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Prospettive di tempo e spazio Il rapporto tra arte e ambiente nella fotografia di Mimmo Jodice Seminario di Storia dell’Estetica Corso di Laurea in Discipline dello Spettacolo e Scienze della Comunicazione, Università di Pisa Andrea Moruzzo, Novembre 2015

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Prospettive di tempo e spazio Il rapporto tra arte e ambiente nella

fotografia di Mimmo Jodice

Seminario di Storia dell’Estetica

Corso di Laurea in Discipline dello Spettacolo e Scienze della Comunicazione, Università di Pisa

Andrea Moruzzo, Novembre 2015

Prospettive di tempo e spazio

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Indice

I Chi è Mimmo Jodice 2 II I concetti chiave della sua poetica 4

III La fotografia è un linguaggio dell’arte 4 IV Tracce di un uomo invisibile 5 V L’enigma della bellezza 6

VI Il paesaggio urbano 7 VII Le vedute della sua Napoli 10

VIII Ritratti di Roma 12 IX Elenco delle opere 14 X Bibliografia e sitografia 14

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Chi è Mimmo Jodice Mimmo Jodice, nome d’arte di Domenico Jodice, nasce nel 1934 a Napoli, nel rione Sanità. La sua infanzia non è molto facile, segnata dalle orribili vicende belliche che colpirono la sua città natale, e anche la sua adolescenza risulta essere molto impegnativa. Già da giovanissimo si avvicina al disegno e alla pittura, intrufolandosi alle lezioni dell’accademia di belle arti di Napoli, senza però frequentare alcun corso specializzato. Nel 1962 si sposa con Angela Salomone, compagna di vita e grande musa ispiratrice, dalla quale avrà tre bambini. Destinato alla fotografia, alla quale si avvina già negli anni ’50, nel 1964 riceve in regalo un ingranditore usato ed così inizia a sperimentare le molteplici possibilità espressive che il mezzo fotografico gli permette di fare. Nel 1967 partecipa per la prima volta nella sua vita ad un concorso fotografico nazionale, vincendo il primo premio: una Nikon F. Questo fortunato episodio lo porta ad abbandonare il suo lavoro per dedicarsi completamente all’arte fotografica, organizzando presso la galleria “La Mandragola” di Napoli la sua prima mostra personale. Sempre nel 1967 la rivista americana “Popular Photography” pubblica una sua immagine, aprendogli le porte verso una notorietà internazionale. Nel 1968 si inserisce a pieno titolo tra i protagonisti della scena culturale e artistica napoletana, iniziando così una lunga collaborazione con il gallerista Lucio Amelio, che gli permette di entrare in contatto con lo studio Trisorio e di incontrare i principali esponenti dell’avanguardia artistica italiana e straniera, come Andy Warhol, Robert Raushenberg, Giulio Paolini e Sol Lewitt. Nel 1970 gli viene offerta la cattedra presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli, diventando il primo docente di Fotografia in Italia. Qualche anno dopo compie un viaggio in Giappone, alla ricerca di una nuova visione personale, e le fotografie scattate nella terra del Sol Levante verranno esposte lo stesso anno a Milano. Tra il 1974 e il 1975 pubblica due studi fotografici sulle condizioni sociali del sud Italia e sull’indagine dei culti e dei rituali popolari in Campania, a lui molto cari. Nel 1980 pubblica Vedute di Napoli, punto di svolta nella sua poetica. Nello stesso anno conosce anche Luigi Ghirri, famoso fotografo emiliano, al quale si ispira fortemente. Con questo lavoro Jodice dichiara di sentirsi affine ai movimenti artistici della metafisica e del surrealismo. L’anno successivo è invitato ad esporre le sue fotografie presso il Museum of Modern Art di San Francisco, all’interno di una collettiva che lo vede assieme ad altri artisti internazionali. Nel 1983 la casa editrice Fabbri gli dedica uno dei primi volumi monografici della collana “I grandi fotografi”. Nel 1986 espone presso il Memorial Federal Hall di New York un lavoro su Temples of Peastum e realizza, assieme a Nicola Spinosa, un volume con cui rivolge lo sguardo alla pittura barocca.

