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Litografia Diaco snc
tel. 0964 - 670270
Bovalino (RC)
Giugno 2001
* Un primo volume con lo stesso titolo è uscito nel 1981 per le Edizioni
Barbaro di Oppido Mamertina.
in copertina: l'ingresso all'antica Oppido da sud.
Il monte di pietà (1609) *
Subito dopo Seminara, nel 1609, la costituzione di un monte di pietà
nelle terre della Piana fu avviata a Oppido a opera dell'università, pure se il
merito principale spetta anche nella seconda occasione a una sola persona,
il concittadino Marcello Albanese, il quale, deceduto nell'anno, aveva
lasciato per testamento allo scopo un legato di 1000 ducati, di cui la stessa
era debitrice nei suoi confronti. I particolari ci sono tutti nella lettera di
richiesta, che, in successione, il reggente del collaterale venne a rimettere il
29 dicembre al cappellano maggiore, nonché nella relazione che
quest'ultimo spedì al suo interlocutore due giorni appresso, il 311.
Non possediamo documentazioni atte a illuminarci sul primo periodo di
sopravvivenza dell'ente, ma è da presumere che, come tutti gli altri fondati
nella regione, sia presto entrato in uno stato di disagio, che, nel caso, è da
imputare soprattutto al cattivo sistema di gestione e al vivo desiderio dei
vescovi di dirottarne i cespiti verso istituzioni di loro diretto dominio. Per
conoscere l'iter in almeno un paio di secoli dobbiamo accontentarci di
ripercorrere le vicende alla luce di quanto tramandato, non sappiamo con
quanto spirito di parte, dagli ordinari diocesani con le loro relationes ad
Limina.
Secondo mons. Montano, il primo a farne cenno, il monte di pietà
oppidese, che, per i prestiti, godeva dell'apporto di 800 ducati di numerario
più altri 120 annui provenienti da censi, nel 1637, ad appena 28 anni dalla
sua apparizione sulla scena, non inseguiva propriamente il fine per cui era
stato creato. Il suo fondatore lo aveva ideato coll'intenzione di andare
incontro alle necessità dei poveri e allontanare le evenienze di calamità, ma
era successo che, a causa della carente amministrazione da quegli
commessa all'università, che vi provvedeva con dei governatori elettivi, si
rivolgesse in buona sostanza contro coloro che doveva invece proteggere. Si
rivelava, quindi, cosa altamente saggia per la pubblica utilità e la salvezza
delle anime che, stimato il denaro in contanti e ridotto l'acquisto di censi, la
parte residua degli interessi ricavabili da censi e beni stabili, da statuirsi ad
* Pubblicato in "Banca Popolare Cooperativa di Palmi", a. I-1993, n. 1, pp. 54-56;
"Rivista Storica Calabrese", N. S., a. XX-1999, nn. 1-2, pp. 110-125. 1 ARCHIVIO STATO NAPOLI (=ASN), Cappellano Maggiore, fasc. 1200, inc. 1, f. 163.
2
arbitrio del vescovo, fosse devoluta ai poveri, ai quali sarebbe stata
consegnata tramite alcuni uomini pii di scelta del medesimo. Si stimava
altresì utile che un ulteriore resto potesse venire convertito in un compenso
da offrire al pubblico maestro che insegnava ai grammatici2.
Il Montano, che nella relatio del 1644 aveva scritto di essersi preoccupato
onde eliminare il grave fenomeno dell'usura di promulgare un editto3,
venne ancora a trattare dell'istituzione in una successiva comunicazione alla
santa sede del 16554. In detta tenne a far presente che a Oppido era in
funzione un monte, che, più che inutile, era pregiudizievole, per cui
sarebbe stato particolarmente saggio devolverne i beni, che ammontavano a
3.000 scudi, a beneficio del convento delle donne monache. A questo fine
non aveva mancato di sollecitare un deliberato dell'università, che in un
pubblico parlamento tenutosi a bella posta il 25 marzo del 1654 si era
espressa a favore della proposta.
Nel 1659 si era ancora a punto e daccapo. Queste le informazioni fornite
a Roma dal Montano sempre sulla "vexata quaestio". L'organismo era nato
per volontà di laici e l'Albanese aveva deciso che fosse l'università a dover
scegliere i governatori incaricati di condottarlo. Possedeva un reddito di
annui censi calcolabile in circa 180 ducati su un capitale di 2.000 e un
credito di quasi 2.000 ducati titolo mutuo. I cespiti non erano, certo, cosa
trascurabile e quello aveva davanti a sé sicuramente un avvenire.
Purtroppo, però, i governatori avevano dimostrato di non essere all'altezza
del compito, per cui si verificava che, invece di andare incontro alle
necessità dei poveri, il monte si rivolgesse a tutto loro danno, risultando
pernicioso perfino per le anime5.
Dal 1659 e per ben 40 anni le relationes tacciono all'intutto. Occorrerà,
infatti, attendere il 1699 e il vescovo Bisanzio Fili perchè ricominci
l'interminabile vertenza. Ê soprattutto nel resoconto fatto a dicembre che si
stagliano evidenti le opposte posizioni. Scriveva allora il presule che l'ente
era amministrato da governatori laici, i quali da molto ormai non esibivano
più i conti né ai razionali della comunità, a cui solo spettava la loro
2 ARCHIVIO SEGRETO VATICANO (=ASV), relationes ad Limina, Oppiden, vescovo
Montano, a. 1637, f. 670. 3 Ivi, a. 1644, f. 332. 4 Ivi, a. 1655, f. I°. 5 Ivi, a. 1659, f. I°.
3
elezione, come dagli stessi si pretendeva, né a un incaricato vescovile, come
invocava l'apposita norma del concilio di Trento. Era tale una situazione
incandescente, che aveva già originato tra il fu mons. Ragni e il barone una
lite, della quale ancora non si vedeva la fine6.
Reiterava nel 1702 il Fili dicendo che i ministri del pio istituto da tempo
rifiutavano di presentare i consuntivi presumendo che non toccasse loro
farlo in persona di un revisore scelto dal vescovo e che a tal motivo era
insorta controversia tra il Ragni e il feudatario, che, non essendosi ancora
risolta, aveva procurato parecchi danni7.
Assai curioso e non sappiamo quanto credibile il ragguaglio circa il
funzionamento del monte nella relatio del 1705. Riferiva sempre il Fili che i
bilanci non erano stati ufficializzati da vari anni con il pretesto che gli
amministratori non volevano farlo in presenza del vescovo, «ut et de iure, et
consuetum erat» e che in passato si era verificato un increscioso incidente.
Avendo un viceconte non meglio precisato estratto i libri
dell'amministrazione dalla casa di un certo sacerdote, fu subito
scomunicato e morì senza punto pentirsene. Da tale evento si originò la so-
spensione dei rendiconti, cosa che procurò molti danni. In verità, il fatto sa
più di favola che di vita vissuta8.
Proteste e recriminazioni si susseguono nelle relationes Perrimezzi del
1715 e Mandarani del 1751, entrambe attestate sulla falsariga delle
precedenti. Non così in quella del 1772 di mons. Spedaliere, ultimo vescovo
della vecchia Oppido, dove si tenne a dichiarare che il monte risultava
governato senza il minimo sospetto di praticare l'usura dalla potestà laica e
fino ad allora aveva dato dimostrazione di comportamento decoroso ed
encomiabile. Le ultime proposte vengono a dirci molto chiaramente o che
tra vescovo e università era stata finalmente fatta la pace oppure che
l'autorità ecclesiastica aveva rinunziato a rivendicare un diritto invano in-
seguito per quasi due secoli9.
6 Ivi, vescovo Fili, a. 1699, f. 182. 7 Ivi, a. 1702, f. 124. 8 Ivi, a. 1705, f. 199v. 9 Ivi, vescovo Perrimezzi, a. 1715, passim; vescovo Mandarani, a. 1751, f. 298;
vescovo Spedaliere, a. 1772, f. 362.
4
Le schede notarili ci danno i nomi di alcuni dirigenti ed espongono un
minimo di attività per il primo periodo, ma, logicamente, non possiamo che
soffermarci su qualche caso.
Nel 1649 la nobildonna Laudomia Grillo
«dice tenere in pegno nel Sacro Monte della Pietà alcuni mobili dotali e, cioè:
un padiglionne di tela a tre pezzi con la rizza di filo annucato, un padiglione di tela
con rizza di seta negra, un padiglione di tiletta di seta verde rigata a tre pezzi con il
Cappelletto, e Cupertuni usato, un misale di campo usato dotale, una cortina di
seta gialina e capicciola usata, una faldiglia di seta gialina e capicciola usata, una
faldiglia di seta gialina di raso, con gruppi d'argento, una faldiglia alleonata di
spagna di seta guarnita d'oro, et argento, una robba di velluto negro guarnita
d'oro, una di drappo di seta bianca di seta, et oro guarnita d'oro, una robba di
tiletta di seta rigata inforrata di terzanello giallino guarnita d'oro, una faldiglia di
raso a rosa sicca con gruppo d'oro».
Il tutto era impegnato per la somma di 82 ducati10.
Il 16 luglio 1740 il mag. d. Giuseppe Grillo Caracciolo, governatore e il
notaio Domenico Romeo, cassiere, in carica dal maggio 1739 ad aprile 1740,
quindi in regola con i cambi usuali, consegnavano ai subentranti mag.
Francesco Antonio Recanati e dr. fisico Giacomo Thomei pegni per 700
ducati e 72 grana, denaro contante in 599 ducati e gr. 59, due libri grandi
vecchi di conti, pegni e significatorie, altri due libri nuovi di pegni, l'uno
terminato e l'altro con inizio dal 1726 e ancora un libro d'inventario, vari
obblighi per complessivi 2.203 duc. e gr. 20, conti e ricevute di persone
interessate in passato, almeno tra 1706 e 1738, a operazioni con l'ente11.
La provvidenziale istituzione voluta dall'Albanese, come possiamo
notare dai nomi dei casati alternatisi alla sua guida, divenne in breve quasi
un feudo ristretto a poche famiglie nobili, che, imparentate tra loro, da
parecchio facevano in Oppido il bello ed il cattivo tempo. Intorno al 1770
reagì contro tale stato di cose d. Pasquale Zerbi, che avanzò a Napoli varie
querele a mezzo di procuratore12.
Il 5 febbraio 1783, com'è noto, si abbatteva sulla Calabria un terrificante
moto tellurico, che portava alla distruzione d'interi paesi e alla morte di
10 SEZIONE ARCHIVIO STATO PALMI (=SASP), Libro del prot. di nr. Domenico
Fossare I°, Oppido, a. 1649. 11 SASP, Libro del prot. di nr. Francesco Cananzi, Oppido, a. 1740. 12 ARCHIVIO VESCOVILE NICOTERA, Carte della diocesi di Oppido, fasc. 21-I.
5
parecchie migliaia di persone. Tra i tanti centri quasi completamente
adeguati al suolo e decimati nella popolazione e poi ricostruiti in altro sito
vi fu Oppido, alla cui riedificazione vennero destinate proprio le rendite
del monte di pietà o dei pegni.
Non conosciamo con precisione cosa ne fu dell'ente nel primo ventennio
del XIX secolo, ma è da presumere, sulla base di documentazioni e sul fatto
che a un nuovo progetto di regolamento dello stesso approvato dal governo
il 12 aprile 1828 vennero a uniformarsi successivamente quelli viciniori di
Palmi e Seminara, ch'esso abbia continuato nel suo lodevole servizio alla
popolazione13.
Intorno alla metà del XIX secolo il monte risultava amministrato dalla
commissione di beneficenza. Poco appresso, per effetto della legge 3 agosto
1862, veniva invece affidato, unitamente ad altri, alla neo costituita
congregazione di carità. L'art. 3 dello statuto di quest'ultima, ch'è datato al
27 agosto 1870, così testualmente recita:
«Essa (la congregazione predetta) per il disposto della legge nell'art. 1
menzionato, ed in surrogazione dell'abolita commissione di beneficenza,
amministra ancora e dirige le seguenti opere pie dello stesso comune; cioè "Monte
dei Pegni di origine remotissima, ed ignota, che ha per iscopo di prestar denaro
agl'indigenti sopra pegni ecc. »14.
In una delibera comunale del 2 ottobre 1864 si dice che il monte dei
pegni era all'epoca governato da un regolamento approvato dal re il 12
aprile 1828 a causa del fatto che le tavole di fondazione erano andate
perdute in seguito al terremoto del 1783. Il capitale ammontava a £. 9.945 e i
prestiti, che si potevano ottenere, oscillavano da una a cinquanta lire.
In una relatio di mons. Teta del 1865 viene riferito che l'ente recava 1.000
ducati annui di reddito. Scriveva quegli allora a Roma, risollevando l'antica
"quaestio", che, pur avendo rinunciato a esaminare l'amministrazione, era
comunque interessato a indagare sullo stato delle cose per via riservata.
N'ebbe per risposta dalla sacra congregazione di occuparsi molto
prudentemente per conoscere se le pie istituzioni, soprattutto il monte, si
comportassero rettamente allorquando si fosse assicurato di poter esercitare
liberamente la sua autorità15.
13 G. VALENTE, La Calabria nella legislazione borbonica, Chiaravalle C. 1977, p. 139. 14 ARCHIVIO COMUNALE OPPIDO (=ACO). 15 ASV, relationes ..., vescovo Teta, a. 1865, f. 144v.
6
Reiterava il presule nel 1871 di non aver ancora chiesto conto agli
amministratori dei vari luoghi pii, sempre compreso il monte, in quanto tali
erano retti per lo più da laici, i quali, favoriti dalle inique leggi del tempo,
potevano facilmente liberarsi dalla vigilanza e ingerenza dell'ordinario
diocesano. Quindi, non era proprio il caso di esporsi senza la benché
minima speranza di ottenere qualche frutto16.
Il vescovo Curcio, nella sua relatio del 1877, senza evidenziare pretesa
alcuna, avvisava invece soltanto che a Oppido vi era un monte di pietà
pinguis, nel quale si prestavano denari con un modico interesse17.
Nel 1894, secondo quanto scriveva in una coeva relazione il commissario
straordinario al comune Nicodemo Maria del Pozzo, detto possedeva un
capitale di £. 194.992,19 e godeva di una rendita annuale lorda di £.
9.843,44, che, fatti salvi spese, tasse e interessi passivi, veniva devoluta
all'acquisto di medicinali per i poveri, sussidi vari e opere di beneficenza18.
Mons. Scopelliti, con relatio del 1901, a sua volta comunicava a Roma
l'esistenza di un monte di pegni di origine incerta, ma eretto parecchio
tempo dopo il concilio di Trento, che aveva di reddito 8.500 lire e praticava
il prestito senza alcun interesse per i primi sei mesi e, trascorsi questi, con
uno tenue19.
Nell'archivio del Comune, dove sono stati reperiti lo statuto della
congregazione di carità e la delibera del 1864, si rinvengono anche alcuni
registri contenenti i bilanci annuali del monte relativi agli anni 1898, 1920 e
1922 assieme a varia corrispondenza, che ci accompagna in qualche modo
fino ai tempi nostri attraverso i noti passaggi della soppressione della
predetta congregazione e della sua sostituzione con l'ECA, per giungere
negli ultimissimi anni all'accentramento operato dal Comune stesso.
I bilanci, di cui sopra, ci mostrano chiaramente come l'ente andasse
progressivamente decadendo, offerendosi ormai come un'istituzione più
che anacronistica. Il fatto che alla voce vendita pegni non si prevedessero
somme in entrata, ma soltanto dei residui, che via via si assottigliavano,
16 Ivi, a. 1871, f. 182v. 17 Ivi, vescovo Curcio, a. 1877, f. 123. 18 Relazione su l'Amministrazione del Comune di Oppido Mamertina letta dal R.
Commissario Straordinario Cav. Nicodemo M.a Del Pozzo nel dì dell'insediamento del
nuovo Consiglio, 11 gennaio 1894, Reggio Cal. 1894, p. 65. 19 ARCHIVIO VESCOVILE OPPIDO (=AVO), fasc. relationes ad Limina.
7
anche se nel 1916 era incaricato della perizia degli oggetti preziosi
Franconeri Giuseppe, indica senza ombra di dubbio che le amministrazioni,
che di tempo in tempo si succedevano, avevano cura appena dei beni
immobili in dotazione e, quindi, dei relativi redditi.
Ripercussioni dell'episodio di Masaniello (l648) *
Il sindaco dei nobili d. Francesco Riganati, quello del popolo Carlo
Cananzi e i rispettivi eletti d. Giuseppe Vicari e Sansonetto Lucà, di unita
all'agente della principessa Spinelli, d. Agazio Grillo, il l5 luglio l648 si
trovarono dal notaio per risolvere una questione di tasse, pregiudicate in
seguito alla rivoluzione masanelliana di un anno prima.
Era successo che nel decorso anno, «inante della sollevatione del populo
Neapolitano», l'amministrazione capeggiata dal sindaco d. Francesco
Licandro aveva stabilito la tassa dei fiscali, che dagli incaricati iniziò a
essere esatta appresso quell'evento, ma che venne però tosto impedita. Non
potendo assolvere al loro mandato, con atto pubblico detti provvidero
allora a consegnare le cedole allo stesso sindaco e ad altri del Regimento. A
causa di ciò e onde recuperare il credito vantato dall'università, la
principessa inviò d. Salvatore Vigniacurso col preciso scopo di ottenere
quel che non era riuscito ad altri. Venendo, perciò, incontro a quanto
preteso dalla feudataria, la nuova amministrazione, di cui era a capo il
Riganati, chiedeva al Licandro e soci di rimettere a loro volta le cedole al
sig. Gio. Leonardo Grillo, luogotenente di Oppido. Erano presenti alla
stesura dell'atto, col quale ciò si disponeva, Giacomo Santopullo, Marcello
Capone, Nicolò Palumbo, Marco Antonio Riganati, il chierico Fulvio e
Giovanni Alfonso Grillo e Francesco Colaciuri20.
* Pubblicato in "La Città del Sole", a. VI-l999, n. 9, p. 22.
20 SASP, Libro del protocollo di nr. Francesco Colaciuri, Oppido, a. l648.
8
Uno squarcio di vita nobiliare nel '600 *
Il libro del protocollo di nr. Giuseppe Fossare I°21 ci è di largo aiuto per
tastare il polso a quella cerchia nobiliare che in Oppido, come in tanti altri
paesi di Calabria, a metà del XVII secolo esercitava una netta supremazia
nella società in cui viveva. Esso, infatti, facilitandoci l'entrata nelle case di
alcuni magnati dell'epoca, c'informa con dovizia di particolari sulla
consistenza dei beni mobili e immobili che confortavano la loro elevatezza,
una cosa che viene a rivelarsi della massima importanza al fine di delineare
con estrema precisione qual era un certo costume di vita in tempi così
lontani e tanto diversi dai nostri.
Nella cittadina dell'altopiano delle Melle, che il funesto terremoto del
1783 s'incaricò di annullare al gran completo, nel '600 avevano un posto di
grande rilievo ben dodici famiglie nobili: Capuano, Capone, Geria,
Licandro, Recanati, Vestiari, Vicari, Sartiani, Grillo, Migliorini, Mesiti e
Rocca. Di tutti questi ceppi solo i primi nove però potevano vantare salde
radici, dato che i restanti vi erano pervenuti di recente per mezzo di
matrimoni22. Comunque, si distinguevano fra le tante la Grillo e la Sartiani
o Sartiano, che, legate tra loro da stretti vincoli parentali sempre rinno-
vantisi, avevano diritto a ricoprirvi un ruolo di tutto rispetto.
Nella prima metà del XVII secolo l'esponente più in vista dei Grillo
risultava Gio. Leonardo, che verrà a morte nel 1655, anno in cui un notaio,
appunto il Fossare, ne rilevava l'intero asse patrimoniale. Figlio di Agazio,
che, al pari dei fratelli Muzio e Giulio, forse vi approdò dalle sponde liguri,
il personaggio in questione, uomo assai facoltoso, per come vedremo
appresso, godeva in Oppido di una rilevante carica, che lo collocava al
sommo della scala dei valori cittadini. Essendogli state affidate le mansioni
di Amministratore dello «Ufficio di Conservazione dell'Intrate della Principal
Corte di d.ta Città e suo Stato ovverossìa di Consigliere del Patrimonio dell'Ecc.
Sig. Principe», si ritrovava a essere in sostanza l'alter ego del feudatario
Spinelli e, quindi, la sua più fidata longa manus. Era tale un incarico che sarà
* Pubblicato in "Calabria Letteraria", a. XXXI-1983, nn. 7-8-9, pp. 149-153. 21 SASP. 22 G. B. PACICHELLI, Il Regno di Napoli in Prospettiva diviso in dodeci provincie,
Napoli 1703, p. 92; R. LIBERTI, Momenti e figure nella storia della vecchia e nuova
Oppido, Oppido Mamertina 1981, pp. 131-133.
9
sempre trasmissibile in casa Grillo da uno all'altro erede. Difatti, il primo a
esserne investito fu probabilmente lo stesso padre di Gio. Leonardo,
Agazio, che nel 1606 figurava ancora percepitore del stato di Oppido e la cui
nomina nulla ha avuto a che vedere col trapasso dei poteri dai Caracciolo
agli Spinelli avvenuto più tardi, nel 1611 e l'ultimo fu quel d. Marcello, che
si rivelò uno dei protagonisti nella fondazione della nuova Oppido23.
Gio. Leonardo, alla cui famiglia non faceva difetto il blasone - la zia
Giulia aveva sposato in seconde nozze Giuseppe Grillo barone di Careri e il
fratello Lorenzo ostentava titolo di barone di Calimera e San Calogero -
aveva impalmato una figliuola del mag. Gerolamo Grillo. Ne aveva avuto
figli Agazio, Francesco, entrambi chierici, Lorenzo e Michele e in vita si era
qualificato come il classico nobiluomo di paese. Nel mentre provvedeva a
soddisfare gli interessi del suo signore, che gli aveva concesso un così
lucroso impiego, badava logicamente a curare anche i propri. Bastano a
testimoniare ogni mossa le numerose partite di seta piazzate a Napoli di
volta in volta a nome degli Spinelli o per suo stesso conto24.
La magione che il Grillo abitava a Oppido, quale un palazzotto adeguato
al suo rango, certo rispetto al paese ed ai tempi, era ubicata nel punto più
centrale e, quindi, più importante, precisamente in convicino episcopati e
confinava, dalla parte sottostante, con la casa del fu Tommaso Migliorino e,
di sopra, con il cortile del mag. Agazio Grillo, la via pubblica ecc.
Consisteva in più membri, cioè in più vani, che erano, al piano superiore,
una sala, una prima camera detta del Rubino, una camera detta del studio,
altra camera appresso del Rubino, altra situata ancora più dentro, una
stanza che serviva da cucina e altra piccola appresso della sala. Al piano
inferiore si trovavano poi ad affacciarsi su di un porticato due camere e due
magazzeni. Questi ultimi servivano per riporvi l'oglio e il vino.
Poche e assai semplici apparivano le suppellettili, di cui una tale dimora
era dotata e le varie masserizie erano custodite tutte in baulli, cascie e
cascioni. Tre baulli vecchj si rinvenivano nella sala, altri due di color bianco e
una cascia di noce con due cascielle dentro trovavano posto nella stanza del
Rubino, mentre due baulli, una cascia di noce grande e un cascione erano
localizzati nello stanzino. Due cascie piccole di noce, due cascioni, uno d'acero e
l'altro di noce, con in più un bauletto si vedevano nella stanza appresso a
23 LIBERTI, Momenti e figure ..., passim. 24 Ivi, pp. 125-126.
10
quella del Rubino, una cascietta di scritture, 6 cascie e un baullo nella camera
più internata, una cascia di noce grande e un baullo grande vecchio nella cucina.
Anche di sotto si vedevano di similari custodie, ma si trattava soltanto di
due cascioni vecchi vacanti depositati nella camera vicina al porticato.
Le sedie in casa Grillo erano variamente distribuite. Otto segge di
vacchette di fiandra rossa si trovavano nella sala, 6 segge di pelle di Napoli
vecchie erano nella camera piccola, una seggia portatile era sistemata nella
camera d'abasso mentre altre 2 seggie di pelle di Napoli usate e 4 seggette di
paglia erano collocate rispettivamente nella camera appresso a quella del
Rubino e nell'altra più internata ancora. Quattro segge di velluto rosso e altra
di velluto verde costituivano poi la dotazione dello studio.
Si trattava, quindi, di ben 26 sedie che dovevano soddisfare pienamente
i bisogni di una famiglia nobiliare del '600.
Gio. Leonardo e congiunti affidavano per il riposo le loro membra
stanche a travacche e lettère e, ci pare logico, ai materassi che vi mettevano
sopra. Il tutto appariva come di seguito. Una travacca di noce con i capitelli
indorati si trovava nello studio unitamente a 3 materassi di lana, una
travacca piccola di tasso con 2 materassi era in uso nella camera appresso a
quella del Rubino, mentre una travacca di noce vecchia con 3 materassi la si
trovava nella camera piccola. Ancora una travacca d'acero e altra indorata
diruta erano state messe nell'altra camera assieme a 2 materassi e una
travacca vecchia con un materasso pure vecchio giacevano nella camera
d'abbasso. Una lettèra appariva situata invece nella camera appresso a
quella del Rubino, mentre altre 2 si rinvenivano nella camera più interna.
Ricordiamo, a questo punto, per chi non ne fosse edotto, che le travacche o
travarche erano esattamente le spalliere del letto, che in genere risultavano
sempre in ferro e le lettère il letto vero e proprio e cioè le tavole su cui si
sistemavano i materassi e che poggiavano su dei cavalletti in ferro, in gergo
dialettale conosciuti come trispita o trìspiti.
Già che ci troviamo a esaminare i letti di casa Grillo, è giusto proseguire
con la descrizione degli oggetti che facevano parte integrante del corredo di
una tale suppellettile, quindi coscine, coverte, cutre, lenzola, cortine, padiglioni,
avanzini, e porterij.
L'atto non relaziona minimamente in merito a cuscini accomodati a capo
dei letti, ma fa riferimento soltanto a 2 coscine di velluto rosso, che si
trovavano nello studio e che probabilmente dovevano essere di quelli che si
adagiavano sulle sedie.
11
Poche erano anche le coperte, delle quali si rinvenivano appena 3 bianche
di cuttone e una russa di capicciola (cascame di seta) e tutte nella camera
appresso a quella del Rubino.
La cutra (coltre), un tipo di coperta foderata, sempre di colore bianco, si
trovava nella sala, dove se ne rilevavano 2 conservate nei baulli e nella
camera appresso a quella del Rubino, nella quale ne risultava altra.
Quelle che abbondavano in casa Grillo erano invece le lenzuola: 12 erano
custodite nella sala nei soliti baulli, 6 para che si stanno in att'usando si
vedevano nella camera del Rubino, che appare così come la stanza da letto,
8 erano sistemate nello studio e anch'esse avevano ricetto in baulli e cascioni.
Nella camera appresso a quella del Rubino v'erano poi 13 paia con in più
altro paro con li punti di seta gialla e nella camera più internata, infine, altre 6
paia con un altro paio di tela grossa.
Le cortine, quelle tendine cioè che si alzavano e abbassavano attorno a
un letto a seconda delle necessità del momento, si trovavano anch'esse al
gran completo nella stanza appresso a quella del Rubino. Una era di
damasco giallo, un'altra di damasco falso di seta e capicciola, una vecchia di
terzanetto turchino (specie di seta) e una di capicciola verde. Fra cotali c'era
pure un'avanzina a schiaccheri. L'avanzina o, come detto in altri atti,
avantiletto - a scacchiera - era quasi certamente quel pezzo di stoffa che
ricopriva la parte anteriore e inferiore del letto. Da tenere presente che i
letti dei nostri maggiori erano alti da terra molto di più di quelli odierni e
che, quindi, s'imponeva la necessità di anteporvi un qualcosa che ne
coprisse la parte sottostante, dove spesso si conservavano cassettoni e
altro25. Quattro avantisini, forse lo stesso che avanzini, si trovavano nella
camera del Rubino. Completavano il panneggio due porterij di velluto verde
piano cupo, che si potevano vedere nella stanza appresso. Le porterie,
naturalmente, non potevano che essere le tende laterali.
