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Quaderni Mamertini - 19 - Momenti e figure nella storia della vecchia e nuova Oppido - II -

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Rocco Liberti

Momenti e figure nella storia

della vecchia e nuova Oppido

II

Quaderni Mamertini

19

Stampa presso la

Litografia Diaco snc

tel. 0964 - 670270

Bovalino (RC)

Giugno 2001

* Un primo volume con lo stesso titolo è uscito nel 1981 per le Edizioni

Barbaro di Oppido Mamertina.

in copertina: l'ingresso all'antica Oppido da sud.

Il monte di pietà (1609) *

Subito dopo Seminara, nel 1609, la costituzione di un monte di pietà

nelle terre della Piana fu avviata a Oppido a opera dell'università, pure se il

merito principale spetta anche nella seconda occasione a una sola persona,

il concittadino Marcello Albanese, il quale, deceduto nell'anno, aveva

lasciato per testamento allo scopo un legato di 1000 ducati, di cui la stessa

era debitrice nei suoi confronti. I particolari ci sono tutti nella lettera di

richiesta, che, in successione, il reggente del collaterale venne a rimettere il

29 dicembre al cappellano maggiore, nonché nella relazione che

quest'ultimo spedì al suo interlocutore due giorni appresso, il 311.

Non possediamo documentazioni atte a illuminarci sul primo periodo di

sopravvivenza dell'ente, ma è da presumere che, come tutti gli altri fondati

nella regione, sia presto entrato in uno stato di disagio, che, nel caso, è da

imputare soprattutto al cattivo sistema di gestione e al vivo desiderio dei

vescovi di dirottarne i cespiti verso istituzioni di loro diretto dominio. Per

conoscere l'iter in almeno un paio di secoli dobbiamo accontentarci di

ripercorrere le vicende alla luce di quanto tramandato, non sappiamo con

quanto spirito di parte, dagli ordinari diocesani con le loro relationes ad

Limina.

Secondo mons. Montano, il primo a farne cenno, il monte di pietà

oppidese, che, per i prestiti, godeva dell'apporto di 800 ducati di numerario

più altri 120 annui provenienti da censi, nel 1637, ad appena 28 anni dalla

sua apparizione sulla scena, non inseguiva propriamente il fine per cui era

stato creato. Il suo fondatore lo aveva ideato coll'intenzione di andare

incontro alle necessità dei poveri e allontanare le evenienze di calamità, ma

era successo che, a causa della carente amministrazione da quegli

commessa all'università, che vi provvedeva con dei governatori elettivi, si

rivolgesse in buona sostanza contro coloro che doveva invece proteggere. Si

rivelava, quindi, cosa altamente saggia per la pubblica utilità e la salvezza

delle anime che, stimato il denaro in contanti e ridotto l'acquisto di censi, la

parte residua degli interessi ricavabili da censi e beni stabili, da statuirsi ad

* Pubblicato in "Banca Popolare Cooperativa di Palmi", a. I-1993, n. 1, pp. 54-56;

"Rivista Storica Calabrese", N. S., a. XX-1999, nn. 1-2, pp. 110-125. 1 ARCHIVIO STATO NAPOLI (=ASN), Cappellano Maggiore, fasc. 1200, inc. 1, f. 163.

2

arbitrio del vescovo, fosse devoluta ai poveri, ai quali sarebbe stata

consegnata tramite alcuni uomini pii di scelta del medesimo. Si stimava

altresì utile che un ulteriore resto potesse venire convertito in un compenso

da offrire al pubblico maestro che insegnava ai grammatici2.

Il Montano, che nella relatio del 1644 aveva scritto di essersi preoccupato

onde eliminare il grave fenomeno dell'usura di promulgare un editto3,

venne ancora a trattare dell'istituzione in una successiva comunicazione alla

santa sede del 16554. In detta tenne a far presente che a Oppido era in

funzione un monte, che, più che inutile, era pregiudizievole, per cui

sarebbe stato particolarmente saggio devolverne i beni, che ammontavano a

3.000 scudi, a beneficio del convento delle donne monache. A questo fine

non aveva mancato di sollecitare un deliberato dell'università, che in un

pubblico parlamento tenutosi a bella posta il 25 marzo del 1654 si era

espressa a favore della proposta.

Nel 1659 si era ancora a punto e daccapo. Queste le informazioni fornite

a Roma dal Montano sempre sulla "vexata quaestio". L'organismo era nato

per volontà di laici e l'Albanese aveva deciso che fosse l'università a dover

scegliere i governatori incaricati di condottarlo. Possedeva un reddito di

annui censi calcolabile in circa 180 ducati su un capitale di 2.000 e un

credito di quasi 2.000 ducati titolo mutuo. I cespiti non erano, certo, cosa

trascurabile e quello aveva davanti a sé sicuramente un avvenire.

Purtroppo, però, i governatori avevano dimostrato di non essere all'altezza

del compito, per cui si verificava che, invece di andare incontro alle

necessità dei poveri, il monte si rivolgesse a tutto loro danno, risultando

pernicioso perfino per le anime5.

Dal 1659 e per ben 40 anni le relationes tacciono all'intutto. Occorrerà,

infatti, attendere il 1699 e il vescovo Bisanzio Fili perchè ricominci

l'interminabile vertenza. Ê soprattutto nel resoconto fatto a dicembre che si

stagliano evidenti le opposte posizioni. Scriveva allora il presule che l'ente

era amministrato da governatori laici, i quali da molto ormai non esibivano

più i conti né ai razionali della comunità, a cui solo spettava la loro

2 ARCHIVIO SEGRETO VATICANO (=ASV), relationes ad Limina, Oppiden, vescovo

Montano, a. 1637, f. 670. 3 Ivi, a. 1644, f. 332. 4 Ivi, a. 1655, f. I°. 5 Ivi, a. 1659, f. I°.

3

elezione, come dagli stessi si pretendeva, né a un incaricato vescovile, come

invocava l'apposita norma del concilio di Trento. Era tale una situazione

incandescente, che aveva già originato tra il fu mons. Ragni e il barone una

lite, della quale ancora non si vedeva la fine6.

Reiterava nel 1702 il Fili dicendo che i ministri del pio istituto da tempo

rifiutavano di presentare i consuntivi presumendo che non toccasse loro

farlo in persona di un revisore scelto dal vescovo e che a tal motivo era

insorta controversia tra il Ragni e il feudatario, che, non essendosi ancora

risolta, aveva procurato parecchi danni7.

Assai curioso e non sappiamo quanto credibile il ragguaglio circa il

funzionamento del monte nella relatio del 1705. Riferiva sempre il Fili che i

bilanci non erano stati ufficializzati da vari anni con il pretesto che gli

amministratori non volevano farlo in presenza del vescovo, «ut et de iure, et

consuetum erat» e che in passato si era verificato un increscioso incidente.

Avendo un viceconte non meglio precisato estratto i libri

dell'amministrazione dalla casa di un certo sacerdote, fu subito

scomunicato e morì senza punto pentirsene. Da tale evento si originò la so-

spensione dei rendiconti, cosa che procurò molti danni. In verità, il fatto sa

più di favola che di vita vissuta8.

Proteste e recriminazioni si susseguono nelle relationes Perrimezzi del

1715 e Mandarani del 1751, entrambe attestate sulla falsariga delle

precedenti. Non così in quella del 1772 di mons. Spedaliere, ultimo vescovo

della vecchia Oppido, dove si tenne a dichiarare che il monte risultava

governato senza il minimo sospetto di praticare l'usura dalla potestà laica e

fino ad allora aveva dato dimostrazione di comportamento decoroso ed

encomiabile. Le ultime proposte vengono a dirci molto chiaramente o che

tra vescovo e università era stata finalmente fatta la pace oppure che

l'autorità ecclesiastica aveva rinunziato a rivendicare un diritto invano in-

seguito per quasi due secoli9.

6 Ivi, vescovo Fili, a. 1699, f. 182. 7 Ivi, a. 1702, f. 124. 8 Ivi, a. 1705, f. 199v. 9 Ivi, vescovo Perrimezzi, a. 1715, passim; vescovo Mandarani, a. 1751, f. 298;

vescovo Spedaliere, a. 1772, f. 362.

4

Le schede notarili ci danno i nomi di alcuni dirigenti ed espongono un

minimo di attività per il primo periodo, ma, logicamente, non possiamo che

soffermarci su qualche caso.

Nel 1649 la nobildonna Laudomia Grillo

«dice tenere in pegno nel Sacro Monte della Pietà alcuni mobili dotali e, cioè:

un padiglionne di tela a tre pezzi con la rizza di filo annucato, un padiglione di tela

con rizza di seta negra, un padiglione di tiletta di seta verde rigata a tre pezzi con il

Cappelletto, e Cupertuni usato, un misale di campo usato dotale, una cortina di

seta gialina e capicciola usata, una faldiglia di seta gialina e capicciola usata, una

faldiglia di seta gialina di raso, con gruppi d'argento, una faldiglia alleonata di

spagna di seta guarnita d'oro, et argento, una robba di velluto negro guarnita

d'oro, una di drappo di seta bianca di seta, et oro guarnita d'oro, una robba di

tiletta di seta rigata inforrata di terzanello giallino guarnita d'oro, una faldiglia di

raso a rosa sicca con gruppo d'oro».

Il tutto era impegnato per la somma di 82 ducati10.

Il 16 luglio 1740 il mag. d. Giuseppe Grillo Caracciolo, governatore e il

notaio Domenico Romeo, cassiere, in carica dal maggio 1739 ad aprile 1740,

quindi in regola con i cambi usuali, consegnavano ai subentranti mag.

Francesco Antonio Recanati e dr. fisico Giacomo Thomei pegni per 700

ducati e 72 grana, denaro contante in 599 ducati e gr. 59, due libri grandi

vecchi di conti, pegni e significatorie, altri due libri nuovi di pegni, l'uno

terminato e l'altro con inizio dal 1726 e ancora un libro d'inventario, vari

obblighi per complessivi 2.203 duc. e gr. 20, conti e ricevute di persone

interessate in passato, almeno tra 1706 e 1738, a operazioni con l'ente11.

La provvidenziale istituzione voluta dall'Albanese, come possiamo

notare dai nomi dei casati alternatisi alla sua guida, divenne in breve quasi

un feudo ristretto a poche famiglie nobili, che, imparentate tra loro, da

parecchio facevano in Oppido il bello ed il cattivo tempo. Intorno al 1770

reagì contro tale stato di cose d. Pasquale Zerbi, che avanzò a Napoli varie

querele a mezzo di procuratore12.

Il 5 febbraio 1783, com'è noto, si abbatteva sulla Calabria un terrificante

moto tellurico, che portava alla distruzione d'interi paesi e alla morte di

10 SEZIONE ARCHIVIO STATO PALMI (=SASP), Libro del prot. di nr. Domenico

Fossare I°, Oppido, a. 1649. 11 SASP, Libro del prot. di nr. Francesco Cananzi, Oppido, a. 1740. 12 ARCHIVIO VESCOVILE NICOTERA, Carte della diocesi di Oppido, fasc. 21-I.

5

parecchie migliaia di persone. Tra i tanti centri quasi completamente

adeguati al suolo e decimati nella popolazione e poi ricostruiti in altro sito

vi fu Oppido, alla cui riedificazione vennero destinate proprio le rendite

del monte di pietà o dei pegni.

Non conosciamo con precisione cosa ne fu dell'ente nel primo ventennio

del XIX secolo, ma è da presumere, sulla base di documentazioni e sul fatto

che a un nuovo progetto di regolamento dello stesso approvato dal governo

il 12 aprile 1828 vennero a uniformarsi successivamente quelli viciniori di

Palmi e Seminara, ch'esso abbia continuato nel suo lodevole servizio alla

popolazione13.

Intorno alla metà del XIX secolo il monte risultava amministrato dalla

commissione di beneficenza. Poco appresso, per effetto della legge 3 agosto

1862, veniva invece affidato, unitamente ad altri, alla neo costituita

congregazione di carità. L'art. 3 dello statuto di quest'ultima, ch'è datato al

27 agosto 1870, così testualmente recita:

«Essa (la congregazione predetta) per il disposto della legge nell'art. 1

menzionato, ed in surrogazione dell'abolita commissione di beneficenza,

amministra ancora e dirige le seguenti opere pie dello stesso comune; cioè "Monte

dei Pegni di origine remotissima, ed ignota, che ha per iscopo di prestar denaro

agl'indigenti sopra pegni ecc. »14.

In una delibera comunale del 2 ottobre 1864 si dice che il monte dei

pegni era all'epoca governato da un regolamento approvato dal re il 12

aprile 1828 a causa del fatto che le tavole di fondazione erano andate

perdute in seguito al terremoto del 1783. Il capitale ammontava a £. 9.945 e i

prestiti, che si potevano ottenere, oscillavano da una a cinquanta lire.

In una relatio di mons. Teta del 1865 viene riferito che l'ente recava 1.000

ducati annui di reddito. Scriveva quegli allora a Roma, risollevando l'antica

"quaestio", che, pur avendo rinunciato a esaminare l'amministrazione, era

comunque interessato a indagare sullo stato delle cose per via riservata.

N'ebbe per risposta dalla sacra congregazione di occuparsi molto

prudentemente per conoscere se le pie istituzioni, soprattutto il monte, si

comportassero rettamente allorquando si fosse assicurato di poter esercitare

liberamente la sua autorità15.

13 G. VALENTE, La Calabria nella legislazione borbonica, Chiaravalle C. 1977, p. 139. 14 ARCHIVIO COMUNALE OPPIDO (=ACO). 15 ASV, relationes ..., vescovo Teta, a. 1865, f. 144v.

6

Reiterava il presule nel 1871 di non aver ancora chiesto conto agli

amministratori dei vari luoghi pii, sempre compreso il monte, in quanto tali

erano retti per lo più da laici, i quali, favoriti dalle inique leggi del tempo,

potevano facilmente liberarsi dalla vigilanza e ingerenza dell'ordinario

diocesano. Quindi, non era proprio il caso di esporsi senza la benché

minima speranza di ottenere qualche frutto16.

Il vescovo Curcio, nella sua relatio del 1877, senza evidenziare pretesa

alcuna, avvisava invece soltanto che a Oppido vi era un monte di pietà

pinguis, nel quale si prestavano denari con un modico interesse17.

Nel 1894, secondo quanto scriveva in una coeva relazione il commissario

straordinario al comune Nicodemo Maria del Pozzo, detto possedeva un

capitale di £. 194.992,19 e godeva di una rendita annuale lorda di £.

9.843,44, che, fatti salvi spese, tasse e interessi passivi, veniva devoluta

all'acquisto di medicinali per i poveri, sussidi vari e opere di beneficenza18.

Mons. Scopelliti, con relatio del 1901, a sua volta comunicava a Roma

l'esistenza di un monte di pegni di origine incerta, ma eretto parecchio

tempo dopo il concilio di Trento, che aveva di reddito 8.500 lire e praticava

il prestito senza alcun interesse per i primi sei mesi e, trascorsi questi, con

uno tenue19.

Nell'archivio del Comune, dove sono stati reperiti lo statuto della

congregazione di carità e la delibera del 1864, si rinvengono anche alcuni

registri contenenti i bilanci annuali del monte relativi agli anni 1898, 1920 e

1922 assieme a varia corrispondenza, che ci accompagna in qualche modo

fino ai tempi nostri attraverso i noti passaggi della soppressione della

predetta congregazione e della sua sostituzione con l'ECA, per giungere

negli ultimissimi anni all'accentramento operato dal Comune stesso.

I bilanci, di cui sopra, ci mostrano chiaramente come l'ente andasse

progressivamente decadendo, offerendosi ormai come un'istituzione più

che anacronistica. Il fatto che alla voce vendita pegni non si prevedessero

somme in entrata, ma soltanto dei residui, che via via si assottigliavano,

16 Ivi, a. 1871, f. 182v. 17 Ivi, vescovo Curcio, a. 1877, f. 123. 18 Relazione su l'Amministrazione del Comune di Oppido Mamertina letta dal R.

Commissario Straordinario Cav. Nicodemo M.a Del Pozzo nel dì dell'insediamento del

nuovo Consiglio, 11 gennaio 1894, Reggio Cal. 1894, p. 65. 19 ARCHIVIO VESCOVILE OPPIDO (=AVO), fasc. relationes ad Limina.

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anche se nel 1916 era incaricato della perizia degli oggetti preziosi

Franconeri Giuseppe, indica senza ombra di dubbio che le amministrazioni,

che di tempo in tempo si succedevano, avevano cura appena dei beni

immobili in dotazione e, quindi, dei relativi redditi.

Ripercussioni dell'episodio di Masaniello (l648) *

Il sindaco dei nobili d. Francesco Riganati, quello del popolo Carlo

Cananzi e i rispettivi eletti d. Giuseppe Vicari e Sansonetto Lucà, di unita

all'agente della principessa Spinelli, d. Agazio Grillo, il l5 luglio l648 si

trovarono dal notaio per risolvere una questione di tasse, pregiudicate in

seguito alla rivoluzione masanelliana di un anno prima.

Era successo che nel decorso anno, «inante della sollevatione del populo

Neapolitano», l'amministrazione capeggiata dal sindaco d. Francesco

Licandro aveva stabilito la tassa dei fiscali, che dagli incaricati iniziò a

essere esatta appresso quell'evento, ma che venne però tosto impedita. Non

potendo assolvere al loro mandato, con atto pubblico detti provvidero

allora a consegnare le cedole allo stesso sindaco e ad altri del Regimento. A

causa di ciò e onde recuperare il credito vantato dall'università, la

principessa inviò d. Salvatore Vigniacurso col preciso scopo di ottenere

quel che non era riuscito ad altri. Venendo, perciò, incontro a quanto

preteso dalla feudataria, la nuova amministrazione, di cui era a capo il

Riganati, chiedeva al Licandro e soci di rimettere a loro volta le cedole al

sig. Gio. Leonardo Grillo, luogotenente di Oppido. Erano presenti alla

stesura dell'atto, col quale ciò si disponeva, Giacomo Santopullo, Marcello

Capone, Nicolò Palumbo, Marco Antonio Riganati, il chierico Fulvio e

Giovanni Alfonso Grillo e Francesco Colaciuri20.

* Pubblicato in "La Città del Sole", a. VI-l999, n. 9, p. 22.

20 SASP, Libro del protocollo di nr. Francesco Colaciuri, Oppido, a. l648.

8

Uno squarcio di vita nobiliare nel '600 *

Il libro del protocollo di nr. Giuseppe Fossare I°21 ci è di largo aiuto per

tastare il polso a quella cerchia nobiliare che in Oppido, come in tanti altri

paesi di Calabria, a metà del XVII secolo esercitava una netta supremazia

nella società in cui viveva. Esso, infatti, facilitandoci l'entrata nelle case di

alcuni magnati dell'epoca, c'informa con dovizia di particolari sulla

consistenza dei beni mobili e immobili che confortavano la loro elevatezza,

una cosa che viene a rivelarsi della massima importanza al fine di delineare

con estrema precisione qual era un certo costume di vita in tempi così

lontani e tanto diversi dai nostri.

Nella cittadina dell'altopiano delle Melle, che il funesto terremoto del

1783 s'incaricò di annullare al gran completo, nel '600 avevano un posto di

grande rilievo ben dodici famiglie nobili: Capuano, Capone, Geria,

Licandro, Recanati, Vestiari, Vicari, Sartiani, Grillo, Migliorini, Mesiti e

Rocca. Di tutti questi ceppi solo i primi nove però potevano vantare salde

radici, dato che i restanti vi erano pervenuti di recente per mezzo di

matrimoni22. Comunque, si distinguevano fra le tante la Grillo e la Sartiani

o Sartiano, che, legate tra loro da stretti vincoli parentali sempre rinno-

vantisi, avevano diritto a ricoprirvi un ruolo di tutto rispetto.

Nella prima metà del XVII secolo l'esponente più in vista dei Grillo

risultava Gio. Leonardo, che verrà a morte nel 1655, anno in cui un notaio,

appunto il Fossare, ne rilevava l'intero asse patrimoniale. Figlio di Agazio,

che, al pari dei fratelli Muzio e Giulio, forse vi approdò dalle sponde liguri,

il personaggio in questione, uomo assai facoltoso, per come vedremo

appresso, godeva in Oppido di una rilevante carica, che lo collocava al

sommo della scala dei valori cittadini. Essendogli state affidate le mansioni

di Amministratore dello «Ufficio di Conservazione dell'Intrate della Principal

Corte di d.ta Città e suo Stato ovverossìa di Consigliere del Patrimonio dell'Ecc.

Sig. Principe», si ritrovava a essere in sostanza l'alter ego del feudatario

Spinelli e, quindi, la sua più fidata longa manus. Era tale un incarico che sarà

* Pubblicato in "Calabria Letteraria", a. XXXI-1983, nn. 7-8-9, pp. 149-153. 21 SASP. 22 G. B. PACICHELLI, Il Regno di Napoli in Prospettiva diviso in dodeci provincie,

Napoli 1703, p. 92; R. LIBERTI, Momenti e figure nella storia della vecchia e nuova

Oppido, Oppido Mamertina 1981, pp. 131-133.

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sempre trasmissibile in casa Grillo da uno all'altro erede. Difatti, il primo a

esserne investito fu probabilmente lo stesso padre di Gio. Leonardo,

Agazio, che nel 1606 figurava ancora percepitore del stato di Oppido e la cui

nomina nulla ha avuto a che vedere col trapasso dei poteri dai Caracciolo

agli Spinelli avvenuto più tardi, nel 1611 e l'ultimo fu quel d. Marcello, che

si rivelò uno dei protagonisti nella fondazione della nuova Oppido23.

Gio. Leonardo, alla cui famiglia non faceva difetto il blasone - la zia

Giulia aveva sposato in seconde nozze Giuseppe Grillo barone di Careri e il

fratello Lorenzo ostentava titolo di barone di Calimera e San Calogero -

aveva impalmato una figliuola del mag. Gerolamo Grillo. Ne aveva avuto

figli Agazio, Francesco, entrambi chierici, Lorenzo e Michele e in vita si era

qualificato come il classico nobiluomo di paese. Nel mentre provvedeva a

soddisfare gli interessi del suo signore, che gli aveva concesso un così

lucroso impiego, badava logicamente a curare anche i propri. Bastano a

testimoniare ogni mossa le numerose partite di seta piazzate a Napoli di

volta in volta a nome degli Spinelli o per suo stesso conto24.

La magione che il Grillo abitava a Oppido, quale un palazzotto adeguato

al suo rango, certo rispetto al paese ed ai tempi, era ubicata nel punto più

centrale e, quindi, più importante, precisamente in convicino episcopati e

confinava, dalla parte sottostante, con la casa del fu Tommaso Migliorino e,

di sopra, con il cortile del mag. Agazio Grillo, la via pubblica ecc.

Consisteva in più membri, cioè in più vani, che erano, al piano superiore,

una sala, una prima camera detta del Rubino, una camera detta del studio,

altra camera appresso del Rubino, altra situata ancora più dentro, una

stanza che serviva da cucina e altra piccola appresso della sala. Al piano

inferiore si trovavano poi ad affacciarsi su di un porticato due camere e due

magazzeni. Questi ultimi servivano per riporvi l'oglio e il vino.

Poche e assai semplici apparivano le suppellettili, di cui una tale dimora

era dotata e le varie masserizie erano custodite tutte in baulli, cascie e

cascioni. Tre baulli vecchj si rinvenivano nella sala, altri due di color bianco e

una cascia di noce con due cascielle dentro trovavano posto nella stanza del

Rubino, mentre due baulli, una cascia di noce grande e un cascione erano

localizzati nello stanzino. Due cascie piccole di noce, due cascioni, uno d'acero e

l'altro di noce, con in più un bauletto si vedevano nella stanza appresso a

23 LIBERTI, Momenti e figure ..., passim. 24 Ivi, pp. 125-126.

10

quella del Rubino, una cascietta di scritture, 6 cascie e un baullo nella camera

più internata, una cascia di noce grande e un baullo grande vecchio nella cucina.

Anche di sotto si vedevano di similari custodie, ma si trattava soltanto di

due cascioni vecchi vacanti depositati nella camera vicina al porticato.

Le sedie in casa Grillo erano variamente distribuite. Otto segge di

vacchette di fiandra rossa si trovavano nella sala, 6 segge di pelle di Napoli

vecchie erano nella camera piccola, una seggia portatile era sistemata nella

camera d'abasso mentre altre 2 seggie di pelle di Napoli usate e 4 seggette di

paglia erano collocate rispettivamente nella camera appresso a quella del

Rubino e nell'altra più internata ancora. Quattro segge di velluto rosso e altra

di velluto verde costituivano poi la dotazione dello studio.

Si trattava, quindi, di ben 26 sedie che dovevano soddisfare pienamente

i bisogni di una famiglia nobiliare del '600.

Gio. Leonardo e congiunti affidavano per il riposo le loro membra

stanche a travacche e lettère e, ci pare logico, ai materassi che vi mettevano

sopra. Il tutto appariva come di seguito. Una travacca di noce con i capitelli

indorati si trovava nello studio unitamente a 3 materassi di lana, una

travacca piccola di tasso con 2 materassi era in uso nella camera appresso a

quella del Rubino, mentre una travacca di noce vecchia con 3 materassi la si

trovava nella camera piccola. Ancora una travacca d'acero e altra indorata

diruta erano state messe nell'altra camera assieme a 2 materassi e una

travacca vecchia con un materasso pure vecchio giacevano nella camera

d'abbasso. Una lettèra appariva situata invece nella camera appresso a

quella del Rubino, mentre altre 2 si rinvenivano nella camera più interna.

Ricordiamo, a questo punto, per chi non ne fosse edotto, che le travacche o

travarche erano esattamente le spalliere del letto, che in genere risultavano

sempre in ferro e le lettère il letto vero e proprio e cioè le tavole su cui si

sistemavano i materassi e che poggiavano su dei cavalletti in ferro, in gergo

dialettale conosciuti come trispita o trìspiti.

Già che ci troviamo a esaminare i letti di casa Grillo, è giusto proseguire

con la descrizione degli oggetti che facevano parte integrante del corredo di

una tale suppellettile, quindi coscine, coverte, cutre, lenzola, cortine, padiglioni,

avanzini, e porterij.

L'atto non relaziona minimamente in merito a cuscini accomodati a capo

dei letti, ma fa riferimento soltanto a 2 coscine di velluto rosso, che si

trovavano nello studio e che probabilmente dovevano essere di quelli che si

adagiavano sulle sedie.

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Poche erano anche le coperte, delle quali si rinvenivano appena 3 bianche

di cuttone e una russa di capicciola (cascame di seta) e tutte nella camera

appresso a quella del Rubino.

La cutra (coltre), un tipo di coperta foderata, sempre di colore bianco, si

trovava nella sala, dove se ne rilevavano 2 conservate nei baulli e nella

camera appresso a quella del Rubino, nella quale ne risultava altra.

Quelle che abbondavano in casa Grillo erano invece le lenzuola: 12 erano

custodite nella sala nei soliti baulli, 6 para che si stanno in att'usando si

vedevano nella camera del Rubino, che appare così come la stanza da letto,

8 erano sistemate nello studio e anch'esse avevano ricetto in baulli e cascioni.

Nella camera appresso a quella del Rubino v'erano poi 13 paia con in più

altro paro con li punti di seta gialla e nella camera più internata, infine, altre 6

paia con un altro paio di tela grossa.

Le cortine, quelle tendine cioè che si alzavano e abbassavano attorno a

un letto a seconda delle necessità del momento, si trovavano anch'esse al

gran completo nella stanza appresso a quella del Rubino. Una era di

damasco giallo, un'altra di damasco falso di seta e capicciola, una vecchia di

terzanetto turchino (specie di seta) e una di capicciola verde. Fra cotali c'era

pure un'avanzina a schiaccheri. L'avanzina o, come detto in altri atti,

avantiletto - a scacchiera - era quasi certamente quel pezzo di stoffa che

ricopriva la parte anteriore e inferiore del letto. Da tenere presente che i

letti dei nostri maggiori erano alti da terra molto di più di quelli odierni e

che, quindi, s'imponeva la necessità di anteporvi un qualcosa che ne

coprisse la parte sottostante, dove spesso si conservavano cassettoni e

altro25. Quattro avantisini, forse lo stesso che avanzini, si trovavano nella

camera del Rubino. Completavano il panneggio due porterij di velluto verde

piano cupo, che si potevano vedere nella stanza appresso. Le porterie,

naturalmente, non potevano che essere le tende laterali.