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Nel 1988 realizza un lavoro sulla città di Arles, in Francia, che espone al museo comunale. Nel 1990 espone la mostra La Città Invisibile presso il museo di Castel Sant’Elmo, nella città di Napoli. Tra il 1992 e il 1994 fotografa Parigi, a cui Jodice è molto legato, e pubblica il suo volume su uno studio su Antonio Canova. Nel 1995 completa la sua ricerca intorno al mito del Mediterraneo in una mostra al Philadelphia Museum of Art. Nello stesso anno realizza Eden, un lavoro sulla natura morta e sull’aggressività degli oggetti del quotidiano. Nel 1998 espone a Parigi la sua raccolta dal titolo Paris, City of Light. Nel 1999 fotografa Roma (che tornerà a fotografare più volte tra il 2005 e il 2007). Sempre lo stesso anno espone a Napoli la mostra Mediterraneo. Nel 2001 espone a Boston il suo progetto Inlands. Vision of Boston, ricevendo dal sindaco della città il Certificate of Recognition. Nello stesso anno la Galleria d’Arte Moderna di Torino gli dedica un ampia retrospettiva, esponendo più di 165 fotografie. Nel 2003 è il primo fotografo a ricevere il premio “Antonio Feltrinelli”, conferito dall’Accademia dei Lincei. Nel 2004 torna in Giappone e compie anche un viaggio in Brasile, realizzando un lavoro su San Paolo del Brasile. Nel 2006 fotografa Mosca ed espone le sue fotografie nella capitale russa. Nello stesso anno riceve la laurea honoris causa in Architettura dall’Università Federico II di Napoli. Nel 2007 viene organizzata a Milano un’altra grande retrospettiva, dal titolo: Perdersi a guardare, fondamentale per capire tutto l’excursus della poetica dell’autore. Nel 2010 è il Palazzo delle Esposizioni di Roma che gli dedica una retrospettiva, in una mostra che lo vede a diretto confronto con le opere di Giorgio De Chirico. Nel 2011 realizza un lavoro sul Museo del Louvre, ricevendo la nomina di Cavaliere dell’Ordine delle Arti e delle Lettere dal ministero della cultura francese. Dal 2012 i suoi lavori migliori sono esposti principalmente a Vienna, a Napoli e a Montreal. Nel 2013 i Musei Vaticani lo invitano a realizzare un progetto fotografico sulle collezioni del museo, pubblicato l’anno successivo.

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I concetti chiave della sua poetica Il presente testo critico presenta solo una breve e parziale lettura dell’immenso lavoro artistico condotto da Mimmo Jodice, riconosciuto come uno dei più grandi e autorevoli fotografi nel panorama italiano e internazionale. L’intero corpus della sua poetica può essere disposto, indipendentemente da una classificazione puramente cronologica, intorno a dei concetti chiave che percorrono e comprendono l’intera opera dell’artista:

� Il lavoro in analogico e in camera oscura; � L’uso esclusivo del bianco e nero; � Le sperimentazioni tecniche e stilistiche in relazione alle arti visive degli anni sessanta-

settanta; � Le questioni sociali della sua terra natale; � La definitiva eliminazione del dato temporale dalle fotografie; � Il rapporto tra fotografia e storia dell’arte, con particolare affinità con la metafisica e il

surrealismo; � La dimensione spaziale e il paesaggio urbano; � Le suggestioni tra il mondo classico e il mare.

La fotografia è un linguaggio dell’arte Mimmo Jodice ha sempre guardato con attenzione alla storia dell’arte passata, misurandosi sempre con le tendenze a lui contemporanee, seguendo con maggiore interesse ciò che accadeva nelle arti visive. Infatti, avendo vissuto in prima persona il fermento culturale della Napoli degli anni ’60 e ’70, entra a diretto contatto con i maggiori protagonisti della pop art, body art, e land art. Egli è sempre stato particolarmente incuriosito anche dal teatro, dalla musica classica, dal jazz e dalla poesia. Ma è proprio verso la metà degli anni sessanta che Mimmo Jodice si dedica alle sperimentazioni fotografiche; ma la sua ricerca si concentra maggiormente in una direzione diversa rispetto a quella dei suoi colleghi. Egli non cede mai alle regole del caso e, partendo da un ben delineato progetto preliminare, individua nella camera oscura il luogo fondamentale per la sua intera produzione fotografica. In essa infatti si comporta come un vero e proprio alchimista, trasformando i negativi in stampe, modellando le immagini sulle sue idee, sfidando e mettendo alla prova la luce, regolando le tonalità e i contrasti, strappando le fotografie per estrarre da esse la materialità delle rappresentazioni, ed esaltando infine alcuni aspetti dei suoi soggetti per avere una corrispondenza effettiva tra il progetto iniziale e il prodotto finale. Alla fase ideativa fa quindi da contrappunto quella manuale-operativa alla quale egli dedica un’attenzione molto particolare: egli infatti non delegherà mai nulla a nessuno, realizzando il tutto sempre privatamente. Il sapere tecnico si rivelerà perciò importantissimo per tutti i suoi progetti e si dimostrerà essenziale per la sua poetica, tanto è vero che la sua fotografia vuole andare oltre se stessa, rivelando così una profonda curiosità che si estende a partire dall’indagine minuziosa sul medium fotografico fino alla relazione tra fotografia, storia, arte, architettura e natura, senza trascurare mai l’aspetto formale e compositivo, proprio del suo sguardo sul mondo.

