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INTRODUZIONE Fino alle cose stesse. E ritorno La sociologica autoanalisi di Pierre Bourdieu di Massimo Cerulo Copia saggio per uso personale - vietata la diffusione

P. Bourdieu, Cose dette. Verso una sociologia riflessiva

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IntroduzIone

Fino alle cose stesse. E ritornoLa sociologica autoanalisi di Pierre Bourdieu

di Massimo Cerulo

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Fino alle cose stesse. E ritorno.La sociologica autoanalisi di Pierre Bourdieu*

Lasciare in uno stato impensato il pro-prio pensiero, per un sociologo, più ancora che per qualsiasi altro pensatore, significa votarsi a non essere altro che lo strumento di quello che egli pretende di pensare.

Pierre Bourdieu, Risposte

L’incipit, innanzitutto: «Il discorso scritto è un prodotto strano, che si inventa, nel confronto puro tra colui che scrive e “quello

che egli ha da dire”, al di fuori dell’esperienza diretta della relazione sociale, e al di fuori anche delle costrizioni e delle sollecitazioni di una domanda orale e quindi immediatamente percepita, la quale si manifesta attraverso diversi segnali di resistenza o approvazione»1. Se il discorso scritto è un prodotto strano, Pierre Bourdieu lo utilizza in maniera ambivalente: da una parte, come strumento chiarificatore e illuminante sulle indagini svolte, le critiche ricevute, nonché op-portunità di risposta a domande inevase; dall’altra, territorio di ricer-ca, campo di analisi sociologica, oggetto di studio proprio in quanto straniero, perché non appartenente più all’autore nel momento stesso in cui viene messo su carta e, quindi, disponibile all’osservazione e all’analisi2.

Cose dette, volume per la prima volta presentato in lingua italiana, esprime tale azione sociologica ambivalente. Diviso in tre parti – itine-rari, confronti, aperture – il volume racchiude testi (rivisti dallo stes-so autore) di conferenze, seminari, relazioni, ma anche e soprattutto

* Ringrazio Franco Crespi e Paolo Jedlowski per aver letto il testo e per i preziosi suggerimenti fornitimi. E Marco Santoro, i cui consigli sono stati fondamentali per portare a termine il lavoro.

1 Infra, “Prefazione”.2 D’altronde, sul fatto che Bourdieu sia uno studioso del linguaggio non vi è,

francamente, alcun dubbio (come si evince anche dalla conoscenza approfondita che il sociologo francese ha sempre mostrato in riferimento, ad esempio, alle opere di Wittgenstein e Austin). Sul punto, si veda A. Givigliano, Bourdieu sociologo del lin-guaggio: Vol. I: I fondamenti, Aracne, Roma 2012.

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lunghe interviste che Bourdieu ha costruito con studiosi di filosofia, sociologia, scienze umane e sociali nonché con giornalisti (stampa, tv e radio), categoria quest’ultima non certo amata dal sociologo france-se e, spesso, utilizzata come esempio nell’articolazione delle sue teorie sulla commercializzazione dei campi sociali3.

Mentre Bourdieu scrive – e il lettore, leggendolo, è come se lo sentisse parlare, tanto è profondo e nello stesso tempo diretto il suo ethos argomentativo – egli procede con quel suo modus operandi ben conosciuto dai suoi studenti, allievi e studiosi: sistematizza in fieri concetti e teorie, li chiarisce, li approfondisce, fa addirittura emergere criticità e lacune che diventano nuove ipotesi o stimoli di ricerca�. Detto in altri termini, Bourdieu mette in atto un processo a lui mol-to caro: l’oggettivazione del soggetto dell’oggettivazione o, in manie-ra più esemplificata, l’autoanalisi del sociologo. L’autore analizza se stesso e la sua “traiettoria biografica”, come emerge chiaramente dalla prima intervista con cui si apre il volume (fieldwork in filosofia), in cui racconta il suo percorso di studio e di vita, provando a riflettere su e a chiarire il ruolo fondamentale che hanno giocato i contesti storico-sociali di riferimento nei quali si è trovato ad agire nell’assumere scelte e decisioni. Così come procede ad un’autoanalisi di studi e ricerche svolte in precedenza – dalla Distinzione, in primis, agli studi antro-pologici in Cabilia, a quelli sul sistema di insegnamento francese, sul rapporto tra soggettività e oggettività, tra soggettivismo e strutturali-smo, ecc. – rispondendo con piglio deciso e con la solita, sconvolgente cultura enciclopedica alle critiche ricevute.

Direi che Cose dette rappresenta un utilissimo trait d’union che raccorda alcune ricerche bourdieusiane apparse negli anni Ottanta con quelle che verranno agli inizi degli anni Novanta (pubblicato nel 1987, si situa quindi, orientativamente, tra Ce que parler veut dire (1982), Homo academicus (198�) e La noblesse d’état (1989) e Les règles

3 Si vedano P. Bourdieu (1996), Sulla televisione, Feltrinelli, Milano 1997 e Id. (1995), Sul concetto di campo in sociologia, Armando, Roma 2010.

� Per una rapida introduzione alla biografia e ai concetti cardini della teoria sociale di Pierre Bourdieu (campo, capitale, habitus), mi permetto di rimandare a M. Cerulo, «I sociologi distruggono le illusioni». Pierre Bourdieu e lo svelamento della realtà sociale, in P. Bourdieu, Sul concetto di campo in sociologia, cit., 2010, pp. 7-53. Reputo che, in lingua italiana, le migliori introduzioni a uno studio sistematico di Bourdieu siano: G. Paolucci, Introduzione a Bourdieu, Laterza, Roma-Bari 2011 e A. Boschetti, La rivoluzione simbolica di Pierre Bourdieu, Marsilio, Venezia 2003.