Di padiglioni, ovverossìa baldacchini, ce n'erano un po' in tutte le camere

del palazzo Grillo. Tre di tela bianca erano custoditi nei baulli della sala, 1 di

tela bianca lavorato di seta russa al canto e 1 rosso di capicciola in un cascione e in

un baullo dello studio, 1 bianco con li frangi di seta rossa pelli canti e 1 bianco

lectijato (chiazzato?) tutto, nella camera del Rubino, 1 in tre pezzi di tela

bianca, 1 ancora di tela bianca, 1 di tela usato e 1 di tela vecchia usato giallo

25 F. ARILLOTTA, Reggio nella Calabria spagnola, Reggio Cal. 1981, p. 248.

12

e turchino nella camera più in dentro e, infine, 1 bianco vecchio nella

camera piccola.

Dopo esserci alquanto soffermati a descrivere qual era il corredo del

letto in casa Grillo a metà del '600, eccoci a presentare il resto delle

suppellettili ed altri oggetti di uso comune, che per la verità in alcuni casi, a

misurarli col metro di oggi, appaiono ben misera cosa.

Nella camera seguente a quella del Rubino, che ci sembra poter

qualificare quale stanza da pranzo, erano presenti 7 buffetti, cioè dei tavolini

(dal francese buffet=tavola, ma anche credenza). Tali si presentavano tutti

di noce, ma 2 di essi avevano i trappiti usati (non conosciamo cosa gli antichi

indicassero con un siffatto termine). Uno stipo vacante aveva invece ricetto

nella camera d'abbasso.

Nella stanza più internata, che possiamo facilmente riconoscere in una

specie di soggiorno, si ritrovavano 2 candileri d'ottone, 2 brascieri (bracieri) di

rame, 2 conche vecchie di manganello (le conche erano propriamente vasi di

terracotta, ma nel caso occorre pensare a qualcosa in legno)26, 2 conche

d'acqua, una grande e una piccola, 4 caudare (caldaie) con le maniche, due grandi e

due piccole, una caudara di tener acqua senza maniche con tre piedi piccoli d'abasso

e 3 capifochi di ferro. Questi ultimi erano certamente alari.

Nel magazzino del vino si rinvenivano 13 botti, 7 grandi e 6 piccole e

ancora altre piccole, mentre in quello dell'olio apparivano 20 giarre ordinarie

e 5 piccole e ancora ulteriori 3 di capacità di 10 cafisi ognuna. La presenza di

questi contenitori prova da sé stessa come Gio. Leonardo Grillo e la sua

famiglia fossero possessori parecchio doviziosi dei preziosi alimenti che vi

si versavano. In particolare, conosciamo che vi erano ancora depositati 20

cafisi di oglio usitante (olio comune). Nella camera d'abasso si trovavano poi

circa 5 rotula di riso.

Continuiamo il nostro excursus in casa Grillo completando la rassegna

degli oggetti di corredo.

Di tovaglie di tavola si riscontravano pochi esemplari, appena 7. Una

appariva conservarsi in un baullo della sala, mentre altre 2 si trovavano nella

camera appresso e ancora 4 nella stanza più interna.

Le tovaglie di faccia ovverossìa gli asciugamani raggiungevano il numero

di 27. Cinque a schiacchere di seta di diversi colori più una ordinaria erano

26 Potrebbe trattarsi, nel caso, delle cosiddette rote, quegli aggeggi in legno vuoti al

centro, dove si conficcava il braciere.

13

riposte nello studio, 15 ordinarie nella camera appresso a quella del Rubino

e altrettali 6 nella stanza susseguente.

Tovaglie di seta ve n'erano soltanto 5. Due erano d'un med.mo colore

alla grandezza di tovaglie di faccia e si custodivano nella camera del

Rubino, mentre 3, poco più grandi, di schiaccheri di seta di diversi colori

avevano il loro posto nello studio.

Ancora 5 tovaglie grosse, che non sappiamo meglio definire, si

trovavano nel vano più interno.

Gli stujabucchi o salviette si numeravano in 92 unità e venivano

conservati, 86 nella camera appresso a quella del Rubino e 6 nella più

internata.

Una banda turchina con li pizzilli d'argento non meglio precisata figurava

nello studio.

Di materiale utile a confezionare oggetto di corredo oppure di vestiario

si rinvenivano della tela e della capicciola, evidentemente le stoffe di più

largo consumo. La capicciola, di color bianco, pesava circa 40 libri (libbre)

ed era tutta nella camera più dentro. La tela, invece, era distribuita

variamente. Tre canni di tela grossa consistente in dui peczi si trovavano in un

baullo della sala (la canna equivaleva a circa 2 metri), 2 pezze di tela grossa

sinariche nello studio, pure in un baullo, 5 canni di tela bona in cascie esistenti

nella camera appresso a quella del Rubino e, infine, 2 canni di tela per invitati

in quella più lontana (si trattava, certo, di un tipo di tela più fine).

Avendo detto del corredo familiare, passiamo ora ad esaminare

partitamente gli oggetti di vestiario usati da uomini e donne della casa.

In primo luogo si notano i vestiti di aspulino o spulino, che, in numero di

4, erano sistemati tutti nella stanza del Rubino. Erano distinti in vestiti con il

campo turchino e passamani d'argento, con il campo bianco e passamano piccolo,

con il campo rosso e minjato sopra le uose di bianco con li passamani d'argento e di

scarlata (pannolano rosso), con la faldiglia gornata (guarnita) di passamani d'ar-

gento. Di faldiglie, termine prettamente spagnolesco che stava a indicare la

gonnella o il grembiale, nella stanza del Rubino se ne rinveniva un altro

paio, che, era, rispettivamente di velluto negro e di velluto turchino e giallo

cupo. Una faldiglia negra di tiletta arricciata con la robba del med.mo colore si

trovava invece nella camera più dentro. Nelle medesime stanze, peraltro, si

custodivano altre robbe. Nella prima si notava una robba di damasco negro con

il pizzillo piccolo d'oro a torno, nell'altra una robba di donna scambiante di

terzanetto. Robba era anche l'equivalente di vestito.

14

Sempre nella stanza del Rubino era visibile una discreta teoria di gipponi

per uomo, certo le giacchette, che risultavano usate dai fratelli Grillo. Vi si

trovavano un gippone turchino, 1 di sita d'oro et argento, 1 rosso, 1 d'aspolino

con il campo bianco, 1 turchino et Arangino (arancione) di tiletta di seta, 1 di

damasco in oro turchino e verde, 1 di damasco in oro, turchino e bianco minijato.

Scarsi erano i manti e quasi tutti in non buone condizioni d'uso. Un

manticello di figlioli di damasco in argento figurava nello studio, mentre 2

manti di donna e un manto di tabbi vecchi i trovavano nella stanza più

internata. Nel medesimo studio si rivelava pure un bambacino (da tela

bambacina) di cappello piccolo sopra pelle.

Erano presenti ancora i corpetti, di cui non si fornisce il numero, ma che

risultavano depositati nella camera del Rubino, le cammise di donna di

francolina, ben 5, conservate nella stessa stanza, 6 tovaglioli di donna di

mezza lama di vuletta, sistemate del pari, robbe di vestire usate, osservabili

nella camera più lontana e una tovaglia di testa con li pizzilli e un paro di

maniche con li pizzilli di donna, rinvenibili nello studio.

Gio. Leonardo Grillo, quale nobile signore di gran rispetto, non poteva

non figurare nella società del tempo per la dovizia di oggettini di valore che

dovevano adornare la sua persona nonché quella dei più vicini congiunti.

Nella stanza del tesoro, lo studio, dove quelli erano custoditi, risultavano:

«perne (perle); 4 fila di perne e granatine, un filo di perne false; catine; una catina

d'oro a catinella; pendenti; un paio di pendenti (orecchini, dal francese pendant)

senza cianelli (?) con cinque rubbini nelli canti con quattro perne pendenti per uno;

un paio di pendenti con una perla per uno Ravata (gravata) di poca spesa con

capìitelli d'oro; un paio di p. senza cianelli con un smaldo (smalto) per uno con

cinque perle pendenti per uno, un paio di p. senza cianelli con un rubinetto per

uno con sei perni piccoli pendenti, un paio di p. con perne piccole; fiannacche

(collane; ancora oggi si dicein dialetto fannacca), una fannacca d'oro a catinelle,

una f. di granatini con buttuni d'oro vacanti; gioje: una gioja consistente in un

rubino grande tornijata di Rubini piccoli, con un'smaldo di sopra et una per li

pendenti, una gioja di valuta di sei (?) et un'altra consimile, una g. di petto con

molti diamanti;anelli; un anello di Donna consistente in quattro perle per pietra,

un anello con un rubbino, un a. consistente in un diamante, una fede d'oro;

maniglie (?): un paio di maniglie consistenti in quattro rubini per uno e quattro

perle; gulere (colliersi); una gulera d'oro con smirardi e perne, una g. d'oro con

smirardi e rubbini e perle; cianelli; un paio di cianelli d'oro; lazzi (lacci); un lazzo

d'oro; gioielli di varia foggia; un cintiglio di cappello e granatini, un Agnus Deo

15

(sic!) d'oro con cinque perle per uno, un Crucifissetto d'oro, un Crucifissetto d'oro

con una catinella, un collaro di donna».

Gli oggetti in argento si trovavano invece conservati nella sala e

propriamente dentro un baullo vecchio. Vi erano «un bacile, un vocale (boccale),

una salera consistente in tre pezzi indorata, una canistrella, 2 tromboni, un

bicchiere indorato, una sottocoppa, una saliera in un pezzo, un candiliero, uno

smiccia candele, un vaso di bevere (bere), un bicchiero indorato e sette posate,

distinte in 7 cocchiarine e 6 forcini (forchette), 2 cocchiaroni, l'uno perciato

(bucato) e l'altro sano».

In aggiunta a quanto relazionato, in casa Grillo si ritrovavano ancora un

panno per li buffetti di damasco giallo usato (nella camera appresso a quella del

Rubino) e una cascia piena di libri d'esigenza (nella stanza più interna).

Quanto abbiamo riferito è ciò che si osservava dentro casa al momento

della rilevazione del Fossare, ma Gio. Leonardo Grillo risultava ancora

possessore di ben altre sostanze e, cioè, di case, proprietà terriere e animali,

che si elencano del pari.

Oltre a quella in cui aveva abitato, il Grillo godeva della padronanza di

altra casa palatiata, che si trovava in loco Santo Anania e limitava con

l'abitazione di Alfonso M. Grillo e altri nonché con la via pubblica.

Gli appezzamenti agricoli, qualificati in possessioni, giardini, terre

aratorie, terre e oliveti, si distinguevano come di seguito. Possessioni: p.

arborata di celsi, olive, vigne e altri alberi fruttiferi con una torre dentro (la

torre era la casa di campagna) e cinque case di notricata (casette per

l'allevamento del baco da seta) in contrada Buscaino di Castellace; p.

arborata di celsi, vigne e altri alberi fruttiferi con una casa di notricata dentro in

c.da Crusone. Giardini: g. arb. di celsi e la timpa (Tresilico), g. arb. di celsi

in c.da lamia; id. in c.da lo cerazzo (Varapodio); g. con quaranta sacchi di

fronda e una mezza salma d'olive in c.da Calabrò (Varapodio); g. arb. di celsi,

olivi e terre scapole in c.da Bivera (Tresilico), S. Martino e Campo di

Buzzano; giardinello arb. di celsi a S.to Flippo; cinque piedi di celsi e la iuso

fontana sei sacchi di fronda una tumolata di terre scapule a Calabrò (Varapodi).

Terre aratorie: terre a. per 134 tumolate in c.da S.to Gioanne (Castellace).

Oliveti: due tumolate di oliveto a le funtanelle, una tum. con olivarelle dentro in

c.da Sportà (Varapodi), 12 tum. in c.da Campo di Buzzano (Castellace).

Facevano parte dell'asse ereditario di Gio. Leonardo Grillo ancora

Animali baccini, porcini, pecorini e caprini, il cavallo et altre giustamente con

16

Allassi e crediti per 1.300 ducati legati a debitori censuali, in numero di 23

ed a censi perpetui, 7.

Dopo aver visitato minuziosamente le stanze del palazzotto Grillo

cercandovi i più evidenti segni di un modo di vita ormai da tempo

scomparso, volgiamo il piè verso un'altra magione non altrettanto ricca, ma

ugualmente nobile, quella dei Sartiano. Ad accompagnarci nell'escursione è

il solito notaio Fossare, la cui scheda dell'anno 1649 risulta del pari piena di

utili informazioni.

Placido Sartiano, nel mondo dei più nel citato anno, appartenente a una

famiglia che in Oppido potrebbe essere giunta da Reggio nei secoli

precedenti27, era figlio di d. Camillo e aveva condotto in moglie donna

Laudonia Grillo. Erano quasi certamente suoi fratelli l'abate Fabio, canonico

tesoriere della cattedrale nel 1600 e Rijetta, i cui beni passeranno ai nipoti.

Figli della coppia erano il rev. Camillo, Agazio e Antonio. Il particolare

dell'assegnazione del nome Agazio a uno dei rampolli ci fa pensare che

Laudonia sia potuta essere un'altra sorella del predetto Gio. Leonardo.

La casa abitata dalla famiglia Sartiano si trovava anch'essa in posizione

eminente e, più esattamente, nella stessa piazza ove troneggiava il

vescovado, in planetie vescovati e aveva ai suoi confini, tra l'altro, la via

pubblica e la dimora di Sansonetto Lucà. A Placido era stata portata in dote

dalla moglie, quindi in origine si trattava di altro cespite dei Grillo.

Il palazzotto di Placido Sartiano non doveva essere delle medesime

proporzioni di quello in cui abitavano i parenti Grillo, ma anch'esso

risultava costruito a due piani e usufruire di un porticato. Comunque, dei

vari vani il notaio ha distinto la sala, il solaro della sala, la camera dove si

sale e le camere a sinistra e a destra del porticato.

I Sartiano custodivano anche loro le masserizie in baulli, cascie e cascioni,

che si trovavano tutti nella sala, come d'altronde quasi ogni cosa che faceva

parte dell'asse patrimoniale. Vi si riscontravano partitamente 2 baulli di corio

(cuoio) di quattro palmi con chiavatura, di origine dotale e altro di 3 palmi e 1/2.

V'erano poi 2 cascie di nuci di sei palmi, di cui una era appartenuta al quondam

abate Fabio e un cascione di nuci.

Le sedie si numeravano in appena 4 di corio e ben 3 provenivano

dall'eredità del detto abate e, quindi, come si può ricavare, ce n'era appena

per una persona.

27 LIBERTI, Momenti e figure ..., p. 15.

17

Nessuna notizia si ha di travacche e lettère, che si trovavano in altra casa

vicina, come detto in convicino di Sansonetto Lucà, nella quale il notaio ha

segnalato la presenza di 3 letti e 7 materassi, 4 dei quali appartenuti al

solito abate. Un letto aveva la travacca indorata, un altro l'aveva di legno di

fago (faggio) e un terzo era per la zitella, evidentemente Rijetta. C'erano

anche li tavarchi della casa.

Strano, ma con così pochi letti abbondavano i cuscini. Tre paia di frandina

(Fiandra), di cui 1 con la rizza gialina e russa e 2 con rizza carmosina

(arricciatura cremisi), pervenivano dalla fu Rijetta, mentre il terzo risultava

dotale di Laudonia e, cioè, 5 paia così distinte: un paio di frandina con lo

lavoro a torno di seta nigra, 2 paia lavorati a torno di filo bianco e seta rosata, un

paio lavorato a torno di seta nigra, un paio lavorato di seta russa.

Anche dai Sartiano si rinvenivano poche coperte, soltanto 2. Una, dotale,

era così descritta: una pezza di coperti bianchi a lavoro della nuci di canni 18,

mentre l'altra, di cuttuni, con frangia a torno, bianca, era stata comprata l'anno

prima da d. Camillo a S. Domenico di Suriano, evidentemente

all'importante fiera che annualmente si teneva nel piano circostante il

convento e durava tutto l'ottavario del santo, dal 4 all'11 agosto28.

Se si rilevava scarsezza di coperte, non era così per le cutre, che

apparivano in numero di 5, tre delle quali erano state proprietà dei fratelli

Fabio e Rijetta. V'erano una cutra turchina e russa, una verde e russa, una

gialina e russa, una bianca di tela lavorata piena di cuttuni e una bianca usata della

casa.

Anche di lenzuola si riscontrava una discreta serie in casa Sartiano: 2 di

tela suttile con punti annucati (annodati) con frangia a torno, un paio di lenzuola

semplici usati con li punti bianchi provenivano da Rijetta. Un paio di lenzuola

con la rizza di seta negra e il cappelletto era stato del rev. Fabio, mentre un paio

di lenzuola lavorato di seta carmosina era dotale e un paio di tela suttile con punti

di Paula e pizzillo attorno non era della casa. Nove paia di lenzuola simplici della

seta delli Iudiei, cioè degli Ebrei, erano state acquistate a Napoli dal fu

Placido. Nota interessante: in varie schede notarili, trattando di oggetti di

corredo, si fa riferimento ai punti di Paula. È indubbio che ciò abbia

28 A. BARILARO, Apprezzo dello Stato di Soriano in Calabria Ultra 1650, Oppido

Mamertina 1982, p. 25.

18

rapporto con Paola, cittadina del Cosentino assai nota in passato per lavori

artigianali di cucito e ricamo29.

Di Cortine si evidenzia un solo esemplare, che, di proprietà dell'abate

Fabio, in occasione della verifica del notaio risulta depositato al monte di

pietà. Si trattava di una cortina di seta gialina e capicciola usata.

Pure di padiglioni c'era gran dovizia in casa Sartiano. Se ne rilevavano

ben 14 ed erano i seguenti: un padiglione di tela usato con li punti di Paula, con

la rotta di S. Catherini con il suo cappelletto, 3 padiglioni usati, 1 con punti di

Paula e 2 con punti fatti allo tilaro e punti di Paula erano del qm Fabio, un

padiglione con il cappelletto dell'istesso lavoro di seta carmosina in dui

pezzi già al monte di pietà e riscattato per 8 ducati da d. Camillo era dotale così

come dotali erano un padiglione di tela con li rizzi d'annucato con il suo giraletto

e cappelletto e un padiglione con cappelletto con punta a rosicella. Un padiglione

di filandenti con il giraletto e cappelletto con punti fatti al tilaro, un padiglione in

dui pezzi con punti di Paula e frangi a torno, un padiglione a tre pezzi con li setti

pedalori con il cappelletto, un padiglione di lino e capicciola gialino e uranghino a

tre pezzi appartenevano alla casa. Un padiglione di tela a dui pezzi con la rizza

di filo annucato, un padiglione di tela con rizza di seta nigra, un padiglione di

tiletta di seta verde rigato a tre pezzi con il cappelletto a cupertuni usato, un

padiglione con rizzi di seta carmosina a leone con il cappelletto si trovavano tutti

depositati al monte di pietà. Sempre nella medesima sala si vedeva un

giraletto (copriletto) di seta verde di tilettuni con li frangi stesso colore. Nell'altra

casa era invece custodito un padiglione di tela bianco dotale.

Come mobili si qualificavano uno scrittoio di nuci pieno di lettere vecchie,

una suppellettile, invero, che denota fin troppo la presenza in casa di un

ecclesiastico, una buffetta di nuci, entrambi sistemati nella sala, indi una

buffetta di nuci vecchia con il tiratore (tiretto), una buffetta di abito (abete) usato,

un banchetto di nuci (certo, uno sgabello), un riposto grande usato, tutti messi

nella camera e uno stipo vecchio allogato nella stanza d'abasso, che, in

definitiva, era la cantina.

Nella camera si rilevavano, peraltro, dui mailli (erano tini per il bucato a

forma di madia), 2 capifuochi di ferro (i soliti alari), una cramagliera (la catena

del focolare), una caudara grande e una caudarella usata.

Quali prodotti si rinvenivano nella camera a sinistra del porticato

quanto segue: 12 tumoli circa di grano russello a terra e altre 5 in un giustrone

29 ARILLOTTA, Reggio ..., pp. 253-254.

19

(grande cesto) apparivano di proprietà di Laudonia. Dal rev. Fabio

discendevano invece tre mezzalori d'orgio in circa, deposte in una cascia di

nuci vecchia e cinque tumoli in circa di grano mischio (segale + orzo).

Quest'ultimo, ch'era stato ottenuto dalle terre del qm abate, era sistemato in

un giustrone. C'erano ancora 100 libbre di seta, ch'erano di masseria propria

di d. Camillo, 30 libbre di seta di Cola Francesco Marzano (i Marzano erano

della vicina Seminara), il tutto messo dentro una cascia di nuci di sei palmi,

cinque pezzi di caso in una giustra (cesto), 2 tumoli di scagli con grano bianchi (è

la mondiglia che resta nel vaglio), un tumolo per sacchetto. Nella camera di

destra, verosimilmente la cantina, v'erano 5 botti, di cui una piena di vino e

2 giari (giare) d'oglio vuote.

Sopra il solaro della casa c'erano in ultimo 70 cannizzi (cannicci per

allevare il baco da seta) assettati (sistemati) con li suoi ordigni (strumenti), che

risultavano di proprietà di d. Camillo, e in più, 8 chini di coscina.

Presentiamo ora, così come abbiamo fatto per i Grillo, la rassegna degli

oggetti di corredo in uso in casa Sartiano.

Di tovaglie di tavola se ne riscontravano 6 a piparello (il piparello era un

tessuto casalingo a piccole losanghe), mentre un pezzo di tovaglia di tavola

piranischi30 misurava canni 7 larghi 3 palmi e 1/2. Le tovaglie di faccia si

trovavano pure in numero di 4 e ugualmente di piparello, ma apparivano

manifattura di Laudonia, che aveva usato un lino che l'era pervenuto dalle

sue terre dotali nella foresta in un periodo in cui il marito trovavasi a

Napoli. A tali si aggiungeva pure un pezzo di tovaglia consistente in cinque

... (non si riesce a leggere il seguito). Oltre a ciò, si rilevava la presenza di

altre tovaglie senza ulteriore precisazione. Si trattava di un pezzo di tovaglia

di tela con rizzi a mano al numero di 7 e di 2 tovaglie di tela frandinisa (di

Fiandra) con rizza di seta e gialina già proprietà di Rijetta, e, poi, di una

tovaglia con rizza di seta nigra e bianca, di 4 tovaglie di frandina (una con rizza

bianca con pizzillo a torno novo, altra con rizza di seta nigra e bianca con frangetti

a torno, altra ancora con seta lavorata con rizza di seta russa e bianca, tutto

dotale), di 3 tovaglie di cambri (Cambrai) con pizzilli attorno novi et uno usati,

una tov.aglia con la rizza russa.

Stujabucchi ve n'erano solo 17: 4 erano frandinisi e 13 con li frangi a

mano allo tilaro, tutti della casa. V'era anche un tovagliolo di romanisco

(spago, cordicella) con li pizzilli negri.

30 Pisanische, cioè con riferimento a Pisa. Ved. ARILLOTTA, Reggio ..., p. 249 in nota.

20

Di capicciola si rilevavano 11 mezzi canni del tipo bianco e tutto proveniva

dalle terre di d. Camillo.

Passando agli oggetti di vestiario, abbiamo:

gipponi: ve n'erano 2, uno di veletta d'argento turchino lavorato seu tessuto a

onda e l'altro di raso russo con gruppi d'oro. Erano stati oggetto di regalo da

parte della zia Rijetta al nipote d. Camillo a tempo cantò messa novella.

faldiglie: si elencavano una faldiglia di seta di raso con gruppi d'argento, una

faldiglia alleonata di spagna di seta guarnita d'oro et argento e una faldiglia di

raso rosa sicca con gruppi d'oro. L'ultima era stata pure un regalo a d. Camillo

da parte della zia, ma tutte risultavano depositate al monte di pietà.

feriolo: (era il mantello per uomo): ve n'era soltanto uno di febba (felpa)

scusuto, ma, in pegno al solito monte, era stato riscattato con 8 ducati.

velii: c'era un velo detto della Regina con pizzilli d'oro a torno fatti in casa.

scorfani (parte della camicia): si vedeva un solo scorfano di frandina di

donna con li manichi lavorato di punto tagliato. Era di Laudonia.

robbe: c'erano una robba di velluto negro con gruppi d'oro (apparteneva a

Rijetta), una robba di velluto negro guarnita d'oro, una robba di tiletta di seta

rigata inforrata (foderata) di terzanello giallino guarnita d'oro.

Il tesoro dei Sartiano era affidato a un marzapanetto (scatola o cestino),

che si trovava ugualmente nella sala e il cui interno rivelava: un fischietto,

una campanella d'argento con li ciancianelli (sonagli), un paio di coralli ad olivella

con li buttuni d'oro (dono della suocera a Laudonia all'atto del matrimonio),

una pietra granata di petto impiastrata d'oro (id.), un anello d'oro con la pietra di

diamante (a tempo Laudonia fu zita), un altro paio di coralli con l'impostaturi di

migliuzzi et ambri (ambra; era della casa), sei fila di perni dono del barone di

Chareri alla sorella Laudomia per il matrimonio), un paio di paternostri di buttuni

d'oro di sei posti con un crucifissetto d'oro (regalo del suocero a Laudonia),

una chiannacca (lo stesso che fannacca) di migliuzzi d'oro e granatini et alla fine

di coralli, due paia di ciccagli d'oro (orecchini), uno a Rosa e un altro a piramide

(dono della suocera a Laudomia per il matrimonio).

Oltre a quanto descritto, in casa Sartiano si avvertiva ancora la presenza

di molta quantità di libri di legge canonica e civile già proprietà dell'abate

Fabio, una cocchiarella e una brocca d'oro, che appartenevano a d. Camillo, 17

quadri la maggior parte degli Apostoli e gli altri di diversi santi, non per nulla vi

risiedeva un ecclesiastico (3 quadri vecchi erano nell'altra casa), un misale di

campo usato dotale, che trovavasi al monte e 2 tili di spruveri (era la zanzariera)

con la rizza bianca di filo (questo era stato già proprietà della defunta Rijetta).

21

Dopo quanto sin qui detto, sono d'obbligo alcune indispensabili

considerazioni, che proponiamo di seguito.

Le case, in cui vivevano i nobili oppidesi non erano dei veri e propri

palazzi, come la voce casa palatiata sembrerebbe suggerire, perchè, giusto

quanto abbiamo sceverato, si trattava in genere di case a due piani con

poche stanzette. Ê particolare il caso dei Sartiano, che agivano in soli

quattro vani, cioè una sala, una camera d'ingresso e due altre stanze a

destra e a sinistra del porticato, ch' erano poi in definitiva dei bassi utili al

deposito delle derrate annuali.

Nelle elencazioni del notaio non si avverte nelle case la presenza di un

bagno. Ê evidente! Non esisteva! I nostri maggiori non conoscevano i

benefìci di un tale ambiente e affidavano i rifiuti del loro corpo a più o

meno rozzi càntari, che di notte vuotavano nelle strade. Di un simile

riprovevole, ma necessario uso, tratta nella sua opera il famoso viaggiatore

Leandro Alberti, venuto in Calabria nel 1525, il quale afferma che in merito

ne poteva rendere dritta fede. Era stato forse sfiorato da qualche inconsulto

lancio? Ê probabile31! Per quanto riguardava la pulizia personale erano

allora sufficienti un bacile e un boccale.