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Per Jodice la fotografia sembra essere la più osteggiata, rispetto ad altre forme artistiche, nella sua ricerca sperimentale, a causa dello stretto legame che possiede con la realtà. Jodice vuole quindi rifiutare questo assioma e declina l’utilizzo della macchina fotografica secondo possibilità espressive adottate da altre tendenze artistiche, ribaltando così quel concetto tradizionalista che definisce la fotografia come una tecnica che serve a riprodurre esclusivamente in maniera fedele la realtà. Egli accoglie soprattutto la lezione eversiva introdotta da René Magritte, pittore belga del surrealismo, che, con la sua famosa frase “ceci n’est pas une pipe”, smaschera l’ambiguità tra oggetto rappresentato e oggetto fisico. Ed è proprio attraverso una serie di esempi e sperimentazioni che Jodice crea un forte cortocircuito tra la realtà e la rappresentazione, dimostrando che l’immagine fotografica è in grado di essere traditrice della realtà. Nonostante le sue immagini abbiano in origine un valore di documento, esse possiedono soprattutto un valore estetico, e quest’attenzione alla forma, oltre che al contenuto, è una dialettica fondamentale della sua ricerca stilistica. Significativa è anche la questione del colore: esso definisce il tempo e lo spazio, mentre il bianco e nero contribuisce a creare un’atmosfera sospesa e atemporale. La fotografia di Jodice è una fotografia d’immaginazione che non vuole esclusivamente documentare le cose, perciò il colore non l’avrebbe aiutato nel suo intento perché ha la particolarità di descrivere, mentre il bianco e nero spinge a supporre le cose e ad immaginarle.

Tracce di un uomo invisibile Nel 1980, con la pubblicazione del volume Vedute di Napoli, scompare definitivamente dalle immagini di Jodice la figura umana, ma non è l’unica: svanisce anche ogni riferimento temporale in grado di far capire quando la fotografia è stata scattata. Spariscono le automobili, i mezzi pubblici, le pubblicità sui cartelloni; ogni indizio temporale viene volutamente cancellato. Quindi, se il tempo svanisce e si cristallizza, allora il bianco e nero si conferma qui una scelta di atemporalità perfetta, in quanto non consente di suggerire facilmente l’epoca dello scatto dalle variazioni del colore. Nonostante sia esclusa dall’inquadratura, l’umanità lascia però delle tracce del suo passaggio, come avviene in moltissime fotografie di spazi interni, raffigurati come luoghi deserti che contengono spesso uno o più oggetti, apparentemente abbandonati. Scompaiono il rumore, il frastuono caotico e il vociare della gente. Ma gli spazi di Jodice sono comunque vivi in una tensione che prepara ad un evento, mentre tutto è avvolto da un senso di vuoto, di assenza e di solitudine. Ed è il silenzio la parola chiave di questa nuova svolta poetica: estromettendo la figura umana, la fotografia di Jodice si avvicina moltissimo alle teorie elaborate dai pittori del minimalismo, per i quali il tempo e lo spazio diventano criteri di una ricerca assoluta sulla presenza dell’oggetto, a discapito di quella dell’uomo.

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Ma in Jodice non è presente quella volontà minimalista di fredda impersonalità, piuttosto è presente l’espressione di un sentimento di delusione e di amarezza nei confronti di una realtà che non cambia, nonostante il contribuito dell’arte. Il silenzio non è quindi visto come negazione della vita, bensì come condizione utile in cui esprimere a pieno l’idea dell’artista. Nell’atmosfera sospesa e rarefatta delle sue fotografie riaffiora quindi il volto metafisico degli spazi e si rivela la natura segreta dei luoghi che insieme genera meraviglia ma anche forte inquietudine. Ciò che però sorprende, generando turbamento e malinconia, è parte della struttura stessa della realtà, che appartiene alla potenza evocativa delle cose e del substrato psichico ed emotivo dei luoghi e degli spazi. Detto ciò la fotografia per Mimmo Jodice, elabora ed esprime la sostanza del reale come in un sogno. Dal 1980 la riflessione del fotografo napoletano diventa quindi una sorta di meditazione sulla personale percezione del reale e una ricerca delle forme che coincidono coi moti della sua psiche, riuscendo ad esprimerle attraverso la fotografia. Egli segue ancora il pensiero di Magritte, individuando il meraviglioso nello spaesamento del senso abituale delle cose, nell’assenza e nel vuoto dei punti logici dello spazio e del tempo. Segue anche le riflessioni di Josef Sudek, fotografo cecoslovacco, cogliendo l’energia di certi luoghi solitari e trasformandoli in spazi ancora più irreali di quello che sono, grazie all’uso di contrasti di luce accentuati. Un altro tema a lui molto caro è l’attesa, il cui simbolo perfetto è rappresentato dalle sedie. L’attesa diventa la sospensione del tempo per antonomasia. Anche il mare è importante: per lui diventa il momento più alto di sospensione temporale, corrispondente anche alla quiete più sublime, ed è lo spazio che spinge lo sguardo verso la contemplazione dell’infinito e dell’assoluto. Di fatto il mare si trasforma nel punto massimo in cui il silenzio si può realizzare: non c’è rumore, non c’è frastuono e tutto tace.