Di padiglioni, ovverossìa baldacchini, ce n'erano un po' in tutte le camere
del palazzo Grillo. Tre di tela bianca erano custoditi nei baulli della sala, 1 di
tela bianca lavorato di seta russa al canto e 1 rosso di capicciola in un cascione e in
un baullo dello studio, 1 bianco con li frangi di seta rossa pelli canti e 1 bianco
lectijato (chiazzato?) tutto, nella camera del Rubino, 1 in tre pezzi di tela
bianca, 1 ancora di tela bianca, 1 di tela usato e 1 di tela vecchia usato giallo
25 F. ARILLOTTA, Reggio nella Calabria spagnola, Reggio Cal. 1981, p. 248.
12
e turchino nella camera più in dentro e, infine, 1 bianco vecchio nella
camera piccola.
Dopo esserci alquanto soffermati a descrivere qual era il corredo del
letto in casa Grillo a metà del '600, eccoci a presentare il resto delle
suppellettili ed altri oggetti di uso comune, che per la verità in alcuni casi, a
misurarli col metro di oggi, appaiono ben misera cosa.
Nella camera seguente a quella del Rubino, che ci sembra poter
qualificare quale stanza da pranzo, erano presenti 7 buffetti, cioè dei tavolini
(dal francese buffet=tavola, ma anche credenza). Tali si presentavano tutti
di noce, ma 2 di essi avevano i trappiti usati (non conosciamo cosa gli antichi
indicassero con un siffatto termine). Uno stipo vacante aveva invece ricetto
nella camera d'abbasso.
Nella stanza più internata, che possiamo facilmente riconoscere in una
specie di soggiorno, si ritrovavano 2 candileri d'ottone, 2 brascieri (bracieri) di
rame, 2 conche vecchie di manganello (le conche erano propriamente vasi di
terracotta, ma nel caso occorre pensare a qualcosa in legno)26, 2 conche
d'acqua, una grande e una piccola, 4 caudare (caldaie) con le maniche, due grandi e
due piccole, una caudara di tener acqua senza maniche con tre piedi piccoli d'abasso
e 3 capifochi di ferro. Questi ultimi erano certamente alari.
Nel magazzino del vino si rinvenivano 13 botti, 7 grandi e 6 piccole e
ancora altre piccole, mentre in quello dell'olio apparivano 20 giarre ordinarie
e 5 piccole e ancora ulteriori 3 di capacità di 10 cafisi ognuna. La presenza di
questi contenitori prova da sé stessa come Gio. Leonardo Grillo e la sua
famiglia fossero possessori parecchio doviziosi dei preziosi alimenti che vi
si versavano. In particolare, conosciamo che vi erano ancora depositati 20
cafisi di oglio usitante (olio comune). Nella camera d'abasso si trovavano poi
circa 5 rotula di riso.
Continuiamo il nostro excursus in casa Grillo completando la rassegna
degli oggetti di corredo.
Di tovaglie di tavola si riscontravano pochi esemplari, appena 7. Una
appariva conservarsi in un baullo della sala, mentre altre 2 si trovavano nella
camera appresso e ancora 4 nella stanza più interna.
Le tovaglie di faccia ovverossìa gli asciugamani raggiungevano il numero
di 27. Cinque a schiacchere di seta di diversi colori più una ordinaria erano
26 Potrebbe trattarsi, nel caso, delle cosiddette rote, quegli aggeggi in legno vuoti al
centro, dove si conficcava il braciere.
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riposte nello studio, 15 ordinarie nella camera appresso a quella del Rubino
e altrettali 6 nella stanza susseguente.
Tovaglie di seta ve n'erano soltanto 5. Due erano d'un med.mo colore
alla grandezza di tovaglie di faccia e si custodivano nella camera del
Rubino, mentre 3, poco più grandi, di schiaccheri di seta di diversi colori
avevano il loro posto nello studio.
Ancora 5 tovaglie grosse, che non sappiamo meglio definire, si
trovavano nel vano più interno.
Gli stujabucchi o salviette si numeravano in 92 unità e venivano
conservati, 86 nella camera appresso a quella del Rubino e 6 nella più
internata.
Una banda turchina con li pizzilli d'argento non meglio precisata figurava
nello studio.
Di materiale utile a confezionare oggetto di corredo oppure di vestiario
si rinvenivano della tela e della capicciola, evidentemente le stoffe di più
largo consumo. La capicciola, di color bianco, pesava circa 40 libri (libbre)
ed era tutta nella camera più dentro. La tela, invece, era distribuita
variamente. Tre canni di tela grossa consistente in dui peczi si trovavano in un
baullo della sala (la canna equivaleva a circa 2 metri), 2 pezze di tela grossa
sinariche nello studio, pure in un baullo, 5 canni di tela bona in cascie esistenti
nella camera appresso a quella del Rubino e, infine, 2 canni di tela per invitati
in quella più lontana (si trattava, certo, di un tipo di tela più fine).
Avendo detto del corredo familiare, passiamo ora ad esaminare
partitamente gli oggetti di vestiario usati da uomini e donne della casa.
In primo luogo si notano i vestiti di aspulino o spulino, che, in numero di
4, erano sistemati tutti nella stanza del Rubino. Erano distinti in vestiti con il
campo turchino e passamani d'argento, con il campo bianco e passamano piccolo,
con il campo rosso e minjato sopra le uose di bianco con li passamani d'argento e di
scarlata (pannolano rosso), con la faldiglia gornata (guarnita) di passamani d'ar-
gento. Di faldiglie, termine prettamente spagnolesco che stava a indicare la
gonnella o il grembiale, nella stanza del Rubino se ne rinveniva un altro
paio, che, era, rispettivamente di velluto negro e di velluto turchino e giallo
cupo. Una faldiglia negra di tiletta arricciata con la robba del med.mo colore si
trovava invece nella camera più dentro. Nelle medesime stanze, peraltro, si
custodivano altre robbe. Nella prima si notava una robba di damasco negro con
il pizzillo piccolo d'oro a torno, nell'altra una robba di donna scambiante di
terzanetto. Robba era anche l'equivalente di vestito.
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Sempre nella stanza del Rubino era visibile una discreta teoria di gipponi
per uomo, certo le giacchette, che risultavano usate dai fratelli Grillo. Vi si
trovavano un gippone turchino, 1 di sita d'oro et argento, 1 rosso, 1 d'aspolino
con il campo bianco, 1 turchino et Arangino (arancione) di tiletta di seta, 1 di
damasco in oro turchino e verde, 1 di damasco in oro, turchino e bianco minijato.
Scarsi erano i manti e quasi tutti in non buone condizioni d'uso. Un
manticello di figlioli di damasco in argento figurava nello studio, mentre 2
manti di donna e un manto di tabbi vecchi i trovavano nella stanza più
internata. Nel medesimo studio si rivelava pure un bambacino (da tela
bambacina) di cappello piccolo sopra pelle.
Erano presenti ancora i corpetti, di cui non si fornisce il numero, ma che
risultavano depositati nella camera del Rubino, le cammise di donna di
francolina, ben 5, conservate nella stessa stanza, 6 tovaglioli di donna di
mezza lama di vuletta, sistemate del pari, robbe di vestire usate, osservabili
nella camera più lontana e una tovaglia di testa con li pizzilli e un paro di
maniche con li pizzilli di donna, rinvenibili nello studio.
Gio. Leonardo Grillo, quale nobile signore di gran rispetto, non poteva
non figurare nella società del tempo per la dovizia di oggettini di valore che
dovevano adornare la sua persona nonché quella dei più vicini congiunti.
Nella stanza del tesoro, lo studio, dove quelli erano custoditi, risultavano:
«perne (perle); 4 fila di perne e granatine, un filo di perne false; catine; una catina
d'oro a catinella; pendenti; un paio di pendenti (orecchini, dal francese pendant)
senza cianelli (?) con cinque rubbini nelli canti con quattro perne pendenti per uno;
un paio di pendenti con una perla per uno Ravata (gravata) di poca spesa con
capìitelli d'oro; un paio di p. senza cianelli con un smaldo (smalto) per uno con
cinque perle pendenti per uno, un paio di p. senza cianelli con un rubinetto per
uno con sei perni piccoli pendenti, un paio di p. con perne piccole; fiannacche
(collane; ancora oggi si dicein dialetto fannacca), una fannacca d'oro a catinelle,
una f. di granatini con buttuni d'oro vacanti; gioje: una gioja consistente in un
rubino grande tornijata di Rubini piccoli, con un'smaldo di sopra et una per li
pendenti, una gioja di valuta di sei (?) et un'altra consimile, una g. di petto con
molti diamanti;anelli; un anello di Donna consistente in quattro perle per pietra,
un anello con un rubbino, un a. consistente in un diamante, una fede d'oro;
maniglie (?): un paio di maniglie consistenti in quattro rubini per uno e quattro
perle; gulere (colliersi); una gulera d'oro con smirardi e perne, una g. d'oro con
smirardi e rubbini e perle; cianelli; un paio di cianelli d'oro; lazzi (lacci); un lazzo
d'oro; gioielli di varia foggia; un cintiglio di cappello e granatini, un Agnus Deo
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(sic!) d'oro con cinque perle per uno, un Crucifissetto d'oro, un Crucifissetto d'oro
con una catinella, un collaro di donna».
Gli oggetti in argento si trovavano invece conservati nella sala e
propriamente dentro un baullo vecchio. Vi erano «un bacile, un vocale (boccale),
una salera consistente in tre pezzi indorata, una canistrella, 2 tromboni, un
bicchiere indorato, una sottocoppa, una saliera in un pezzo, un candiliero, uno
smiccia candele, un vaso di bevere (bere), un bicchiero indorato e sette posate,
distinte in 7 cocchiarine e 6 forcini (forchette), 2 cocchiaroni, l'uno perciato
(bucato) e l'altro sano».
In aggiunta a quanto relazionato, in casa Grillo si ritrovavano ancora un
panno per li buffetti di damasco giallo usato (nella camera appresso a quella del
Rubino) e una cascia piena di libri d'esigenza (nella stanza più interna).
Quanto abbiamo riferito è ciò che si osservava dentro casa al momento
della rilevazione del Fossare, ma Gio. Leonardo Grillo risultava ancora
possessore di ben altre sostanze e, cioè, di case, proprietà terriere e animali,
che si elencano del pari.
Oltre a quella in cui aveva abitato, il Grillo godeva della padronanza di
altra casa palatiata, che si trovava in loco Santo Anania e limitava con
l'abitazione di Alfonso M. Grillo e altri nonché con la via pubblica.
Gli appezzamenti agricoli, qualificati in possessioni, giardini, terre
aratorie, terre e oliveti, si distinguevano come di seguito. Possessioni: p.
arborata di celsi, olive, vigne e altri alberi fruttiferi con una torre dentro (la
torre era la casa di campagna) e cinque case di notricata (casette per
l'allevamento del baco da seta) in contrada Buscaino di Castellace; p.
arborata di celsi, vigne e altri alberi fruttiferi con una casa di notricata dentro in
c.da Crusone. Giardini: g. arb. di celsi e la timpa (Tresilico), g. arb. di celsi
in c.da lamia; id. in c.da lo cerazzo (Varapodio); g. con quaranta sacchi di
fronda e una mezza salma d'olive in c.da Calabrò (Varapodio); g. arb. di celsi,
olivi e terre scapole in c.da Bivera (Tresilico), S. Martino e Campo di
Buzzano; giardinello arb. di celsi a S.to Flippo; cinque piedi di celsi e la iuso
fontana sei sacchi di fronda una tumolata di terre scapule a Calabrò (Varapodi).
Terre aratorie: terre a. per 134 tumolate in c.da S.to Gioanne (Castellace).
Oliveti: due tumolate di oliveto a le funtanelle, una tum. con olivarelle dentro in
c.da Sportà (Varapodi), 12 tum. in c.da Campo di Buzzano (Castellace).
Facevano parte dell'asse ereditario di Gio. Leonardo Grillo ancora
Animali baccini, porcini, pecorini e caprini, il cavallo et altre giustamente con
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Allassi e crediti per 1.300 ducati legati a debitori censuali, in numero di 23
ed a censi perpetui, 7.
Dopo aver visitato minuziosamente le stanze del palazzotto Grillo
cercandovi i più evidenti segni di un modo di vita ormai da tempo
scomparso, volgiamo il piè verso un'altra magione non altrettanto ricca, ma
ugualmente nobile, quella dei Sartiano. Ad accompagnarci nell'escursione è
il solito notaio Fossare, la cui scheda dell'anno 1649 risulta del pari piena di
utili informazioni.
Placido Sartiano, nel mondo dei più nel citato anno, appartenente a una
famiglia che in Oppido potrebbe essere giunta da Reggio nei secoli
precedenti27, era figlio di d. Camillo e aveva condotto in moglie donna
Laudonia Grillo. Erano quasi certamente suoi fratelli l'abate Fabio, canonico
tesoriere della cattedrale nel 1600 e Rijetta, i cui beni passeranno ai nipoti.
Figli della coppia erano il rev. Camillo, Agazio e Antonio. Il particolare
dell'assegnazione del nome Agazio a uno dei rampolli ci fa pensare che
Laudonia sia potuta essere un'altra sorella del predetto Gio. Leonardo.
La casa abitata dalla famiglia Sartiano si trovava anch'essa in posizione
eminente e, più esattamente, nella stessa piazza ove troneggiava il
vescovado, in planetie vescovati e aveva ai suoi confini, tra l'altro, la via
pubblica e la dimora di Sansonetto Lucà. A Placido era stata portata in dote
dalla moglie, quindi in origine si trattava di altro cespite dei Grillo.
Il palazzotto di Placido Sartiano non doveva essere delle medesime
proporzioni di quello in cui abitavano i parenti Grillo, ma anch'esso
risultava costruito a due piani e usufruire di un porticato. Comunque, dei
vari vani il notaio ha distinto la sala, il solaro della sala, la camera dove si
sale e le camere a sinistra e a destra del porticato.
I Sartiano custodivano anche loro le masserizie in baulli, cascie e cascioni,
che si trovavano tutti nella sala, come d'altronde quasi ogni cosa che faceva
parte dell'asse patrimoniale. Vi si riscontravano partitamente 2 baulli di corio
(cuoio) di quattro palmi con chiavatura, di origine dotale e altro di 3 palmi e 1/2.
V'erano poi 2 cascie di nuci di sei palmi, di cui una era appartenuta al quondam
abate Fabio e un cascione di nuci.
Le sedie si numeravano in appena 4 di corio e ben 3 provenivano
dall'eredità del detto abate e, quindi, come si può ricavare, ce n'era appena
per una persona.
27 LIBERTI, Momenti e figure ..., p. 15.
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Nessuna notizia si ha di travacche e lettère, che si trovavano in altra casa
vicina, come detto in convicino di Sansonetto Lucà, nella quale il notaio ha
segnalato la presenza di 3 letti e 7 materassi, 4 dei quali appartenuti al
solito abate. Un letto aveva la travacca indorata, un altro l'aveva di legno di
fago (faggio) e un terzo era per la zitella, evidentemente Rijetta. C'erano
anche li tavarchi della casa.
Strano, ma con così pochi letti abbondavano i cuscini. Tre paia di frandina
(Fiandra), di cui 1 con la rizza gialina e russa e 2 con rizza carmosina
(arricciatura cremisi), pervenivano dalla fu Rijetta, mentre il terzo risultava
dotale di Laudonia e, cioè, 5 paia così distinte: un paio di frandina con lo
lavoro a torno di seta nigra, 2 paia lavorati a torno di filo bianco e seta rosata, un
paio lavorato a torno di seta nigra, un paio lavorato di seta russa.
Anche dai Sartiano si rinvenivano poche coperte, soltanto 2. Una, dotale,
era così descritta: una pezza di coperti bianchi a lavoro della nuci di canni 18,
mentre l'altra, di cuttuni, con frangia a torno, bianca, era stata comprata l'anno
prima da d. Camillo a S. Domenico di Suriano, evidentemente
all'importante fiera che annualmente si teneva nel piano circostante il
convento e durava tutto l'ottavario del santo, dal 4 all'11 agosto28.
Se si rilevava scarsezza di coperte, non era così per le cutre, che
apparivano in numero di 5, tre delle quali erano state proprietà dei fratelli
Fabio e Rijetta. V'erano una cutra turchina e russa, una verde e russa, una
gialina e russa, una bianca di tela lavorata piena di cuttuni e una bianca usata della
casa.
Anche di lenzuola si riscontrava una discreta serie in casa Sartiano: 2 di
tela suttile con punti annucati (annodati) con frangia a torno, un paio di lenzuola
semplici usati con li punti bianchi provenivano da Rijetta. Un paio di lenzuola
con la rizza di seta negra e il cappelletto era stato del rev. Fabio, mentre un paio
di lenzuola lavorato di seta carmosina era dotale e un paio di tela suttile con punti
di Paula e pizzillo attorno non era della casa. Nove paia di lenzuola simplici della
seta delli Iudiei, cioè degli Ebrei, erano state acquistate a Napoli dal fu
Placido. Nota interessante: in varie schede notarili, trattando di oggetti di
corredo, si fa riferimento ai punti di Paula. È indubbio che ciò abbia
28 A. BARILARO, Apprezzo dello Stato di Soriano in Calabria Ultra 1650, Oppido
Mamertina 1982, p. 25.
18
rapporto con Paola, cittadina del Cosentino assai nota in passato per lavori
artigianali di cucito e ricamo29.
Di Cortine si evidenzia un solo esemplare, che, di proprietà dell'abate
Fabio, in occasione della verifica del notaio risulta depositato al monte di
pietà. Si trattava di una cortina di seta gialina e capicciola usata.
Pure di padiglioni c'era gran dovizia in casa Sartiano. Se ne rilevavano
ben 14 ed erano i seguenti: un padiglione di tela usato con li punti di Paula, con
la rotta di S. Catherini con il suo cappelletto, 3 padiglioni usati, 1 con punti di
Paula e 2 con punti fatti allo tilaro e punti di Paula erano del qm Fabio, un
padiglione con il cappelletto dell'istesso lavoro di seta carmosina in dui
pezzi già al monte di pietà e riscattato per 8 ducati da d. Camillo era dotale così
come dotali erano un padiglione di tela con li rizzi d'annucato con il suo giraletto
e cappelletto e un padiglione con cappelletto con punta a rosicella. Un padiglione
di filandenti con il giraletto e cappelletto con punti fatti al tilaro, un padiglione in
dui pezzi con punti di Paula e frangi a torno, un padiglione a tre pezzi con li setti
pedalori con il cappelletto, un padiglione di lino e capicciola gialino e uranghino a
tre pezzi appartenevano alla casa. Un padiglione di tela a dui pezzi con la rizza
di filo annucato, un padiglione di tela con rizza di seta nigra, un padiglione di
tiletta di seta verde rigato a tre pezzi con il cappelletto a cupertuni usato, un
padiglione con rizzi di seta carmosina a leone con il cappelletto si trovavano tutti
depositati al monte di pietà. Sempre nella medesima sala si vedeva un
giraletto (copriletto) di seta verde di tilettuni con li frangi stesso colore. Nell'altra
casa era invece custodito un padiglione di tela bianco dotale.
Come mobili si qualificavano uno scrittoio di nuci pieno di lettere vecchie,
una suppellettile, invero, che denota fin troppo la presenza in casa di un
ecclesiastico, una buffetta di nuci, entrambi sistemati nella sala, indi una
buffetta di nuci vecchia con il tiratore (tiretto), una buffetta di abito (abete) usato,
un banchetto di nuci (certo, uno sgabello), un riposto grande usato, tutti messi
nella camera e uno stipo vecchio allogato nella stanza d'abasso, che, in
definitiva, era la cantina.
Nella camera si rilevavano, peraltro, dui mailli (erano tini per il bucato a
forma di madia), 2 capifuochi di ferro (i soliti alari), una cramagliera (la catena
del focolare), una caudara grande e una caudarella usata.
Quali prodotti si rinvenivano nella camera a sinistra del porticato
quanto segue: 12 tumoli circa di grano russello a terra e altre 5 in un giustrone
29 ARILLOTTA, Reggio ..., pp. 253-254.
19
(grande cesto) apparivano di proprietà di Laudonia. Dal rev. Fabio
discendevano invece tre mezzalori d'orgio in circa, deposte in una cascia di
nuci vecchia e cinque tumoli in circa di grano mischio (segale + orzo).
Quest'ultimo, ch'era stato ottenuto dalle terre del qm abate, era sistemato in
un giustrone. C'erano ancora 100 libbre di seta, ch'erano di masseria propria
di d. Camillo, 30 libbre di seta di Cola Francesco Marzano (i Marzano erano
della vicina Seminara), il tutto messo dentro una cascia di nuci di sei palmi,
cinque pezzi di caso in una giustra (cesto), 2 tumoli di scagli con grano bianchi (è
la mondiglia che resta nel vaglio), un tumolo per sacchetto. Nella camera di
destra, verosimilmente la cantina, v'erano 5 botti, di cui una piena di vino e
2 giari (giare) d'oglio vuote.
Sopra il solaro della casa c'erano in ultimo 70 cannizzi (cannicci per
allevare il baco da seta) assettati (sistemati) con li suoi ordigni (strumenti), che
risultavano di proprietà di d. Camillo, e in più, 8 chini di coscina.
Presentiamo ora, così come abbiamo fatto per i Grillo, la rassegna degli
oggetti di corredo in uso in casa Sartiano.
Di tovaglie di tavola se ne riscontravano 6 a piparello (il piparello era un
tessuto casalingo a piccole losanghe), mentre un pezzo di tovaglia di tavola
piranischi30 misurava canni 7 larghi 3 palmi e 1/2. Le tovaglie di faccia si
trovavano pure in numero di 4 e ugualmente di piparello, ma apparivano
manifattura di Laudonia, che aveva usato un lino che l'era pervenuto dalle
sue terre dotali nella foresta in un periodo in cui il marito trovavasi a
Napoli. A tali si aggiungeva pure un pezzo di tovaglia consistente in cinque
... (non si riesce a leggere il seguito). Oltre a ciò, si rilevava la presenza di
altre tovaglie senza ulteriore precisazione. Si trattava di un pezzo di tovaglia
di tela con rizzi a mano al numero di 7 e di 2 tovaglie di tela frandinisa (di
Fiandra) con rizza di seta e gialina già proprietà di Rijetta, e, poi, di una
tovaglia con rizza di seta nigra e bianca, di 4 tovaglie di frandina (una con rizza
bianca con pizzillo a torno novo, altra con rizza di seta nigra e bianca con frangetti
a torno, altra ancora con seta lavorata con rizza di seta russa e bianca, tutto
dotale), di 3 tovaglie di cambri (Cambrai) con pizzilli attorno novi et uno usati,
una tov.aglia con la rizza russa.
Stujabucchi ve n'erano solo 17: 4 erano frandinisi e 13 con li frangi a
mano allo tilaro, tutti della casa. V'era anche un tovagliolo di romanisco
(spago, cordicella) con li pizzilli negri.
30 Pisanische, cioè con riferimento a Pisa. Ved. ARILLOTTA, Reggio ..., p. 249 in nota.
20
Di capicciola si rilevavano 11 mezzi canni del tipo bianco e tutto proveniva
dalle terre di d. Camillo.
Passando agli oggetti di vestiario, abbiamo:
gipponi: ve n'erano 2, uno di veletta d'argento turchino lavorato seu tessuto a
onda e l'altro di raso russo con gruppi d'oro. Erano stati oggetto di regalo da
parte della zia Rijetta al nipote d. Camillo a tempo cantò messa novella.
faldiglie: si elencavano una faldiglia di seta di raso con gruppi d'argento, una
faldiglia alleonata di spagna di seta guarnita d'oro et argento e una faldiglia di
raso rosa sicca con gruppi d'oro. L'ultima era stata pure un regalo a d. Camillo
da parte della zia, ma tutte risultavano depositate al monte di pietà.
feriolo: (era il mantello per uomo): ve n'era soltanto uno di febba (felpa)
scusuto, ma, in pegno al solito monte, era stato riscattato con 8 ducati.
velii: c'era un velo detto della Regina con pizzilli d'oro a torno fatti in casa.
scorfani (parte della camicia): si vedeva un solo scorfano di frandina di
donna con li manichi lavorato di punto tagliato. Era di Laudonia.
robbe: c'erano una robba di velluto negro con gruppi d'oro (apparteneva a
Rijetta), una robba di velluto negro guarnita d'oro, una robba di tiletta di seta
rigata inforrata (foderata) di terzanello giallino guarnita d'oro.
Il tesoro dei Sartiano era affidato a un marzapanetto (scatola o cestino),
che si trovava ugualmente nella sala e il cui interno rivelava: un fischietto,
una campanella d'argento con li ciancianelli (sonagli), un paio di coralli ad olivella
con li buttuni d'oro (dono della suocera a Laudonia all'atto del matrimonio),
una pietra granata di petto impiastrata d'oro (id.), un anello d'oro con la pietra di
diamante (a tempo Laudonia fu zita), un altro paio di coralli con l'impostaturi di
migliuzzi et ambri (ambra; era della casa), sei fila di perni dono del barone di
Chareri alla sorella Laudomia per il matrimonio), un paio di paternostri di buttuni
d'oro di sei posti con un crucifissetto d'oro (regalo del suocero a Laudonia),
una chiannacca (lo stesso che fannacca) di migliuzzi d'oro e granatini et alla fine
di coralli, due paia di ciccagli d'oro (orecchini), uno a Rosa e un altro a piramide
(dono della suocera a Laudomia per il matrimonio).
Oltre a quanto descritto, in casa Sartiano si avvertiva ancora la presenza
di molta quantità di libri di legge canonica e civile già proprietà dell'abate
Fabio, una cocchiarella e una brocca d'oro, che appartenevano a d. Camillo, 17
quadri la maggior parte degli Apostoli e gli altri di diversi santi, non per nulla vi
risiedeva un ecclesiastico (3 quadri vecchi erano nell'altra casa), un misale di
campo usato dotale, che trovavasi al monte e 2 tili di spruveri (era la zanzariera)
con la rizza bianca di filo (questo era stato già proprietà della defunta Rijetta).
21
Dopo quanto sin qui detto, sono d'obbligo alcune indispensabili
considerazioni, che proponiamo di seguito.
Le case, in cui vivevano i nobili oppidesi non erano dei veri e propri
palazzi, come la voce casa palatiata sembrerebbe suggerire, perchè, giusto
quanto abbiamo sceverato, si trattava in genere di case a due piani con
poche stanzette. Ê particolare il caso dei Sartiano, che agivano in soli
quattro vani, cioè una sala, una camera d'ingresso e due altre stanze a
destra e a sinistra del porticato, ch' erano poi in definitiva dei bassi utili al
deposito delle derrate annuali.
Nelle elencazioni del notaio non si avverte nelle case la presenza di un
bagno. Ê evidente! Non esisteva! I nostri maggiori non conoscevano i
benefìci di un tale ambiente e affidavano i rifiuti del loro corpo a più o
meno rozzi càntari, che di notte vuotavano nelle strade. Di un simile
riprovevole, ma necessario uso, tratta nella sua opera il famoso viaggiatore
Leandro Alberti, venuto in Calabria nel 1525, il quale afferma che in merito
ne poteva rendere dritta fede. Era stato forse sfiorato da qualche inconsulto
lancio? Ê probabile31! Per quanto riguardava la pulizia personale erano
allora sufficienti un bacile e un boccale.
Può sembrare strana l'assenza di stipi di vario genere nelle case dei
nostri maggiori, specie se nobili, ma al proposito bisogna tener presente che
gli antichi, assai più economicamente e col grande vantaggio di evitare
l'occupazione di spazi ampi, amavano servirsi di stipi più naturali per
riporvi le loro cose, le gazzane o hazzane. Erano queste delle nicchie scavate
nei muri, che facevano molto egregiamente le veci degli armadi.