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de l’art (1992)). Inoltre, si configura come un baule di ricordi dello stesso Bourdieu che, in un certo senso, mette a nudo parti della sua vita professionale ma anche personale, oltre a insegnare percorsi di studio e metodologie per costruire adeguatamente oggetti di ricerca e poter quindi andare con coscienza e formazione sul campo.

Cose dette è uno dei libri più riflessivi di Pierre Bourdieu, in cui lo strumento dell’autoanalisi si trasforma in bastone da rabdomante con cui il sociologo francese si autointerroga sul senso dei suoi studi nonché sul significato dello svolgere ricerca sociale, al fine di trovare quelle risposte che poi, in un certo senso, verranno sistematizzate una decina di anni dopo5. Forse è il suo libro più intimo (fatta eccezione per Esquisse pour une auto-analyse, pubblicato comunque postumo), le cui sfumature fenomenologiche rappresentano quegli occhiali magici con cui riuscire a penetrare in profondità le righe scritte dal più citato sociologo del mondo. Addentriamoci nel testo.

§§§

Nella prima parte scopriamo il percorso di studi di Bourdieu, le letture nel periodo trascorso all’École Normale de la rue

d’Ulm, il rapporto con la fenomenologia di Merleau-Ponty e di Hus-serl, con il Marx delle Tesi su Feuerbach, con i professori (tra cui Ba-chelard e Canguilhem, definiti “profeti esemplari”) e i compagni di corso (tra cui Derrida). Seguiamo i primi passi del Bourdieu studioso, il feeling manifesto con l’ala critica della sinistra francese – non a caso, contro lo stalinismo imperante dell’epoca, fonderà insieme ad alcuni suoi colleghi della Normale un “Comitato per la difesa delle liber-tà” –, i suoi turbolenti rapporti con quella che definisce “generazione strutturalista” incarnata principalmente da Althusser e Foucault, le sue riflessioni sull’esistenzialismo e le modalità attraverso cui si è svol-to il suo passaggio scientifico, in seguito alle ricerche svolte in Algeria, dalla filosofia all’etnologia («Mi pensavo come filosofo e ho impiegato molto tempo ad ammettere che ero diventato etnologo»6). Attraverso aneddoti della sua carriera racconta come è stato costruito il concetto di habitus, quali sono stati i suoi studiosi di riferimento nel modellar-lo e perché fosse necessario un concetto applicativo del genere negli

5 P. Bourdieu (1992), Risposte. Per un’antropologia riflessiva, Bollati Boringhieri, Torino 1992.

6 Infra, “«Fieldwork in Philosophy»”.

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studi di scienze sociali. In tal contesto, sottolinea uno dei principi cardini della sua teoria sociale, ossia la necessità di una sociologia che fosse storica, ben incardinata all’interno delle dinamiche storiche: « La caratteristica delle realtà storiche è che si può sempre stabilire che la situazione avrebbe potuto essere diversa, che, con altre condizioni, avrebbe potuto prendere un’altra piega. Che vuol dire che, storicizzan-do, la sociologia denaturalizza, defatalizza»7. Perché una separazione tra sociologia e storia è, nell’ottica bourdieusiana, assolutamente priva di giustificazione epistemologica: l’una è necessaria all’altra, perché solo così facendo è possibile tenere in conto proprio le contingenze storico-sociali dei soggetti che si studiano, «la costrizione delle condi-zioni e dei condizionamenti sociali»8. E questo contro qualsiasi forma di assolutizzazione, perché nessuno vive sospeso in una sorta di vuoto temporale, ma tutti risentono delle dinamiche e degli influssi veicolati dalla società nel cui tempo e spazio si vive.

Questa Selbstreflexion sociologicamente armata conduce a una cri-tica sociologica della critica teorica, quindi a una radicalizzazione e a una razionalizzazione della critica. Ad esempio, la scienza critica delle classificazioni (e della nozione di classe) offre una delle sole chance di oltrepassare realmente i limiti iscritti in una tradizione storica (con-cettuale, ad esempio); quei limiti che il pensatore assoluto realizza ignorandoli. È scoprendo la sua storicità che la ragione ottiene gli strumenti per fuggire dalla storia.9

Si continua poi col racconto dei suoi rapporti con Marx, con We-ber, con Durkheim, ammettendo la necessità di porre i problemi gno-seologici che poneva quest’ultimo nei confronti delle religioni primi-tive alla società nel suo insieme, poiché si parla di problemi inerenti alle forme di classificazione sociale e, quindi, di dominazione sociale. Si parla cioè di problemi politici che il sociologo non può tralascia-re, proprio perché il compito della sociologia è esattamente quello di svelare, di portare alla luce, di cancellare stereotipi per avvicinare alle verità. D’altronde, emerge qui quella necessità professionale che ha sempre caratterizzato l’attività bourdieusiana: non si è mai adeguato all’“ordine delle cose”, ma ha sempre provato a utilizzare gli strumenti della ricerca sociale per svegliare i significati dormienti che costellano

7 Ivi.8 Ivi.9 Ivi.

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la vita quotidiana. Per lui «i sociologi distruggono le illusioni»10, per-ché devono svolgere un lavoro di ricerca teso a scavare oltre la coltre di ovvietà ed omologazione che spesso avvolge le attività quotidiane. E lui ha amato quel «piacere, sempre un po’ tetro, di sapere come stanno le cose»11, ma non certo per vezzo artistico o autoreferenziale curiosità intellettuale, ma perché è compito della scienza sociale indagare sui rapporti e le relazioni umane, al fine di cogliere i rapporti di dominio e di violenza simbolica. Proprio per questo motivo, «per Bourdieu, la sociologia è una scienza eminentemente politica in quanto profonda-mente coinvolta nelle strategie e nei meccanismi di dominio simbo-lico nei quali si trova essa stessa inserita. Per la natura stessa del suo oggetto e per la situazione di coloro che la praticano, la scienza sociale non può essere neutra, distaccata, apolitica»12. D’altronde, citando il Pascal di Grandezza e miseria sosteneva che «determinato (miseria), l’uomo può conoscere le sue determinazioni e impegnarsi a superarle (grandezza)»13.

