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PROCEDURA PENALE
L’originalità del nuovo modello processuale e il “giusto processo”
Come si è già rilevato è soprattutto la struttura dei processo che è mutata, ispirandosi al modello
accusatorio, anziché a quello inquisitorio.
Il giusto processo
Le riforme in ordine di tempo da ultimo attuate hanno riguardato l’introduzione di taluni
principi volti a spostare ulteriormente l’indirizzo del processo penale italiano verso il profilo
accusatorio con la delineazione del “giusto processo”.
I principi scritti nel nuovo art. 111 della Costituzione (Legge costituzionale n. 2 del 1999)
sanciscono non solo la necessità di una piena esplicazione del contraddittorio e quindi della
difesa effettiva, ma anche la necessità di pervenire ad una decisione in tempi ragionevoli.
Il nuovo testo dell’art. 111 della Costituzione (che enunciava: "tutti i provvedimenti
giurisdizionali devono essere motivati; contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà
personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso il
ricorso in Cassazione per violazione della legge…") sancisce ora la parità fra accusa e difesa, il
contraddittorio di fronte al giudice terzo ed imparziale, nonché la ragionevole durata del
processo.
Il contraddittorio rappresenta il cuore della riforma: la parità delle parti nel processo passa
tramite il contraddittorio ad un giudice terzo ed imparziale, ossia in una posizione
d’indifferenza ed equidistanza rispetto alle parti.
La nuova disposizione assicura che il soggetto indagato sia informato, in maniera riservata e nel
minor tempo possibile, delle ragioni e della natura delle accuse elevate a suo carico. Quanto al
diritto di difesa, l’accusato deve disporre del tempo e delle condizioni necessari per preparare la
sua arringa difensiva. Tra le condizioni figura la possibilità di interrogare dinanzi al magistrato
colui che ha reso dichiarazioni a suo carico. L’imputato, inoltre, ha il diritto di ottenere la
convocazione in aula e la deposizione davanti alla Corte o al Tribunale di testimoni a sua difesa
nelle medesime condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro strumento di prova a suo
vantaggio.
Il processo penale, inoltre, è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione delle
prove.
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L’articolo in esame sancisce, infatti, "la colpevolezza dell’imputato non può essere provata
sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto
all’interrogatorio da parte dell’imputato o del difensore".
La legge, infine, regola tutti i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in dibattimento
per consenso dell’imputato, per accertata impossibilità di natura oggettiva, per effetto di provata
condotta illegale.
Obiettivo primario dei nuovi principi inseriti nell’articolo 111 Cost., pertanto, è la piena
operatività del principio del contraddittorio nella formazione della prova, in quanto "fine
primario ed ineludibile del processo penale non può che rimanere quello della ricerca della
verità".
Altro fondamentale enunciato è la durata ragionevole del processo, che deve essere inteso non
in senso tecnico ma comprensivo anche della fase procedimentale, nella veste di garanzia
oggettiva contro illogici ed ingiustificati pregiudizi per la tempestiva definizione dell’attività
giurisdizionale.
Del resto un sistema giudiziario veramente efficace e soddisfacente deve poter contare su
strutture operative che garantiscano il rispetto delle leggi, evitando in tal modo che entri in crisi
il servizio giustizia, con conseguente perdita di incisività e significato dell’opera dei giudici.
Con la legge costituzionale n. 2 del 1999, peraltro, è stato esplicitamente inserito nella nostra
Carta fondamentale un principio già espressamente previsto dall’art. 6 della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sottoscritta a Roma nel 1950 e
ratificata dall’Italia con la legge 4 agosto 1955, n. 848. Il citato articolo 6, par. 1 della
Convenzione, infatti, riconosce ad ogni persona il diritto che "la sua causa sia esaminata
imparzialmente, pubblicamente ed in un tempo ragionevole". Con la ratifica della Convenzione
lo Stato italiano si è obbligato ad organizzare il proprio sistema giudiziario in modo tale da
soddisfare l’esigenza di garantire uno svolgimento celere delle cause, adeguando le strutture
dell’amministrazione della giustizia.
Tuttavia, la lentezza dei processi, tipica del nostro Paese, si riflette in una cronica mancanza di
funzionalità che spiega il motivo per cui il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa abbia
posto sotto osservazione il nostro sistema giudiziario, nell’ambito dei suoi compiti di
sorveglianza.
L’entrata in vigore, il 7 gennaio 2000, della l. cost di riforma dell’articolo 111, ha rappresentato
il punto di arrivo di un lungo iter parlamentare e si colloca sicuramente nell’ambito delle
importanti riforme del processo penale introdotte con la L. Carotti e con la delega al Governo
per attribuire al giudice di pace competenze in materia penale.
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Stadi del procedimento
Il vigente sistema processuale penale, avendo scelto il modello accusatorio, è calibrato sulla
distinzione di valenza probatoria tra gli atti investigativi, compiuti dagli organi inquirenti e
quelli giurisdizionali posti in essere, dopo l’esercizio dell’azione penale, in sede di svolgimento
del giudizio, ordinario o speciale. Ne deriva la netta separazione tra la fase, non giurisdizionale,
delle indagini preliminari, svolte dalla polizia giudiziaria sotto la direzione del pubblico
ministero o da quest’ultimo personalmente, finalizzata all’accertamento della notitia criminis ed
all’eventuale promozione dell’azione penale e la fase del processo, di natura giurisdizionale,
celebrata innanzi ad un giudice nel contraddittorio tra pubblico ministero ed imputato, secondo
uno dei riti, finalizzata alla pronuncia nel merito dell’imputazione e, quindi, deputata alla
raccolta ed alla formazione della prova. Conseguente a tale diversità di natura delle fasi è la
diversa capacità probatoria degli atti compiuti nell’una o nell’altra fase e, quindi, il differenziato
regime di utilizzabilità probatoria, che è infatti attenuata per gli atti della fase investigativa. Le
regole procedurali, pertanto debbono necessariamente cambiare quando dalle indagini
preliminari si passa alla fase giurisdizionale del processo.
Qualsiasi procedimento comprende una fase pre – processuale, ma può proseguire con una fase
processuale di primo grado ed eventualmente di secondo e terzo grado.
Le fasi del procedimento sono:
1. una fase pre – processuale delle indagini preliminari detta anche procedimentale;
2. una fase giurisdizionale ossia il processo
Il termine processo è ricompresso e racchiuso nel procedimento, di cui costituisce una fase solo
eventuale. Esso può definirsi come lo stadio giurisdizionale del procedimento.
La fase procedimentale, costituita dalle indagini preliminari, resta fuori dal processo, in quanto
la precede.
Nell’ambito del procedimento occorre distinguere tra gradi e fasi.
I gradi del procedimento sono gli stadi del processo indicanti la successione dei giudizi in
ordine alla medesima res judicata.
Il numero dei gradi varia a seconda del tipo di giudizio o di procedimento:
• il giudizio di cognizione è, in base alla sua progressione dinamica, articolato al massimo in
tre gradi (primo grado, appello e cassazione)
• il procedimento di esecuzione penale si articola in un primo grado innanzi al giudice
dell’esecuzione ed in eventuale secondo grado per la cassazione del provvedimento emesso
dal predetto giudice dell’esecuzione.
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Le fasi del procedimento sono quegli stadi interni a ciascun grado di giudizio.
Nel giudizio di primo grado possono aversi le seguenti e successive fasi: indagini preliminari;
udienza preliminare; giudizio speciale ovvero giudizio dibattimentale. Nei giudizi di appello e
di cassazione esiste solo fase dibattimentale (in udienza pubblica o in camera di consiglio).
CAP. 3 : I SOGGETTI
A seconda del tipo di funzione e di interessi assunti nel procedimento i soggetti che ad esso
partecipano possono essere classificati nel seguente modo:
figure processuali: sono quelle persone fisiche o entità astratte che sono chiamate a svolgere un
ruolo nella fase investigativa o anche in quella giurisdizionale del procedimento, pur senza
avere un interesse personale alla soluzione della res judicata. Esse non sono titolari di alcuna
posizione sostanziale inerente all’azione penale principale o a quella civile. Le attività svolte da
esse hanno, nell’ambito del procedimento, carattere strumentale ed accessorio. Possono essere
chiamate a svolgere: pubbliche funzioni ausiliarie a quelle della autorità giudiziaria (vi
rientrano il personale di cancelleria o segreteria, ufficiali giudiziari, periti del giudice,
consulenti tecnici del pubblico ministero, ausiliari tecnici, custodi giudiziari, interpreti, persone
informate dei fatti, testimoni ecc. ecc.); attività private, tali sono le attività da essi svolte in
qualità di investigatori privati, informatori, consulenti tecnici, traduttori.
Soggetti processuali: sono quelle persone che hanno un interesse personale alla res judicata,
penale o accessoria civile, sicché sono soggetti titolari di posizioni giuridiche nel procedimento
ed in taluni casi anche parti potenziali.
Sono soggetti processuali: il giudice (estraneo alle pretese azionate, non potrà mai diventare
parte); il pubblico ministero (soggetto nella fase delle indagini preliminari – parte processuale
innanzi al giudice dopo la formulazione dell’imputazione); l’indagato (che diventa parte nel
momento in cui, a seguito dell’imputazione, diviene l’imputato); la persona offesa dal reato
(portatrice dell’interesse leso dal reato e, se anche danneggiata, è legittimata a costituirsi parte
civile); gli enti esponenziali di interessi diffusi lesi dal reato (i quali, pur intervenendo ad
adiuvandum, a fianco della persona offesa, non assumono mai la veste di parte, non spettando
ad essi la titolarità dei beni giuridici sostanziale nella concreta fattispecie violati); la polizia
giudiziaria (chiamata a svolgere le indagini anche nella fase del processo, ma mai titolare
dell’azione penale).
Parti del processo: sono i soggetti attivi o passivi dell’azione penale e di quella civile e, sulle
quali, quindi, è destinata ad incedere la decisione del giudice. Per l’azione penale, parti
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essenziali sono il pubblico ministero e l’imputato; parti eventuale è la persona civilmente
obbligata per la pena pecuniaria.
IL GIUDICE
Il codice di rito si apre con la normativa relativa al giudice come a sottolineare – coerentemente
con il sistema accusatorio adottato - il ruolo centrale che tale soggetto processuale, titolare del
potere decisionale, riveste nell’attuale ordinamento. La disciplina del codice in questo ambito
attiene a profili organizzativi, strutturali e funzionali quali giurisdizione e competenza (con le
relative problematiche sui conflitti), capacità, incompatibilità, astensione e ricusazione del
giudice nonché la rimessione del processo.
Recita l’art. 1: “la giurisdizione penale è esercitata dai giudici previsti dalle leggi di
ordinamento giudiziario secondo le norme di questo codice”. La giurisdizione qui richiamata è,
nel senso più lato dell’espressione, la funzione dello Stato, esercitata dalla magistratura
ordinaria a norma dell’art. 102 Cost. e rivolta all’imparziale attuazione della legge, tramite
l’applicazione di sanzioni qualora venga trasgredito il precetto della norma giuridica.
L’art. 101 della Costituzione, dopo aver premesso che la giustizia è amministrata in nome del
popolo, sancisce uno dei principi fondamentali di tutto il nostro ordinamento: “ i giudici sono
soggetti soltanto alla legge”. E’ questo il principio di indipendenza che attiene al profilo esterno
della giurisdizione riguardando la posizione istituzionale del potere giudiziario rispetto agli altri
poteri dello Stato (potere esecutivo e potere legislativo). Tale indipendenza è rafforzata dalla
previsione del successivo art. 107 secondo il quale “i magistrati sono inamovibili” se non in
seguito ad una decisione del CSM.
L’indipendenza del giudice è cosa diversa dalla imparzialità poiché quest’ultima attiene al
profilo interno della giurisdizione conferendo al giudice quella posizione super partes a lui
connaturale in un sistema accusatorio. L’imparzialità è garantita costituzionalmente con il
principio di difesa (art. 24) e la precostituzione del giudice (art. 25); il codice di rito prevede
allo stesso fine gli istituti della rimessione, dell’incompatibilità, dell’astensione e della
ricusazione.
Affinché l’imparzialità sia effettiva deve essere fondata sui seguenti principi: la soggezione del
giudice alla legge; la separazione delle funzioni processuali, la presenza di garanzie
procedimentale che permettano di estromettere il giudice che sia parziale. Dal punto di vista
teorico la garanzia della imparzialità può essere definita soltanto in senso negativo (non
parzialità) sulla base dei due criteri fondamentali della terzietà (che si ha quando è assente
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qualsiasi legame con una delle parti o con l’oggetto da decidere) ed impregiudicatezza (si ha
quando una persona non ha già espresso in precedenza un giudizio sulla responsabilità
dell’imputato).
In base al criterio della terzietà occorre che il giudice non abbia legami né con le parti né con
l’oggetto del procedimento. Il codice prevede agli artt. 36 e 37 un lungo elenco di situazioni di
assenza di terzietà, in presenza delle quali il giudice ha l’obbligo di astenersi da quel
determinato procedimento. Ove non lo facesse ne deriverebbero due conseguenze: potrebbe
essere intrapreso un procedimento disciplinare in suo danno; una delle parti potrebbe presentare
nei confronti del medesimo una dichiarazione di ricusazione.
L’incompatibilità (artt. 34-35 cpp)
Al fine di garantire la completa imparzialità dell’organo giudicante, il codice di rito prevede
alcune ipotesi di incompatibilità designando con tale termine la condizione in cui viene a
trovarsi il giudice quando particolari condizioni processuali o personali fanno presupporre lesa
la sua necessaria posizione super partes (es. per ragioni di parentela, incompatibilità del
magistrato a svolgere la funzione di Gup se ha già rivestito quella di Gip nello stesso
procedimento ecc.)
La incompatibilità determina la sostituzione della persona fisica del giudice con altro,
appartenente allo stesso ufficio. L’eventuale provvedimento giurisdizionale adottato da un
giudice “incompatibile” non è però affetto da nullità legittimando, la sua condizione, soltanto
alla richiesta di ricusazione ai sensi dell’art. 37.
Le situazioni di pre – giudizio, che sono previste dal codice come causa di incompatibilità
possono essere ricomprese in tre categorie:
• in primo luogo, la situazione pregiudicante può consistere nel fatto che un magistrato abbia
svolto in un determinato procedimento una qualche funzione che deve restare distinta da
quella di giudice. L’art. 34, comma 3, enumera tra le altre, le funzioni del pubblico
ministero, della polizia giudiziaria, del difensore, del testimone, del perito, del consulente
tecnico, del denunciante o del querelante;
• in secondo luogo, la situazione pre – giudicata può consistere nel fatto che un parente o
affine (fino al secondo grado) del magistrato, che è stato designato a giudicare, abbia già
esercitato nel medesimo procedimento sia la funzione di giudice, sia altre funzioni separate
o distinte (art. 35);
in terzo luogo, la situazione pregiudicante può consistere nel fatto che un magistrato abbia già
svolto la funzione di giudice nel medesimo procedimento penale.
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L’astensione (art. 36 cpp)
L’astensione è uno strumento preventivo, in capo al giudice, finalizzato ad eliminare qualsiasi
sospetto sulla sua imparzialità. A costui è fatto obbligo di astenersi sia quando ricorrano motivi
per i quali possa essere ricusato (comprese le ragioni di incompatibilità già viste), sia quando
ricorra l’ipotesi generica delle altre “gravi ragioni di convenienza”.
La dichiarazione è valutata da un altro giudice; di regola è valutata dal presidente dell’organo
giudicante al quale appartiene il magistrato (art. 36, comma 3). Non può essere accolta
automaticamente perché l’astensione è un istituto che fa eccezione alla regola secondo cui il
giudice, una volta investito di un procedimento, ha il dovere di decidere. La dichiarazione di
astensione è accolta se si accerta che in concreto esistono situazioni che mettono in pericolo
l’imparzialità. Il codice fa un minuzioso elenco dei motivi che obbligano il giudice ad astenersi
(art. 36). Dopodichè gli impone di farlo anche in presenza di una situazione indeterminata, cui
prima si è fatto riferimento, e cioè quando vi siano “gravi ragioni di convenienza” (art. 36,
comma 1, lett. h). La ragione è grave quando incide sulla libertà di determinazione del giudice.
La ricusazione (artt. 37-38-39-40 cpp)
Anche la ricusazione è un istituto finalizzato a garantire la terzietà del giudice grazie alla
sostituzione del giudice ricusato e alla possibile invalidazione degli atti da lui compiuti.
I presupposti sono i medesimi dell’astensione, meno i motivi di convenienza e con in più l’
ipotesi che il giudice abbia indebitamente espresso il proprio convincimento sui fatti costituenti
l’imputazione nell’esercizio delle funzioni e prima della sentenza.
L’istanza di ricusazione si propone con dichiarazione della relativa causa giustificatrice, resa
dal P.M. o dalle altre parti private ed è presentata, assieme ai documenti, nella cancelleria del
giudice competente a decidere (sulla ricusazione di un giudice di tribunale, della corte di assise
o della corte di assise di appello decide la corte di appello; su quella di un giudice della corte di
appello decide una sezione della corte stessa, diversa da quella cui appartiene il giudice
ricusato). Copia della dichiarazione è depositata nella cancelleria dell'ufficio cui è addetto il
giudice ricusato. La dichiarazione, quando non è fatta personalmente dall'interessato, può
essere proposta a mezzo del difensore o di un procuratore speciale. Nell'atto di procura, devono
essere indicati, a pena di inammissibilità, i motivi della ricusazione.
La dichiarazione di ricusazione può essere proposta:
a) nell'udienza preliminare, fino a che non siano conclusi gli accertamenti relativi alla
costituzione delle parti;
b) nel giudizio, fino a che non sia scaduto il termine previsto dall'articolo 491 comma 1;
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c) in ogni altro caso, prima del compimento dell'atto da parte del giudice.
Qualora la causa di ricusazione sia sorta o sia divenuta nota dopo la scadenza dei termini
appena visti, la dichiarazione può essere proposta entro tre giorni. Se la causa è sorta o è
divenuta nota durante l'udienza, la dichiarazione di ricusazione deve essere in ogni caso
proposta prima del termine dell'udienza.
Il giudice ricusato non può pronunciare sentenza fino ad un eventuale rigetto della richiesta
stessa di ricusazione. Questo limite, previsto dal secondo comma dell’art. 37, non trova però
applicazione qualora l’istanza di ricusazione sia fondata sugli stessi motivi di istanza già
respinta (C. Cost. n. 10/’97).
Il giudice ha obbligo di astenersi (art. 36) e può essere ricusato (art. 37):
• se ha interesse nel procedimento o se alcuna delle parti private o un difensore è debitore o
creditore di lui, del coniuge o dei figli;
• se è tutore, procuratore o datore di lavoro di una delle parti private ovvero se il difensore,
procuratore o curatore di una di dette parti è prossimo congiunto di lui o del coniuge;
• se ha dato consigli o ha manifestato il suo parere sull’oggetto del procedimento fuori
dell’esercizio delle funzioni giudiziarie;
• se ci è inimicizia grave tra lui o un suo prossimo congiunto e una delle parti private;
• se alcuno dei prossimi congiunti di lui o del coniuge è offeso o danneggiato del reato o
parte privata;
• se un prossimo congiunto di lui o del coniuge svolge o ha svolto funzioni di pubblico
ministero.
La rimessione (artt. 45-46-47-48-49 cpp)
Vi possono essere dei casi nei quali è pregiudicata l’imparzialità dell’organo giudicante
(monocratico o collegiale) a prescindere da situazioni che riguardino il magistrato che lo
compone.
La rimessione consiste nello spostamento territoriale della funzione giurisdizionale e, quindi,
nella attribuzione della competenza ad un Giudice-Ufficio diverso da quello che, secondo le
regole ordinarie, sarebbe territorialmente competente. La rimessione, pertanto, attiene alla non
idoneità di un intero ufficio giudiziario (e non i singoli suoi magistrati) ad esercitare le proprie
funzioni giudicanti in un determinato processo, in considerazione di situazioni ambientali tali da
incidere, in modo grave e determinante, sul sereno e corretto esercizio della funzione
giurisdizionale.