Può sembrare strana l'assenza di stipi di vario genere nelle case dei

nostri maggiori, specie se nobili, ma al proposito bisogna tener presente che

gli antichi, assai più economicamente e col grande vantaggio di evitare

l'occupazione di spazi ampi, amavano servirsi di stipi più naturali per

riporvi le loro cose, le gazzane o hazzane. Erano queste delle nicchie scavate

nei muri, che facevano molto egregiamente le veci degli armadi.

Il notaio non fa il minimo cenno neanche a utensili di cucina. Come mai?

Ê facile che, trattandosi di materiale di modesta rilevanza, non venisse

compreso in un asse patrimoniale e, quindi, non fosse soggetto a

catalogazione.

Non si avverte nemmeno l'esistenza dei fazzoletti, in dialetto muccaturi.

Non ce n'erano o per lo stesso motivo, di cui sopra, non formavano oggetto

di rilevazione?

Al tempo, di cui trattasi, era assai fiorente l'industria della seta. Lo

provano sia i cannizzi sul solaro di casa Sartiano che le case di notricata e le

terre alberate di gelsi di proprietà della famiglia Grillo.

31 G. VALENTE, Leandro Alberti in Calabria, Cosenza 1968, p. 22.

22

La foggia del vestire era tutta spagnolesca anche se non era del tutto

sconosciuta la moda francese. Non per nulla il reame di Napoli era

asservito sin dal 1444 al predominio di popoli provenienti da terra iberica.

All'epoca le donne, anche quelle di ceto superiore, non disdegnavano di

eseguire lavori di cucito e ricamo. Anzi, possiamo dire che una tale attività,

non essendo concesso al gentil sesso di frequentare scuole e altro,

rappresentasse, assieme alla pratica religiosa, una grande valvola di sfogo.

L'essere stati costretti, a volte, ad affidare al monte dei pegni oggetti di

casa può voler dire sia che nel frangente si vivesse in ristrettezze sia che,

essendo scarso il contante, ognuno fosse spinto spesso a ricorrere a

un'istituzione del genere per i propri negozi.

Nomina dei deputati del tabacco (l664)*

Recatisi dal notaio, il sindaco dei nobili mag. Francesco Grillo, quello del

popolo Carlo Lucà e l'eletto Antonio Santacroce fecero presente come, su

ordine espresso dalla Regia Camera della Sommaria e dall'uditore delegato

per l'arrendamento del tabacco nella provincia, avessero deciso di nominare

quali persone habile, et idonie a svolgere il compito in Oppido Domenico

Grillo e Giovanni Vela. Costoro avrebbero dovuto riceversi dal regio

arrendamento 70 libbre del prodotto e metterlo in distribuzione tra il

capoluogo e i casali di Varapodi, Tresilico e Messignadi. Non era proprio

possibile prelevare di più dato ch'era ormai scontato che in detti paesi non

sarebbe stato agevole esitarne oltre. In virtù di tale operazione sindaci ed

eletto venivano a impegnarsi in prima persona nel caso che quei loro

incaricati non avessero provveduto al pagamento di quanto consegnato al

prezzo stabilito e nelle tande (rate) consuete. Assieme alle somme non

corrisposte, essi sarebbero stati tenuti a rifondere anche spese e interessi32.

* Pubblicato in "La Città del Sole", a. VI-1999, n. 4, p. 18. 32 SASP, Libro del prot. di nr. Camillo Vistarchi, Oppido, a. l664.

23

Sequestro di seta (l692)*

Dalle dichiarazioni che il l0 agosto l692 fecero al notaio i reverendi d.

Giuseppe Paonne e d. Antonio Martello, Giovanni Rijtano, Leone Leale, il

regio annotatore di seta mag. Francesco Ruffo, nonché i mastri Francesco

Ripepe, Giuseppe Petr'Antonio, Antonino e Giuseppe Mulluso, Antonino

Loffo, Lorenzo Fasano e Iacopo Caligiuri, veniamo ad apprendere di un

sequestro di seta operato dal governatore dell'arrendamento della

provincia, d. Bartolomeo Bongiovanne, il l9 luglio precedente.

Quest'ultimo, essendo venuto a conoscenza che in una camera bassa della

casadel sindaco dei nobili, dr. d. Francesco Antonio Rocca, si trovavano

depositate le sete che i cittadini in debito per i fiscali erano costretti a

lasciarvi sera per sera a garanzìa degli stessi, si portò in Oppido e si fece

subito recare innanzi il Regio Compratore delle sete per l'anno e Casciero

Universale, mag. Domenico Antonio Zerbi. A costui chiese immantinente la

chiave di detta camera e lo ritenne per carcerato. Quindi, incaricò il suo

scrivano Nicolò di Gennaro di andare ad arrestare con l'ausilio di una

squadra il medesimo sindaco. Quando si fece l'ora del vespro, inviò a sua

volta, unitamente allo Zerbi, il mastrodatti nr. Antonino Franzone, che

provvide a requisire 405 libbre della seta, che vi si conservava, adducendo a

motivo ch'essa fosse intercetta.

Non valse a nulla che sindaco e regio compratore protestassero

pubblicamente per il sopruso affermando che tale prodotto, mai acquistato,

era ritenuto solo in forma di deposito e che, non appena fosse uscita la Voce

del prezzo, quanto restava dopo il pagamento delle segnalate tasse avrebbe

dovuto essere restituito ai legittimi proprietari. Peraltro, di ciò ch'era stato

incamerato se ne sarebbe avvalsa l'università per pagare la Regia Banca e

pesi forzosi. Non si conosceva quanta seta vi fosse stata raccolta, ma soltanto

la quantità delli occhi, come era possibile osservare dalle cartelle appese a

ogni mazzo e dal foramento che si teneva nella medesima cassa in cui era

stata immessa33.

* Pubblicato in "La Città del Sole", a. VI-1999, n. 2, p. 18; "Storicittà", a. X-2001, n. 94,

pp. 50-51. 33 SASP, Libro del prot. di nr. Giuseppe Fossare, Oppido, a. l692.

24

A un quarantennio dal Grande Flagello*

La nobiltà

Dato l'immane, terrificante sisma che il 5 febbraio del l783 venne a

sconvolgere buona parte della Calabria meridionale, poco rimane negli

archivi pubblici e privati che possa permetterci di ricostruire le comunità

urbane che si evidenziavano immediatamente prima di quel gravissimo

frangente. Ciò è maggiormente accertabile per quei paesi che, come

Oppido, dovettero addirittura cambiare di sede, avviando un iter nuovo

sotto tutti gli aspetti. Infatti, spesso fu un "habitat" del tutto diverso da

quello in cui la vita aveva pulsato per svariati secoli ad accogliere le

spaurite popolazioni, decimate non solo dal sinistro, cui erano andate

soggette, ma da successive epidemìe e altri conseguenziali malanni. Quindi,

per tentare di rappresentare quale fosse in prossimità del crudo evento la

situazione, non ci rimane che riferirci alla metà circa del secolo, quando, per

ordine sovrano, fu sollecitata la formazione dei catasti onciari, così detti

perchè gli incaricati del governo consideravano il patrimonio dei cittadini

sulla base dell'oncia.

A Oppido un tal genere di ricognizione a uso del fisco venne effettuato

nel l746. Si poterono verificare allora le sostanze e gli impegni lavorativi di

circa l.310 persone, quelle effettivamente presenti all'atto nell'agglomerato

dell'altopiano delle Melle. È certamente esso il dato più probante, tenuto

conto che scarsa fiducia si può nutrire nei confronti delle cifre offerte

dall'autorità ecclesiastica. Ci sembra, infatti, poco accettabile che in otto

anni dal l738 la popolazione possa essersi assottigliata di quasi 300 unità (il

vescovo Vita, nella sua relatio ad Limina di quell'anno, scrisse di l.600) o che

a distanza di 36 si sia accresciuta di ben l.l50 (il cancelliere di curia registrò

per il l782 il numero di 2.460 abitanti).

Iniziamo il nostro viaggio fra la popolazione oppidese pre-terremoto

riportando idealmente in vita per primo il ceto che all'epoca si qualificava

* Pubblicato in "La Città del Sole", a. IV-l997 n. ll p.20, n. l2 pp. 21 e 30; a. V-l998 n.

3 pp. l8 e 30, n. 5 p. l8, n. 6 p. l8; n. 9 p. l8, n. ll p. l8; a. VI- l998 n. l p. l8, n. 3 p. 22,

n. 5 p. 22.

25

al sommo della scala sia per la detenzione dell'effettivo potere esercitato in

ogni campo che per il patrimonio più vistoso acclarato. Intendiamo portare

il discorso, naturalmente, sulla nobiltà, i cui esponenti non solo facevano il

bello e cattivo tempo nelle amministrazioni pubbliche forti del sostegno del

"Padrone", il feudatario, di cui erano a volte peraltro la "longa manus", ma

insistevano ad accaparrarsi le più lucrose attività. Tanto per dirne una, in

un'economia tipicamente contadina basata soprattutto sulla coltura

dell'ulivo i trappeti erano quasi di loro esclusiva proprietà34.

La famiglia di stampo nobiliare a emergere in Oppido per prima, la

Grillo, non era autoctona, ma proveniva da Genova anteriormente

all'acquisto da parte di Carlo Spinelli, esponente di un ceppo, di cui la

stessa sarà a lungo fedele. Addirittura, nel l6ll Muzio prestò a quel

feudatario per l'occasione una somma di denaro. Comunque, gli iniziali

membri cominciano ad apparire sin da molti anni avanti. Nel l567 Delia,

che andava sposa a Camillo Sartiani, otteneva la dispensa papale sul quarto

grado di consanguineità.

Nel l746 il Grillo che vantava il patrimonio più alto era il sessantunenne

d. Girolamo, vedovo di d. Aurelia Grillo, che verrà a morte nel l75l.

Abitava in una casa propria con i figli d. Agazio decano (a. 35), Lorenzo [31;

con questi c'erano la moglie Cornelia Grillo a. 36 e i figli Girolamo a. 8,

Lelia a. 4, Filippa in fasce, d. Francesco (a.28 †l757; stavano assieme la

moglie Caterina Barletta Santa Croce a. 26 e il figlio Marcello a. 3;

quest'ultimo sarà uno dei rifondatori di Oppido in contrada Tuba], Lucrezia

vedova di Girolamo Zerbi (26), Aurora sposata a Seminara (24), Cornelia

(22), Giulia ma probabilmente anche Cecilia accasata a Sinopoli con d. Carlo

Antonio Ruffo (30) e Filippo (l2;Chierico in habitu ; nel l754 sposerà Aurora

Sartiani). A tutto questo po' po' di gente accudivano un lacchè, Francesco

Fotia (34) e tre serve, Saveria (32) e Caterina (l5) Rajmondo sorelle e

Domenica di Sitizano (30).

Le sostanze di d. Girolamo, valutate once 2.127.26, consistevano in

tenute agricole ubicate nelle contrade Levadi, Fiorello, S. Nicola, La Chiusa,

34 I dati extra l746 sono desunti dalle relationes ad Limina dei vescovi, atti curiali,

registri parrocchiali e notarili e dal regesto vaticano di padre Russo. I numeri fra

parentesi esprimono gli anni di ogni individuo variamente riferiti. Onde snellire

la pubblicazione, abbiamo evitato di aggiungere a ogni nome l'appellativo di d.

(don), facendo eccezione solo per l'esponente principale della famiglia.

26

la Croce, Tricuccio, S. Biagio, Cannavaria, Puzzura, lo Barone, la ferrera,

Gallora, lo sicco, Vagliano, Sportà, l'oliveto, lo stritto, li lacchi, li molina,

Vermiciti, Scropari, la Varchera, Piombino, la Reggia e recanti olivi,

castagni e gelsi; censi dovuti dalle università di Oppido e Tresilico nonché

da sei persone; 3 trappeti siti rispettivamente in Oppido, Messignadi e

Varapodi; l30 pecore, 8 bovi aratori, 9 bovi di corpo e 8 mule. Come si vede,

dei beni di considerevole entità.

Da parte sua, il decano d. Agazio, divenuto tale nel l730, possedeva un

suo fondo personale in contrada Cannavaria, probabilmente quello

concessogli dalla famiglia all'atto dell'entrata in seminario per la richiesta

costituzione del patrimonio, che risultava coltivato ad ulivi e soggetto alla

valutazione di once 46.20.

Seguiva il dr. d. Saverio (a. 46), arcidiacono pure lui dal l730 e, indi,

vicario generale della diocesi, che morrà nel l760 all'età di 60 anni. Godeva

egli di sostanze stimate once 890.04, che, tolte l94.l8.9 per pesi, pervenivano

a 695.l5.3. Si trattava di proprietà rilevate, tra l'altro, nelle contrade

Marcone, S. Biagio, Levadi, Crusoni, Cannavaria, Calabrò, Perleone, lo

Stritto, l'oliveto, la Chiusa, li lacchi, S. Marina, Iona, dove risultavano

piantati olivi, gelsi e castagni; di un trappeto, 3 vacche di costera e qualche

censo.

Altro sacerdote della famiglia a vantare discreti cespiti era d. Domenico,

che, a fronte di un patrimonio di 346.l0 once, evidenziava pesi per 253.l0,

quantificandosi l'esito finale in once l55. Il tutto si diversificava in possessi

fondiari localizzati, tra l'altro, nelle contrade la Biviera, Grassina, lo

Cannolo, Folari, Crusoni, Lami, Vallica, lo Capocanale, la Petrara, lo

Villano, Fiorello; 20 scrufe campestri, l00 capre e un trappeto a Tresilico.

D. Giuseppe Grillo, con l'aggiunta Caracciolo, probabilmente per la

nonna paterna o qualche ava, figlio di Domenico e Carlotta Grillo, era in età

di 39 anni e aveva sposato Cristina Sartiani (25). All'epoca viveva in casa

propria con la moglie, i figli Carlotta (l) e Domenica (in fasce) (a queste si

affiancheranno Anna [l756-l826] e Concetta, che sarà condotta in

matrimonio nel l768 da Vincenzo Migliorini), la madre (50), le sorelle

Aurelia (37; maritata a Seminara con Francesco Mezzatesta e deceduta nel

l768 a Oppido, ma traslata nel paese del consorte) e Nunzia (34; sposata a d.

Giuseppe Rocca) e i nipoti Francesca (6) e Lorenzo (4). Vi badavano un

coco, Matteo Formica (30), due serve, Caterina Grillo (l8) e Caterina Furina

(60), Domenico Spatafora volante (l0) e Gioanna Sofrà (28) lattàra. D.

27

Giuseppe verrà a morte nel l768 e sarà sepolto nella chiesa dei cappuccini,

dove la famiglia godeva del diritto di patronato, avendo sostenuto nel l590

le spese per la fondazione del convento. Il patrimonio, considerato in l78.20

once, consisteva unicamente in proprietà agricole ricadenti tra l'altro nelle

contrade lo Molino, Zirgoli, Virga, lo cenzo, la Zighia e D. Camillo.

Altro sacerdote benestante era d. Alfonso Maria, canonico dal l741,

decano dal l763, arcidiacono e luogotenente generale nel l768, deceduto nel

l784. I suoi beni, valutati in 210 once, erano basati su 4 censi, 2 bovi ed un

trappeto in contrada Cannavaria. Tolti i pesi in ragione di l54.l8, alla fine

poteva contare su un patrimonio di sole 55.l2 once.

Once 99.l7 rappresentavano la fortuna di d. Lorenzo (33), della moglie

Gregoria Sanchez (33), seminarese e delle figlie Teresa (5) e Dianora (2),

che, dedotte 39.10 per pesi, diventavano 60.07. I possessi erano,

naturalmente, fondiari e si evidenziavano nelle contrade Majdi,

Cannavaria, Sambiasi e Crosoni, dove si rinvenivano, tanto per cambiare,

ulivi e gelsi. Badavano alla famiglia, che abitava in casa propria, due serve,

Anna Pezzimenti (l4) e Gioanna Surace (26) e un garzone, Bruno Perlingò

(28).

A chiudere la lista per il ceppo Grillo erano d. Antonio (26), figlio di

Giuseppe e Ippolita Gemelli (†l758 a. 70), che usufruiva di casa propria, cui

limitava un appezzamento con fronde, assieme alla madre e ai fratelli

Giuseppe (23); Grazia (38) e Beatrice (34; ved. di Lorenzo Grillo di

Melicuccà). Erano addette alla famiglia due serve, Elisabetta Perrone di

Polistena (30) e Livia Lodata di Siracusa (32). L'ultimo Grillo, oltre a quanto

detto, possedeva un fondo in contrada Folari con alberi di ulivo e due bovi

a uso dei suoi giardini, il tutto per un valore di once ll.21. In successione di

tempi, nel l750, condurrà all'altare Antonina Candida di Gerace e avrà

Ippolita (l752-l754), Filippa (l754), Giuseppe Maria (l758-l851) e Anna

(l762).

Al più dovizioso Grillo teneva dietro nella scala dei valori l'unico

rappresentante della famiglia Rocca, di recente pervenuta da fuori e che

lasciò il nome a una contrada prossima alla nuova Oppido. Nel l648 era

presente nell'antica città d. Giuseppe Rocca di Lauriana, mentre nel l692 il

dr. Francesco Antonio si segnalava qual sindaco dei nobili (nel l726 sarà

governatore del monte di pietà). Nel l695 si trovava quale arcidiacono e

vicario generale d. Gerolamo, residente sin da molti anni prima del l68l.

28

D. Giuseppe Rocca (prob. a. 46), che verrà a morte nel l750, s'imparentò

con i Grillo sposandone Nunzia (40). Abitava in casa propria con la moglie

e i figli Francesca (l0; nel l752 si unirà a Giuseppe Grillo Gemelli e nel l758,

mortole il marito, ad Alfonso Migliorini), Giesoria (7), Carlotta (5) e

Caterina (3). Aveva al suo servizio due donne: Isabella Lemmo (50) e

Francesca (l2). Il suo patrimonio ammontava a once 9l9.26 e si diversificava

come segue: tenute di olivi, gelsi e castagni nelle località lo Iudeo, la

Varchera, S. Biagio, Puzzura, Fiorello, la Pagliara, Loddeni, Previtileo,

Capone, Marino, Levadi, Trecuccio, li cippi, Laudari, la carcara, Cauddari;

un trappeto nello stabile di Folari; 2 bovi aratori e 3 vacche di corpo.

Anche per la famiglia Sartiani appariva soltanto un esponente e per di

più sacerdote. Com'è possibile ciò quando atti notarili e parrocchiali ce ne

offrono in parecchi per il periodo, di cui ci stiamo occupando? Se non ci

sono lacune nelle registrazioni del catasto, dobbiamo arguire che la più

gran parte di essi si trovassero ormai a Seminara al seguito degli Spinelli.

Un d. Francesco, tra l738 e l760 la faceva da padrone nelle terre di Seminara

e Melicuccà. Il ceppo, di sicura provenienza reggina e che lasciò il nome a

un toponimo nei pressi di Messignadi, si evidenziava a Oppido sin dal l544

con Giulio e Scipione. Il primo godeva dello iuspatronato della chiesa di S.

Sinoieni, il secondo n'era rettore.

L'abate dr. Saverio, forse lo stesso che nel l77l-l772 sarà avvocato in

Napoli, mostrava possedere sostanze per 556.l7 once, ridotte a 498.26.6 per

pesi in misura di l7.30.6. Il tutto poggiava su appezzamenti agricoli nelle

contrade Cavaglioti, Cannavaria, la Chiusa, lo Vallone della Rena, Folari, la

Ranici con piante di ulivi, gelsi, castagni ed alberi fruttiferi; un orto

attaccato al palazzo; un trappeto in Tresilico; una casa data in fitto e

un'esazione.

Il capo dell'unica famiglia dei Mesiti, di certa derivazione geracese in

lontani tempi, d. Giuseppe, nel l746 era nel mondo dei più e gli

sopravviveva la moglie Beatrice Ceratti, che a sua volta morrà nel l751 a 76

anni e verrà sepolta nel convento degli osservanti in sepulchro suorum

majorum, evidentemente appartenente alla casata del marito. All'epoca della

formulazione del catasto, Beatrice, che dimorava in casa propria con i figli

Pasquale (l3; scolare), Bernardino (21; chierico in habitu) e Caterina (l8),

aveva un patrimonio del valore di once l86.08 per tre tenute nelle località

Zirgoli, Gallizzi e lo Iudeo con piante di olivi e gelsi e una casa con orto

piantato a gelsi. Accudiva una serva, Nunzia Lentini, dodicenne.

29

I primi della schiatta a comparire in diocesi di Oppido sono, nel l539,

Luigi e Marino. L'uno subentrava all'altro nella conduzione della chiesa

parrocchiale di Galàtoni.

Una stirpe di antica origine in Oppido era la Recanati o Riganati, da cui

il nome all'omonima contrada, ma in quel l746 l'unico rappresentante, d.

Francesco Antonio, era di già defunto. Vi permaneva la vedova, Caterina

Capuano (43), altra esponente di una prosapia di vetusta ascendenza ormai

in esaurimento, che abitava in casa propria con attiguo orto dotato di

fronde e godeva di una tenuta in contrada Zirgoli, ov'erano piante di olivi,

castagni e gelsi; 7 censi da varie persone e metà mula, il tutto per un valore

di once 99.l2. Non mancava una serva in persona di Gioanna Battista (30).

Dei genitori di Francesco Antonio si conosce solo il nome della madre, la

mag. Margherita Seminara.

Il primo dei Riganati ad apparire dai vecchi registri è Marc'Antonio nel

l6l6, che nel l66l figurava feudatario di San Calogero e nel l664 affittuario di

Castellace. Dei Capuano a farsi vivo inizialmente è Ottavio nel l625.

A evidenziarsi ora è un rappresentante della Migliorini, famiglia di

recentissimo ingresso a Oppido, circa la metà del '600, da Sinopoli, d.

Domenico, di Fabrizio e Giulia Cavallaro (34), ammogliato con una

rampolla di casa Sartiani, Giulia (28) e con figli: Lucrezia (6), Francesca (5),

Aurora (2), Caterina (l) (è sicuramente suo figlio anche Francesco, futuro

ministro di grazia e giustizia e dell'ecclesiastico, che morrà esule a Palermo

nel l8ll al seguito di re Ferdinando IV di Borbone). Abitava in casa propria

con i familiari più il fratello Alfonso (27) e la zia Maria (79). Vi si rilevano

anche una nutrice, Girolama Zangari (28), il lacchè Michele D'Amico (l8),

due serve Caterina Grio (l6) e Ippolita Verteri (l5) e un garzone, Biagio

Ruffo (23). Figuravano sue sostanze tre tenute con castagni, olivi e fronde a

Levadi, la Grazia e Rigusto; un orto dietro casa, 4 vacche di corpo e un

trappeto equivalenti a once 85.ll.

Ultimo è ancora un Migliorini, il rev. d. Giuseppe Antonio, cui si fa

carico di una proprietà in contrada Lamia per un valore di appena 9.34

once. Nel l742 aveva ottenuto dispensa super defectum natalium.

Come si è potuto notare, dalla serie delle famiglie nobili dell'antica

Oppido a metà del '700 non si faceva più parola di Capone (il nome è

rimasto appiccicato a una località vicina alla nuova città), Geria e Licandro,

casati certamente ormai estinti.

30

Da quanto emerge da ciò che abbiamo riportato, è facile congetturare

come la nobiltà oppidese si dedicasse a metà del '700 unicamente a

potenziare sempre più le risorse agricole che allora andavano per la

maggiore, l'ulivo e il gelso e che, sull'onda delle geniali intuizioni di un

nobile seminarese, Domenico Grimaldi, si fosse subito dotata del mezzo

utile a macinare le proprie ulive e quelle degli altri, sicuramente fonte di

grossi introiti data l'impossibilità per i cittadini privi di pingui sostanze a

erigerne uno. Di essi, in numero di 8, tre erano dislocati in città, 2 a

Tresilico, l a Messignadi, l a Varapodi e un ultimo nella contrada Folari.

Scarso, invero, l'impegno per l'allevamento, che registrava a malapena la

presenza di l00 capre, l30 pecore, l0 bovi aratori, 9 bovi di corpo, 4 bovi per

uso dei giardini, 3 vacche, 7 vacche di corpo, 20 scrofe campestri e 8 mule e l/2.

Così pure in merito alla carriera ecclesiastica. Se si accertavano 5 sacerdoti

di espressione nobiliare, soltanto due erano i "chierici in habitu", ma di essi,

come verificato, almeno uno più tardi contrarrà matrimonio.

La nobiltà, qualunque fosse la sua possanza, non rinunciava certo a far

compiere in casa le operazioni più umili a donne prese a servizio, per lo più

del luogo e quasi sempre coabitanti. Nel l746 si ravvisavano ben l5 serve,

quindi in proporzione di due a famiglia, che andavano dai l2 ai 60 anni. Più

numerose le ragazze dai l0 ai 20, che si qualificavano in 7 e dai 30 ai 40,

ch'erano in sei. A eccezione di una di Sitizano, altra di Polistena e altra

ancora di Siracusa, erano tutte del paese. In aiuto ai nuclei abitativi si

rilevano peraltro ancora due garzoni, due lacchè, un volante, una nutrice,

un cuoco e una lattaia.

La classe nobiliare, da quanto risulta, raggiungeva a Oppido nel l746

appena il 4,2%.

La classe dei civili

Erano un tempo qualificati civili o gente che vive civilmente tutti coloro

che, pur non essendo considerati nell'ambito del ristretto numero delle

famiglie nobili, venivano tuttavia tenuti in gran conto per i loro patrimoni -

leggi soprattutto fondi rustici - e la vita sociale condotta. Ma non si

ritrovavano in pochi coloro che alle stesse giungevano spesso ad accostarsi

allacciando rapporti matrimoniali.

Alla famiglia Malarbì, di sicura derivazione da Gerace, apparteneva il

civile più in alto nella scala dei valori. Era il dr. d. Orazio (a. l9), di

31

Giuseppe e Vittoria Sofrà (46), che in Oppido conduceva la sua esistenza in

una propria magione assieme alla madre, ai fratelli Domenico Antonio (l8),

Francesco Antonio (l6), Vincenzo (4; scolare), Saveria (l7; nel l747 andrà in

sposa a Pasquale Zerbi e verrà a morte nel l780) e Rosaria (7; nel l754 sarà

impalmata da d. Michele Alessandria Protopapa di Monteleone) e a una

serva, Antonia Barbaro (l6). Le sue condizioni apparivano parecchio floride.

Le once 900.05.6 denunziate riguardavano la valutazione di proprietà

fondiarie ubicate, tra l'altro, nelle contrade Folari, Rigusto, Puzzura, la

foggia, la Chiusa, li Pilli e Cannavaria piantate a olivi, gelsi e castagni; l0

censi; 4 bovi aratori, 8 vacche di corpo; 60 capre di corpo e il trappeto di

c.da Folari.

Il più antico esponente di tale casato a sortire dagli atti vaticani è

Marcello, che nel l567 venne nominato arcidiacono della cattedrale

oppidese con provvista anche della chiesa di S. Giovanni di Buzzano.

Seguiva la Zerbo poi Zerbi, di ascendenza corsa, forse proprio dalle

isole Gerbe, da cui il nome. D. Nicola Francesco (47), che aveva sposato la

nobile Lucrezia Mesiti (34), viveva in una casa propria, oltre che con la

moglie, con il figlio Pasquale (11; condurrà in matrimonio Saveria Malarbì)

e due servi, Rosa Pascalino (l8) e Giuseppe di Franza (l0). Possedeva

appezzamenti dislocati nelle contrade la Bozza, lo Molino (ov'era anche un

trappeto), la Mella, Previtileo, Santa Marini e l'Aranghi, forti di olivi e gelsi;

4 vacche e 2 bovi aratori e un'esazione per un ammontare valutato in 350.ll

once.

Il primo del ceppo ad apparire da documenti vaticani è Gaspare, nel

l630 provvisto di un beneficio in diocesi di Oppido.

