlo proprio lì: gli parve che ella odorasse mol-to, di un odore strano; che lo eccitò. Gli parve anche che facesse l’atto di aprirgli le braccia; e ne fututto sconvolto: “Se l’avesse aperte da vero?”5

Spinto bruscamente dall’altro, Pietro abbozza e fa finta di niente, per non rischiare disoccombere di fronte a Ghìsola, per non ricevere cioè dall’amico lo stesso tipo di umiliazione ricevuta dal padre altre volte, nel romanzo. Ritrovatosi inaspettatamentevicino alla ragazza (tanto vicino da sentirne l’odore e rimanerne eccitato), ha l’impres-

1 Ivi, p. 48. 2 Ivi, p. 50. 3 Ivi, p. 49. 4 Ivi, pp. 50-51. 5 Ivi, p. 52.

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sione che lei lo voglia abbracciare e ne ha paura. Tutta la scena è violentemente e cru-damente realistica. Non c’è ombra di idealizzazione romantica: le sole cose che conta-no sono da un lato la presenza del rivale, che contende l’oggetto desiderato, e dall’altrola pulsione sessuale ridotta a sensazione olfattiva, a istinto ferino.

La debolezza, l’inettitudine di Pietro è dichiarata qui da due elementi tra loro col-legati: per un verso la paura adolescenziale del contatto fisico con l’altro sesso, e perl’altro il bisogno di ritrovare la solidarietà dell’amico, del maschio, proprio per vince-re quella paura. Antonio, sconfitto, torna così ad essere vincitore. È Pietro, infatti, aseguirlo quando questi, stanco del gioco, dichiara di voler tornare a Siena: potrebberimanere lì, con Ghìsola, godere di quell’insperata intimità, e invece inventa una scusaper poter andar via anche lui («Bisogna che vada! Mio padre…»).1 I due ragazzi si allontanano scherzando, felici; si prendono a braccetto e ridacchiano, contenti, en-trambi, di aver ristabilito l’equilibrio iniziale. Pietro non si volta neppure a guardareGhìsola «perché non faccia altrettanto Antonio»,2 che teme ancora come un rivale pericoloso e che non ha il coraggio di sfidare apertamente. Giunti a Siena, si promet-tono infine «di non parlare più nessuno dei due a Ghìsola»,3 per non comprometterela loro amicizia, vale a dire per non mettere più in discussione il ruolo subalterno cheuno di loro, Pietro, ha bisogno di ricoprire nei confronti dell’altro perché la loro amicizia, fondata sulla dialettica servo/padrone, funzioni. Le priorità di Pietro sonodunque chiare: il modello conta più dell’oggetto, e se il possesso di Ghìsola implica larinuncia alla contiguità col modello, allora è meglio differire a tempo indeterminatoquel possesso.

I personaggi tozziani sono sempre condizionati. La loro introflessione, la loro ‘ceci-tà’ è una risposta alla pervasività dei condizionamenti esterni. Anche Ghìsola «sentemalvolentieri che tutto ciò che esiste non era soltanto in lei»,4 cioè diffida del mondoesterno e vorrebbe coltivare la propria intimità. In qualche modo Ghisola è il ‘doppio’di Pietro, e la cecità tematizzata dal titolo riguarda lei non meno che lui. Nella partecentrale del romanzo, tuttavia, dopo l’allontanamento della bambina da Poggio a’ Me-li, Ghìsola sarà costretta ad aprire gli occhi su questa realtà esterna, perdendo la propriainnocenza giovanile ben prima di Pietro. Il carattere di Ghìsola, infatti, è fortementecondizionato dall’appartenenza di classe: è povera ed è una contadina, e allo stesso tem-po desidera la ricchezza e il lusso di cui godono i padroni. Diventata adulta, rifiuterà leproprie origini e, come è verosimile che accada ad una ragazza della sua condizione,sceglierà di farsi mantenere dai suoi amanti piuttosto che lavorare. La dialettica di classeè ben rappresentata in Con gli occhi chiusi, che anche da questo punto di vista è un romanzo realista. Ma in Con gli occhi chiusi il condizionamento esterno, come abbiamovisto, è ben più profondo: penetra fino alla sfera più segreta della psiche, rivela la natu-ra eterodiretta e imitativa del desiderio, indica con precisione una delle cause dell’inet-titudine del personaggio-uomo novecentesco.