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La disciplina della rimessione è stata recentemente riformata dala L. 248/2002 (cd. “Legge
Cirami”).
I casi di rimessione previsti dall’art. 45 c.p.p. sono oggi diventati tre:
1. gravi situazioni di pericolo alla sicurezza ed incolumità pubblica (es. pericolo di
attentati terroristici);
2. turbamento della libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo
(che devono essere reali e non meramente ipotetiche);
3. legittimo sospetto, cioè quelle situazioni di dubbio sull’imparzialità e serenità del
giudice, ancorata non a fatti concreti, ma a seri dubbi di ostilità ambientale.
Alla rimessione provvede “la Corte di Cassazione, su richiesta motivata del Procuratore
Generale presso la Corte di Appello o del Pubblico Ministero presso il giudice che procede o
dell’imputato (…)”.
Quanto alla procedura, dopo il deposito in cancelleria, l’istanza di rimessione deve essere
notificata entro sette giorni alle altre parti a pena di inammissibilità. Il Giudice di merito o la
Corte di Cassazione possono disporre la sospensione del processo. La sospensione è
obbligatoria quando il ricorso è stato assegnato per la decisione alle sezioni riunite o ad una
sezione della Corte di cassazione diversa da quella che deve pronunciare l’inammissibilità. La
sospensione non può essere concessa nel caso di presentazione di nuova istanza di rimessione
non fondata su elementi nuovi. La corte di cassazione decide sul ricorso con provvedimento in
camera di consiglio all’esito del quale può decidere per l’inammissibilità dell’istanza, per il suo
rigetto o l’accoglimento: in tal caso gli atti devono essere trasmessi a cura del giudice a quo al
nuovo giudice designato, secondo i criteri di cui all’art. 11 c.p.p.. L’effetto della remissione
consiste nel rinnovo, da parte del nuovo giudice, degli atti compiuti anteriormente al
provvedimento di rimessione solo però se vi è esplicita richiesta di una delle parti (ad
esclusione ovviamente degli atti divenuti irripetibili). L’obbligo di rimessione vige fin dalla fase
delle indagini preliminari e comporta l’immediata trasmissione dello stesso magistrato
procedente, degli atti al corrispondente ufficio giudiziario del capoluogo di distretto giudiziario
previsto dall’apposita Tabella, di cui alla legge 420 del 1998.
La competenza (artt. 4-5-6-7-8-9-10-11-11 bis)
In generale con il termine competenza si intende l’insieme delle regole che consentono di
distribuire i procedimenti all’interno della giurisdizione ordinaria. Col medesimo termine è
altresì definita quella parte della funzione giurisdizionale, che è svolta da un determinato organo
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giudiziario. In tal senso la competenza è distribuita in base ai criteri della materia, del territorio
o della connessione.
Le norme che disciplinano la competenza penale provvedono quindi a quella divisione del
lavoro che è essenziale per l’efficienza di ogni organizzazione. L’esigenza della determinazione
di criteri di competenza nasce dalla ripartizione del territorio nazionale in una serie di ambiti
territoriali e dalla coesistenza in uno stesso ambito di una pluralità di giudici.
L’art. 4 è disposizione di carattere generale e stabilisce le regole per la determinazione della
competenza: per determinare la competenza si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per
ciascun reato consumato o tentato. Non si tiene conto della continuazione, della recidiva, e delle
circostanze di reato, fatta eccezione delle circostanze aggravanti per le quali la legge stabilisce
una pena diversa da quella ordinaria del reato.
La competenza per territorio (art. 8 cpp)
La competenza per territorio individua orizzontalmente (ossia attiene alla distribuzione dei
procedimenti tra i diversi uffici giudiziari del medesimo tipo,es. tra i tribunali) il giudice
chiamato a pronunciarsi ed è generalmente determinata dal luogo in cui il reato è stato
consumato (art. 8, comma 1).
Se si tratta di fatto dal quale è derivata la morte di una o più persone, è competente il giudice
del luogo in cui è avvenuta l'azione o l'omissione (art. 8, comma 2).
Se si tratta di reato permanente (in cui l’offesa si protrae per un certo lasso di tempo), è
competente il giudice del luogo in cui ha avuto inizio la consumazione, anche se dal fatto è
derivata la morte di una o più persone (art. 8, comma 3).
Se si tratta di delitto tentato, è competente il giudice del luogo in cui è stato compiuto l'ultimo
atto diretto a commettere il delitto (art. 8, comma 4).
Secondo la giurisprudenza della Corte Cost., il collegamento della competenza al “locus
commissi delicti” integra il requisito della naturalità del giudice (giudice naturale precostituito
per legge)richiesto dall’art. 25 Cost.: esso infatti appare ispirato a finalità di economia
processuale, consentendo una più facile raccolta dei mezzi istruttori, e rende più agevole
l’esercizio del diritto di difesa.
La competenza per materia (art. 5 cpp)
La competenza per materia individua verticalmente il giudice attenendo alla distribuzione dei
procedimenti tra i giudici aventi in comune una stessa giurisdizione territoriale.
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La competenza per materia è un criterio di distribuzione degli affari giurisdizionali tra uffici
giudiziari di diverso tipo fondato sulla natura del reato perseguito (criterio qualitativo), ovvero
sulla gravità della pena irrogabile (criterio quantitativo) o ancora sulla condizione personale
dell’ imputato (criterio soggettivo, riferito unicamente al Tribunale dei minorenni, competente
per tutti i reati commessi da imputati minori di anni 18).
La Corte di Assise (art. 5 cpp) è competente per i reati di maggiore allarme sociale (per i delitti
per i quali la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo
a 24 anni, esclusi i delitti di tentato omicidio, di rapina e di estorsione, cmq aggravati; per ogni
delitto doloso se dal fatto è derivata la morte di una o più persone, ecc).
Il Giudice di pace è competente per determinati reati minori indicati dall’art. 4 del D.Lgs.
274/2000 quali ad esempio percosse, lesioni personali, ingiurie, furti, sottrazioni di cose comuni
ecc.
Il Tribunale (art. 6 cpp) infine, gode di una competenza residuale per tutti gli altri reati.
N.B. Con l’istituzione del giudice unico, al tribunale è devoluta, in linea generale e residuale, la
competenza in primo grado su tutti i procedimenti penali, eccettuati quelli relativi a fattispecie
criminose attribuite alla cognizione della Corte di assise e del giudice di pace, dopo l’entrata in
vigore della riforma.
Il 2 giugno 1999 è divenuto efficace il Decreto legislativo 19 febbraio 1998, n. 51 che ha
riformato l'organizzazione dell'ordinamento giudiziario istituendo la nuova figura del Giudice
Unico di primo grado.
Il decreto ha abolito l'ufficio del Pretore trasferendo le sue competenze al Tribunale ordinario in
materia sia civile che penale, escluso quanto attribuito al Giudice di pace.
Tuttavia la finalità della legge non è quella di abolire la figura del pretore , bensì quella di
razionalizzare il funzionamento del servizio giudiziario mediante il conferimento, anche ad un
singolo magistrato (di tribunale) del potere di decidere una controversia, in alternativa
all’onnipresenza del collegio, consentendo in tal modo di dare risposte più rapide alle domande
di giustizia dei cittadini.
A seguito della legge n. 479 del 1999 e n. 144 del 2000 ( che hanno riformulato l’ art. 33 bis) le
attribuzioni del Tribunale in composizione collegiale (con un numero invariabile di 3
magistrati) e monocratica risultano ripartite nel modo seguente.
Il collegio conosce per i reati per i quali è prevista una pena detentiva superiore nel massimo a
dieci anni ( criterio quantitativo – art. 33 bis, comma 2), oltre ad una serie di fattispecie
nominativamente indicate all’art. 33 bis, comma 1 (criterio qualitativo). In particolare sono
attribuiti alla competenza del Tribunale in composizione collegiale i reati di particolare allarme
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sociale riconducibili all’attività della criminalità organizzata collegati all’attività di riciclaggio e
reimpiego di proventi illeciti, i delitti concernenti le armi, i reati in materia di aborto, i reati
commessi dai pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, i reati di violenza sessuale
ecc. ecc.
Al Tribunale in composizione monocratica (giudice monocratico, che esercita cioè da solo la
giurisdizione) è attribuita la competenza per i reati puniti con pena detentiva fino a dieci anni
nel massimo (art. 33 ter comma 2) nonché i reati di produzione e traffico di stupefacenti di cui
al DPR n. 309 del 1990.
Competenza funzionale
È la ripartizione in base al grado e allo stato del processo , con la quale si assegnano le indagini
preliminari al GIP, l’udienza preliminare al GUP, il primo grado dibattimentale al tribunale o
alla Corte d’assise, il secondo alla corte d’appello e l’ultimo alla corte di cassazione.
Competenza per connessione (art. 12 cpp)
La connessione comporta la transmigrazione di procedimenti separati innanzi ad un unico
giudice. In altre parole, quando vi è connessione un solo giudice è competente a giudicare tutti i
reati connessi; di regola i procedimenti saranno riuniti (art. 17), ma potranno anche svolgersi
separatamente (art. 18). L’art. 12, così come modificato dalla L. 63/2001 (Giusto processo),
prevede due casi di connessione:
a) connessione soggettiva se il reato per cui si procede è stato commesso da più persone in
concorso o cooperazione fra loro, o se più persone con condotte indipendenti hanno
determinato l'evento;
b) connessione oggettiva se una persona è imputata di più reati commessi con una sola
azione od omissione (concorso formale di reati) ovvero con più azioni od omissioni
esecutive di un medesimo disegno criminoso (reato continuato); ovvero se i vari reati
sono finalisticamente collegati, ossia se gli uni sono stati commessi per eseguire od
occultare gli altri o in occasione di questi ovvero per conseguire o assicurare al
colpevole o ad altri il profitto, il prezzo, il prodotto o l’impunità.
L’esistenza di particolari legami tra fatti penalmente rilevanti suggerisce la loro trattazione
unitaria in un medesimo processo. Si verifica allora che uno o più procedimenti secondari
vengano attratti nella sfera di competenza del giudice del procedimento principale (c.d.
12
attraente), con conseguente deroga alla competenza per territorio, per materia o per entrambi i
criteri.
L’art. 13 prevede il caso di connessione di procedimenti di competenza di giudici ordinari e
speciali. In particolare, fra reati comuni e reati militari, la connessione di procedimenti opera
soltanto quando il reato comune è più grave di quello militare: in tale caso, la competenza per
tutti i reati è del giudice ordinario. Nel caso contrario, se cioè il reato militare è più grave di
quello comune, ognuno dei procedimenti continua per la propria strada.
La competenza per materia, consequenziale alla connessione, viene determinata attribuendosi al
giudice di competenza superiore la cognizione di tutti i procedimenti, secondo una scala di
priorità che va dalla Corte di Assise al Tribunale (art. 15).
La competenza per territorio è influenzata dalla connessione nel senso che fra i giudici, tutti
esercitanti la stessa funzione, la cognizione spetta al giudice competente per il reato più grave,
bastando il radicamento territoriale di questo a determinare, per attrazione, anche quello
dell’altro. In caso di pari gravità si guarda al reato commesso per primo (art. 16).
L’art. 14 prevede infine dei limiti alla connessione nel caso di reati commessi da minorenni.
Innanzitutto la connessione non opera fra procedimenti relativi a imputati che al momento del
fatto erano minorenni e procedimenti relativi a imputati maggiorenni. La connessione non
opera, altresì, fra procedimenti per reati commessi quando l'imputato era minorenne e
procedimenti per reati commessi quando era maggiorenne.
I procedimenti relativi a reati commessi da soggetti minorenni restano affidati, in via esclusiva,
al Tribunale per i minori: ciò al fine di valorizzare gli istituti volti al recupero e al reinserimento
sociale del delinquente minorenne.
La riunione di processi (art. 17 cpp)
La riunione di processi pendenti nello stesso stato (indica una fase nell’ambito di un grado di
giudizio: fase dell’u.p., del dibattimento..) e grado (indica lo stadio costituente una delle
possibili articolazioni del processo: giudizio di primo grado, di appello, di cassazione) davanti
al medesimo giudice può essere disposta quando: non pregiudichi la rapida definizione degli
stessi in tutti i casi in cui appare utile ed in particolare nei casi di connessione tra processi,
reciprocità intersoggettiva dei reati, connessione probatoria.
Se alcuni dei processi pendono davanti al tribunale collegiale ed altri davanti al tribunale
monocratico, la riunione è disposta davanti al tribunale in composizione collegiale. Tale
composizione resta ferma anche nel caso di successiva separazione dei processi.
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La riunione non è, quindi, possibile allorché i processi pendono in fasi o gradi diversi o innanzi
a diversi giudici-ufficio.
La separazione di processi
Ai sensi dell’art. 18, la separazione di processi è disposta, salvo che il giudice ritenga la
riunione assolutamente necessaria per l'accertamento dei fatti:
a) se, nell'udienza preliminare, nei confronti di uno o più imputati o per una o più
imputazioni è possibile pervenire prontamente alla decisione, mentre nei confronti di
altri imputati o per altre imputazioni è necessario acquisire ulteriori informazioni a
norma dell'articolo 422;
b) se nei confronti di uno o più imputati o per una o più imputazioni è stata ordinata la
sospensione del procedimento;
c) se uno o più imputati non sono comparsi al dibattimento per nullità dell'atto di citazione
o della sua notificazione, per legittimo impedimento o per mancata conoscenza
incolpevole dell'atto di citazione;
d) se uno o più difensori di imputati non sono comparsi al dibattimento per mancato avviso
ovvero per legittimo impedimento;
e) se nei confronti di uno o più imputati o per una o più imputazioni l'istruzione
dibattimentale risulta conclusa, mentre nei confronti di altri imputati o per altre
imputazioni è necessario il compimento di ulteriori atti che non consentono di pervenire
prontamente alla decisione;
f) se, trattandosi di processo con imputati detenuti per taluni dei quali è prossima la
scadenza dei termini di custodia cautelare, la separazione consenta di trattare
prioritariamente il processo stralcio relativo alle loro posizioni, evitando in tal modo
eventuali scarcerazioni per decorrenza dei termini.
Fuori da questi casi, la separazione può essere altresì disposta, sull'accordo delle parti,
qualora il giudice la ritenga utile ai fini della speditezza del processo.
Conflitti di giurisdizione e di competenza
I conflitti di giurisdizione intervengono tra giudici appartenenti a diversi ordini giudiziari (tra
un giudice ordinario ed un giudice speciale , o tra più giudici speciali); i conflitti di competenza
intervengono tra giudici ordinari.
Il conflitto di competenza intercorre tra giudici ricompresi nel medesimo ordine giudiziario.
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Si ha conflitto positivo quando due o più giudici contemporaneamente prendono cognizione del
medesimo fatto attribuito alla medesima persona. Si ha conflitto negativo quando due o più
giudici contemporaneamente rifiutano di prendere cognizione del medesimo fatto attribuito alla
medesima persona.
Il conflitto può sorgere in ogni stato e grado del processo (art. 28, comma 1).
Il giudice che rileva un caso di conflitto pronuncia ordinanza con la quale rimette alla corte di
cassazione copia degli atti necessari alla sua risoluzione con l’indicazione delle parti e dei
difensori (art. 30, comma 1).
Il conflitto può essere denunciato dal pubblico ministero presso uno dei giudici in conflitto o
dalle parti private (art. 30, comma 2). La denuncia è presentata nella cancelleria di uno dei
giudici in conflitto, con dichiarazione scritta e motivata alla quale è unita la documentazione
necessaria. Il giudice trasmette immediatamente alla corte di cassazione la denuncia e la
documentazione nonché copia degli atti necessari alla risoluzione del conflitto, con
l’indicazione delle parti e dei difensori e con eventuali osservazioni.
L’ordinanza e la denuncia non hanno effetto sospensivo su i procedimenti in corso.
Il difetto di giurisdizione (art. 20 cpp)
Si verifica quando la cognizione sul procedimento spetta ad un ufficio giudiziario appartenente
ad un diverso ordine giudiziario (es.: reato militare giudicato dal giudice penale ordinario).
Il difetto di giurisdizione è rilevato, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento.
L’incompetenza (art. 21 cpp)
Si ha quando il potere decisionale sul procedimento spetti, per ragioni di materia, territorio o
connessione, ad un diverso ufficio giudiziario appartenente al medesimo ordine.
In tema di competenza per materia le norme sono più rigorose quando è eccepita o rilevata
un’incompetenza per difetto, e cioè quando sta procedendo un giudice inferiore il quale, per
definizione, è meno idoneo a giudicare rispetto ad un giudice superiore. Meno rigoroso è il
regime giuridico quando un giudice superiore stia procedendo per un reato di competenza di un
giudice inferiore (art. 23, comma 2). Pertanto se la corte d’assise sta procedendo per un reato di
competenza del tribunale, l’incompetenza per eccesso può essere rilevata anche d’ufficio, ma
non oltre le questioni preliminari prima dell’apertura del dibattimento (art. 491, comma 1).
Per ciò che concerne l’incompetenza per territorio, vale un regime simile a quello
dell’incompetenza per materia, che è eccepibile dalle parti ed è rilevabile dal giudice, fino a
chiusura della discussione finale nell’udienza preliminare. Quando l’udienza medesima non ha
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luogo, l’incompetenza per territorio deve essere eccepita o rilevata nel corso delle questioni
preliminari in dibattimento (art. 21, comma 2).
La declaratoria di incompetenza
La pronuncia del giudice che dichiara l’incompetenza, presenta alcune particolarità.
Nel corso delle indagini preliminari il giudice, se riconosce la propria incompetenza per
qualsiasi causa, pronuncia ordinanza e dispone la restituzione degli atti al pubblico ministero
che in quel momento sta conducendo le indagini; l’ordinanza produce effetti limitatamente al
provvedimento richiesto (art. 22, comma 2) e non impedisce al pubblico ministero di svolgere le
indagini; vi è ancora la possibilità che nuovi elementi di prova dimostrino la fondatezza della
sua asserzione circa la competenza del giudice.
Dopo la chiusura delle indagini preliminari il giudice, se riconosce la propria incompetenza
per qualsiasi causa, la dichiara con sentenza e trasmette gli atti al pubblico ministero presso il
giudice competente (art. 22, comma 3).
La decisione della corte di cassazione sulla giurisdizione o sulla competenza è vincolante nel
corso del processo. La questione può essere riproposta successivamente soltanto nel caso in
cui risultino nuovi fatti dai quali emerga una incompetenza per materia per difetto, di modo
che sarebbe competente un giudice superiore (art. 25).
Nel caso, infine, della competenza per connessione, questa è determinata secondo le regole
stabilite dagli artt. 15 e 16. L’inosservanza di tali regole determina l’incompetenza per
connessione; essa deve essere rilevata o eccepita, a pena di decadenza, entro gli stessi termini
previsti per l’incompetenza per territorio (art. 21, comma 3). È importante sottolineare che
questo regime trova applicazione anche quando la connessione incida sulla competenza per
materia.
Capacità del giudice (art. 33 cpp)
Le condizioni di capacità del giudice e il numero dei giudici necessario per costituire i collegi
sono stabiliti dalle leggi di ordinamento giudiziario (comma 1).
La capacità del giudice è data dall’insieme dei requisiti dai quali dipende l’idoneità a
validamente esercitare la giurisdizione e che siffatti requisiti sono richiesti dall’ordinamento
giudiziario. Tuttavia non si deve confondere il giudice incapace, che è pur sempre una
condizione nella quale versa un giudice, con la posizione di chi non è nemmeno un giudice.
Non lo è, per fare un caso limite, un sedicente magistrato addirittura privo del decreto di
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nomina del Presidente della Repubblica, le cui decisioni non tanto sarebbero invalide quanto
giuridicamente inesistenti.
L’ art. 179 comma 1 stabilisce che: l’inosservanza delle norme riguardanti la capacità e il
numero dei giudici necessari a costituire il collegio dà luogo a nullità assoluta degli atti,
rilevabile quindi anche d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento.
La nullità è una forma patologica dell’atto processuale, determinata dal difetto dei requisiti
previsti dalla legge, ed è tale da renderlo inidoneo a realizzare lo scopo cui è preordinato.