Il notaio non fa il minimo cenno neanche a utensili di cucina. Come mai?
Ê facile che, trattandosi di materiale di modesta rilevanza, non venisse
compreso in un asse patrimoniale e, quindi, non fosse soggetto a
catalogazione.
Non si avverte nemmeno l'esistenza dei fazzoletti, in dialetto muccaturi.
Non ce n'erano o per lo stesso motivo, di cui sopra, non formavano oggetto
di rilevazione?
Al tempo, di cui trattasi, era assai fiorente l'industria della seta. Lo
provano sia i cannizzi sul solaro di casa Sartiano che le case di notricata e le
terre alberate di gelsi di proprietà della famiglia Grillo.
31 G. VALENTE, Leandro Alberti in Calabria, Cosenza 1968, p. 22.
22
La foggia del vestire era tutta spagnolesca anche se non era del tutto
sconosciuta la moda francese. Non per nulla il reame di Napoli era
asservito sin dal 1444 al predominio di popoli provenienti da terra iberica.
All'epoca le donne, anche quelle di ceto superiore, non disdegnavano di
eseguire lavori di cucito e ricamo. Anzi, possiamo dire che una tale attività,
non essendo concesso al gentil sesso di frequentare scuole e altro,
rappresentasse, assieme alla pratica religiosa, una grande valvola di sfogo.
L'essere stati costretti, a volte, ad affidare al monte dei pegni oggetti di
casa può voler dire sia che nel frangente si vivesse in ristrettezze sia che,
essendo scarso il contante, ognuno fosse spinto spesso a ricorrere a
un'istituzione del genere per i propri negozi.
Nomina dei deputati del tabacco (l664)*
Recatisi dal notaio, il sindaco dei nobili mag. Francesco Grillo, quello del
popolo Carlo Lucà e l'eletto Antonio Santacroce fecero presente come, su
ordine espresso dalla Regia Camera della Sommaria e dall'uditore delegato
per l'arrendamento del tabacco nella provincia, avessero deciso di nominare
quali persone habile, et idonie a svolgere il compito in Oppido Domenico
Grillo e Giovanni Vela. Costoro avrebbero dovuto riceversi dal regio
arrendamento 70 libbre del prodotto e metterlo in distribuzione tra il
capoluogo e i casali di Varapodi, Tresilico e Messignadi. Non era proprio
possibile prelevare di più dato ch'era ormai scontato che in detti paesi non
sarebbe stato agevole esitarne oltre. In virtù di tale operazione sindaci ed
eletto venivano a impegnarsi in prima persona nel caso che quei loro
incaricati non avessero provveduto al pagamento di quanto consegnato al
prezzo stabilito e nelle tande (rate) consuete. Assieme alle somme non
corrisposte, essi sarebbero stati tenuti a rifondere anche spese e interessi32.
* Pubblicato in "La Città del Sole", a. VI-1999, n. 4, p. 18. 32 SASP, Libro del prot. di nr. Camillo Vistarchi, Oppido, a. l664.
23
Sequestro di seta (l692)*
Dalle dichiarazioni che il l0 agosto l692 fecero al notaio i reverendi d.
Giuseppe Paonne e d. Antonio Martello, Giovanni Rijtano, Leone Leale, il
regio annotatore di seta mag. Francesco Ruffo, nonché i mastri Francesco
Ripepe, Giuseppe Petr'Antonio, Antonino e Giuseppe Mulluso, Antonino
Loffo, Lorenzo Fasano e Iacopo Caligiuri, veniamo ad apprendere di un
sequestro di seta operato dal governatore dell'arrendamento della
provincia, d. Bartolomeo Bongiovanne, il l9 luglio precedente.
Quest'ultimo, essendo venuto a conoscenza che in una camera bassa della
casadel sindaco dei nobili, dr. d. Francesco Antonio Rocca, si trovavano
depositate le sete che i cittadini in debito per i fiscali erano costretti a
lasciarvi sera per sera a garanzìa degli stessi, si portò in Oppido e si fece
subito recare innanzi il Regio Compratore delle sete per l'anno e Casciero
Universale, mag. Domenico Antonio Zerbi. A costui chiese immantinente la
chiave di detta camera e lo ritenne per carcerato. Quindi, incaricò il suo
scrivano Nicolò di Gennaro di andare ad arrestare con l'ausilio di una
squadra il medesimo sindaco. Quando si fece l'ora del vespro, inviò a sua
volta, unitamente allo Zerbi, il mastrodatti nr. Antonino Franzone, che
provvide a requisire 405 libbre della seta, che vi si conservava, adducendo a
motivo ch'essa fosse intercetta.
Non valse a nulla che sindaco e regio compratore protestassero
pubblicamente per il sopruso affermando che tale prodotto, mai acquistato,
era ritenuto solo in forma di deposito e che, non appena fosse uscita la Voce
del prezzo, quanto restava dopo il pagamento delle segnalate tasse avrebbe
dovuto essere restituito ai legittimi proprietari. Peraltro, di ciò ch'era stato
incamerato se ne sarebbe avvalsa l'università per pagare la Regia Banca e
pesi forzosi. Non si conosceva quanta seta vi fosse stata raccolta, ma soltanto
la quantità delli occhi, come era possibile osservare dalle cartelle appese a
ogni mazzo e dal foramento che si teneva nella medesima cassa in cui era
stata immessa33.
* Pubblicato in "La Città del Sole", a. VI-1999, n. 2, p. 18; "Storicittà", a. X-2001, n. 94,
pp. 50-51. 33 SASP, Libro del prot. di nr. Giuseppe Fossare, Oppido, a. l692.
24
A un quarantennio dal Grande Flagello*
La nobiltà
Dato l'immane, terrificante sisma che il 5 febbraio del l783 venne a
sconvolgere buona parte della Calabria meridionale, poco rimane negli
archivi pubblici e privati che possa permetterci di ricostruire le comunità
urbane che si evidenziavano immediatamente prima di quel gravissimo
frangente. Ciò è maggiormente accertabile per quei paesi che, come
Oppido, dovettero addirittura cambiare di sede, avviando un iter nuovo
sotto tutti gli aspetti. Infatti, spesso fu un "habitat" del tutto diverso da
quello in cui la vita aveva pulsato per svariati secoli ad accogliere le
spaurite popolazioni, decimate non solo dal sinistro, cui erano andate
soggette, ma da successive epidemìe e altri conseguenziali malanni. Quindi,
per tentare di rappresentare quale fosse in prossimità del crudo evento la
situazione, non ci rimane che riferirci alla metà circa del secolo, quando, per
ordine sovrano, fu sollecitata la formazione dei catasti onciari, così detti
perchè gli incaricati del governo consideravano il patrimonio dei cittadini
sulla base dell'oncia.
A Oppido un tal genere di ricognizione a uso del fisco venne effettuato
nel l746. Si poterono verificare allora le sostanze e gli impegni lavorativi di
circa l.310 persone, quelle effettivamente presenti all'atto nell'agglomerato
dell'altopiano delle Melle. È certamente esso il dato più probante, tenuto
conto che scarsa fiducia si può nutrire nei confronti delle cifre offerte
dall'autorità ecclesiastica. Ci sembra, infatti, poco accettabile che in otto
anni dal l738 la popolazione possa essersi assottigliata di quasi 300 unità (il
vescovo Vita, nella sua relatio ad Limina di quell'anno, scrisse di l.600) o che
a distanza di 36 si sia accresciuta di ben l.l50 (il cancelliere di curia registrò
per il l782 il numero di 2.460 abitanti).
Iniziamo il nostro viaggio fra la popolazione oppidese pre-terremoto
riportando idealmente in vita per primo il ceto che all'epoca si qualificava
* Pubblicato in "La Città del Sole", a. IV-l997 n. ll p.20, n. l2 pp. 21 e 30; a. V-l998 n.
3 pp. l8 e 30, n. 5 p. l8, n. 6 p. l8; n. 9 p. l8, n. ll p. l8; a. VI- l998 n. l p. l8, n. 3 p. 22,
n. 5 p. 22.
25
al sommo della scala sia per la detenzione dell'effettivo potere esercitato in
ogni campo che per il patrimonio più vistoso acclarato. Intendiamo portare
il discorso, naturalmente, sulla nobiltà, i cui esponenti non solo facevano il
bello e cattivo tempo nelle amministrazioni pubbliche forti del sostegno del
"Padrone", il feudatario, di cui erano a volte peraltro la "longa manus", ma
insistevano ad accaparrarsi le più lucrose attività. Tanto per dirne una, in
un'economia tipicamente contadina basata soprattutto sulla coltura
dell'ulivo i trappeti erano quasi di loro esclusiva proprietà34.
La famiglia di stampo nobiliare a emergere in Oppido per prima, la
Grillo, non era autoctona, ma proveniva da Genova anteriormente
all'acquisto da parte di Carlo Spinelli, esponente di un ceppo, di cui la
stessa sarà a lungo fedele. Addirittura, nel l6ll Muzio prestò a quel
feudatario per l'occasione una somma di denaro. Comunque, gli iniziali
membri cominciano ad apparire sin da molti anni avanti. Nel l567 Delia,
che andava sposa a Camillo Sartiani, otteneva la dispensa papale sul quarto
grado di consanguineità.
Nel l746 il Grillo che vantava il patrimonio più alto era il sessantunenne
d. Girolamo, vedovo di d. Aurelia Grillo, che verrà a morte nel l75l.
Abitava in una casa propria con i figli d. Agazio decano (a. 35), Lorenzo [31;
con questi c'erano la moglie Cornelia Grillo a. 36 e i figli Girolamo a. 8,
Lelia a. 4, Filippa in fasce, d. Francesco (a.28 †l757; stavano assieme la
moglie Caterina Barletta Santa Croce a. 26 e il figlio Marcello a. 3;
quest'ultimo sarà uno dei rifondatori di Oppido in contrada Tuba], Lucrezia
vedova di Girolamo Zerbi (26), Aurora sposata a Seminara (24), Cornelia
(22), Giulia ma probabilmente anche Cecilia accasata a Sinopoli con d. Carlo
Antonio Ruffo (30) e Filippo (l2;Chierico in habitu ; nel l754 sposerà Aurora
Sartiani). A tutto questo po' po' di gente accudivano un lacchè, Francesco
Fotia (34) e tre serve, Saveria (32) e Caterina (l5) Rajmondo sorelle e
Domenica di Sitizano (30).
Le sostanze di d. Girolamo, valutate once 2.127.26, consistevano in
tenute agricole ubicate nelle contrade Levadi, Fiorello, S. Nicola, La Chiusa,
34 I dati extra l746 sono desunti dalle relationes ad Limina dei vescovi, atti curiali,
registri parrocchiali e notarili e dal regesto vaticano di padre Russo. I numeri fra
parentesi esprimono gli anni di ogni individuo variamente riferiti. Onde snellire
la pubblicazione, abbiamo evitato di aggiungere a ogni nome l'appellativo di d.
(don), facendo eccezione solo per l'esponente principale della famiglia.
26
la Croce, Tricuccio, S. Biagio, Cannavaria, Puzzura, lo Barone, la ferrera,
Gallora, lo sicco, Vagliano, Sportà, l'oliveto, lo stritto, li lacchi, li molina,
Vermiciti, Scropari, la Varchera, Piombino, la Reggia e recanti olivi,
castagni e gelsi; censi dovuti dalle università di Oppido e Tresilico nonché
da sei persone; 3 trappeti siti rispettivamente in Oppido, Messignadi e
Varapodi; l30 pecore, 8 bovi aratori, 9 bovi di corpo e 8 mule. Come si vede,
dei beni di considerevole entità.
Da parte sua, il decano d. Agazio, divenuto tale nel l730, possedeva un
suo fondo personale in contrada Cannavaria, probabilmente quello
concessogli dalla famiglia all'atto dell'entrata in seminario per la richiesta
costituzione del patrimonio, che risultava coltivato ad ulivi e soggetto alla
valutazione di once 46.20.
Seguiva il dr. d. Saverio (a. 46), arcidiacono pure lui dal l730 e, indi,
vicario generale della diocesi, che morrà nel l760 all'età di 60 anni. Godeva
egli di sostanze stimate once 890.04, che, tolte l94.l8.9 per pesi, pervenivano
a 695.l5.3. Si trattava di proprietà rilevate, tra l'altro, nelle contrade
Marcone, S. Biagio, Levadi, Crusoni, Cannavaria, Calabrò, Perleone, lo
Stritto, l'oliveto, la Chiusa, li lacchi, S. Marina, Iona, dove risultavano
piantati olivi, gelsi e castagni; di un trappeto, 3 vacche di costera e qualche
censo.
Altro sacerdote della famiglia a vantare discreti cespiti era d. Domenico,
che, a fronte di un patrimonio di 346.l0 once, evidenziava pesi per 253.l0,
quantificandosi l'esito finale in once l55. Il tutto si diversificava in possessi
fondiari localizzati, tra l'altro, nelle contrade la Biviera, Grassina, lo
Cannolo, Folari, Crusoni, Lami, Vallica, lo Capocanale, la Petrara, lo
Villano, Fiorello; 20 scrufe campestri, l00 capre e un trappeto a Tresilico.
D. Giuseppe Grillo, con l'aggiunta Caracciolo, probabilmente per la
nonna paterna o qualche ava, figlio di Domenico e Carlotta Grillo, era in età
di 39 anni e aveva sposato Cristina Sartiani (25). All'epoca viveva in casa
propria con la moglie, i figli Carlotta (l) e Domenica (in fasce) (a queste si
affiancheranno Anna [l756-l826] e Concetta, che sarà condotta in
matrimonio nel l768 da Vincenzo Migliorini), la madre (50), le sorelle
Aurelia (37; maritata a Seminara con Francesco Mezzatesta e deceduta nel
l768 a Oppido, ma traslata nel paese del consorte) e Nunzia (34; sposata a d.
Giuseppe Rocca) e i nipoti Francesca (6) e Lorenzo (4). Vi badavano un
coco, Matteo Formica (30), due serve, Caterina Grillo (l8) e Caterina Furina
(60), Domenico Spatafora volante (l0) e Gioanna Sofrà (28) lattàra. D.
27
Giuseppe verrà a morte nel l768 e sarà sepolto nella chiesa dei cappuccini,
dove la famiglia godeva del diritto di patronato, avendo sostenuto nel l590
le spese per la fondazione del convento. Il patrimonio, considerato in l78.20
once, consisteva unicamente in proprietà agricole ricadenti tra l'altro nelle
contrade lo Molino, Zirgoli, Virga, lo cenzo, la Zighia e D. Camillo.
Altro sacerdote benestante era d. Alfonso Maria, canonico dal l741,
decano dal l763, arcidiacono e luogotenente generale nel l768, deceduto nel
l784. I suoi beni, valutati in 210 once, erano basati su 4 censi, 2 bovi ed un
trappeto in contrada Cannavaria. Tolti i pesi in ragione di l54.l8, alla fine
poteva contare su un patrimonio di sole 55.l2 once.
Once 99.l7 rappresentavano la fortuna di d. Lorenzo (33), della moglie
Gregoria Sanchez (33), seminarese e delle figlie Teresa (5) e Dianora (2),
che, dedotte 39.10 per pesi, diventavano 60.07. I possessi erano,
naturalmente, fondiari e si evidenziavano nelle contrade Majdi,
Cannavaria, Sambiasi e Crosoni, dove si rinvenivano, tanto per cambiare,
ulivi e gelsi. Badavano alla famiglia, che abitava in casa propria, due serve,
Anna Pezzimenti (l4) e Gioanna Surace (26) e un garzone, Bruno Perlingò
(28).
A chiudere la lista per il ceppo Grillo erano d. Antonio (26), figlio di
Giuseppe e Ippolita Gemelli (†l758 a. 70), che usufruiva di casa propria, cui
limitava un appezzamento con fronde, assieme alla madre e ai fratelli
Giuseppe (23); Grazia (38) e Beatrice (34; ved. di Lorenzo Grillo di
Melicuccà). Erano addette alla famiglia due serve, Elisabetta Perrone di
Polistena (30) e Livia Lodata di Siracusa (32). L'ultimo Grillo, oltre a quanto
detto, possedeva un fondo in contrada Folari con alberi di ulivo e due bovi
a uso dei suoi giardini, il tutto per un valore di once ll.21. In successione di
tempi, nel l750, condurrà all'altare Antonina Candida di Gerace e avrà
Ippolita (l752-l754), Filippa (l754), Giuseppe Maria (l758-l851) e Anna
(l762).
Al più dovizioso Grillo teneva dietro nella scala dei valori l'unico
rappresentante della famiglia Rocca, di recente pervenuta da fuori e che
lasciò il nome a una contrada prossima alla nuova Oppido. Nel l648 era
presente nell'antica città d. Giuseppe Rocca di Lauriana, mentre nel l692 il
dr. Francesco Antonio si segnalava qual sindaco dei nobili (nel l726 sarà
governatore del monte di pietà). Nel l695 si trovava quale arcidiacono e
vicario generale d. Gerolamo, residente sin da molti anni prima del l68l.
28
D. Giuseppe Rocca (prob. a. 46), che verrà a morte nel l750, s'imparentò
con i Grillo sposandone Nunzia (40). Abitava in casa propria con la moglie
e i figli Francesca (l0; nel l752 si unirà a Giuseppe Grillo Gemelli e nel l758,
mortole il marito, ad Alfonso Migliorini), Giesoria (7), Carlotta (5) e
Caterina (3). Aveva al suo servizio due donne: Isabella Lemmo (50) e
Francesca (l2). Il suo patrimonio ammontava a once 9l9.26 e si diversificava
come segue: tenute di olivi, gelsi e castagni nelle località lo Iudeo, la
Varchera, S. Biagio, Puzzura, Fiorello, la Pagliara, Loddeni, Previtileo,
Capone, Marino, Levadi, Trecuccio, li cippi, Laudari, la carcara, Cauddari;
un trappeto nello stabile di Folari; 2 bovi aratori e 3 vacche di corpo.
Anche per la famiglia Sartiani appariva soltanto un esponente e per di
più sacerdote. Com'è possibile ciò quando atti notarili e parrocchiali ce ne
offrono in parecchi per il periodo, di cui ci stiamo occupando? Se non ci
sono lacune nelle registrazioni del catasto, dobbiamo arguire che la più
gran parte di essi si trovassero ormai a Seminara al seguito degli Spinelli.
Un d. Francesco, tra l738 e l760 la faceva da padrone nelle terre di Seminara
e Melicuccà. Il ceppo, di sicura provenienza reggina e che lasciò il nome a
un toponimo nei pressi di Messignadi, si evidenziava a Oppido sin dal l544
con Giulio e Scipione. Il primo godeva dello iuspatronato della chiesa di S.
Sinoieni, il secondo n'era rettore.
L'abate dr. Saverio, forse lo stesso che nel l77l-l772 sarà avvocato in
Napoli, mostrava possedere sostanze per 556.l7 once, ridotte a 498.26.6 per
pesi in misura di l7.30.6. Il tutto poggiava su appezzamenti agricoli nelle
contrade Cavaglioti, Cannavaria, la Chiusa, lo Vallone della Rena, Folari, la
Ranici con piante di ulivi, gelsi, castagni ed alberi fruttiferi; un orto
attaccato al palazzo; un trappeto in Tresilico; una casa data in fitto e
un'esazione.
Il capo dell'unica famiglia dei Mesiti, di certa derivazione geracese in
lontani tempi, d. Giuseppe, nel l746 era nel mondo dei più e gli
sopravviveva la moglie Beatrice Ceratti, che a sua volta morrà nel l751 a 76
anni e verrà sepolta nel convento degli osservanti in sepulchro suorum
majorum, evidentemente appartenente alla casata del marito. All'epoca della
formulazione del catasto, Beatrice, che dimorava in casa propria con i figli
Pasquale (l3; scolare), Bernardino (21; chierico in habitu) e Caterina (l8),
aveva un patrimonio del valore di once l86.08 per tre tenute nelle località
Zirgoli, Gallizzi e lo Iudeo con piante di olivi e gelsi e una casa con orto
piantato a gelsi. Accudiva una serva, Nunzia Lentini, dodicenne.
29
I primi della schiatta a comparire in diocesi di Oppido sono, nel l539,
Luigi e Marino. L'uno subentrava all'altro nella conduzione della chiesa
parrocchiale di Galàtoni.
Una stirpe di antica origine in Oppido era la Recanati o Riganati, da cui
il nome all'omonima contrada, ma in quel l746 l'unico rappresentante, d.
Francesco Antonio, era di già defunto. Vi permaneva la vedova, Caterina
Capuano (43), altra esponente di una prosapia di vetusta ascendenza ormai
in esaurimento, che abitava in casa propria con attiguo orto dotato di
fronde e godeva di una tenuta in contrada Zirgoli, ov'erano piante di olivi,
castagni e gelsi; 7 censi da varie persone e metà mula, il tutto per un valore
di once 99.l2. Non mancava una serva in persona di Gioanna Battista (30).
Dei genitori di Francesco Antonio si conosce solo il nome della madre, la
mag. Margherita Seminara.
Il primo dei Riganati ad apparire dai vecchi registri è Marc'Antonio nel
l6l6, che nel l66l figurava feudatario di San Calogero e nel l664 affittuario di
Castellace. Dei Capuano a farsi vivo inizialmente è Ottavio nel l625.
A evidenziarsi ora è un rappresentante della Migliorini, famiglia di
recentissimo ingresso a Oppido, circa la metà del '600, da Sinopoli, d.
Domenico, di Fabrizio e Giulia Cavallaro (34), ammogliato con una
rampolla di casa Sartiani, Giulia (28) e con figli: Lucrezia (6), Francesca (5),
Aurora (2), Caterina (l) (è sicuramente suo figlio anche Francesco, futuro
ministro di grazia e giustizia e dell'ecclesiastico, che morrà esule a Palermo
nel l8ll al seguito di re Ferdinando IV di Borbone). Abitava in casa propria
con i familiari più il fratello Alfonso (27) e la zia Maria (79). Vi si rilevano
anche una nutrice, Girolama Zangari (28), il lacchè Michele D'Amico (l8),
due serve Caterina Grio (l6) e Ippolita Verteri (l5) e un garzone, Biagio
Ruffo (23). Figuravano sue sostanze tre tenute con castagni, olivi e fronde a
Levadi, la Grazia e Rigusto; un orto dietro casa, 4 vacche di corpo e un
trappeto equivalenti a once 85.ll.
Ultimo è ancora un Migliorini, il rev. d. Giuseppe Antonio, cui si fa
carico di una proprietà in contrada Lamia per un valore di appena 9.34
once. Nel l742 aveva ottenuto dispensa super defectum natalium.
Come si è potuto notare, dalla serie delle famiglie nobili dell'antica
Oppido a metà del '700 non si faceva più parola di Capone (il nome è
rimasto appiccicato a una località vicina alla nuova città), Geria e Licandro,
casati certamente ormai estinti.
30
Da quanto emerge da ciò che abbiamo riportato, è facile congetturare
come la nobiltà oppidese si dedicasse a metà del '700 unicamente a
potenziare sempre più le risorse agricole che allora andavano per la
maggiore, l'ulivo e il gelso e che, sull'onda delle geniali intuizioni di un
nobile seminarese, Domenico Grimaldi, si fosse subito dotata del mezzo
utile a macinare le proprie ulive e quelle degli altri, sicuramente fonte di
grossi introiti data l'impossibilità per i cittadini privi di pingui sostanze a
erigerne uno. Di essi, in numero di 8, tre erano dislocati in città, 2 a
Tresilico, l a Messignadi, l a Varapodi e un ultimo nella contrada Folari.
Scarso, invero, l'impegno per l'allevamento, che registrava a malapena la
presenza di l00 capre, l30 pecore, l0 bovi aratori, 9 bovi di corpo, 4 bovi per
uso dei giardini, 3 vacche, 7 vacche di corpo, 20 scrofe campestri e 8 mule e l/2.
Così pure in merito alla carriera ecclesiastica. Se si accertavano 5 sacerdoti
di espressione nobiliare, soltanto due erano i "chierici in habitu", ma di essi,
come verificato, almeno uno più tardi contrarrà matrimonio.
La nobiltà, qualunque fosse la sua possanza, non rinunciava certo a far
compiere in casa le operazioni più umili a donne prese a servizio, per lo più
del luogo e quasi sempre coabitanti. Nel l746 si ravvisavano ben l5 serve,
quindi in proporzione di due a famiglia, che andavano dai l2 ai 60 anni. Più
numerose le ragazze dai l0 ai 20, che si qualificavano in 7 e dai 30 ai 40,
ch'erano in sei. A eccezione di una di Sitizano, altra di Polistena e altra
ancora di Siracusa, erano tutte del paese. In aiuto ai nuclei abitativi si
rilevano peraltro ancora due garzoni, due lacchè, un volante, una nutrice,
un cuoco e una lattaia.
La classe nobiliare, da quanto risulta, raggiungeva a Oppido nel l746
appena il 4,2%.
La classe dei civili
Erano un tempo qualificati civili o gente che vive civilmente tutti coloro
che, pur non essendo considerati nell'ambito del ristretto numero delle
famiglie nobili, venivano tuttavia tenuti in gran conto per i loro patrimoni -
leggi soprattutto fondi rustici - e la vita sociale condotta. Ma non si
ritrovavano in pochi coloro che alle stesse giungevano spesso ad accostarsi
allacciando rapporti matrimoniali.
Alla famiglia Malarbì, di sicura derivazione da Gerace, apparteneva il
civile più in alto nella scala dei valori. Era il dr. d. Orazio (a. l9), di
31
Giuseppe e Vittoria Sofrà (46), che in Oppido conduceva la sua esistenza in
una propria magione assieme alla madre, ai fratelli Domenico Antonio (l8),
Francesco Antonio (l6), Vincenzo (4; scolare), Saveria (l7; nel l747 andrà in
sposa a Pasquale Zerbi e verrà a morte nel l780) e Rosaria (7; nel l754 sarà
impalmata da d. Michele Alessandria Protopapa di Monteleone) e a una
serva, Antonia Barbaro (l6). Le sue condizioni apparivano parecchio floride.
Le once 900.05.6 denunziate riguardavano la valutazione di proprietà
fondiarie ubicate, tra l'altro, nelle contrade Folari, Rigusto, Puzzura, la
foggia, la Chiusa, li Pilli e Cannavaria piantate a olivi, gelsi e castagni; l0
censi; 4 bovi aratori, 8 vacche di corpo; 60 capre di corpo e il trappeto di
c.da Folari.
Il più antico esponente di tale casato a sortire dagli atti vaticani è
Marcello, che nel l567 venne nominato arcidiacono della cattedrale
oppidese con provvista anche della chiesa di S. Giovanni di Buzzano.
Seguiva la Zerbo poi Zerbi, di ascendenza corsa, forse proprio dalle
isole Gerbe, da cui il nome. D. Nicola Francesco (47), che aveva sposato la
nobile Lucrezia Mesiti (34), viveva in una casa propria, oltre che con la
moglie, con il figlio Pasquale (11; condurrà in matrimonio Saveria Malarbì)
e due servi, Rosa Pascalino (l8) e Giuseppe di Franza (l0). Possedeva
appezzamenti dislocati nelle contrade la Bozza, lo Molino (ov'era anche un
trappeto), la Mella, Previtileo, Santa Marini e l'Aranghi, forti di olivi e gelsi;
4 vacche e 2 bovi aratori e un'esazione per un ammontare valutato in 350.ll
once.
Il primo del ceppo ad apparire da documenti vaticani è Gaspare, nel
l630 provvisto di un beneficio in diocesi di Oppido.