Il realismo di Con gli occhi chiusi è dunque un realismo del desiderio, non un realismodell’oggetto.5 Non più il realismo “fotografico” e descrittivo naturalista, ma nemmenol’antirealismo solipsista e decadente di Huysmans o di d’Annunzio (o del primo Tozzi),perché l’eroe del romanzo decadente era un individuo eccezionale, era l’esteta che pro-clamava a gran voce la propria unicità rispetto alla massa, che rivendicava l’irripetibili-

1 Ivi, p. 53. 2 Ivi, p. 54. 3 Ibidem. 4 Ivi, p. 19.5 R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, Milano, Bompiani, 2002, p. 70.

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tà del suo carattere: per il modernista Tozzi, invece, nella verità del singolo individuo èsepolta la verità di tutti.1 Questa verità è la legge del desiderio eterodiretto e mimetico,ovvero della forma che il desiderio assume nell’epoca della società di massa.2

8. Svevo: il senso della fine

Fiabe non ne faccio più. La realtàmi distrae troppo dal sogno.I. Svevo, Lettera a Letizia Svevo,

10 dicembre 1915

26 giugno 1915La guerra m’ha raggiunto! Io che stavo a sentire le storie di guerra come se si fosse trattato di unaguerra di altri tempi di cui era divertente parlare, ma sarebbe stato sciocco di preoccuparsi, eccoche vi capitai in mezzo stupefatto e nello stesso tempo stupito di non essermi accorto prima chedovevo esservi prima o poi coinvolto. Io avevo vissuto in piena calma in un fabbricato di cui il pia-noterra bruciava e non avevo previsto che prima o poi tutto il fabbricato con me si sarebbe spro-fondato nelle fiamme.

La guerra mi prese, mi squassò come un cencio, mi privò in una sola volta di tutta la mia fami-glia ed anche del mio amministratore. Da un giorno all’altro io fui un uomo del tutto nuovo, anzi,per essere più esatto, tutte le mie ventiquattr’ore furono nuove del tutto. Da ieri sono un po’ piùcalmo perché finalmente, dopo l’attesa di un mese, ebbi le prime notizie della mia famiglia. Si tro-va sana e salva a Torino mentre io già avevo perduta ogni speranza di rivederla.

Devo passare la giornata intera nel mio ufficio. Non vi ho niente da fare, ma gli Olivi, quali cit-tadini italiani, hanno dovuto partire e tutti i miei pochi migliori impiegati sono andati a battersi diqua o di là e perciò devo restare al mio posto quale sorvegliante. Alla sera vado a casa carico dellegrosse chiavi del magazzino. Oggi che mi sento tanto più calmo, portai con me in ufficio questomanoscritto che potrebbe farmi passar meglio il lungo tempo. Infatti esso mi procura un quartod’ora meraviglioso in cui appresi che ci fu a questo mondo un’epoca di tanta quiete e silenzio dapermettere di occuparsi di giocattoletti simili.

Sarebbe anche bello che qualcuno m’invitasse sul serio di piombare in uno stato di mezza co-scienza tale da poter rivivere anche soltanto un’ora della mia vita precedente. Gli riderei in faccia.Come si può abbandonare un presente simile per andare alla ricerca di cose di nessun’importanza?A me pare che soltanto ora sono staccato definitivamente dalla mia salute e dalla mia malattia.Cammino per le vie della nostra misera città, sentendo di essere un privilegiato che non va allaguerra e che trova ogni giorno quello che gli occorre per mangiare. In confronto a tutti mi sentotanto felice – specie dacché ebbi notizie dei miei – che mi sembrerebbe di provocare l’ira degli deise stessi anche perfettamente bene.3