L’inosservanza delle regole sulle diverse composizioni del tribunale
L’ art. 33 comma 3 nega che la ripartizione degli affari penali fra il tribunale collegiale e
monocratico attenga alla capacità del giudice e al numero dei giudici necessario per costituire i
collegi. E il corollario è che dall’inadempienza ai dettati degli artt. 33 bis, 33 ter non consegue
l’invalidità di cui agli artt. 178 e 179.
Nullità assoluta, quindi, se il tribunale siede con due giudici al posto di tre, viceversa da
escludere quando il giudice è uno. Una soluzione niente affatto persuasiva, non comprendendosi
perché mai una collegialità totalmente elusa debba ricevere un trattamento più blando della
sanzione giustamente inflitta per una collegialità elusa soltanto in parte.
L’inosservanza delle attribuzioni può essere per eccesso, qualora il tribunale sia intervenuto in
formazione collegiale al posto della monocratica; oppure per difetto, nell’eventualità contraria e
ovviamente di maggiore consistenza.
Le attribuzioni in eccesso e in difetto vanno rilevate d’ufficio o eccepite entro due precisi
termini a pena di decadenza: prima della conclusione dell’U.P., oppure, se questa manca, con la
trattazione in dibattimento delle questioni preliminari (art. 33 quinquies).
Nell’ambito delle inosservanze per eccesso possono verificarsi due ipotesi. Anzitutto può
accadere che, nell’udienza preliminare, il giudice rilevi che per il reato doveva procedersi con
citazione diretta in giudizio, senza udienza preliminare. In tal caso il giudice deve trasmettere
gli atti al pubblico ministero perché questi emetta il decreto di citazione in giudizio (art. 33
sexies).
La seconda ipotesi è quella in cui il giudice collegiale in dibattimento rilevi che il procedimento
spetti al tribunale monocratico. In tal caso non si ha regressione del procedimento: il collegio
deve trasmettere gli atti al giudice competente per il dibattimento -> “traslatio iudicii davanti al
giudice monocratico” (art. 33 septies, comma 1).
Veniamo adesso alle ipotesi di inosservanza per difetto. In primo luogo può verificarsi la
situazione, inversa a quella appena descritta, e regolata in maniera identica. Se il giudice
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monocratico in dibattimento ritiene che il procedimento spetti al tribunale collegiale deve
trasmettere gli atti al giudice competente per il dibattimento (art. 33 septies, comma 1). L’altra
ipotesi che si può verificare, è che il giudice monocratico, nel dibattimento instaurato a seguito
di citazione diretta, rilevi che si trattava di un reato per il quale è prevista l’udienza
preliminare. In tal caso, vi è una regressione del procedimento: il giudice trasmette gli atti al
pubblico ministero sia ove ritenga che il reato, spetta al tribunale collegiale (art. 33 septies,
comma 1 bis), sia ove ritenga che il reato sia attribuito al tribunale monocratico (art. 550,
comma 3). Il pubblico ministero eserciterà nuovamente l’azione penale.
Una norma di chiusura stabilisce che l’inosservanza delle disposizioni sulla composizione
collegiale o monocratica del tribunale non determina l’invalidità degli atti del procedimento né
l’inutilizzabilità delle prove già acquisite (art. 33 nonies).
Questioni pregiudiziali (art. 2-3 cpp)
Non di rado la soluzione di una questione penale esige la previa soluzione di questioni di diritto
civile o amministrativo, che si pongono allora come veri e propri antecedenti logico-giuridici
della decisione. Sono le c.d. “questioni pregiudiziali”.
Basti pensare ai reati di furto o di inosservanza dei provvedimenti dell’autorità, per affermare
l’esistenza dei quali occorre che la cosa sia di proprietà altrui e che il provvedimento sia
legalmente dato: rispettivamente alla stregua della legge civile e amministrativa.
In questi casi il problema è di vedere chi debba risolvere la questione: se lo stesso giudice
penale investito del giudizio sul reato, oppure il giudice civile o amministrativo.
In linea di principio, e con l’intento di favorire la speditezza dei processi, l’art. 2 impone al
giudice penale di risolvere ogni questione da cui dipende il giudizio, precisando che la
soluzione della questione pregiudiziale è tuttavia operante “incidenter tantum”, vale a dire,
unicamente ai fini della particolare vicenda processuale penale nella quale essa si è presentata,
mentre è priva di efficacia vincolante nel giudizio civile e amministrativo.
Le eccezioni sono rappresentate dalle questioni pregiudiziali attinenti allo stato di famiglia o di
cittadinanza e quelle di particolare complessità (civili o amministrative); ipotesi nelle quali è
consentita la sospensione, peraltro sempre facoltativa, del processo penale.
Il processo può essere sospeso fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce la
questione.
Il processo viene sospeso con ordinanza suscettibile di ricorso per cassazione; ma la
sospensione non impedisce il compimento degli atti urgenti.
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La sentenza irrevocabile del giudice civile che ha deciso una questione sullo stato di famiglia o
di cittadinanza ha efficacia di giudicato nel procedimento penale.
CAP. 4 : IL PUBBLICO MINISTERO
Il pubblico ministero è l’organo affidatario dell’esercizio dell’azione penale (art. 50 cpp: il p.m.
esercita l’azione penale quando non sussistono i presupposti per la richiesta di archiviazione).
Durante le indagini preliminari il P.M. è il soggetto attivo del procedimento – quale titolare
delle indagini stesse – con il compito di raccogliere le informazioni e le conoscenze utili al fine
dell’esercizio dall’azione penale; deve svolgere anche accertamenti su fatti e circostanze a
favore della persona indagata (art. 358).
Nella fase processuale o dibattimentale rappresenta l’accusa trasformandosi da soggetto attivo a
vera e propria parte processuale: perde il ruolo di preminenza e assume una posizione di parità
dialettica con la controparte imputato.
Il pubblico ministero è magistrato addetto alla procura della Repubblica. Le funzioni di P.M.
sono esercitate nelle indagini preliminari e nel giudizio di primo grado, dai magistrati della
procura della Repubblica presso il tribunale; nei giudizi di impugnazione dai magistrati della
procura generale presso la Corte di appello o presso la Corte di Cassazione.
La funzione del P.M. è pubblica e obiettiva: pubblica perché l’importanza degli interessi in
gioco (come ad esempio la libertà personale) richiedono che la funzione di accusa sia affidata
ad un organo pubblico. E questo – appunto – per garantire l’obiettività dell’operato.
Quest’ultima può essere sintetizzata nella formula che il P.M. è un terzo nell’azione allo stesso
modo in cui il giudice è un terzo nella giurisdizione.
Strutturazione del Pubblico Ministero
I vari uffici del pubblico ministero sono strutturati in livelli organizzativi comprendenti:
a) la Procura Generale presso la Corte di Cassazione;
b) le Procure Generali presso le Corti di Appello;
c) le Procure della Repubblica presso i Tribunali ordinari;
d) le Procure della Repubblica presso i Tribunali per i minorenni;
Nei rapporti tra i diversi uffici del P.M. non esiste una relazione di superiorità gerarchica tra
organi, ma una mera sovraordinazione collegata alla progressione del processo al giudizio di
grado successivo.
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La procura è composta di più magistrati: un titolare (o capo) dell’ufficio, che è il procuratore
generale presso la corte di cassazione o d’appello, e il procuratore della repubblica presso il
tribunale; i quali sono affiancati da altri magistrati che chiamano sostituti procuratori.
Negli uffici delle procure della Repubblica presso i tribunali ordinari possono essere istituiti
posti di procuratore aggiunto.
Ai sensi dell’art. 70, comma 3 dell’ordinamento giudiziario “ i titolari degli uffici del pubblico
ministero dirigono l’ufficio cui sono preposti, ne organizzano l’attività ed esercitano
personalmente le funzioni … quando non designano altri magistrati addetti all’ufficio”. In base
a tale norma il titolare dell’ufficio può attribuire un procedimento ad un magistrato ovvero può
esercitare personalmente le funzioni; anche se ormai si riconosce che la sostituzione può
avvenire soltanto per motivi che attengo alla buona amministrazione. Il potere direttivo del
titolare si attenua quando il magistrato si trova in udienza. In tal caso il magistrato del pubblico
ministero esercita le sue funzioni con piena autonomia (art. 53, comma 1). Il capo dell’ufficio
provvede alla sostituzione soltanto su consenso dell’interessato ovvero se il consenso manca, in
caso di grave impedimento o di rilevanti esigenze di servizio. Vi è l’obbligo di provvedere alla
sostituzione se il magistrato ha un interesse privato nel procedimento (art. 53, commi 2 e 3).
In base alla regola esposta nell’art. 51, comma 3, ogni ufficio del pubblico ministero è
competente a svolgere le sue funzioni esclusivamente presso l’organo giudiziario davanti al
quale è costituito. A tale regola sono poste alcune eccezioni che danno vita a singole ipotesi di
rapporti di tipo gerarchico.
Il procuratore generale presso la corte di cassazione svolge una funzione di sorveglianza, nel
senso che ha il potere di iniziare l’azione disciplinare contro un qualsiasi magistrato requirente
(la “funzione requirente” concerne l’attività diretta alla realizzazione della pretesa punitiva
attraverso richieste, requisitorie, al giudice investito del processo) o giudicante; la decisione
spetterà poi al consiglio superiore della magistratura. Lo stesso procuratore generale può essere
chiamato a risolvere un contrasto negativo (si verifica quando il P.M. che trasmette gli atti
all’analogo ufficio, presso il giudice che ritiene competente, e il P.M. che riceve tali atti
declinano la titolarità della funzione inquirente in relazione ad un determinato procedimento) o
positivo (si verifica quando il P.M., che richiede la trasmissione degli atti da analogo ufficio,
che procede su persona e fatto oggetto anche della sua attività d’indagine, e quello che ha
ricevuto la richiesta, rivendicano la titolarità della funzione inquirente in relazione a quel
determinato procedimento) tra uffici del pubblico ministero appartenenti a diversi distretti della
di corte di appello (art. 54 e 54 bis). Il procuratore generale presso la corte di appello sorveglia
20
tutti i magistrati requirenti del distretto. Inoltre in ipotesi tassativamente indicate dalla legge
può avocare le indagini condotte da uno degli uffici inferiori.
Dopo l‘avvio del processo al P.M. sono assegnate numerose altre funzioni: la partecipazione
all’ U.P. (art. 420), la presentazione delle richieste probatorie negli atti preliminari al
dibattimento (art. 468). E, all’interno del dibattimento, tutte le attività che realizzano il
contraddittorio sul versante dell’accusa: dalla discussione sulle questioni preliminari (art. 491)
all’esposizione introduttiva (art. 493) e alla partecipazione all’istruttoria (art. 496 seg.); dalle
eventuali iniziative per modificare l’imputazione (art. 516 seg.) alla discussione finale (art.
523).
Intervenuta la sentenza il P.M. è uno dei soggetti legittimati alle impugnazioni, sia ordinarie
(appello e ricorso per cassazione, art. 570) sia straordinarie (revisione, art. 632); e poi il
compimento di quanto è necessario per l’esecuzione dei provvedimenti (art. 655).
Il P.M. come parte
È parte il soggetto la cui attività consiste nella prospettazione e nello svolgimento di una tesi,
della quale chiede al giudice l’accoglimento nella decisione.
E l’ovvio corollario è che, allorquando l’ordinamento gli riserva situazioni giuridiche tipiche
delle parti, è corretto qualificare parte anche il P.M.
Il P.M. non è mai parte alla stessa maniera dell’imputato e di tutte le altre parti, che sono parti
private in quanto agiscono nel processo in funzione di un proprio personale interesse. È invece
una parte pubblica essendo il suo dovere di vegliare all’osservanza della legge e alla pronta e
regolare amministrazione della giustizia.
La norma trova un significativo svolgimento nell’ art. 358 che impone al P.M. di compiere
accertamenti anche sui fatti e sulle circostanze favorevoli alla persona sottoposta alle indagini.
E di essi il P.M. deve informare il giudice al quale chiede di disporre una misura cautelare
personale (art. 291).
Non essendo un giudice, il P.M. non va soggetto a ricusazione; tuttavia egli ha la facoltà di
astenersi (non il dovere) se lo consigliano gravi ragioni di convenienza (le stesse che potrebbero
far scambiare l’accusa per una persecuzione).
L’ astensione (art. 52) è volta a garantire l’obiettività della funzione, ossia che il P.M. sia
effettivamente terzo nell’azione.
Con il provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione, il magistrato del P.M.
astenuto è sostituito con un altro magistrato del P.M. appartenente al medesimo ufficio.
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Il P.M. che si trovi nelle condizioni d’incompatibilità previste nell’art. 36 lett. a), b), d), e) è
sostituito, indipendentemente dal suo consenso, dal capo dell’ufficio o dal procuratore generale
(art. 53 commi 2 e 3).
Avocazione (art. 51 comma 2)
Un istituto tradizionale nei rapporti tra i vari uffici del P.M. è l’avocazione, vale a dire
l’assunzione motu proprio delle funzioni spettanti alla procura presso il giudice inferiore da
parte della procura presso il giudice superiore.
La disciplina attuale è assai restrittiva rispetto al passato.
Il procuratore generale presso la corte d’appello può decidere di assumere le funzioni
normalmente attribuite ad una procura del distretto nei procedimenti di primo grado (art. 51
comma 2), però limitatamente a 6 evenienze:
a) in conseguenza dell'astensione o della incompatibilità del magistrato designato non è
possibile provvedere alla sua tempestiva sostituzione;
b) il capo dell'ufficio del pubblico ministero ha omesso di provvedere alla tempestiva
sostituzione del magistrato designato per le indagini nei casi previsti di astensione ai
sensi dell'articolo 36 comma 1 lettere a), b), d), e);
c) se le indagini collegate relative a gravi delitti non sono state coordinate dai P.M.
competenti;
d) se non viene richiesta l’archiviazione od il rinvio a giudizio entro il termine di
compimento delle indagini preliminari;
e) se il GIP non accoglie una richiesta di archiviazione;
f) se il Gup, nel corso dell’udienza, rilevando carenze investigative, trasmette gli atti al PM
indicando le ulteriori indagini da svolgere e fissando il termine per la loro esecuzione.
Infine, il Procuratore Nazionale Antimafia può avocare le indagini relative ai delitti c.d. mafiosi
quando esse non siano state coordinate con effettività ed efficienza dai PM competenti.
La direzione nazionale e le direzioni distrettuali antimafia
Per arginare la crescente diffusione dell’attività criminale organizzata, mafiosa e camorristica,
il legislatore ha ritenuto opportuno concentrare in poche mani le indagini preliminari relative a
tali tipi di reati.
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A tal fine ha ampliato la sfera di competenza territoriale delle maggiori Procure della
Repubblica con le disposizioni contenute nel D.L. n. 367/91 che ha modificato l’art. 51 del
codice di rito.
Nel delineare la sfera di attribuzioni della procura distrettuale e della direzione distrettuale
antimafia, il comma 3 bis ha introdotto, limitatamente ai delitti di criminalità organizzata,
tassativamente indicati, una deroga assoluta alle regole sulla competenza per territorio. Ne
consegue che per i reati ivi previsti, in deroga a qualsivoglia altro parametro, la competenza va
attribuita all’ufficio del P.M. ubicato presso il tribunale del capoluogo del distretto nel cui
ambito ha sede il giudice competente. (DISTRETTO-> ambito territoriale regionale in cui opera
la Corte d’Appello).
Lo stesso D.L., modificando l’ordinamento giudiziario, ha previsto che presso ogni Procura
della Repubblica sita nel capoluogo di Corte di Appello, sia costituito uno specifico ufficio
destinato alla cura delle predette indagini e denominato Direzione Distrettuale Antimafia.
Il collegamento e il coordinamento di tutte le direzioni distrettuali antimafia è affidato ad una
Direzione Nazionale Antimafia (o Procura Nazionale Antimafia P.N.A.) costituita nell’ambito
della Procura Generale presso la Corte di Cassazione. Al suo vertice è destinato il Procuratore
Nazionale Antimafia scelto dal C.S.M. tra i magistrati con specifica competenza. Alla D.N.A.
sono assegnati, in qualità di sostituti, magistrati, con qualifica non inferiore a quella di
magistrato di Corte di Appello, anch’essi nominati dal C.S.M.
La concentrazione dell’attività investigativa presso le Direzioni distrettuali è volta ad accrescere
il grado di efficienza, sia per la specializzazione dei magistrati, sia per la conduzione unitaria.
Tutto ciò non evita l’eventualità di contrasto positivi o negativi tra le Procure Distrettuali.
Se il contrasto si verifica tra le due diverse Direzioni Distrettuali è competente a risolverlo il
procuratore generale presso la Cassazione ed al Procuratore Nazionale Antimafia è demandata
una funzione consultiva.
Se, invece, il contrasto insorge all’interno del medesimo distretto è competente il Procuratore
Generale presso la Corte di Appello (art. 54 ter).
La persona sottoposta alle indagini e la persona offesa dal reato, nonché i rispettivi difensori, se
ritengono che il reato appartenga alla competenza di un giudice diverso da quello presso il quale
il P.M. che procede esercita le sue funzioni, possono chiedere la trasmissione degli atti al P.M.
presso il giudice competente enunciando le ragioni a sostegno della indicazione del diverso
giudice ritenuto competente (art. 54 quater).
CAP. 6: L’ IMPUTATO
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Il soggetto passivo del procedimento penale assume una denominazione diversa a seconda che
sia o non sia ancora stata formalizzata l’incriminazione da parte del P.M. (art. 405). Più
precisamente, la qualifica di imputato è quella che si riferisce al soggetto passivo del processo e
quindi dopo che sia stata esercitata l’azione penale. Durante le indagini preliminari può solo
parlarsi di persona sottoposta alle indagini (indagato), ciò a naturale garanzia del principio
Costituzionale richiamato dall’art. 27 Cost..
L’imputazione è composta dalla enunciazione in maniera chiara e precisa del fatto storico di
reato e della indicazione delle norme di legge violate dalla persona alla quale il reato è
addebitato (art. 417). Pertanto è imputato colui contro il quale è formulata una imputazione nel
momento in cui il pubblico ministero, nel procedimento ordinario chiede il rinvio a giudizio. La
qualità di imputato si conserva in ogni stato e grado del processo (art. 60 c.p.).
L’assunzione della qualifica di imputato presuppone tre requisiti:
a) l’identificazione o personalizzazione dell’imputato, essendo inammissibile un
imputazione contro ignoti;
b) l’esistenza in vita, in quanto la morte estingue il reato (la morte del reo anteriore alla
condanna è annoverata tra le cause di estinzione del reato);
c) la capacità processuale (la quale si riporta alla capacità di agire che attiene all’esercizio
delle situazioni giuridiche soggettive), in quanto la dialettica paritaria a base del
processo accusatorio richiede che l’indagato e l’imputato abbiano la capacità di
intendere e di volere onde avvalersi consapevolmente delle garanzie ed esercitare i diritti
di difesa sin dall’inizio del procedimento.
I diritti dell’imputato
La riforma della disciplina della difesa d’ufficio (L. 60/2001), ha previsto che il P.M., a pena di
nullità, deve informare l’indagato del diritto di difesa tecnica (diritto alla nomina di un
difensore d’ufficio o di fiducia, gratuito patrocinio).
Fra i molteplici diritti di cui è titolare l’imputato, occorre ricordare:
- il diritto di rivolgersi direttamente al giudice;
- il diritto alla prova e all’incidente probatorio;
- il diritto a partecipare al processo;
- il diritto a non presenziare all’udienza;
- il diritto a scegliere un rito alternativo;
- il diritto alle impugnazioni;
- il diritto a non rispondere in sede di interrogatorio.
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L’interrogatorio
L’interrogatorio costituisce senza dubbio l’atto più rilevante che coinvolge direttamente
l’imputato o l’indagato. Esso può essere svolto dal giudice, dal P.M. o dalla P.G. su delega del
P.M. L’interrogatorio dell’imputato è sottoposto determinate formalità previste negli artt. 64 e
65 cpp. : in particolare l’imputato deve presentarsi libero e non possono utilizzarsi tecniche che
influenzino la sua libertà di autodeterminazione o alterino la capacità di ricordare e di valutare i
fatti (è precluso l’uso di strumenti quali l’ipnosi, la narcoanalisi, a prescindere dal consenso
della persona).