Arrivano in questa parte del volume gli inviti a diffidare delle ca-tegorie (o, almeno, ad essere molto cauti nel loro utilizzo), in quanto strumenti di classificazione e quindi di dominazione simbolica, non-ché quelli a rapportarsi agli altri studiosi (quelli classici in particolare) come suggeritori nelle strade da intraprendere nel corso della ricerca, senza relazionarsi ad essi con morbosità o rabbia critica. Bisogna pen-sare, secondo la celebre frase presente proprio in questo libro, con Marx e contro Marx, con Durkheim e contro Durkheim, perché

la logica dell’etichetta classificatoria è esattamente quella del razzi-smo, che stigmatizza bloccando in una essenza negativa. In ogni caso, essa costituisce, ai miei occhi, il principale ostacolo a quello che mi sembra essere il giusto rapporto nei confronti dei testi e degli studiosi del passato. Da parte mia, ho con gli autori rapporti molto pragma-tici: sono ricorso a loro come dei compagnons , nel senso della tradi-zione artigianale, ai quali si può chiedere una mano nelle situazioni difficili.1�

10 P. Bourdieu, Propos sur le champ politique, Presses universitaires de Lyon, Lyon 2000, p. �5.

11 P. Bourdieu (199�), Ragioni pratiche, il Mulino, Bologna 2009, p. 68.12 L. Wacquant, Introduzione, in P. Bourdieu, Risposte. Per un’antropologia ri-

flessiva, cit., 1992, p. 38.13 P. Bourdieu (1997), Meditazioni pascaliane, Feltrinelli, Milano 1997, p. 138.1� Infra, “«Fieldwork in Philosophy»”.

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Ma questo sembra essere un punto molto controverso e ostico da trasmettere a chi svolge ricerca sociale. Bourdieu – riflettendo sulla sociologia statunitense e schierandosi a favore della Scuola di Chicago e contro il triangolo nefasto (in termini di rappresentazioni accurate della realtà sociale) Parsons-Merton-Lazarsfeld – sottolinea con ironia quanto sia difficile svolgere ricerche sociologiche dotate di profondità teorica e accuratezza metodologica, proprio perché si tratta di studi che hanno come obiettivo quello di far emergere la verità. E «chi vuole che emerga la verità sul mondo sociale? Esistono soggetti che voglio-no la verità, che hanno interesse alla verità? E se esistono, sono nella posizione di chiedere che essa emerga?»15. E allora, poiché è facile e conveniente omologarsi al senso comune, a quello che tutti sanno e trasformarsi quindi in tuttologi, con probabilità di essere chiamati a parlare in televisione o ricoprire incarichi amministrativi, è necessa-rio per il sociologo parlare con serietà, utilizzare argomentazioni arti-colate, ricorrere obbligatoriamente a un vocabolario tecnico per non sminuire o, peggio, prestare a pericolose interpretazioni populistiche le sue ricerche:

I miei testi sono pieni di indicazioni destinate a fare in modo che il lettore non possa deformarli, semplificarli. […] In ogni caso, è certo che non cerco di produrre discorsi semplici e chiari e che reputo peri-colosa la strategia che consiste nell’abbandonare il rigore del vocabo-lario tecnico a vantaggio di uno stile leggibile e facile. Prima di tutto, perché la falsa chiarezza è spesso la misura del discorso dominante, il discorso di coloro che pensano che tutto vada avanti da sé, perché è giusto che sia così. Il discorso conservatore viene sempre formulato in nome del buon senso. […] E il buon senso parla il linguaggio sem-plice e chiaro dell’evidenza. E poi, produrre un discorso semplificato e semplificatore sul mondo sociale significa inevitabilmente fornire armi a pericolosi manipolatori di questo mondo. Nutro la convinzio-ne che, sia per ragioni scientifiche che per ragioni politiche, bisogna assumere che il discorso possa e debba essere tanto complesso quanto il problema che viene trattato. Se le persone ritengono un discorso complesso, questo è già un insegnamento.16

15 Infra, “Punti di riferimento”.16 Ivi.

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Quanta attualità in queste parole! Bourdieu sapeva bene che l’au-torità produce effetti reali, che utilizzare strategicamente le parole si-gnifica creare fatti, che dire qualcosa con autorità significa fare. Ecco perché bisogna utilizzare cautela e serietà nel discorso sociologico, magari non lasciandosi troppo ammaliare dalle sirene mediatiche e commerciali, proprio perché «le parole del sociologo contribuiscono a costruire le cose sociali»17. E, nello stesso tempo, se bene utilizzate contribuiscono a distruggere le illusioni sul mondo sociale, mostran-do con accuratezza scientifica prospettive e fatti prima non conside-rati18. Come tali, le parole dello scienziato sociale sono da adoperare con cura e rigore e non da (s)vendere al migliore offerente di platee mediatiche19.