Come la Montagna incantata, anche la Coscienza di Zeno si conclude con lo scoppio del-la guerra. È questo evento ad imprimere una svolta, l’ultima e decisiva, alle vite dei dueprotagonisti. E non è l’unica affinità tra il personaggio di Hans Castorp e quello di Ze-no Cosini: entrambi sono reduci da una cura inutile. Hans prolunga la sua permanen-za nel sanatorio sulle Alpi svizzere benché non ne abbia realmente bisogno, solo perchésulla montagna incantata può fingere che il mondo e la realtà non lo riguardino. Quan-do però, dalla «pianura», giungono gli echi del conflitto prende una decisione e sceglie

1 Ivi, p. 52.2 Ho analizzato più estesamente il desiderio mimetico in Con gli occhi chiusi nel primo capitolo del mio libro

Parole cose persone. Il realismo modernista di Tozzi, Roma-Pisa, Giardini, 2009.3 I. Svevo, La coscienza di Zeno, in Romanzi e “continuazioni”, ed. critica con apparato genetico e commento di

N. Palmieri e F. Vittorini, Milano, Mondadori, 2004, p. 1070.

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di tornare laggiù, a combattere, come avrebbe fatto il cugino Joachim se fosse ancoravivo, sceglie di partecipare in questo modo alla vita degli uomini. Zeno, dal canto suo,si sottopone alla psicoterapia per guarire dalle proprie nevrosi (il vizio del fumo, la perenne insoddisfazione, il feticismo per il corpo femminile), ma quando il dottor S. formula la sua diagnosi definitiva, dichiarandolo guarito, non si sente affatto meglio, an-zi ha il sospetto che proprio la cura psicoanalitica abbia aggravato la sua malattia.1 Ladecisione di farla finita con le sedute dal dottor S. è annunciata nella pagina di diario del3 maggio 1915, e bisogna fare attenzione alle date: Zeno riprende a scrivere per noia, per-ché a Trieste, «dopo lo scoppio della guerra, ci si annoia più di prima»2 e perché deveriempire il vuoto lasciato dalla psicanalisi stessa. Seppure in modo molto diverso daHans Castorp, anche per lui il conflitto mondiale segna tuttavia un momento di svolta.Zeno ne è toccato direttamente quando, il 23 maggio (giorno in cui l’Italia dichiaraguerra all’Austria-Ungheria), dopo una passeggiata nei dintorni di Lucinico, presso Go-rizia, si ritrova all’improvviso in piena zona di guerra e gli viene vietato di raggiungerela famiglia che si trova a meno di un chilometro di distanza. Ma il comico tentativo diattraversare la zona di guerra non riesce, e Zeno è costretto a tornarsene da solo a Trie-ste. Qui, una volta rassicurato sulle condizioni della moglie e dei figli, che stanno viag-giando verso l’interno dell’Italia, attende, fino a che, il 24 marzo del 1916, riprende inmano il suo quaderno e scrive:

Io sono guarito! Non solo non voglio fare la psico-analisi, ma non ne ho neppur bisogno […]. Fu ilmio commercio che mi guarì, e voglio che il dottor S. lo sappia […]. Attonito e inerte, stetti a guar-dare il mondo sconvolto, fino al principio dell’Agosto dell’anno scorso. Allora io comincia a com-perare. Sottolineo questo verbo perché ha un significato più alto di prima della guerra […]. Congrande orgoglio ricordo che il mio primo acquisto fu addirittura apparentemente una sciocchezzae inteso unicamente per realizzare subito la mia nuova idea: una partita non grande d’incenso. Ilvenditore mi vantava la possibilità d’impiegare l’incenso quale un surrogato della resina che già co-minciava a mancare, ma io quale chimico sapevo con piena certezza che l’incenso mai più avrebbepotuto sostituire la resina di cui era differente toto genere. Secondo la mia idea il mondo sarebbe ar-rivato ad una miseria tale da dover accettare l’incenso quale un surrogato della resina. E comperai!Pochi giorni or sono ne vendetti una piccola parte e ne ricavai l’importo che m’era occorso per ap-propriarmi della partita intera. Nel momento in cui incassai quei denari mi si allargò il petto al sen-timento della mia forza e della salute.3