L’enigma della bellezza La fotografia di Mimmo Jodice può essere definita anche molto enigmatica, in quanto coglie dati indecifrabili e di alto mistero. Egli infatti è molto attratto da porte murate che non conducono a nulla, da finestre cieche, da oggetti banali che però rivelano la loro aggressività e una natura mai pacifica, spigolosa e inquietante. Ma questo suo enigma insegue anche l’idea di bellezza, proprio perché in essa c’è meraviglia e proprio perché essa possiede la capacità di rivelare la pienezza del nulla. Il meraviglioso infatti partecipa, come sostiene André Breton, poeta e saggista francese, ad una rivelazione di cui noi possiamo cogliere solo un particolare: come le rovine romantiche, il manichino moderno, o altri simboli che scuotono la nostra sensibilità.

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Per Jodice quindi lo straniamento prodotto dalla decontestualizzazione modifica in modo sostanziale l’abituale visione degli oggetti, ma soprattutto dei luoghi. Nelle sue immagini ciò che è noto e riscontrabile viene del tutto isolato e collocato in un altro contesto. Sul concetto di enigma si esprime anche Giorgio De Chirico, principale esponente della pittura metafisica, sostenendo che le cose del mondo debbano essere rappresentate proprio come enigmi continui. Egli però continua dicendo che “bisognerebbe vivere in un mondo che ha le sembianze di un immenso museo di stranezze, pieno di giocattoli curiosi che cambiano aspetto, e che noi, come bambini, rompiamo per vederci dentro, accorgendoci però che sono vuoti”. Il discorso che compie Jodice è invece differente: il suo sguardo alla metafisica è rivolto alla creazione di una propria metafisica, nella quale l’idea di tempo e l’elemento umano sono sospesi, e il presente viene allontanato. Il bianco e nero incrementa così l’aspetto misterioso delle sue fotografie, legate dal filo rosso dell’enigma, nelle quali appaiono alcuni angoli arcani delle architetture cittadine e il volto perturbante della natura. Queste sono senza dubbio composizioni che si avvicinano molto di più al mondo del sogno che a quello della veglia. In Eden (1995) avviene un altro grande cambiamento: il rovesciamento della rappresentazione canonica della natura morta. Quella visione rasserenante delle nature morte del sei-settecento viene meno in Jodice. I suoi scatti visualizzano un momento frenetico e veloce in cui gli oggetti esprimono la loro potenza evocativa e il loro più intimo segreto, che non risulta determinabile, attingendo a temporalità lontane e inafferrabili. Jodice si concentra molto sui dettagli che diventano nodi fondamentali per esprimere stupore inatteso, ed in questo senso è fortissimo l’eco delle suggestioni al surrealismo. Lo straniamento e la meraviglia delle fotografie di Jodice insistono moltissimo sulle forme e sulle architetture insolite e sui paradossi di certi incontri cittadini. L’enigma di Jodice rivela anche un tratto ironico, un sorriso accennato, dove il reale non è mai ordinario e dove il fantastico è presente nella quotidianità.

Il Paesaggio Urbano “Nei lunghi itinerari della mia ricerca fotografica mi è accaduto spesso di perdermi, in bilico tra realtà e immaginazione, ritrovandomi davanti a scenari che sembrano essere stati composti appositamente per me. I luoghi erano lì ad aspettarmi. Erano posti a me sconosciuti, ma allo stesso tempo parte della mia memoria: mi turbavano perché coincidevano con le mie inquietudini e le mie ansie”. Così Jodice introduce una delle riflessioni più importanti della sua poetica: quella rivolta allo spazio e al discorso legato all’attenzione per l’equilibrio formale nelle immagini raffiguranti gli elementi del paesaggio urbano.