Terzo in lista si trovava, a quanto ci sembra di poter ricavare dal

consunto documento, il nr. Domenico Romeo (47), peraltro effettivamente

in servizio all'epoca, con la sua famigliola, che si componeva della moglie

Flavia Raccosta (38?) e dei figli Maria (l8), Bartolomeo (ll), Michele (6),

Francesco (3), abitava in casa propria. Godeva di un patrimonio considerato

in l36.07 once e riferito a tenute dislocate, tra l'altro, nelle contrade la

carrubara, la fellusa, Rigusto, la Chiusa e S. Nicola evidenzianti olivi e

castagni e a 30 capre di corpo.

Dei Dimana il più quotato rappresentante era il notaro Francesco

Antonio (50?), marito di Angiola Italiano (35), il cui nucleo familiare si

completava con i figli Romano (?, l8), Carlotta (l0; sposerà Marco Antonio

Barba di Seminara), Teresa (6, contrarrà nozze con Michele Guardata di

32

Seminara, probabilmente il notaio), Filippa (4). Come un civile che si

rispetti, risiedeva pur lui in una casa propria e usufruiva delle entrate

provenienti da proprietà nelle località Spolisaria, lo Rechio, Tricuccio,

Cannavaria, la Cappella, Levadi, lo Burgo con piantagioni di olivi, castagni,

gelsi e vigna; un'esazione; un trappeto e due case in fitto. Il tutto si stimava

per l28.43 once.

Del ceppo Cananzi si rivelava il notaro Francesco, al tempo già

deceduto, la cui moglie, Domenica Romano (35), viveva in casa propria con

la suocera, Caterina Potitò (60) e la serva Caterina Schiava (22). Erano suoi

cespiti 4 tenute agricole dotate di olivi, fronde e castagni, un'esazione e una

casa data in fitto, il tutto equiparato a l02.l8.3 once.

Comincia ora la sequela dei Fossare, famiglia cui appartennero vari

notai. Si parte con Carmine (38), figlio di Goffredo e marito a Giulia Lucà

(?37), abitante in casa propria con moglie e fratelli, Pasquale "chierico in

habitu" (ll; verrà a morte nel l793 col grado di decano), Giovanna (l0) e

Riposa (3). I suoi possessi concernevano un orto dietro casa e tenute nelle

contrade Levadi, Cannavaria, Tricuccio, lo molino vecchio, la rotonda,

Marino, Sciotti, Podajsa, Costarello con piante di olivi, castagni, gelsi,

querce. Erano di sua proprietà anche 3 case date in fitto e un bove, con il

tutto che raggiungeva il valore di circa 99 once.

Domenico Fossare, notaro, coniugato con Domenica Scarcella (?), aveva

per figli Caterina (28), d. Giuseppe sacerdote (?), Francesco (?), p. Felice (?)

vicario dei paolotti, Bruno (l7) chierico, Ignazio (l5), Vincenzo (l0), Rosa (8).

Teneva un garzone, Gioanne Frisina (20). Vantava un patrimonio

ammontante a once 14.07 attinenti a fondi situati, tra l'altro, nelle località

l'Amella, Bombicino, Marino, lo Piliere, S. Biagio e dietro la sua stessa casa

con fronde, olivi e castagni, un'esazione; il fitto di una casa e un bove

aratorio.

Infine, il rev. d. Giuseppe, il quale, per due case locate, di cui una al

Borgo, era considerato titolare di sostanze per l4 once.

Basilio Lucà (44), ammogliato con Livia Zerbi (43; il matrimonio si

celebrò nel l725 e la sposa recò di dote 900 ducati in beni mobili ed

immobili), dimorava in casa propria con la stessa ed una serva oriunda di

Calanna, Gioanna Fedele (48). Le sue sostanze consistevano nei fondi

ubicati nelle contrade Lamia, S. Nicola, Mazzanova, Puzzura, ov'erano

alberi di olivi e gelsi e terre oratorie; in un'esazione, 2 bovi per acconcio dei

33

suoi giardini, 9 vacche ad allievi cioè adatte all'allevamento e nel fitto di una

casa. Si assegnava per esse un valore di 93.22.4 once.

Altro Lucà era Nunziato (l6), che in casa propria viveva unitamente alle

sorelle Anna (28), Maria (26), Rosaria (25), Ippolita (l9) e al fratello

sacerdote d. Carlo. La sua fortuna consisteva in appezzamenti siti nelle

località lo passo della femina e Zirgoli e nell'affitto di una casa, con

valutazione di 6.20 once.

Domenico Furina (37), con moglie Rosaria Dilio (25) e figli Francesco

(7), Teresa (4), Saverio (l), la sorella Saveria (32), la madre Caterina Plejtano

(60) e il servo Alfonso (?;l3), abitava in una casa di sua proprietà unitamente

al fratello arciprete d. Francesco. Godeva soltanto di quanto offriva una

tenuta in località Mazzanova, ove si coltivavano olivi. Si stimava tale per

312.21.9 once. Da parte sua, il can. d. Francesco era stimato proprietario di

terre coltivate per appena l0.25.6 once. ubicate nelle contrade Crusoni,

Bombicino, lo passo della femina e lo Iudeo, evidenziavano piante di olivi e

gelsi. Ma il peso era di gran lunga superiore alle entrate ammontando ad

once 26.04, cosa per cui quegli non era sicuramente tassabile.

Per i Vistarchi si qualificava primo il canonico d. Francesco, proprietario

di fondi alla Porta di sopra e nelle contrade Cannavaria, Tricuccio, la Pietra,

con alberi di olivi e gelsi, il tutto per 60.l8 once. Avendo di pesi l6.05, alla

fine gli restavano 44.l3. Un tal sacerdote verrà a morire nel l761 all'età di 66

anni. Altro della famiglia era Domenico, fratello dello stesso (41), che

abitava in casa propria seco lui e gli altri germani, Ippolita (36) e Saverio

(34).

L'unico capo famiglia dei Girardis a comparire in quel l746 è Domenico

(34) che in casa propria conduceva la sua esistenza assieme ai fratelli

Giacomo (31) e sacerdote d. Francesco (36) e allo zio canonico d. Domenico

(59). I suoi beni consistevano appena in una tenuta valutata l3.l0 con un

peso addirittura di l7.l0, cosa per cui era esentato da ogni tassazione.

Dei Leale erano presenti in due, il can. Francesco, di Giovan Battista e

Giulia Lucà, cantore della cattedrale morto nel l768 a 6l anni, possessore di

tenute a Zirgoli e Mazzanova per un valore di 60.26 con olivi e gelsi con

peso di 42.34 e quindi alla fine tassato per l8.02, e Domenico Antonio (29)

marito a Beatrice di Maria (21), che abitava in casa propria e poteva contare

su possessioni nelle contrade la Cappella e Maurello con alberi di gelsi per

un ammontare di l7.11 once. Saranno figli della coppia Pasquale (l750;

34

vedovo di d. Cecilia Vistarchi, sposerà nel l784 d. Flavia Romei), Felice

(l752), Antonino (l753) e Vincenzo (l756).

Ultimo della serie dei civili è Matteo Capalbo (56), che dalla moglie

Nunzia Gaglianò (52) ebbe i seguenti figli: Angiola (l8), Saverio "chierico in

habitu" (l7), Antonio idem (l5), Felice (9) e Filippo (7). Teneva per serva

Antonina Ciana di Sinopoli (40). Aveva casa propria, dietro la quale un orto

con piante di gelsi e tenute nelle località Levadi, Zirgoli, Puzzura, Calabrò

con alberi di olivi e gelsi e un'esazione, il tutto per 75.08. once. Il capo

famiglia scenderà nella tomba nel l754 e i figli sposeranno come segue:

Felice nel l754 Anna Italiano e Filippo nel l759 Gregoria Cananzi.

A mettere in chiaro le differenze sostanziali tra nobili e civili non ci

vuole proprio una grande lungimiranza. Se i primi, accertati in l4 nuclei di

gran lunga più doviziosi in fatto di possedimenti fondiari, vantavano il

possesso di otto trappeti, i secondi, in numero di l5, ne evidenziavano

soltanto tre, di cui uno nella contrada Folari. Ai l5 servi, che accudivano i

nobili, facevano da contraltare appena 7, dei quali una proveniva da

Calanna e altra da Sinopoli, con un solo maschio e ben quattro dai l0 ai 25

anni, con il resto compreso tra 40 e 50. Uno solo era il garzone. Più

numerosi i civili, sicuramente, in braccio alla Chiesa e nel campo del

notariato, forse di sua esclusiva competenza quest'ultimo. Difatti, se ne

rilevavano rispettivamente in 7 e in 5. Tre risultavano i "chierici in habitu" e

uno il religioso dell'ordine dei paolotti. Scarso davvero l'apporto dato

dall'allevamento: l0 bovi, 21 vacche e 90 capre. Maggiore consistenza si

evidenziava nei fitti di case, che assommavano a 9 contro una.

La percentuale di coloro che a Oppido vivevano civilmente si attestava

al 5,6%, sempre in riferimento al totale della popolazione, quindi

qualificandosi di poco superiore a quella espressa dalla nobiltà.

In predicato di passare tra i civili, ma non ancora del tutto emancipati,

doveva essere chi nel catasto era contrassegnato con la dicitura vive del suo.

In tale posizione si evidenzia appena un nucleo familiare, ch'era composto

da Saverio Costarello (almeno così ci pare di poter leggere) (l9) e dalla

madre Elisabetta Musitano (50). I due abitavano in casa propria e

possedevano un patrimonio valutato in once 52.07 così articolato:

appezzamenti fondiari nelle contrade Cavaglioti e Levadi con piantagioni

di olivi, castagni e frutti; fitto di due porche; 4 capre di corpo.

35

Il clero

Nel '700 in Oppido, capoluogo diocesano da almeno sette secoli, nonché

nei suoi casali di Varapodi, Tresilico, Zurgonàdi e Messignadi, come

naturale, doveva rilevarsi un numero abbastanza folto di sacerdoti. Il

catasto onciario del l746 ne registra ben 46 e in buona parte doviziosamente

dotati. Ma di essi soltanto cinque erano di sicura estrazione nobiliare e

appena quattro del ceto dei civili. Ben 37, quindi, si qualificavano di

differenti natali.

Il primo della numerosa cerchia a evidenziare il patrimonio più vistoso -

ne abbiamo scritto in precedenza - era un esponente della casta più in auge

al tempo, d. Saverio Grillo, cui si faceva carico di sostanze valutate 890.04

once. Altri dello stesso ceppo erano d. Domenico con 346.l0 e d. Alfonso

Maria con 210.

Seguiva al primo Grillo sulla scala dei valori il rappresentante di una

famiglia di Varapodi, d. Giuseppe Antonio Facciolo, titolare di un beneficio

laicale. Le once 887.l5 ridotte a 471.l4.9 per i pesi, cui era obbligato, in

ragione di 416.00.3, che allora vantava, si ricavavano da proprietà fondiarie

dislocate nelle contrade Macria, li gutti, Ranghi, lo Margio, l'Europa, lo

Vazzarro, Lifracà, lo Passo della Zita, S. Basì, le lenze e in qualche altra,

dove risultavano piantagioni di olivi e gelsi; un trappeto; una giumenta; 5

bovi; 9 vacche atte ad allievi e 40 pecore.

Era buon terzo d. Francesco Antonio Lenza, anche lui sicuramente

varapodiese. I suoi cespiti si quantificavano in once 579.23, i pesi in 204.l2.9,

cosa per cui la somma tassabile si attestava sulle 375.l2.9. Detto possedeva

fondi nelle contrade Lifracà, Sportà, Pofagna, Iona, Cioppea, Tesorerato con

piante di olivi, gelsi e noci; un trappeto con dietro un orto; 2 bovi di

massaria e una somarra.

Teneva appresso d. Saverio Sartiani, che, come già rilevato, godeva di

sostanze stimate once 556.l7.

Pietro Giacomo Augimeri, anche lui, di certo, da Varapodi, evidenziava

beni per 497.02 once, che si riducevano poi a l9l.22 a causa di pesi per 305.l0

once. Si trattava di possessioni ubicate nelle località Cerazzo, Macria, Runci,

Calabrò, Sambasì, Le Valli, Le Pille, forti di olivi e gelsi; di un trappeto in

Varapodi e di altro a metà col rev. d. Nicola Longo; del fitto di una casa; di

un certo numero di vacche e bovi di masseria (non si riesce a leggere il

numero) e 9 scrofe.

36

Altro facoltoso varapodiese era l'abate d. Francesco Ascrizzi, che

denunziava beni per 443.l5 once, che, tolte l83.29.l0 per pesi, si collocavano

a quota 259.l5.2. Tale fu parroco di S. Nicola al suo paese dal l726 al l774. Il

tutto consisteva in fondi ricadenti nelle contrade Le gabelle, Macria, Sportà

seu Ingegno, Carpinello, la Marzola coltivati a olivi e gelsi; un orto dieto

casa; un trappeto; 8 bovi di masseria; l0 vacche idem; 2 somarre; l0 scrufe

campestri e l6 pecore.

Di Varapodi era anche d. Patrizio Longo, u.j. d., che nel gennaio del l745

era stato provvisto della parrocchia di S. Stefano per concorso. Il suo

incarico di parroco ebbe termine, non sappiamo se per decesso, nel l755.

Poteva egli contare su un valore di 308.l2 once, che, dedotte 84.l0 per pesi,

alla fine si consolidava in 124.02. Si assommava una tale cifra con i fondi

delle contrade Sportà, Lifracà, Macria, Misospano, la Portella, dove si

rinvenivano alberi di olivi; un'esazione; un trappeto in Varapodi.

A 230.26 once, che, tolte 3.12.6 per pesi, si costituivano in 227.13.6,

perveniva la fortuna di d. Francesco Tropiano, ancora certamente un

varapodiese. Costui aveva ottenuto la licenza per l'ordinazione estra

tempora, ad solatium parentum, cioè a consolazione dei genitori, nel l712.

Possedeva in ragione di esse un orto dietro casa; altra casa con un piede di

olivo; 7 bovi di masseria; una giumenta; una somarra atta ad allievi,

sicuramente un'asina di allevamento; 5 scrufe campestri; 2 esazioni e tenute

con olivi e gelsi, tra l'altro, nelle località la Grappidia, Giuca, lo Canalello, S.

Maria, Virga, La Chiesa, la Reggia e Sallaventre.

L'abate d. Domenico Lucchese, probabilmente tresilicese, risultava

possessore di sostanze per l97.28 e sostenere pesi per 62.l6.2, per cui la

differenza era di 135.11.10. Poggiava tutto su tenute localizzate a la Botte, la

Timpa, la ferrera, li Petti, la Contura, Gallotta, lo Piliero, la Chiusa, Mastro

Vinci, lo Speziale, Dacone coltivate a olivi e gelsi e un trappeto a Tresilico.

A d. Domenico Surrentino si aggiudicavano sostanze per il valore di

once l97.l7, ma i pesi dovuti per un ammontare di l00, ne lo riducevano a

79.l7. Concernevano fondi ubicati a la Marzola, le Pille, Lifracà e la Gabella

unicamente con alberi di olivi; 3 vacche di masseria e una giumenta

d'allevamento.

Forse, finalmente un oppidese era d. Matteo Iannello, che si qualificava

possessore di beni stimati ll5.02 once e pagatore di pesi per ll.94 con

effettivo valore di 75.08. Detti riguardavano fondi a S. Rosa, li lacchi, S.

37

Vennera, la nucara, lo Portello e in altra località non decifrabile; 4 bovi di

masseria ed altrettante vacche con stessa indicazione.

D. Santo Bono di Paolo, che nel l748 sarà uno dei testimoni al processo

concistoriale per la nomina a vescovo di Oppido di mons. Mandarani, due

anni prima denunziava per una stima di 95.12 once proprietà dislocate nelle

contrade la Grappidia, lo Canalello, li cifari e lo Tesorerato, dove si

coltivavano olivi e gelsi. Detratte 65.l0 per pesi, gliene restavano sempre

30.02.

Ancora un varapodiese. Si tratta di d. Francesco Antonio Lamantea,

padrone di appezzamenti con olivi a Carpitello, la Vuzzurra, Corelli,

Lifracà e 6 bovi di masseria, il tutto valutato 85.12 once, che, tolte 8.10 per

pesi, alla fine si portava a 77.02. Forse, è lo stesso che d. Francesco deceduto

col Grande Flagello.

Per il canonico d. Antonino Pascalino si prospettava un patrimonio di

once 75.12.6 senza verun peso. Riguardava tenute a lo Birbo, Folari,

Cannavaria con piantagioni di olivi, querce, castagni e fronde; una

giumenta d'allevamento e vacche campestri affidate a un colono in Platì.

Canonico penitenziere nel l749, verrà a morte nell'aprile del l772.

D. Giuseppe Laghanà di Tresilico, perito col terremoto del 5 febbraio

l783, vantava il possesso di proprietà stimate once 51.27 e ricadenti nelle

contrade Barboni, la fodia, la scapola e lo Ponticello. Vi si riscontravano

olivi, gelsi e alberi fruttiferi. Dedotte 31.l5 per pesi, restava sempre un

valore di once 20.12.

A sua volta, d. Gioanne Laghanà, sicuramente compaesano se non

parente del precedente, si evidenziava per beni valutati once 39.15, che, in

definitiva, si venivano a ridurre a 32.12.9 di pesi. Le tenute si localizzavano

a S. Vennera, Pofagna, lo Castello e Macria.

S'inseriscono a questo punto i civili Francesco Leale e Francesco

Vistarchi, denunzianti rispettivamente un patrimonio di once 60.26 e 60.l8.

Anche d. Giuseppe Bruzzì finì tragicamente la sua vita in Tresilico per

effetto del grande flagello. Le sue sostanze recavano un valore di 46.l8 once,

che, tolti i pesi in ragione di 30.05, gli lasciavano appena l6.l3. Si trattava di

tenute con olivi a la chiusella, Valone, la chiusa e la Contura.

D. Francesco Laface era considerato detentore di beni per un valore di

31.21 once consistenti in appezzamenti localizzati a la Bivera, Iannuzzina,

Parronetta e Combuzzuli evidenzianti solo olivi.

38

Non è chiaro a quanto ammontassero le sostanze del mansionario d.

Antonino Gargiuli. La cifra è proprio illeggibile. Vi appare solo un

possedimento in contrada Cannavaria coltivato ad olivi e gelsi. Tale

decedette a 40 anni di età nel l756.

Al can. d. Michele Carbone si faceva carico di once l8.l0.4 per i possessi

fondiari di Cannavaria, Folari e S. Lucia. Perirà egli nel l760 all'età di 78

anni nel quartiero dell'Annunziata.

D. Francesco di Leo era quotato per l7.l5 once, che, diminuiti di l2.20 per

pesi, si riducevano ad appena 4.25. Godeva egli di un fondo con olivi e gelsi

a li cifari e del fitto di una casa. Egli, suddiacono della diocesi di Nicotera,

nel l7l5 a 50 anni di età aveva ottenuto la licenza extra tempora, ad solatium

parentum, come a dire a conforto dei genitori.

D. Francesco Villivà, anch'egli varapodiese, possedeva tenute a Muneri,

Lifracà, Misospano, ov'erano soltanto olivi; 2 bovi di masseria ed0 un'asina

d'allevamento, il tutto valutato once l5.25. Morrà egli all'età di 74 anni a

causa del sisma del l783.

A l5.25 once assommava il patrimonio di d. Gio. Leonardo Palumbo,

quasi certamente del casale Zurgonàdi e riguardava 2 bovi di masseria e 2

scrufe campestri, mentre in l4 si giudicava quello in carico al civile d.

Giuseppe Fossare.

D. Francesco Genoese, che poteva contare su beni valutati once l2.15.8, si

ritrovava alla fine con appena l.15.8 essendo i pesi ll. Il tutto poggiava su

due fondi a Cannavaria e Levadi. Sarà egli canonico penitenziere dal l755

fino al l77l, anno di sua morte. In l0.25.6 once si consideravano i cespiti

posseduti dal civile d. Francesco Furina ed in 9.34 gli altri rivendicati dal

nobile d. Giuseppe Antonio Migliorini.

Le sostanze evidenziate da d. Nicola Ruffo, nel l742 dispensato ai fini

dell'ottenimento del presbiterato super defectu aetatis di l3 mesi, valevano

7.055 once e riguardavano possessi fondiari con olivi a le Pille, Carpitello, S.

Vennera e lo Schiavello.

Si valutava in 5.67 once la proprietà con alberi di ulivi in contrada

Cannavaria di pertinenza di d. Nunziato Campanella.

A d. Matteo Spadafora, forse varapodiese forse messignadese, ma

sicuramente parroco di Messignadi, deceduto in occasione del grande

flagello, appartenevano proprietà in Pantalemone, S. Rosa, lo ladro,

l'Antropi, Vulcano, Palmeri con olivi e querce per un valore di 6.29 once. Di

39

d. Francesco Minasi, canonico dal l738, morto nel l774, erano due tenute a

Levadi con olivi e frasca per un ammontare di 5 once.

D. Nicola Francesco Campora o Da Campora, provvisto del canonicato

semplice dal l741 e del decanato nel l760 quando era in età di 60 anni, era

proprietario di fondi nelle contrade Bombicino, Folari, Vallica e Macria con

gelsi e olivi stimati in totale once 4.l5. Versato in canto gregoriano e maestro

delle cerimonie, nel l773 gli si concedeva il permesso di poter usufruire

dell'oratorio privato a causa d'infermità. Il suo decesso avvenne nel

febbraio del l783, sicuramente a causa del funesto sisma.

Nessuna stima si faceva dei beni di d. Giuseppe Martello, consistenti in

fondi ubicati a Cannavaria, Puzzura e Trecuccio piantati ad olivi e gelsi.

Comunque, per gli stessi si stimava una rendita di carlini (?) 81.26. Il

Martello sarà promosso al canonicato semplice nel l760, quindi in

prosieguo al tesorerato nel l784 per decisione dell'arcivescovo reggino, che

sicuramente sovrintendeva ad Oppido priva del suo pastore. Aveva

all'epoca 75 anni. Morrà nello stesso anno.

Nulla risultava in carico a d. Francesco Ioculano, titolare di un

canonicato semplice nel l752, quando era in età di 25 anni, canonico

penitenziere dal l758 e canonico di S. Giovanni di Buzzano al tempo del

decesso, febbraio l783.

A tutti bisogna aggiungere in ultimo quei sacerdoti che nel catasto

onciario risultavano coabitanti con altri nuclei familiari. Erano essi in 7:

Domenico Colagiuri (37), Domenico Pascalino, Antonino Vistarchi,

Francesco Furina, Francesco Girardis, Francesco Germanò e canonico

Domenico Germanò.

Ricapitolando, abbiamo che la classe degli ecclesiastici in Oppido e

casali nel l746, entrando nel novero ciò ch'è stato quantificato per gli

elementi in seno a nobili e civili, poteva contare su ben 9 trappeti, di cui 2 e

l/2 a Varapodi e 3 a Tresilico; 56 pecore; l00 capre; circa 60 vacche e 30 bovi;

44 scrofe; 5 asine e 4 giumente.

Tra professioni e mestieri

A Oppido, come in tantissimi altri paesi, nel '700 la gran massa delle

persone risultava dedita al lavoro della terra o di supporto ad altre fatiche e

col nome di bracciale erano genericamente indicati sia i contadini che

quanti erano impegnati con richiesta giornaliera, in una parola i "braccianti"

40

di oggi, i manovali ecc. Dato, quindi, un tenore di vita non molto alto

dispiegato nelle comunità, con l'evidente eccezione di nobili e civili, erano

necessariamente uno sparuto numero coloro che si dedicavano a una

professione o a un mestiere. Naturalmente, quei pochi che si attestavano in

ogni settore, potevano condurre la propria esistenza con una qual certa

tranquillità. Non per nulla il fisco si ricordava di essi e li tassava in base a

una calcolata valutazione.

Al vertice stavano sicuramente i dottori fisici e i dottori chirurghi o

dottori cerusici, i medici di allora, che nella città dell'altopiano delle Melle

si evidenziavano in numero di 5. In primo piano era il dottor fisico

Giuseppe Antonio Gaglianò, di cui non riusciamo a distinguere l'età, così

pure della moglie Francesca Affilato. Il nucleo, che abitava in casa propria,

si completava con i figli Pasquale (a. l9), Antonino (8), Giulia (5) e Vincenzo

(2). Così nel catasto onciario del l746. I registri parrocchiali c'informano di

Innocenzo (†l747), Caterina (morta a 49 a. nel l792 nella baracca) e di

Antonino, cappellano (deceduto a 48 anni nel l784 per una cascata da

cavallo nel Lago del Birbo). Dal consunto documento catastale si ricava

appena aver egli delle tenute nelle contrade Levadi, Zirgoli, S. Pietro,

Folari, ov'erano piantagioni di olivi e castagni stimate l86.11.3 once, ridotte

a l77.23.3 per pesi quantificati in 30.l7.

Segue il dottor fisico Giacomo Thomei (a. 62) accompagnato dalla

moglie Maria Guida (45, †l750) e dai figli Antonino, dottor fisico anche lui,

Livia (27), Nunzia (l7, †749), Caterina (l2), Grazia (l0), Giuseppe (3) e Anna

(?). Residente in abitazione propria, evidenziava cespiti per l8l.18 once

considerando le entrate delle possessioni Levadi, lo molino, Cannavaria,

Iona, Virga con coltivazioni di olivi, gelsi, vigna, castagni; 4 censi ed il fitto

di una bottega. Verrà egli a morte nel l749.

Il dottor fisico Gioanne Italiani (66) era all'epoca vedovo e nella casa

propria viveva con i figli Francesco Antonio del pari dottor fisico (36),

Francesca bizzocca (35), Anna Maria (27; sposerà nel l754 Felice Capialbo),

Caterina (l9) e Teresa (l7). Oltre ai possessi fondiari localizzati, peraltro,

nelle contrade Cavaglioti e Levadi piantate ad olivi e castagni, godeva di un

trappeto dietro la sua stessa casa. Tutto era stimato per un valore di 53.24.6

once.

Dei due dottori chirurghi si delinea soltanto il nucleo familiare senza

dare indicazioni di alcun cespite. Antonio Colagiuri (35) con moglie Saveria

Italiano (32) e figli Candido (12), Domenico (l0), Elisabetta (8), Maria (4,

41

†l749) e Antonio (in fasce) dimorava nella casa del fratello Domenico,

canonico (37). Francesco Martello (?) al tempo era deceduto e la famiglia si

componeva della vedova Domenica Rijtano e dei figli sac. d. Giuseppe (34)

e Beatrice (24). La dimora avveniva in casa propria.

Ai dottori si accostavano due aromatari, la cui attività era quotata l6

once. Il primo, Saverio Germano (26) abitava in casa propria assieme ai

fratelli Giuseppe Antonio (24), che perseguiva la stessa professione, Livia

(42), Giuditta (36), Margarita, d. Francesco sacerdote, d. Domenico

canonico. Oltre all'industria di aromatario, come si diceva, per i due

indicati, in ragione di 32 once, il resto, per giungere a 130.24 si ricavava

dalle tenute situate dietro casa e a lo molino, Vallica con piante di olivi,

gelsi; dal fitto di una casa in Tresilico e da un'asina di allevamento. Di poco

inferiore si qualificava il patrimonio di Antonio Amodej (35), che, oltre che

per il suo lavoro di speziale o aromatario, era tassato per le proprietà delle

contrade li Petti, Cannavaria, Gallizzi, la Cappella, la Varchera coltivate a

olivi e noci e un censo annuo. Componevano la sua famiglia, che dimorava

in casa propria, la moglie Francesca Massaro (28), la figlia Anna (l0; nel l759

sposerà Vincenzo Fossare) e la serva Caterina Corelli (l6). I registri

parrocchiali danno l'Amodei quale chirurgo.