L’interrogante invita dunque l’interrogato a dichiarare le proprie generalità (sulle quali è
obbligato a dire la verità) dopodichè deve contestare con precisione i fatti e le fonti di prova.
La riforma del giusto processo ha previsto che l’imputato/indagato che riferisca su fatti attinenti
alle accuse che lo riguardino, è qualificabile come imputato; quando invece riferisce fatti
attinenti alla responsabilità penale altrui, riveste la qualifica di testimone. Per tale motivo
l’interrogante, prima che inizi l’interrogatorio deve avvisare l’interrogato che:
a) le dichiarazioni rese potranno sempre essere usate contro di lui;
b) ha la facoltà di non rispondere;
c) in relazione alle dichiarazioni coinvolgenti la responsabilità di altri, assumerà la veste di
testimone.
La norma è volta a garantire una partecipazione libera e cosciente della persona indagata
all’interrogatorio, attraverso il rispetto della sua dignità, della libertà morale, del diritto al
silenzio, della personalità del soggetto nel suo complesso. Tale disposizione contribuisce a
rendere l’interrogatorio, in coerenza con il sistema accusatorio, uno strumento di difesa.
Con la l. 1-3-2001, n. 63 (c.d. “giusto processo”) viene integralmente sostituito il 3^ comma ed
introdotto un ulteriore comma, il 3 bis. In particolare ciò che viene modificato è il regime degli
avvisi che devono essere fatti all’indagato e/o imputato al momento in cui si procede al suo
interrogatorio. L’inosservanza delle disposizioni di cui al comma 3, lett. a), b), rende
inutilizzabili le dichiarazioni rese dalla persona interrogata. In mancanza dell’avvertimento di
cui al comma 3, lett. c), le dichiarazioni eventualmente rese dalla persona interrogata su fatti
che concernono la responsabilità di altri non sono utilizzabili nei loro confronti e la persona
interrogata non potrà assumere l’ufficio di testimone.
Al fine di evitare che le dichiarazioni rese da una persona contro se stessa siano utilizzate
aggirando la formalistica disciplina dell’interrogatorio, è previsto che: le dichiarazioni
comunque rese nel corso del procedimento dall'imputato o dalla persona sottoposta alle
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indagini non possono formare oggetto di testimonianza (art. 62). Inoltre, se davanti all'autorità
giudiziaria o alla p.g. una persona non imputata ovvero una persona non sottoposta alle
indagini rende dichiarazioni in qualità di persona informata dei fatti dalle quali emergono
indizi di reità a suo carico, l'autorità procedente ne interrompe l'esame, avvertendola che a
seguito di tali dichiarazioni potranno essere svolte indagini nei suoi confronti e la invita a
nominare un difensore. Le precedenti dichiarazioni non possono essere utilizzate contro la
persona che le ha rese (art. 63).
La norma è espressione del principio garantista “nemo tenetur se detergere”. Costituisce
un’anticipazione del diritto al silenzio operante in sede di interrogatorio e completa la regola per
cui “nessuno può essere obbligato a deporre” su fatti dai quali potrebbe emergere la propria
responsabilità penale.
CAP. 14: LE NULLITA’
Dettando la disciplina degli atti, il codice ha prefigurato una serie di modelli legislativi degli atti
medesimi, ovvero dei canoni di regolarità ai quali gli operatori devono attenersi (art. 124
stabilisce, infatti, il principio generale dell’obbligo di osservanza delle norme processuali).
Quid iuris per le ipotesi di deviazione da quei modelli, o, in altri termini, per l’inosservanza di
quei canoni?
È ovvio che la diversa rilevanza della violazione della regola comporti, nell’atto che la concreta,
un grado di maggiore o minore irregolarità. Si delinea in tal modo un’ampia gamma di ipotesi e
di situazioni, dalla mera irregolarità, che non compromette la validità dell’atto sul piano
processuale, alle varie forme di invalidità, tradizionalmente designate come nullità, fino
all’inesistenza.
Un principio generale della materia è quello della tassatività, enunciato nell’art. 177 in base al
quale, l’inosservanza delle disposizioni stabilite per gli atti del procedimento è causa di nullità
soltanto nei casi previsti dalla legge.
Il legislatore ha dunque inteso disciplinare il fenomeno delle nullità tendenzialmente entro un
numero chiuso di ipotesi, mentre l’avverbio “soltanto” sta a significare che all’interprete non è
consentita una qualsiasi operazione estensiva o di tipo analogico.
L’unica forma patologica unitariamente ed autonomamente disciplinata è quella delle nullità,
cui legislatore dedica il presente titolo 7^.
La nullità è una forma patologica dell’atto processuale, determinata dal difetto dei requisiti
previsti dalla legge, ed è tale da renderlo inidoneo a realizzare lo scopo cui è preordinato. La
nullità presuppone, dunque, una difformità dell’atto in concreto compiuto, rispetto al paradigma
26
astrattamente delineato dalla fattispecie normativa ed implica una lesione di un bene- interesse
giuridicamente rilevante (es. : diritto di difesa, libertà personale).
Tipologie delle nullità
Le nullità possono dividersi in due grandi categorie:
1. quelle speciali, determinate di volta in volta per casi particolari con previsione specifica
(ad es. : art. 109, comma 3, in tema di lingua degli atti);
2. quelle generali, sono quelle enunciate una tantum, ma con efficacia diffusiva in tutto il
sistema del codice, nel fondamentale art. 178.
È sempre prescritta a pena di nullità l’osservanza delle disposizioni concernenti (art. 178):
a) le condizioni di capacità del giudice e il numero dei giudici necessario per costituire i
collegi stabilito dalle leggi di ordinamento giudiziario;
b) l’iniziativa del P.M. nell’esercizio dell’azione penale e la sua partecipazione al
procedimento;
c) l’intervento, l’assistenza e la rappresentanza dell’imputato e delle altre parti private (a tutela
dell’effettività del diritto di difesa sancito dall’art. 24 Cost. e della regolare instaurazione del
contraddittorio).
In ragione della diversa rilevanza dei beni- interessi sostanziali tutelati con le norme violate, le
nullità si distinguono a loro volta in:
1. nullità assolute, (art. 179): Sono insanabili e sono rilevate di ufficio in ogni stato
e grado del procedimento le nullità previste dall’art. 178 comma 1 lett. a) ; quelle
concernenti l’iniziativa del P.M. nell’esercizio dell’azione penale; e quelle derivanti
dalla omessa citazione dell’imputato o dall’assenza del suo difensore nei casi in cui
ne è obbligatoria la presenza (comma 1).
Inoltre, nel comma 2, l’art. 179 presenta come assolute anche le nullità definite
come tali da specifiche disposizioni di legge;
2. nullità c.d. intermedie (art. 180): (nullità generali non sussumibili nella
previsione dell’art. 179) rilevabili d’ufficio o su istanza della parte che ha subito
danno dalla violazione, purché non vi abbia dato causa; a differenza delle
assolute, sono sanabili, in quanto sono previsti precisi termini per la loro rilevabilità
(le nullità verificatesi durante le indagini preliminari si eccepiscono o si rilevano
prima della sentenza di primo grado; quelle verificatesi durante il giudizio si
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eccepiscono o si rilevano prima della sentenza di grado successivo), trascorsi i quali
vengono appunto sanate.
L’art. 180 indica per differenza le nullità che rientrano in questa categoria; esse sono
le nullità generali che non sono comprese dall’art. 179 fra quelle assolute.
Pertanto costituiscono una nullità a regime intermedio:
- l’inosservanza delle disposizioni attinenti alla partecipazione del P.M. al
procedimento
- e di quelle concernenti l’intervento, l’assistenza e la rappresentanza dell’imputato
e delle parti private
- nonché la citazione in giudizio della persona offesa dal reato e del querelante.
Quindi è affetto da tale vizio sia il provvedimento del giudice che decida senza che
vi sia stata la richiesta del pubblico ministero, quando questa è prevista come
necessaria (ad es. art. 291), sia il compimento di un atto senza previo avviso al
difensore delle parti private, ove questo sia imposto dalla legge (art. 364, comma 3);
3. nullità relative (art. 181): sono definite, dall’art. 181, le nullità diverse da quelle
previste dagli artt. 178 e 179 comma 2. La loro principale caratteristica, correlativa
ad una minor rilevanza delle regole che si assumono violate, è costituita dal fatto
che possono essere accertate e dichiarate solo su eccezione di parte.
Sono quelle che sanzionano vizi di minore gravità, diversi da quelli di ordine
generale codificati dall’art. 178. Si tratta di vizi previsti da norme specifiche. A
differenza delle nullità intermedie e di quelle assolute, le une e le altre di ordine
generale, le nullità relative sono solo di ordine speciale e nascono, quindi, da
tassative previsioni di legge.
Le nullità relative sono :
- rilevabili solo su istanza di parte e non in via officiosa, in quanto destinate a
tutelare un interesse esclusivo di una parte processuale;
- deducibili in un termine assai breve, entro la fase o grado immediatamente
successivo (e cioè fino al provvedimento conclusivo dell’U. P. per ogni vizio
antecedente; fino all’apertura del dibattimento, per vizi successivi alla conclusione
dell’U.P. , attinenti al decreto che dispone il giudizio o agli atti preliminari al
dibattimento; con l’impugnazione della sentenza, per le nullità verificatesi in
giudizio), con decadenza dal potere di rilievo se non tempestivamente esercitato;
- sanabili, nei modi previsti dagli artt. 183 e 184.
28
Le sanatorie delle nullità
A parte le nullità assolute, in linea di principio e per definizione, insanabili, le altre nullità sono
suscettibili, al contrario, di sanatoria.
Sanatoria: l’atto originariamente nullo diviene valido definitivamente, senza possibilità che
l’invalidità possa più essere dedotta.
Il codice delinea 2 ordini di sanatorie: sanatorie generali e speciali.
Le disciplina delle sanatorie “generali” è contenuta nell’art. 183:
Le nullità sono sanate:
- se la parte interessata ha rinunciato espressamente ad eccepirle ovvero ha accettato gli effetti
dell’atto nullo;
- se la parte si è avvalsa della facoltà al cui esercizio l’atto omesso o nullo è preordinato (per
tale ipotesi è giusto parlare di sanatoria per raggiungimento dello scopo, in considerazione del
fatto che l’atto, ancorché invalido, ha ugualmente espletato la sua funzione).
L’art. 184 delinea altre ipotesi particolari di sanatoria che, per la loro specificità, possiamo
definire “speciali”.
Si tratta delle sanatorie di nullità relative alle citazioni e agli avvisi, ovvero alle relative
comunicazioni o notificazioni : tali nullità sono sanate se la parte interessata è comparsa o ha
rinunciato a comparire (comma 1).
La parte la quale dichiari che la comparizione è determinata dal solo intento di far rilevare
l’irregolarità ha diritto a un termine (dilatorio) per la difesa non inferiore a 5 gg. (comma 2).
Quando la nullità riguarda la citazione a comparire al dibattimento, il termine non può essere
inferiore a 20 gg. (comma 3).
Effetti della dichiarazione di nullità
La nullità di un atto rende invalidi gli atti consecutivi che dipendono da quello dichiarato nullo
(art. 185, comma 1).
La dichiarazione di nullità comporta:
- che il giudice che dichiara la nullità di un atto ne dispone la rinnovazione (cioè la ripetizione
in forma non viziata) qualora sia necessaria e possibile;
- che il procedimento regredisca allo stato o al grado in cui è stato compiuto l’atto nullo
(comma 2).
La disposizione del comma 3 non si applica alle nullità concernenti le prove (comma 4).
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L’ irregolarità
L’irregolarità è qualsiasi vizio formale dell’atto non sanzionato dalla legge con la nullità.
Quando si verifichi, il giudice deve provvedere alla sua eliminazione, eventualmente facendo
ricorso alla correzione degli errori materiali.
Si tenga presente che ai sensi dell’art. 124 cpp. : I magistrati, i cancellieri e gli altri ausiliari
del giudice, gli ufficiali giudiziari, gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria sono tenuti a
osservare le norme processuali anche quando l'inosservanza non importa nullità o altra
sanzione processuale (comma 1).
I dirigenti degli uffici vigilano sull'osservanza delle norme anche ai fini della responsabilità
disciplinare (comma 2).
L’inesistenza
La dottrina e la giurisprudenza hanno creato una ulteriore figura di invalidità denominata
inesistenza. L’inesistenza è l’impossibilità di qualificare un atto come giuridico o per la
mancanza o per la incompletezza di requisiti minimi tale che per l’ordinamento, l’atto non viene
a giuridica esistenza ed è quindi irrilevante (ad esempio: una sentenza emessa da un soggetto
diverso dal giudice).
Il provvedimento abnorme
Tale vizio non è espressamente codificato ma frutto di elaborazioni dottrinali. Si considera
abnorme l’atto che per la singolarità e stranezza del contenuto, risulti avulso dall’intero
ordinamento processuale nonché quello che, pur essendo in astratto manifestazione di legittimo
potere, si esplichi al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste, al di là di ogni
ragionevole limite.
A titolo di esempio è stato classificato abnorme la sentenza di incompetenza del GIP a fronte di
una richiesta di archiviazione; il provvedimento del GUP che, investito della richiesta di rinvio
a giudizio, abbia invece disposto l’archiviazione ai sensi dell’art. 415 cpp.
Avverso tali provvedimenti è esperibile il ricorso per cassazione.
CAP. 15: LE PROVE
Il procedimento di formazione della prova è costituito da 4 momenti:
- ricerca;
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- individuazione;
- acquisizione della prova (-> momenti che riguardano l’accertamento della verità materiale);
- valutazione della prova (-> momento che più attiene al convincimento del giudice).
La prova va, dunque, prima ricercata per essere posta a fondamento della valutazione del
giudice; va poi individuata attraverso un’attività d’indagine; una volta individuata, va acquisita
al processo, va cioè assunta previa ammissione e, infine, va valutata.
In passato, questi 4 momenti erano riservati tutti alla disponibilità del giudice e del p.m.
La novità di maggior rilievo nel vigente codice è stata quella di aver separato i “momenti del
procedimento probatorio”, lasciando al giudice solo il momento conclusivo della valutazione
della prova e suppure limitatamente, il momento dell’ammissione della prova. Per il resto, sono
le parti che ricercano e individuano la prova e la producono nel libero contraddittorio fra loro: il
p.m. da una parte e l’imputato dall’altra. (N.B. : il p.m., nel sistema processuale del 1988, non è
l’accusatore a tutti i costi, in quanto l’art. 358 gli attribuisce il potere- dovere di svolgere anche
accertamenti su fatti o circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini).
Ma il legislatore del 1988, non solo ha voluto togliere al giudice quell’attività di indagine che è
riservata alle parti, ma ha anche dettato alcune regole legali per la valutazione della prova, così
limitando ancora di più il libero convincimento.
Una prima distinzione è quella fra prova e indizio: la prova è tendenzialmente caratterizzata
dalla certezza e l’indizio no.
L’indizio è costituito, invece, da quel fatto ignoto, che può indirettamente ricavarsi da un fatto
noto (così, ad es. , la presenza di una persona sul luogo del delitto o nelle vicinanze può essere
un elemento dal quale può dedursi la sua compartecipazione al fatto delittuoso, ma non è
certamente prova della commissione del fatto).
Abolizione del principio di tassatività dei mezzi di prova
In passato si parlava di “tassatività dei mezzi di prova” (assumevano rilievo soltanto quelle
prove che erano espressamente previste dal legislatore).
Questo principio di tassatività è stato ridimensionato rispetto al passato, in quanto l’art. 189
stabilisce che: quando è richiesta una prova non disciplinata dalla legge, il giudice può
assumerla se essa risulta idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti e non pregiudica la
libertà morale della persona.
Questa norma è finalizzata a stabilire i confini oggettivi dell’esercizio del diritto alla prova: non
ogni conoscenza può essere oggetto di prova, ma solo quelle utili all’accertamento del fatto ed
alle ulteriori questioni connesse.
31
Tradizionalmente si parla anche di massime di esperienza e di fatti notori.
Le massime di esperienza sono quelle che rientrano nella conoscenza di una determinata
società: ad esempio, i dati dell’esperienza comune, le regole matematiche o i principi scientifici.
I fatti notori sono gli avvenimenti di una certa risonanza che, proprio per questo, appaiono noti
alla generalità delle persone: ad esempio, un terremoto o altro eccezionale evento naturale.
Il vigente sistema probatorio, abbandonando la distinzione tra prova generica (che atteneva
all’accertamento del fatto sotto il profilo oggettivo) e prova specifica (tesa ad individuare
l’autore del fatto e quindi il profilo soggettivo dell’indagine), distingue solo tra “mezzi di
prova” e “mezzi di ricerca della prova”.
I mezzi di prova sono le forme attraverso le quali la prova viene ad esistenza (ad es. : la
testimonianza, la ricognizione, il confronto).
I mezzi di ricerca della prova sono quelli tramite i quali la prova si acquisisce: la ispezione, la
perquisizione, i sequestri e le intercettazioni telefoniche.
I mezzi di ricerca della prova hanno ovviamente un valore inferiore rispetto ai mezzi di prova,
perché non costituiscono essi stessi una prova (infatti, non è la perquisizione come tale che
fornisce la prova, ma l’oggetto materiale che viene rinvenuto ed acquisito attraverso la
perquisizione ).
Oggetto della prova
Il codice del 1988 stabilisce, all’art. 187 che: sono oggetto di prova i fatti che si riferiscono
all’imputazione, alla punibilità e alla determinazione della pena o della misura di sicurezza.
Sono i 3 profili dei quali si deve tenere conto nell’indagine probatoria:
1. accertare se il fatto storico trasfuso nell’imputazione è accaduto e quale qualificazione
giuridica deve assumere (profilo oggettivo);
2. individuare la responsabilità di un soggetto e la sua imputabilità (profilo soggettivo);
3. accertare e determinare la misura della pena e l’applicazione di misura di sicurezza (profilo
quantitativo).
Sono altresì oggetto di prova i fatti dai quali dipende l’applicazione di norme processuali (ad es.
: si pensi alla prova che occorre fornire per l’esistenza di un caso fortuito o di una forza
maggiore, che ha impedito il rispetto di un termine perentorio, al fine di essere restituiti in
termini) (comma 2).
Se vi è costituzione di parte civile, sono inoltre oggetto di prova i fatti inerenti alla
responsabilità civile derivante dal reato (comma 3).
32
Diritto alla prova
Art. 190 : la norma fissa una delle regole fondamentali del nuovo processo: il diritto alla prova
come diritto riservato alle parti e non più demandato al giudice; le prove sono ammesse a
richiesta di parte.
Al giudice è riservato soltanto il momento decisionale, prima di ammissione e successivamente
di valutazione della prova. E’ infatti il giudice che, di fronte alla richiesta delle parti, deve
provvedere senza ritardo, con ordinanza, ad ammettere le prove, escludendo quelle contra
legem (vietate dalla legge) o manifestamente superflue o manifestamente irrilevanti (che non
vertono sui fatti oggetto della prova per i quali si procede).
La legge stabilisce i casi in cui le prove sono ammesse d’ufficio (cioè senza iniziativa di parte).
L’ammissione d’ufficio costituisce l’eccezione, limitata ai casi e modi espressamente previsti
dalla legge.
Una volta ammessa, a seguito di domanda di parte, la prova deve essere assunta secondo le
modalità previste dalla legge.
L’inutilizzabilità delle prove
Il legislatore del 1988 ha introdotto la nuova figura processuale della inutilizzabilità che attiene
ai vizi del procedimento di ammissione e di acquisizione della prova.
L’art. 188 vieta, in sede di assunzione della prova, l’utilizzo di metodi o tecniche idonei a
influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i
fatti (sono illecite, dunque, le testimonianze sotto ipnosi, la somministrazione di sostanze di
vario tipo in grado di attenuare i riflessi, le macchine della verità).
Il libero convincimento del giudice come regola di giudizio
Il sistema processuale del 1988 si ispira al “principio del libero convincimento del giudice”,
che è libero di valutare la prova, avvalendosi della discrezionalità che il legislatore gli
attribuisce.