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Questo suo interesse nasce nello stesso periodo in cui prende forma il lavoro di Gabriele Basilico, fotografo milanese, intorno al paesaggio urbano e soprattutto al paesaggio postindustriale delle città italiane. Ma nelle fotografie di Jodice compaiono prevalentemente le architetture del mondo classico, palazzi, piazze, rovine antiche, templi, strade, ritratti e volti di città del mondo che raccontano il rapporto tra l’uomo e lo spazio del costruito. Tutti i soggetti urbani che egli riprende seguono l’idea geometrica della rappresentazione, realizzando il concetto di riduzione degli elementi compositivi, apparendo nitidi e puliti e sempre privi della figura umana. Lo spazio di Jodice non vuole raccontare esplicitamente le storie delle persone che lo hanno attraversato e vissuto, ma cogliere piuttosto il substrato emotivo che anima i luoghi e ne regola l’organizzazione spaziale. Per questo viene attribuito a Jodice l’appellativo di “bravo architetto”. Ma se in Basilico il paesaggio urbano è legato all’idea di misurazione dello spazio e degli effetti del tempo e della storia, la città di Jodice è invece estranea al dato cronologico, presentandosi sempre perturbante e avvolta nella solitudine rivelatrice degli spazi architettonici. Jodice sembra fare propria quella credenza antica che supponeva l’esistenza di divinità o ninfe che abitano e si annidano in luoghi particolari, quello che viene conosciuto come Genius Loci. James Hillman, saggista e filosofo statunitense, scrive a proposito di questa credenza nel suo libro L’anima dei luoghi: “le ninfe o Pan potevano sopraffare il viandante. Perciò si doveva essere consapevoli di quello che accadeva, di quale spirito, quale sensibilità presidiava un particolare luogo, o come la psiche e l’anima corrispondevano al luogo in cui ci si trovava”. Mimmo Jodice quindi si presenta in opposizione alla cultura contemporanea, votata alla fruizione veloce e frenetica degli spazi del costruito, rievocando un antico sentire all’interno del paesaggio urbano e riproponendo una concezione animistica dei luoghi, quasi mistica, per la quale ogni cosa ci parla: una strada, una scalinata, i tetti di una città dall’alto. Facendo ciò Jodice esplora e ritrae le grandi metropoli del mondo: New York, Parigi, Roma, Napoli, San Paolo, Mosca, Tokyo e così via, cogliendone l’anima, la solitudine e i fantasmi che le abitano. Come sostiene sempre Hillman: “la grande città è un registro, un documento, una memoria. Non gli spiriti della natura, ma i fantasmi della civilizzazione occupano il suolo della città. Il quale è costituito da atti privati che provengono da menti in preda spesso alla disperazione silenziosa. Questi fantasmi nutrono l’intimità. Le città sono romanzi, poesie, danze, teorie. Sono piene di idee che raccontano il dare delle Muse”. Seguendo questo carteggio Jodice contempla lungamente ciò che ha davanti, registrando con gli occhi i vari fenomeni che si presentano. Il suo sguardo si posa sulle cose che lo interessano, mentre scarta velocemente tutto ciò che non attira la sua attenzione. La sua però non è una fredda osservazione. Tutt’altro. Lo sguardo intenso coglie il volto profondo delle cose e determina un risultato quasi paradossale in chi guarda i suoi scatti: un monumento come l’Arco di Trionfo a Parigi, abusato dal punto di vista dell’immagine, non stanca l’occhio ma ci appare qui come se lo vedessimo per la prima volta.