Terzo in lista si trovava, a quanto ci sembra di poter ricavare dal
consunto documento, il nr. Domenico Romeo (47), peraltro effettivamente
in servizio all'epoca, con la sua famigliola, che si componeva della moglie
Flavia Raccosta (38?) e dei figli Maria (l8), Bartolomeo (ll), Michele (6),
Francesco (3), abitava in casa propria. Godeva di un patrimonio considerato
in l36.07 once e riferito a tenute dislocate, tra l'altro, nelle contrade la
carrubara, la fellusa, Rigusto, la Chiusa e S. Nicola evidenzianti olivi e
castagni e a 30 capre di corpo.
Dei Dimana il più quotato rappresentante era il notaro Francesco
Antonio (50?), marito di Angiola Italiano (35), il cui nucleo familiare si
completava con i figli Romano (?, l8), Carlotta (l0; sposerà Marco Antonio
Barba di Seminara), Teresa (6, contrarrà nozze con Michele Guardata di
32
Seminara, probabilmente il notaio), Filippa (4). Come un civile che si
rispetti, risiedeva pur lui in una casa propria e usufruiva delle entrate
provenienti da proprietà nelle località Spolisaria, lo Rechio, Tricuccio,
Cannavaria, la Cappella, Levadi, lo Burgo con piantagioni di olivi, castagni,
gelsi e vigna; un'esazione; un trappeto e due case in fitto. Il tutto si stimava
per l28.43 once.
Del ceppo Cananzi si rivelava il notaro Francesco, al tempo già
deceduto, la cui moglie, Domenica Romano (35), viveva in casa propria con
la suocera, Caterina Potitò (60) e la serva Caterina Schiava (22). Erano suoi
cespiti 4 tenute agricole dotate di olivi, fronde e castagni, un'esazione e una
casa data in fitto, il tutto equiparato a l02.l8.3 once.
Comincia ora la sequela dei Fossare, famiglia cui appartennero vari
notai. Si parte con Carmine (38), figlio di Goffredo e marito a Giulia Lucà
(?37), abitante in casa propria con moglie e fratelli, Pasquale "chierico in
habitu" (ll; verrà a morte nel l793 col grado di decano), Giovanna (l0) e
Riposa (3). I suoi possessi concernevano un orto dietro casa e tenute nelle
contrade Levadi, Cannavaria, Tricuccio, lo molino vecchio, la rotonda,
Marino, Sciotti, Podajsa, Costarello con piante di olivi, castagni, gelsi,
querce. Erano di sua proprietà anche 3 case date in fitto e un bove, con il
tutto che raggiungeva il valore di circa 99 once.
Domenico Fossare, notaro, coniugato con Domenica Scarcella (?), aveva
per figli Caterina (28), d. Giuseppe sacerdote (?), Francesco (?), p. Felice (?)
vicario dei paolotti, Bruno (l7) chierico, Ignazio (l5), Vincenzo (l0), Rosa (8).
Teneva un garzone, Gioanne Frisina (20). Vantava un patrimonio
ammontante a once 14.07 attinenti a fondi situati, tra l'altro, nelle località
l'Amella, Bombicino, Marino, lo Piliere, S. Biagio e dietro la sua stessa casa
con fronde, olivi e castagni, un'esazione; il fitto di una casa e un bove
aratorio.
Infine, il rev. d. Giuseppe, il quale, per due case locate, di cui una al
Borgo, era considerato titolare di sostanze per l4 once.
Basilio Lucà (44), ammogliato con Livia Zerbi (43; il matrimonio si
celebrò nel l725 e la sposa recò di dote 900 ducati in beni mobili ed
immobili), dimorava in casa propria con la stessa ed una serva oriunda di
Calanna, Gioanna Fedele (48). Le sue sostanze consistevano nei fondi
ubicati nelle contrade Lamia, S. Nicola, Mazzanova, Puzzura, ov'erano
alberi di olivi e gelsi e terre oratorie; in un'esazione, 2 bovi per acconcio dei
33
suoi giardini, 9 vacche ad allievi cioè adatte all'allevamento e nel fitto di una
casa. Si assegnava per esse un valore di 93.22.4 once.
Altro Lucà era Nunziato (l6), che in casa propria viveva unitamente alle
sorelle Anna (28), Maria (26), Rosaria (25), Ippolita (l9) e al fratello
sacerdote d. Carlo. La sua fortuna consisteva in appezzamenti siti nelle
località lo passo della femina e Zirgoli e nell'affitto di una casa, con
valutazione di 6.20 once.
Domenico Furina (37), con moglie Rosaria Dilio (25) e figli Francesco
(7), Teresa (4), Saverio (l), la sorella Saveria (32), la madre Caterina Plejtano
(60) e il servo Alfonso (?;l3), abitava in una casa di sua proprietà unitamente
al fratello arciprete d. Francesco. Godeva soltanto di quanto offriva una
tenuta in località Mazzanova, ove si coltivavano olivi. Si stimava tale per
312.21.9 once. Da parte sua, il can. d. Francesco era stimato proprietario di
terre coltivate per appena l0.25.6 once. ubicate nelle contrade Crusoni,
Bombicino, lo passo della femina e lo Iudeo, evidenziavano piante di olivi e
gelsi. Ma il peso era di gran lunga superiore alle entrate ammontando ad
once 26.04, cosa per cui quegli non era sicuramente tassabile.
Per i Vistarchi si qualificava primo il canonico d. Francesco, proprietario
di fondi alla Porta di sopra e nelle contrade Cannavaria, Tricuccio, la Pietra,
con alberi di olivi e gelsi, il tutto per 60.l8 once. Avendo di pesi l6.05, alla
fine gli restavano 44.l3. Un tal sacerdote verrà a morire nel l761 all'età di 66
anni. Altro della famiglia era Domenico, fratello dello stesso (41), che
abitava in casa propria seco lui e gli altri germani, Ippolita (36) e Saverio
(34).
L'unico capo famiglia dei Girardis a comparire in quel l746 è Domenico
(34) che in casa propria conduceva la sua esistenza assieme ai fratelli
Giacomo (31) e sacerdote d. Francesco (36) e allo zio canonico d. Domenico
(59). I suoi beni consistevano appena in una tenuta valutata l3.l0 con un
peso addirittura di l7.l0, cosa per cui era esentato da ogni tassazione.
Dei Leale erano presenti in due, il can. Francesco, di Giovan Battista e
Giulia Lucà, cantore della cattedrale morto nel l768 a 6l anni, possessore di
tenute a Zirgoli e Mazzanova per un valore di 60.26 con olivi e gelsi con
peso di 42.34 e quindi alla fine tassato per l8.02, e Domenico Antonio (29)
marito a Beatrice di Maria (21), che abitava in casa propria e poteva contare
su possessioni nelle contrade la Cappella e Maurello con alberi di gelsi per
un ammontare di l7.11 once. Saranno figli della coppia Pasquale (l750;
34
vedovo di d. Cecilia Vistarchi, sposerà nel l784 d. Flavia Romei), Felice
(l752), Antonino (l753) e Vincenzo (l756).
Ultimo della serie dei civili è Matteo Capalbo (56), che dalla moglie
Nunzia Gaglianò (52) ebbe i seguenti figli: Angiola (l8), Saverio "chierico in
habitu" (l7), Antonio idem (l5), Felice (9) e Filippo (7). Teneva per serva
Antonina Ciana di Sinopoli (40). Aveva casa propria, dietro la quale un orto
con piante di gelsi e tenute nelle località Levadi, Zirgoli, Puzzura, Calabrò
con alberi di olivi e gelsi e un'esazione, il tutto per 75.08. once. Il capo
famiglia scenderà nella tomba nel l754 e i figli sposeranno come segue:
Felice nel l754 Anna Italiano e Filippo nel l759 Gregoria Cananzi.
A mettere in chiaro le differenze sostanziali tra nobili e civili non ci
vuole proprio una grande lungimiranza. Se i primi, accertati in l4 nuclei di
gran lunga più doviziosi in fatto di possedimenti fondiari, vantavano il
possesso di otto trappeti, i secondi, in numero di l5, ne evidenziavano
soltanto tre, di cui uno nella contrada Folari. Ai l5 servi, che accudivano i
nobili, facevano da contraltare appena 7, dei quali una proveniva da
Calanna e altra da Sinopoli, con un solo maschio e ben quattro dai l0 ai 25
anni, con il resto compreso tra 40 e 50. Uno solo era il garzone. Più
numerosi i civili, sicuramente, in braccio alla Chiesa e nel campo del
notariato, forse di sua esclusiva competenza quest'ultimo. Difatti, se ne
rilevavano rispettivamente in 7 e in 5. Tre risultavano i "chierici in habitu" e
uno il religioso dell'ordine dei paolotti. Scarso davvero l'apporto dato
dall'allevamento: l0 bovi, 21 vacche e 90 capre. Maggiore consistenza si
evidenziava nei fitti di case, che assommavano a 9 contro una.
La percentuale di coloro che a Oppido vivevano civilmente si attestava
al 5,6%, sempre in riferimento al totale della popolazione, quindi
qualificandosi di poco superiore a quella espressa dalla nobiltà.
In predicato di passare tra i civili, ma non ancora del tutto emancipati,
doveva essere chi nel catasto era contrassegnato con la dicitura vive del suo.
In tale posizione si evidenzia appena un nucleo familiare, ch'era composto
da Saverio Costarello (almeno così ci pare di poter leggere) (l9) e dalla
madre Elisabetta Musitano (50). I due abitavano in casa propria e
possedevano un patrimonio valutato in once 52.07 così articolato:
appezzamenti fondiari nelle contrade Cavaglioti e Levadi con piantagioni
di olivi, castagni e frutti; fitto di due porche; 4 capre di corpo.
35
Il clero
Nel '700 in Oppido, capoluogo diocesano da almeno sette secoli, nonché
nei suoi casali di Varapodi, Tresilico, Zurgonàdi e Messignadi, come
naturale, doveva rilevarsi un numero abbastanza folto di sacerdoti. Il
catasto onciario del l746 ne registra ben 46 e in buona parte doviziosamente
dotati. Ma di essi soltanto cinque erano di sicura estrazione nobiliare e
appena quattro del ceto dei civili. Ben 37, quindi, si qualificavano di
differenti natali.
Il primo della numerosa cerchia a evidenziare il patrimonio più vistoso -
ne abbiamo scritto in precedenza - era un esponente della casta più in auge
al tempo, d. Saverio Grillo, cui si faceva carico di sostanze valutate 890.04
once. Altri dello stesso ceppo erano d. Domenico con 346.l0 e d. Alfonso
Maria con 210.
Seguiva al primo Grillo sulla scala dei valori il rappresentante di una
famiglia di Varapodi, d. Giuseppe Antonio Facciolo, titolare di un beneficio
laicale. Le once 887.l5 ridotte a 471.l4.9 per i pesi, cui era obbligato, in
ragione di 416.00.3, che allora vantava, si ricavavano da proprietà fondiarie
dislocate nelle contrade Macria, li gutti, Ranghi, lo Margio, l'Europa, lo
Vazzarro, Lifracà, lo Passo della Zita, S. Basì, le lenze e in qualche altra,
dove risultavano piantagioni di olivi e gelsi; un trappeto; una giumenta; 5
bovi; 9 vacche atte ad allievi e 40 pecore.
Era buon terzo d. Francesco Antonio Lenza, anche lui sicuramente
varapodiese. I suoi cespiti si quantificavano in once 579.23, i pesi in 204.l2.9,
cosa per cui la somma tassabile si attestava sulle 375.l2.9. Detto possedeva
fondi nelle contrade Lifracà, Sportà, Pofagna, Iona, Cioppea, Tesorerato con
piante di olivi, gelsi e noci; un trappeto con dietro un orto; 2 bovi di
massaria e una somarra.
Teneva appresso d. Saverio Sartiani, che, come già rilevato, godeva di
sostanze stimate once 556.l7.
Pietro Giacomo Augimeri, anche lui, di certo, da Varapodi, evidenziava
beni per 497.02 once, che si riducevano poi a l9l.22 a causa di pesi per 305.l0
once. Si trattava di possessioni ubicate nelle località Cerazzo, Macria, Runci,
Calabrò, Sambasì, Le Valli, Le Pille, forti di olivi e gelsi; di un trappeto in
Varapodi e di altro a metà col rev. d. Nicola Longo; del fitto di una casa; di
un certo numero di vacche e bovi di masseria (non si riesce a leggere il
numero) e 9 scrofe.
36
Altro facoltoso varapodiese era l'abate d. Francesco Ascrizzi, che
denunziava beni per 443.l5 once, che, tolte l83.29.l0 per pesi, si collocavano
a quota 259.l5.2. Tale fu parroco di S. Nicola al suo paese dal l726 al l774. Il
tutto consisteva in fondi ricadenti nelle contrade Le gabelle, Macria, Sportà
seu Ingegno, Carpinello, la Marzola coltivati a olivi e gelsi; un orto dieto
casa; un trappeto; 8 bovi di masseria; l0 vacche idem; 2 somarre; l0 scrufe
campestri e l6 pecore.
Di Varapodi era anche d. Patrizio Longo, u.j. d., che nel gennaio del l745
era stato provvisto della parrocchia di S. Stefano per concorso. Il suo
incarico di parroco ebbe termine, non sappiamo se per decesso, nel l755.
Poteva egli contare su un valore di 308.l2 once, che, dedotte 84.l0 per pesi,
alla fine si consolidava in 124.02. Si assommava una tale cifra con i fondi
delle contrade Sportà, Lifracà, Macria, Misospano, la Portella, dove si
rinvenivano alberi di olivi; un'esazione; un trappeto in Varapodi.
A 230.26 once, che, tolte 3.12.6 per pesi, si costituivano in 227.13.6,
perveniva la fortuna di d. Francesco Tropiano, ancora certamente un
varapodiese. Costui aveva ottenuto la licenza per l'ordinazione estra
tempora, ad solatium parentum, cioè a consolazione dei genitori, nel l712.
Possedeva in ragione di esse un orto dietro casa; altra casa con un piede di
olivo; 7 bovi di masseria; una giumenta; una somarra atta ad allievi,
sicuramente un'asina di allevamento; 5 scrufe campestri; 2 esazioni e tenute
con olivi e gelsi, tra l'altro, nelle località la Grappidia, Giuca, lo Canalello, S.
Maria, Virga, La Chiesa, la Reggia e Sallaventre.
L'abate d. Domenico Lucchese, probabilmente tresilicese, risultava
possessore di sostanze per l97.28 e sostenere pesi per 62.l6.2, per cui la
differenza era di 135.11.10. Poggiava tutto su tenute localizzate a la Botte, la
Timpa, la ferrera, li Petti, la Contura, Gallotta, lo Piliero, la Chiusa, Mastro
Vinci, lo Speziale, Dacone coltivate a olivi e gelsi e un trappeto a Tresilico.
A d. Domenico Surrentino si aggiudicavano sostanze per il valore di
once l97.l7, ma i pesi dovuti per un ammontare di l00, ne lo riducevano a
79.l7. Concernevano fondi ubicati a la Marzola, le Pille, Lifracà e la Gabella
unicamente con alberi di olivi; 3 vacche di masseria e una giumenta
d'allevamento.
Forse, finalmente un oppidese era d. Matteo Iannello, che si qualificava
possessore di beni stimati ll5.02 once e pagatore di pesi per ll.94 con
effettivo valore di 75.08. Detti riguardavano fondi a S. Rosa, li lacchi, S.
37
Vennera, la nucara, lo Portello e in altra località non decifrabile; 4 bovi di
masseria ed altrettante vacche con stessa indicazione.
D. Santo Bono di Paolo, che nel l748 sarà uno dei testimoni al processo
concistoriale per la nomina a vescovo di Oppido di mons. Mandarani, due
anni prima denunziava per una stima di 95.12 once proprietà dislocate nelle
contrade la Grappidia, lo Canalello, li cifari e lo Tesorerato, dove si
coltivavano olivi e gelsi. Detratte 65.l0 per pesi, gliene restavano sempre
30.02.
Ancora un varapodiese. Si tratta di d. Francesco Antonio Lamantea,
padrone di appezzamenti con olivi a Carpitello, la Vuzzurra, Corelli,
Lifracà e 6 bovi di masseria, il tutto valutato 85.12 once, che, tolte 8.10 per
pesi, alla fine si portava a 77.02. Forse, è lo stesso che d. Francesco deceduto
col Grande Flagello.
Per il canonico d. Antonino Pascalino si prospettava un patrimonio di
once 75.12.6 senza verun peso. Riguardava tenute a lo Birbo, Folari,
Cannavaria con piantagioni di olivi, querce, castagni e fronde; una
giumenta d'allevamento e vacche campestri affidate a un colono in Platì.
Canonico penitenziere nel l749, verrà a morte nell'aprile del l772.
D. Giuseppe Laghanà di Tresilico, perito col terremoto del 5 febbraio
l783, vantava il possesso di proprietà stimate once 51.27 e ricadenti nelle
contrade Barboni, la fodia, la scapola e lo Ponticello. Vi si riscontravano
olivi, gelsi e alberi fruttiferi. Dedotte 31.l5 per pesi, restava sempre un
valore di once 20.12.
A sua volta, d. Gioanne Laghanà, sicuramente compaesano se non
parente del precedente, si evidenziava per beni valutati once 39.15, che, in
definitiva, si venivano a ridurre a 32.12.9 di pesi. Le tenute si localizzavano
a S. Vennera, Pofagna, lo Castello e Macria.
S'inseriscono a questo punto i civili Francesco Leale e Francesco
Vistarchi, denunzianti rispettivamente un patrimonio di once 60.26 e 60.l8.
Anche d. Giuseppe Bruzzì finì tragicamente la sua vita in Tresilico per
effetto del grande flagello. Le sue sostanze recavano un valore di 46.l8 once,
che, tolti i pesi in ragione di 30.05, gli lasciavano appena l6.l3. Si trattava di
tenute con olivi a la chiusella, Valone, la chiusa e la Contura.
D. Francesco Laface era considerato detentore di beni per un valore di
31.21 once consistenti in appezzamenti localizzati a la Bivera, Iannuzzina,
Parronetta e Combuzzuli evidenzianti solo olivi.
38
Non è chiaro a quanto ammontassero le sostanze del mansionario d.
Antonino Gargiuli. La cifra è proprio illeggibile. Vi appare solo un
possedimento in contrada Cannavaria coltivato ad olivi e gelsi. Tale
decedette a 40 anni di età nel l756.
Al can. d. Michele Carbone si faceva carico di once l8.l0.4 per i possessi
fondiari di Cannavaria, Folari e S. Lucia. Perirà egli nel l760 all'età di 78
anni nel quartiero dell'Annunziata.
D. Francesco di Leo era quotato per l7.l5 once, che, diminuiti di l2.20 per
pesi, si riducevano ad appena 4.25. Godeva egli di un fondo con olivi e gelsi
a li cifari e del fitto di una casa. Egli, suddiacono della diocesi di Nicotera,
nel l7l5 a 50 anni di età aveva ottenuto la licenza extra tempora, ad solatium
parentum, come a dire a conforto dei genitori.
D. Francesco Villivà, anch'egli varapodiese, possedeva tenute a Muneri,
Lifracà, Misospano, ov'erano soltanto olivi; 2 bovi di masseria ed0 un'asina
d'allevamento, il tutto valutato once l5.25. Morrà egli all'età di 74 anni a
causa del sisma del l783.
A l5.25 once assommava il patrimonio di d. Gio. Leonardo Palumbo,
quasi certamente del casale Zurgonàdi e riguardava 2 bovi di masseria e 2
scrufe campestri, mentre in l4 si giudicava quello in carico al civile d.
Giuseppe Fossare.
D. Francesco Genoese, che poteva contare su beni valutati once l2.15.8, si
ritrovava alla fine con appena l.15.8 essendo i pesi ll. Il tutto poggiava su
due fondi a Cannavaria e Levadi. Sarà egli canonico penitenziere dal l755
fino al l77l, anno di sua morte. In l0.25.6 once si consideravano i cespiti
posseduti dal civile d. Francesco Furina ed in 9.34 gli altri rivendicati dal
nobile d. Giuseppe Antonio Migliorini.
Le sostanze evidenziate da d. Nicola Ruffo, nel l742 dispensato ai fini
dell'ottenimento del presbiterato super defectu aetatis di l3 mesi, valevano
7.055 once e riguardavano possessi fondiari con olivi a le Pille, Carpitello, S.
Vennera e lo Schiavello.
Si valutava in 5.67 once la proprietà con alberi di ulivi in contrada
Cannavaria di pertinenza di d. Nunziato Campanella.
A d. Matteo Spadafora, forse varapodiese forse messignadese, ma
sicuramente parroco di Messignadi, deceduto in occasione del grande
flagello, appartenevano proprietà in Pantalemone, S. Rosa, lo ladro,
l'Antropi, Vulcano, Palmeri con olivi e querce per un valore di 6.29 once. Di
39
d. Francesco Minasi, canonico dal l738, morto nel l774, erano due tenute a
Levadi con olivi e frasca per un ammontare di 5 once.
D. Nicola Francesco Campora o Da Campora, provvisto del canonicato
semplice dal l741 e del decanato nel l760 quando era in età di 60 anni, era
proprietario di fondi nelle contrade Bombicino, Folari, Vallica e Macria con
gelsi e olivi stimati in totale once 4.l5. Versato in canto gregoriano e maestro
delle cerimonie, nel l773 gli si concedeva il permesso di poter usufruire
dell'oratorio privato a causa d'infermità. Il suo decesso avvenne nel
febbraio del l783, sicuramente a causa del funesto sisma.
Nessuna stima si faceva dei beni di d. Giuseppe Martello, consistenti in
fondi ubicati a Cannavaria, Puzzura e Trecuccio piantati ad olivi e gelsi.
Comunque, per gli stessi si stimava una rendita di carlini (?) 81.26. Il
Martello sarà promosso al canonicato semplice nel l760, quindi in
prosieguo al tesorerato nel l784 per decisione dell'arcivescovo reggino, che
sicuramente sovrintendeva ad Oppido priva del suo pastore. Aveva
all'epoca 75 anni. Morrà nello stesso anno.
Nulla risultava in carico a d. Francesco Ioculano, titolare di un
canonicato semplice nel l752, quando era in età di 25 anni, canonico
penitenziere dal l758 e canonico di S. Giovanni di Buzzano al tempo del
decesso, febbraio l783.
A tutti bisogna aggiungere in ultimo quei sacerdoti che nel catasto
onciario risultavano coabitanti con altri nuclei familiari. Erano essi in 7:
Domenico Colagiuri (37), Domenico Pascalino, Antonino Vistarchi,
Francesco Furina, Francesco Girardis, Francesco Germanò e canonico
Domenico Germanò.
Ricapitolando, abbiamo che la classe degli ecclesiastici in Oppido e
casali nel l746, entrando nel novero ciò ch'è stato quantificato per gli
elementi in seno a nobili e civili, poteva contare su ben 9 trappeti, di cui 2 e
l/2 a Varapodi e 3 a Tresilico; 56 pecore; l00 capre; circa 60 vacche e 30 bovi;
44 scrofe; 5 asine e 4 giumente.
Tra professioni e mestieri
A Oppido, come in tantissimi altri paesi, nel '700 la gran massa delle
persone risultava dedita al lavoro della terra o di supporto ad altre fatiche e
col nome di bracciale erano genericamente indicati sia i contadini che
quanti erano impegnati con richiesta giornaliera, in una parola i "braccianti"
40
di oggi, i manovali ecc. Dato, quindi, un tenore di vita non molto alto
dispiegato nelle comunità, con l'evidente eccezione di nobili e civili, erano
necessariamente uno sparuto numero coloro che si dedicavano a una
professione o a un mestiere. Naturalmente, quei pochi che si attestavano in
ogni settore, potevano condurre la propria esistenza con una qual certa
tranquillità. Non per nulla il fisco si ricordava di essi e li tassava in base a
una calcolata valutazione.
Al vertice stavano sicuramente i dottori fisici e i dottori chirurghi o
dottori cerusici, i medici di allora, che nella città dell'altopiano delle Melle
si evidenziavano in numero di 5. In primo piano era il dottor fisico
Giuseppe Antonio Gaglianò, di cui non riusciamo a distinguere l'età, così
pure della moglie Francesca Affilato. Il nucleo, che abitava in casa propria,
si completava con i figli Pasquale (a. l9), Antonino (8), Giulia (5) e Vincenzo
(2). Così nel catasto onciario del l746. I registri parrocchiali c'informano di
Innocenzo (†l747), Caterina (morta a 49 a. nel l792 nella baracca) e di
Antonino, cappellano (deceduto a 48 anni nel l784 per una cascata da
cavallo nel Lago del Birbo). Dal consunto documento catastale si ricava
appena aver egli delle tenute nelle contrade Levadi, Zirgoli, S. Pietro,
Folari, ov'erano piantagioni di olivi e castagni stimate l86.11.3 once, ridotte
a l77.23.3 per pesi quantificati in 30.l7.
Segue il dottor fisico Giacomo Thomei (a. 62) accompagnato dalla
moglie Maria Guida (45, †l750) e dai figli Antonino, dottor fisico anche lui,
Livia (27), Nunzia (l7, †749), Caterina (l2), Grazia (l0), Giuseppe (3) e Anna
(?). Residente in abitazione propria, evidenziava cespiti per l8l.18 once
considerando le entrate delle possessioni Levadi, lo molino, Cannavaria,
Iona, Virga con coltivazioni di olivi, gelsi, vigna, castagni; 4 censi ed il fitto
di una bottega. Verrà egli a morte nel l749.
Il dottor fisico Gioanne Italiani (66) era all'epoca vedovo e nella casa
propria viveva con i figli Francesco Antonio del pari dottor fisico (36),
Francesca bizzocca (35), Anna Maria (27; sposerà nel l754 Felice Capialbo),
Caterina (l9) e Teresa (l7). Oltre ai possessi fondiari localizzati, peraltro,
nelle contrade Cavaglioti e Levadi piantate ad olivi e castagni, godeva di un
trappeto dietro la sua stessa casa. Tutto era stimato per un valore di 53.24.6
once.
Dei due dottori chirurghi si delinea soltanto il nucleo familiare senza
dare indicazioni di alcun cespite. Antonio Colagiuri (35) con moglie Saveria
Italiano (32) e figli Candido (12), Domenico (l0), Elisabetta (8), Maria (4,
41
†l749) e Antonio (in fasce) dimorava nella casa del fratello Domenico,
canonico (37). Francesco Martello (?) al tempo era deceduto e la famiglia si
componeva della vedova Domenica Rijtano e dei figli sac. d. Giuseppe (34)
e Beatrice (24). La dimora avveniva in casa propria.
Ai dottori si accostavano due aromatari, la cui attività era quotata l6
once. Il primo, Saverio Germano (26) abitava in casa propria assieme ai
fratelli Giuseppe Antonio (24), che perseguiva la stessa professione, Livia
(42), Giuditta (36), Margarita, d. Francesco sacerdote, d. Domenico
canonico. Oltre all'industria di aromatario, come si diceva, per i due
indicati, in ragione di 32 once, il resto, per giungere a 130.24 si ricavava
dalle tenute situate dietro casa e a lo molino, Vallica con piante di olivi,
gelsi; dal fitto di una casa in Tresilico e da un'asina di allevamento. Di poco
inferiore si qualificava il patrimonio di Antonio Amodej (35), che, oltre che
per il suo lavoro di speziale o aromatario, era tassato per le proprietà delle
contrade li Petti, Cannavaria, Gallizzi, la Cappella, la Varchera coltivate a
olivi e noci e un censo annuo. Componevano la sua famiglia, che dimorava
in casa propria, la moglie Francesca Massaro (28), la figlia Anna (l0; nel l759
sposerà Vincenzo Fossare) e la serva Caterina Corelli (l6). I registri
parrocchiali danno l'Amodei quale chirurgo.