I sarti o meglio sartori si ritrovavano in due. Il loro lavoro era stimato

valere l4 once. Il più facoltoso era indubbiamente mastro Francesco Scullino

(53), che abitava in casa propria, sulla quale vi era un peso da pagare alla

corte baronale, unitamente alla moglie Elisabetta Palumbo (50) e alla figlia

Francesca. Oltre a quanto ricavato dal mestiere, godeva di ciò che

fruttavano le proprietà site nelle contrade Puzzunaro, l'Abbatia e S. Rocco

con alberi di olivi e castagni. Il tutto si considerava in 129.27 once. Il

secondo sarto, Domenico Minasi (?) è segnato solo per la tassa di testa e

risulta coabitare con la madre Cornelia Pantatello ed i fratelli can. Francesco

e Giulia (28).

Discretamente agiati erano i tre falegnami di stanza in Oppido. Mastro

Antonino Famogreco, la cui industria era qualificata in l4 once, era tassabile

su un totale di 85.08 once, in relazione a un patrimonio del quale facevano

parte l'industria del fratello Giuseppe (l8), pur esso fallegname e fondi

localizzati a Bombicino, Tricuccio, S. Biagio, Delizia e Gallizzi e

caratterizzati dalla presenza di olivi, gelsi, alberi fruttiferi e parti atte a

seminato. Col capofamiglia, che abitava in casa propria, c'erano la moglie

Maddalena di Grana (20), la figlia Anna (in fasce) e i fratelli Antonina (32),

42

Nunzio "stroppio" (24) e Giuseppe detto. Saverio Carzera (30) dimorava in

casa propria gravata di censo, unitamente alla moglie Grazia Dimana (32),

al figliastro Domenico Zumbè (l4) e ai fratelli Antonio (26) e Giuseppe (21),

entrambi legnaioli. Tolto l'importo per i tre lavoratori in ragione di l4 once

a testa e di 7 per il figliastro, il resto atteneva a possessi fondiari ubicati a S.

Nicola, la Cappella, la Mella con olivi e gelsi e a un fitto di casa. Il tutto si

concretizzava in once 57.l7.8. L'ultimo della serie era mastro Pietro Carzerà

(30), che al profitto per il lavoro di falegname aggiungeva 28.31.6 once,

valore di una tenuta in c.da Combuzzuli coltivata a gelsi e olivi e di

un'esazione, raggiungendosi una cifra di 42.01.6. Il secondo Carzerà stava

in casa propria con la moglie Carmela Bruzzi (26) e i figli Vincenzo (7) e

Concetta (in fasce).

Anch'essi piuttosto ben quotati apparivano i 5 massari, il cui lavoro era

stimato pure in l4 once. Francesco Pantatello (60), oltre a quanto segnalato

per lui, il genero Giuseppe Gangemi (33) e il figlio Antonio (22), era

considerato possessore di beni valutati 36.42 once in riferimento a 2 bovi

aratori e a 3 appezzamenti con olive e terreno seminativo a Zirgoli e Marino

e la somma si evidenziava in 75.12. La sua abitazione era una casa di

campagna di pertinenza del Venerabile e ivi risiedeva, oltre che con i

predetti, assieme alla moglie Maria Zinnamusca (42), ai figli Domenica (26,

moglie del Gangemi), al figlio di questi Francesco (2) e a un figlio proprio

(22). Domenico Chiliverto (?), marito a Caterina Paonni (26; †l749) e padre

ad Antonino (l4, †l749), Paolo (l8), Angiola (6; †l753), Nunziata (3), Giulia

(in fasce) e alla moglie Nunziata Morda, stava in casa propria e risultava

titolare di un patrimonio stimato in 54.53 once per 2 bovi aratori e proprietà

a Cannavaria e in altra contrada non precisabile. Vedovo della Paonni,

sposerà nel l753 Rosa Bergantino ved. di Melicuccà in viridario di d. Diego

Zerbi detto il molino. Il nome di altro massaro, che vantava possessi per

once 57.37, è illeggibile, non così quello della moglie Ippolita Jeruianne (48)

e di due garzoni, Giuseppe Fotia (40) e Antonio Foti (12), l'uno dei quali

boaro tassato per 12 once. Quegli risultava abitare in propria casa e godere

di quanto apportavano tenute a Maijdi e la fellusa e 5 bovi e una vacca.

Questo gruppo di lavoratori continua con Domenico Polistina, pro-

priamente massaro di vacche (56). Viveva egli in casa propria gravata di

censo annuo con il figlio Antonino custode di animali (33), la moglie di

questi Caterina Lentini (25) e il loro figlio Domenico bracciale (10), il figlio

Francesco (5), il fratello di detta, Domenico bracciale (18) e la nuora

43

Gioanna Chiliverto. Nell'insieme di once 55.20 si comprendono ciò che

offrono i mestieri dei tre uomini e i fondi a li molimenti, Marino, Moraca,

con frutti e terreno atto alla semina. Ultimo della serie è Michele Lembo

(22), che in casa propria onerata di censo, si accompagnava alla moglie

Domenica Mammoliti (28) e alla figlia Grazia (2). I cespiti erano, per un

totale di 30.20 once, 2 bovi aratori, una vacca d'allevamento e una tenuta a

la Puzzura con olivi e terreno seminativo.

In Oppido i mastri d'atti si ritrovavano in tre. Il mastro d'atti non era il

notaio, come in più d'una pubblicazione si afferma, bensì il cancelliere. Non

risultava per un siffatto impegno una valutazione ben precisata, segno che

chi lo effettuava godeva di entrate in base al numero degli atti emanati o

trascritti o consegnati, insomma dei cosiddetti diritti di mastrodattìa.

Il mastrodatti più facoltoso appariva Gioacchino (?) Girardis (a.43?), che

s'indicava possessore di un patrimonio stimato in once 51.02,

comprendente le rendite delle tenute localizzate a Idà, Levadi, Carlocavallo

(?) e Trecuccio portanti alberi di ulivo, un bove e il mestiere di bracciale del

nipote Saverio (23). Abitava egli in casa propria con la moglie Gioanna

Costarello (26), i figli Domenico "chierico in habitu" (l4), Francesco (3) e il

nipote detto. Seguiva Gaetano di Grana (46; †750), che evidenziava beni per

37.4 once relativi a fondi di olivi e gelsi siti nelle contrade la Cappella,

dietro le mura del Castello, Gaglianò, lo Giardinetto e Gallizzi. Faceva la

dimora in una casa propria, per la quale pagava annuo censo al R.mo

Capitolo, con la moglie Virginia Giannotti (42) e i figli Maddalena (20;

sposata a mastro Antonino Famogreco), Anna (l8; accasata in Platì con

Domenico Zappia), Francesco (11), Vincenzo (9) e Rosa (7; nel l753 sarà

condotta all'altare da Antonino Jelase della diocesi di Gerace). Il terzo,

Pietro Antonio Martello, era mastrodatti della bagliva e forse aveva appena

di che vivere con il suo fondicello di olivi in località li cifari apprezzato per

once 7.l0. Godeva, comunque, di una casa sua assieme alla moglie Angiola

Zangari (35).

Il barillaro era uno solo, mastro Marco Penna, la cui attività era valutata

per 14 once. Era egli già in là negli anni (70; †l754), ma aveva una moglie

relativamente giovane (45), Isabella Zafarana. Seguiva il suo mestiere il

figlio Saverio (24), mentre Michel'Angelo (21; sposerà nel l757 Dianora

Paschalino) quello di bracciale. Altri figli erano Caterina (18), Antonino (9;

nel l759 convolerà a nozze con Carmela Paschalino) e Francesco. Tolte 10

once per il valore di un somarro atto alla vatica, il resto di 50 once atteneva ai

44

mestieri del padre (l4) e dei figli Saverio (14) e Michelangelo (12). Facevano

tutti dimora in casa propria, sulla quale risultava censo annuo a favore

dell'ospedale.

Si rilevavano 5 capifamiglia che esercitavano il mestiere di calzolaio, la

cui rendita si stabiliva in once 14. Il più in auge era senzaltro Paolo

Chiliverto (36), che denunziava sostanze del valore complessivo di 73.05.6

once, ma tra queste bisognava considerare, oltre a quelle procacciate col suo

mestiere, le altre procedenti dalle tenute ubicate a Trecuccio, Cavaglioti, S.

Biagio, Zirgoli e Fiorello con alberi di ulivo, gelsi e frutti e il mestiere del

fratello Francesco (26), barbiere. Con il capofamiglia abitavano in casa

propria con orto la madre Isabella Fidili (60), la zia Livia Fidili (67) e il

fratello detto con la moglie Elisabetta Pascalino (24) e figli Giulia (7) e Paolo

(3). Veniva buon secondo Domenico Dimana (68) con 46.20 once consistenti

nel mestiere, nelle tenute la Cappella, Trecuccio e altra illeggibile con olivi,

in mezzo bove aratorio e una somarra adatta all'allevamento. Nella casa

propria vivevano anche la moglie Giulia Costarello (65) e i figli Saverio

senza professione (16) e Francesco "chierico in habitu" (10). A 31 once

assommavano i beni di Giuseppe Spusato (59), che poggiavano interamente

sul suo mestiere e su quello del figlio Filippo pure lui calzolaio (14). Altra

sostanza era rappresentata solo da un somarro idoneo alla vatica. Stavano

con lui in casa propria gravata di censo annuo in favore della chiesa di S.

Caterina la moglie Marzia Ioculano (40) e gli altri figli Angiola (25; sposata

a Lelio Costarello), Nunzia (11) e Nicola (9). Con 20 once si qualificava

Placido Scarfone (40), ma 14 erano per il suo mestiere e 6 per quello del

figlio Gioanne (14) bracciale. La moglie era Teresa Giustra (36), gli altri figli

Michele (9) ed Angiola e Felice, gemelli, in fasce. La dimora era stabilita

nella casa di Domenico Giustra, cui si versava un affitto. Ultimo della cate-

goria si configura Antonino Mulluso (25) marito a Nunzia Giustra (17), con

unica figlia Caterina (1). Le 14 once si davano al suo mestiere e, quindi,

appena 0.21 si calcolava per la tenuta a carattere seminativo localizzata a La

Grazia. Vivevano in casa propria col pegno di un annuo censo ai frati

osservanti.

Nell'antica Oppido era reperibile anche un orologiaio, mastro Giacchino

di Cicco (?), ma era egli oriundo da Acquaro e l'industria, di cui godeva, si

valutava pure in 14 once. Si giovava in più di proprietà fondiarie ubicate a

la Cuva e Cannavaria, per le quali si stimava un patrimonio ammontante a

41.03.4. Un tale artigiano risultava dimorare in casa propria con la moglie

45

Caterina Martello (40) e i figli Rosa (13), Domenico (11; "chierico in habitu") e

Vincenzo (8).

Di panettieri se ne rilevavano tre. Il più facoltoso era Domenico Carlino

(34), che vantava cespiti per 42.06 once comprese 14 per il mestiere suo e 12

per quello di bracciale del fratello Scipione (12). Oltre a un somarro atto alla

vatica, usufruiva dei frutti di due possessioni in contrada S. Biagio con

seminativo e canne. Viveva in casa d'affitto di Domenico Girardis con la

moglie Rosaria Ripepi (29) e i figli Francesca (8), Angiola (4) e Caterina (2).

Altro panettiere era Paolo Ripepi (70; †1752), detentore di beni per 31 once

ripartite tra il suo mestiere, quello del figlio Giuseppe (14; nel 1749 sposerà

Caterina Zafarana) calzolaio e un somarro. Oltre a detti, nella casa di

famiglia, gravata di censo annuo a favore del Venerabile, abitava anche la

moglie di Paolo, Francesca Zaghì (55; altrove è detta Zanghiri). Ultimo della

triade Placido Carella (65) di origine siciliana, ma da più tempo abitante a

Oppido in casa d'affitto di mastro Paolo Chiliverto. Evidenziava egli di

essere possessore di beni per 26 once, ma queste erano così diversificate; 14

per l'industria di panettiere, 12 per quella di bracciale del figlio Giuseppe

(22; †1761). La moglie si chiamava Santa Michelizzi (54), altra figlia

Giulia(9).

Considerato che l'economia di Oppido insisteva sull'agricoltura, non

potevano certo mancare i putatori, che si rilevavano in quattro.

Francesco Carlino (73), oltre a quanto ricavava dal mestiere (12 once),

godeva dei frutti traibili dai fondi delle contrade Gallizzi e la Cappella

recanti olivi, gelsi, noci, canne e frutti, il tutto assommante a once 62.15.

Con la famigliuola composta dalla moglie Elisabetta Petr'Antonio (36) e i

figliastri Domenico (18), Francesco (9) e Saverio (2) Lentini, viveva in casa

propria. I beni di Ignazio Minasi (28; sposerà Nicolina Ruffo) erano valutati

45.24.6 once e, oltre al mestiere, riguardavano fondi agricoli localizzati a

Piombino, lo molino, la fontana, Trecuccio, una casa, un'esazione e una

vacca adatta all'allevamento. Abitava in casa propria e il suo nucleo

familiare si componeva come segue: Lorenzo fratello chierico (19),

Domenica sorella (12; sposerà nel 1748 Giuseppe Famogreco), ? fratello (9),

Nunzia sorella (7), Flavia di Leo (50) madre. A Fabbiano Dimana (42)

s'imputavano sostanze del valore di 42.16.6 once per il suo mestiere e

quello del figlio Francesco, entrambi bracciali, più un somarro atto alla vatica

e una tenuta di gelsi in c.da la fabrica. Faceva egli dimora in casa propria

con moglie Rosaria Petr'Antonio (36) e altri figli Saveria (11), Nunzia (9),

46

Caterina (5). Pietro Russo (35), che ai proventi del mestiere affiancava quelli

del fratello Carlo (14) sartore, ne rilevava in tutto 30.21, comprendendosi

una somarra atta ad allievi e il fondo di Trecuccio con olivi e gelsi.

L'abitazione era in casa propria e a detti s'univano la moglie del

capofamiglia, Lucia Famogreco (30) e il figlio Gioanne (7).

In 5 si qualificavano i vaticali, coloro cioè che facevano la vatica,

trasportavano oggetti a dorso di cavallo o mulo o asino. Si avanzava per

primo Bruno Mammoliti (28), il cui mestiere era valutato 12 once, ma in

tutto ne evidenziava 60.20 per una mula che teneva a metà, un cavallo e un

somarro entrambi adibiti alla vatica. Non risulta in che tipo di casa abitasse

con i familiari: la sorella vergine Domenica (29), il fratello Domenico (18), la

madre Maria Sergi (56) e Teresa Gaglianò vedova di Antonino Mammoliti,

forse una cognata. Bruno Lucchese abitava in casa propria, su cui vigevano

censi in favore del rev. d. Carlo Fossare e del convento dei paolotti, con la

moglie Natalizia Carzo (28) e i figli Francesco (14), Saverio (6) e Domenico

(4). Le sue entrate poggiavano sui mestieri di lui e del figlio Francesco e su

un cavallo e un mulo, dei quali si servivano per fare la vatica, il tutto per un

valore di 58 once. Poteva contare su 57.29 invece Domenico Cammareri

(54), che, oltre a quanto prodotto dal suo mestiere e da quelli dei figli

Lorenzo (26; sposerà nel 1756 Diana Paschalino e verrà a morte nel 1757) e

Bruno (12) bracciali, sui fondi La Mella e Puzzura con olivi e fronde, su una

giumenta per allevamento e su un somarro atto alla vatica. Dimorava in

casa propria con censo al R.mo Capitolo assieme alla moglie Domenico

Mammoliti (53; †1751), ai figli detti e agli altri nomati Caterina (29; sposerà

Francesco Dimana), Soprana (23; moglie di Giuseppe Antonio Mulluso) e

Isabella (15). I beni di Bernardino Barbaro (44; †1757) si davano a 44.16 once

e oltre ai proventi del suo mestiere e di quello del figlio Lorenzo (14) si

consideravano altri derivanti dalle proprietà delle contrade Levadi,

Cannavaria e Trecuccio con olivi e gelsi e da un cavallo per la vatica. Erano

a lui moglie Caterina Colagiuri ved. di Giuseppe Blando e figli Antonia (17;

sposata con Bruno Iannello), Lorenzo detto, Domenico (in fasce), figliastri

Nicola (10), Vittoria (7), Flavia (5). Abitavano tutti in una casa dotale.

Ultimo della serie è Antonino Ramondo (28), marito ad Angiola Mullica

(36), che dimorava in casa di Pasquale Mesiti dotale della moglie insieme ai

figli Francesco (2) e Domenico (in fasce), al figliastro Nunzio Minasi (7) e

alla sorella Carmina (20). Oltre al fruttato del mestiere, otteneva qualcosa

anche da una proprietà in c.da Folari e il tutto si stimava di once 15.02.

47

Ortolano si qualifica uno soltanto, Andrea Mammoliti (33), che nella

casa propria gravata di censo al R.mo Capitolo, abitava con la moglie

Caterina Prochiaro (24) e i figli Francesco (5) e Domenico (3). Oltre al

mestiere, valorizzato in 12 once, vantava fondi agricoli a la Porta la suso,

Folari, lo ceramidio, Lamia, Levadi, lo molino con olivi, canne, frutti,

seminativo, fronde e un somarro atto alla vatica. Era tutto valutato once 53.06.

La molitura dei cereali dava da vivere a tre famiglie. La prima era quella

di Antonino Surace (28), il cui nucleo si componeva della moglie Gioanna

Pignataro (24), dei figli Domenico (14) e Giuseppe (9) di primo letto e

Pasquale (3) e Caterina (in fasce) del secondo. La casa propria, ove

dimoravano, aveva censi a favore del R.mo Capitolo e della chiesa

dell'Osteri. L'industria di molinaro era stimata 14 once e per raggiungere il

totale di 35.17 bisognava addizionare un somarro atto alla vatica e il fondo

con alberi fruttiferi di c.da lo campanaro. A Francesco Petr'Antonio (40) si

assegnava un valore di once 32.05 per il mestiere suo e del figlio Domenico

(17) bracciale, oltre al solito somarro atto alla vatica e alla tenuta localizzata

a la Cappella e ad una casa data in fitto. Abitava egli in casa propria con

detto e con altri due figli, Nunzia (6) e Vincenzo (4). Carmine Quattrocchi

(26) di once ne evidenziava appena 19 e 5 erano riferite al possesso di 4

scrufe campestri. Faceva la sua abitazione in casa d'affitto di mastro Paolo

Chiliverto con la moglie Angiola Mulluso (25) e i figli Barbara (4) e

Giuseppe (1). A Francesco Colagiuri (39; †1764) si faceva carico di 16.21

once, oltre che per il mestiere, per i possedimenti agrari di Cannavaria, S.

Biagio e Trecuccio con olivi. La dimora era in casa propria con censi in

favore del Sacro Real Monte, della parrocchia di S. Nicola e dei padri

osservanti. Col capo famiglia c'erano la moglie Lucrezia Sotira (40) e il

figlio Giuseppe (10) scolare.

Unico carcaroto ovverossìa fornaciaio di calce era Giuseppe Mulluso

(39?), che, oltre a quanto prodotto dal mestiere suo e del figlio Giuseppe

(18) valutato 12 once per ciascuno, possedeva una tenuta con frutti in c.da

Trecuccio val. 8.10, per cui il tutto si quantificava in 34.10 once. Abitava egli

nella casa di Giovanne Pindilli, cui pagava l'affitto, unitamente alla moglie

Giovanna di Franza (36) e al figlio.

Anche uno soltanto si officiava il chianchiero. Era questi propriamente il

rivenditore di carne, che si distingueva nettamente dal macellaio. Il primo

era così detto a motivo della chianca o ccippu (ceppo), grosso pezzo di

tronco di legno livellato chiamato appunto siffattamente, sul quale tagliava

48

le parti richieste dai clienti. Il macellaio era, invece, colui che al macello o

mattatoio provvedeva alla macellazione, cioè ad abbattimento, scuoiamento

e squartamento delle bestie. Va da sé che col tempo tali operazioni siano

state appannaggio di una sola persona, il macellaio. L'unico chianchiero in

Oppido vecchia era Stefano Zafarana (50; †1752), che in casa d'affitto del

rev. d. Carlo Fossari viveva con la moglie Flavia Mercuri (54) e la zia

Caterina Mercuri (60). L'industria di chianchiero si stimava in 14 once. Il

resto, per giungere al totale di 16.10, si riferiva a un fondo di c.da

Bombicino, ov'erano alberi d'ulivo.

Di macellari si qualifica pure uno, Domenico Jeruianne (?), il cui mestiere

era equiparato a 12 once, così come quello del figlio Antonio (24). Altre

sostanze, su cui poggiava, erano fondi agricoli a lo molino, Tricuccio e lo

Birbo con olivi. Il tutto era valutato once 27.19. Il nucleo dimorava in casa

propria gravata di censo a favore del R.mo Capitolo e, oltre al capofamiglia,

si componeva della moglie Gioanna Carlino (42), dei figli Antonio con

moglie Giulia Gerardis (26) e figli Gioanna (5), Caterina (3), Domenico (1) e

Francesco (in fasce).

In 5 si numeravano i botechari cioè i bottegai e al primo posto si piazzava

Nicola Gentile (28) con once 47.03 riferibili al mestiere di lui, in ragione di

14 e a quello del cognato Domenico Blando (18) e a una tenuta con olivi in

c.da Maijdi e un somaro adatto a fare la vatica. Detto stava in casa propria

con censo a favore di Francesco Tornatura assieme alla moglie Angiola

Blando (25), al cognato detto e ai figli Nunzia (4), Francesco (2) e Caterina

(in fasce). Seguiva con once 30.27.6 Diego Alloro (45) abitante in casa

propria con la moglie Gioanna Jeruijanne (38) e figli Francesco (16; sposerà

nel 1759 Rosa Petrantonio), Domenica (12), Felice (9; sposerà nel 1754

Caterina Gargiuli), Francesca (7; nel 1750 si accaserà con Saverio Mazza),

Domenico (5) e Giuseppe (3). Oltre al mestiere, il patrimonio comprendeva

un annuo censo, un somaro adatto alla vatica, tre botteghe e una casa data

in fitto. Terzo bottegaio era Domenico Crisafi (?), marito di Caterina

Tropiano (?) e padre di Vincenzo (14; scolare), Pasquale (8), Francesco (6) e

Antonio (1). Le 22.03 once si stimavano in relazione al mestiere e a possessi

fondiari nella c.da Cannavaria con castagni, olivi e frutti. Domenico (5) (32)

marito ad Angiola Chitì (26), con figli Vincenzo (10) e Anna (3) poteva

vantare solo quanto ricavato dal mestiere. Abitava in casa di Diego Alloro,

cui pagava l'affitto anche per la bottega.

49

I ferrari, cioè i fabbri ferrai, erano solo in due. M.ro Domenico Pascalino

(45) presentava un patrimonio per once 32, ma questo era in riguardo al suo

mestiere e a quello del figlio Andrea (19) e del figliastro Antonino (14).

Dimorava egli in casa d'affitto di proprietà di m.ro Giuseppe Famogreco.

Oltre che con detti, si trovava unitamente alla moglie Francesca Lentini (42),

ai figli Angiola (21), Rosa (23) e ai figliastri Caterina (18, sposata a

Domenico Ripepi), Carlotta (11; sposerà nel 1763 Antonino Loffo), Nunzia

(9; si mariterà nel 1758 con Antonino Ripepi), Carmina (8; sposerà nel 1759

Antonino Penna), Graziosa (6; si accaserà nel 1759 con Domenico Cosma),

Rosaria (5) e Paolo (3) Mulluso. Giuseppe Pascalino (60; †1760) poteva

contare su beni stimati 30.27 once e basati sul mestiere suo e del figlio

Lorenzo (20), forgiaro, con in aggiunta un fondo in c.da Rigusto. Risultava

abitare in casa propria con la moglie Grazia Cananzi (58; †1748), Vittoria

Pascalino (39) ved. di mastro Pietro Benincasa, forse la sorella e i figli

Nunzia (27;†1749; sposata a Domenico Girardis), Riposa (30; moglie di

Placido Iannello), Diana (23; sposerà nel 1750 Lorenzo Cammareri) e

Lorenzo detto.

Nell'antica Oppido vi erano anche due sportari, cioè fabbricanti di

sporte, canestri fatti con canne di vimini. Il primo si chiamava Domenico

Gaglianò (69), titolare di beni per once 43.09 relative al mestiere suo (val.

14), del figlio Francesco (18) e del figliastro Francesco Leale (8) bracciali e di

un fondo in c.da Varchera con frutti e di una somarra atta ad allievi. Era egli

abitante in casa propria con detti, la moglie Maria Parise (60) e altra figlia,

Saveria (8). Veniva appresso Francesco Carlino (26) che, con moglie

Francesca Gaglianò (23) e figli Marcello (4) e Domenico (2), dimorava in

casa propria. Rivelava un patrimonio stimato once 18.12 per il mestiere e

per fondi nella c.da Cannavaria.

Un solo orefice vi appariva, ma egli, a nome Giuseppe Russo (54),

esercitava assieme ai figli Francesco (24), Felice (21) e Domenico (18). La

moglie era Rosaria Palmeri e gli altri figli Michele (16), Saverio (14) e Maria

(11). Oltre a quanto ricavato dal mestiere, qualificato 14 once per ognuno

degli occupati, il resto per toccare la cifra di 45.30 atteneva a una somara

d'allevamento e a una proprietà in c.da lo Molino con noci e canne. Faceva

dimora in casa propria.

Nei tempi in cui l'arte della seta era ancora parecchio ricercata non

potevano mancare i setaioli e a Oppido se ne riscontravano due, il cui

mestiere si valutava 12 once. Bruno Petrantonio (34) aveva beni in totale per

50

28.20 once, tra cui s'includevano una somara adatta all'allevamento e due

fondi ubicati nelle c.de Crusone e Levadi con olivi. Dimorava in casa

propria con la moglie Agnese Rajmondo (35), i figli Caterina (14; moglie di

Domenico Carlino; †1784), Domenica (12; sposerà nel 1758 Domenica

Cosoleto), Giuseppe (13), Anna (6) e Rosa (1; sposerà nel 1759 Francesco

Alloro). Bruno Girardis (40), che abitava in casa propria, per la quale

versava censo annuo a Giosofatto Dimana, con moglie Riposa Pietr'Antonio

(35) e figli Francesca (14; sposerà nel 1751 Domenico Benincasa; †1784),

Vincenzo (14; †1750), Domenica (9), Caterina (3), Rosa (in fasce), godeva

anche dei proventi ricavati da fondi localizzati a la Croce e la Varchera. Il

tutto si stimava once 23.

Con tanti proprietari terrieri, in quel 1746 si ritrovavano soltanto due

fattori. Il primo, Francesco Giustra (59) lo faceva per d. Giuseppe Rocca e

quanto ottenuto per tale incombenza, unito a ciò che ricavava da tenute site

nelle c.de Trecuccio e la Contura con olivi, si sommava a once 22.19.

Abitava egli in casa propria gravata di censo in favore di Giuseppe Scullino

unitamente alla moglie Gioanna Lia (58). Il secondo si chiamava Domenico

Zafarana (49) e lavorava per conto di d. Girolamo Grillo. La moglie aveva

nome Nunzia Tropiano (26) e la figlia Angiola (18). L'abitazione si faceva in

casa propria con censo per il dr. fisico Giuseppe Antonio Gaglianò, ma

v'era altra affittata da Saverio e Francesco Iannello. Le 19 once denunciate si

riferivano, oltre che al mestiere (14 once), a una vacca data in custodia a

Gio. Domenico Vinci e a una somara di allevamento.

Anche due si offrivano i garzoni di bovi. Pietro Toscano (35) con stima

di 13.20 once (12 per il mestiere e 1.20 per le possessioni localizzate a

Zirgoli e S. Lucia) aveva dimora in casa propria con censo devoluto a S.

Caterina con la moglie Francesca Lemmo (32), i figli Caterina (5) e Gioanna

(2) e il figliastro Domenico Pignataro (6). Domenico ? marito di Maria

Barbiero (25) con figli Riposa (6) e Francesco (4), che abitava in casa di d.

Girolamo Grillo, cui pagava l'affitto, evidenziava solo ciò che ricavava dal

mestiere, cioè 12 once.