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Attraverso questo modo personale di avvicinarsi alla realtà, il fotografo esprime la sua fiducia nelle potenzialità della bellezza, l’unica vera dimensione che può restituire un senso alle città, all’architettura, al paesaggio e alla nostra esistenza. Alla sua visione vengono in soccorso gli insegnamenti di De Chirico, in special modo attraverso la serie delle Piazze d’Italia, luoghi fantasmatici, severi e solenni, circondati da portici e statue. Le fughe lineari amplificano poi la sensazione di vertigine e di vuoto, accentuando l’aspetto spettrale delle architetture. Il pittore scrive: “ le nostre menti sono abitate da visioni inchiodate a basi eterne. Sulle piazze quadrate le ombre si allungano nel loro enigma matematico; dietro i muri le torri inanimate appaiono coperte di piccoli stendardi di mille colori, e dappertutto è l’infinito, il mistero”. Proprio come in De Chirico, anche in Jodice la figura umana è allontanata e al suo posto restano i simulacri, che prendono le sembianze di manichini e statue. Ma la prova più lampante della presenza umana e proprio l’architettura, in quanto modifica il paesaggio, creandone uno nuovo, fatto di forme inedite e suggestioni, che possiamo riscontrare nelle fotografie di Jodice. Un portico, una scalinata, una piazza contengono i tratti culturali dei loro abitanti e insieme, attraverso le geometrie, dichiarano l’immaginazione e il desiderio di chi li ha costruiti, ma anche di chi li ha percorsi; esprimono cioè il substrato psichico dei luoghi. Lo spazio monumentale, di largo respiro, è ideale per l’immersione del fotografo per scoprirne i lati nascosti e liberarne i demoni, e si presenta come uno spazio disabitato, corrispondente alla categoria dell’assenza, dove il tempo si ferma ancora una volta. Quindi, se ogni cosa è priva di tempo, s’immobilizza il suo fluire e la sua forza distruttiva. Così facendo avviene uno stacco nel tempo, dividendosi tra quello dell’arte, che eternizza, e quello della atemporalità, che governa a pieno le fotografie di Jodice. Con questa sottrazione e immobilità del tempo Jodice vuole mettere un freno alla paura più grande di tutte, quella della morte, compiendo una sorta di esorcizzazione della stessa. Questo interesse fu sin da subito quasi un’inclinazione naturale, come sostiene lo stesso autore, facendo in modo che molte committenze gli siano state affidate dal mondo dell’architettura. Spesso questi lavori professionali gli hanno suggerito indagini personali relative all’identità delle città, che poi è riuscito a portare a termine. Ogni lavoro sulle città è infatti diventato una mostra e successivamente anche una pubblicazione. La sua ricerca fotografica ha sempre seguito una doppia progettualità: da una parte ha indagato la storia e lo spirito dei luoghi, dall’altra ha raccontato i luoghi alla sua maniera, trasfigurandoli in una dimensione irreale. I suoi ritratti di città, la realtà e la visione sono aspetti che tendono quindi a coincidere. Naturalmente, prima di realizzare le fotografie, Jodice esegue dei lunghi sopraluoghi, senza però fare neanche uno scatto. Egli guarda e scruta i posti in estrema profondità. Uno degli esempi tangibili di questa profonda osservazione è Trieste, dove nel 1985 realizza alcuni scatti della risiera di San Saba, ovvero l’unico campo di concentramento costruito in Italia durante la seconda guerra mondiale.

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Un luogo che ha una memoria molto dolorosa e che nelle sue fotografie appare in tutta la sua assordante solidità. Inoltre la sua prospettiva accentuata prospettiva centrale sembra quasi portarci verso uno stato di forte inquietudine. Oltre a Napoli, la città a cui Jodice è più legato è senza dubbio Parigi, un posto che gli ha saputo donare tante soddisfazioni personali per il suo lavoro, con mostre in grandi musei e luoghi istituzionali. Nelle sue fotografie la capitale francese appare in tutti i suoi particolari, ma risulta ferma, congelata e non appartenente alla quotidianità. In aggiunta è curioso constatare come, quasi a livello di inconscio, egli ritrovi la sua Napoli nelle altre grandi metropoli del mondo, come nel caso delle fotografie raffiguranti alcuni scorci di Montreal nel 2012. Boston è un'altra città a cui Jodice è molto legato. La foto più famosa della città è stata realizzata da un ponte sospeso sopra una strada, la quale è scandita dall’alternanza di luci e di ombre ed è percorsa da una piccola figura umana, quasi impercettibile. Lo stile degli edifici e dell’ambiente urbano conferiscono all’immagine un sapore anni trenta, nonostante la foto sia stata scatta nel 2001. Significativa è anche una fotografia raffigurante San Paolo del Brasile, dove Jodice ha voluto giocare con il contrasto tra il primo e il secondo piano, e cioè tra la parabola satellitare e le costruzioni sullo sfondo. L’inquadratura fa sembrare l’oggetto in evidenza una sorta di disco volante, che incombe sulla città inerte.

Le vedute della sua Napoli Jodice elogia così la sua città natale: “la fotogenia di questa terra è forte e immediata e incanta anche gli spettatori più cinici”. Il titolo della prima raccolta di fotografia urbana, Vedute di Napoli, rievoca la lunga tradizione pittorica di una Napoli dipinta ad acquarello. Nonostante ciò le vedute di Jodice colgono invece un volto più magnetico della città. Il capoluogo campano è visto dalle viscere delle sue architetture, attraverso le sue strade strette, lungo i muri logori e gli interni delle abitazioni. Con questo volume il tempo collettivo diventa privato, da condiviso si trasforma in interiore. Il rapporto tra presente e passato si confonde e tutto risulta in sospensione e in attesa di un evento ignoto che potrebbe compiersi come no. Napoli è una città in cui la gioia si mescola al dolore, la bellezza al degrado, il chiasso al silenzio. È in questo luogo che Jodice ha vissuto tutta la sua vita e dove ha saputo elaborare con rabbia e passione tutta la sua esperienza di uomo e di fotografo. Il profilo di questa metropoli mediterranea sembra muoversi e tremare, rimanendo fisso, come se appartenesse ad un corpo abbandonato ma pervaso da una vitalità intensissima.