I sarti o meglio sartori si ritrovavano in due. Il loro lavoro era stimato
valere l4 once. Il più facoltoso era indubbiamente mastro Francesco Scullino
(53), che abitava in casa propria, sulla quale vi era un peso da pagare alla
corte baronale, unitamente alla moglie Elisabetta Palumbo (50) e alla figlia
Francesca. Oltre a quanto ricavato dal mestiere, godeva di ciò che
fruttavano le proprietà site nelle contrade Puzzunaro, l'Abbatia e S. Rocco
con alberi di olivi e castagni. Il tutto si considerava in 129.27 once. Il
secondo sarto, Domenico Minasi (?) è segnato solo per la tassa di testa e
risulta coabitare con la madre Cornelia Pantatello ed i fratelli can. Francesco
e Giulia (28).
Discretamente agiati erano i tre falegnami di stanza in Oppido. Mastro
Antonino Famogreco, la cui industria era qualificata in l4 once, era tassabile
su un totale di 85.08 once, in relazione a un patrimonio del quale facevano
parte l'industria del fratello Giuseppe (l8), pur esso fallegname e fondi
localizzati a Bombicino, Tricuccio, S. Biagio, Delizia e Gallizzi e
caratterizzati dalla presenza di olivi, gelsi, alberi fruttiferi e parti atte a
seminato. Col capofamiglia, che abitava in casa propria, c'erano la moglie
Maddalena di Grana (20), la figlia Anna (in fasce) e i fratelli Antonina (32),
42
Nunzio "stroppio" (24) e Giuseppe detto. Saverio Carzera (30) dimorava in
casa propria gravata di censo, unitamente alla moglie Grazia Dimana (32),
al figliastro Domenico Zumbè (l4) e ai fratelli Antonio (26) e Giuseppe (21),
entrambi legnaioli. Tolto l'importo per i tre lavoratori in ragione di l4 once
a testa e di 7 per il figliastro, il resto atteneva a possessi fondiari ubicati a S.
Nicola, la Cappella, la Mella con olivi e gelsi e a un fitto di casa. Il tutto si
concretizzava in once 57.l7.8. L'ultimo della serie era mastro Pietro Carzerà
(30), che al profitto per il lavoro di falegname aggiungeva 28.31.6 once,
valore di una tenuta in c.da Combuzzuli coltivata a gelsi e olivi e di
un'esazione, raggiungendosi una cifra di 42.01.6. Il secondo Carzerà stava
in casa propria con la moglie Carmela Bruzzi (26) e i figli Vincenzo (7) e
Concetta (in fasce).
Anch'essi piuttosto ben quotati apparivano i 5 massari, il cui lavoro era
stimato pure in l4 once. Francesco Pantatello (60), oltre a quanto segnalato
per lui, il genero Giuseppe Gangemi (33) e il figlio Antonio (22), era
considerato possessore di beni valutati 36.42 once in riferimento a 2 bovi
aratori e a 3 appezzamenti con olive e terreno seminativo a Zirgoli e Marino
e la somma si evidenziava in 75.12. La sua abitazione era una casa di
campagna di pertinenza del Venerabile e ivi risiedeva, oltre che con i
predetti, assieme alla moglie Maria Zinnamusca (42), ai figli Domenica (26,
moglie del Gangemi), al figlio di questi Francesco (2) e a un figlio proprio
(22). Domenico Chiliverto (?), marito a Caterina Paonni (26; †l749) e padre
ad Antonino (l4, †l749), Paolo (l8), Angiola (6; †l753), Nunziata (3), Giulia
(in fasce) e alla moglie Nunziata Morda, stava in casa propria e risultava
titolare di un patrimonio stimato in 54.53 once per 2 bovi aratori e proprietà
a Cannavaria e in altra contrada non precisabile. Vedovo della Paonni,
sposerà nel l753 Rosa Bergantino ved. di Melicuccà in viridario di d. Diego
Zerbi detto il molino. Il nome di altro massaro, che vantava possessi per
once 57.37, è illeggibile, non così quello della moglie Ippolita Jeruianne (48)
e di due garzoni, Giuseppe Fotia (40) e Antonio Foti (12), l'uno dei quali
boaro tassato per 12 once. Quegli risultava abitare in propria casa e godere
di quanto apportavano tenute a Maijdi e la fellusa e 5 bovi e una vacca.
Questo gruppo di lavoratori continua con Domenico Polistina, pro-
priamente massaro di vacche (56). Viveva egli in casa propria gravata di
censo annuo con il figlio Antonino custode di animali (33), la moglie di
questi Caterina Lentini (25) e il loro figlio Domenico bracciale (10), il figlio
Francesco (5), il fratello di detta, Domenico bracciale (18) e la nuora
43
Gioanna Chiliverto. Nell'insieme di once 55.20 si comprendono ciò che
offrono i mestieri dei tre uomini e i fondi a li molimenti, Marino, Moraca,
con frutti e terreno atto alla semina. Ultimo della serie è Michele Lembo
(22), che in casa propria onerata di censo, si accompagnava alla moglie
Domenica Mammoliti (28) e alla figlia Grazia (2). I cespiti erano, per un
totale di 30.20 once, 2 bovi aratori, una vacca d'allevamento e una tenuta a
la Puzzura con olivi e terreno seminativo.
In Oppido i mastri d'atti si ritrovavano in tre. Il mastro d'atti non era il
notaio, come in più d'una pubblicazione si afferma, bensì il cancelliere. Non
risultava per un siffatto impegno una valutazione ben precisata, segno che
chi lo effettuava godeva di entrate in base al numero degli atti emanati o
trascritti o consegnati, insomma dei cosiddetti diritti di mastrodattìa.
Il mastrodatti più facoltoso appariva Gioacchino (?) Girardis (a.43?), che
s'indicava possessore di un patrimonio stimato in once 51.02,
comprendente le rendite delle tenute localizzate a Idà, Levadi, Carlocavallo
(?) e Trecuccio portanti alberi di ulivo, un bove e il mestiere di bracciale del
nipote Saverio (23). Abitava egli in casa propria con la moglie Gioanna
Costarello (26), i figli Domenico "chierico in habitu" (l4), Francesco (3) e il
nipote detto. Seguiva Gaetano di Grana (46; †750), che evidenziava beni per
37.4 once relativi a fondi di olivi e gelsi siti nelle contrade la Cappella,
dietro le mura del Castello, Gaglianò, lo Giardinetto e Gallizzi. Faceva la
dimora in una casa propria, per la quale pagava annuo censo al R.mo
Capitolo, con la moglie Virginia Giannotti (42) e i figli Maddalena (20;
sposata a mastro Antonino Famogreco), Anna (l8; accasata in Platì con
Domenico Zappia), Francesco (11), Vincenzo (9) e Rosa (7; nel l753 sarà
condotta all'altare da Antonino Jelase della diocesi di Gerace). Il terzo,
Pietro Antonio Martello, era mastrodatti della bagliva e forse aveva appena
di che vivere con il suo fondicello di olivi in località li cifari apprezzato per
once 7.l0. Godeva, comunque, di una casa sua assieme alla moglie Angiola
Zangari (35).
Il barillaro era uno solo, mastro Marco Penna, la cui attività era valutata
per 14 once. Era egli già in là negli anni (70; †l754), ma aveva una moglie
relativamente giovane (45), Isabella Zafarana. Seguiva il suo mestiere il
figlio Saverio (24), mentre Michel'Angelo (21; sposerà nel l757 Dianora
Paschalino) quello di bracciale. Altri figli erano Caterina (18), Antonino (9;
nel l759 convolerà a nozze con Carmela Paschalino) e Francesco. Tolte 10
once per il valore di un somarro atto alla vatica, il resto di 50 once atteneva ai
44
mestieri del padre (l4) e dei figli Saverio (14) e Michelangelo (12). Facevano
tutti dimora in casa propria, sulla quale risultava censo annuo a favore
dell'ospedale.
Si rilevavano 5 capifamiglia che esercitavano il mestiere di calzolaio, la
cui rendita si stabiliva in once 14. Il più in auge era senzaltro Paolo
Chiliverto (36), che denunziava sostanze del valore complessivo di 73.05.6
once, ma tra queste bisognava considerare, oltre a quelle procacciate col suo
mestiere, le altre procedenti dalle tenute ubicate a Trecuccio, Cavaglioti, S.
Biagio, Zirgoli e Fiorello con alberi di ulivo, gelsi e frutti e il mestiere del
fratello Francesco (26), barbiere. Con il capofamiglia abitavano in casa
propria con orto la madre Isabella Fidili (60), la zia Livia Fidili (67) e il
fratello detto con la moglie Elisabetta Pascalino (24) e figli Giulia (7) e Paolo
(3). Veniva buon secondo Domenico Dimana (68) con 46.20 once consistenti
nel mestiere, nelle tenute la Cappella, Trecuccio e altra illeggibile con olivi,
in mezzo bove aratorio e una somarra adatta all'allevamento. Nella casa
propria vivevano anche la moglie Giulia Costarello (65) e i figli Saverio
senza professione (16) e Francesco "chierico in habitu" (10). A 31 once
assommavano i beni di Giuseppe Spusato (59), che poggiavano interamente
sul suo mestiere e su quello del figlio Filippo pure lui calzolaio (14). Altra
sostanza era rappresentata solo da un somarro idoneo alla vatica. Stavano
con lui in casa propria gravata di censo annuo in favore della chiesa di S.
Caterina la moglie Marzia Ioculano (40) e gli altri figli Angiola (25; sposata
a Lelio Costarello), Nunzia (11) e Nicola (9). Con 20 once si qualificava
Placido Scarfone (40), ma 14 erano per il suo mestiere e 6 per quello del
figlio Gioanne (14) bracciale. La moglie era Teresa Giustra (36), gli altri figli
Michele (9) ed Angiola e Felice, gemelli, in fasce. La dimora era stabilita
nella casa di Domenico Giustra, cui si versava un affitto. Ultimo della cate-
goria si configura Antonino Mulluso (25) marito a Nunzia Giustra (17), con
unica figlia Caterina (1). Le 14 once si davano al suo mestiere e, quindi,
appena 0.21 si calcolava per la tenuta a carattere seminativo localizzata a La
Grazia. Vivevano in casa propria col pegno di un annuo censo ai frati
osservanti.
Nell'antica Oppido era reperibile anche un orologiaio, mastro Giacchino
di Cicco (?), ma era egli oriundo da Acquaro e l'industria, di cui godeva, si
valutava pure in 14 once. Si giovava in più di proprietà fondiarie ubicate a
la Cuva e Cannavaria, per le quali si stimava un patrimonio ammontante a
41.03.4. Un tale artigiano risultava dimorare in casa propria con la moglie
45
Caterina Martello (40) e i figli Rosa (13), Domenico (11; "chierico in habitu") e
Vincenzo (8).
Di panettieri se ne rilevavano tre. Il più facoltoso era Domenico Carlino
(34), che vantava cespiti per 42.06 once comprese 14 per il mestiere suo e 12
per quello di bracciale del fratello Scipione (12). Oltre a un somarro atto alla
vatica, usufruiva dei frutti di due possessioni in contrada S. Biagio con
seminativo e canne. Viveva in casa d'affitto di Domenico Girardis con la
moglie Rosaria Ripepi (29) e i figli Francesca (8), Angiola (4) e Caterina (2).
Altro panettiere era Paolo Ripepi (70; †1752), detentore di beni per 31 once
ripartite tra il suo mestiere, quello del figlio Giuseppe (14; nel 1749 sposerà
Caterina Zafarana) calzolaio e un somarro. Oltre a detti, nella casa di
famiglia, gravata di censo annuo a favore del Venerabile, abitava anche la
moglie di Paolo, Francesca Zaghì (55; altrove è detta Zanghiri). Ultimo della
triade Placido Carella (65) di origine siciliana, ma da più tempo abitante a
Oppido in casa d'affitto di mastro Paolo Chiliverto. Evidenziava egli di
essere possessore di beni per 26 once, ma queste erano così diversificate; 14
per l'industria di panettiere, 12 per quella di bracciale del figlio Giuseppe
(22; †1761). La moglie si chiamava Santa Michelizzi (54), altra figlia
Giulia(9).
Considerato che l'economia di Oppido insisteva sull'agricoltura, non
potevano certo mancare i putatori, che si rilevavano in quattro.
Francesco Carlino (73), oltre a quanto ricavava dal mestiere (12 once),
godeva dei frutti traibili dai fondi delle contrade Gallizzi e la Cappella
recanti olivi, gelsi, noci, canne e frutti, il tutto assommante a once 62.15.
Con la famigliuola composta dalla moglie Elisabetta Petr'Antonio (36) e i
figliastri Domenico (18), Francesco (9) e Saverio (2) Lentini, viveva in casa
propria. I beni di Ignazio Minasi (28; sposerà Nicolina Ruffo) erano valutati
45.24.6 once e, oltre al mestiere, riguardavano fondi agricoli localizzati a
Piombino, lo molino, la fontana, Trecuccio, una casa, un'esazione e una
vacca adatta all'allevamento. Abitava in casa propria e il suo nucleo
familiare si componeva come segue: Lorenzo fratello chierico (19),
Domenica sorella (12; sposerà nel 1748 Giuseppe Famogreco), ? fratello (9),
Nunzia sorella (7), Flavia di Leo (50) madre. A Fabbiano Dimana (42)
s'imputavano sostanze del valore di 42.16.6 once per il suo mestiere e
quello del figlio Francesco, entrambi bracciali, più un somarro atto alla vatica
e una tenuta di gelsi in c.da la fabrica. Faceva egli dimora in casa propria
con moglie Rosaria Petr'Antonio (36) e altri figli Saveria (11), Nunzia (9),
46
Caterina (5). Pietro Russo (35), che ai proventi del mestiere affiancava quelli
del fratello Carlo (14) sartore, ne rilevava in tutto 30.21, comprendendosi
una somarra atta ad allievi e il fondo di Trecuccio con olivi e gelsi.
L'abitazione era in casa propria e a detti s'univano la moglie del
capofamiglia, Lucia Famogreco (30) e il figlio Gioanne (7).
In 5 si qualificavano i vaticali, coloro cioè che facevano la vatica,
trasportavano oggetti a dorso di cavallo o mulo o asino. Si avanzava per
primo Bruno Mammoliti (28), il cui mestiere era valutato 12 once, ma in
tutto ne evidenziava 60.20 per una mula che teneva a metà, un cavallo e un
somarro entrambi adibiti alla vatica. Non risulta in che tipo di casa abitasse
con i familiari: la sorella vergine Domenica (29), il fratello Domenico (18), la
madre Maria Sergi (56) e Teresa Gaglianò vedova di Antonino Mammoliti,
forse una cognata. Bruno Lucchese abitava in casa propria, su cui vigevano
censi in favore del rev. d. Carlo Fossare e del convento dei paolotti, con la
moglie Natalizia Carzo (28) e i figli Francesco (14), Saverio (6) e Domenico
(4). Le sue entrate poggiavano sui mestieri di lui e del figlio Francesco e su
un cavallo e un mulo, dei quali si servivano per fare la vatica, il tutto per un
valore di 58 once. Poteva contare su 57.29 invece Domenico Cammareri
(54), che, oltre a quanto prodotto dal suo mestiere e da quelli dei figli
Lorenzo (26; sposerà nel 1756 Diana Paschalino e verrà a morte nel 1757) e
Bruno (12) bracciali, sui fondi La Mella e Puzzura con olivi e fronde, su una
giumenta per allevamento e su un somarro atto alla vatica. Dimorava in
casa propria con censo al R.mo Capitolo assieme alla moglie Domenico
Mammoliti (53; †1751), ai figli detti e agli altri nomati Caterina (29; sposerà
Francesco Dimana), Soprana (23; moglie di Giuseppe Antonio Mulluso) e
Isabella (15). I beni di Bernardino Barbaro (44; †1757) si davano a 44.16 once
e oltre ai proventi del suo mestiere e di quello del figlio Lorenzo (14) si
consideravano altri derivanti dalle proprietà delle contrade Levadi,
Cannavaria e Trecuccio con olivi e gelsi e da un cavallo per la vatica. Erano
a lui moglie Caterina Colagiuri ved. di Giuseppe Blando e figli Antonia (17;
sposata con Bruno Iannello), Lorenzo detto, Domenico (in fasce), figliastri
Nicola (10), Vittoria (7), Flavia (5). Abitavano tutti in una casa dotale.
Ultimo della serie è Antonino Ramondo (28), marito ad Angiola Mullica
(36), che dimorava in casa di Pasquale Mesiti dotale della moglie insieme ai
figli Francesco (2) e Domenico (in fasce), al figliastro Nunzio Minasi (7) e
alla sorella Carmina (20). Oltre al fruttato del mestiere, otteneva qualcosa
anche da una proprietà in c.da Folari e il tutto si stimava di once 15.02.
47
Ortolano si qualifica uno soltanto, Andrea Mammoliti (33), che nella
casa propria gravata di censo al R.mo Capitolo, abitava con la moglie
Caterina Prochiaro (24) e i figli Francesco (5) e Domenico (3). Oltre al
mestiere, valorizzato in 12 once, vantava fondi agricoli a la Porta la suso,
Folari, lo ceramidio, Lamia, Levadi, lo molino con olivi, canne, frutti,
seminativo, fronde e un somarro atto alla vatica. Era tutto valutato once 53.06.
La molitura dei cereali dava da vivere a tre famiglie. La prima era quella
di Antonino Surace (28), il cui nucleo si componeva della moglie Gioanna
Pignataro (24), dei figli Domenico (14) e Giuseppe (9) di primo letto e
Pasquale (3) e Caterina (in fasce) del secondo. La casa propria, ove
dimoravano, aveva censi a favore del R.mo Capitolo e della chiesa
dell'Osteri. L'industria di molinaro era stimata 14 once e per raggiungere il
totale di 35.17 bisognava addizionare un somarro atto alla vatica e il fondo
con alberi fruttiferi di c.da lo campanaro. A Francesco Petr'Antonio (40) si
assegnava un valore di once 32.05 per il mestiere suo e del figlio Domenico
(17) bracciale, oltre al solito somarro atto alla vatica e alla tenuta localizzata
a la Cappella e ad una casa data in fitto. Abitava egli in casa propria con
detto e con altri due figli, Nunzia (6) e Vincenzo (4). Carmine Quattrocchi
(26) di once ne evidenziava appena 19 e 5 erano riferite al possesso di 4
scrufe campestri. Faceva la sua abitazione in casa d'affitto di mastro Paolo
Chiliverto con la moglie Angiola Mulluso (25) e i figli Barbara (4) e
Giuseppe (1). A Francesco Colagiuri (39; †1764) si faceva carico di 16.21
once, oltre che per il mestiere, per i possedimenti agrari di Cannavaria, S.
Biagio e Trecuccio con olivi. La dimora era in casa propria con censi in
favore del Sacro Real Monte, della parrocchia di S. Nicola e dei padri
osservanti. Col capo famiglia c'erano la moglie Lucrezia Sotira (40) e il
figlio Giuseppe (10) scolare.
Unico carcaroto ovverossìa fornaciaio di calce era Giuseppe Mulluso
(39?), che, oltre a quanto prodotto dal mestiere suo e del figlio Giuseppe
(18) valutato 12 once per ciascuno, possedeva una tenuta con frutti in c.da
Trecuccio val. 8.10, per cui il tutto si quantificava in 34.10 once. Abitava egli
nella casa di Giovanne Pindilli, cui pagava l'affitto, unitamente alla moglie
Giovanna di Franza (36) e al figlio.
Anche uno soltanto si officiava il chianchiero. Era questi propriamente il
rivenditore di carne, che si distingueva nettamente dal macellaio. Il primo
era così detto a motivo della chianca o ccippu (ceppo), grosso pezzo di
tronco di legno livellato chiamato appunto siffattamente, sul quale tagliava
48
le parti richieste dai clienti. Il macellaio era, invece, colui che al macello o
mattatoio provvedeva alla macellazione, cioè ad abbattimento, scuoiamento
e squartamento delle bestie. Va da sé che col tempo tali operazioni siano
state appannaggio di una sola persona, il macellaio. L'unico chianchiero in
Oppido vecchia era Stefano Zafarana (50; †1752), che in casa d'affitto del
rev. d. Carlo Fossari viveva con la moglie Flavia Mercuri (54) e la zia
Caterina Mercuri (60). L'industria di chianchiero si stimava in 14 once. Il
resto, per giungere al totale di 16.10, si riferiva a un fondo di c.da
Bombicino, ov'erano alberi d'ulivo.
Di macellari si qualifica pure uno, Domenico Jeruianne (?), il cui mestiere
era equiparato a 12 once, così come quello del figlio Antonio (24). Altre
sostanze, su cui poggiava, erano fondi agricoli a lo molino, Tricuccio e lo
Birbo con olivi. Il tutto era valutato once 27.19. Il nucleo dimorava in casa
propria gravata di censo a favore del R.mo Capitolo e, oltre al capofamiglia,
si componeva della moglie Gioanna Carlino (42), dei figli Antonio con
moglie Giulia Gerardis (26) e figli Gioanna (5), Caterina (3), Domenico (1) e
Francesco (in fasce).
In 5 si numeravano i botechari cioè i bottegai e al primo posto si piazzava
Nicola Gentile (28) con once 47.03 riferibili al mestiere di lui, in ragione di
14 e a quello del cognato Domenico Blando (18) e a una tenuta con olivi in
c.da Maijdi e un somaro adatto a fare la vatica. Detto stava in casa propria
con censo a favore di Francesco Tornatura assieme alla moglie Angiola
Blando (25), al cognato detto e ai figli Nunzia (4), Francesco (2) e Caterina
(in fasce). Seguiva con once 30.27.6 Diego Alloro (45) abitante in casa
propria con la moglie Gioanna Jeruijanne (38) e figli Francesco (16; sposerà
nel 1759 Rosa Petrantonio), Domenica (12), Felice (9; sposerà nel 1754
Caterina Gargiuli), Francesca (7; nel 1750 si accaserà con Saverio Mazza),
Domenico (5) e Giuseppe (3). Oltre al mestiere, il patrimonio comprendeva
un annuo censo, un somaro adatto alla vatica, tre botteghe e una casa data
in fitto. Terzo bottegaio era Domenico Crisafi (?), marito di Caterina
Tropiano (?) e padre di Vincenzo (14; scolare), Pasquale (8), Francesco (6) e
Antonio (1). Le 22.03 once si stimavano in relazione al mestiere e a possessi
fondiari nella c.da Cannavaria con castagni, olivi e frutti. Domenico (5) (32)
marito ad Angiola Chitì (26), con figli Vincenzo (10) e Anna (3) poteva
vantare solo quanto ricavato dal mestiere. Abitava in casa di Diego Alloro,
cui pagava l'affitto anche per la bottega.
49
I ferrari, cioè i fabbri ferrai, erano solo in due. M.ro Domenico Pascalino
(45) presentava un patrimonio per once 32, ma questo era in riguardo al suo
mestiere e a quello del figlio Andrea (19) e del figliastro Antonino (14).
Dimorava egli in casa d'affitto di proprietà di m.ro Giuseppe Famogreco.
Oltre che con detti, si trovava unitamente alla moglie Francesca Lentini (42),
ai figli Angiola (21), Rosa (23) e ai figliastri Caterina (18, sposata a
Domenico Ripepi), Carlotta (11; sposerà nel 1763 Antonino Loffo), Nunzia
(9; si mariterà nel 1758 con Antonino Ripepi), Carmina (8; sposerà nel 1759
Antonino Penna), Graziosa (6; si accaserà nel 1759 con Domenico Cosma),
Rosaria (5) e Paolo (3) Mulluso. Giuseppe Pascalino (60; †1760) poteva
contare su beni stimati 30.27 once e basati sul mestiere suo e del figlio
Lorenzo (20), forgiaro, con in aggiunta un fondo in c.da Rigusto. Risultava
abitare in casa propria con la moglie Grazia Cananzi (58; †1748), Vittoria
Pascalino (39) ved. di mastro Pietro Benincasa, forse la sorella e i figli
Nunzia (27;†1749; sposata a Domenico Girardis), Riposa (30; moglie di
Placido Iannello), Diana (23; sposerà nel 1750 Lorenzo Cammareri) e
Lorenzo detto.
Nell'antica Oppido vi erano anche due sportari, cioè fabbricanti di
sporte, canestri fatti con canne di vimini. Il primo si chiamava Domenico
Gaglianò (69), titolare di beni per once 43.09 relative al mestiere suo (val.
14), del figlio Francesco (18) e del figliastro Francesco Leale (8) bracciali e di
un fondo in c.da Varchera con frutti e di una somarra atta ad allievi. Era egli
abitante in casa propria con detti, la moglie Maria Parise (60) e altra figlia,
Saveria (8). Veniva appresso Francesco Carlino (26) che, con moglie
Francesca Gaglianò (23) e figli Marcello (4) e Domenico (2), dimorava in
casa propria. Rivelava un patrimonio stimato once 18.12 per il mestiere e
per fondi nella c.da Cannavaria.
Un solo orefice vi appariva, ma egli, a nome Giuseppe Russo (54),
esercitava assieme ai figli Francesco (24), Felice (21) e Domenico (18). La
moglie era Rosaria Palmeri e gli altri figli Michele (16), Saverio (14) e Maria
(11). Oltre a quanto ricavato dal mestiere, qualificato 14 once per ognuno
degli occupati, il resto per toccare la cifra di 45.30 atteneva a una somara
d'allevamento e a una proprietà in c.da lo Molino con noci e canne. Faceva
dimora in casa propria.
Nei tempi in cui l'arte della seta era ancora parecchio ricercata non
potevano mancare i setaioli e a Oppido se ne riscontravano due, il cui
mestiere si valutava 12 once. Bruno Petrantonio (34) aveva beni in totale per
50
28.20 once, tra cui s'includevano una somara adatta all'allevamento e due
fondi ubicati nelle c.de Crusone e Levadi con olivi. Dimorava in casa
propria con la moglie Agnese Rajmondo (35), i figli Caterina (14; moglie di
Domenico Carlino; †1784), Domenica (12; sposerà nel 1758 Domenica
Cosoleto), Giuseppe (13), Anna (6) e Rosa (1; sposerà nel 1759 Francesco
Alloro). Bruno Girardis (40), che abitava in casa propria, per la quale
versava censo annuo a Giosofatto Dimana, con moglie Riposa Pietr'Antonio
(35) e figli Francesca (14; sposerà nel 1751 Domenico Benincasa; †1784),
Vincenzo (14; †1750), Domenica (9), Caterina (3), Rosa (in fasce), godeva
anche dei proventi ricavati da fondi localizzati a la Croce e la Varchera. Il
tutto si stimava once 23.
Con tanti proprietari terrieri, in quel 1746 si ritrovavano soltanto due
fattori. Il primo, Francesco Giustra (59) lo faceva per d. Giuseppe Rocca e
quanto ottenuto per tale incombenza, unito a ciò che ricavava da tenute site
nelle c.de Trecuccio e la Contura con olivi, si sommava a once 22.19.
Abitava egli in casa propria gravata di censo in favore di Giuseppe Scullino
unitamente alla moglie Gioanna Lia (58). Il secondo si chiamava Domenico
Zafarana (49) e lavorava per conto di d. Girolamo Grillo. La moglie aveva
nome Nunzia Tropiano (26) e la figlia Angiola (18). L'abitazione si faceva in
casa propria con censo per il dr. fisico Giuseppe Antonio Gaglianò, ma
v'era altra affittata da Saverio e Francesco Iannello. Le 19 once denunciate si
riferivano, oltre che al mestiere (14 once), a una vacca data in custodia a
Gio. Domenico Vinci e a una somara di allevamento.
Anche due si offrivano i garzoni di bovi. Pietro Toscano (35) con stima
di 13.20 once (12 per il mestiere e 1.20 per le possessioni localizzate a
Zirgoli e S. Lucia) aveva dimora in casa propria con censo devoluto a S.
Caterina con la moglie Francesca Lemmo (32), i figli Caterina (5) e Gioanna
(2) e il figliastro Domenico Pignataro (6). Domenico ? marito di Maria
Barbiero (25) con figli Riposa (6) e Francesco (4), che abitava in casa di d.
Girolamo Grillo, cui pagava l'affitto, evidenziava solo ciò che ricavava dal
mestiere, cioè 12 once.