Il popolo minuto

Dopo aver trattato delle famiglie nobili e civili e di quante nel proprio

seno evidenziavano un esponente dedito a una professione o a un'arte o,

ancora, a un mestiere discretamente quotato, è arrivata l'ora di occuparsi

51

della gran massa di cittadini che nell'antica Oppido era impegnata nei

lavori più umili, soprattutto in quello dei campi e i cui addetti venivano

denominati univocamente bracciali. A quanto pare, in pieno settecento il

vocabolo contadino non era ancora in voga, almeno da noi. Per lungo evo i

lavoratori della terra erano stati volgarmente chiamati villani, in relazione

dunque alle villae rusticae di romana memoria più che al contado di epoca

medioevale e, purtroppo, un tale termine venne alla fine a suonare quasi

ingiurioso. Difatti, lo si considerò sinonimo di arretrato e rozzo.

Nel catasto onciario del 1746 non si fa alcuna distinzione tra il contadino

e il bracciante odierno in senso stretto, quindi non è dato avvertire alcun

manovale, sterratore, spaccalegna, uomo di fatica in genere. Tutti coloro che

eseguono un lavoro a forza di braccia sono definiti con una sola voce,

bracciali. Uno appena risulta segnalato qual lavoratore (Praticò), ma in

merito non possediamo elementi utili per capire di che trattasi.

Tolti i nuclei familiari, di cui abbiamo detto in precedenza, ne restano

176, in 123 dei quali il sostentamento viene assicurato da bracciali, da un

servitore (Fotia) e un garzone (Pignataro). In 61 casi il capo famiglia appare

senza alcun tipo d'impegno lavorativo, ma in alcuni si offrono alla base uno

o più fondi agricoli. In altri 23 si avverte invece l'assenza del capo famiglia

di genere maschile, per cui a guidare le sorti del gruppo si configura una

vedova o una donna abbandonata o, ancora, una il cui marito si trova in

terre lontane.

I bracciali, il cui reddito era al tempo valutato in 12 once a testa, erano

distribuiti uno o più per famiglia. Ad averne più di tutti era il ceppo

Barbaro, 5, uno dei cognomi più diffusi ed ancor oggi particolarmente in

auge. Seguivano Mangano, Pantatello e Ripepi con 4, Mammoliti, Lembo,

Chiliverto, Ascrizzi, Dimana, Gargiuli, Frisina, Jeruianne, Pascalino con 3;

Cananzi, Carlino, Cicciarello, Fasano, Genoese, di Giustra, Girardis,

Ioculano, Mulluso, Petrantonio, Pezzimenti, Romeo, Scullino, Tropiano,

Tornatora, Zinnamusca con 2. Uno soltanto s'indicava per Armignacca,

Amaddeo, Battista, Bellocco, Blando, Carbone, Carzo, Coscia, Cosma,

Costarello, Cosoleto, Cundò, Colagiuri, Chirchiglia, Cutigliano, di Franza,

Farinella, Fotia, Giannattasio, Gudace, Gullace, Iannello, Jamundo, Laface,

Lentini, Licopoli, Loffo, Mazza, Murabito, Muscatello, Naso, Paolino,

Perlingò, Pignataro, Pindilli, Pisa, Plataroti, Priolo, Raimondo, Rossano,

Russo, Scurtò, Sotira, Tripodi, Verteri.

52

Di tutti questi cognomi è ormai definitivamente scomparso almeno il

58%. Per esaurimento o per allontanamento non si fa più menzione di

Pantatello (emigrati in Usa), Lembo (a Milano), Chiliverto, Dimana (a

Messina), Pascalino (il vescovo Curcio acquistò da questa famiglia la casa

poi adibita ad asilo infantile), Fasano (Milano, Roma, Australia), Genoese,

di Giustra, Petrantonio, Tropiano, Zinnamusca (fam. di Santa Cristina),

Armignacca (idem), Amaddeo, Battista, Bellocco, Blando, Carzo, Coscia,

Costarello, Cosma, Cundò (esaurita da pochissimo), Colagiuri (Australia),

Chirchiglia (idem), Cutigliano, Farinella, Giannattasio, Budace, Iannello,

Jamundo, Laface, Licopoli, Mazza, Muscatello, Naso, Paolino, Pindilli, Pisa,

Plataroti, Priolo, Raimondo, Rossano, Scurtò, Sotira e Verteri. Di Franza e

Perlingò si sono trasformati in Franza e Berlingò.

Su una popolazione contata in 1.310 individui circa, i bracciali

rappresentavano il 9%.

Le persone responsabili delle famiglie che non svolgevano alcuna

attività diretta si quantificavano, come detto, in 61, quindi appena il 4,6%.

In esse era dato, però, distinguere 3 inabili appartenenti a Cundò, Potitò

(questi aveva la serva) e Vitellone, un impotente (Furfari), uno stroppio

(Jeruianne), un chierico (Pantatello) e 4 limosinanti (Gaglianò, Minasi, Lentini

e Grillo; quest'ultimo godeva addirittura di fondi propri). Il resto

riguardava Alloro, Barbaro, Cammareri, Carella, Carlino, Chiliverto,

Cosma, Crisafi, Colagiuri, Celi, Di Grana, Gentile, Dimana, Iannello, Lauria,

Lucchese, Mammoliti, Mazza, Mulluso, Pascalino, Penna, Petrantonio,

Petrilli, Quattrocchi, Raimondo, Ripepi, Russo, Scarfone, Spusato, Surace,

Toscano, Tripodi, Zafarana. Il bracciante più in sostanza si qualificava

Marzio Jeruianne, che, con moglie, sorella e tre figli, era considerato posses-

sore di un reddito di once 93.19.3 derivantegli dal mestiere e da fondi siti

nelle località Trecuccio, lo Molino, la Pietra, Bombicino e lo Birbo. Quello di

minor possanza lo si indicava in Bruno Barbaro, che, con moglie e un figlio,

denunziava 12.17 once per il mestiere e un fondo in c.da Cannavaria. Ma

erano davvero in molti a evidenziare soltanto il reddito ricavato

dall'impegno lavorativo, quindi appena 12 once.

I capifamiglia donne si suddividevano in 20 vedove (Condemi,

Frontera, Gaglianò, Iannello, Iozzo, Lembo, Mammoliti, Matalone, Minasi,

Murabito, Paonni, Pascalino, Potitò, Pulicanò, Scudellà, Spusato, Tallaridi,

Zinnamusca e in 3, il cui marito era variamente assente: perchè da molto in

Napoli (Caloprisco), a motivo di servire quale soldato di S. M. (Caridi) e per

53

il fatto che non si sapeva dove fosse andato a finire (Melandro). La famiglie

più doviziose si presentavano quelle di Prudenzia Iannello (once 20) e

Anna Iozzo (19.02). Le altre andavano da 3 a 0.

Su 176 famiglie che componevano l'ultimo nucleo della popolazione

oppidese in quel 1746 risultavano abitare in casa propria 89 di esse, vale a

dire per quasi il 50%. Quelle che dimoravano in case dotali erano 10, quindi

complessivamente il 55%. Soltanto in qualche occasione è dato conoscere

che qualcuna aveva possibilità di locare case ad altro. Erano in 41 a trovare

ricetto in appartamenti presi in fitto, cifra che dà una percentuale di quasi il

30%. Erano in poche a situarsi in modo diverso: Barbaro e Tropiano in case

di campagna di d. Alfonso Grillo, Zinnamusca e Condemi (questa per carità)

idem di d. Caterina Capuano, Perlingò id. di d. Girolamo Grillo, Fasano id.

di d. Saverio Grillo, Battista id. di d. Orazio Malarbì e Zinnamusca ancora

per carità.

Possedevano fondi agricoli variamente localizzati e stimati 90 famiglie,

che si classificavano perciò al 50%. Oltre che dal mestiere e dagli

appezzamenti agricoli, parecchie famiglie traevano parte del sostentamento

anche a mezzo degli animali, di cui si dotavano, in testa naturalmente

l'asino. I bovi aratori erano appannaggio di una sola famiglia, Barbaro, che

ne contava ben 3. I somarri in via generica e in numero di 7 si appartenevano

da 5 nuclei, mentre le somarre alla vatica, cioè che facevano la vatica o

servizio per conto terzi, 23 e quelle ad allievi, cioè buone per l'allevamento,

8. Quindi, in paese il popolo minuto evidenziava in tutto il possesso di 328

asini, variamente assortiti, che davano una percentuale del 21.5%.

Ecco ora, per finire, una serie di dati in generale sull'onomastica che, di

preferenza, veniva imposta alle persone, ma nel caso non è proprio

possibile fare alcuna distinzione tra i nati in Oppido e gli immigrati, di

certo un numero limitatissimo (non si considerano, comunque, gli

appartenenti al clero, in quanto in massima parte provenivano dall'esterno).

Il nome che più circolava fra gli uomini era Domenico con 110 (60

bracciali, 3 nobili, 10 civili, 37 artigiani e simili)35. Seguivano Francesco con

108 (67 bracc., 1 nob., 11 civ., 18 art.) e Giuseppe con 73 (49 bracc., 3 nob.,5

civ., 18 art.). Il resto atteneva a cifre di molto inferiori e si trattava quasi

sempre di appellativi comunissimi. Di particolari potevano apparire Riposo

(2; nella vicina Varapodio prosperava un rinomato santuario della

35 Il riferimento è sempre al ceto e non alla popolazione attiva.

54

Madonna del Riposo), Lelio (2), Candido (2), Crescenzio (1), Fantino (1;

poteva essere originario di Lubrichi, ove il culto del santo omonimo è

tuttora in auge), Mariano (1), Agazio (1), Romano (1), Basilio (1), Candido

(2), Scipione (1), Fabiano (1). Recavano nome di Nunzio o Nunziato, in

relazione alla protettrice della città e diocesi, la Madonna Annunziata,

appena 11 persone.

Per le donne si presceglieva di gran lunga il nome Caterina con 116 (81

bracc., 1 nob., 5 civ., 21 art.; a Oppido vi era ab antico una chiesa consacrata

alla santa, accosto alla quale vi era pure lo spedale omonimo). Lo seguivano

Domenica (36 bracc., 2 nob., 3 civ., 9 art.) con 50 e Angiola con 31 (18 bracc.,

3 civ., 10 art.). Portavano quello della Patrona, come Nunzia e talvolta

Nunziata, in 49. Qualche nome particolare: Maruzza (7), Livia (3), Petronilla

(3), Dianora (3), Sergenia (2), Reggina (1), Carmosina (1), Riposa (2),

Soprana (2), Lelia (1).

Volendo fare delle distinzioni in seno alla popolazione attiva,

considerata intorno a 400, quindi appena il 30%, abbiamo che i nobili

raggiungevano circa il 4% circa, i civili il 5%, il clero il 10%, i professionisti

e gli artigiani il 19%, i braccianti il 45% e coloro che non svolgevano alcun

impegno lavorativo il 15%, quindi la massa toccava il 50%.

Strano, improvviso ordine di convocare il parlamento per la nomina di

un nuovo sindaco a Oppido (1757)*

Il sindaco di Oppido in carica in quel 14 maggio del 1757, d. Lorenzo

Grillo, cui il subalterno della regia udienza, mag. Carmine Pepe, intimò di

procedere in modo inusitato e precipitoso, assieme agli altri Ufficiali del

Regimento, a indire parlamento per il rinnovo degli amministratori della

cosa pubblica, venne subito a contestare un tal ordine presso lo stesso

notaio, alla presenza del quale gli era stato notificato. Non poteva egli

provvedere in 24 ore - la convocazione andava fatta per l'indomani 15 - a

quanto richiesto occorrendo emanare i bandi non solo a Oppido, ma anche

nei casali di Tresilico, Varapodio, Messignadi e Zurgonadi, formando tutti

un Corpo e usandosi nominare, assieme al sindaco, anche gli eletti per ogni

abitato. Con tutto ciò, non poteva egli ugualmente impegnarsi nella

* Pubblicato in "La Città del Sole", a. VI-1999, n. 2, p. 19 e in "Storicittà", a. X-2001, n.

94, pp. 60-61.

55

richiesta azione, in quanto i libri dei parlamenti - l'ultimo gli era stato

requisito dal subalterno - li aveva in custodia il mag. Saverio Dimana,

mastrodatti assunto nel parlamento tenutosi il giorno 8 precedente. Per

mettere in moto la convocazione di una tale assise detto libro era quanto

mai indispensabile e d. Saverio, nonostante le ricerche effettuate, non era

stato possibile rintracciarlo in città.

Il Grillo, dopo aver fatto mettere a verbale quanto sopra, venne a

protestarsi energicamente una, due, e tre volte, quante sarà necessario a fronte

del notaio, del regio giudice ai contratti Giuseppe de Francia e dei testimoni

dr. fisico Francesco Antonio Italiano, Pietro Pantatello e Pasquale Gaglianò

e ad affermare senza peli sulla lingua che riteneva il Pepe per sospetto e

sospettissimo. Cosa per cui invitava il pubblico funzionario ricevente le sue

attestazioni a farlo partecipe dell'atto. Egli, dal canto suo, avrebbe

provveduto a renderne edotto il regio tribunale, nel mentre si riprometteva

per un tal gesto addirittura di avanzare ricorso al re e al sacro regio

consiglio.

Cos'era successo di così eclatante perchè il subalterno si comportasse in

siffatta maniera? Da quanto ci pare di capire, doveva essere intercorsa lite

tra il sindaco e i padri del locale convento dei paolotti. Infatti, il Grillo si

rammaricava che un subalterno, che solitamente prendeva dimora presso la

casa dell'università, quindi in un luogo pubblico, fosse andato a stare con

quelli, che rappresentavano la parte collitigante. Era davvero ben strano -

riferiva quegli - il comportamento del Pepe, il quale, dopo aver dato

l'ordine di convocare il parlamento, si era dato a scassinare la porta

dell'orologio pubblico, onde dar di piglio alla campana, in ciò fregandosene

del sindaco e dell'ufficiale locale. Aveva, peraltro, egli in animo di far

nominare i nuovi amministratori dal mag. d. Francesco Sartiani e Domenico

Girardis, che avevano già bell'ed espletato il loro mandato. Ma, il tribunale

aveva stabilito già che questi ultimi avevano facoltà di assistere in

parlamento, non di procedere a nomine di sorta. Queste spettavano

unicamente al sindaco uscente, ch'era appunto d. Lorenzo Grillo36.

36 SASP, Libro del prot. di nr. Nicola Musitano, Santa Giorgìa, a. 1757.

56

I Grillo nobili in una testimonianza del principe di Cosoleto (1753) *

D. Giuseppe Tranfo, figlio di Domenico patrizio tropeano, che nel 1733

circa succedette alla madre d. Laura Tranfo37, nipote ex-sorore dell'ultimo

esponente di casa Francoperta, d. Giuseppe Antonio38, il 27 gennaio 1753,

essendo presente in Oppido, non sappiamo per qual negozio, stimò

opportuno affidare a un rogito una testimonianza che riguardava una

nobile famiglia del luogo, la Grillo, che vanta origini germaniche.

Quel feudatario nel 1723, quindi ben un trentennio prima, trovandosi a

Napoli trattenuto nel Castelnovo assieme a d. Giuseppe Grillo39, in seguito

marchese di Claro Fonte in Spagna e a d. Carlo, fratelli dei duchi di

Mondraone (sic! Mondragone), ebbe occasione, conversando, di apprendere,

tra vari particolari, che i Grillo di Calabria, i medesimi che procedevano dai

baroni di Careri e risultavano abitare in Oppido, appartenevano al ramo

cadetto di loro famiglia, pervenuto a suo tempo nel regno napoletano. Era

un fatto che a loro constava non solo perchè tramandato da padre in figlio,

ma per via di «notizie, che dell'istessa vi sono», evidentemente

documentazioni. Avendo i due chiesto informazioni sulla vita che tali con-

ducevano a Oppido, il principe di Cosoleto riferì che «vivevano nobilmente, e

con maggiore destinzione dell'altri della Provincia, cosa per cui quegli altolocati

personaggi se ne rallegrarono assai»40.

In effetti, in una pubblicazione di araldica, nella quale ci si sofferma

bastantemente sulla famiglia Grillo e si dice che questa avrebbe sfondato

soprattutto a Genova, dove suoi membri furono dogi, ammiragli e senatori,

si rende noto che il duca di Mondragone dava del cugino a Giovan Battista

* Pubblicato in "Storicittà", a. VI-1997, n. 57, pp. 56-57; "La Città del Sole", a. V-

1998, n. 1, p. 18. 37 La madre di d. Laura sarà certamente convolata a nozze con un parente recante il

medesimo suo cognome. 38 Sulle famiglie Francoperta e Tranfo ved. R. LIBERTI, Cosoleto profilo storico di un

centro urbano, "Calabria Sconosciuta", a. XI-1988, n. 40, pp. 100-102; ID., I Tranfo e

il castello di Cosoleto, ivi, a. XVIII-1995, n. 65, pp. 31-34. 39 Tale frase può voler significare che il Tranfo si trovava in quel luogo agli arresti

oppure a motivo di servizio militare? 40 SASP, Libro del prot. di nr. Carmelo Tropiano, Seminara, a. 1755, ff. 1v-2.

57

Grillo di Oppido (1787 c. - 1843). Peraltro, la colleganza dei Grillo oppidesi

con quelli di Genova non ha mai rappresentato una novità41.

A questo punto non riusciamo a spiegarci il motivo di così tardiva

dichiarazione. Ci sembra impossibile che il Tranfo in così lungo lasso di

tempo non abbia avuto l'opportunità di recarsi a Oppido. Trent’anni non

sono una bagattella!

Osiamo azzardare un'ipotesi. Il titolato sarà andato in compagnia del

seminarese d. Vincenzo Franco, agente generale dello stato, recatosi a

visitare la famiglia della fidanzata, d. Teresa Grillo, che impalmerà l'8

maggio successivo. Una tale sortita, nel particolare momento, potrà essere

stata originata al fine di magnificare le parentele del ceppo Grillo42. L'avallo

può essere dato dal fatto che a redigere l'atto fu un seminarese, portatosi a

Oppido anche lui al seguito del Franco, onde stendere i capitoli

matrimoniali.

Che la famiglia Grillo, un tempo feudataria di Calimera-San Calogero

(tra 1651 e 1681 c.)43 e di Careri (tra 1593 e 1623 c.)44, abbia in successione

ambìto di rientrare nella cerchia dei baroni risulta da un documento del

1707. In quest'anno Agazio Antonio, sicuramente nostalgico della passata

grandezza, venne a lasciare per testamento dei censi, la cui annualità

doveva andare in multiplico sino alla somma di ducati 14.000 al fine di

accaparrarsi qualche feudo in vendita. Tale, una volta acquistato, avrebbe

dovuto essere assegnato in amministrazione al primogenito, con entrata

suddivisa tra tutti i figli e gli eredi sopravvissuti. L'impegno che, in forza di

quella disposizione, i discendenti del Grillo avranno probabilmente espe-

rito onde procacciarsi una terra variamente titolata, si sarà sicuramente

dimostrato vano poichè non è dato avvertire alcuna notizia di feudi

41 Sulla famiglia Grillo ved. LIBERTI, Momenti e figure ..., pp. 125-127; Calendario

d'oro - annuario nobiliare, diplomatico, araldico, Roma, IV-1897, n. 13, p. 355. 42 PARROCCHIA DELLA CATTEDRALE, Liber coniugatorum.

Il matrimonio tra d. Vincenzo Franco di d. Enrico e d. Teresa Grillo di d. Amato

venne celebrato nella cappella del palazzo Grillo dal vescovo Mandarani, con

testi d. Saverio Grillo e d. Domenico Gerardis. 43 M. PELLICANO CASTAGNA, La storia dei feudi e dei titoli nobiliari della Calabria, I,

Chiaravalle C.le 1984, pp. 340-341. 44 J. MAZZOLENI, Fonti per la storia della Calabria nel Viceregno (1503-1734) esistenti

nell'Archivio di Stato di Napoli, Napoli 1968, pp. 192, 205.

58

intestati alla famiglia susseguentemente a quelli già precedentemente

detenuti.

Agazio Antonio Grillo era figlio a Gio. Leonardo e fratello a Francesco,

Lorenzo e Michele. Sposatosi intorno al 1633 con Giulia Ruffo, aveva

procreato Gio. Leonardo, Giovanni, Domenico, Girolamo, Anna, Lorenzo,

Dianora e Carlotta45. Col documento, di cui sopra, tra l'altro, pretese dagli

eredi il completamento con stucchi entro il biennio di due cappelle del

convento dei cappuccini, mentre dal figlio Lorenzo, nel medesimo lasso di

tempo, l'allestimento di un innante altare d'argento per la Santissima

Annunziata, ch'era già un pio desiderio espresso dal proprio fratello anche

lui a nome Lorenzo46.

Anche per quanto riguarda il ceppo Grillo dei baroni di Calimera le

carte d'archivio appaiono ben doviziose di notizie. In esse, infatti, ci

s'imbatte spesso in particolari che riferiscono dell'antico suo stato. Una

scheda del notaio Medici dell'anno 1752 rappresenta i fratelli Nicola e

Domenico quali abitanti in Melicuccà del Priorato e se la loro madre, d.

Giacoma Spina, viene ricollegata ai passati Baroni di Mammola, per detti

appare chiaro il vanto di appartenere all'antichi Baroni di Calimera47. È

sicuramente il primo dei due quell' Ill. Sig.r D. Nicolò Grillo qm. D. Antonio

de Baroni di Calimera, che alla fidanzata, d. Angela Teotino del dr. Giuseppe

Antonio di Terranova, consegnava l'anno prima, in occasione della stipula

del contratto matrimoniale, tramite il fratello Domenico «accio, quella col de-

coro decente alla sua nascita possa comparire da sua sposa», una discreta serie di

«vesti, vestiti, Gioje, indirizzi di diamanti, oro, ed altro». L'assegno di tali doni è

offerto nei minimi dettagli. Ne faranno parte un indirizzo di diamanti distinto

in croce, scocca e orecchini (val. duc. 140), un anello di diamante (duc. 30),

un indirizzo di rubbini comprensivo di scocca e orecchini (duc. 44), un

anelluccio di diamanti e rubbini (duc. 8), un orologio d'argento (duc. 30), un

paio di bottoncini d'oro (duc. 5), un rosario di perle e migliuzzi d'oro con

medaglia d'oro, un paio di fibbie d'argento, un paio di pater noster di pietra agata

con medaglia d'oro, un manichino arricciato (duc. 4), un manichino usuale (carl.

36), un vantisino (duc. 3), due scuffie di merletto (acquistati l'uno a 13 carlini a

45 SASP, Libri del prot. di vari notai; F. RUSSO, Regesto Vaticano per la Calabria,

passim. 46 SASP, Libro del prot. di nr. G. Fossare ..., a. 1707. 47SASP, Libro del prot. di nr. Gaetano Medici, Santa Cristina, a. 1752.

59

palmo, l'altro a 65 grana), due manicotti con identici merletti e due spalline

(acq. duc. 75), due paia di calze di seta, un tondo ed imbuto (duc. 28), un

berrettino di donna (acq. carl. 25), due vesti a sacco di Drappo di francia (duc.

200 c.), una veste d'insavacciato verde ricamato in argento e con valloni d'oro

(duc. 70 c.), una veste di molla di colore per uso quotidiano, una veste di

campagna di scarlato con guarnimenti d'uso, un cappottino di Drappo di francia

da mettere sulle spalle, un guardapié (duc. 12). Le altre coselle a minuto

vengono trascurate, in quanto non meritevoli di essere elencate. In totale, il

Grillo veniva a offrire alla futura sposa un valore intorno ai 650 ducati48.

Come viveva un nobilotto del '700:

d. Francesco Grillo (1718-1757) *

Il 23 o 24 maggio del 1757 veniva a morte nell'antica Oppido in seguito a

un colpo apoplettico il quarantunenne ottimo galantomo d. Francesco Grillo,

esponente di uno dei vari rami della nobile famiglia pervenuta da Genova

in Calabria intorno al 1500. Il triste evento si compiva nella sua abitazione

di contrada S. Nicola, sicuramente quella che faceva capo alla chiesa di S.

Nicola extra moenia, seconda parrocchia del paese e, quindi, in una zona

piuttosto decentrata. La salma fu portata con solenne pompa e

accompagnamento di capitolo e clero secolare nel tempio dei padri

cappuccini, a un miglio circa dalle mura urbane ed ivi inumata in una

propria sepoltura. I Grillo erano protettori del convento sin dal 1592, allor-

quando avevano avviato apposito lascito per la sua fondazione49.

D. Francesco era figlio a d. Gerolamo (1685-1751) e ad Aurelia Grillo

(già deceduta prima del 1746) e i suoi fratelli avevano impalmato giovani di

pari lignaggio. Lorenzo (1715) sposò Cornelia Grillo, Lucrezia (1720) nel

1747 d. Giacomo Sartiani, Cornelia (1724) nel 1748 d. Girolamo Zerbi e

Filippo (1734) nel 1754 d. Aurora Sartiani. Altri germani erano Agazio

(1711, che, intrapresa la carriera ecclesiastica, era pervenuto nel 1746 al

grado di decano, Aurora (1712) accasata in Seminara e Giulia (1716)

maritata e domiciliata in Sinopoli.

48 SASP, Libro del prot. di n. Carmine Fantone, Melicuccà, a. 1751, ff. 247-248v. * Pubblicato in "La Città del Sole", a. IV-1997, nn. 7-8, pp. 26-27. 49 LIBERTI, Momenti e figure ..., p. 90; ID., Fede e società nella Diocesi di Oppido-Palmi,

Rosarno 1996, pp. 181-184.

60

A quanto conosciamo, da d. Francesco e dalla moglie, d. Caterina

Barletta Santa Croce (1720 e viv. 1771)50, nacquero almeno otto figli:

Marcello (1743), Saveria (1743), Domenico (1751-1811), Maria (1752),

Aurelia (1754), Girolamo (†parvulus 1755), Aurora (1756), Gerolama († parv.

1756). In quel 1757 restavano soltanto Marcello, Saveria, Domenico e

Aurelia. Così in buona parte testarono avanti al vice conte d. Giuseppe

Mandarani i magnifici Nicola Francesco Zerbi, Francesco Fossari e

Giuseppe Antonio Gaglianò. Gli ultimi due vennero a qualificare il defunto

come loro Caro Padrone51.

Nel 1746 i due coniugi unitamente al loro primo figlio, Marcello,

vivevano in casa del padre, sicuramente vedovo e assieme a tanti altri della

famiglia e, cioè, al decano Agazio e a Lorenzo con moglie e tre figli,

Lucrezia vedova, Giulia, Filippo ed Aurora e Cornelia, abitanti, come detto,

fuori. A tale grosso nucleo composto di ben 15 persone accudivano in

quattro, il lacchè Francesco Foti e tre serve, Saveria e Caterina Raimondo

sorelle e Domenica di Sitizano, che andavano dai 15 ai 34 anni di età. Non

c'era, certo, di che lamentarsi a proposito delle condizioni di vita nella

patriarcale magione di d. Gerolamo dato che questi, designato nobile,

poteva vantare, tra le numerose tenute e introiti vari, un patrimonio valu-

tato ben 757.12.6 once contro le 471.15 in pesi, con tassazione operata sulla

metà della differenza tra le due cifre.

Essendo d. Francesco morto ab intestato, la di lui moglie, in data 1 luglio

del medesimo anno, fu costretta a presentarsi nella corte vicecomitale

oppidese, onde perorare richiesta di affidamento dei beni dei figli, previo

inventario degli stessi «senza verun pregiudizio delle sue raggioni dotali».

L'apposito elenco venne a materializzarsi il 26 del mese di agosto

successivo e il notaio seminarese Vincenzo Tropiano, assistito dal regio

giudice ai contratti Giuseppe di Franza e dai testimoni dr. d. Orazio

Malarbì, mag. Bernardino Misiti e mag. Francesco Antonio Italiani, ebbe di

che registrare.