Pur tuttavia, non si può disconoscere che il principio del libero convincimento, se non applicato
correttamente, può facilmente sconfinare nell’arbitrio: se è vero, infatti, che per evitare lo
sconfinamento, vi è l’obbligo per il giudice di motivare la sua decisione, rendendo così conto
alle parti delle ragioni adottate, non sempre la motivazione, pure obbligatoria, appare da sola
sufficiente a rendere logica e giuridicamente corretta la valutazione della prova (l’art. 111
comma 6 Cost. stabilisce il principio dell’obbligo della motivazione dei provvedimenti
giurisdizionali).
33
Il principio dell’art. 111 comma 6 Cost. serve anche a coordinare gli altri principi processuali
fissati nella Costituzione: anzitutto l’esercizio del diritto di difesa (art. 24 comma 2 Cost.) che
non sarebbe garantito se non vi fosse l’obbligo della motivazione dei provvedimenti
giurisdizionali.
Altrettanto dicasi per il principio della indipendenza e della imparzialità del giudice (art. 101
comma 2 Cost.): solo la motivazione del provvedimento garantisce il giudice da sospetti di
parzialità perché, manifestando le ragioni della decisione adottata, rende conto del giudizio
espresso.
Il principio del libero convincimento del giudice si contrappone al “sistema delle prove legali”,
in base al quale il legislatore fissa rigorosi parametri valutativi nella legge, ai quali il giudice
deve necessariamente attenersi e dai quali non può assolutamente prescindere nel momento di
valutazione della prova.
La valutazione della prova
L’art. 192 è un’altra rilevante novità del codice del 1988 in quanto introduce le regole legali
limitatrici del libero convincimento del giudice.
Il legislatore ha codificato i parametri attraverso i quali il giudice deve valutare la prova; essi
sono:
- l’obbligo della motivazione;
- la valutazione degli indizi;
- la valutazione della chiamata in correità.
Secondo l’art. 192 il giudice valuta la prova dando conto, nella motivazione, dei risultati
acquisiti e dei criteri adottati (metodo usato per valutare le prove).
Il rigore della legge è indiscutibile: non è valida una motivazione implicita, una motivazione
apparente, una motivazione illogica o contraddittoria.
L’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e
concordanti (comma 2).
In definitiva, gli indizi acquistano valenza probatoria solo se hanno una particolare rilevanza
processuale, così da non poter essere sottovalutati (gravità), se fanno riferimento a circostanze
bene determinate, quando risultano non generici (precisione) e se sono caratterizzati da una
univocità di elementi fra loro non contrastanti che confluiscono verso una ricostruzione unitaria
del fatto cui si riferiscono (concordanza).
La prova dell’esistenza di un fatto deve essere riconducibile ad una pluralità di indizi (prova
indiziaria) giacchè quel che rileva, ai fini della ricostruzione del fatto, è che il quadro indiziario
34
abbia una valenza dimostrativa pregnante ed univoca, sì da far ritenere inconfutabilmente
provato, da un punto di vista logico, il fatto.
Quanto alla chiamata in correità essa consiste nella confessione giudiziale da parte di un
imputato della commissione di un fatto con la contemporanea accusa rivolta nei confronti di un
altro imputato.
Il legislatore ha stabilito espressamente, nell’art. 192 comma 3, che le dichiarazioni rese dal
coimputato del medesimo reato o da persona imputata in procedimento connesso sono valutate
unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità.
Con la dizione normativa usata, l’art. 192 comma 3, vuole soltanto indicare la volontà del
legislatore di evitare che la chiamata in correità possa essere valutata da sola, potendo essa
invece incidere sul convincimento del giudice soltanto se valutata insieme ad altri elementi di
prova, che diano riscontro alla veridicità della chiamata.
CAP. 16: I MEZZI DI PROVA
I mezzi di prova sono gli strumenti (o istituti) processuali attraverso i quali si acquisisce,
innanzi al giudice, la prova.
Il codice elenca i seguenti mezzi di prova tipici :
- testimonianza;
- esame delle parti;
- confronti;
- ricognizioni;
- esperimenti giudiziali;
- perizia;
- documenti.
Il codice non impone la tassatività dei mezzi di prova; al contrario consente che possano essere
assunte prove atipiche, e cioè non regolamentate dalla legge. Tuttavia è possibile ammettere una
prova atipica soltanto se questa è idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti e non pregiudica
la libertà morale della persona (in base all’art. 189 la prova atipica può essere ammessa se
presenta due requisiti: in primo luogo deve essere idonea ad assicurare l’accertamento dei
fatti; in secondo luogo deve assicurare la libertà morale della persona – fonte di prova).
La testimonianza
L’ art. 196 afferma che: ogni persona ha la capacità di testimoniare (comma 1).
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Qualora, al fine di valutare le dichiarazioni del testimone, sia necessario verificarne l’idoneità
fisica o mentale a rendere testimonianza, il giudice anche d’ufficio può ordinare gli
accertamenti opportuni con i mezzi consentiti dalla legge (comma 2).
L’art. 196 non pone limiti alla capacità di testimoniare (= l’idoneità a ricoprire l’ufficio di
testimone): nessun limite pregiudiziale discende dall’età, dalla nazionalità, dal sesso, dalle
condizioni personali e sociali (ad es. : anche il minore può testimoniare).
Quello della testimonianza è senza dubbio un dovere che è sancito penalmente in quanto il
testimone renitente, falso o reticente è passabile di una sanzione a norma dell’art. 372 c.p. il
quale punisce appunto il testimone che si rifiuti di deporre o non manifesti il vero o dichiari il
falso.
Il dovere di testimoniare è però cosa diversa dalla capacità a testimoniare.
Per la seconda non vi è limite alcuno; vi sono, invece, limiti al dovere di testimoniare, sia sotto
il profilo oggettivo che sotto il profilo soggettivo.
Limiti oggettivi e soggettivi della testimonianza
Sotto il profilo oggettivo, vale innanzi tutto la norma generale di cui all’art. 187 in ordine
all’oggetto della prova(visto che la norma costituisce limite generale per ogni prova e quindi
anche per la testimonianza; art. 187: sono oggetto di prova i fatti che si riferiscono
all’imputazione, alla punibilità e alla determinazione della pena o della misura di sicurezza).
È poi rafforzativo l’art. 194 comma 1: il testimone è esaminato sui fatti che costituiscono
oggetto di prova; non può deporre sulla moralità dell’imputato, salvo che si tratti di fatti
specifici, idonei a qualificarne la personalità in relazione al reato e alla pericolosità sociale.
Il testimone può essere esaminato solo su fatti specifici ben determinati. Non può mai essere
chiamato a deporre sulle voci correnti nel pubblico, né esprimere apprezzamenti personali o
valutazioni.
È proprio su quest’ultimo punto che si fa la tradizionale distinzione fra il testimone ed il perito,
sottolineando che, mentre il testimone riferisce, il perito valuta. Il testimone deve solo riferire i
fatti che sono a sua conoscenza, contrariamente al perito che, invece, esprime una valutazione
sui fatti stessi.
Sotto il profilo soggettivo, si distingue 2 tipi di limiti:
- limiti soggettivi per incompatibilità a testimoniare;
- limiti soggettivi per facoltà di astensione.
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- L’incompatibilità a testimoniare è prevista per tutti quei casi in cui un soggetto si venga a
trovare in una posizione di contrasto rispetto ad altra posizione processuale o ad altra funzione
processuale già assunta in precedenza nel medesimo processo.
Non possono essere assunti come testimoni:
- i coimputati del medesimo reato o le persone imputate in un procedimento connesso, salvo che
nei loro confronti sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna;
- il responsabile civile e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria;
- coloro che nel medesimo procedimento svolgono o hanno svolto la funzione di giudice, di
p.m. o di loro ausiliario;
- il difensore che abbia svolto attività di investigazione difensiva;
- coloro che hanno formato la documentazione delle dichiarazioni e delle informazioni assunte.
- La seconda ipotesi di limite soggettivo attiene alla facoltà di astensione, per la quale il dovere
di testimoniare viene affievolito dalla facoltà, riservata a determinati soggetti, di testimoniare o
di astenersi dal farlo.
I casi di astensione si possono così suddividere:
1) per segreto familiare;
2) per segreto professionale;
3) per segreto d’ufficio.
1) La ratio della facoltà di astensione per segreto familiare consiste nella tutela del sentimento
familiare: la norma è dettata al fine di evitare che il chiamato a testimoniare si trovi nella
penosa alternativa di mentire (così rendendosi responsabile di falsa testimonianza) o di nuocere
al congiunto.
La facoltà di astensione per segreto familiare è riservata a tutti i prossimi congiunti
dell’imputato che non sono obbligati a deporre (a loro la scelta se testimoniare o avvalersi del
silenzio), salvo che non siano essi stessi denuncianti, querelanti o offesi dal reato.
È stata estesa la facoltà in questione anche ai soggetti che, seppure non prossimi congiunti,
siano legati all’imputato da un vincolo di adozione e anche alle ipotesi di convivenza di fatto
con l’imputato stesso.
Sono parimenti parificati ai prossimi congiunti: il coniuge separato e il coniuge che ha visto
annullati gli effetti civili del matrimonio a seguito di annullamento o di divorzio.
2) Altra ipotesi di astensione è quella per segreto professionale, ex art. 200.
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È data facoltà di astensione, affievolendosi così l’obbligo di testimoniare, nei confronti di
quelle persone che sono venute a conoscenza di determinati fatti a ragione del proprio
ministero, del proprio ufficio o della propria professione.
Se i fatti sono stati conosciuti a causa dell’attività svolta da queste persone professionalmente,
queste persone hanno facoltà di astenersi limitatamente a qui fatti.
Non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio
ministero, ufficio o professione:
- i ministri di confessioni religiose, i cui statuti non contrastino con l’ordinamento giuridico
italiano;
- gli avvocati, gli investigatori privati autorizzati, i consulenti tecnici e i notai;
- i medici e i chirurghi, i farmacisti, le ostetriche e ogni altro esercente una professione
sanitaria;
- i giornalisti professionisti iscritti nell’albo professionale, relativamente ai nomi delle persone
dalle quali i medesimi hanno avuto notizie di carattere fiduciario nell’esercizio della loro
professione (quindi, il segreto è limitato ai nomi delle persone dalle quali i giornalisti hanno
avuto la notizia, i c.d. “informatori”; su tali nomi il giornalista professionista non può essere
obbligato a deporre).
Tuttavia, se le notizie sono indispensabili ai fini della prova del reato per cui si procede e la
loro veridicità può essere accertata solo attraverso l’identificazione della fonte della notizia, il
giudice ordina al giornalista di indicare la fonte delle sue informazioni (art. 200, comma 3).
3) Infine, ultima ipotesi di astensione è quella per segreto di ufficio, nella quale possiamo anche
comprendere il segreto di Stato.
L’art. 201 stabilisce che: salvi i casi in cui hanno l’obbligo di riferirne all’autorità giudiziaria,
i pubblici ufficiali, i pubblici impiegati e gli incaricati di un pubblico servizio hanno l’obbligo
di astenersi dal deporre su fatti conosciuti per ragioni del loro ufficio che devono rimanere
segreti.
Nell’ambito del segreto d’ufficio appare di particolare rilevanza il segreto si Stato.
L’art. 202 stabilisce che: i pubblici ufficiali, i pubblici impiegati e gli incaricati di un pubblico
servizio hanno l’obbligo di astenersi dal deporre su fatti coperti dal segreto si Stato (comma 1).
Se il testimone oppone un segreto di Stato, il giudice ne informa il Presidente del Consiglio dei
Ministri, cui spetta la responsabilità della sicurezza dello Stato, chiedendo a lui conferma
dell’esistenza del segreto.
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Qualora il segreto sia confermato e la prova sia essenziale per la definizione del processo, il
giudice (= Procuratore della Repubblica) dichiara non doversi procedere per la esistenza di un
segreto di Stato (commi 2, 3).
Qualora però il Presidente del Consiglio, entro 60 gg. dalla richiesta, non risponda o
comunque non dia conferma del segreto, il giudice ordina che il testimone deponga, ed in tal
caso non è più consentito opporre il segreto (comma 4).
La testimonianza indiretta
La testimonianza indiretta o de relato è la testimonianza della persona che riferisce fatti non
visti o uditi personalmente, ma visti o uditi da un’altra persona, dalla quale poi il testimone ha
appreso i fatti stessi.
I codice stabilisce che una testimonianza di tal genere non è utilizzabile se non quando venga
esaminata la persona che ha direttamente avuto la percezione dei fatti.
Quando il testimone si riferisce, per la conoscenza dei fatti, ad altre persone, il giudice, a
richiesta di parte (o anche d’ufficio, ove ritenuto necessario), deve disporre che esse siano
chiamate a deporre (art. 195 commi 1, 2).
La valutazione della prova, come in ogni altra ipotesi, è affidata al prudente apprezzamento del
giudice, il quale è tenuto al dovere di una particolare attenzione nell’eventualità che le
deposizioni non coincidano.
Con la riforma introdotta dal Giusto processo il legislatore ripristina un comma, il 4, dell’art.
195 che era stato dichiarato incostituzionale dalla Consulta; si è evidenziato come fosse
necessario per il legislatore ripristinare il divieto, per la p.g. , di deporre sul contenuto delle
dichiarazioni acquisite da testimoni.
L’art. 195 comma 7 regola l’ipotesi dei c.d. “informatori di polizia” : quei soggetti cioè che
riferiscono alla polizia fatti sulla base dei quali la polizia stessa può svolgere particolari
indagini. La p.g. ha la facoltà di non rivelare il nome della persona dalla quale ha ricevuto la
confidenza, ma in tal caso non può essere utilizzata la testimonianza di chi si rifiuta di indicare
tale nome.
Comunque resta fermo, per il giudice, il divieto rafforzato dall’art. 203 di obbligare gli agenti
della p.g. o il personale dei servizi di sicurezza, a rivelare i nomi degli informatori, con la
conseguenza che, se questi non sono esaminati come testimoni, le informazioni da essi fornite
non possono essere acquisite né utilizzate.
L’esame delle parti
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L’istituto è di nuova formulazione; l’art. 208 prevede che: nel dibattimento, l’ imputato, la
parte civile (che non debba essere esaminata come testimone), il responsabile civile e il
civilmente obbligato per la pena pecuniaria sono esaminati se ne fanno richiesta o vi
acconsentano.
A differenza della testimonianza che per il teste è attività doverosa, l’esame delle parti è un
mezzo di prova che si assume su base volontaria: la parte privata non può essere sottoposta ad
esame se non ne fa richiesta o non vi consente.
La parte civile può sia essere indicata come testimone, sia chiedere (o essere richiesta) di
sottoporsi ad esame.
L’esame della persona imputata in procedimento connesso: si tratta dell’esame del c.d. imputato
– testimone, e cioè del soggetto in parte da considerarsi imputato (perché ha assunto tale status
in altro procedimento) e in parte testimone (perché assume tale funzione in relazione ai fatti per
i quali si procede).
Nel dibattimento, le persone imputate in un procedimento connesso sono introdotte nel
processo secondo il rito proprio della prova testimoniale (art. 198, obblighi del testimone) :
vengono citati e hanno l’obbligo di presentarsi al giudice il quale, in caso di inottemperanza,
può ottenerne, con l’assistenza della forza pubblica, la presenza in dibattimento.
Diversamente dal testimone, l’imputato di reato connesso non ha l’obbligo di rispondere
secondo verità, né è tenuto a prestare il relativo impegno; viene esaminato con l’assistenza di
un difensore ed ha, inoltre, la facoltà di non rispondere (art. 210).
Il confronto
Il confronto è ammesso esclusivamente fra persone già esaminate o interrogate, quando vi è
disaccordo fra esse su fatti e circostanze importanti (art. 211).
Perchè si proceda ad un confronto è necessario, cioè, che alcune testimonianze o alcuni
interrogatori siano contrastanti fra loro, onde sorge la necessità di verificare quale delle versioni
date sia corrispondente a verità.
Il confronto potrà dunque riguardare sia 2 o più imputati, sia 2 o più testimoni e sia imputati e
testimoni.
Prima di iniziare il confronto, il giudice chiede al testimone o all’imputato se conferma o no la
versione precedente e solo quando, dopo le eventuali conferme, il contrasto fra le diverse
dichiarazioni persiste, si procederà al confronto.
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Esso si sostanzia nelle domande che il giudice rivolge ai soggetti della prova per verificare,
attraverso la conferma o la ritrattazione o la modifica delle dichiarazioni, quale delle versioni
rese possa essere ritenuta come la più attendibile.
Il confronto potrà avere esito positivo, se è servito a risolvere il contrasto, ovvero esito
negativo, se i soggetti sono rimasti fermi nelle rispettive posizioni (art. 212).
La ricognizione
Mentre il confronto ha lo scopo di verificare quale di due o più dichiarazioni rese sia quella
veritiera, o comunque la più attendibile, la ricognizione serve al riconoscimento di una persona
(ricognizione personale) o di una cosa (ricognizione reale).
Ciò significa che, quando sorgono dubbi in ordine alla individuazione di una determinata
persona o di una determinata cosa, il giudice può procedere a questo mezzo di prova.
Il giudice deve invitare, in primo luogo, il soggetto che dovrà procedere alla ricognizione a
fornire una descrizione dei tratti somatici della persona o delle caratteristiche fisiche della
cosa.
Quindi, viene chiesto al soggetto che deve eseguire la ricognizione:
- se sia già stato in precedenza chiamato ad eseguire un riconoscimento della medesima
persona;
- se abbia già, prima o dopo il fatto per cui si procede, visto (anche riprodotta in fotografia o
su videotape, disegno o pittura) la persona da riconoscere;
- se la persona da riconoscere gli sia stata indicata o descritta;
- se vi siano altre circostanze che possano influire sull’attendibilità del riconoscimento (art.
213).
Allontanato colui che deve eseguire la ricognizione, il giudice procura la presenza di almeno 2
persone il più possibile somiglianti, anche nell’abbigliamento, a quella sottoposta a
ricognizione.
La persona da riconoscere, in genere, viene posta in una stanza in condizioni tali da essere vista
dal testimone, ma da non vederlo, con l’utilizzo di particolari accorgimenti all’uopo predisposti.
Anche la ricognizione, ovviamente, può concludersi in modo positivo o negativo.
Ove l’esito sia positivo, il riconoscimento può essere certo (quando la persona si dice sicura di
aver individuato la persona da riconoscere) o dubbioso (se manchi tale sicurezza): tutto ciò
contribuisce a formare il convincimento del giudice (art. 214).
Quando occorre procedere alla ricognizione di cose (ricognizione del corpo del reato o di altre
cose pertinenti al reato), il giudice procede ex art. 213.
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Procurati almeno 2 oggetti simili a quello da riconoscere, il giudice chiede alla persona
chiamata alla ricognizione se riconosca taluno tra essi e, in caso affermativo, la invita a
dichiarare quale abbia riconosciuto e a precisare se ne sia certa (art. 215).
La novità del codice del 1988 in ordine alla ricognizione sta nel fatto che, oltre alla ricognizione
personale (di persone) e reale (di cose), l’art. 216 prevede la possibilità di una ricognizione di
suoni, voci o quant’altro possa essere oggetto di percezione sensoriale, con le stesse modalità
delle citate ricognizioni.
L’esperimento giudiziale
È la riproduzione di un fatto per verificare se sia potuto accadere in un determinato modo (art.
218).
In altre parole, si ripercorre l’iter fondamentale dell’episodio per vedere se esso si è potuto
verificare nei termini con cui è stato descritto da determinate persone (ad es. : si pensi ad un
imputato che come alibi abbia dichiarato di trovarsi nel punto A 5 minuti prima che il delitto si
verificasse nel punto B; per verificare la fondatezza dell’alibi si simuleranno le situazioni di
luogo e di tempo: densità del traffico, condizioni atmosferiche…).
L’esperimento giudiziale è disposto con ordinanza, che dovrà indicarne l’oggetto, nonché il
tempo e il luogo ove si procederà alle operazioni (art. 219).
È possibile che al fine di valutare i risultati dell’esperimento o al fine di una corretta
impostazione dell’esperienza simulata, si profili utile la presenza di un esperto.