Il popolo minuto
Dopo aver trattato delle famiglie nobili e civili e di quante nel proprio
seno evidenziavano un esponente dedito a una professione o a un'arte o,
ancora, a un mestiere discretamente quotato, è arrivata l'ora di occuparsi
51
della gran massa di cittadini che nell'antica Oppido era impegnata nei
lavori più umili, soprattutto in quello dei campi e i cui addetti venivano
denominati univocamente bracciali. A quanto pare, in pieno settecento il
vocabolo contadino non era ancora in voga, almeno da noi. Per lungo evo i
lavoratori della terra erano stati volgarmente chiamati villani, in relazione
dunque alle villae rusticae di romana memoria più che al contado di epoca
medioevale e, purtroppo, un tale termine venne alla fine a suonare quasi
ingiurioso. Difatti, lo si considerò sinonimo di arretrato e rozzo.
Nel catasto onciario del 1746 non si fa alcuna distinzione tra il contadino
e il bracciante odierno in senso stretto, quindi non è dato avvertire alcun
manovale, sterratore, spaccalegna, uomo di fatica in genere. Tutti coloro che
eseguono un lavoro a forza di braccia sono definiti con una sola voce,
bracciali. Uno appena risulta segnalato qual lavoratore (Praticò), ma in
merito non possediamo elementi utili per capire di che trattasi.
Tolti i nuclei familiari, di cui abbiamo detto in precedenza, ne restano
176, in 123 dei quali il sostentamento viene assicurato da bracciali, da un
servitore (Fotia) e un garzone (Pignataro). In 61 casi il capo famiglia appare
senza alcun tipo d'impegno lavorativo, ma in alcuni si offrono alla base uno
o più fondi agricoli. In altri 23 si avverte invece l'assenza del capo famiglia
di genere maschile, per cui a guidare le sorti del gruppo si configura una
vedova o una donna abbandonata o, ancora, una il cui marito si trova in
terre lontane.
I bracciali, il cui reddito era al tempo valutato in 12 once a testa, erano
distribuiti uno o più per famiglia. Ad averne più di tutti era il ceppo
Barbaro, 5, uno dei cognomi più diffusi ed ancor oggi particolarmente in
auge. Seguivano Mangano, Pantatello e Ripepi con 4, Mammoliti, Lembo,
Chiliverto, Ascrizzi, Dimana, Gargiuli, Frisina, Jeruianne, Pascalino con 3;
Cananzi, Carlino, Cicciarello, Fasano, Genoese, di Giustra, Girardis,
Ioculano, Mulluso, Petrantonio, Pezzimenti, Romeo, Scullino, Tropiano,
Tornatora, Zinnamusca con 2. Uno soltanto s'indicava per Armignacca,
Amaddeo, Battista, Bellocco, Blando, Carbone, Carzo, Coscia, Cosma,
Costarello, Cosoleto, Cundò, Colagiuri, Chirchiglia, Cutigliano, di Franza,
Farinella, Fotia, Giannattasio, Gudace, Gullace, Iannello, Jamundo, Laface,
Lentini, Licopoli, Loffo, Mazza, Murabito, Muscatello, Naso, Paolino,
Perlingò, Pignataro, Pindilli, Pisa, Plataroti, Priolo, Raimondo, Rossano,
Russo, Scurtò, Sotira, Tripodi, Verteri.
52
Di tutti questi cognomi è ormai definitivamente scomparso almeno il
58%. Per esaurimento o per allontanamento non si fa più menzione di
Pantatello (emigrati in Usa), Lembo (a Milano), Chiliverto, Dimana (a
Messina), Pascalino (il vescovo Curcio acquistò da questa famiglia la casa
poi adibita ad asilo infantile), Fasano (Milano, Roma, Australia), Genoese,
di Giustra, Petrantonio, Tropiano, Zinnamusca (fam. di Santa Cristina),
Armignacca (idem), Amaddeo, Battista, Bellocco, Blando, Carzo, Coscia,
Costarello, Cosma, Cundò (esaurita da pochissimo), Colagiuri (Australia),
Chirchiglia (idem), Cutigliano, Farinella, Giannattasio, Budace, Iannello,
Jamundo, Laface, Licopoli, Mazza, Muscatello, Naso, Paolino, Pindilli, Pisa,
Plataroti, Priolo, Raimondo, Rossano, Scurtò, Sotira e Verteri. Di Franza e
Perlingò si sono trasformati in Franza e Berlingò.
Su una popolazione contata in 1.310 individui circa, i bracciali
rappresentavano il 9%.
Le persone responsabili delle famiglie che non svolgevano alcuna
attività diretta si quantificavano, come detto, in 61, quindi appena il 4,6%.
In esse era dato, però, distinguere 3 inabili appartenenti a Cundò, Potitò
(questi aveva la serva) e Vitellone, un impotente (Furfari), uno stroppio
(Jeruianne), un chierico (Pantatello) e 4 limosinanti (Gaglianò, Minasi, Lentini
e Grillo; quest'ultimo godeva addirittura di fondi propri). Il resto
riguardava Alloro, Barbaro, Cammareri, Carella, Carlino, Chiliverto,
Cosma, Crisafi, Colagiuri, Celi, Di Grana, Gentile, Dimana, Iannello, Lauria,
Lucchese, Mammoliti, Mazza, Mulluso, Pascalino, Penna, Petrantonio,
Petrilli, Quattrocchi, Raimondo, Ripepi, Russo, Scarfone, Spusato, Surace,
Toscano, Tripodi, Zafarana. Il bracciante più in sostanza si qualificava
Marzio Jeruianne, che, con moglie, sorella e tre figli, era considerato posses-
sore di un reddito di once 93.19.3 derivantegli dal mestiere e da fondi siti
nelle località Trecuccio, lo Molino, la Pietra, Bombicino e lo Birbo. Quello di
minor possanza lo si indicava in Bruno Barbaro, che, con moglie e un figlio,
denunziava 12.17 once per il mestiere e un fondo in c.da Cannavaria. Ma
erano davvero in molti a evidenziare soltanto il reddito ricavato
dall'impegno lavorativo, quindi appena 12 once.
I capifamiglia donne si suddividevano in 20 vedove (Condemi,
Frontera, Gaglianò, Iannello, Iozzo, Lembo, Mammoliti, Matalone, Minasi,
Murabito, Paonni, Pascalino, Potitò, Pulicanò, Scudellà, Spusato, Tallaridi,
Zinnamusca e in 3, il cui marito era variamente assente: perchè da molto in
Napoli (Caloprisco), a motivo di servire quale soldato di S. M. (Caridi) e per
53
il fatto che non si sapeva dove fosse andato a finire (Melandro). La famiglie
più doviziose si presentavano quelle di Prudenzia Iannello (once 20) e
Anna Iozzo (19.02). Le altre andavano da 3 a 0.
Su 176 famiglie che componevano l'ultimo nucleo della popolazione
oppidese in quel 1746 risultavano abitare in casa propria 89 di esse, vale a
dire per quasi il 50%. Quelle che dimoravano in case dotali erano 10, quindi
complessivamente il 55%. Soltanto in qualche occasione è dato conoscere
che qualcuna aveva possibilità di locare case ad altro. Erano in 41 a trovare
ricetto in appartamenti presi in fitto, cifra che dà una percentuale di quasi il
30%. Erano in poche a situarsi in modo diverso: Barbaro e Tropiano in case
di campagna di d. Alfonso Grillo, Zinnamusca e Condemi (questa per carità)
idem di d. Caterina Capuano, Perlingò id. di d. Girolamo Grillo, Fasano id.
di d. Saverio Grillo, Battista id. di d. Orazio Malarbì e Zinnamusca ancora
per carità.
Possedevano fondi agricoli variamente localizzati e stimati 90 famiglie,
che si classificavano perciò al 50%. Oltre che dal mestiere e dagli
appezzamenti agricoli, parecchie famiglie traevano parte del sostentamento
anche a mezzo degli animali, di cui si dotavano, in testa naturalmente
l'asino. I bovi aratori erano appannaggio di una sola famiglia, Barbaro, che
ne contava ben 3. I somarri in via generica e in numero di 7 si appartenevano
da 5 nuclei, mentre le somarre alla vatica, cioè che facevano la vatica o
servizio per conto terzi, 23 e quelle ad allievi, cioè buone per l'allevamento,
8. Quindi, in paese il popolo minuto evidenziava in tutto il possesso di 328
asini, variamente assortiti, che davano una percentuale del 21.5%.
Ecco ora, per finire, una serie di dati in generale sull'onomastica che, di
preferenza, veniva imposta alle persone, ma nel caso non è proprio
possibile fare alcuna distinzione tra i nati in Oppido e gli immigrati, di
certo un numero limitatissimo (non si considerano, comunque, gli
appartenenti al clero, in quanto in massima parte provenivano dall'esterno).
Il nome che più circolava fra gli uomini era Domenico con 110 (60
bracciali, 3 nobili, 10 civili, 37 artigiani e simili)35. Seguivano Francesco con
108 (67 bracc., 1 nob., 11 civ., 18 art.) e Giuseppe con 73 (49 bracc., 3 nob.,5
civ., 18 art.). Il resto atteneva a cifre di molto inferiori e si trattava quasi
sempre di appellativi comunissimi. Di particolari potevano apparire Riposo
(2; nella vicina Varapodio prosperava un rinomato santuario della
35 Il riferimento è sempre al ceto e non alla popolazione attiva.
54
Madonna del Riposo), Lelio (2), Candido (2), Crescenzio (1), Fantino (1;
poteva essere originario di Lubrichi, ove il culto del santo omonimo è
tuttora in auge), Mariano (1), Agazio (1), Romano (1), Basilio (1), Candido
(2), Scipione (1), Fabiano (1). Recavano nome di Nunzio o Nunziato, in
relazione alla protettrice della città e diocesi, la Madonna Annunziata,
appena 11 persone.
Per le donne si presceglieva di gran lunga il nome Caterina con 116 (81
bracc., 1 nob., 5 civ., 21 art.; a Oppido vi era ab antico una chiesa consacrata
alla santa, accosto alla quale vi era pure lo spedale omonimo). Lo seguivano
Domenica (36 bracc., 2 nob., 3 civ., 9 art.) con 50 e Angiola con 31 (18 bracc.,
3 civ., 10 art.). Portavano quello della Patrona, come Nunzia e talvolta
Nunziata, in 49. Qualche nome particolare: Maruzza (7), Livia (3), Petronilla
(3), Dianora (3), Sergenia (2), Reggina (1), Carmosina (1), Riposa (2),
Soprana (2), Lelia (1).
Volendo fare delle distinzioni in seno alla popolazione attiva,
considerata intorno a 400, quindi appena il 30%, abbiamo che i nobili
raggiungevano circa il 4% circa, i civili il 5%, il clero il 10%, i professionisti
e gli artigiani il 19%, i braccianti il 45% e coloro che non svolgevano alcun
impegno lavorativo il 15%, quindi la massa toccava il 50%.
Strano, improvviso ordine di convocare il parlamento per la nomina di
un nuovo sindaco a Oppido (1757)*
Il sindaco di Oppido in carica in quel 14 maggio del 1757, d. Lorenzo
Grillo, cui il subalterno della regia udienza, mag. Carmine Pepe, intimò di
procedere in modo inusitato e precipitoso, assieme agli altri Ufficiali del
Regimento, a indire parlamento per il rinnovo degli amministratori della
cosa pubblica, venne subito a contestare un tal ordine presso lo stesso
notaio, alla presenza del quale gli era stato notificato. Non poteva egli
provvedere in 24 ore - la convocazione andava fatta per l'indomani 15 - a
quanto richiesto occorrendo emanare i bandi non solo a Oppido, ma anche
nei casali di Tresilico, Varapodio, Messignadi e Zurgonadi, formando tutti
un Corpo e usandosi nominare, assieme al sindaco, anche gli eletti per ogni
abitato. Con tutto ciò, non poteva egli ugualmente impegnarsi nella
* Pubblicato in "La Città del Sole", a. VI-1999, n. 2, p. 19 e in "Storicittà", a. X-2001, n.
94, pp. 60-61.
55
richiesta azione, in quanto i libri dei parlamenti - l'ultimo gli era stato
requisito dal subalterno - li aveva in custodia il mag. Saverio Dimana,
mastrodatti assunto nel parlamento tenutosi il giorno 8 precedente. Per
mettere in moto la convocazione di una tale assise detto libro era quanto
mai indispensabile e d. Saverio, nonostante le ricerche effettuate, non era
stato possibile rintracciarlo in città.
Il Grillo, dopo aver fatto mettere a verbale quanto sopra, venne a
protestarsi energicamente una, due, e tre volte, quante sarà necessario a fronte
del notaio, del regio giudice ai contratti Giuseppe de Francia e dei testimoni
dr. fisico Francesco Antonio Italiano, Pietro Pantatello e Pasquale Gaglianò
e ad affermare senza peli sulla lingua che riteneva il Pepe per sospetto e
sospettissimo. Cosa per cui invitava il pubblico funzionario ricevente le sue
attestazioni a farlo partecipe dell'atto. Egli, dal canto suo, avrebbe
provveduto a renderne edotto il regio tribunale, nel mentre si riprometteva
per un tal gesto addirittura di avanzare ricorso al re e al sacro regio
consiglio.
Cos'era successo di così eclatante perchè il subalterno si comportasse in
siffatta maniera? Da quanto ci pare di capire, doveva essere intercorsa lite
tra il sindaco e i padri del locale convento dei paolotti. Infatti, il Grillo si
rammaricava che un subalterno, che solitamente prendeva dimora presso la
casa dell'università, quindi in un luogo pubblico, fosse andato a stare con
quelli, che rappresentavano la parte collitigante. Era davvero ben strano -
riferiva quegli - il comportamento del Pepe, il quale, dopo aver dato
l'ordine di convocare il parlamento, si era dato a scassinare la porta
dell'orologio pubblico, onde dar di piglio alla campana, in ciò fregandosene
del sindaco e dell'ufficiale locale. Aveva, peraltro, egli in animo di far
nominare i nuovi amministratori dal mag. d. Francesco Sartiani e Domenico
Girardis, che avevano già bell'ed espletato il loro mandato. Ma, il tribunale
aveva stabilito già che questi ultimi avevano facoltà di assistere in
parlamento, non di procedere a nomine di sorta. Queste spettavano
unicamente al sindaco uscente, ch'era appunto d. Lorenzo Grillo36.
36 SASP, Libro del prot. di nr. Nicola Musitano, Santa Giorgìa, a. 1757.
56
I Grillo nobili in una testimonianza del principe di Cosoleto (1753) *
D. Giuseppe Tranfo, figlio di Domenico patrizio tropeano, che nel 1733
circa succedette alla madre d. Laura Tranfo37, nipote ex-sorore dell'ultimo
esponente di casa Francoperta, d. Giuseppe Antonio38, il 27 gennaio 1753,
essendo presente in Oppido, non sappiamo per qual negozio, stimò
opportuno affidare a un rogito una testimonianza che riguardava una
nobile famiglia del luogo, la Grillo, che vanta origini germaniche.
Quel feudatario nel 1723, quindi ben un trentennio prima, trovandosi a
Napoli trattenuto nel Castelnovo assieme a d. Giuseppe Grillo39, in seguito
marchese di Claro Fonte in Spagna e a d. Carlo, fratelli dei duchi di
Mondraone (sic! Mondragone), ebbe occasione, conversando, di apprendere,
tra vari particolari, che i Grillo di Calabria, i medesimi che procedevano dai
baroni di Careri e risultavano abitare in Oppido, appartenevano al ramo
cadetto di loro famiglia, pervenuto a suo tempo nel regno napoletano. Era
un fatto che a loro constava non solo perchè tramandato da padre in figlio,
ma per via di «notizie, che dell'istessa vi sono», evidentemente
documentazioni. Avendo i due chiesto informazioni sulla vita che tali con-
ducevano a Oppido, il principe di Cosoleto riferì che «vivevano nobilmente, e
con maggiore destinzione dell'altri della Provincia, cosa per cui quegli altolocati
personaggi se ne rallegrarono assai»40.
In effetti, in una pubblicazione di araldica, nella quale ci si sofferma
bastantemente sulla famiglia Grillo e si dice che questa avrebbe sfondato
soprattutto a Genova, dove suoi membri furono dogi, ammiragli e senatori,
si rende noto che il duca di Mondragone dava del cugino a Giovan Battista
* Pubblicato in "Storicittà", a. VI-1997, n. 57, pp. 56-57; "La Città del Sole", a. V-
1998, n. 1, p. 18. 37 La madre di d. Laura sarà certamente convolata a nozze con un parente recante il
medesimo suo cognome. 38 Sulle famiglie Francoperta e Tranfo ved. R. LIBERTI, Cosoleto profilo storico di un
centro urbano, "Calabria Sconosciuta", a. XI-1988, n. 40, pp. 100-102; ID., I Tranfo e
il castello di Cosoleto, ivi, a. XVIII-1995, n. 65, pp. 31-34. 39 Tale frase può voler significare che il Tranfo si trovava in quel luogo agli arresti
oppure a motivo di servizio militare? 40 SASP, Libro del prot. di nr. Carmelo Tropiano, Seminara, a. 1755, ff. 1v-2.
57
Grillo di Oppido (1787 c. - 1843). Peraltro, la colleganza dei Grillo oppidesi
con quelli di Genova non ha mai rappresentato una novità41.
A questo punto non riusciamo a spiegarci il motivo di così tardiva
dichiarazione. Ci sembra impossibile che il Tranfo in così lungo lasso di
tempo non abbia avuto l'opportunità di recarsi a Oppido. Trent’anni non
sono una bagattella!
Osiamo azzardare un'ipotesi. Il titolato sarà andato in compagnia del
seminarese d. Vincenzo Franco, agente generale dello stato, recatosi a
visitare la famiglia della fidanzata, d. Teresa Grillo, che impalmerà l'8
maggio successivo. Una tale sortita, nel particolare momento, potrà essere
stata originata al fine di magnificare le parentele del ceppo Grillo42. L'avallo
può essere dato dal fatto che a redigere l'atto fu un seminarese, portatosi a
Oppido anche lui al seguito del Franco, onde stendere i capitoli
matrimoniali.
Che la famiglia Grillo, un tempo feudataria di Calimera-San Calogero
(tra 1651 e 1681 c.)43 e di Careri (tra 1593 e 1623 c.)44, abbia in successione
ambìto di rientrare nella cerchia dei baroni risulta da un documento del
1707. In quest'anno Agazio Antonio, sicuramente nostalgico della passata
grandezza, venne a lasciare per testamento dei censi, la cui annualità
doveva andare in multiplico sino alla somma di ducati 14.000 al fine di
accaparrarsi qualche feudo in vendita. Tale, una volta acquistato, avrebbe
dovuto essere assegnato in amministrazione al primogenito, con entrata
suddivisa tra tutti i figli e gli eredi sopravvissuti. L'impegno che, in forza di
quella disposizione, i discendenti del Grillo avranno probabilmente espe-
rito onde procacciarsi una terra variamente titolata, si sarà sicuramente
dimostrato vano poichè non è dato avvertire alcuna notizia di feudi
41 Sulla famiglia Grillo ved. LIBERTI, Momenti e figure ..., pp. 125-127; Calendario
d'oro - annuario nobiliare, diplomatico, araldico, Roma, IV-1897, n. 13, p. 355. 42 PARROCCHIA DELLA CATTEDRALE, Liber coniugatorum.
Il matrimonio tra d. Vincenzo Franco di d. Enrico e d. Teresa Grillo di d. Amato
venne celebrato nella cappella del palazzo Grillo dal vescovo Mandarani, con
testi d. Saverio Grillo e d. Domenico Gerardis. 43 M. PELLICANO CASTAGNA, La storia dei feudi e dei titoli nobiliari della Calabria, I,
Chiaravalle C.le 1984, pp. 340-341. 44 J. MAZZOLENI, Fonti per la storia della Calabria nel Viceregno (1503-1734) esistenti
nell'Archivio di Stato di Napoli, Napoli 1968, pp. 192, 205.
58
intestati alla famiglia susseguentemente a quelli già precedentemente
detenuti.
Agazio Antonio Grillo era figlio a Gio. Leonardo e fratello a Francesco,
Lorenzo e Michele. Sposatosi intorno al 1633 con Giulia Ruffo, aveva
procreato Gio. Leonardo, Giovanni, Domenico, Girolamo, Anna, Lorenzo,
Dianora e Carlotta45. Col documento, di cui sopra, tra l'altro, pretese dagli
eredi il completamento con stucchi entro il biennio di due cappelle del
convento dei cappuccini, mentre dal figlio Lorenzo, nel medesimo lasso di
tempo, l'allestimento di un innante altare d'argento per la Santissima
Annunziata, ch'era già un pio desiderio espresso dal proprio fratello anche
lui a nome Lorenzo46.
Anche per quanto riguarda il ceppo Grillo dei baroni di Calimera le
carte d'archivio appaiono ben doviziose di notizie. In esse, infatti, ci
s'imbatte spesso in particolari che riferiscono dell'antico suo stato. Una
scheda del notaio Medici dell'anno 1752 rappresenta i fratelli Nicola e
Domenico quali abitanti in Melicuccà del Priorato e se la loro madre, d.
Giacoma Spina, viene ricollegata ai passati Baroni di Mammola, per detti
appare chiaro il vanto di appartenere all'antichi Baroni di Calimera47. È
sicuramente il primo dei due quell' Ill. Sig.r D. Nicolò Grillo qm. D. Antonio
de Baroni di Calimera, che alla fidanzata, d. Angela Teotino del dr. Giuseppe
Antonio di Terranova, consegnava l'anno prima, in occasione della stipula
del contratto matrimoniale, tramite il fratello Domenico «accio, quella col de-
coro decente alla sua nascita possa comparire da sua sposa», una discreta serie di
«vesti, vestiti, Gioje, indirizzi di diamanti, oro, ed altro». L'assegno di tali doni è
offerto nei minimi dettagli. Ne faranno parte un indirizzo di diamanti distinto
in croce, scocca e orecchini (val. duc. 140), un anello di diamante (duc. 30),
un indirizzo di rubbini comprensivo di scocca e orecchini (duc. 44), un
anelluccio di diamanti e rubbini (duc. 8), un orologio d'argento (duc. 30), un
paio di bottoncini d'oro (duc. 5), un rosario di perle e migliuzzi d'oro con
medaglia d'oro, un paio di fibbie d'argento, un paio di pater noster di pietra agata
con medaglia d'oro, un manichino arricciato (duc. 4), un manichino usuale (carl.
36), un vantisino (duc. 3), due scuffie di merletto (acquistati l'uno a 13 carlini a
45 SASP, Libri del prot. di vari notai; F. RUSSO, Regesto Vaticano per la Calabria,
passim. 46 SASP, Libro del prot. di nr. G. Fossare ..., a. 1707. 47SASP, Libro del prot. di nr. Gaetano Medici, Santa Cristina, a. 1752.
59
palmo, l'altro a 65 grana), due manicotti con identici merletti e due spalline
(acq. duc. 75), due paia di calze di seta, un tondo ed imbuto (duc. 28), un
berrettino di donna (acq. carl. 25), due vesti a sacco di Drappo di francia (duc.
200 c.), una veste d'insavacciato verde ricamato in argento e con valloni d'oro
(duc. 70 c.), una veste di molla di colore per uso quotidiano, una veste di
campagna di scarlato con guarnimenti d'uso, un cappottino di Drappo di francia
da mettere sulle spalle, un guardapié (duc. 12). Le altre coselle a minuto
vengono trascurate, in quanto non meritevoli di essere elencate. In totale, il
Grillo veniva a offrire alla futura sposa un valore intorno ai 650 ducati48.
Come viveva un nobilotto del '700:
d. Francesco Grillo (1718-1757) *
Il 23 o 24 maggio del 1757 veniva a morte nell'antica Oppido in seguito a
un colpo apoplettico il quarantunenne ottimo galantomo d. Francesco Grillo,
esponente di uno dei vari rami della nobile famiglia pervenuta da Genova
in Calabria intorno al 1500. Il triste evento si compiva nella sua abitazione
di contrada S. Nicola, sicuramente quella che faceva capo alla chiesa di S.
Nicola extra moenia, seconda parrocchia del paese e, quindi, in una zona
piuttosto decentrata. La salma fu portata con solenne pompa e
accompagnamento di capitolo e clero secolare nel tempio dei padri
cappuccini, a un miglio circa dalle mura urbane ed ivi inumata in una
propria sepoltura. I Grillo erano protettori del convento sin dal 1592, allor-
quando avevano avviato apposito lascito per la sua fondazione49.
D. Francesco era figlio a d. Gerolamo (1685-1751) e ad Aurelia Grillo
(già deceduta prima del 1746) e i suoi fratelli avevano impalmato giovani di
pari lignaggio. Lorenzo (1715) sposò Cornelia Grillo, Lucrezia (1720) nel
1747 d. Giacomo Sartiani, Cornelia (1724) nel 1748 d. Girolamo Zerbi e
Filippo (1734) nel 1754 d. Aurora Sartiani. Altri germani erano Agazio
(1711, che, intrapresa la carriera ecclesiastica, era pervenuto nel 1746 al
grado di decano, Aurora (1712) accasata in Seminara e Giulia (1716)
maritata e domiciliata in Sinopoli.
48 SASP, Libro del prot. di n. Carmine Fantone, Melicuccà, a. 1751, ff. 247-248v. * Pubblicato in "La Città del Sole", a. IV-1997, nn. 7-8, pp. 26-27. 49 LIBERTI, Momenti e figure ..., p. 90; ID., Fede e società nella Diocesi di Oppido-Palmi,
Rosarno 1996, pp. 181-184.
60
A quanto conosciamo, da d. Francesco e dalla moglie, d. Caterina
Barletta Santa Croce (1720 e viv. 1771)50, nacquero almeno otto figli:
Marcello (1743), Saveria (1743), Domenico (1751-1811), Maria (1752),
Aurelia (1754), Girolamo (†parvulus 1755), Aurora (1756), Gerolama († parv.
1756). In quel 1757 restavano soltanto Marcello, Saveria, Domenico e
Aurelia. Così in buona parte testarono avanti al vice conte d. Giuseppe
Mandarani i magnifici Nicola Francesco Zerbi, Francesco Fossari e
Giuseppe Antonio Gaglianò. Gli ultimi due vennero a qualificare il defunto
come loro Caro Padrone51.
Nel 1746 i due coniugi unitamente al loro primo figlio, Marcello,
vivevano in casa del padre, sicuramente vedovo e assieme a tanti altri della
famiglia e, cioè, al decano Agazio e a Lorenzo con moglie e tre figli,
Lucrezia vedova, Giulia, Filippo ed Aurora e Cornelia, abitanti, come detto,
fuori. A tale grosso nucleo composto di ben 15 persone accudivano in
quattro, il lacchè Francesco Foti e tre serve, Saveria e Caterina Raimondo
sorelle e Domenica di Sitizano, che andavano dai 15 ai 34 anni di età. Non
c'era, certo, di che lamentarsi a proposito delle condizioni di vita nella
patriarcale magione di d. Gerolamo dato che questi, designato nobile,
poteva vantare, tra le numerose tenute e introiti vari, un patrimonio valu-
tato ben 757.12.6 once contro le 471.15 in pesi, con tassazione operata sulla
metà della differenza tra le due cifre.
Essendo d. Francesco morto ab intestato, la di lui moglie, in data 1 luglio
del medesimo anno, fu costretta a presentarsi nella corte vicecomitale
oppidese, onde perorare richiesta di affidamento dei beni dei figli, previo
inventario degli stessi «senza verun pregiudizio delle sue raggioni dotali».
L'apposito elenco venne a materializzarsi il 26 del mese di agosto
successivo e il notaio seminarese Vincenzo Tropiano, assistito dal regio
giudice ai contratti Giuseppe di Franza e dai testimoni dr. d. Orazio
Malarbì, mag. Bernardino Misiti e mag. Francesco Antonio Italiani, ebbe di
che registrare.