Nell’ultimo capitolo della Coscienza accade qualcosa che il lettore non aveva previsto: ilcastello di carte che Zeno ha edificato con la scrittura crolla miseramente, il gioco a rim-piattino tra verità e menzogna si interrompe. Se per tutto il libro il narratore ha menti-to con ogni sua «parola toscana», se ha distorto la verità, se ha ricostruito fittiziamentela propria vita, ora si ritrova nudo di fronte alla squallida realtà: è vero che finora il ro-manzo era riuscito ad azzerare scrupolosamente i referenti,4 ma da questo momento ireferenti entrano prepotentemente nella macchina narrativa e ne prendono possesso,ne assumono la guida, indirizzandola verso una meta diversa da quella che il lettoreavrebbe potuto prevedere. E forse non è un caso che questa svolta giunga in corri-spondenza con una brusca variazione del patto autofinzionale: dal capitolo 3 al 7, infat-ti, la Coscienza è un’autobiografia e il suo narratario è il dottor S.; nel capitolo 8 diven-

1 «La mia cura doveva essere finita perché la mia malattia era stata scoperta. Non era altra che quella diagno-sticata a suo tempo dal defunto Sofocle sul povero Edipo: Avevo amata mia madre e avrei voluto ammazzare miopadre» (ivi, p. 1049). 2 Ivi, p. 1048. 3 Ivi, pp. 1082-1083.

4 M. Lavagetto, L’impiegato Schmitz e altri saggi su Svevo, Torino, Einaudi, 19862, p. 104.

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ta invece un diario, le difese del Super-io si abbassano, la realtà esterna si insinua comeun virus, trova varchi insperati, elude gli anticorpi della scrittura memoriale.1

Zeno acquista inaspettatamente «forza» e «salute» nel momento in cui diventa unospeculatore, un pescecane di guerra. Lungi dal causargli sensi di colpa, la cosa lo inor-goglisce a tal punto che sente di aver finalmente trovato in questa occupazione il veroscopo della sua vita («come potevo io intendere la mia vita quando non ne conoscevoquest’ultimo periodo? Forse io vissi tanti anni solo per prepararmi ad esso»).2 Ma se Ze-no è così certo di aver trovato il senso della sua esistenza, perché allora pronuncia la pro-fezia apocalittica che, subito dopo i passi che ho citato, chiude il romanzo? Come mai,ora che ha capito il segreto dell’esistenza e si sente in pace con se stesso, pronostica quel-la «catastrofe inaudita», causata dall’uomo, che spazzerà via il genere umano dalla fac-cia della terra per liberarla da quella ‘malattia’?

La vita attuale è inquinata alle radici. L’uomo s’è messo al posto degli alberi e delle bestie ed ha in-quinata l’aria, ha impedito il libero spazio. Può avvenire di peggio. Il triste e attivo animale potrebbescoprire e mettere al proprio servizio delle altre forze. V’è una minaccia di questo genere in aria.Ne seguirà una grande ricchezza… nel numero degli uomini. Ogni metro quadrato sarà occupatoda un uomo. Chi ci guarirà dalla mancanza di aria e di spazio? Solamente al pensarci soffoco! Manon è questo, non è questo soltanto.Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non puòappartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo. Allorchéla rondinella comprese che per essa non c’era altra possibile vita fuori dell’emigrazione, essa in-grossò il muscolo che muove le sue ali e che divenne la parte più considerevole del suo organismo.La talpa s’interrò e tutto il suo corpo si conformò al suo bisogno. Il cavallo s’ingrandì e trasformòil suo piede. Di alcuni animali non sappiamo il progresso, ma ci sarà stato e non avrà mai leso la lo-ro salute. Ma l’occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c’è stata salutee nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono esi rubano e l’uomo diventa sempre più furbo e più debole. Anzi si capisce che la sua furbizia crescein proporzione della sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio enon potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma, oramai, l’ordigno non ha più alcunarelazione con l’arto. Ed è l’ordigno che crea la malattia con l’abbandono della legge che fu su tut-ta la terra la creatrice. La legge del più forte sparì e perdemmo la selezione salutare. Altro che psi-co-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospererannomalattie e ammalati.Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo allasalute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto diuna stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplo-sivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto an-che lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampi-cherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci saràun’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cielipriva di parassiti e di malattie.3