Se la realtà è una costruzione sociale, Bourdieu si preoccupa di for-nire strumenti per ascoltare il non-detto, per svelare quelle “tattiche di micropolitica” che spesso si nascondono dietro le parole e i discorsi di molti pifferai mediatici (e non solo):

Gli agenti che sono in concorrenza tra loro nei campi di manipo-lazione simbolica hanno in comune l’esercizio di una azione simbo-lica: essi si sforzano di manipolare le visioni del mondo (e, attraverso tale processo, di trasformarne le pratiche) manipolando la struttura

17 Ivi.18 «La sociologia è certo un fattore di disturbo. Disturba perché svela. Simile

in ciò ad ogni altra scienza. “La scienza svela ciò che è nascosto”, diceva Gaston Ba-chelard. Ma in questo caso il “nascosto” è di natura particolare. Spesso si tratta di un segreto – che come molti segreti familiari non si vorrebbe assolutamente svelare – o ancora più spesso di qualcosa di rimosso. […] Per questo, quando non si accontenta di constatare e di ratificare l’apparenza, ma compie il suo lavoro di ricercatore scientifi-co, il sociologo sembra un delatore» (P. Bourdieu (1996), Sociologia e democrazia, in A. Boschetti, La rivoluzione simbolica di Pierre Bourdieu, cit., 2003, p. 153).

19 Per chiarire la forza omologante che può detenere una visione dominante della realtà sociale, Bourdieu utilizza il concetto di “idea forza”. Con tale termine egli inten-de un’asserzione espressa da un individuo, rivestito di autorità in uno o più determina-ti campi sociali, la quale acquista la forza di mobilitare un elevato numero di persone che tendono a condividere ed omologarsi alla visione della realtà che quell’asserzione esprime. Tale “condivisione” però – è questa è la peculiarità di una “idea-forza” – non si basa su riflessioni o ragionamenti, bensì sul potere e l’autorità (forme di “capitale reputazionale”) detenuti dalla persona che esprime l’asserzione. In altri termini, l’“idea forza” rappresenta, nella teoria sociale bourdieusiana, un esempio pratico di violenza simbolica. All’opposto vi è l’“idea vera”, ossia un’asserzione dotata di verità scientifica o oggettiva. Ringrazio Francesca Galmacci per i chiarimenti sul punto.

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della percezione del mondo (naturale e sociale), manipolandone le parole e, attraverso di esse, i principi della costruzione della realtà sociale (la teoria detta di Sapir-Whorf, o di Humboldt-Cassirer, se-condo la quale la realtà si costruisce attraverso strutture verbali, è assolutamente vera quando si tratta del mondo sociale). Tutti questi agenti che lottano per dire come bisogna vedere il mondo sono professioni-sti di una forma di azione magica che, attraverso parole capaci di parlare al corpo, di “toccare”, fanno vedere e fanno credere, ottenendo così effetti assolutamente reali delle loro azioni.20

§§§

Nella seconda parte del volume, quella dedicata ai confronti dei suoi studi con teorie o concetti elaborati da altri studio-

si, Bourdieu chiarisce alcune sue “scoperte”: critica lo strutturalismo di Lévi-Strauss (sempre bloccato nell’alternativa tra soggettivismo e oggettivismo) e il predominante utilizzo del concetto di regola, per-ché le sue ricerche sui matrimoni cabili dimostrano che è quello di strategia il termine più consono per comprendere le dinamiche che portano alcuni individui ad imparentarsi con altri e, di conseguenza, per costruire la teoria più adeguata per rendere ragione di tale prati-ca: più che concentrarsi su regole codificate che non possono rendere conto della varietà dei gruppi sociali, è necessario osservare le pratiche che i soggetti mettono in atto nelle loro azioni all’interno delle quali si manifesta l’habitus individuale di ciascuno di loro («la statistica, molto utile in questo caso, mostra che le pratiche si conformano alla norma soltanto in via eccezionale»21). È questa la parte in cui l’autore trova occasione per chiarire ulteriormente l’importanza, sia empirica che teorica, dei sui concetti di pratica e di senso pratico, come mez-zi di osservazione-comprensione delle azioni sociali, che permetto-no di evitare di restare invischiati nel nodo gordiano soggettivismo versus oggettivismo22. Appare qui il Bourdieu ricercatore sul campo,

20 Infra, “La dissoluzione del religioso” (corsivo mio).21 Infra, “La codifica”.22 La concettualizzazione più profonda e articolata del concetto di pratica è in P.

Bourdieu (1980), Il senso pratico, Armando, Roma 2005 e in P. Bourdieu (1972), Per una teoria della pratica, Raffaello Cortina, Milano 2003. Ma per una chiara sintesi si veda anche P. Bourdieu, Meditazioni pascaliane, cit., 2007, pp. 1�5-171. Sul pun-to, si vedano anche M. Pitzalis, Oltre l’oggettivismo, oltre il soggettivismo, in G. Pao-lucci (a cura di), Bourdieu dopo Bourdieu, UTET, Novara 2010, pp. 5-33; G. Scarfò

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conscio della necessità di essere estremamente flessibile nei confronti dell’oggetto che si va a studiare – né troppo vicino (cita a proposito le critiche di Wittgenstein a Frazer), né troppo lontano – al fine di poter riprodurre una rappresentazione di quella realtà quanto più ve-rosimile. E in tale opera di rappresentazione, in tale percorso di ricerca sul campo e di riflessione teorica, le classificazioni servono in quanto strumenti organizzativi, ma da utilizzare cum grano salis e con una alta dose di intelligenza e flessibilità:

La nostra percezione e la nostra pratica, in particolare la nostra percezione del mondo sociale, sono guidate da una serie di tassono-mie pratiche, opposizioni tra l’alto e il basso, il maschile (o il virile) e il femminile, ecc., e le classificazioni che producono queste tassono-mie pratiche devono la loro virtù proprio al fatto di essere “pratiche”, di permettere di introdurre la giusta quantità di logica per i bisogni della pratica, né troppa – un po’ di vaghezza è spesso indispensabile, in particolare nelle negoziazioni –, né troppo poca, altrimenti la vita diventerebbe impossibile.23