La casa abitata dalla famiglia di d. Francesco era un vero e proprio
palazzotto e si componeva di ben dodici camere più servizi, bassi e altri
locali variamente destinati. L'iniziale visita toccò naturalmente al primo
50 F. RUSSO, Regesto ..., 1994, XIII, p. 295. 51ASN, Catasto Onciario 1746; SASP, Libro del prot. di nr. Carmelo Tropiano, Seminara,
a. 1757, ff. 57-65; Libri parrocchiali di Oppido.
61
piano, quello di uso quotidiano, dove si pervenne non appena salita una
rampa di scale ed ecco di seguito, senza operare distinzioni per camere,
quanto vi si conteneva.
Facevano parte della suppellettile ben 12 boffette, i nostri tavoli (2 grandi,
di cui una con intagli dorati; 3 dorate, di cui una con intagli; 2 di legno di
noce; una piccola; 2 senza ulteriori indicazioni e 2 tonde, una di pioppo e
l'altra con fodera in pelle); 63 sedie di paglia dorate, 1 stipo di riposto ; 3
arcantarani (canterani), di cui 2 con 4 tiretti; una scrivania d'ottone; 4
scrittori (stipetti per depositarvi incartamenti) (2 di ebano, di cui uno con
cornici dorate e figure, 1 con figure scolpite di pietra e 1 piccolo d'ebano
minjato d'avolio=miniato di avorio); 2 casciabanchi, le nostre cassepanche; 2
cascioni cioè casse grandi (uno di farina ?, l'altro di noce); una cascia cioè
cassa; una cascietta, quindi cassetta, di bacchetta (vacchetta) ferrata; molte
casse a uso dei servitori; 8 bagulli, i nostri bauli (3 di bacchetta, di cui uno di
color rosso; uno di montone e il resto senza alcuna distinzione); un canapè
(divano) di velluto fiorato; sei letti con materassi, di cui uno di campagna e
3 per i servitori; un lettino di campagna, una lettèra (giaciglio) per i servitori
e, infine, una tabarca, cioè letto con telaio e spalliere in ferro.
Quindi, si potevano osservare ben 12 specchi (4 grandi, 4 piccoli e il
resto senza specificazione, per lo più con intagli in oro o con cornici dorate;
uno solo aveva la cornice nera di ebano); un lavamano, 9 tondini piccoli; 18
placchi o placche (forse, lastre di metallo argentato), di cui 4 con cornici; 2
lampioni ovverossìa lampieri, di cui uno al centro, sicuramente situato sul
soffitto della camera maggiore; 3 frontere (gazzane? mensole?), una d'acciaio
e due di legno; una briglia; una testera di pirucche (stipo per le parrucche); 4
ritratti, di cui uno grande con l'immagine del defunto d. Girolamo Grillo; 19
quadri, di cui 10 con varia rappresentazione e 9 con cornice dorata; 18
quadretti, di cui 4 con raffigurazioni di fiori, 10 tondi e 4 con cornici dorate;
37 pezzi di quadri, di cui 9 con espressione di paesaggi e cornici dorate e 8
similari senza indicazione dei soggetti impressi, 20 con cornici dorate; 3
ombrelle (ombrelli), di cui una piccola; 7 candelieri, di cui 2 di ottone a
quattro locigni (lucignoli), 3 di stagno e 2 d'argento; una forfica d'argento per
smicciare i candilieri (lo smoccolatoio); 2 canni d'India (bastoni), uno col pomo
d'oro l'altro d'argento e un orologio da tasca d'argento.
Per quanto concerne vestimenti e il materiale riferibile alla sistemazione
del letto si rinvenivano varia biancheria in un cassone, una cassa e vari
bauli; un pezzo di tela; robbe di nutricata (roba di seta da filugello); le vesti
62
della padrona di casa; un abito di velluto e altro di molla (tipo di seta) nera;
uno sciamberghino (giamberga piccola) ricamato in oro; 4 padiglioni
(baldacchini), di cui 2 di capicciola (cascame di seta) uno rigato l'altro
bianco, uno di tela stampata e uno di lettino di damasco giallo; 11 ginefre
(strisce di guarnizione) compresa quella fissata alla porta; 10 portere (tende),
di cui 2 nere, 4 bianche per le finestre e 4 di seta per le porte delle camere; 8
cortine, di cui una di damasco, una uguale gialla e rossa, una rosa guarnita e
ricamata in oro, 3 bianche, 1 turchina di bambace (bambagia), 1 di terzanello
(tipo di seta) rigato; una diecina circa di coperte, di cui 1 di seta ac-
quamarina, 1 turchina rossa e bianca di calame (fioretto), 1 di damasco rossa,
1 gialla e verde, 3 di cosi di nutricata, 1 fiorata di seta; molte coperte per i
servitori; 8 bottini (imbottite), di cui 7 di cotone e 1 di seta.
Ecco ora quanto si rilevava circa il vasellame, che, invero, appariva
quanto d'indispensabile a una normale famigliola. Era dato registrare 25
piatti di porcellana; 8 bacili di uguale materia più uno di rame; 6 chiccari
(tazzine) con piattino; una chiavettiera (porta chiavi) di porcellana; 25 tra
bicchieri, fiaschi, garaffine (piccole caraffe) e giarre (giare) d'acqua di
cristallo; un posatore di trincia (trinciatore); un sicchetto (?) d'argento; una
salera (saliera) d'argento; 7 piattini d'argento; 6 posate d'argento; 2
sottocoppe d'argento; uno sciabolotto (piccola sciabola) con posata e manico
d'argento; una cantinetta con 6 fiaschi. In una cassa s'intravedevano poi
molte cose di pasta.
Pochi figuravano i libri, appena 26, ma molte le carte di conti, non per
niente il defunto era stato in vita percettore dei feudatari Spinelli. Si
elencavano, tra l'altro, 10 libri col cartone precettorale per il 1747/1756; un
piccolo fascio di mensali attinenti ancora all'ufficio precettorale; gli inventari
della mandra del Patrimonio; un fascio di lettere del principe del 1753/57; i
bilanci dell'olio per il 1751; lettere di cittadini in relazione all'ufficio di
precettore; carta da scrivere; un libro di casa del 1752 con indicazione dei
nomi dei debitori; libri precettorali con notazione dell'impiego di olio e seta
da maturarsi in quel 1757; libro dell'impiego di olio con bilanci in uscita ed
entrata di quanto incamerato in denaro da d. Francesco a conto dei feu-
datari in ragione di 37.404 ducati; fasci di polise (polizze) degli erari (esattori
del feudatario) di Seminara, Palmi, Santa Cristina (d. Domenico Musitano),
Oppido (d. Antonio Grillo) e di debitori di Varapodio e Seminara per il
1752/56 e, infine, il conto di d. Filippo Grillo.
63
Il cassettino con le gioie, debitamente custodito nella decima camera,
officiava i seguenti oggetti d'oro: un indirizzo di diamanti comprendente
una crocella, un paio di orecchini, 2 anelli con un rubino e altro col diamante
in centro; due crocette di smeraldi; una catiniglia (catenella) d'oro; un
gioiello d'oro con perle e pietre rosse; due anelli di smeraldi, un paio di
pater noster di filigrana d'argento (era la coroncina del Rosario); due jettiti
(?), uno d'oro e l'altro di perle. A tutto questo, di proprietà di d. Caterina e
regalo del marito e dei congiunti, fa d'uopo aggiungere una catena a maglia
d'oro con 167 pezzi seu maglie; un campanello; una sonaglia (sonagliera)
d'argento per i figliuoli; una scatola di scubbie (?) di pertinenza della stessa.
Infine, era dato scorgere della polvere di cipro, sicuramente cipria, contenuta
in 4 coppi (cartocci)) e in una scatola e la somma di ducati 450 in oro e ar-
gento, con la quale si sarebbe dovuto provvedere per i funerali e altre spese.
Esaurito il giro delle 12 camere, si passò alla cucina, dove si rilevò il
seguente materiale: 3 candelieri di stagno, 2 caldari (caldaie) grandi di rame,
un bozzonetto (tegame alto) grande, 4 tielle (teglie) di rame; 2 padelle, 2
graviglie (graticole); una tassalora (casseruola) di rame; 1 sculabrodo
(colabrodo) di rame; 3 brascieri (bracieri) di rame; 6 bocconetti (forme per
dolci?) di rame e altri stigli (utensili) di grano.
Una volta completato il primo piano, si discese per verificare quanto si
trovava sistemato nei bassi sottostanti. Un primo basso fungeva da
magazzino del grano e notaio e testimoni stilarono una lista di ciò ch'ebbero
modo di riscontrare: 12 gistroni (cestoni) colmi di grano ed altri 3 di orzo, 10
pesi (pesate) di lino, 3 quartarelli (misura dell'epoca) di saemi (saimi=strutto)
e 10 forme di cascio (cacio). Nel basso accanto risultavano depositati invece
molti mattoni, dei legni e ceramidi (tegole). Altri due magazzini servivano a
stipare l'olio. Il primo conteneva, tra piccoli e grandi, 3 pitarri (orci) pieni di
quel prodotto equivalenti a circa 50 botti e in cura al fattore Domenico
Papalia, come si evidenziava da una sua nota e dallo stesso libro di casa. Il
secondo 30 pitarri tra grandi e piccoli, di cui solo 12 pieni di olio, che si
equiparava a circa 4 botti, quindi 3 cantinette vuote. Il magazzino del vino,
come naturale dato il periodo, conteneva 9 botti e 3 cantinette del tutto
vuote. In un camerino di basso si rivelava un po' tutta una serie di cose
accantonate: un cassone grande di pioppo con 200 libbre di seta ottenuta
dalla nutricata dell'anno in corso e della quale bisognava dar conto ai coloni
per quanto loro competeva, 15 quadri grandi, un baliciotto (valigetta) di
pelle, una boffetta tonda di pioppo, degli ombrelli, 6 sciamberghi
64
(giamberghe) di panno di raso d'umez e stamina (stamigna), 8 sciamberghini
di panno e uno di pelle ricamata, un cappotto di panno, una lebrea (livrea)
di servitore e altra di volante e, infine, uno stipo atto ad appendervi la roba.
Altri locali ancora erano la stalla, dove si reperirono tre mule per comodità
della famiglia e per fare la vatica (trasporto), il trappeto con tutti i suoi
stigli, ch'era unito al palazzo e una bottega con camerino annesso ch'era
stata data in fitto ad Antonio Mangano.
Non terminavano qui i beni in forza alla famiglia di d. Francesco Grillo,
che ne evidenziava tantissimi altri e di grande rilievo. Una casa palaziata
comprendente 6 camere più i bassi si trovava a Tresilico ed era in
compartecipazione con i di lui fratelli Lorenzo e Filippo, mentre un
trappeto era locato a Varapodi ed era a godo a godo con d. Pio dell'Olio. Un
casino e un magazzino a Messignadi erano pure in comune con i fratelli. Il
nobilotto era poi possessore di ben 800 pecore, così distribuite: 300 a
Oppido e Castellace, 200 a Natile e 300 a Casignana; per queste ultime però
era insorta lite. Quindi, di 8 bacche (vacche), 4 bovi e una giumenta col ca-
valletto (cavallino) al seguito affidati al mag. Giuseppe Condello di
Messignadi.
Veniva poi tutta la serie di tenute localizzate nelle seguenti contrade: S.
Nicola (questa era stata comprata da d. Caterina dopo la morte del marito),
la Chiusa, Tricuccio, S. Biasi (le olive erano in comune col Capitolo),
Cannavaria (con casa e torre), Levadi, La Tubba, La gramopella, lo cenzo,
Ovviddio, lo Ladro, Lifracà, Santo Chirico, Sportà, Li molina, Quarantano,
Castellace (qui, in contrada Buzzano, erano di pertinenza anche una torre,
una casa, un trappeto con magazzini d'olio, dove i pitarri erano da dividersi
con i fratelli). Le terre interessate, alcune delle quali inculte, scapole (brulle) e
aratorie (adatte alla semina) recavano di tutto: vigna, alberi fruttiferi, ulivi,
gelsi bianchi e neri, castagni, boschi di selva cedola (cedua). A tutto questo po'
po' di roba occorre, infine, aggiungere una piccola lista di cespiti
variamente introitati. Contribuivano con 8 duc., 16 gr. e 28 cavalli le
università di Oppido e Tresilico, 60 gr. gli eredi di Lorenzo Mammoliti, 75
gr. gli eredi di Giuseppe Russo, 55 duc. il dr. fisico Giuseppe Antonio
Gaglianò, 16 carl. Caterina di Guisa e Giuseppe Marturano, 11 carl. Bruno
Mammoliti, 9 carl. Francesco Antonio Mangano, 20 carl. Francesco
Buccafurri, 54 duc. d. Casimiro Coscinà e 10 duc. gli eredi di Matteo
Capialbo.
65
Non possiamo certo oggi, a distanza di due secoli e mezzo, fare raffronti
di sorta e paragonare d. Francesco Grillo a qualcuno dei miliardari odierni,
ma, dopo quanto riferito, è sicuramente molto chiaro che ci troviamo di
fronte a uno dei più grossi proprietari e imprenditori della zona, peraltro
un fidato collaboratore del feudatario principe Spinelli. Ma il benessere in
casa Grillo veniva da epoche remote e il padre di d. Francesco appena
undici anni prima, era, tra i nobili di Oppido, il contribuente che
denunziava il patrimonio più vistoso.
Il Monte dei giovani (1767) *
Nell'antica Oppido non mancavano, come s'è visto, i cittadini agiati, i
quali, pensosi della grama situazione in cui al tempo si viveva, offrivano le
proprie sostanze al fine di avviare benefiche istituzioni a pro della
popolazione tutta. Se nel 1609 era stato il turno di Marcello Albanese con la
creazione di un monte di pietà e nel 1750 del vescovo mons. Ferdinando
Mandarani, che, in un'epoca di estrema penuria aveva voluto tenacemente
dar vita a un monte frumentario, nel 1767 toccò a d. Lorenzo Amato Grillo
dar corpo a un monte dei giovani, a una fondazione cioè che avesse di mira
di assecondare nello studio giovani poveri sì, ma volenterosi e capaci.
Il dottor Lorenzo Amato Grillo, un gentiluomo che al suo cognome
amava aggiungere a volte anche quello di Caracciolo, certamente per la
madre e pure per distinguersi da altro parente quasi omonimo, d. Lorenzo
Grillo Gemelli, apparteneva a famiglia che, pervenuta in Oppido da Genova
nella seconda metà del '500, vi si era presto diffusa divenendone magna
pars. Ligio alle consuetudini del casato, si era unito in prime nozze a nobile
fanciulla di Seminara, d. Gregoria Sanchez e successivamente aveva
impalmato una concittadina, d. Lucrezia Migliorini. Dalle due consorti
aveva ottenuto un bel numero di figli, ma, di questi, due soltanto erano
riusciti a sopravvivere, due donne, Teresa ed Eleonora, sposate
rispettivamente a d. Vincenzo Franco di Seminara nel 1753 e a d. Marcello
Grillo nel 1759. Degli altri figli conosciamo che Giuseppe morì nel 1748 ad
appena un anno di vita, Francesco nel 1767 a 5 anni, Cornelia pure nel 1767
a 3 anni, Aurora nel 1768 a 3 anni. Di altra Cornelia, nata nel 1768 e
cresimata nel 1770 e Francesco Antonio, nato nel 1770 e cresimato nel 1773,
* Pubblicato in "Calabria Letteraria", a. XXXII-1984, nn. 10-11-12, pp. 56-59.
66
non sappiamo l'anno di morte, ma per ovvi motivi dobbiamo presumere
che i due non siano andati molto al di là di quelle date. La mortalità
infantile era allora sempre in agguato e mieteva vittime su vittime. Era sicu-
ramente fratello all'ideatore del monte dei giovani Domenico Grillo
Caracciolo, marito a d. Cristina Sartiani e il cui figlio Giuseppe decedeva
nel 1768 all'età di 55 anni52.
Il nobiluomo aveva seguìto fedelmente quello ch'era il costume della sua
schiatta non solo però per quanto riguardava l'allacciamento di rapporti
matrimoniali con illustri prosapie, ma anche per ciò che concerneva la
direzione degli organi più rappresentativi della città. Difatti, da vari
protocolli notarili egli ci viene mostrato quale sindaco interessato alle
necessità della cittadinanza, ma a volte fiero del ruolo e delle prerogative
nonché amministratore di enti pubblici e privati53. D. Lorenzo appare nella
dignità di primo cittadino sin dal 1740, quando venne a lite con alcuni
ecclesiastici, i quali non intesero di assecondare le sue iniziative circa le
52 Registri parrocchiali di Oppido.
Da alcuni atti dei notai Domenico Fossare, Saverio Costarelli e Domenico Romeo
da Oppido (SASP) ricaviamo quanto segue.
Nel 1710 Domenico Caracciolo era governatore del monte di pietà, ma nel 1741
risultava già defunto. In quell'anno, presente la vedova, d. Carlotta Grillo,
sicuramente la seconda moglie, si faceva l'inventario di quanto da lui lasciato. Vi
si comprendeva, tra l'altro un palazzo di 18 vani ubicato nel quartiere del
Seminario. Nel 1725, non essendo riuscito a far deporre secondo il suo
divisamento tale Bernardo Sisinni del casale di Messignadi, d. Domenico lo fece
mettere in ceppi. Ma ecco il fatto e quel che ne seguì nelle dichiarazioni rese dal
malcapitato al notaio il 6 agosto di detto anno:
«... li giorni passati è stato carcerato dentro le carceri del Castello di questa Città per
ordine del Sig.r Domenico Grillo Caracciolo, il quale voleva, che esso Bernardo si avesse
esaminato contro del Sig.r D. Geronimo Grillo per l'oglio, che à venduto al sudetto Grillo
nell'anni à dietro; e perchè il medesimo si vedea morire dentro dette carceri in tempo così
rigoroso e caldo, e perdea le sue fateghe, oltre di altri patimenti, forzatamente si esaminò
avanti detto Caracciolo, che detto D. Geronimo li pagò l'oglio, ascendente ad un terzo di
botte, à carlini dodici il cafiso, quando la pura verità si è, che detto Grillo gli lo pagò a
carlini ventiuno, e tre tornesi a cafiso».
D. Giuseppe Grillo Caracciolo, figlio di d. Carlotta, nel 1752 era sindaco dei
nobili e negli anni immediatamente precedenti al 1768 governatore del predetto
monte di pietà. 53 SASP, Libro del prot. dei notai Francesco Cananzi, Domenico Romeo, ibid.
67
manifestazioni di giubilo per il felice parto della regina Maria Amalia,
particolari tutti che emergono da una deposizione avanti al notaio54. Lo
stesso, nel marzo del 1741, ancora sindaco, si trovava dal medesimo
funzionario per testimoniare sulla circostanza che, a causa di un'alluvione
che aveva fatto franare la strada pubblica di fiorello, si era tenuto nell'ottobre
precedente un parlamento allo scopo di acquistare un pezzo di proprietà di
Francesco Antonio Mangano prezzato del valore di 12 ducati dal pubblico
stimatore Santo Giustra. Nel 1751 il Grillo risultava invece olim Erario, ma
di chi? Probabilmente, della casa feudale Spinelli, che i rappresentanti della
famiglia servivano sovente in tale veste. Nel medesimo anno egli si qua-
lificava ancora debitore per 1009,20 ducati del monte di pietà,
un'istituzione, di cui sarebbe stato governatore di lì a poco, nel 1752-53. Nel
1741 d. Lorenzo aveva convenuto in giudizio e, quindi, fatto carcerare nel
castello, tale Carlo Gaglianò, che gli doveva 22 ducati per alcuni cafisi a lui
spettanti per gabella. Quest'ultimo fatto sembrerebbe fare a pugni con la
logica di un signore disposto a dare del suo per aiutare un concittadino in
stato di bisogno, ma non è proprio il caso di sottilizzare. I tempi erano
quelli che erano: la legge si faceva rispettare e i patti andavano comunque
mantenuti, con le buone o con le cattive. In difetto di ciò, ne sarebbe andato
di mezzo tutto un ordine costituito. All'epoca, d'altronde, si era ancora
lontani da rivendicazioni sociali e tumulti rivoluzionari di una certa
consistenza.
Il 27 gennaio 1767 d. Lorenzo Amato Grillo, certo ormai in là negli anni
e compreso delle esigenze della popolazione per un'esperienza che aveva
pur dovuto fare allorquando si era venuto a trovare a capo degli enti
precedentemente citati, contattò il notaio Lemmi e gli dettò il suo
testamento, nel quale, tra le altre cose, volle occuparsi di un ben preciso
disegno, la costituzione di un monte a favore dei giovani studiosi della città
e dei casali55. Difatti, per come conosciamo dal rogito, riportato in parte in
54 Per quest'episodio ved. R. LIBERTI, Liti tra sindaci ed ecclesiastici ad Oppido nel
'700, "Calabria Letteraria", a. XXXII-1984, nn. 1-2-3; SASP, Libro del prot. di nr.
Cananzi ... 55 Lo Zerbi (C. ZERBI, Della Città, Chiesa e Diocesi di Oppido Mamertina e dei suoi
Vescovi, Roma 1876, p. 44) ha scritto molto imprecisamente che a fondare il monte
dei giovani fu Lorenzo Amato Grillo nel 1765 ed in ciò è stato pedissequamente
seguìto dal Frascà (V. FRASCÀ, Oppido Mamertina - riassunto cronistorico,
Cittanova 1930, p. 216).
68
un atto del Consiglio d'Intendenza con sede a Monteleone del 20 dicembre
1811, così tenne a dichiarare con un discorso in verità poco comprensibile,
almeno per ciò che riguardava i fondi rustici che metteva a disposizione:
«... lego e lascio un mio oliveto in contrada S. Pietro sito nelle vicinanze di
Varapodio, lo stesso che in varie compre da me fatte si trova unito insieme coll'orto
comprato sub'hasta per gli atti di questa Corte da Mastro Francesco Caruso e
moglie, come per testamento fatto da Nr. Carmine Tropeano di Seminara ed atti di
Corte che si trovano in casa; quale oliveto unito coll'altro mio oliveto grande della
casa, sia mediante a beneficio del Monte di Pietà di questa Città, coll'obbligo, che
dell'annua rendita di d° fondo, dedott'i pesi se ne tenesse separato conto, e si facesse
libro particolare affinchè si mantenesse un giovinetto, che sia ben accustomato, e di
mediocre talento nella Città di Napoli o di Roma, colla mesata di ducati sei
nell'applicazione delle scienze ed arti liberali; qual giovinetto debba essere non
meno di anni quindici e non più di anni venti tanto se sarà chierico o laico, che
debba essere di questa Città di Oppido, o pure de' Casali di Varapodi, Tresilico,
Zurgonadi e Mesignani; a qual giovinetto debbasi dare la suddetta mesata di ducati
sei per lo spazio di anni cinque ed indi niente altro dalli Sig.ri Amministratori di d°
Monte di Pietà con doversino nominare dalli miei eredi uno o due giovinetti per
luogo della sopra espressata Città e suoi Casali se vi saranno e poi trarsi la sorte
dalli Sig.ri Sindaci in pubblico parlamento» 56.
Quanto sopra è, in linea di massima, la parte fondamentale del
testamento del Grillo, ma il documento e un successivo codicillo del 27
maggio del medesimo anno recano ancora ulteriori particolari che mette
conto riferire e che ribadiscono quanto segue. Il giovane studioso andava
sempre reperito in concorso di maggior numero. Qualora la rendita a ciò
disposta non fosse stata sufficiente in qualche annata, sarebbe stato compito
di sindaci e amministratori decidere se sospendere o meno per qualche
tempo la concessione del beneficio. Per godere di questo dovevano essere
«sempre preferiti i più poveri, e ben costumati e bene istruiti nella Dottrina
Cristiana». La scelta degli studiosi da aiutare era di esclusiva spettanza delle
figlie di d. Lorenzo, ma essa, dopo la loro morte, sarebbe caduta sul
secondogenito di d. Teresa, che sarebbe entrato in possesso dello stabile di
Boscaino e sul primogenito di d. Eleonora, che avrebbe avuto in eredità
l'altro di Cannamaria. Quelli defunti, il privilegio sarebbe passato ai di loro
figli e discendenti, però sempre detentori dei due predetti fondi. La nomina
56 Il documento si conserva nell'Archivio Comunale di Oppido.
69
del prescelto si sarebbe dovuta fare «maturata che sarà la prima annata di oglio
di d° oliveto» e, ove si fosse riscontrato che un membro della stessa famiglia
Grillo risultava «povero rispetto al suo grado», ma fornito pure degli altri
requisiti richiesti, andava desso preferito e non ci sarebbe stato bisogno di
ricorrere a più candidati. Ê quest'ultimo caso che il codicillo contempla al
gran completo vieppiù reiterandolo.
Non conosciamo quando venne a morte il Grillo e cosa ne fu della sua
istituzione nell'antica Oppido, ma nel 1802 essa era pienamente attiva e
operante nella rinata città. A tale anno rimontano due lettere indirizzate al
vescovo dalla Segreteria della Real Camera circa una specifica richiesta fatta
da un assegnatario del beneficio, Giuseppe Silipo da Tresilico nonché dal di
lui padre Giovanni, tendente a ottenere una deroga dalla rigida normativa
imposta dal pio legato. Da una prima dell'11 aprile si viene ad appurare
come il Silipo «nominato dal lui erede al godimento di docati 6 il mese lasciati dal
Testatore per poter un giovane studiare» a Napoli o a Roma, stimando la
somma elargita insufficiente all'esigenza, ma, in verità, anche perchè
trovavasi in atto alunno nel Seminario Diocesano, avesse fatto domanda di
poter usare ugualmente della stessa ottemperando allo studio in quel-
l'istituto. La petizione doveva essere stata, certo, avallata dall'Ordinario se
dalla successiva missiva del 22 dicembre si viene ad apprendere poi come il
presule, tra tante cose, avesse specificatamente comunicato che la medesima
eccezione era stata accordata per l'addietro ad altro studente in forza ancora
a quel tempo al predetto Seminario. In proposito la Real Camera replicava
che non avrebbe trovato nulla in contrario, però la cosa non avrebbe dovuto
arrecare pregiudizio alcuno ad altro richiedente del beneficio disposto a
recarsi a Napoli o a Roma, qualora esistesse e a tal uopo doveva farsene
garante lo stesso vescovo57.
Appena due anni dopo, il 6 febbraio 1804, in un rapporto conservato in
minuta nell'archivio curiale oppidese e inviato a Catanzaro all'avvocato
fiscale d. Luigi Calenda l'ordinario diocesano mons. Tommasini così
relazionava sul monte:
«Da' Governadori del medesimo Monte dei Pegni è amministrat'ancora un
legato Pio del fu D. Lorenzo Amato Grillo di questa Città. Egli il dì 20 agosto 1767
lasciò un suo fond'oliveto sito nelle pertinenze di Varapodio, colla Legge, che fusse
amministrato da' Governadori del Monte pro tempore, e che colla rendita
57 AVO, fasc. Tresilico.
70
proveniente dal detto fondo, della quale si deve tenere un conto separato si dovesse
mantenere agli studii in Napoli, o in Roma uno, o più giovini di talento della Città,
e de' suoi casali ... con pagarsi sei ducti al mese per cadauno. Comandò però che
detti ... dovessero prima ottenere la nomina del lui erede, che oggi è D. Giuseppe
Franco Grillo abitante in Seminara. Tanto si praticò sino ad ora esattamente,
cosicchè in atto vi sono in Napoli con tal legato due giovini di questa Città, uno
nomato Vincenzo Zillini, applicato alla medicina, e l'altro D. Pasquale Rossi,
applicato alla chirurgia».
I due giovani Rossi e Zillini, di cui al presente documento, riusciranno
parecchio profittevoli e verranno a laurearsi e ad esercitare la professione in
Oppido. Lo Zillini, in particolare, che, nato a Oppido nel 1780, morrà a
Lubrichi nel 1866, sarà ricordato quale autore di parecchi manoscritti
d'ordine sanitario.