La riproduzione dinamica di determinati eventi richiede l’utilizzo di strumenti di tipo
meccanico, quali apparecchiature fotografiche, cinematografiche e simili (comma 2).
L’esperimento non può svolgersi in modo da offendere la coscienza sociale o da esporre a
pericolo l’incolumità delle persone e la sicurezza pubblica (comma 4).
La perizia
Ai sensi dell’art. 220 la perizia è ammessa quando occorre svolgere indagini o acquisire dati o
valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche.
L’art. 221 richiede che il perito sia sempre scelto tra gli “iscritti negli appositi albi”, ovvero
tra persone fornite di particolare competenza nella specifica disciplina.
La perizia è ammessa non solo su istanza della parte, ma anche ex officio, dal giudice.
È dunque una di quelle prove che, eccezionalmente, non hanno bisogno dell’impulso di parte
(art. 190 comma 2); è disposta dal giudice con ordinanza motivata, contenente:
- la nomina del perito;
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- la sommaria enunciazione dell’oggetto delle indagini;
- l’indicazione del giorno, dell’ora e del luogo fissati per la comparizione del perito (art. 224).
Anche per la perizia vi sono limiti oggettivi e soggettivi.
I limiti oggettivi sono fissati nell’art. 220, ove è detto che la perizia è ammessa quando occorre
svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche,
scientifiche o artistiche.
Non è ammesso disporre un’indagine peritale avente ad oggetto le qualità psichiche
dell’imputato indipendenti da cause patologiche (art. 220 comma 2).
Nel nuovo codice, la perizia criminologia (che permette di conoscere la personalità
dell’imputato, le cause che l’hanno determinato a delinquere, le condizioni di vita, ambientale,
familiare e sociale) non ha trovato spazio; vi è anzi un esplicito divieto nell’art. 220 comma 2.
La perizia criminologia è stata prevista solo nell’ambito del processo minorile.
Il perito ha l’obbligo:
- di prestare il suo ufficio;
- di comparire davanti al giudice;
- l’obbligo di compiere le operazioni necessarie per rispondere secondo verità;
- l’obbligo di mantenere il segreto su tutte le operazioni peritali ( artt. 226- 227 ).
Limiti soggettivi della perizia sono dettati dall’art. 222 il quale prevede ipotesi definite di
incapacità e incompatibilità del perito (non può prestare ufficio d perito, a pena di nullità: il
minorenne, l’interdetto, l’inabilitato e chi è affetto da infermità mentale, chi è sottoposto a
misure di sicurezza personali o di prevenzione).
A norma dell’art. 227, al perito viene fissato un termine per la redazione della perizia: termine
che non può superare i 90 gg. ,salvo proroghe, e fino a un massimo di 6 mesi. Il perito può
avvalersi di ausiliari di sua fiducia per lo svolgimento di attività materiali non implicanti
valutazioni.
Il giudice può considerarsi peritus peritorum: al di sopra di ogni altro soggetto che interviene
nel processo (e, dunque, anche al di sopra del perito, il quale del giudice è mero ausiliario) il
giudice non è vincolato dal risultato della perizia, da cui può discostarsi.
Il perito si distingue dal consulente tecnico.
I consulenti tecnici sono collaboratori delle parti particolarmente qualificati ed idonei a fornire
al giudice pareri scientifici e tecnici in dialettica con il perito.
Il consulente tecnico può essere nominato anche dal p.m.
Il consulente tecnico può essere nominato da ciascuna parte anche quando non è stata disposta
la perizia e può esporre al giudice il proprio parere, anche presentando memorie.
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A norma dell’art. 230, i consulenti tecnici, sia quelli del p.m. , sia quelli dell’imputato e delle
altre parti private, possono assistere all’affidamento dell’incarico al perito, nonché a tutte le
operazioni peritali, proponendo al perito specifiche indagini, e possono infine presentare al
giudice le loro osservazioni.
La prova documentale
Costituisce una ulteriore novità del codice; è vero che il codice del 1930 parlava di documenti
che erano ammissibili in ambito processuale; però non prevedeva il documento come prova,
cosa che invece fa il codice vigente, quello del 1988, negli artt. 234 e ss.
Secondo l’art. 234: è consentita l’acquisizione al processo di scritti o di altri documenti che
siano indicativi di fatti, di persone o di cose attinenti al processo, e che possono essere stati
raccolti anche mediante fotografia, fonografia, cinematografia o qualsiasi altro mezzo.
Un limite all’acquisizione probatoria documentale è rappresentato dall’anonimato, nel senso
che non può mai essere acquisito al processo e utilizzato un documento che contenga
dichiarazioni anonime, salvo che costituisca, esso stesso, corpo di reato (che per la sua
preminente funzione probatoria va comunque acquisito) o provenga comunque dall’imputato
(art. 240).
Altro limite riguarda qualunque documento che contenga informazioni sulle voci correnti nel
pubblico, intorno ai fatti di cui si tratta nel processo, o che attenga alla moralità in generale
delle parti, dei testimoni, dei consulenti tecnici e dei periti (art. 234, comma 3).
Al fine di consentire al giudice la formulazione di un adeguato giudizio sulla personalità, la
legge consente l’acquisizione di una serie di documenti :
- i certificati del casellario giudiziale, in quanto da essi emergono eventuali precedenti penali
dell’imputato o della persona offesa dal reato;
- la documentazione esistente presso gli uffici del servizio sociale e presso gli uffici di
sorveglianza (trattandosi di dossier personali che contengono dati e informazioni spesso di
grande rilievo al fine del giudizio sulla personalità, formati in occasione di precedenti
esperienze trattamentali cui il soggetto sia stato sottoposto);
- sono acquisibili le sentenze irrevocabili emesse da qualunque giudice italiano e le sentenze
straniere riconosciute (filtrate nell’ordinamento giuridico interno attraverso l’apposito
riconoscimento) (art. 236).
CAP. 17: I MEZZI DI RICERCA DELLA PROVA
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Sono quegli strumenti di indagine che a differenza dei mezzi di prova (strumenti o istituti
processuali attraverso i quali si acquisisce, innanzi al giudice, la prova) che tendono alla ricerca
delle fonti di prova.
Si tratta delle/ dei:
- ispezioni;
- perquisizioni;
- sequestri;
- intercettazioni telefoniche.
Ad es. : nella ispezione, la verifica su una persona o in un determinato luogo non costituisce da
sola assunzione di prova, ma la prova si trae dall’oggetto dell’ispezione, cioè da quelle tracce o
da quegli effetti materiali, lasciati dal reato, che si rinvengono nel corso dell’ispezione.
I mezzi di ricerca della prova, a differenza dei mezzi di prova, non sono disposti con ordinanza
del giudice (su istanza di parte o d’ufficio), ma sono disposti con decreto motivato dell’autorità
giudiziaria (intesa come espressione comprensiva non soltanto del giudice, ma anche del p.m.).
Tale circostanza discende dal fatto che i mezzi di ricerca sono costituiti da attività che, in
genere, sono compiute nella fase delle indagini preliminari e, quindi, prima del dibattimento.
L’ispezione
È definita, tradizionalmente, come l’osservazione giudiziale immediata.
L’ispezione può essere personale, locale o reale, a seconda che essa abbia ad oggetto una
persona, un luogo o una cosa.
L’ispezione è disposta allo scopo di accertare se su una determinata persona, su una
determinata cosa o in un determinato luogo vi siano le tracce e gli effetti materiali del reato
(art. 244).
Competente a disporre l’ispezione è l’autorità giudiziaria: dunque, non più solo il giudice, ma
anche il p.m. , nella forma del decreto motivato, che è il provvedimento di regola emesso senza
il rispetto del contraddittorio.
Il codice prevede alcune cautele che devono essere adottate per il rispetto della dignità della
persona, quando si tratta di un’ispezione personale, e per la tutela della privacy, quando si tratta
di ispezione locale: oltre alla facoltà di farsi assistere da persona di fiducia (art. 245), vi è
anche il diritto del difensore, tempestivamente avvisato, di partecipare all’atto di indagine.
In passato, come nel presente, si faceva distinzione fra perizia e ispezione.
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Ad es. l’autopsia è, da un lato, ispezione del cadavere (al fine di verificare se vi sono le tracce e
gli effetti materiali del reato) e, dall’altro, è indagine peritale (che vale a stabilire la causa della
morte, l’ora e i mezzi che l’hanno prodotta).
La perquisizione
Anche la perquisizione di per sé non è una prova: prova diventa l’eventuale acquisizione del
corpo del reato o delle cose pertinenti al reato conseguenti alla perquisizione.
Essa può essere disposta:
- quando vi è fondato motivo di ritenere che taluno occulti sulla persona il corpo del reato o
cose pertinenti al reato (perquisizione personale) ;
- quando vi è fondato motivo di ritenere che tali cose si trovino in un determinato luogo oppure
che, in un determinato luogo, sia possibile procedere all’arresto dell’imputato o di persona
evasa (perquisizione locale) (art. 247).
La perquisizione è disposta con decreto motivato (comma 2).
L’autorità giudiziaria può procedere personalmente ovvero disporre che l’atto sia compiuto da
ufficiali di polizia giudiziaria delegati con lo stesso decreto (comma 3).
Come nell’ispezione personale, l’interessato ha diritto di farsi assistere da persona di sua
fiducia. Trattandosi di attività che interessa una certa intimità, il legislatore ha voluto tutelare il
principio costituzionale del rispetto della dignità e libertà personale.
Vi sono, poi, limiti alla perquisizione personale, in quanto non può essere operata in danno di
soggetti che godono certi privilegi: come, ad es. : i difensori, presso i cui uffici sia le
perquisizioni, sia le ispezioni sono consentite solo con il rispetto delle “garanzie di libertà”,
opportunamente previste dall’art. 103 :
- quando essi sono imputati;
- per rilevare tracce o altri effetti materiali del reato o per ricercare cose o persone determinate;
- dietro avviso, da parte dell’autorità giudiziaria, del consiglio dell’ordine forense del luogo,
perché il presidente o un consigliere da questo delegato possa assistere alle operazioni.
Per perquisizione locale si intende quell’attività di ricerca del corpo del reato o di cose ad esso
pertinenti effettuata in un qualsiasi immobile. Trattandosi di ricerca locale, la copia del
decreto di perquisizione locale è consegnata a chi ha il possesso o la detenzione dello stesso
(art. 250).
Da ultimo, per le perquisizioni locali, sono previsti anche limiti temporali perché, salvo casi
eccezionali, non possono essere iniziate prima delle ore 7 e dopo le ore 20 (art. 251).
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Il sequestro
Il nuovo codice distingue il sequestro c.d. “probatorio”, diretto alla ricerca della prova (artt. 253
e ss.), dal sequestro “conservativo” (artt. 316- 320) e dal sequestro “preventivo” (artt. 321 e ss. ,
che sono misure cautelari reali).
Il sequestro probatorio è il mezzo attraverso il quale l’autorità giudiziaria, con decreto motivato,
dispone che venga acquisito il corpo del reato o le cose attinenti al reato che siano necessari ai
fini dell’indagine preliminare in corso.
In genere, il sequestro è conseguente alla perquisizione perché spesso scaturisce da un’indagine
per l’appunto diretta ad acquisire il corpo del reato e le cose a questo pertinenti, attraverso una
perquisizione di luoghi o su persone.
L’art. 253, al fine di circoscrivere questo mezzo di ricerca della prova, determina il concetto di
corpo del reato. Si tratta delle cose sulle quali o mediante le quali il reato è stato commesso,
nonché le cose che ne costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo.
Il sequestro, come la perquisizione e come l’ispezione, è disposto dall’autorità giudiziaria (e
quindi anche dal p.m.) con decreto motivato.
Come per il sequestro preventivo, e come per quello conservativo, anche per il sequestro
probatorio, sia l’imputato sia il terzo, presso il quale il sequestro è effettuato, hanno la
possibilità di chiedere al Tribunale della libertà il riesame del provvedimento con il quale il
sequestro è stato disposto (art. 257, tutela data al cittadino nei confronti del provvedimento
adottato dall’autorità giudiziaria).
Vi sono poi una serie di limiti soggettivi e oggettivi ai sequestri, nelle ipotesi tipicizzate di
sequestro di corrispondenza (art. 254 : negli uffici postali o telegrafici è consentito procedere al
sequestro di lettere, pacchi e altri oggetti di corrispondenza che l’autorità giudiziaria abbia
fondato motivo di ritenere spediti dall’imputato o a lui diretti, anche sotto nome diverso o per
mezzo di persona diversa), presso banche (art. 255: l’autorità giudiziaria può procedere al
sequestro presso banche di documenti, titoli, valori, somme depositate in c.c. quando abbia
fondato motivo di ritenere che siano pertinenti al reato, sebbene non appartengano
all’imputato o non siano iscritti al suo nome).
Nell’art. 256 è previsto il dovere di esibizione, a carico dei ministri di confessioni religiose, di
avvocati, investigatori, consulenti tecnici, notati, medici e i chirurghi, i quali devono
consegnare, all’autorità giudiziaria, gli atti e i documenti di cui sono in possesso per ragioni
della loro funzione, salvo che si tratti di segreto di Stato ovvero di segreto inerente al loro
ufficio o professione.
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In questo articolo sono previsti i limiti che incontra il mezzo di ricerca della prova in esame, in
presenza di atti o documenti coperti dal segreto di ufficio o di Stato.
Pertanto, poiché il sequestro potrebbe violare il segreto di atti e documenti, le persone tutelate a
salvaguardia del loro segreto (professionale o d’ufficio), se sono invitate a consegnare gli atti e i
documenti in loro possesso, possono opporre per iscritto che si tratta di segreto di Stato, di
ufficio o professionale.
L’autorità giudiziaria che dubiti della fondatezza del segreto opposto e che ritenga il documento
indispensabile, può disporre ulteriori indagini e, all’esito delle stesse, se risulti infondata
l’opposizione, può disporre il sequestro (dovere di esibizione e segreti, art. 256).
Le cose sequestrate sono affidate in custodia alla cancelleria o alla segreteria. Quando ciò non
sia possibile o non opportuno, l’autorità giudiziaria dispone che la custodia avvenga in luogo
diverso, determinandone il modo e nominando un altro custode (art. 259).
Quando non è necessario mantenere il sequestro ai fini della prova, le cose sequestrate sono
restituite a chi ne abbia diritto, anche prima della sentenza (art. 262).
Le intercettazioni telefoniche
Per intercettazione si intende comunemente la captazione, mediante l’impiego di strumenti
meccanici o elettronici, di una comunicazione o conversazione riservata, quando la captazione
medesima è operata in modo clandestino da soggetto terzo rispetto agli interlocutori.
Si tratta di una materia assai delicata, in quanto investe un diritto costituzionalmente protetto: la
“libertà e segretezza delle comunicazioni” (art. 15 Cost.), ed il “diritto alla segretezza della
corrispondenza”.
Tale circostanza ha indotto il legislatore a prevedere che il procedimento di ammissione
dell’intercettazione richieda due distinti provvedimenti, uno del p.m. ed uno del giudice per le
indagini preliminari.
Di regola, infatti, prima di disporre l’intercettazione, il p.m. deve richiedere l’autorizzazione al
giudice per le indagini preliminari che la concede, con decreto motivato, se ne accerta la
sussistenza dei presupposti (art. 267).
Solo dopo l’autorizzazione del giudice, il p.m. , con proprio decreto, dispone l’intercettazione,
indicandone le modalità e la durata.
Nei casi d’urgenza (ove vi sia fondato motivo di ritenere che il ritardo possa pregiudicare le
indagini), peraltro, il p.m. dispone (direttamente) l’intercettazione con decreto motivato, che va
comunicato immediatamente e comunque non oltre le 24 ore al gip il quale nelle 48 ore dal
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provvedimento deve convalidare, con decreto motivato, il provvedimento del p.m. (art. 267,
comma 2).
L’art. 266 cpp elenca tassativamente quali sono le fattispecie per le quali è ammesso questo
particolare mezzo di ricerca della prova.
L’intercettazione di conversazioni o comunicazioni telefoniche e di altre forme di
telecomunicazione (telefono, fax, telegramma, videotelefono) è consentita nei procedimenti
relativi ai seguenti reati:
a) delitti non colposi per i quali è prevista la pena dell'ergastolo o della reclusione superiore
nel massimo a cinque anni;
b) delitti contro la pubblica amministrazione per i quali è prevista la pena della reclusione
non inferiore nel massimo a cinque anni;
c) delitti concernenti sostanze stupefacenti o psicotrope;
d) delitti concernenti le armi e le sostanze esplosive;
e) delitti di contrabbando;
f) reati di ingiuria, minaccia, usura, abusiva attività finanziaria, molestia o disturbo alle
persone col mezzo del telefono;
f bis) delitti previsti dall'articolo 600-ter, terzo comma, del codice penale (pornografia
minorile- sfruttamento della prostituzione – turismo sessuale in danno di minori).
L’art. 266 comma 2 stabilisce che: è consentita la possibilità di intercettare anche
comunicazioni fra presenti (le c.d. “intercettazioni ambientali”) negli stessi casi in cui è
consentita l’intercettazione telefonica.
Tuttavia, qualora queste avvengano in abitazioni private, l’intercettazione è consentita solo se
vi è fondato motivo di ritenere che in quella abitazione si stia svolgendo l’attività criminosa.
Tale limite è ovviamente connesso con l’esigenza di tutela della riservatezza e della vita privata
della persona (una tale limitazione della libertà personale trova giustificazione nelle superiori
esigenze di giustizia).
Il provvedimento con il quale il giudice dispone l’intercettazione telefonica deve assumere la
forma di un decreto motivato, sulla base di un duplice presupposto:
- l’esistenza di gravi indizi di reato e
- le valutazioni secondo cui l’accertamento a mezzo intercettazione sia assolutamente
indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini.
Le comunicazioni intercettate sono registrate e delle operazioni è redatto verbale (art. 268).
Le operazioni possono essere compiute esclusivamente per mezzo degli impianti installati nella
procura della Repubblica. Quando tali impianti risultano insufficienti o inidonei ed esistono
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eccezionali ragioni d’urgenza, il p.m. può disporre il compimento delle operazioni mediante
impianti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria (comma 3).
Il legislatore ha inteso anche limitare la durata delle intercettazioni. Esse non possono superare
i 15 gg. , salvo proroghe autorizzate dal gip.
Sono state tenute in vita, all’atto dell’entrata in vigore del codice, le intercettazioni telefoniche
preventive in tema di misure contro la delinquenza mafiosa, in virtù delle quali il Procuratore
della Repubblica del luogo può autorizzare intercettazioni di comunicazioni o ambientali per
attività di prevenzione e di informazione in ordine a determinati delitti.
Il risultato di queste intercettazioni preventive non ha alcun valore processuale.
Ancora, di recente, la l. 23 dicembre 1993 n. 547, allo scopo di modificare ed integrare la
disciplina penalistica in tema di “criminalità informatica”, ha introdotto l’art. 266 bis, che
consente l’intercettazione di comunicazioni informatiche o telematiche.
La volontà del legislatore è stata quella di permettere le intercettazioni di dati o messaggi
provenienti da sistemi di trasmissione inviati a distanza anche diversi tra loro (via cavo, via
satellite, via radio).
L’art. 12 della stessa legge poi ha apportato modifiche all’art. 268, introducendo il comma 3
bis, che consente al p.m. , quando si tratti di intercettazione di comunicazioni informatiche o
telematiche, di disporre che le operazioni siano compiute anche mediante impianti
appartenenti a privati.
Norma di chiusura è quella che dispone “divieti di utilizzazione” delle intercettazioni eseguite
fuori dei casi consentiti dalla legge. Non possono essere utilizzate le intercettazioni relative a
conversazioni o comunicazioni delle persone che conoscono fatti in ragione del loro ministero,
ufficio o professione (art. 271).
Infine gli artt. 268, 269 e 270 stabiliscono regole precise in ordine alle modalità di registrazione
e trascrizione delle intercettazioni, attraverso un meccanismo che consente alle parti di prendere
cognizione delle intercettazioni operate e di estrarne copia. Le trascrizioni così operate vanno
poi inserite nel fascicolo del dibattimento.