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La città partenopea è un fremito continuo che si trasforma in una smorfia contratta prossimo all’estasi. Tra il polo del piacere e della sofferenza si muovo quindi i molteplici ritratti di una Napoli le cui immagini sono quelle di una città dalla trasparenza inquietante, in cui si mostrano le forme antiche ed arcane quanto le nuovi aggressioni urbane sul panorama della storia, sia naturale che artificiale. Jodice ha saputo calare la sua macchina fotografica nelle viscere della città, ricavandone spaccati incantati ed esibendo il corpo martoriato del centro antico, dove il tempo della civiltà si è tradotto nel tempo breve dei graffiti e delle costruzioni effimere. La durata illimitata di luoghi congelati nella polvere e nell’attesa, in un sorta di eternizzazione, trova il suo corrispettivo in un tempo omogeneo e quantitativo, anch’esso sospeso nel vuoto. Quanto prodotto da Jodice sono figurazioni dalle luminosità impreviste, accecanti, sfuggevoli e minacciose, presagi di una catastrofe imminente. In altre immagini Jodice si lascia invece trasportare dalla naturalità sopravvissuta nella città, esibendo la dolcezza dei paesaggi, come il Parco della Rimembranza, dove la macchina fotografica passeggia, abbandonandosi al flusso del tempo naturale. Ma questo movimento avviene sempre nei luoghi delle mescolanze, là dove i confini tra le culture dell’aggressione industriale e della quiete naturale sono caduti, come quei territori urbani che vedono crescere l’ibrido, formando una foresta architettonica, le cui radici affondano nei vicoli percorsi da moltitudini di uomini assenti. Tale assenza non dà scelta all’essere umano, che ormai non possiede alternative alla sua scomparsa come protagonista. Egli è costretto a vivere nell’ombra dell’architettura ed essere un corpo senz’anima, come le statue che dall’alto guardano Piazza del Plebiscito. A Jodice interessano i limiti angusti e bui che lo avvolgono oppure le grandi panoramiche. Ma più di tutto lo seducono i luoghi di confusione, dove i corpi urbani si toccano muti e creano un orizzonte popolato di volti giganteschi e meravigliosi. L’indeterminato mostruoso di Napoli si rispecchia nella sua straordinaria costruzione scenografica, ma vive anche sul senso della sorpresa affascinante, sulla visione spettacolare del suo golfo o sul profilo sconvolgente del Vesuvio. L’immensa quiete del mare e la febbre del vulcano diventano così possibili minacce al corpo opaco della città. Jodice è anche coinvolto nelle variazioni subite dalla città campana. Nel suo lavoro infatti convivono sia l’approccio incantato e fantastico, sia l’abitudine ad una documentazione analitica, capaci di trasformare le sue fotografie in immagini magiche che sono anche illustrazioni conoscitive. Jodice produce così un vortice di profondità che trasforma Napoli in un’ebrezza illimitata, un paesaggio di altari improvvisati, dove la vita si consuma in ogni istante, alla stessa velocità di un istante fotografico, reso però “monumentale”.

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Ritratti di Roma Se dobbiamo però parlare di monumentali ed eternizzazione degli spazi e del tempo, non si può non considerare la città di tutte le città, l’eterna per antonomasia: Roma. Roma fu la prima vera grande città cosmopolita della storia dell’umanità e la sua configurazione urbana rispecchia a pieno il ruolo della città come crocevia di flussi globali di culture e di popoli. Il suo DNA reca ancora l’impronta di stratificazioni di una storia millenaria. Roma è quindi un insieme di complessità e bellezza. Nonostante Mimmo Jodice non sia particolarmente legato alla Città Eterna, si è lasciato comunque avvolgere dal suo forte potere mistico. Le sue immagini rivelano in modo singolare le origini del territorio di Roma, mettendo a fuoco la giustapposizione del tempo, cosa che difficilmente si coglie camminando distratti per le strade della capitale. Egli ci mostra Roma per quello che è e non per quello che sembra: cioè una sequenza di scenari composti da elementi architettonici di epoche e stili diversi che vanno a costituire un unicum nel mondo. Il percorso che Jodice compie su Roma coglie la realtà strutturale di questa suggestiva città, modellata e scolpita dalla luce mediterranea, che si mostra come miscela straordinaria di immagini, sapori, suono e profumi. Le sue fotografie ricompongono l’esperienza spaziale collettiva di Roma, svelandone l’essenza e passando dalla rigida eleganza del Foro Italico e delle strutture monumentali dell’EUR, simboli del razionalismo italiano, ai paesaggi urbani del Tevere, dalle cupole classiche, dei fori imperiali, fasto di un passato glorioso, sino all’infinita e indistinta periferia cittadina. Attraverso gli occhi di Jodice è possibile scorgere, oltre il caos, un’equilibrata composizione che si sviluppa nel tempo. In uno dei sobborghi metropolitani egli immortala l’imponente mole geometrica di un antico acquedotto, che sovrasta un binario ferroviario. L’inquadratura evidenzia la solidità e la certezza di una struttura millenaria che sparisce in un lontano punto di fuga urbano, segnando il territorio in modo tipicamente romano. Un luogo che offre un senso così profondo della sottile stratificazione storica tanto amata da Jodice è però il Foro di Traiano, dove elementi antichi, medievali, rinascimentali e barocchi si sovrappongono e si fondono in un complesso unico perfettamente armonico e sobrio. La grandezza di Roma è per Jodice, ma anche per la maggior parte degli urbanisti, un potente strumento di paragone, infatti, così come avvenne per Roma nel periodo di massimo splendore, Shanghai e Mumbai risalto essere oggi le città con il più alto tasso di crescita al mondo. Ma al contrario di Roma, i nuovi paesaggi urbani delle metropoli moderne sono unidimensionali e privi di spessore sociale, complessità spaziale e bellezza architettonica. Le fotografie di Jodice sono quindi una dichiarazione di ciò che la metropoli romana ha da offrire al XXI secolo e ci rammentano che il potere politico e la crescita economica possono contribuire alla creazione di manufatti urbani di fortissimo spessore, complessità e bellezza tali da durare nel tempo.