Si continua con una serie di riflessioni tratte da alcune brevi rela-zioni del sociologo francese che toccano diversi argomenti: dal sugge-rimento di distinguere tra definizione normativa e definizione descrit-tiva delle regole (à la Weber), alla necessità di cogliere la forte carica di violenza simbolica insita nell’applicazione stessa delle regole, processo che rappresenta l’espressione di una forza delle forme (vis formæ) che fa sì che qualcosa venga rispettato soltanto perché ufficializzato (ossia sancito come regola dal potere costituito) e, come tale, pericolosissi-mo strumento di coercizione popolare (a tal proposito, Bourdieu cita l’Hitler delle leggi razziali e la “pacifica” ricezione delle stesse da parte delle vittime):

Mettere in forma significa fornire a un’azione o a un discorso la forma che è riconosciuta come conveniente, legittima, approvata, os-sia una forma tale che la si può produrre pubblicamente, di fronte a tutti, una volontà o una pratica che sarebbe inaccettabile se presentata in altri modi (è la funzione dell’eufemismo). La forza della forma,

Ghellab, L’auto-socio-analisi del sociologo o gli interessi interessati dei ricercatori, in G. Paolucci, cit., 2010, pp. 3�-53; P. Ravaioli, Tra oggettivismo e soggettivismo. Problemi ed evoluzione della teoria sociale di Bourdieu, «Rassegna italiana di sociologia», XLIII, n. 3, 2002, pp. �59-�85;

23 Infra, “Dalla regola alle strategie”.

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questa vis formæ di cui parlavano gli Antichi, è questa forza propria-mente simbolica che permette alla forza di esercitarsi pienamente non mostrandosi in quanto tale ma facendosi riconoscere, approvare, accettare per il fatto di presentarsi sotto le spoglie dell’universalità – quella della ragione o della morale.2�

Appaiono in queste pagine prodromi di quello che sarà il Bourdieu più militante, quello che nel 1995 manifesterà insieme ai ferrovieri alla Gare del Lyon contro le politiche neoliberali e le privatizzazioni del governo Juppé e che aveva partecipato all’appello per la costituzio-ne di un Parlamento Internazionale degli Scrittori (1993)25.

Continuando nella lettura della seconda parte del volume, si in-contrano importanti chiarificazioni che il sociologo francese effettua ancora sul concetto di strategia e poi su quello di interesse, ma anche sulle modalità di lettura di un testo.

Nel caso dell’interesse, ad esempio, l’autore sottolinea come le azioni messe in atto dagli agenti all’interno dei campi sociali seguono un interesse, o posta in gioco, che variano al variare delle condizioni storiche, sociali, economiche, ecc. del campo stesso: «Ogni campo, producendosi, produce una forma di interesse che, dal punto di vi-sta di un altro campo, può sembrare disinteresse (e anche assurdità, mancanza di realismo, follia, ecc.)»26. Vi sono quindi una serie di in-teressi, tanti quanto sono i campi: questi ultimi sono infatti correlativi all’esistenza di poste in gioco, di interessi che costringono gli agenti all’azione. Su questo punto, Bourdieu è ancora più chiaro: l’interesse è nello stesso tempo sia la condizione per il funzionamento di un campo («rappresenta l’elemento che “fa correre le persone”»27), sia il

2� Infra, “La codifica”.25 In riferimento all’engagement politique di Bourdieu, è disponibile un elenco

cronologico delle sue attività in N. Heinich, Pourquoi Bourdieu, Gallimard, Paris 2007, pp. 76-77. Si vedano anche D. Swartz, Sociologia e politica: le forme dell’impe-gno politico di Bourdieu, in G. Paolucci, cit., 2010, pp. 5�-82; J. Bouveresse, Bour-dieu, savant et politique, Agone, Marseille 200�, cap. 5, e M. Offerlé, Engagement sociologique: Pierre Bourdieu en politique, «Regards sur l’actualité», n. 2�8, 1999, pp. 37-50. Un’altra corrente di pensiero, tuttavia, sostiene che Bourdieu si sia sempre impegnato nella sfera della politica, fin dal 1961. A tal proposito, si veda l’utilissi-mo P. Bourdieu, Interventions 1961-2001. Science sociale et action politique, Agone, Marseille 2002, in cui sono raccolti numerosi scritti del sociologo francese apparsi in quotidiani e riviste oltre a trascrizioni di interviste.

26 P. Bourdieu (199�), Ragioni pratiche, cit., 2009, pp. 1�2-3.27 Infra, “L’interesse del sociologo”.

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prodotto di tale funzionamento. Il campo quindi funziona perché gli agenti sono mossi da interesse ma, nello stesso tempo, esso fa sì che se ne producano di nuovi grazie alle azioni (lotte) messe in atto dagli agenti. E l’interesse dipende sempre dalle condizioni storiche in cui il campo è situato: è il motore che permette al campo di esistere (spinta all’azione per gli agenti) e, nello stesso tempo, l’elemento che spesso permette la continuazione della sua stessa esistenza (il campo genera nuovi interessi che lo mantengono in vita).