Art. 269: i verbali e le registrazioni sono conservati integralmente presso il p.m. che ha
disposto l’intercettazione.
Art. 270: i risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati in procedimenti diversi da
quelli nei quali sono stati disposti, salvo che risultino indispensabili per l’accertamento di
delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza.
PUNTI FERMI IN TEMA DI PROCEDIMENTO PROBATORIO
50
Effettività del contraddittorio e diritto alla prova
Il “principio del contraddittorio” comporta la partecipazione delle parti alla formazione della
prova (nuovo comma 4 dell’art. 111 Cost. recita: il processo penale è regolato dal principio
del contraddittorio nella formazione della prova).
In base al comma 3 dell’art. 111 Cost. (diritto alla prova) l’accusato ha la facoltà di interrogare
o di far interrogare davanti al giudice le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di
ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni
dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore (solo il diretto interessato
è normalmente in grado di rilevare la falsità di una circostanza narrata dal teste dell’accusa, di
suggerire domande e/o proporre verifiche, così portando un contributo di conoscenze rilevanti
per la ricostruzione del fatto storico).
Il nuovo comma 5 dell’art. 111 Cost. ha tipizzato le situazioni eccezionali nelle quali è possibile
derogare al principio del contraddittorio. La norma è così formulata: la legge regola i casi in
cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato o per
accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita.
Il “principio di parità delle armi” impone che le parti siano in grado di fronteggiarsi
attivamente, collocate su posizioni tendenzialmente omogenee: posto che è l’accusa a formulare
il tema che ha il compito di dimostrare e su cui la difesa ha l’onere di contraddire, i poteri della
seconda devono essere simmetricamente commisurati a quelli della prima, in forma di
reciprocità, ovvero di idoneità degli uni a controbilanciare gli altri in funzione delle opposte
prospettive.
Per poter funzionare il sistema accusatorio deve permettere alle parti di ricercare le prove.
Nessuno meglio della parte è in grado di comprendere quali siano gli elementi idonei a
convincere il giudice. Il diritto di indagare è concesso alla parti in tutto il corso del
procedimento, anche durante la fase del giudizio. L’art. 38 disp. att.(disposizioni di attuazione)
riconosce ai difensori delle parti private la facoltà di svolgere investigazioni per ricercare ed
individuare elementi di prova a favore del proprio assistito e di conferire con le persone che
possono dare informazioni.
Il diritto alla prova implica altresì il diritto ad ottenere l’ammissione dei mezzi di prova
richiesti. Ai sensi dell’art. 190: le prove sono ammesse a richiesta di parte; il giudice è
obbligato ad ammettere i mezzi di prova , escludendo le prove vietate e dalla legge e quelle che
manifestamente sono superflue o irrilevanti.
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Il codice prevede espressamente il diritto alla prova contraria. Ove siano stati ammessi i mezzi
di prova richiesti dall’accusa, l’imputato ha il diritto all’ammissione delle prove indicate a
discarico sui fatti costituenti oggetto delle prove a carico (art. 495, comma 2).
L’incidente probatorio (art. 392)
Il cpp, introdotto nel nostro ordinamento nel 1989, è ispirato al modello accusatorio.
Il principio fondamentale di tale modello è la ripartizione del processo in fasi distinte, con la
separazione tra la fase delle indagini preliminari e quella del dibattimento.
La separazione funzionale tra le 2 fasi comporta che la prova si debba formare nel dibattimento,
nel contraddittorio delle parti dinanzi al giudice.
È escluso, di norma, che gli atti delle indagini preliminari (e dell’ U.P.) possano essere utilizzati
come prova nel dibattimento.
L’istituto dell’incidente probatorio costituisce una deroga al principio della separazione tra la
fase delle I.P. e la fase del dibattimento, in quanto, per mezzo dell’intervento incidentale del
giudice, consente l’acquisizione della prova (con il metodo accusatorio e, dunque, nel
contraddittorio delle parti) nel corso delle I.P.
L’ istituto dell’incidente probatorio fa eccezione alla normativa generale che riserva l’attività di
assunzione delle prove alla fase del dibattimento.
L’incidente probatorio rappresenta la risposta del codice all’esigenza di assumere prove che
andrebbero disperse, se rinviate la dibattimento (elementi di prova che potrebbero deteriorarsi
nel corso del tempo).
Nel corso delle I.P. il p.m. e la persona sottoposta alle indagini (indagato) possono chiedere al
giudice che si proceda con incidente probatorio quando serve:
• all’assunzione della testimonianza di una persona, quando vi è fondato motivo di
ritenere che la stessa non potrà essere esaminata nel dibattimento per infermità o altro
grave impedimento;
• all’assunzione di una testimonianza quando, per elementi concreti e specifici, vi è
fondato motivo di ritenere che la persona sia esposta a violenza, minaccia, offerta o
promessa di denaro o di altra utilità affinché non deponga o deponga il falso;
• all’esame della persona sottoposta alle indagini su fatti concernenti la responsabilità di
altri;
• all’esame delle persone imputate in procedimenti connessi;
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• a una perizia o a un esperimento giudiziale, se la prova riguarda una persona, una cosa o
un luogo il cui stato è soggetto a modificazione non evitabile;
• a una ricognizione, quando particolari ragioni di urgenza non consentono di rinviare
l’atto al dibattimento.
Preposto all’incidente probatorio è il G.I.P. in fase di indagini preliminari e il G.U.P. in fase di
udienza preliminare.
La prova illecita
Sotto l’intitolazione “prove illegittimamente acquisite”, l’art. 191 ha introdotto l’inutilizzabilità
delle prove acquisite in violazione di divieti stabiliti dalla legge, inutilizzabilità rilevabile
anche d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento.
La norma mira a riaffermare il “principio di legalità della prova”: solo le prove acquisite in
modo conforme alle previsioni di legge possono essere utilizzate ai fini della corretta
formazione del convincimento del giudice (inutilizzabili sono la testimonianza estorta tramite la
minaccia delle armi o attraverso la somministrazione di droghe o sotto ipnosi).
La nullità e l’inutilizzabilità sono distinte ed autonome perché scaturiscono da presupposti
diversi. La nullità riguarda sempre e soltanto l’inosservanza di alcune forme nell’assunzione
della prova; l’inutilizzabilità, al contrario, ipotizza la presenza di una prova vietata perché
oggettivamente ed intrinsecamente illecita (preclude in modo assoluto qualsiasi uso della prova
medesima).
Le ipotesi di inutilizzabilità non costituiscono un numero chiuso.
CAP. 19: LE MISURE PRECAUTELARI
Art. 13 Cost. : La libertà personale è inviolabile.
Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né
qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell'autorità
giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.
In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge l'autorità di
pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro
quarantotto ore all'autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive
quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto.
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I “provvedimenti provvisori” rientranti nell’art. 13 Cost. e disciplinati dal codice che li
definisce “misure” (art. 381 comma 4), sono essenzialmente 2: l’arresto in flagranza e il fermo.
Esigenze di tipo pratico hanno fatto sì che questi istituti siano disciplinati fuori del libro 4^
(misure cautelari) e collocati nel libro 5^ (indagini preliminari e udienza preliminare) dove è
compiutamente descritta l’attività del p.m. e della p.g.
Sono definite “misure pre- cautelari” perché rappresentano nella sostanza un’anticipazione delle
misure cautelari vere e proprie disposte dal giudice.
Le relative norme stabiliscono in quali casi e a quali condizioni la p.g. può privare, di sua
iniziativa ed ancor prima dell’intervento del giudice, taluno della libertà personale.
L’anticipata compressione della libertà personale è giustificata da 2 ordini di ragioni: esigenze
di difesa sociale che richiedono la protezione della collettività dal crimine; esigenze di ordine
processuale relative all’ordinato esercizio dell’azione penale.
L’arresto in flagranza
Art. 382 cpp : E’ in stato di flagranza chi viene colto nell’atto di commettere un reato ovvero
chi, subito dopo il reato, è inseguito dalla polizia giudiziaria, dalla persona offesa o da altre
persone, ovvero è sorpreso con cose o tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il
reato immediatamente prima.
Destinataria dell’obbligo come della facoltà dell’arresto è la p.g. , in quanto longa manus dello
Stato incaricata di svolgere una serie di funzioni di estremo rilievo sostanziale e processuale.
L’arresto di colui che è colto nell’atto di commettere un reato concretizza, in particolare, le
funzioni di impedire che i reati vengano portati a conseguenze ulteriori e di ricercarne gli autori,
in quanto l’arresto sortisce l’effetto di mettere a disposizione dell’autorità giudiziaria un
soggetto nei confronti del quale sussiste un fumus commissi delicti ( = la sussistenza di una
notevole base probatoria definita in termini di gravi indizi di colpevolezza) particolarmente
concreto.
Il nuovo codice di procedura penale non ha conservato la distinzione tra flagranza e quasi
flagranza (che si riferiva alle ultime 2 ipotesi oggi regolate dal comma 1 art. 382) parificando
del tutto la sorpresa nell’atto di commettere il reato all’inseguimento o alla sorpresa con cose o
tracce del reato.
Non ogni situazione di flagranza determina la necessità o la possibilità dell’arresto.
Non si è in presenza di un astratto favor libertatis, ma di una precisa scelta a tutela di un bene
inviolabile e che la stessa autorità giudiziaria può comprimere solo in via eccezionale: scelta
comprensibile perché non avrebbe senso, ad esempio, ledere la libertà personale di un soggetto
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che, avendo commesso un delitto punibile con la sola pena pecuniaria (multa), mai dovrebbe
subire una privazione della libertà in caso di condanna.
L’arresto obbligatorio
L’Art. 380 cpp. delinea i casi di arresto obbligatorio alla luce di 2 criteri: uno di gravità del
delitto (correlata alla misura della pena edittale, cioè stabilita dalla legge; l’arresto non è mai
possibile per un reato contravvenzionale) ; l’altro in relazione alla specificità del delitto e quindi
alla sua inclusione in un elenco nominativo e tassativo (categorie di reato).
Gli ufficiali e gli agenti di p.g. procedono all’arresto (obbligo) di chiunque è colto in flagranza
di un delitto non colposo, consumato o tentato per il quale la legge stabilisce la pena
dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni e nel massimo a venti
anni (comma 1).
Anche fuori dai casi previsti dal comma 1, gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria
procedono all’arresto di chiunque è colto in flagranza di uno dei seguenti delitti, consumati o
tentati:
a) Delitti contro la personalità dello stato per i quali è stabilita la pena della
reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni o nel massimo a dieci anni;
b) Delitto di devastazione e saccheggio;
c) Delitti contro l’incolumità pubblica per i quali è stabilita una pena della
reclusione non inferiore nel minimo a tre anni o nel massimo a dieci;
d) Delitto di riduzione in schiavitù previsto dall’articolo 600, delitto di
prostituzione minorile previsto dall’art. 600-bis, primo comma, delitto di
pornografia minorile previsto dall’art. 600-ter, commi primo e secondo, e delitto
di iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile
previsto dall’art. 600-quinquies del codice penale;
e) Delitto di furto, quando ricorre la circostanza aggravante (furto di armi,
munizioni o esplosivi);
f) delitto di rapina e di estorsione;
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g) delitto di illegale fabbricazione, introduzione nello Stato, messa in vendita,
cessione, detenzione e porto in luogo pubblico o aperto al pubblico di armi da
guerra o tipo guerra o di parti di esse, di esplosivi, di armi clandestine, nonché
di più armi comuni da sparo escluse : bersaglio da sala, a gas, aria compressa,
lanciarazzi, o armi non atte a recare offesa alla persona;
h) delitti concernenti sostanze stupefacenti o psicotrope;
i) delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine
costituzionale per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non
inferiore nel minimo a cinque anni o nel massimo a dieci anni ;
l) delitti di promozione, costituzione, direzione e organizzazione delle
associazioni segrete;
l-bis) delitti di partecipazione, promozione, direzione organizzazione della
associazione di tipo mafioso ;
m) delitti di promozione, direzione, costituzione e organizzazione della
associazione per delinquere .
Se si tratta di delitto perseguibile a querela, l’arresto in flagranza va eseguito se la querela
viene proposta, anche con dichiarazione resa oralmente all’ufficiale o all’agente di polizia
giudiziaria presente nel luogo. Se l’avente diritto dichiara di rimettere la querela l’arrestato è
posto immediatamente in libertà (comma 3).
L’arresto facoltativo
Art. 381 :
Gli ufficiali e gli agenti di p.g. hanno facoltà di arrestare chiunque è colto in flagranza di un
delitto non colposo, consumato o tentato, per il quale la legge stabilisce la pena della
reclusione superiore nel massimo a tre anni, ovvero di un delitto colposo per il quale la legge
stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni (comma 1).
Gli ufficiali e gli agenti di p.g. hanno altresì facoltà di arrestare chiunque è colto in flagranza
di uno dei seguenti delitti (elenco tassativo):
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a) Peculato mediante profitto dell’errore altrui; b) Corruzione per un atto contrario ai
dover d’ufficio;
c) Violenza o minaccia ad un pubblico ufficiale; d) Commercio e somministrazione
di medicinali guasti e di sostanze alimentari nocive; e) Corruzione di minorenne;
f) Lesioni personali; g) Furto;
h) Danneggiamento aggravato;
i) Truffa; l) Appropriazione indebita;
l bis) Offerta, cessione o detenzione di materiale pornografico;
m) Alterazione di armi e fabbricazione di esplosivi non riconosciuti;
m bis) Fabbricazione, detenzione o uso di documento di identificazione falso.
Nelle ipotesi previste dal presente articolo, si procede all’arresto in flagranza soltanto se la
misura è giustificata dalla gravità del fatto ovvero dalla pericolosità del soggetto desunta dalla
sua personalità o dalle circostanze del fatto (comma 4).
Secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente, perchè sia legittimo l’ “arresto facoltativo
in flagranza” non è necessaria la presenza congiunta di entrambi i parametri suddetti, essendo
sufficiente la presenza di uno solo di essi.
Disciplina comune ai due tipi di arresto
Sia per i casi di arresto obbligatorio che per quelli di arresto facoltativo vale il divieto di arresto
in determinate circostanze, quando il fatto appare compiuto in presenza di talune cause di
giustificazione (adempimento di un dovere o esercizio di una facoltà legittima) o di una causa di
non punibilità (art. 385; è il caso, ad es. , del privato che ha ucciso il rapinatore armato che lo
minacciava o del figlio convivente che ha sottratto denaro ai genitori).
Art. 386 : Doveri della p.g. in caso di arresto o di fermo: Gli ufficiali e gli agenti di p.g. che
hanno eseguito l’arresto o il fermo ne danno immediata notizia al p.m. del luogo dove l’arresto
o il fermo è stato eseguito.
Avvertono inoltre l’arrestato o il fermato della facoltà di nominare un difensore di fiducia
(comma 2) .
Gli ufficiali e gli agenti di p.g. pongono l’arrestato o il fermato a disposizione del p.m. al più
presto e comunque non oltre le 24 ore dall’arresto o dal fermo. Entro il medesimo termine
trasmettono il relativo verbale, salvo che il p.m. autorizzi una dilazione maggiore. (comma 3).
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Gli ufficiali e gli agenti di p.g. pongono l’arrestato o il fermato a disposizione del p.m.
mediante la conduzione nella casa circondariale o mandamentale del luogo ove l’arresto o il
fermo è stato eseguito (comma 4).
L’arresto o il fermo divengono INEFFICACI se non vengono osservati i termini previsti dal
comma 3 dell’art 386.
Art. 387 : Avviso ai familiari: La p.g. , con il consenso dell’arrestato o del fermato, deve senza
ritardo dare notizia ai famigliari dell’avvenuto arresto o fermo.
Art. 388 : Interrogatorio: il p.m. può procedere all’interrogatorio dell’arrestato o del fermato,
dandone tempestivo avviso al difensore di fiducia o, in mancanza, a quello d’ufficio.
Durante l’interrogatorio il p.m. informa l’arrestato o il fermato del fatto per cui si procede e
delle ragioni che hanno determinato il provvedimento, comunicandogli inoltre gli elementi a
suo carico.
Art. 389 : Casi di immediata liberazione dell’arrestato o del fermato: se risulta evidente che
l’arresto o il fermo è stato eseguito per errore di persona o fuori dai casi previsti dalla legge, o
se la misura dell’arresto o del fermo è divenuta inefficace , il p.m. dispone con decreto
motivato che l’arrestato o il fermato sia posto immediatamente in libertà.
Secondo l’art. 121 disp. att. cpp. il p.m. può ordinare la liberazione dell’arrestato anche fuori
dei casi previsti nell’art. 389 quando ritiene di non dover richiedere l’applicazione di misure
coercitive.
Art. 390 : Richiesta di convalida dell’arresto o del fermo: entro 48 ore dall’arresto o dal fermo
il p.m. , qualora non debba ordinare l’immediata liberazione dell’arrestato o del fermato, deve
richiedere la convalida al GIP competente in relazione al luogo in cui l’arresto o il fermo è
stato eseguito (comma 1).
Il giudice fissa l’udienza di convalida al più presto e comunque entro le 48 ore dal ricevimento
della richiesta dandone avviso al p.m. e al difensore (comma 2).
L’arresto o il fermo diviene INEFFICACE se il p.m. non osserva le prescrizioni del comma 1
(comma 3).
Art. 391: Udienza di convalida: Il GIP tiene l’udienza di convalida in camera di consiglio con
la partecipazione necessaria del difensore dell’arrestato o del fermato (comma 1).
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Se il PM compare indica i motivi dell’arresto o del fermo e illustra le richieste in ordine alla
libertà personale (comma 3).
Il giudice procede quindi all’interrogatorio dell’arrestato o del fermato, salvo che questi non
abbia potuto o si sia rifiutato di comparire; sente in ogni caso il suo difensore.
Quando risulta che l’arresto o il fermo è stato legittimamente eseguito e sono stati osservati i
termini previsti dagli articoli 386 comma 3, e 390 comma 1, il giudice provvede alla convalida
con ordinanza (comma 4 ).
Se ricorrono le condizioni di applicabilità previste dall’articolo 273 e taluna delle esigenze
cautelari previste dall’articolo 274, il GIP dispone una misura coercitiva (lo stesso giudice
della convalida può disporre la misura cautelare, così di fatto prolungando uno stato di
detenzione che comincia con un titolo, il fermo, e prosegue con un altro, non definitivo ma di
certo meno provvisorio del primo, la misura cautelare appunto).
Se non dispone la misura cautelare, con ordinanza il GIP dispone l’immediata liberazione
dell’arrestato o del fermato (comma 6).
Le ordinanze pronunciate in udienza sono comunicate al p.m. e notificate all’arrestato o al
fermato, se non sono comparsi.
Il GIP pronuncia e deposita l’ordinanza entro 48 ore successive al momento in cui l’arrestato è
stato posto a sua disposizione (comma 7).
Il fermo di indiziato di delitto
Il fermo indica, come l’arresto, una privazione temporanea della libertà personale posta in
essere dalla p.g. (ove il p.m. non possa tempestivamente intervenire) o dal p.m. prima
dell’intervento del giudice.
Diversi, però, sono i suoi presupposti. Il fermo non richiede necessariamente la flagranza, ma
postula l’esistenza:
- dei gravi indizi di colpevolezza;
- del pericolo di fuga dell’indagato;
- il fermo, inoltre, è consentito soltanto in relazione ai delitti più gravi individuati nell’art. 384
con riferimento alla pena edittale (non inferiore a 2 anni nel minimo e superiore a 6 anni nel
massimo) o alla natura, genus, del delitto (delitti concernenti le armi da guerra e gli esplosivi).
La disciplina del fermo è la stessa prevista per l’arresto quanto: al divieto di fermo in
determinate circostanze (art. 385), ai doveri della p.g. in caso di fermo e alla caducazione ope
legis (art. 386), all’avviso del fermo ai familiari (art. 387), all’interrogatorio facoltativo del
59
fermato da parte del p.m. (art. 388) e all’obbligo di immediata liberazione del fermato in casi
particolari (art. 389).