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La Roma raccontata da Jodice è una città assoluta e immutabile quanto i racconti enunciati dalle pietre della sua storia. È la Roma che porta gli stranieri a venire qui, è la Roma conosciuta in vacanze romane, della fotografia archeologica e architettonica del XIX secolo, delle guide turistiche d’altri tempi. Inoltre è la Roma capitale di un impero che si estendeva dal nord Africa alla Gran Bretagna, il fulcro e la somma espressione di rigore geometrico e di ordine. È l’erede vivente dell’Egitto e della Grecia, e tutto questo grazie in parte al braccio della Chiesa Cattolica, confermando Roma Caput Mundi. Anche qui ci sono pochissime tracce di vita umana, come una sedia vuota a Cinecittà e una coppia ritratta in lontananza a Villa Borghese. Tuttavia una strana presenza tende ad emergere: sono le pietre stesse a diventare umane. Infatti nei massicci edifici ritratti da Jodice c’è una certa gravità, un’atmosfera fatta contemporaneamente di presenza e assenza e una presenza austera e autorevole. Gli edifici sembrano così farsi carico di un peso, una specie di ancora, che guida il lavoro del fotografo. La natura dell’edificio rappresentato tende a determinare lo stile della fotografia, creando una corrispondenza tra l’armonia delle proporzioni del soggetto e la simmetria geometrica propria della composizione fotografica. Una caratteristica propria di tutto il paesaggio urbano italiano che Jodice è in grado di adottare e applicare anche alle capitali del resto del mondo, rendendo quest’ultime eterne come Roma e l’Italia stesse. Molte delle sue immagini comprendono campi lunghi mossi dal vento e increspature cromatiche di luce e ombra, altre sono invece più chiuse, focalizzate su dettagli architettonici. Ciò rende le fotografie un ritratto perfetto di Roma, che sembra essere anche un ritratto di un uomo, della sua solitudine e della sua ricerca e formidabile visione: un ritratto di Jodice stesso, ma anche un ritratto del nostro Io più profondo.

Prospettive di tempo e spazio

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Elenco delle Opere Elenco delle fotografie di Mimmo Jodice prese in esame per la stesura della presente ricerca. Foto singole:

� Abbazia di Chiaravalle, Milano 2000 � Bruciatura, 1978 � Glass II, 1966 � Natura n° 10, 1995 � Natura n° 7, 1995 � Natura n° 9, 1995 � Opera n°2, Ercolano 1972 � Paestum 1986 � Reale Albergo dei Poveri, Napoli 1998 � Sibari 1999 � Taglio, 1976 � Tempio della Concordia, Agrigento 1993 � Trittico Trentaremi, 2000

Raccolte e progetti completi:

� Arles 1988 � Boston 2001 � Montreal 2012 � Napoli 1980 � Napoli 1990 � New York 1985 � Parigi 1993 � Roma 2008 � San Paolo del Brasile 2003 � Tokyo 2006 � Trieste 1985 � Venezia 2010

Bibliografia

� Jodice M., Pedicini I., La Camera Incantata, Contrasto, 2013 � Jodice M., La Città Invisibile: nuove vedute di Napoli, Electa Napoli, Napoli 1990 � Jodice M., Roma, Johan e Levi Editore, 2008 � Jodice M., Vedute di Napoli, Mazzotta, Milano 1980

Sitografia � Sito Ufficiale: http:// www.mimmojodice.it/