Il salto logico con cui è introdotto l’ultimo pensiero di Zeno è brusco e non giustifica-to. Non si vede, a prima vista, quale sia il nesso tra l’aver finalmente trovato la salute eil negare recisamente che sia in qualunque modo possibile, per l’uomo in generale, mi-gliorare realmente la qualità e il valore della vita. La tecnologia (gli «ordigni», dice Ze-no), nella misura in cui incrementa la presenza della specie umana sul pianeta e impe-

1 G. Langella, Il tempo cristallizzato. Introduzione al testamento letterario di Svevo, Napoli, esi, 1995, pp. 16-17 ètra i pochi a sottolineare l’importanza del cambio di destinatario nell’ultimo capitolo della Coscienza, dove l’at-teggiamento del narratore non è più quello ironico e incline alla menzogna di chi deve preoccuparsi di salva-guardare la propria immagine pubblica, ma quello di chi, con «sincerità», parla a sé di se stesso.

2 Svevo, La coscienza di Zeno, cit., p. 1083. 3 Ivi, pp. 1084-1085.

Realismo modernista. Un’idea del romanzo italiano (1915-1925) 45

disce quella selezione naturale cui tutte le altre specie animali sono soggette, renderàprima o poi la terra troppo gremita e inquinata. Solo un’esplosione enorme, conclude,causata dalla follia umana (da quella stessa follia che, Zeno non lo dice ma il lettore è legitti-marlo a crederlo dal contesto, ha provocato il conflitto mondiale), potrà mettere fine a tuttociò e ristabilire un equilibrio, ma senza l’uomo. Come si concilia una conclusione cosìpessimistica con la felicità appena raggiunta da Zeno?

La risposta è che, nel moderno, la felicità del singolo individuo non è la felicità di tut-ti, soprattutto se quell’individuo non è più vittima ma carnefice, se non è più confusonella folta schiera dei perdenti ma è stato assunto nella ristretta élite dei vincitori. Nonè Zeno Cosini a contraddirsi constatando la propria felicità e pronosticando al tempostesso la distruzione dell’uomo: è la logica capitalistica e borghese ad essere in sé con-traddittoria, nella misura in cui considera legittimo arricchirsi speculando sulla miseriaaltrui e impoverendo la natura stessa, spogliandola delle sue ricchezze.

Ecco perché il romanzo termina con il topos (modernista) dell’Apocalisse causata dal-l’uomo, con quel «mito della catastrofe»1 che attraversa la modernità e fa da contrap-punto continuo alle magnifiche sorti e progressive della modernizzazione. Non è certol’immagine della guerra come misura igienica per ringiovanire un mondo invecchiatoe indebolito, cui avevano inneggiato i futuristi che interessa a Svevo: dopo l’«esplosio-ne enorme», dice infatti Zeno, non ci sarà nessuna palingenesi, e l’arma perfetta spaz-zerà via per sempre l’uomo dall’universo. Mentre le avanguardie futuriste avrebbero vo-luto rinnovare con un bagno di sangue l’infiacchito spirito borghese,2 per Zeno lagrande esplosione cancellerà per sempre l’uomo dalla faccia della terra. La Coscienza diZeno esprime molto bene il «colto scetticismo» (Kermode) dei primi modernisti: se il ri-bellismo delle avanguardie (a prescindere dalla loro connotazione politica, di destra odi sinistra) vedeva nella distruzione il presupposto di un nuovo ordine, gli scrittori mo-dernisti non scorgono nessun futuro all’orizzonte. Per questo la loro critica alla socie-tà borghese è molto più radicale e meno incline a compromessi, molto più corrosiva,ed anche, probabilmente, molto più attuale.