Per quanto riguarda i modi di leggere, invece, il sociologo francese, mettendo al bando una lettura ingenua dei testi (che siano filosofici, sociologici, letterari, ecc.), suggerisce l’importanza di leggerli studian-doli, ossia utilizzando una lettura “esterna”. Nei termini bourdieusiani ciò significa non restare trincerati all’“interno” del testo a mo’ di lecto-res, ma ampliare lo sguardo e quindi l’analisi al contesto in cui l’opera è stata scritta, alle caratteristiche socio-storiche del momento in cui è stato prodotto, alla traiettoria biografica dell’autore del testo stes-so (orientamenti, credenze, provenienze, ruoli). Perché «interrogarsi sulle condizioni di possibilità della lettura significa interrogarsi sulle condizioni sociali di possibilità delle situazioni nelle quali si legge (…) e anche sulle condizioni sociali di produzione dei lectores»28. È un invi-to a svolgere una sorta di etnografia testuale che permette di ottenere quella consapevolezza (con)testuale sempre necessaria in ogni osserva-zione sociale. Poiché qualsiasi testo è creato da un autore immerso in un «ambiente sociale e relazionale», attraverso una lettura “esterna” è possibile utilizzare l’analisi sociologica per illuminare il quadro socia-le, svelarne la vita quotidiana, far emergere comportamenti e relazioni sociali, opinioni e credenze, pratiche e atteggiamenti.

Lungi dall’annullare il creatore tramite la ricostruzione dell’uni-verso delle determinazioni sociali che agiscono su di lui, e dal ridurre l’opera al puro prodotto di un ambiente invece di scorgervi la prova che il suo autore era stato in grado di liberarsene […], l’analisi socio-logica consente di descrivere e di comprendere il lavoro specifico che lo scrittore ha dovuto compiere, allo stesso tempo contro tali deter-minazioni e grazie a esse, per produrre se stesso come creatore, vale a dire come soggetto della propria creazione.29

28 Infra, “Lettura, lettori, letterati, letteratura”.29 P. Bourdieu (1992), Le regole dell’arte. Genesi e struttura del campo letterario,

il Saggiatore, Milano 2005, pp. 167-8.

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Nella terza e ultima parte del volume, consacrata alle “apertu-re”, sono trattati diversi argomenti evidentemente da svilup-

parsi nel corso delle ricerche future. Vi è l’invito a considerare lo spazio sociale come il principale “luo-

go” da osservare per comprendere i rapporti tra gli agenti: è dalla po-sizione occupata in questo spazio che si può capire il potere detenuto all’interno di un determinato campo. È questa l’occasione sia per pun-tualizzare alcuni risultati emersi da La distinction sia per affermare, nuovamente e con forza, l’illusione sull’esistenza delle classi sociali: è infatti la percezione che ha il soggetto sul mondo sociale che lo situa in un determinato punto dello spazio sociale e lo porta ad agire in base ad interessi individuali e non la presunta solidarietà collettiva o coscienza maturata nel gruppo. Il concetto di classe sociale non esiste nella realtà, ma è un «artefatto storico ben fondato»30 che tuttavia vin-cola e pregiudica la ricerca sociale, perché fa sì che si scambi la realtà con il modello utilizzato per rappresentarla31. Ecco perché è necessario situare i soggetti nello spazio sociale per coglierne gusti, abitudini e pratiche di consumo, studiando il loro punto di vista e percezione e le forme interazionali e comunicative attraverso cui interagiscono con gli altri all’interno dei diversi campi sociali. Il concetto di classe risulta così datato, antico e non utile nell’ottica di uno studio sulla stratifi-cazione e sul cambiamento sociale che deve basarsi sui rapporti tra gli agenti intesi come rapporti di potere, di lotta, per perseguire i propri interessi. D’altronde, ricordiamolo, per Bourdieu le rappresentazioni degli agenti variano sì secondo la posizione occupata nello spazio so-ciale e gli interessi che sono loro associati («il reale è relazionale»32), ma anche in base al loro habitus (inteso quest’ultimo come sistema di schemi di percezione e di giudizio, come struttura cognitiva e valuta-tiva che gli agenti acquisiscono attraverso l’esperienza duratura di una posizione nel mondo sociale):

30 Infra, “Spazio sociale e potere simbolico”.31 «Le classi sociali non esistono (anche se in certi casi il lavoro politico orientato

dalla teoria di Marx può aver contribuito a farle esistere almeno attraverso istanze di mobilitazione e mandatari). Esiste uno spazio sociale, uno spazio di differenze, in cui le classi in qualche modo esistono allo stato virtuale, tratteggiate, non come dato ma come qualcosa che deve essere fatto. […] Lo spazio sociale è la realtà prima e ultima, perché determina anche le rappresentazioni che gli agenti sociali possono averne» (P. Bourdieu, Ragioni pratiche, cit., 2009, pp. 25-6).

32 P. Bourdieu, La misère du monde, Seuil, Paris 1993.

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Così, l’habitus implica un sense of one’s place ma anche un sense of others’ place. […] Gli agenti si classificano essi stessi, si espongono alla classificazione, scegliendo, conformemente ai loro gusti, differen-ti preferenze di abbigliamento, cibo, sport, amicizie che stanno bene insieme e che vengono preferiti dagli agenti o, meglio, che convengo-no alla posizione che questi ultimi occupano nello spazio sociale. Più esattamente: scegliendo, all’interno dello spazio dei beni e dei servi-zi disponibili, beni che occupano una posizione omologa, in questo spazio, alla posizione che gli agenti occupano nello spazio sociale. Ciò fa sì che non ci sia nulla che classifichi qualcuno meglio delle classifi-cazioni che egli stesso compie.33

Riusciamo quindi a studiare sociologicamente individui e gruppi analizzando le pratiche che li differenziano e distinguono e non quelle che li rendono simili o li situano in un rapporto di contrapposizione gli uni agli altri (à la Marx). È attraverso la distinzione dall’altro da me, infatti, che riesco a portare avanti quel processo di individuazione che sta alla base del riconoscimento e quindi, nell’ottica bourdieusia-na, che mi permette di scegliere (e al ricercatore sociale di compren-dere) le strategie adottate o da adottare per soddisfare l’interesse che guida il mio agire.