Intorno al 1811 d. Giuseppe Franco Grillo rivendicava dal Consiglio
d'Intendenza di Monteleone una dichiarazione nella quale si ribattesse
ch'era prerogativa sua e dei discendenti il «patronato attivo e passivo del
Monte de' giovani fondato dal di lui Avo materno Sig. Lorenzo Amato Grillo»58.
Indubbiamente, le vicende successive alla costituzione dell'ente non furono
delle più felici e il terremoto prima, con il forzato trasferimento degli
Oppidesi nella nuova realtà urbana, l'occupazione militare francese del
regno poi, non permisero certo un regolare iter. Difatti, come si legge
nell'art. 2 di un ennesimo atto di rifondazione promulgato nel 1908, il
legato era stato «reso esecutivo con deliberazione del Consiglio Generale degli
Ospizi del dì 11 Aprile 1819». Nel 1862, comunque, dopo l'elaborazione della
Commissione di Beneficenza, cui era stata affidata così come le altre, la
creatura di d. Lorenzo Amato Grillo passò alla Congregazione di Carità,
che susseguentemente, come detto, provvide a darle un nuovo
ordinamento. Nell'art. 3 del 1° capitolo dello statuto del nuovo carrozzone
ufficializzato il 27 agosto 1870 si fece, infatti, presente che entrava a farne
parte anche il «Monte dei Giovani fondato con testamento del Sig. Lorenzo
Amato Grillo del dì 27 gennaio 1767 che ha per iscopo il mantenimento di due
giovani che vogliono attendere allo studio delle scienze, delle arti, e scuola
tecnica»59. Ma, in verità, sin dal 2 ottobre 1864 si discuteva in consiglio
comunale sulle modifiche da apportare ad un testo proposto in
58 È inserito nel medesimo documento, di cui sopra. 59 Si custodisce del pari in ACO.
71
precedenza. Ecco alcuni particolari interessanti emersi dalla delibera
approvata all'unanimità60.
A quel tempo il monte veniva amministrato con regolamento che aveva
avuto l'assenso sovrano il 12 aprile 1828, dato che «le tavole di fondazione si
dispersero tra le rovine del tremuoto del 1783». Era stimata cosa giusta che il
privilegio della preferenza fosse ancora riservato alla famiglia Franco «per
non volersi disconoscere con nera ingratitudine la volontà del fondatore». L'art. 2,
che recitava «sarà adebito al mantenimento di due giovani che vorranno attendere
allo studio di scienze ed arti liberali», andava così modificato: «Sarà adebito al
mantenimento dei due giovani che vorranno attendere allo studio delle scienze tutte
che possono avere il nome di scienze esatte, e che potranno dare una professione
utile al proprio paese, e vantaggio ai loro interessi, e quelle ancora delle belle arti,
della scuola tecnica che tiene nel mezzo tra le prime e le seconde». Il beneficio, che
poteva venir concesso a giovani che dovevano aver completato «con plauso
gli studi preliminari e preparatorio e ciò mediante l'esame avanti la Congregazione
di Carità con l'intervento del Sindaco, e dei deputati della pubblica Istruzione del
Comune», consisteva nell'elargizione in rate mensili di lire 425 all'anno per
cinque annate.
Lo statuto del 15 aprile 1908, che risulta avallato dalle firme degli
amministratori dell'epoca: Gaetano De Zerbi presidente, Raimondo Zerbi,
Ferdinando Ruffo, Francesco Contestabile, Giuseppe Grillo, Antonio Zito,
D. Malarby segretario e che certamente ricalcherà i precedenti, pur
rapportando il tutto ai nuovi tempi e distinguendo due partite di benefìci,
in buona sostanza non fa che riflettere l'antico testamento di d. Lorenzo
Amato Grillo, che richiama ad ogni piè sospinto. Ma ecco per sommi capi,
di seguito, quanto da quello si ricava.
Il monte ha nel suo programma la concessione di tre borse di studio a
«giovani poveri ed onesti». Una prima, di lire trecento, che si traggono dalla
fondazione Grillo, viene data «ai giovani di Oppido, Tresilico e Varapodio61; che
vogliono attendere allo studio delle lettere, delle scienze e delle arti liberali, in
qualunque città sede di studi secondari o universitari con preferenza sempre a
giovani che abbiano relazioni di parentela col benefattore». Le altre due, di lire
500 ciascuna e di libera concessione della Congregazione, vanno invece «a
60 ACO. 61 Come si può notare, non si menzionano più Messignadi e Zurgonadi, ma questi
due ex-casali ormai facevano parte integrante del Comune di Oppido Mamertina.
72
giovani di Oppido che attendono allo studio delle lettere, delle scienze, comprese
quelle agrarie ed allo studio delle arti liberali». Il capitale su cui si basa la borsa
Grillo ammonta a £. 7.722 e dà una rendita annuale di £. 347,49, quello
offerto dalla Congregazione a £. 21.933, che producono di netto £. 987
all'anno. La prima viene accordata su proposta di un successore di d.
Lorenzo, le altre direttamente dalla Congregazione. I giovani prescelti
godono del beneficio «per una durata necessaria al compimento di un corso
regolare di studi e ciò fino al conseguimento della laurea o del diploma a secondo
degli studi a cui egli si è dedicato». Essi non devono aver meno di 15 anni e più
di 20 di età per quanto riguarda il lascito Grillo o più di venti per ciò che
concerne invece il resto. Possono comunque tutti appartenere a famiglie
povere relativamente al loro grado sociale. Quest'ultimo comma dell'art. 16
del titolo III sembrerebbe a tutta prima lasciar intendere una prelazione nei
confronti delle classi nobili decadute, ma non è così perchè l'art. 19 del
titolo IV soggiunge poi chiaramente che «Fra i concorrenti, saranno sempre
preferiti coloro i quali avranno maggior diritto, si per i requisiti intellettuali e di
studio quanto di moralità e sono relativamente agli altri più poveri». Alla fine lo
statuto prevede la sospensione della corresponsione delle rate, dopo un
primo richiamo, a quegli studenti che non riusciranno profittevoli nello
studio.
Soppresse le Congregazioni di Carità, il monte passò sotto
l'amministrazione dell'ECA e, dopo la scomparsa di quest'ultima, avvenuta
poco tempo fa, venne a dipendere direttamente dal Comune, vale a dire
che, come tutte le altre opere pie, finì completamente di esistere sopraffatto
dai tempi nuovi e dalla riduzione di un capitale divenuto ormai un
provento alquanto irrisorio e, quindi, incapace di fornire il minimo sussidio
a chicchessìa.
Dei 6 ducati mensili, poi espressi in lire, disposti inizialmente nel
lontano 1767 da d. Lorenzo Amato Grillo, usufruì nel tempo uno stuolo di
giovinetti amanti dello studio, ma che non nuotavano nell'oro. Tra i tanti, ci
piace soprattutto ricordare il celebre Alessandro Longo, compositore e
professore di musica al Conservatorio S. Pietro a Majella di Napoli, nativo
di Amantea, ma residente per un certo periodo a Oppido al seguito del
padre, Achille, direttore della locale banda musicale, che nel 1883 fruiva
appunto di un assegno di studio concessogli dal monte dei giovani62. Il
62 Delibere del Consiglio Comunale di Oppido Mamertina (ACO).
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particolare ci rende certi che l'opera nei secoli non tradì le aspettative di
quel pio benefattore e che gli amministratori che vi si succedettero furono
sempre sensibili, per quanto era nelle loro possibilità, ad aiutare non
soltanto i giovani oppidesi benemeriti, ma pure quelli provenienti da altre
località e domiciliati temporaneamente in città, non accampando mai
pretese di campanile e badando unicamente al merito e alle condizioni
economiche dei candidati.
Un Candido Zerbi chierico (1771)*
Il 20 aprile 1771 a Santa Cristina il sig. d. Geronimo Zerbi del qm. d.
Candido si recò dal notaio, onde costituire al proprio figlio d. Candido un
decente patrimonio, a fine di chiericarsi. Donava egli a tale scopo uno
stabile alberato di fronde in contrada Cerasìa, altro simile in c.da Melessaria
e altro ancora con fronde, olive e frutti nella c.da Carigliano. La donazione
contemplava la condizione che d. Candido, ove si fosse fatto sacerdote,
avesse potuto godere dell'usufrutto degli stessi e che, in caso negativo, tutto
sarebbe ritornato in potere dello stesso d. Geronimo.
Se dobbiamo pensare a una successione logica del casato, è certo che d.
Candido non fu mai prete. Infatti, da lui sarà disceso altro d. Geronimo
(Girolamo), che dopo il grande flagello se ne passò a Oppido, dove a sua
volta ebbe un figlio di nome Candido, precisamente quegli cui dobbiamo la
prima importante storia della città e dei suoi vescovi63.
Lavori nel convento delle clarisse (1771)
Non dovevano essere gran che rispondenti alle finalità prefissate i locali
che nel 1757 erano stati consegnati all'ordine delle clarisse se, appena 14
anni dopo, si dovette ricorrere a una serie di lavori di ristrutturazione con
contratto stipulato con il sig. Pasquale Giamba di Maratea, ma domiciliato a
Catanzaro. Era il 25 marzo del 1771 quando il Giamba, unitamente al
procuratore del monastero, il mansionario d. Filippo Pascalino e ai testi
diacono Filippo Zinnamusca, Francesco Saverio Ganeri e Nicola Valente, si
* Pubblicato in "La Città del Sole", a. VI-1999, n. 6, p. 19. 63 SASP, Libro del prot. di nr. Diego Francesco Argirò, Acquaro, a. 1771.
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portarono dal notaio per affidargli la convenzione privata intercorsa fra di
loro. Molto strano, ma detta risulta datata al 1772.
Vediamo gradatamente quali si evidenziavano nel documento le opere
commesse a quell'impresario e, conseguentemente, le forme di pagamento
stabilite. Innanzitutto, bisognava «fare li Palastri sotto l'orchestra per voltar la
lamia dell'orchestra, e lamia del Belvedere, con li mura alzati su l'Archi, e deve
essere il Belvedere di palmi nove alto». Quindi, occorreva sistemare nel tempio
cinque finestre, due propriamente davanti all'altare maggiore, le restanti
secondo il disegno ch'era stato presentato. Faceva d'uopo appresso calare le
tre cappelle, la maggiore e le due situate a lato, nelli loro luoghi, sempre
seguendo il disegno. Si doveva serrare la porta della sacrestìa e «farla dove
caderà proporzionatamente; situare la grada di ferro del communichino»,
sicuramente lo spioncino attraverso il quale le suore comunicavano con gli
esterni e fare il confessionario (confessionale) e unirlo con il muro interno;
allestire la lamia finta e sistemare l'ordine impalastrato, tutto secondo disegno;
fare due orchestrini di stucco fino a raggiungere il parapetto; piazzare le
gelosìe e le vetrate e stuccare i due altari laterali.
Il monastero era nell'obbligo di fornire tutte le gelosìe e le vetrate, calce,
pietra, arena, tavoloni, mattoni, chiodi, canne, storte, cerchi e corde adatte
nella gisterna, tavoleri, passa muri, ponti e altro legname che sarebbe occorso.
Si assumeva, quindi, l'impegno di pagare 280 ducati, consegnandone per
caparro e parti di prezzo inizialmente 120. Della restante somma, cento si
dovevano dare a poco a poco secondo necessità e fino a che non fosse stata
terminata l'opera di rustico della chiesa, comprendendo in essa la lamia di
ossatura, ed increspatura, con eccezione del belvedere, i cui lavori avrebbero
dovuto aver fine entro l'aprile dell'anno successivo. Solo allora si sarebbero
consegnati i 60 ducati che rimanevano, ma sempre a poco a poco e fintanto
che l'opera non fosse stata completata. Comunque, il rustico era da
terminarsi entro il giugno dell'anno in corso, lo stucco per il luglio
dell'anno susseguente.
Da parte sua il Giamba, a cui il monastero doveva peraltro assicurare
camera, letto e lume - era l'uso - si dichiarava obbligato a portare a sue
spese Fabricatori, mastri d'Ascia, manoali, e stoccatori 64.
64 SASP, Libro del prot. di nr. Vincenzo Fragomeni, Oppido, a. 1771, ff. 12-12r.
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Lavori nel convento dei minori osservanti (1772)
Il 30 ottobre 1772, rilevandosi la necessità di dotare di un portale la
chiesa annessa al convento dei frati minori osservanti, si pervenne alla
stipula di un contratto tra il procuratore d. Marcello Grillo e alcuni mastri
di Serra, Bruno Pisani, Nicola Amato e Vincenzo Salerno. Questi si
offersero di «fare a proprie spese la porta della chiesa di detto convento, giusta il
disegno formato da essi mastri», che venne peraltro consegnato al notaio, ma
alquanto più alta di quanto in quello delineata e tutto per il prezzo di 60
ducati.
I frati, come dall'atto intercorso tra le parti, erano tenuti a fornire pietre,
lavorate, ed intagliate più logicamente camera, letto, e lume, mentre gli
artigiani serresi si obbligavano a iniziare i lavori nel mese di dicembre e,
quindi, completarli entro tutto maggio del 1773. Per intanto, si ricevevano
10 ducati di acconto, chè il resto lo avrebbero ottenuto gradualmente
durante il periodo d'impegno lavorativo. Oltre agli interessati, presero
parte alla formazione del rogito quali testi il canonico d. Giuseppe Martelli
e il chierico Nicola Crisafi. Dei mastri fu solo Salerno a firmare con nome e
cognome, gli altri poterono apporre appena il rituale segno di croce65.
La famiglia Zerbi titolare di suffeudi nella Piana
Nel 1786 il dott. Domenico Antonio Zerbi venne a indirizzare alla
feudataria principessa di Gerace e duchessa di Terranova d. Maria Grimaldi
Serra una supplica tramite rogito del notaio Amato Lenza di Varapodio.
Nell'officiare la richiesta dell'investitura di un suffeudo comprendente tre
salmate di terre più due moggi in località Testa di Grasso e altre a
Carbonara, tutte in territorio di Terranova, ne partecipò l'origine della
concessione nonché una sequela di passaggi di mano, come appresso
indicato.
Nel 1692 la principessa (sic!) di Terranova assegnò il suffeudo a d.
Caterina Macedonio, bisavola del supplicante, con atto di nr. Antonio Lucà
65 SASP, Obblighi di nr. Vincenzo Fragomeni, Oppido, a. 1772, ff. 157-158.
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di Oppido dietro il pagamento dell'adoa in ragione di 2 carlini sopra il
primo fondo e di nove sul secondo. Deceduta che fu la prima intestataria,
ne entrò in possesso il figlio d. Niccolò Francesco Zerbi, avo dello stesso,
cui seguì a sua volta il figlio d. Pasquale Baylon, passaggio attestato da
strumento del notaio mag. Giuseppe Antonio Tropeano di Varapodio.
Deceduto l'ultimo possessore il 5 febbraio 1783 nel frangente del grande
flagello, ne richiedeva l'assegnazione il suo unico figlio, appunto d.
Domenico Antonio, il quale si diceva pronto a soddisfare il versamento di
relevio e adoa in relazione a ogni anno.
La principessa Grimaldi, ricevuta la supplica, in data 20 aprile dello
stesso anno da Casalnuovo dava incarico al suo agente generale, anche lui
un oppidese, d. Marcello Grillo, d'informarsi in merito e fornirle notizie
dettagliate, onde poter procedere alla concessione richiesta. La risposta di
quegli risulta del tutto immediata, appena del giorno dopo.
D. Marcello venne a mettere a parte la nobildonna che aveva egli avuto
modo di vedere l'atto espresso dalla di lei madre nel 1763 al fu d. Pasquale
per refuta del padre e che d'allora quegli aveva sempre curato di pagare le
tasse dovute fino al 31 agosto 1780. Le terre, cui ci si riferiva, erano in
territorio di Casalnuovo (ormai questa aveva soppiantato in pieno la
distrutta Terranova) e si misuravano in 26 tumolate e, secondo gli
estimatori che aveva contattato, recavano 40 tumoli di grano avenoso
all'anno comparabili a 40 ducati (carlini 10 a tumolo). Dette potevano be-
nissimo essere devolute al richiedente dietro versamento di metà della
segnalata rendita66.
Militari di varia risma *
Gli atti notarili ci fanno incontrare molto spesso con soldati d'ogni
genere, avvertiti soprattutto mentre sono alle prese con rapporti d'ordine
amministrativo. Dei tanti casi visionati diamo soltanto qualche esempio.
Nel marzo 1616 i sindaci di Oppido, d. Ferdinando Capuano e Marzio
Cananzi consegnavano 20 carlini e un grano a testa tramite il cassiere
Giuseppe Girardis al caporale Pompeo Chitì e ai soldati Francesco Pleitano,
Francesco Costarello, Antonino Filomeno, Francesco Curigliano, Lorenzo
66 SASP, Libro del prot. di nr. Amato Lenza, Varapodio, a. 1786, ff. 31-32v. * Pubblicato in "Storicittà", a. IX-2000, n. 89, pp. 52-53.
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Fossari, Gerolamo Condo, Gio. Santa Cruci, Reante Politello, Marco
Antonio Straccoticari, Antonino Minasi, Vincenzo Frisina, Gio. Pietro Lano,
Muzio Spatafora, Alfonso Chiliverto, Gio. Paolo Fossari, Domenico
Carbone, Pietro Giacomo Gangemi tutti intruppati nel battaglione della
paranza di Terranova e abitanti tra Oppido e Messignadi. Dovevano essi
recarsi a Reggio e i sindaci li avrebbero muniti delle armi. Lorenzo
Chiliverto si ebbe un archibugio e una spada e, cosa veramente curiosa, era
in obbligo di restituire il tutto in caso di morte o abbandono della milizia.
Per quanto riguarda il primo non credo proprio che potesse ottemperarvi di
persona67!
Il 2 novembre 1625 i sindaci di Oppido, d. Gio. Leonardo Grillo e
Giovanni Domenico Demana, unitamente ai soldati a piedi Giulio
Costantino, Giovanni Santacruci e Gerolamo Cundò, riferivano al notaio
come i precedenti amministratori, in seguito a ordini reali, avessero
consegnato a detti militari e ad altri loro compagni della squadra di Oppido
una quantità di denari per l'acquisto di archibugi e per servire Sua Maestà,
con l'impegno di restituzione delle armi una volta abbandonata la milizia o
per altro comando dei superiori. Essendo stati per nuovo ordine assegnati
quali muscetteri (moschettieri) della squadra i predetti militari, i sindaci
venivano ad affidare loro i «muscetti l'uno con li fasci a forcina con li altri due
con li traversi cannelle et forcine» a titolo sempre di prestito68.
Due persone nel 1740, onde sfuggire al carcere, pensarono che fosse
bene assentarsi, cioè arruolarsi, per servire fedelmente le truppe. Si trattava di
Giuseppe Barreca del casale di Pavigliana e Giuseppe Amante di quello di
San Lorenzo, in stato di arresto nel castello di Sinopoli in quanto «complici e
delinquenti sopra del furto d'una giumenta» avvenuto nello stato di Oppido.
Ve li avevano tradotti i soldati di campagna della squadra di Sinopoli su
incarico del capitano della stessa e del viceconte della città e stato di
Oppido. Detti si decisero al gran passo il 5 ottobre di quell'anno
impegnandosi con atto notarile alla presenza del luogotenente dello stato di
Sinopoli, d. Giacomo Pentifallo e del caporale Nicolino Epifanio, che
apparteneva al battaglione secondo Real Borbone comandato dal capitano
Basta e acquartierato a Reggio69.
67SASP, Libro del prot. di nr. Fossare ..., a. 1616. 68 Ivi, nr. Cananzi, a. 1625. 69 Ivi, nr. Giuseppe Rechichi, Santa Eufemia, a. 1740.
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Sfatata la falsa voce sul palazzaccio di Oppido (1787)*
Sono tantissime le documentazioni che attestano in modo chiaro come il
cosiddetto palazzaccio Grillo di Oppido non sia stato frutto
dell'usurpazione di una piazza, peraltro mai esistita, ma, purtroppo, quanto
continua a essere propalato anche da gente non illetterata è duro a morire.
Tra la panzana e la realtà, nella gran massa della popolazione è sempre la
prima a prevalere. A tagliare decisamente la testa al toro è un rogito del 12
aprile 1787, che testimonia di tutto punto sull'avvìo della costruzione
incriminata, segnalato al 1786 e sul suo probabile completamento, avvertito
nell'anno successivo.
In quella prima data si trovarono dal notaio Antonino Vorluni, della
vicina Tresilico, il dott. sig. d. Girolamo Grillo e d. Francesco Migliorini
(quest'ultimo sarà poi ministro di Ferdinando IV e verrà a morte in esilio a
Palermo nel 1811), Deputati per la pianta della nuova Oppido e
dell'erezione dei singoli fabbricati e sistemazione di strade, i quali, alla
presenza del giudice ai contratti Diego Alloro e dei testimoni d. Francesco
Germanò, d. Domenico Carbone di Paolo, Pasquale Chiliberti, d. Antonino
Palumbo e d. Domenico Morizzi, vollero dichiarare quanto segue.
Il 3 febbraio dell'anno precedente, di domenica, comparve il sig. d.
Giuseppe Gobbi, Ingegnere Militare incaricato per Oppido nuova e con una
pianta in mano si portò in una isola della parte superiore, dove attendevano gli
stessi deputati e notaio con molte altre persone. Era suo espresso compito
precisare il sito del futuro palazzo di d. Giuseppe M. Grillo, per cui, usando
il compasso e prendendo le misure che occorrevano, «stabilì che il detto
palazzo di esso Sig. Grillo, dovesse situarsi nel luogo dove oggi si vede», quindi
dove ne incombeva fino a poco tempo fa lo scheletro e oggi ci si avvede
della sua completa ristrutturazione. Fissati i limiti in palmi 94 in lunghezza
«da levante e greco di rimpetto tra mezzogiorno e libeccio», cioè circa m. 23,50 ed
in palmi 120, quindi m. 30, per sopra seu scirocco in larghezza, il Grillo seduta
stante diede ordine a una moltitudine di operai, che appositamente erano
convenuti, di procedere «allo scavo del fosso per il pedamento, e situò molti e
* Pubblicato in "Storicittà", a. VII-1998, n. 72, pp. 59-60.
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diversi travi». All'avvìo ufficiale dell'opera seguirono poi i lavori sistematici
per il suo completamento, che furono condotti senza minimamente disco-
starsi dalla pianta prefissata e dall'assegno dato dal Gobbi.
Perchè mai i deputati sentirono il bisogno, un anno dopo gli eventi
narrati, di contattare il notaio per ribadire che il Grillo si era comportato del
tutto in riga con le disposizioni delle autorità nell'erezione della sua
magione nell'isola stabilita? Con tutta probabilità, dovevano essersi
determinati proprio allora i primi screzi con l'apparato ecclesiastico, cui era
toccato un terreno adiacente fissato per fabbricarsi chiesa ed episcopio,
screzi che diedero il via a una lunga controversia con sopraffazioni da ambo
le parti conclusasi dopo circa 72 anni con pari soddisfazione dei
contendenti. In quel l787 la diocesi, orbata del suo vescovo, era diretta da
un vicario generale70.
I Grillo, dopo varie traversìe, raggiunsero un bonario accomodo col
vescovo Coppola, procuratore del Seminario, il 15 luglio 1847 presente il
notaio Domenico Demana, che registrò il relativo atto il 16 marzo dell'anno
dopo, ma il dissidio, stante la morte del presule, intervenuta nel 1851, si
trascinerà ancora fino all'epoca dell'episcopato di mons. Teta. Se il
documento, di cui sopra, ci conferma nella convinzione che la nobile
famiglia fu nel pieno diritto di costruire il palazzo sul luogo in cui si trova,
una circostanza ci fa mutare di opinione circa la maledizione comminata
contro la stessa, che, in assenza di prove, avevamo ritenuto inesistente e
improbabile. Fra le documentazioni facenti parte del carteggio in possesso
del notaio era compreso, infatti, «Un giudizio petitoriale introdotto dal Sig.
Grillo contro il vescovo, avendo per oggetto la revoca dell'interdetto, la demolizione
delle fabbriche e la chiusura delle aperture fatte nelle stesse fabbriche nuove
dell'episcopio etc. »71.
70 SASP, Libro del prot. di nr. Antonino Vorluni, Tresilico, a. 1787. 71 AVO, atti vari; LIBERTI, Momenti e figure ...
80
Il formaggio di Catanzaro sulle mense della Piana
alla fine del secolo XVIII (1796)*
Al tempo dell'antico regno meridionale il formaggio, che oggi
conosciamo come Catanzaro, faceva sicuramente la sua apparizione sulle
tavole dei calabresi che potevano permetterselo quale prodotto forestiero
più apprezzato. Per il resto bisognava accontentarsi del nostrano, umile
"pecorino". Un'obbligazione del 29 luglio del 1796 ci fa conoscere la
trattativa intercorsa tra un fornitore proveniente da quella città, Raffaele
Greco ed il sindaco di Oppido del tempo, d. Francesco Saverio Grillo.
Il Greco si offriva all'università di Oppido di consegnare ai Bottegari del
luogo il formaggio di Catanzaro fino a tutto aprile dell'anno successivo.
L'offerta prevedeva la vendita di una confezione di ottima e buona qualità a
calli 10 l'oncia fino a tutto aprile ed a 12 dal primo di dicembre a tutto
aprile 1797. Per cautela egli ne lasciava al bottegaro della stessa 50 rotoli per
allora in consegna a Domenico Loria, 43 rotoli e 3/4 a Ferdinando
Cicciarello e 40 a mastro Onofrio Donnarumma (era questi sicuramente uno
dei tanti "amalfitani" calati in zona a rinvigorire il commercio nei nostri
paesi)72.
Il cancelliere della curia vescovile poeta sconosciuto (1830)
Il 3 dicembre 1830 il padre Serafino Torquato, correttore nel convento
paolotto di Polistena, personaggio molto quotato nel suo ordine, indirizzò
da quella cittadina un biglietto a uno Stimatissimo Amico oppidese, che
amava verseggiare e il cui estro prima d'ora era del tutto ignorato, d.
Giuseppe Laface, cancelliere della locale curia vescovile. Ecco quanto
interessa ai fini dell'evidenziazione dell'attività letteraria del Nostro nelle
parole stesse del monaco di stanza a Polistena: «Non posso esprimere colla
* Pubblicato in "La Città del Sole", a. VII-2000, n. 3, p. 18. 72 SASP, Obblighi di nr. Teodosio Violi, Lubrichi, a. 1796, ff. 7v-8.
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penna il piacere ho provato nel ricevere i vostri graziosi versi, per aver da' stessi
rilevato l'ottimo stato del vostro ben'essere ...»73.
73 AVO.
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INDICE
Il monte di pietà (1609) pag. 3
Ripercussioni dell’episodio di Masaniello (1648) 9
Uno squarcio di vita nobiliare nel ‘600 10
Nomina dei deputati del tabacco (1664) 24
Sequestro di seta (1692) 25
A un quarantennio dal Grande Flagello 26
La nobiltà 26
La classe dei civili 32
Il clero 35
Tra professioni e mestieri 41
Il popolo minuto 52
Strano, improvviso, ordine di convocare il parlamento
per la nomina di un nuovo sindaco a Oppido (1757) 56
I Grillo nobili in un testamento del principe di Cosoleto (1753) 58
Come viveva un nobilotto del ‘700-D. Francesco Grillo (1718-1757) 61
Il monte dei giovani (1767) 67
Un Candido Zerbi chierico (1771) 75
Lavori nel convento delle clarisse (1771) 75
Lavori nel convento dei minori osservanti (1772) 77
La famiglia Zerbi titolare di suffeudi nella Piana 77
Militari di varia risma 78
Sfatata la falsa voce sul palazzaccio di Oppido 80
Il formaggio di Catanzaro sulle mense della Piana alla fine del secolo 82
Il cancelliere della curia vescovile poeta sconosciuto (1830) 82