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1 Lavagetto, op. cit., p. 191 (a p. 206 si indica in Zola una possibile fonte del finale sveviano). Sul capitolo conclusivo del romanzo vedi ora F. Petroni, L’ultima pagina della «Coscienza di Zeno», in Italo Svevo: il sogno e la vitavera, a cura di M. Sechi, Roma, Donzelli, 2009, pp. 35-45.

2 «Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distrut-tore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna» (F. T. Marinetti, Teoria e invenzione futurista, a cura di L. De Maria, Milano, Mondadori, 1983, p. 10).

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SOMMARIO

saggiRaffaele Cavalluzzi, Machiavelli per rassettare le cose fiorentine 11Riccardo Castellana, Realismo modernista. Un’idea del romanzo italiano (1915-1925) 23

noteConcetto Del Popolo, Fonte per Novellino xciii 49Alberto Casadei, Sulla prima diffusione della Commedia 57Monica Farnetti, Una signora sul colle dell’Infinito 67Mariacristina Bertacca Il teatro di Grazia Deledda, verista dell’interiorità 85Alberto Borghini, La «Ciumara di vuci e di canzuni»: a proposito di un’immagine

in Buttitta. E un antecedente dall’antichità 99Mara Boccaccio, Massimo Bontempelli: un esempio di contaminazione dei generi 105

onomastica e letteraturaBruno Porcelli, Intertestualità e nominazione in recenti esempi di giallo-noir italiano 133

bibliografiaSaggisticaMarco Polo and the Encounter of East and West, ed. by Suzanne Conklin Akbari and

Amilcare Iannucci, with the assistance of John Tulk (M. Ciccuto) 149Francesca Manzari, La miniatura ad Avignone al tempo dei papi (1310-1410) (M.

Ciccuto) 150Hélène Bellon-Méguelle, Du Temple de Mars à la Chambre de Vénus. Le beau

jeu courtois dans les Voeux du paon (M. Ciccuto) 152Fabrizio Ricciardelli, The Politics of Exclusion in Early Renaissance Florence (A.

Brown) 154Luca Degl’Innocenti, I «Reali» dell’Altissimo. Un ciclo di cantari fra oralità e scrit-

tura (M. C. Cabani) 158Maria Antonietta Terzoli, Con l’incantesimo della parola. Foscolo scrittore e cri-

tico (G. Melli) 162Arnaldo Bruni, Belle vergini. «Le Grazie» tra Canova e Foscolo (L. M. G. Livraghi) 165Giacomo Leopardi, Lettere da Bologna, a cura di Pantaleo Palmieri e Paolo Rota

(D. Vanden Berghe) 169Enzo Marcellusi, Poesie (1909-1923), a cura di Valeria Giannantonio (M. Cimini) 171Angelo R. Pupino, Pirandello o l’arte della dissonanza. Saggio sui romanzi (D. De

Camilli) 173Lucia Rodocanachi: le carte, la vita, a cura di Franco Contorbia (I. Campeggiani) 175Andrea Paganini, Lettere sul confine. Scrittori italiani e svizzeri in corrispondenza

con Felice Menghini (1940-1947) (D. De Camilli) 179Luciana Salibra, Riscrivere. Cinema e letteratura di consumo (Rohmer, Moravia,

Olivieri, Tomasi di Lampedusa) (M. Boccaccio) 181Gianfranco Vanagolli, Profili di autori elbani contemporanei (D. De Camilli) 184

Notiziario 189

Libri ricevuti 223