La casa abitata dalla famiglia di d. Francesco era un vero e proprio

palazzotto e si componeva di ben dodici camere più servizi, bassi e altri

locali variamente destinati. L'iniziale visita toccò naturalmente al primo

50 F. RUSSO, Regesto ..., 1994, XIII, p. 295. 51ASN, Catasto Onciario 1746; SASP, Libro del prot. di nr. Carmelo Tropiano, Seminara,

a. 1757, ff. 57-65; Libri parrocchiali di Oppido.

61

piano, quello di uso quotidiano, dove si pervenne non appena salita una

rampa di scale ed ecco di seguito, senza operare distinzioni per camere,

quanto vi si conteneva.

Facevano parte della suppellettile ben 12 boffette, i nostri tavoli (2 grandi,

di cui una con intagli dorati; 3 dorate, di cui una con intagli; 2 di legno di

noce; una piccola; 2 senza ulteriori indicazioni e 2 tonde, una di pioppo e

l'altra con fodera in pelle); 63 sedie di paglia dorate, 1 stipo di riposto ; 3

arcantarani (canterani), di cui 2 con 4 tiretti; una scrivania d'ottone; 4

scrittori (stipetti per depositarvi incartamenti) (2 di ebano, di cui uno con

cornici dorate e figure, 1 con figure scolpite di pietra e 1 piccolo d'ebano

minjato d'avolio=miniato di avorio); 2 casciabanchi, le nostre cassepanche; 2

cascioni cioè casse grandi (uno di farina ?, l'altro di noce); una cascia cioè

cassa; una cascietta, quindi cassetta, di bacchetta (vacchetta) ferrata; molte

casse a uso dei servitori; 8 bagulli, i nostri bauli (3 di bacchetta, di cui uno di

color rosso; uno di montone e il resto senza alcuna distinzione); un canapè

(divano) di velluto fiorato; sei letti con materassi, di cui uno di campagna e

3 per i servitori; un lettino di campagna, una lettèra (giaciglio) per i servitori

e, infine, una tabarca, cioè letto con telaio e spalliere in ferro.

Quindi, si potevano osservare ben 12 specchi (4 grandi, 4 piccoli e il

resto senza specificazione, per lo più con intagli in oro o con cornici dorate;

uno solo aveva la cornice nera di ebano); un lavamano, 9 tondini piccoli; 18

placchi o placche (forse, lastre di metallo argentato), di cui 4 con cornici; 2

lampioni ovverossìa lampieri, di cui uno al centro, sicuramente situato sul

soffitto della camera maggiore; 3 frontere (gazzane? mensole?), una d'acciaio

e due di legno; una briglia; una testera di pirucche (stipo per le parrucche); 4

ritratti, di cui uno grande con l'immagine del defunto d. Girolamo Grillo; 19

quadri, di cui 10 con varia rappresentazione e 9 con cornice dorata; 18

quadretti, di cui 4 con raffigurazioni di fiori, 10 tondi e 4 con cornici dorate;

37 pezzi di quadri, di cui 9 con espressione di paesaggi e cornici dorate e 8

similari senza indicazione dei soggetti impressi, 20 con cornici dorate; 3

ombrelle (ombrelli), di cui una piccola; 7 candelieri, di cui 2 di ottone a

quattro locigni (lucignoli), 3 di stagno e 2 d'argento; una forfica d'argento per

smicciare i candilieri (lo smoccolatoio); 2 canni d'India (bastoni), uno col pomo

d'oro l'altro d'argento e un orologio da tasca d'argento.

Per quanto concerne vestimenti e il materiale riferibile alla sistemazione

del letto si rinvenivano varia biancheria in un cassone, una cassa e vari

bauli; un pezzo di tela; robbe di nutricata (roba di seta da filugello); le vesti

62

della padrona di casa; un abito di velluto e altro di molla (tipo di seta) nera;

uno sciamberghino (giamberga piccola) ricamato in oro; 4 padiglioni

(baldacchini), di cui 2 di capicciola (cascame di seta) uno rigato l'altro

bianco, uno di tela stampata e uno di lettino di damasco giallo; 11 ginefre

(strisce di guarnizione) compresa quella fissata alla porta; 10 portere (tende),

di cui 2 nere, 4 bianche per le finestre e 4 di seta per le porte delle camere; 8

cortine, di cui una di damasco, una uguale gialla e rossa, una rosa guarnita e

ricamata in oro, 3 bianche, 1 turchina di bambace (bambagia), 1 di terzanello

(tipo di seta) rigato; una diecina circa di coperte, di cui 1 di seta ac-

quamarina, 1 turchina rossa e bianca di calame (fioretto), 1 di damasco rossa,

1 gialla e verde, 3 di cosi di nutricata, 1 fiorata di seta; molte coperte per i

servitori; 8 bottini (imbottite), di cui 7 di cotone e 1 di seta.

Ecco ora quanto si rilevava circa il vasellame, che, invero, appariva

quanto d'indispensabile a una normale famigliola. Era dato registrare 25

piatti di porcellana; 8 bacili di uguale materia più uno di rame; 6 chiccari

(tazzine) con piattino; una chiavettiera (porta chiavi) di porcellana; 25 tra

bicchieri, fiaschi, garaffine (piccole caraffe) e giarre (giare) d'acqua di

cristallo; un posatore di trincia (trinciatore); un sicchetto (?) d'argento; una

salera (saliera) d'argento; 7 piattini d'argento; 6 posate d'argento; 2

sottocoppe d'argento; uno sciabolotto (piccola sciabola) con posata e manico

d'argento; una cantinetta con 6 fiaschi. In una cassa s'intravedevano poi

molte cose di pasta.

Pochi figuravano i libri, appena 26, ma molte le carte di conti, non per

niente il defunto era stato in vita percettore dei feudatari Spinelli. Si

elencavano, tra l'altro, 10 libri col cartone precettorale per il 1747/1756; un

piccolo fascio di mensali attinenti ancora all'ufficio precettorale; gli inventari

della mandra del Patrimonio; un fascio di lettere del principe del 1753/57; i

bilanci dell'olio per il 1751; lettere di cittadini in relazione all'ufficio di

precettore; carta da scrivere; un libro di casa del 1752 con indicazione dei

nomi dei debitori; libri precettorali con notazione dell'impiego di olio e seta

da maturarsi in quel 1757; libro dell'impiego di olio con bilanci in uscita ed

entrata di quanto incamerato in denaro da d. Francesco a conto dei feu-

datari in ragione di 37.404 ducati; fasci di polise (polizze) degli erari (esattori

del feudatario) di Seminara, Palmi, Santa Cristina (d. Domenico Musitano),

Oppido (d. Antonio Grillo) e di debitori di Varapodio e Seminara per il

1752/56 e, infine, il conto di d. Filippo Grillo.

63

Il cassettino con le gioie, debitamente custodito nella decima camera,

officiava i seguenti oggetti d'oro: un indirizzo di diamanti comprendente

una crocella, un paio di orecchini, 2 anelli con un rubino e altro col diamante

in centro; due crocette di smeraldi; una catiniglia (catenella) d'oro; un

gioiello d'oro con perle e pietre rosse; due anelli di smeraldi, un paio di

pater noster di filigrana d'argento (era la coroncina del Rosario); due jettiti

(?), uno d'oro e l'altro di perle. A tutto questo, di proprietà di d. Caterina e

regalo del marito e dei congiunti, fa d'uopo aggiungere una catena a maglia

d'oro con 167 pezzi seu maglie; un campanello; una sonaglia (sonagliera)

d'argento per i figliuoli; una scatola di scubbie (?) di pertinenza della stessa.

Infine, era dato scorgere della polvere di cipro, sicuramente cipria, contenuta

in 4 coppi (cartocci)) e in una scatola e la somma di ducati 450 in oro e ar-

gento, con la quale si sarebbe dovuto provvedere per i funerali e altre spese.

Esaurito il giro delle 12 camere, si passò alla cucina, dove si rilevò il

seguente materiale: 3 candelieri di stagno, 2 caldari (caldaie) grandi di rame,

un bozzonetto (tegame alto) grande, 4 tielle (teglie) di rame; 2 padelle, 2

graviglie (graticole); una tassalora (casseruola) di rame; 1 sculabrodo

(colabrodo) di rame; 3 brascieri (bracieri) di rame; 6 bocconetti (forme per

dolci?) di rame e altri stigli (utensili) di grano.

Una volta completato il primo piano, si discese per verificare quanto si

trovava sistemato nei bassi sottostanti. Un primo basso fungeva da

magazzino del grano e notaio e testimoni stilarono una lista di ciò ch'ebbero

modo di riscontrare: 12 gistroni (cestoni) colmi di grano ed altri 3 di orzo, 10

pesi (pesate) di lino, 3 quartarelli (misura dell'epoca) di saemi (saimi=strutto)

e 10 forme di cascio (cacio). Nel basso accanto risultavano depositati invece

molti mattoni, dei legni e ceramidi (tegole). Altri due magazzini servivano a

stipare l'olio. Il primo conteneva, tra piccoli e grandi, 3 pitarri (orci) pieni di

quel prodotto equivalenti a circa 50 botti e in cura al fattore Domenico

Papalia, come si evidenziava da una sua nota e dallo stesso libro di casa. Il

secondo 30 pitarri tra grandi e piccoli, di cui solo 12 pieni di olio, che si

equiparava a circa 4 botti, quindi 3 cantinette vuote. Il magazzino del vino,

come naturale dato il periodo, conteneva 9 botti e 3 cantinette del tutto

vuote. In un camerino di basso si rivelava un po' tutta una serie di cose

accantonate: un cassone grande di pioppo con 200 libbre di seta ottenuta

dalla nutricata dell'anno in corso e della quale bisognava dar conto ai coloni

per quanto loro competeva, 15 quadri grandi, un baliciotto (valigetta) di

pelle, una boffetta tonda di pioppo, degli ombrelli, 6 sciamberghi

64

(giamberghe) di panno di raso d'umez e stamina (stamigna), 8 sciamberghini

di panno e uno di pelle ricamata, un cappotto di panno, una lebrea (livrea)

di servitore e altra di volante e, infine, uno stipo atto ad appendervi la roba.

Altri locali ancora erano la stalla, dove si reperirono tre mule per comodità

della famiglia e per fare la vatica (trasporto), il trappeto con tutti i suoi

stigli, ch'era unito al palazzo e una bottega con camerino annesso ch'era

stata data in fitto ad Antonio Mangano.

Non terminavano qui i beni in forza alla famiglia di d. Francesco Grillo,

che ne evidenziava tantissimi altri e di grande rilievo. Una casa palaziata

comprendente 6 camere più i bassi si trovava a Tresilico ed era in

compartecipazione con i di lui fratelli Lorenzo e Filippo, mentre un

trappeto era locato a Varapodi ed era a godo a godo con d. Pio dell'Olio. Un

casino e un magazzino a Messignadi erano pure in comune con i fratelli. Il

nobilotto era poi possessore di ben 800 pecore, così distribuite: 300 a

Oppido e Castellace, 200 a Natile e 300 a Casignana; per queste ultime però

era insorta lite. Quindi, di 8 bacche (vacche), 4 bovi e una giumenta col ca-

valletto (cavallino) al seguito affidati al mag. Giuseppe Condello di

Messignadi.

Veniva poi tutta la serie di tenute localizzate nelle seguenti contrade: S.

Nicola (questa era stata comprata da d. Caterina dopo la morte del marito),

la Chiusa, Tricuccio, S. Biasi (le olive erano in comune col Capitolo),

Cannavaria (con casa e torre), Levadi, La Tubba, La gramopella, lo cenzo,

Ovviddio, lo Ladro, Lifracà, Santo Chirico, Sportà, Li molina, Quarantano,

Castellace (qui, in contrada Buzzano, erano di pertinenza anche una torre,

una casa, un trappeto con magazzini d'olio, dove i pitarri erano da dividersi

con i fratelli). Le terre interessate, alcune delle quali inculte, scapole (brulle) e

aratorie (adatte alla semina) recavano di tutto: vigna, alberi fruttiferi, ulivi,

gelsi bianchi e neri, castagni, boschi di selva cedola (cedua). A tutto questo po'

po' di roba occorre, infine, aggiungere una piccola lista di cespiti

variamente introitati. Contribuivano con 8 duc., 16 gr. e 28 cavalli le

università di Oppido e Tresilico, 60 gr. gli eredi di Lorenzo Mammoliti, 75

gr. gli eredi di Giuseppe Russo, 55 duc. il dr. fisico Giuseppe Antonio

Gaglianò, 16 carl. Caterina di Guisa e Giuseppe Marturano, 11 carl. Bruno

Mammoliti, 9 carl. Francesco Antonio Mangano, 20 carl. Francesco

Buccafurri, 54 duc. d. Casimiro Coscinà e 10 duc. gli eredi di Matteo

Capialbo.

65

Non possiamo certo oggi, a distanza di due secoli e mezzo, fare raffronti

di sorta e paragonare d. Francesco Grillo a qualcuno dei miliardari odierni,

ma, dopo quanto riferito, è sicuramente molto chiaro che ci troviamo di

fronte a uno dei più grossi proprietari e imprenditori della zona, peraltro

un fidato collaboratore del feudatario principe Spinelli. Ma il benessere in

casa Grillo veniva da epoche remote e il padre di d. Francesco appena

undici anni prima, era, tra i nobili di Oppido, il contribuente che

denunziava il patrimonio più vistoso.

Il Monte dei giovani (1767) *

Nell'antica Oppido non mancavano, come s'è visto, i cittadini agiati, i

quali, pensosi della grama situazione in cui al tempo si viveva, offrivano le

proprie sostanze al fine di avviare benefiche istituzioni a pro della

popolazione tutta. Se nel 1609 era stato il turno di Marcello Albanese con la

creazione di un monte di pietà e nel 1750 del vescovo mons. Ferdinando

Mandarani, che, in un'epoca di estrema penuria aveva voluto tenacemente

dar vita a un monte frumentario, nel 1767 toccò a d. Lorenzo Amato Grillo

dar corpo a un monte dei giovani, a una fondazione cioè che avesse di mira

di assecondare nello studio giovani poveri sì, ma volenterosi e capaci.

Il dottor Lorenzo Amato Grillo, un gentiluomo che al suo cognome

amava aggiungere a volte anche quello di Caracciolo, certamente per la

madre e pure per distinguersi da altro parente quasi omonimo, d. Lorenzo

Grillo Gemelli, apparteneva a famiglia che, pervenuta in Oppido da Genova

nella seconda metà del '500, vi si era presto diffusa divenendone magna

pars. Ligio alle consuetudini del casato, si era unito in prime nozze a nobile

fanciulla di Seminara, d. Gregoria Sanchez e successivamente aveva

impalmato una concittadina, d. Lucrezia Migliorini. Dalle due consorti

aveva ottenuto un bel numero di figli, ma, di questi, due soltanto erano

riusciti a sopravvivere, due donne, Teresa ed Eleonora, sposate

rispettivamente a d. Vincenzo Franco di Seminara nel 1753 e a d. Marcello

Grillo nel 1759. Degli altri figli conosciamo che Giuseppe morì nel 1748 ad

appena un anno di vita, Francesco nel 1767 a 5 anni, Cornelia pure nel 1767

a 3 anni, Aurora nel 1768 a 3 anni. Di altra Cornelia, nata nel 1768 e

cresimata nel 1770 e Francesco Antonio, nato nel 1770 e cresimato nel 1773,

* Pubblicato in "Calabria Letteraria", a. XXXII-1984, nn. 10-11-12, pp. 56-59.

66

non sappiamo l'anno di morte, ma per ovvi motivi dobbiamo presumere

che i due non siano andati molto al di là di quelle date. La mortalità

infantile era allora sempre in agguato e mieteva vittime su vittime. Era sicu-

ramente fratello all'ideatore del monte dei giovani Domenico Grillo

Caracciolo, marito a d. Cristina Sartiani e il cui figlio Giuseppe decedeva

nel 1768 all'età di 55 anni52.

Il nobiluomo aveva seguìto fedelmente quello ch'era il costume della sua

schiatta non solo però per quanto riguardava l'allacciamento di rapporti

matrimoniali con illustri prosapie, ma anche per ciò che concerneva la

direzione degli organi più rappresentativi della città. Difatti, da vari

protocolli notarili egli ci viene mostrato quale sindaco interessato alle

necessità della cittadinanza, ma a volte fiero del ruolo e delle prerogative

nonché amministratore di enti pubblici e privati53. D. Lorenzo appare nella

dignità di primo cittadino sin dal 1740, quando venne a lite con alcuni

ecclesiastici, i quali non intesero di assecondare le sue iniziative circa le

52 Registri parrocchiali di Oppido.

Da alcuni atti dei notai Domenico Fossare, Saverio Costarelli e Domenico Romeo

da Oppido (SASP) ricaviamo quanto segue.

Nel 1710 Domenico Caracciolo era governatore del monte di pietà, ma nel 1741

risultava già defunto. In quell'anno, presente la vedova, d. Carlotta Grillo,

sicuramente la seconda moglie, si faceva l'inventario di quanto da lui lasciato. Vi

si comprendeva, tra l'altro un palazzo di 18 vani ubicato nel quartiere del

Seminario. Nel 1725, non essendo riuscito a far deporre secondo il suo

divisamento tale Bernardo Sisinni del casale di Messignadi, d. Domenico lo fece

mettere in ceppi. Ma ecco il fatto e quel che ne seguì nelle dichiarazioni rese dal

malcapitato al notaio il 6 agosto di detto anno:

«... li giorni passati è stato carcerato dentro le carceri del Castello di questa Città per

ordine del Sig.r Domenico Grillo Caracciolo, il quale voleva, che esso Bernardo si avesse

esaminato contro del Sig.r D. Geronimo Grillo per l'oglio, che à venduto al sudetto Grillo

nell'anni à dietro; e perchè il medesimo si vedea morire dentro dette carceri in tempo così

rigoroso e caldo, e perdea le sue fateghe, oltre di altri patimenti, forzatamente si esaminò

avanti detto Caracciolo, che detto D. Geronimo li pagò l'oglio, ascendente ad un terzo di

botte, à carlini dodici il cafiso, quando la pura verità si è, che detto Grillo gli lo pagò a

carlini ventiuno, e tre tornesi a cafiso».

D. Giuseppe Grillo Caracciolo, figlio di d. Carlotta, nel 1752 era sindaco dei

nobili e negli anni immediatamente precedenti al 1768 governatore del predetto

monte di pietà. 53 SASP, Libro del prot. dei notai Francesco Cananzi, Domenico Romeo, ibid.

67

manifestazioni di giubilo per il felice parto della regina Maria Amalia,

particolari tutti che emergono da una deposizione avanti al notaio54. Lo

stesso, nel marzo del 1741, ancora sindaco, si trovava dal medesimo

funzionario per testimoniare sulla circostanza che, a causa di un'alluvione

che aveva fatto franare la strada pubblica di fiorello, si era tenuto nell'ottobre

precedente un parlamento allo scopo di acquistare un pezzo di proprietà di

Francesco Antonio Mangano prezzato del valore di 12 ducati dal pubblico

stimatore Santo Giustra. Nel 1751 il Grillo risultava invece olim Erario, ma

di chi? Probabilmente, della casa feudale Spinelli, che i rappresentanti della

famiglia servivano sovente in tale veste. Nel medesimo anno egli si qua-

lificava ancora debitore per 1009,20 ducati del monte di pietà,

un'istituzione, di cui sarebbe stato governatore di lì a poco, nel 1752-53. Nel

1741 d. Lorenzo aveva convenuto in giudizio e, quindi, fatto carcerare nel

castello, tale Carlo Gaglianò, che gli doveva 22 ducati per alcuni cafisi a lui

spettanti per gabella. Quest'ultimo fatto sembrerebbe fare a pugni con la

logica di un signore disposto a dare del suo per aiutare un concittadino in

stato di bisogno, ma non è proprio il caso di sottilizzare. I tempi erano

quelli che erano: la legge si faceva rispettare e i patti andavano comunque

mantenuti, con le buone o con le cattive. In difetto di ciò, ne sarebbe andato

di mezzo tutto un ordine costituito. All'epoca, d'altronde, si era ancora

lontani da rivendicazioni sociali e tumulti rivoluzionari di una certa

consistenza.

Il 27 gennaio 1767 d. Lorenzo Amato Grillo, certo ormai in là negli anni

e compreso delle esigenze della popolazione per un'esperienza che aveva

pur dovuto fare allorquando si era venuto a trovare a capo degli enti

precedentemente citati, contattò il notaio Lemmi e gli dettò il suo

testamento, nel quale, tra le altre cose, volle occuparsi di un ben preciso

disegno, la costituzione di un monte a favore dei giovani studiosi della città

e dei casali55. Difatti, per come conosciamo dal rogito, riportato in parte in

54 Per quest'episodio ved. R. LIBERTI, Liti tra sindaci ed ecclesiastici ad Oppido nel

'700, "Calabria Letteraria", a. XXXII-1984, nn. 1-2-3; SASP, Libro del prot. di nr.

Cananzi ... 55 Lo Zerbi (C. ZERBI, Della Città, Chiesa e Diocesi di Oppido Mamertina e dei suoi

Vescovi, Roma 1876, p. 44) ha scritto molto imprecisamente che a fondare il monte

dei giovani fu Lorenzo Amato Grillo nel 1765 ed in ciò è stato pedissequamente

seguìto dal Frascà (V. FRASCÀ, Oppido Mamertina - riassunto cronistorico,

Cittanova 1930, p. 216).

68

un atto del Consiglio d'Intendenza con sede a Monteleone del 20 dicembre

1811, così tenne a dichiarare con un discorso in verità poco comprensibile,

almeno per ciò che riguardava i fondi rustici che metteva a disposizione:

«... lego e lascio un mio oliveto in contrada S. Pietro sito nelle vicinanze di

Varapodio, lo stesso che in varie compre da me fatte si trova unito insieme coll'orto

comprato sub'hasta per gli atti di questa Corte da Mastro Francesco Caruso e

moglie, come per testamento fatto da Nr. Carmine Tropeano di Seminara ed atti di

Corte che si trovano in casa; quale oliveto unito coll'altro mio oliveto grande della

casa, sia mediante a beneficio del Monte di Pietà di questa Città, coll'obbligo, che

dell'annua rendita di d° fondo, dedott'i pesi se ne tenesse separato conto, e si facesse

libro particolare affinchè si mantenesse un giovinetto, che sia ben accustomato, e di

mediocre talento nella Città di Napoli o di Roma, colla mesata di ducati sei

nell'applicazione delle scienze ed arti liberali; qual giovinetto debba essere non

meno di anni quindici e non più di anni venti tanto se sarà chierico o laico, che

debba essere di questa Città di Oppido, o pure de' Casali di Varapodi, Tresilico,

Zurgonadi e Mesignani; a qual giovinetto debbasi dare la suddetta mesata di ducati

sei per lo spazio di anni cinque ed indi niente altro dalli Sig.ri Amministratori di d°

Monte di Pietà con doversino nominare dalli miei eredi uno o due giovinetti per

luogo della sopra espressata Città e suoi Casali se vi saranno e poi trarsi la sorte

dalli Sig.ri Sindaci in pubblico parlamento» 56.

Quanto sopra è, in linea di massima, la parte fondamentale del

testamento del Grillo, ma il documento e un successivo codicillo del 27

maggio del medesimo anno recano ancora ulteriori particolari che mette

conto riferire e che ribadiscono quanto segue. Il giovane studioso andava

sempre reperito in concorso di maggior numero. Qualora la rendita a ciò

disposta non fosse stata sufficiente in qualche annata, sarebbe stato compito

di sindaci e amministratori decidere se sospendere o meno per qualche

tempo la concessione del beneficio. Per godere di questo dovevano essere

«sempre preferiti i più poveri, e ben costumati e bene istruiti nella Dottrina

Cristiana». La scelta degli studiosi da aiutare era di esclusiva spettanza delle

figlie di d. Lorenzo, ma essa, dopo la loro morte, sarebbe caduta sul

secondogenito di d. Teresa, che sarebbe entrato in possesso dello stabile di

Boscaino e sul primogenito di d. Eleonora, che avrebbe avuto in eredità

l'altro di Cannamaria. Quelli defunti, il privilegio sarebbe passato ai di loro

figli e discendenti, però sempre detentori dei due predetti fondi. La nomina

56 Il documento si conserva nell'Archivio Comunale di Oppido.

69

del prescelto si sarebbe dovuta fare «maturata che sarà la prima annata di oglio

di d° oliveto» e, ove si fosse riscontrato che un membro della stessa famiglia

Grillo risultava «povero rispetto al suo grado», ma fornito pure degli altri

requisiti richiesti, andava desso preferito e non ci sarebbe stato bisogno di

ricorrere a più candidati. Ê quest'ultimo caso che il codicillo contempla al

gran completo vieppiù reiterandolo.

Non conosciamo quando venne a morte il Grillo e cosa ne fu della sua

istituzione nell'antica Oppido, ma nel 1802 essa era pienamente attiva e

operante nella rinata città. A tale anno rimontano due lettere indirizzate al

vescovo dalla Segreteria della Real Camera circa una specifica richiesta fatta

da un assegnatario del beneficio, Giuseppe Silipo da Tresilico nonché dal di

lui padre Giovanni, tendente a ottenere una deroga dalla rigida normativa

imposta dal pio legato. Da una prima dell'11 aprile si viene ad appurare

come il Silipo «nominato dal lui erede al godimento di docati 6 il mese lasciati dal

Testatore per poter un giovane studiare» a Napoli o a Roma, stimando la

somma elargita insufficiente all'esigenza, ma, in verità, anche perchè

trovavasi in atto alunno nel Seminario Diocesano, avesse fatto domanda di

poter usare ugualmente della stessa ottemperando allo studio in quel-

l'istituto. La petizione doveva essere stata, certo, avallata dall'Ordinario se

dalla successiva missiva del 22 dicembre si viene ad apprendere poi come il

presule, tra tante cose, avesse specificatamente comunicato che la medesima

eccezione era stata accordata per l'addietro ad altro studente in forza ancora

a quel tempo al predetto Seminario. In proposito la Real Camera replicava

che non avrebbe trovato nulla in contrario, però la cosa non avrebbe dovuto

arrecare pregiudizio alcuno ad altro richiedente del beneficio disposto a

recarsi a Napoli o a Roma, qualora esistesse e a tal uopo doveva farsene

garante lo stesso vescovo57.

Appena due anni dopo, il 6 febbraio 1804, in un rapporto conservato in

minuta nell'archivio curiale oppidese e inviato a Catanzaro all'avvocato

fiscale d. Luigi Calenda l'ordinario diocesano mons. Tommasini così

relazionava sul monte:

«Da' Governadori del medesimo Monte dei Pegni è amministrat'ancora un

legato Pio del fu D. Lorenzo Amato Grillo di questa Città. Egli il dì 20 agosto 1767

lasciò un suo fond'oliveto sito nelle pertinenze di Varapodio, colla Legge, che fusse

amministrato da' Governadori del Monte pro tempore, e che colla rendita

57 AVO, fasc. Tresilico.

70

proveniente dal detto fondo, della quale si deve tenere un conto separato si dovesse

mantenere agli studii in Napoli, o in Roma uno, o più giovini di talento della Città,

e de' suoi casali ... con pagarsi sei ducti al mese per cadauno. Comandò però che

detti ... dovessero prima ottenere la nomina del lui erede, che oggi è D. Giuseppe

Franco Grillo abitante in Seminara. Tanto si praticò sino ad ora esattamente,

cosicchè in atto vi sono in Napoli con tal legato due giovini di questa Città, uno

nomato Vincenzo Zillini, applicato alla medicina, e l'altro D. Pasquale Rossi,

applicato alla chirurgia».

I due giovani Rossi e Zillini, di cui al presente documento, riusciranno

parecchio profittevoli e verranno a laurearsi e ad esercitare la professione in

Oppido. Lo Zillini, in particolare, che, nato a Oppido nel 1780, morrà a

Lubrichi nel 1866, sarà ricordato quale autore di parecchi manoscritti

d'ordine sanitario.