Continuando a scorrere la terza parte del libro, vorrei brevemente soffermarmi soltanto su due saggi che a mio parere ricoprono notevole interesse. Nel primo, quello dedicato al rapporto tra rappresentati e rappresentanti politici, Bourdieu sottolinea la fortissima discrimina-zione che viene a crearsi tra le due categorie, a favore dei secondi che detengono un potere di delega quasi assoluto. Ancora una volta si coglie un’anticipazione dei tempi (soprattutto se si pensa al caso specifico italiano, in cui vige attualmente una legge elettorale che non permette di scegliere autonomamente i propri rappresentanti ma co-stringe a seguire logiche partitiche o di lista). In tal senso, è proprio questo lavoro di delega che, essendo spesso dimenticato o ignorato, diviene il principio dell’alienazione politica. Prova ne è il fatto che i rappresentanti esistono a prescindere dalle loro azioni, proprio per il ruolo ufficiale ricoperto, perché occupano posizione dominante nel mondo sociale. Mentre i rappresentati, essendo i dominati nel rap-porto, sono costretti a mettere in atto azioni significative o collettive per essere considerati o, quantomeno, notati (manifestazioni, sciope-

33 Infra, “Spazio sociale e potere simbolico”.

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ri, cortei, iniziative mediatiche, ecc.). Il problema è che tale rapporto di dominazione, in particolare nel campo politico, è subìto soprat-tutto da coloro dotati di scarso capitale (specificamente culturale) i quali «sono costretti e inclini a rimettersi nelle mani di mandatari per avere una parola politica. In effetti, gli individui allo stato isolato, silenzioso, senza parola, non avendo né la capacità né il potere di farsi ascoltare, di farsi comprendere, sono posti di fronte all’alternativa tra il tacere o l’essere parlati»3�. In questo senso, la critica che Bourdieu rivolge ai rappresentanti politici e al campo nel suo insieme è spietata e suona davvero di sconcertante attualità, se pensiamo che tali rifles-sioni risalgono a venticinque anni fa:

Il rovesciamento della tavola dei valori, con l’esaltazione giacobi-na del politico e del sacerdozio politico, ha fatto sì che l’alienazione politica di cui parlavo all’inizio non sia stata più percepita e che, al contrario, si sia imposta la visione sacerdotale della politica, al punto di accusare di colpevolezza coloro che non partecipano ai giochi po-litici. Detto in altri termini, si è fatta interiorizzare così fortemente la rappresentazione secondo la quale il fatto di non essere militante, di non essere impegnato nella politica, fosse una specie di difetto di cui bisognava eternamente riscattarsi, che l’ultima rivoluzione politica, quella contro il clericalismo politico e contro l’usurpazione che è in-scritta allo stato potenziale nella delega, resta sempre da compiere.35

Nell’ambito di queste riflessioni sul rapporto tra rappresentanti e rappresentati e sulla funzione ambivalente della delega credo sia im-portante ricordare, a supporto della lettura del saggio in questione, che Bourdieu distingue fra due tipi di criteri di percezione della realtà: politici ed etici. Non tutti hanno un habitus specificamente politico, che permette di partecipare al grande gioco della politica. I criteri etici – caratteristici delle “classi dominate” – inducono i soggetti a pensare in modo non-politico e a sentirsi esclusi dalle dinamiche di potere che hanno luogo all’interno del campo politico e, di riflesso, nello spazio pubblico. La mancanza di strumenti quali, ad esempio, il lin-guaggio, i comportamenti, le conoscenze, induce all’autoesclusione. Si innesca così un meccanismo di selezione degli agenti che possono o non possono prendere parte al discorso politico. Questa selezione ha luogo in quanto i soggetti i cui criteri di analisi sono di tipo etico

3� Infra, “La delega e il feticismo politico”.35 Ivi.

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vivono un senso di inadeguatezza nei confronti dell’azione politica che li spinge all’autoesclusione. In altri termini, questi individui non si sentono (a torto) adatti e autorizzati a partecipare alle attività del campo politico36.

L’ultima nota è sul saggio che chiude il volume, dedicato alla tec-nica di ricerca quantitativa del sondaggio d’opinione, definito science sans savant. Se si tratta di una scienza priva di esperto è perché, secon-do Bourdieu, i sondaggisti tendono a sopravvalutare tale tecnica nella rappresentazione che vogliono fornire della realtà e, di conseguenza, a ingannare i lettori. Il sondaggio d’opinione non può essere conside-rato scienza esatta perché giocano al suo interno una serie di variabili incontrollabili di cui gli stessi sondaggisti sono perfettamente con-sapevoli: le differenti quantità di capitale detenute dagli intervistati; il procedimento di campionamento spesso alquanto oscuro; i diversi significati di un “non so-non risponde”; le risposte “non date”; le do-mande poste a trabocchetto, al fine di spingere l’intervistato verso alcune possibili risposte piuttosto che altre; tutti questi fattori ren-dono il sondaggio strumento di dominazione nelle mani di coloro che, finanziandone l’uso, possono far sì che venga utilizzato a van-taggio delle loro posizioni. I sondaggisti divengono così, nelle parole di Bourdieu che mutua un’espressione di Platone, «doxosopi»37: ossia «pensatori privi di pensiero» che piegano il rigore e la scientificità della ricerca alle esigenze del cliente, proponendo con i loro sondaggi di opinione

spiegazioni che vanno ben al di là dei limiti inscritti nel sistema dei fattori esplicativi, dal numero sempre esiguo e spesso mal misurati, di cui essi dispongono. Possiamo vederli, nelle serate televisive elettorali, fornire senza preparazione spiegazioni e interpretazioni alle quali la troppo evidente cattiva fede dei politici può soltanto donare un aria di profondità e oggettività.38