Intorno al 1811 d. Giuseppe Franco Grillo rivendicava dal Consiglio

d'Intendenza di Monteleone una dichiarazione nella quale si ribattesse

ch'era prerogativa sua e dei discendenti il «patronato attivo e passivo del

Monte de' giovani fondato dal di lui Avo materno Sig. Lorenzo Amato Grillo»58.

Indubbiamente, le vicende successive alla costituzione dell'ente non furono

delle più felici e il terremoto prima, con il forzato trasferimento degli

Oppidesi nella nuova realtà urbana, l'occupazione militare francese del

regno poi, non permisero certo un regolare iter. Difatti, come si legge

nell'art. 2 di un ennesimo atto di rifondazione promulgato nel 1908, il

legato era stato «reso esecutivo con deliberazione del Consiglio Generale degli

Ospizi del dì 11 Aprile 1819». Nel 1862, comunque, dopo l'elaborazione della

Commissione di Beneficenza, cui era stata affidata così come le altre, la

creatura di d. Lorenzo Amato Grillo passò alla Congregazione di Carità,

che susseguentemente, come detto, provvide a darle un nuovo

ordinamento. Nell'art. 3 del 1° capitolo dello statuto del nuovo carrozzone

ufficializzato il 27 agosto 1870 si fece, infatti, presente che entrava a farne

parte anche il «Monte dei Giovani fondato con testamento del Sig. Lorenzo

Amato Grillo del dì 27 gennaio 1767 che ha per iscopo il mantenimento di due

giovani che vogliono attendere allo studio delle scienze, delle arti, e scuola

tecnica»59. Ma, in verità, sin dal 2 ottobre 1864 si discuteva in consiglio

comunale sulle modifiche da apportare ad un testo proposto in

58 È inserito nel medesimo documento, di cui sopra. 59 Si custodisce del pari in ACO.

71

precedenza. Ecco alcuni particolari interessanti emersi dalla delibera

approvata all'unanimità60.

A quel tempo il monte veniva amministrato con regolamento che aveva

avuto l'assenso sovrano il 12 aprile 1828, dato che «le tavole di fondazione si

dispersero tra le rovine del tremuoto del 1783». Era stimata cosa giusta che il

privilegio della preferenza fosse ancora riservato alla famiglia Franco «per

non volersi disconoscere con nera ingratitudine la volontà del fondatore». L'art. 2,

che recitava «sarà adebito al mantenimento di due giovani che vorranno attendere

allo studio di scienze ed arti liberali», andava così modificato: «Sarà adebito al

mantenimento dei due giovani che vorranno attendere allo studio delle scienze tutte

che possono avere il nome di scienze esatte, e che potranno dare una professione

utile al proprio paese, e vantaggio ai loro interessi, e quelle ancora delle belle arti,

della scuola tecnica che tiene nel mezzo tra le prime e le seconde». Il beneficio, che

poteva venir concesso a giovani che dovevano aver completato «con plauso

gli studi preliminari e preparatorio e ciò mediante l'esame avanti la Congregazione

di Carità con l'intervento del Sindaco, e dei deputati della pubblica Istruzione del

Comune», consisteva nell'elargizione in rate mensili di lire 425 all'anno per

cinque annate.

Lo statuto del 15 aprile 1908, che risulta avallato dalle firme degli

amministratori dell'epoca: Gaetano De Zerbi presidente, Raimondo Zerbi,

Ferdinando Ruffo, Francesco Contestabile, Giuseppe Grillo, Antonio Zito,

D. Malarby segretario e che certamente ricalcherà i precedenti, pur

rapportando il tutto ai nuovi tempi e distinguendo due partite di benefìci,

in buona sostanza non fa che riflettere l'antico testamento di d. Lorenzo

Amato Grillo, che richiama ad ogni piè sospinto. Ma ecco per sommi capi,

di seguito, quanto da quello si ricava.

Il monte ha nel suo programma la concessione di tre borse di studio a

«giovani poveri ed onesti». Una prima, di lire trecento, che si traggono dalla

fondazione Grillo, viene data «ai giovani di Oppido, Tresilico e Varapodio61; che

vogliono attendere allo studio delle lettere, delle scienze e delle arti liberali, in

qualunque città sede di studi secondari o universitari con preferenza sempre a

giovani che abbiano relazioni di parentela col benefattore». Le altre due, di lire

500 ciascuna e di libera concessione della Congregazione, vanno invece «a

60 ACO. 61 Come si può notare, non si menzionano più Messignadi e Zurgonadi, ma questi

due ex-casali ormai facevano parte integrante del Comune di Oppido Mamertina.

72

giovani di Oppido che attendono allo studio delle lettere, delle scienze, comprese

quelle agrarie ed allo studio delle arti liberali». Il capitale su cui si basa la borsa

Grillo ammonta a £. 7.722 e dà una rendita annuale di £. 347,49, quello

offerto dalla Congregazione a £. 21.933, che producono di netto £. 987

all'anno. La prima viene accordata su proposta di un successore di d.

Lorenzo, le altre direttamente dalla Congregazione. I giovani prescelti

godono del beneficio «per una durata necessaria al compimento di un corso

regolare di studi e ciò fino al conseguimento della laurea o del diploma a secondo

degli studi a cui egli si è dedicato». Essi non devono aver meno di 15 anni e più

di 20 di età per quanto riguarda il lascito Grillo o più di venti per ciò che

concerne invece il resto. Possono comunque tutti appartenere a famiglie

povere relativamente al loro grado sociale. Quest'ultimo comma dell'art. 16

del titolo III sembrerebbe a tutta prima lasciar intendere una prelazione nei

confronti delle classi nobili decadute, ma non è così perchè l'art. 19 del

titolo IV soggiunge poi chiaramente che «Fra i concorrenti, saranno sempre

preferiti coloro i quali avranno maggior diritto, si per i requisiti intellettuali e di

studio quanto di moralità e sono relativamente agli altri più poveri». Alla fine lo

statuto prevede la sospensione della corresponsione delle rate, dopo un

primo richiamo, a quegli studenti che non riusciranno profittevoli nello

studio.

Soppresse le Congregazioni di Carità, il monte passò sotto

l'amministrazione dell'ECA e, dopo la scomparsa di quest'ultima, avvenuta

poco tempo fa, venne a dipendere direttamente dal Comune, vale a dire

che, come tutte le altre opere pie, finì completamente di esistere sopraffatto

dai tempi nuovi e dalla riduzione di un capitale divenuto ormai un

provento alquanto irrisorio e, quindi, incapace di fornire il minimo sussidio

a chicchessìa.

Dei 6 ducati mensili, poi espressi in lire, disposti inizialmente nel

lontano 1767 da d. Lorenzo Amato Grillo, usufruì nel tempo uno stuolo di

giovinetti amanti dello studio, ma che non nuotavano nell'oro. Tra i tanti, ci

piace soprattutto ricordare il celebre Alessandro Longo, compositore e

professore di musica al Conservatorio S. Pietro a Majella di Napoli, nativo

di Amantea, ma residente per un certo periodo a Oppido al seguito del

padre, Achille, direttore della locale banda musicale, che nel 1883 fruiva

appunto di un assegno di studio concessogli dal monte dei giovani62. Il

62 Delibere del Consiglio Comunale di Oppido Mamertina (ACO).

73

particolare ci rende certi che l'opera nei secoli non tradì le aspettative di

quel pio benefattore e che gli amministratori che vi si succedettero furono

sempre sensibili, per quanto era nelle loro possibilità, ad aiutare non

soltanto i giovani oppidesi benemeriti, ma pure quelli provenienti da altre

località e domiciliati temporaneamente in città, non accampando mai

pretese di campanile e badando unicamente al merito e alle condizioni

economiche dei candidati.

Un Candido Zerbi chierico (1771)*

Il 20 aprile 1771 a Santa Cristina il sig. d. Geronimo Zerbi del qm. d.

Candido si recò dal notaio, onde costituire al proprio figlio d. Candido un

decente patrimonio, a fine di chiericarsi. Donava egli a tale scopo uno

stabile alberato di fronde in contrada Cerasìa, altro simile in c.da Melessaria

e altro ancora con fronde, olive e frutti nella c.da Carigliano. La donazione

contemplava la condizione che d. Candido, ove si fosse fatto sacerdote,

avesse potuto godere dell'usufrutto degli stessi e che, in caso negativo, tutto

sarebbe ritornato in potere dello stesso d. Geronimo.

Se dobbiamo pensare a una successione logica del casato, è certo che d.

Candido non fu mai prete. Infatti, da lui sarà disceso altro d. Geronimo

(Girolamo), che dopo il grande flagello se ne passò a Oppido, dove a sua

volta ebbe un figlio di nome Candido, precisamente quegli cui dobbiamo la

prima importante storia della città e dei suoi vescovi63.

Lavori nel convento delle clarisse (1771)

Non dovevano essere gran che rispondenti alle finalità prefissate i locali

che nel 1757 erano stati consegnati all'ordine delle clarisse se, appena 14

anni dopo, si dovette ricorrere a una serie di lavori di ristrutturazione con

contratto stipulato con il sig. Pasquale Giamba di Maratea, ma domiciliato a

Catanzaro. Era il 25 marzo del 1771 quando il Giamba, unitamente al

procuratore del monastero, il mansionario d. Filippo Pascalino e ai testi

diacono Filippo Zinnamusca, Francesco Saverio Ganeri e Nicola Valente, si

* Pubblicato in "La Città del Sole", a. VI-1999, n. 6, p. 19. 63 SASP, Libro del prot. di nr. Diego Francesco Argirò, Acquaro, a. 1771.

74

portarono dal notaio per affidargli la convenzione privata intercorsa fra di

loro. Molto strano, ma detta risulta datata al 1772.

Vediamo gradatamente quali si evidenziavano nel documento le opere

commesse a quell'impresario e, conseguentemente, le forme di pagamento

stabilite. Innanzitutto, bisognava «fare li Palastri sotto l'orchestra per voltar la

lamia dell'orchestra, e lamia del Belvedere, con li mura alzati su l'Archi, e deve

essere il Belvedere di palmi nove alto». Quindi, occorreva sistemare nel tempio

cinque finestre, due propriamente davanti all'altare maggiore, le restanti

secondo il disegno ch'era stato presentato. Faceva d'uopo appresso calare le

tre cappelle, la maggiore e le due situate a lato, nelli loro luoghi, sempre

seguendo il disegno. Si doveva serrare la porta della sacrestìa e «farla dove

caderà proporzionatamente; situare la grada di ferro del communichino»,

sicuramente lo spioncino attraverso il quale le suore comunicavano con gli

esterni e fare il confessionario (confessionale) e unirlo con il muro interno;

allestire la lamia finta e sistemare l'ordine impalastrato, tutto secondo disegno;

fare due orchestrini di stucco fino a raggiungere il parapetto; piazzare le

gelosìe e le vetrate e stuccare i due altari laterali.

Il monastero era nell'obbligo di fornire tutte le gelosìe e le vetrate, calce,

pietra, arena, tavoloni, mattoni, chiodi, canne, storte, cerchi e corde adatte

nella gisterna, tavoleri, passa muri, ponti e altro legname che sarebbe occorso.

Si assumeva, quindi, l'impegno di pagare 280 ducati, consegnandone per

caparro e parti di prezzo inizialmente 120. Della restante somma, cento si

dovevano dare a poco a poco secondo necessità e fino a che non fosse stata

terminata l'opera di rustico della chiesa, comprendendo in essa la lamia di

ossatura, ed increspatura, con eccezione del belvedere, i cui lavori avrebbero

dovuto aver fine entro l'aprile dell'anno successivo. Solo allora si sarebbero

consegnati i 60 ducati che rimanevano, ma sempre a poco a poco e fintanto

che l'opera non fosse stata completata. Comunque, il rustico era da

terminarsi entro il giugno dell'anno in corso, lo stucco per il luglio

dell'anno susseguente.

Da parte sua il Giamba, a cui il monastero doveva peraltro assicurare

camera, letto e lume - era l'uso - si dichiarava obbligato a portare a sue

spese Fabricatori, mastri d'Ascia, manoali, e stoccatori 64.

64 SASP, Libro del prot. di nr. Vincenzo Fragomeni, Oppido, a. 1771, ff. 12-12r.

75

Lavori nel convento dei minori osservanti (1772)

Il 30 ottobre 1772, rilevandosi la necessità di dotare di un portale la

chiesa annessa al convento dei frati minori osservanti, si pervenne alla

stipula di un contratto tra il procuratore d. Marcello Grillo e alcuni mastri

di Serra, Bruno Pisani, Nicola Amato e Vincenzo Salerno. Questi si

offersero di «fare a proprie spese la porta della chiesa di detto convento, giusta il

disegno formato da essi mastri», che venne peraltro consegnato al notaio, ma

alquanto più alta di quanto in quello delineata e tutto per il prezzo di 60

ducati.

I frati, come dall'atto intercorso tra le parti, erano tenuti a fornire pietre,

lavorate, ed intagliate più logicamente camera, letto, e lume, mentre gli

artigiani serresi si obbligavano a iniziare i lavori nel mese di dicembre e,

quindi, completarli entro tutto maggio del 1773. Per intanto, si ricevevano

10 ducati di acconto, chè il resto lo avrebbero ottenuto gradualmente

durante il periodo d'impegno lavorativo. Oltre agli interessati, presero

parte alla formazione del rogito quali testi il canonico d. Giuseppe Martelli

e il chierico Nicola Crisafi. Dei mastri fu solo Salerno a firmare con nome e

cognome, gli altri poterono apporre appena il rituale segno di croce65.

La famiglia Zerbi titolare di suffeudi nella Piana

Nel 1786 il dott. Domenico Antonio Zerbi venne a indirizzare alla

feudataria principessa di Gerace e duchessa di Terranova d. Maria Grimaldi

Serra una supplica tramite rogito del notaio Amato Lenza di Varapodio.

Nell'officiare la richiesta dell'investitura di un suffeudo comprendente tre

salmate di terre più due moggi in località Testa di Grasso e altre a

Carbonara, tutte in territorio di Terranova, ne partecipò l'origine della

concessione nonché una sequela di passaggi di mano, come appresso

indicato.

Nel 1692 la principessa (sic!) di Terranova assegnò il suffeudo a d.

Caterina Macedonio, bisavola del supplicante, con atto di nr. Antonio Lucà

65 SASP, Obblighi di nr. Vincenzo Fragomeni, Oppido, a. 1772, ff. 157-158.

76

di Oppido dietro il pagamento dell'adoa in ragione di 2 carlini sopra il

primo fondo e di nove sul secondo. Deceduta che fu la prima intestataria,

ne entrò in possesso il figlio d. Niccolò Francesco Zerbi, avo dello stesso,

cui seguì a sua volta il figlio d. Pasquale Baylon, passaggio attestato da

strumento del notaio mag. Giuseppe Antonio Tropeano di Varapodio.

Deceduto l'ultimo possessore il 5 febbraio 1783 nel frangente del grande

flagello, ne richiedeva l'assegnazione il suo unico figlio, appunto d.

Domenico Antonio, il quale si diceva pronto a soddisfare il versamento di

relevio e adoa in relazione a ogni anno.

La principessa Grimaldi, ricevuta la supplica, in data 20 aprile dello

stesso anno da Casalnuovo dava incarico al suo agente generale, anche lui

un oppidese, d. Marcello Grillo, d'informarsi in merito e fornirle notizie

dettagliate, onde poter procedere alla concessione richiesta. La risposta di

quegli risulta del tutto immediata, appena del giorno dopo.

D. Marcello venne a mettere a parte la nobildonna che aveva egli avuto

modo di vedere l'atto espresso dalla di lei madre nel 1763 al fu d. Pasquale

per refuta del padre e che d'allora quegli aveva sempre curato di pagare le

tasse dovute fino al 31 agosto 1780. Le terre, cui ci si riferiva, erano in

territorio di Casalnuovo (ormai questa aveva soppiantato in pieno la

distrutta Terranova) e si misuravano in 26 tumolate e, secondo gli

estimatori che aveva contattato, recavano 40 tumoli di grano avenoso

all'anno comparabili a 40 ducati (carlini 10 a tumolo). Dette potevano be-

nissimo essere devolute al richiedente dietro versamento di metà della

segnalata rendita66.

Militari di varia risma *

Gli atti notarili ci fanno incontrare molto spesso con soldati d'ogni

genere, avvertiti soprattutto mentre sono alle prese con rapporti d'ordine

amministrativo. Dei tanti casi visionati diamo soltanto qualche esempio.

Nel marzo 1616 i sindaci di Oppido, d. Ferdinando Capuano e Marzio

Cananzi consegnavano 20 carlini e un grano a testa tramite il cassiere

Giuseppe Girardis al caporale Pompeo Chitì e ai soldati Francesco Pleitano,

Francesco Costarello, Antonino Filomeno, Francesco Curigliano, Lorenzo

66 SASP, Libro del prot. di nr. Amato Lenza, Varapodio, a. 1786, ff. 31-32v. * Pubblicato in "Storicittà", a. IX-2000, n. 89, pp. 52-53.

77

Fossari, Gerolamo Condo, Gio. Santa Cruci, Reante Politello, Marco

Antonio Straccoticari, Antonino Minasi, Vincenzo Frisina, Gio. Pietro Lano,

Muzio Spatafora, Alfonso Chiliverto, Gio. Paolo Fossari, Domenico

Carbone, Pietro Giacomo Gangemi tutti intruppati nel battaglione della

paranza di Terranova e abitanti tra Oppido e Messignadi. Dovevano essi

recarsi a Reggio e i sindaci li avrebbero muniti delle armi. Lorenzo

Chiliverto si ebbe un archibugio e una spada e, cosa veramente curiosa, era

in obbligo di restituire il tutto in caso di morte o abbandono della milizia.

Per quanto riguarda il primo non credo proprio che potesse ottemperarvi di

persona67!

Il 2 novembre 1625 i sindaci di Oppido, d. Gio. Leonardo Grillo e

Giovanni Domenico Demana, unitamente ai soldati a piedi Giulio

Costantino, Giovanni Santacruci e Gerolamo Cundò, riferivano al notaio

come i precedenti amministratori, in seguito a ordini reali, avessero

consegnato a detti militari e ad altri loro compagni della squadra di Oppido

una quantità di denari per l'acquisto di archibugi e per servire Sua Maestà,

con l'impegno di restituzione delle armi una volta abbandonata la milizia o

per altro comando dei superiori. Essendo stati per nuovo ordine assegnati

quali muscetteri (moschettieri) della squadra i predetti militari, i sindaci

venivano ad affidare loro i «muscetti l'uno con li fasci a forcina con li altri due

con li traversi cannelle et forcine» a titolo sempre di prestito68.

Due persone nel 1740, onde sfuggire al carcere, pensarono che fosse

bene assentarsi, cioè arruolarsi, per servire fedelmente le truppe. Si trattava di

Giuseppe Barreca del casale di Pavigliana e Giuseppe Amante di quello di

San Lorenzo, in stato di arresto nel castello di Sinopoli in quanto «complici e

delinquenti sopra del furto d'una giumenta» avvenuto nello stato di Oppido.

Ve li avevano tradotti i soldati di campagna della squadra di Sinopoli su

incarico del capitano della stessa e del viceconte della città e stato di

Oppido. Detti si decisero al gran passo il 5 ottobre di quell'anno

impegnandosi con atto notarile alla presenza del luogotenente dello stato di

Sinopoli, d. Giacomo Pentifallo e del caporale Nicolino Epifanio, che

apparteneva al battaglione secondo Real Borbone comandato dal capitano

Basta e acquartierato a Reggio69.

67SASP, Libro del prot. di nr. Fossare ..., a. 1616. 68 Ivi, nr. Cananzi, a. 1625. 69 Ivi, nr. Giuseppe Rechichi, Santa Eufemia, a. 1740.

78

Sfatata la falsa voce sul palazzaccio di Oppido (1787)*

Sono tantissime le documentazioni che attestano in modo chiaro come il

cosiddetto palazzaccio Grillo di Oppido non sia stato frutto

dell'usurpazione di una piazza, peraltro mai esistita, ma, purtroppo, quanto

continua a essere propalato anche da gente non illetterata è duro a morire.

Tra la panzana e la realtà, nella gran massa della popolazione è sempre la

prima a prevalere. A tagliare decisamente la testa al toro è un rogito del 12

aprile 1787, che testimonia di tutto punto sull'avvìo della costruzione

incriminata, segnalato al 1786 e sul suo probabile completamento, avvertito

nell'anno successivo.

In quella prima data si trovarono dal notaio Antonino Vorluni, della

vicina Tresilico, il dott. sig. d. Girolamo Grillo e d. Francesco Migliorini

(quest'ultimo sarà poi ministro di Ferdinando IV e verrà a morte in esilio a

Palermo nel 1811), Deputati per la pianta della nuova Oppido e

dell'erezione dei singoli fabbricati e sistemazione di strade, i quali, alla

presenza del giudice ai contratti Diego Alloro e dei testimoni d. Francesco

Germanò, d. Domenico Carbone di Paolo, Pasquale Chiliberti, d. Antonino

Palumbo e d. Domenico Morizzi, vollero dichiarare quanto segue.

Il 3 febbraio dell'anno precedente, di domenica, comparve il sig. d.

Giuseppe Gobbi, Ingegnere Militare incaricato per Oppido nuova e con una

pianta in mano si portò in una isola della parte superiore, dove attendevano gli

stessi deputati e notaio con molte altre persone. Era suo espresso compito

precisare il sito del futuro palazzo di d. Giuseppe M. Grillo, per cui, usando

il compasso e prendendo le misure che occorrevano, «stabilì che il detto

palazzo di esso Sig. Grillo, dovesse situarsi nel luogo dove oggi si vede», quindi

dove ne incombeva fino a poco tempo fa lo scheletro e oggi ci si avvede

della sua completa ristrutturazione. Fissati i limiti in palmi 94 in lunghezza

«da levante e greco di rimpetto tra mezzogiorno e libeccio», cioè circa m. 23,50 ed

in palmi 120, quindi m. 30, per sopra seu scirocco in larghezza, il Grillo seduta

stante diede ordine a una moltitudine di operai, che appositamente erano

convenuti, di procedere «allo scavo del fosso per il pedamento, e situò molti e

* Pubblicato in "Storicittà", a. VII-1998, n. 72, pp. 59-60.

79

diversi travi». All'avvìo ufficiale dell'opera seguirono poi i lavori sistematici

per il suo completamento, che furono condotti senza minimamente disco-

starsi dalla pianta prefissata e dall'assegno dato dal Gobbi.

Perchè mai i deputati sentirono il bisogno, un anno dopo gli eventi

narrati, di contattare il notaio per ribadire che il Grillo si era comportato del

tutto in riga con le disposizioni delle autorità nell'erezione della sua

magione nell'isola stabilita? Con tutta probabilità, dovevano essersi

determinati proprio allora i primi screzi con l'apparato ecclesiastico, cui era

toccato un terreno adiacente fissato per fabbricarsi chiesa ed episcopio,

screzi che diedero il via a una lunga controversia con sopraffazioni da ambo

le parti conclusasi dopo circa 72 anni con pari soddisfazione dei

contendenti. In quel l787 la diocesi, orbata del suo vescovo, era diretta da

un vicario generale70.

I Grillo, dopo varie traversìe, raggiunsero un bonario accomodo col

vescovo Coppola, procuratore del Seminario, il 15 luglio 1847 presente il

notaio Domenico Demana, che registrò il relativo atto il 16 marzo dell'anno

dopo, ma il dissidio, stante la morte del presule, intervenuta nel 1851, si

trascinerà ancora fino all'epoca dell'episcopato di mons. Teta. Se il

documento, di cui sopra, ci conferma nella convinzione che la nobile

famiglia fu nel pieno diritto di costruire il palazzo sul luogo in cui si trova,

una circostanza ci fa mutare di opinione circa la maledizione comminata

contro la stessa, che, in assenza di prove, avevamo ritenuto inesistente e

improbabile. Fra le documentazioni facenti parte del carteggio in possesso

del notaio era compreso, infatti, «Un giudizio petitoriale introdotto dal Sig.

Grillo contro il vescovo, avendo per oggetto la revoca dell'interdetto, la demolizione

delle fabbriche e la chiusura delle aperture fatte nelle stesse fabbriche nuove

dell'episcopio etc. »71.

70 SASP, Libro del prot. di nr. Antonino Vorluni, Tresilico, a. 1787. 71 AVO, atti vari; LIBERTI, Momenti e figure ...

80

Il formaggio di Catanzaro sulle mense della Piana

alla fine del secolo XVIII (1796)*

Al tempo dell'antico regno meridionale il formaggio, che oggi

conosciamo come Catanzaro, faceva sicuramente la sua apparizione sulle

tavole dei calabresi che potevano permetterselo quale prodotto forestiero

più apprezzato. Per il resto bisognava accontentarsi del nostrano, umile

"pecorino". Un'obbligazione del 29 luglio del 1796 ci fa conoscere la

trattativa intercorsa tra un fornitore proveniente da quella città, Raffaele

Greco ed il sindaco di Oppido del tempo, d. Francesco Saverio Grillo.

Il Greco si offriva all'università di Oppido di consegnare ai Bottegari del

luogo il formaggio di Catanzaro fino a tutto aprile dell'anno successivo.

L'offerta prevedeva la vendita di una confezione di ottima e buona qualità a

calli 10 l'oncia fino a tutto aprile ed a 12 dal primo di dicembre a tutto

aprile 1797. Per cautela egli ne lasciava al bottegaro della stessa 50 rotoli per

allora in consegna a Domenico Loria, 43 rotoli e 3/4 a Ferdinando

Cicciarello e 40 a mastro Onofrio Donnarumma (era questi sicuramente uno

dei tanti "amalfitani" calati in zona a rinvigorire il commercio nei nostri

paesi)72.

Il cancelliere della curia vescovile poeta sconosciuto (1830)

Il 3 dicembre 1830 il padre Serafino Torquato, correttore nel convento

paolotto di Polistena, personaggio molto quotato nel suo ordine, indirizzò

da quella cittadina un biglietto a uno Stimatissimo Amico oppidese, che

amava verseggiare e il cui estro prima d'ora era del tutto ignorato, d.

Giuseppe Laface, cancelliere della locale curia vescovile. Ecco quanto

interessa ai fini dell'evidenziazione dell'attività letteraria del Nostro nelle

parole stesse del monaco di stanza a Polistena: «Non posso esprimere colla

* Pubblicato in "La Città del Sole", a. VII-2000, n. 3, p. 18. 72 SASP, Obblighi di nr. Teodosio Violi, Lubrichi, a. 1796, ff. 7v-8.

81

penna il piacere ho provato nel ricevere i vostri graziosi versi, per aver da' stessi

rilevato l'ottimo stato del vostro ben'essere ...»73.

73 AVO.

82

INDICE

Il monte di pietà (1609) pag. 3

Ripercussioni dell’episodio di Masaniello (1648) 9

Uno squarcio di vita nobiliare nel ‘600 10

Nomina dei deputati del tabacco (1664) 24

Sequestro di seta (1692) 25

A un quarantennio dal Grande Flagello 26

La nobiltà 26

La classe dei civili 32

Il clero 35

Tra professioni e mestieri 41

Il popolo minuto 52

Strano, improvviso, ordine di convocare il parlamento

per la nomina di un nuovo sindaco a Oppido (1757) 56

I Grillo nobili in un testamento del principe di Cosoleto (1753) 58

Come viveva un nobilotto del ‘700-D. Francesco Grillo (1718-1757) 61

Il monte dei giovani (1767) 67

Un Candido Zerbi chierico (1771) 75

Lavori nel convento delle clarisse (1771) 75

Lavori nel convento dei minori osservanti (1772) 77

La famiglia Zerbi titolare di suffeudi nella Piana 77

Militari di varia risma 78

Sfatata la falsa voce sul palazzaccio di Oppido 80

Il formaggio di Catanzaro sulle mense della Piana alla fine del secolo 82

Il cancelliere della curia vescovile poeta sconosciuto (1830) 82