36 Sul punto, si vedano P. Bourdieu, Sul concetto di campo in sociologia, cit., 2010; Id. (2000), Proposta politica. Andare a sinistra oggi, Castelvecchi, Roma 2005; Id., Penser la politique, «Actes de la recherche en sciences sociales», nn. 71/72, 73, 1980; Id., Questions de politique, in «Actes de la recherche en sciences sociales», n. 16, 1977. Per una verifica empirica di tale tesi rimando a M. Cerulo, Campo politico e determinismo. Riflessioni sulla teoria sociale di Pierre Bourdieu, «Topologik», 3, 2008, pp. 12-150.

37 Infra, “Il sondaggio: una ‘scienza’ priva di esperto”.38 Ivi.

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Cose dette è un libretto di istruzioni per approfondire la cono-scenza di Bourdieu. In tal senso andrebbe utilizzato. È un

baule in cui trovare suggerimenti, chiavi di lettura, illuminazioni e indicazioni su come leggere alcune ricerche bourdieusiane, sul modo migliore per mettere al lavoro la maggior parte dei suoi concetti e delle sue teorie e, nello stesso tempo, si configura come un contenitore di stimoli per andare sul campo a testare nuove ipotesi di ricerca.

A mio parere è questo il testo più fenomenologico del sociologo francese. Quasi come se seguisse il suggerimento husserliano – «Non vogliamo affatto accontentarci di “pure e semplici parole”, cioè di una comprensione puramente simbolica delle parole […]. Non ci possono bastare i significati ravvivati da intuizioni lontane e confuse, da intui-zioni indirette. Noi vogliamo tornare alle “cose stesse”»39 –, Bourdieu torna alle cose stesse (letteralmente: Sachen selbst zurückgehen, perché quel verbo, in tedesco, significa anche risalire o ancora riabbassarsi alle cose, metterle al lavoro), riprendendole in mano, studiandole da pro-spettive inedite, rianalizzandole alla luce delle sue ricerche successive e confrontandole con quelle degli autori del passato. Ma non solo, perché, fedele al suo imperativo che ricerca e teoresi vivano l’una del respiro dell’altra (diceva che la ricerca senza teoria è cieca e la teoria senza ricerca è vuota�0), fa sì che le riflessioni teoriche contenute nel volume divengano trampolino e volano per gli studi empirici seguen-ti: da L’ontologie politique de Martin Heidegger, a La noblesse d’état, fino a Les règles de l’art e La misère du monde.

Bourdieu dona nuova vita alle cose dette, rimodellandole per il futuro e, autoanalizzandosi, fa emergere l’impensato che ancora risie-de in esse. Ben lungi dall’essere cose già analizzate, studiate e messe nero su bianco, da conservare per i posteri o declamare in convegni e lezioni universitarie, quelle cose, se analizzate in profondità, hanno ancora molto da dire perché raccontano del ricercatore sociale, del suo lavoro di ricerca e riflessione e, nello stesso tempo, possono aiutarlo e aiutare altri ad andare avanti nello studio. Sono parte viva di quella ricerca scientifica che ha il duplice compito di aiutare nella compren-sione della realtà sociale e, nello stesso tempo, di fornire gli strumenti per modificarla.

39 E. Husserl, Ricerche logiche, il Saggiatore, Milano 1968, vol. I, p. 271.�0 P. Bourdieu, Risposte, cit., 1992.

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È un privilegio ospitare all’interno della collana Teoria sociale un volume di colui che è stato uno dei più profondi e produttivi studiosi del Novecento. L’obiettivo è quello di contribuire alla scoperta di Pier-re Bourdieu in Italia e alla diffusione dei suoi studi�1. D’altronde, la collocazione sembra ottimale, perché se, come scrive Paolo Jedlowski: «la teoria stessa, a ben vedere, è una pratica: la pratica di pensare, di esercitare metodicamente il pensiero»�2, Cose dette rappresenta un chiaro esempio di teoria sociale messa in pratica.

Massimo CeruloTorino, inverno 2012

�1 Diversi saggi del o sul sociologo francese sono stati pubblicati negli ultimissi-mi anni. Alcuni esempi: P. Bourdieu, Sullo Stato. Corso al Collège de France. Volume 1 (1989-1990), Feltrinelli, Milano 2013; Id., In Algeria. Immagini dello sradicamento, Carocci, Roma 2012; Id., Il campo religioso. Con due esercizi, Accademia University Press, Torino, 2012; A. Givigliano, Bourdieu sociologo del linguaggio, cit., 2012; P. Bourdieu, R. Chartier, Il sociologo e lo storico. Dialogo sull’uomo e la società, Dedalo, Bari 2011; E. Susca, Pierre Bourdieu: il lavoro della conoscenza, FrancoAngeli, Milano 2011. Per una panoramica approfondita e un’analisi critica sulla ricezione italiana di Bourdieu negli anni precedenti si vedano: A. Salento, Un ospite di scarso riguardo: Pierre Bourdieu in Italia, in G. Paolucci (a cura di), Bourdieu dopo Bourdieu, cit., 2010, pp. 281-316; M. Santoro, How «Not» to Become a Dominant French Sociolo-gist: Bourdieu in Italy, 1966-2009, «Sociologica», 2-3, 2009.

�2 P. Jedlowski, In un passaggio d’epoca. Esercizi di teoria sociale, Orthotes, Na-poli 2012.

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