La ratio dei provvedimenti provvisori (arresto e fermo) è quella di consentire l’intervento del
giudice senza che il tempo necessario per tale intervento venga a pregiudicare la tutela della
collettività: la garanzia della libertà personale impone che detto intervento avvenga in tempi
brevissimi predeterminati per legge, pena la caducazione automatica
LE MISURE CAUTELARI
In una materia già contrassegnata dal principio di legalità (art. 13 Cost.: non è ammessa forma
alcuna di restrizione della libertà personale, se non nei soli casi e modi previsti dalla legge),
l’art. 272 introduce una ulteriore garanzia, precisando che: le libertà della persona possono
essere limitate con misure cautelari soltanto a norma delle disposizioni del titolo 1^, libro 4^.
Le “misure cautelari personali” consistono in limitazioni di libertà personale che possono essere
disposte solo da un giudice (non quindi da parte del p.m.), sia nella fase delle indagini
preliminari, sia in quella processuale.
Art. 273 : Condizioni generali di applicabilità delle misure: Nessuno può essere sottoposto a
misure cautelari se a suo carico non sussistono gravi indizi di colpevolezza (giudizio di alta
probabilità della responsabilità dell’indagato).
Nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una
causa di giustificazione (situazioni in cui viene meno l’antigiuridicità del fatto, ad es. :
legittima difesa, stato di necessità) o di non punibilità o se sussiste una causa di estinzione del
reato (impedisce l’applicazione della pena ad un soggetto, ad es. : prescrizione, remissione
della querela) ovvero una causa di estinzione della pena (paralizza o modifica l’esecuzione di
una pena già inflitta con sentenza irrevocabile di condanna, ad es. : indulto, grazia) che si
ritiene possa essere irrogata.
La sussistenza di gravi indizi di colpevolezza è condizione necessaria ma non sufficiente perché
le libertà della persona possano essere limitate per fini di giustizia.
Di qui il configurarsi di 3 pericula libertatis ad evitare i quali il codice consente limitazioni alle
libertà della persona con gravi indizi a carico.
L’art. 274 definisce le 3 situazioni di esigenza cautelare :
- pericolo di inquinamento delle prove, lo scopo è quello di salvaguardare l’integrità delle fonti
di prova in qualunque momento del procedimento;
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- pericolo di fuga, quando l’imputato si è dato alla fuga o sussiste concreto pericolo che egli si
dia alla fuga, sempre che il giudice ritenga che possa essere irrogata una pena superiore a due
anni di reclusione;
- pericolosità sociale- pericolo di reiterazione di reati, quando, per specifiche modalità o
circostanze del fatto e per la personalità della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato,
desunta da comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti penali, sussiste il concreto
pericolo che questi commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale
o delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quello per cui si procede.
Le 3 esigenze cautelari indicate nell’articolo sono alternativamente concorrenti tra loro, nel
senso che, per rendere legittima l’emissione di un provvedimento cautelare, è sufficiente la
sussistenza anche di un solo periculum libertatis.
Art. 275 : Criteri di scelta delle misure: Nel disporre le misure, il giudice tiene conto della
specifica idoneità di ciascuna in relazione alla natura e al grado delle esigenze cautelari da
soddisfare nel caso concreto (per evitare il pericolo di fuga può essere sufficiente l’obbligo di
dimora).
Inoltre devono essere osservati due principi indicati nel 2^ e 3^ comma dello stesso articolo,
vale a dire il principio di adeguatezza, secondo cui la misura della custodia cautelare in carcere
deve essere utilizzata come extrema ratio, cioè come misura eccezionale cui far ricorso soltanto
quando ogni altra misura risulti inadeguata, tranne per i reati di associazione di tipo mafioso in
cui essa è obbligatoria, ed il principio di proporzionalità, secondo cui ogni misura deve essere
proporzionata all'entità del fatto e alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata. Inoltre, lo
stesso articolo, nel comma 4 e successivi, prevede alcuni casi in cui la custodia cautelare in
carcere non può essere disposta:
1) donna incinta o madre di prole di età inferiore a 3 anni con lei convivente o il padre nel caso
in cui la madre sia deceduta;
2) persona che ha superato l'età di 70 anni;
3) persona affetta da AIDS conclamata;
4) in caso di malattia in fase avanzata;
5) persona tossicodipendente o alcooldipendente che abbia in corso un programma terapeutico
di recupero nell’ambito di una struttura autorizzata, e l’interruzione del programma può
pregiudicare la disintossicazione dell’imputato.
Tipologia delle misure cautelari personali
61
Le misure cautelari personali si suddividono in:
- misure cautelari coercitive;
- misure cautelari interdittive
Le prime determinano forme di privazione o limitazione della libertà personale.
Appare rilevante evidenziare come “coercitivo” non si identifichi con detentivo.
Le misure coercitive possono suddividersi in:
- misure custodiali: che comportano la privazione integrale della libertà di locomozione, dal
momento che devono essere eseguite in luoghi circoscritti; ad es. : la custodia cautelare in
carcere, gli arresti domiciliari e la custodia cautelare in luogo di cura (artt 284- 286) ;
- misure non custodiali: che limitano ma non sopprimono la libertà di locomozione (artt. 281-
283).
L’art. 280 cpp determina le condizioni di applicabilità delle misure coercitive stabilendo che:
Le misure previste in questo Capo possono essere applicate solo quando si procede per delitti
per i quali la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a
tre anni.
La custodia cautelare in carcere può essere disposta solo per delitti, consumati o tentati, per i
quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni.
Le misure coercitive sono tassativamente indicate e menzionate in ordine crescente di
afflittività:
- il divieto di espatrio, art. 281 : Il giudice prescrive all’imputato di non uscire dal territorio
nazionale senza l’autorizzazione del giudice che procede.
- l’obbligo di presentazione alla p.g. , art. 282 : Il giudice prescrive all’imputato di presentarsi
a un determinato ufficio di polizia giudiziaria nei giorni e nell’orario stabiliti dall’ordinanza
cautelare.
La misura soddisfa le esigenze del pericolo di fuga di modesta consistenza e della reiterazione
dei delitti, assicurando il controllo sulla reperibilità dell’indagato senza comprometterne le
necessità di vita e lavoro.
- l’allontanamento dalla casa familiare, art. 282 bis : Il giudice prescrive all’imputato di
lasciare immediatamente la casa familiare, ovvero di non farvi rientro, e di non accedervi
senza l’autorizzazione del giudice che procede. L’eventuale autorizzazione può prescrivere
determinate modalità di visita (comma 1).
Il giudice, qualora sussistano esigenze di tutela dell’incolumità della persona offesa o dei suoi
prossimi congiunti, può inoltre prescrivere all’imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati
abitualmente frequentati dalla persona offesa, in particolare il luogo di lavoro, il domicilio
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della famiglia di origine o dei prossimi congiunti, salvo che la frequentazione sia necessaria
per motivi di lavoro (comma 2).
Il giudice, su richiesta del p.m. , può altresì ingiungere il pagamento periodico di un assegno a
favore delle persone conviventi che, per effetto della misura cautelare disposta, rimangano
prive di mezzi adeguati.
- divieto e obbligo di dimora, art. 283: Con il provvedimento che dispone il divieto di dimora,
il giudice prescrive all'imputato di non dimorare in un determinato luogo e di non accedervi
senza l'autorizzazione del giudice che procede. Con il provvedimento che dispone l'obbligo di
dimora, il giudice prescrive all'imputato di non allontanarsi dal territorio di un Comune (o di
una sua frazione) prescelto dall’indagato/imputato o imposto dal giudice, tenendo conto delle
esigenze di cura, lavoro, vita: all’interno del Comune determinato la circolazione della
persona sottoposta a misura è libera.
Qualora le esigenze da cautelare richiedano un più pregnante controllo, la misura in questione
può assumere modalità esecutive maggiormente gravose mediante l’imposizione di ulteriori
prescrizioni limitative della libertà di circolazione, consistenti nella reperibilità in determinate
fasce orarie o nel divieto di allontanamento dall’abitazione in specifiche ore della giornata.
- arresti domiciliari, art. 284 : Con il provvedimento che dispone gli arresti domiciliari, il
giudice prescrive all'imputato di non allontanarsi dalla propria abitazione o da altro luogo di
privata dimora ovvero da un luogo pubblico di cura o di assistenza.
Il p.m. o la p.g. , anche di propria iniziativa, possono controllare in ogni momento l'osservanza
delle prescrizioni imposte all'imputato.
Quando è necessario, il giudice impone limiti o divieti alla facoltà dell'imputato di comunicare
con persone diverse da quelle che con lui coabitano o che lo assistono.
L'imputato agli arresti domiciliari si considera in stato di custodia cautelare.
L’ordinanza che dispone gli arresti domiciliari può prevedere procedure di controllo mediante
“mezzi elettronici o altri strumenti tecnici”.
Misura coercitiva custodiale privativa della libertà personale, gli arresti domiciliari occupano,
nella progressione graduata delle misure coercitive in ragione della loro afflittività, il gradino
immediatamente inferiore alla custodia in carcere.
- custodia cautelare in carcere, art. 285 : Con il provvedimento che dispone che dispone la
custodia cautelare, il giudice ordina agli ufficiali e agli agenti di p.g. che l'imputato sia
catturato e immediatamente condotto in un istituto di custodia per rimanervi a disposizione
dell'autorità giudiziaria.
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In conformità con i principi di proporzionalità, personalizzazione delle misure cautelari, la
custodia cautelare in carcere rappresenta la misura maggiormente limitativa della libertà
personale e, pertanto, costituisce la estrema ratio, applicabile soltanto quando ogni altra misura
si riveli inidonea alla salvaguardia delle esigenze cautelari.
Custodia cautelare oggi equivale a privazione della libertà dell’imputato, ma il codice da rilievo
al luogo in cui si attua tale privazione, che può essere il carcere (art. 285) o il luogo di cura (art.
286).
- custodia cautelare in luogo di cura, art. 286 : Se la persona da sottoporre a custodia cautelare
si trova in stato di infermità di mente che ne esclude o ne diminuisce grandemente la capacità
di intendere o di volere, il giudice, in luogo della custodia in carcere, può disporre il ricovero
provvisorio in idonea struttura del servizio psichiatrico ospedaliero adottando i provvedimenti
necessari per prevenire il pericolo di fuga. Il ricovero non può essere mantenuto quando
risulta che l'imputato non è più infermo di mente.
Misure interdittive
La seconda species del “genus misure cautelari personali” è rappresentata dalle misure
interdittive, categoria introdotta dal codice in sostituzione dell’applicazione provvisoria di pene
accessorie (istituto fortemente sospetto di anticipazione della pena in violazione della
presunzione di non colpevolezza).
Si è in presenza di 3 misure che non incidono sulla libertà personale, ma che ugualmente
limitano le libertà della persona, incidendo su rapporti personalissimi o sulla capacità
lavorativa:
- la sospensione dall’esercizio della potestà dei genitori (art. 288, la misura determinando un
sostanziale allontanamento tra il presumibile autore e la vittima del reato, si profila idonea a
prevenire il periculum della reiterazione di fatti delittuosi e ad evitare potenziali inquinamenti
probatori realizzabili attraverso pressioni e condizionamenti sul minore);
- la sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio (art. 289: la misura mira ad
evitare che l’esercizio dei poteri e delle facoltà connesse alla qualità di pubblico ufficiale o
incaricato di pubblico servizio possa compromettere le esigenze cautelari);
- il divieto temporaneo di esercitare determinate attività professionali o imprenditoriali (finalità
perseguite risultano essere sia la tutela dal rischio di reiterazione dell’attività criminosa che
l’esigenza di tutela dal pericolo di inquinamento probatorio)
L’adozione di queste misure (eventualmente in aggiunta ad una misura coercitiva) è regolata
dalle disposizioni generali già esaminate e presuppone gravi indizi di colpevolezza e almeno
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una delle “esigenze cautelari”; possono essere applicate solo quando si procede per delitti per i
quali la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a 3 anni
(art. 287).
Profili procedurali dell’applicazione ed esecuzione delle misure cautelari personali
Art. 291: Le misure sono disposte su richiesta del p.m. che presenta al giudice competente gli
elementi su cui la richiesta si fonda, nonché tutti gli elementi a favore dell’imputato e le
eventuali deduzioni e memorie difensive già depositate.
Regola generale è che il giudice non abbia poteri di iniziativa in materia cautelare: in
applicazione del principio “ne procedat iudex ex officio” , il giudice non potrà disporre una
misura, se non gli viene richiesta dal p.m.
Il giudice può adottare una misura diversa da quella sollecitatagli dal p.m. perché è il giudice
che deve valutare il rapporto di idoneità tra la misura, da un lato, e la natura e il grado delle
esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto, dall’altro , e deve assicurare il rispetto dei
principi di proporzione e adeguatezza.
Una conferma la si trova nella soppressione dell’art. 291 comma 1 bis che circoscriveva il
potere giudiziale di applicare una misura meno grave di quella richiesta.
Art. 292 : Ordinanza del giudice: Sulla richiesta del p.m. il giudice provvede con ordinanza.
L’ordinanza che dispone la misura cautelare contiene, a pena di nullità, rilevabile anche
d’ufficio:
- le generalità dell’imputato;
- la descrizione sommaria del fatto con l’indicazione delle norme di legge che si assumono
violate;
- l’esposizione delle specifiche esigenze cautelari e degli indizi che giustificano in concreto la
misura disposta;
- l’esposizione dei motivi per i quali sono stati ritenuti non rilevanti gli elementi forniti dalla
difesa;
- la fissazione della data di scadenza della misura (a garanzia della libertà dell’individuo da
eventuali abusi);
- la data e la sottoscrizione del giudice.
L’analitica enunciazione dei requisiti contenutistici del provvedimento applicativo di una
misura cautelare riveste una ineludibile funzione di garanzia, ponendo le condizioni essenziali
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per una piena e completa esplicazione del diritto di difesa dell’indagato/imputato in sede di
interrogatorio e di impugnazione del provvedimento.
Art. 293 : Adempimenti esecutivi: compete sempre al p.m. , che si avvale dell’operato della
p.g. , porre in esecuzione i provvedimenti del giudice che limitino la libertà dell’indagato.
L’ufficiale o l’agente incaricato di eseguire l’ordinanza che ha disposto la custodia cautelare
consegna all’imputato copia del provvedimento (notifica) e lo avverte della facoltà di nominare
un difensore di fiducia; informa immediatamente il difensore di fiducia o quello di ufficio e
redige verbale di tutte le operazioni compiute.
Il verbale è immediatamente trasmesso al giudice che ha emesso l’ordinanza e al p.m.
Le ordinanze, dopo la loro notificazione o esecuzione, sono depositate nella cancelleria del
giudice che le ha emesse insieme alla richiesta del p.m. e agli atti presentati con la stessa.
Art. 294 : Interrogatorio persona sottoposta a misura cautelare: A seguito dell’esecuzione di un
provvedimento cautelare, il giudice (se non vi ha proceduto nel corso dell'udienza di convalida
dell'arresto o del fermo di indiziato di delitto) è obbligato a svolgere l’interrogatorio della
persona sottoposta alla misura. Questo adempimento ha la funzione di consentire all’imputato
di svolgere un primo atto di difesa e, a pena di decadenza della misura, deve essere effettuato
entro il termine perentorio previsto dalla legge: 5 giorni in caso di applicazione della misura
coercitiva della detenzione in carcere, 10 giorni (dalla esecuzione del provvedimento o dalla
sua notificazione) per tutte le altre misure.
L’importanza di questa occasione di autodifesa concessa all’imputato traspare dall’art. 302 che
prevede una causa di estinzione della custodia cautelare per omesso interrogatorio entro il
termine sopra previsto.
L’interrogatorio della persona in stato di custodia cautelare deve avvenire entro il termine di
48 ore se il p.m. ne fa istanza nella richiesta di custodia cautelare (comma 1 ter).
L’interrogatorio consente al giudice un vaglio immediato della sussistenza e della persistenza
dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari, nonché dell’adeguatezza della misura
adottata.
Viene pertanto comunemente designato interrogatorio di garanzia per differenziarlo
dall’interrogatorio a fini investigativi del p.m.
La L. 109/99 ha esteso l’obbligo di interrogatorio, prima previsto nella fase delle indagini
preliminari, fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento.
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Nei casi in cui l’ordinanza che dispone la misura cautelare rimanga senza applicazione a causa
della irreperibilità del soggetto destinatario, viene compilato il verbale di vane ricerche ai sensi
dell’art. 295.
Art. 296 : Latitanza : E’ latitante chi volontariamente si sottrae alla custodia cautelare, agli
arresti domiciliari, al divieto di espatrio, all’obbligo di dimora o a un ordine con cui si dispone
la carcerazione
Con il provvedimento che dichiara la latitanza, il giudice designa un difensore di ufficio al
latitante che ne sia privo e ordina che sia depositata in cancelleria copia dell’ordinanza con la
quale è stata disposta la misura rimasta ineseguita. Avviso del deposito è notificato al
difensore.
Art. 297 : Computo dei termini di durata delle misure: Gli effetti della custodia cautelare
decorrono dal momento della cattura, dell’arresto o del fermo.
Gli effetti delle altre misure decorrono dal momento in cui l’ordinanza che le dispone è
notificata (art. 293).
La nuova disciplina del 3^ comma consente la decorrenza di un unico termine della misura
cautelare, non solo quando le più ordinanze siano emesse per uno stesso fatto, benché
diversamente circostanziato (omicidio aggravato invece di omicidio semplice) o qualificato
(rapina invece di furto aggravato), ma anche nel caso che si riferiscano a fatti diversi (o
connessi) -> divieto della c.d. contestazione a catena.
I termini decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima ordinanza e sono
commisurati all’imputazione più grave.
L’ultimo comma dell’art. 297 prevede un’ipotesi diversa: disciplina il caso della persona
detenuta per altro reato o internato per misura di sicurezza. La nuova misura si sovrapporrà alla
precedente nei limiti della compatibilità (custodia in carcere e custodia in carcere), in caso
contrario, gli effetti decorrono dalla cessazione dello stato di detenzione o internamento.
Art. 298 : In maniera inversa rispetto all’ipotesi disciplinata nell’articolo precedente, la norma
in esame prevede l’esecuzione di un ordine di carcerazione nei confronti di soggetto sottoposto
ad una misura ma non detenuto. In tale caso si determina la sospensione dell’esecuzione della
misura cautelare personale, salvo che gli effetti siano compatibili con l’espiazione della pena
(es. : misura interdittiva della sospensione della potestà di genitori e la custodia in carcere).
Estinzione delle misure
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Art. 299 : Revoca e sostituzione delle misure: Le misure coercitive e interdittive sono
immediatamente revocate quando risultano mancanti, anche per fatti sopravvenuti (cioè
l’emersione di circostanze fattuali idonee a mutare il quadro indiziario o a caducare le esigenze
cautelari), le condizioni di applicabilità ovvero le esigenze cautelari.
Qualora le esigenze cautelari risultino attenuate ovvero la misura applicata non appare più
proporzionata all'entità del fatto o alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata, il giudice
sostituisce la misura con un'altra meno grave ovvero ne dispone l'applicazione con modalità
meno gravose (comma 2).
Il p.m. e l’imputato richiedono la revoca o la sostituzione delle misure al giudice, il quale
provvede con ordinanza entro 5 giorni dal deposito della richiesta (comma 3).
Il giudice, prima di provvedere in ordine alla revoca o alla sostituzione delle misure coercitive
e interdittive, di ufficio o su richiesta dell’imputato, deve sentire il p.m.
Se nei 2 giorni successivi il p.m. non esprime il proprio parere, il giudice procede (comma 3
bis).
Quando le esigenze cautelari risultano aggravate, il giudice, su richiesta del p.m. , sostituisce
la misura applicata con un’altra più grave ovvero ne dispone l’applicazione con modalità più
gravose (comma 4).
Le cause di estinzione comportano il venir meno di diritto degli effetti della misura.
L’art. 300 (Estinzione delle misure per effetto della pronuncia di determinate sentenze)
disciplina le ipotesi di caducazione automatica (estinzione ope legis = di diritto) delle misure
per effetto dell’emissione di determinate pronunce.
Le misure disposte in relazione a un determinato fatto perdono immediatamente efficacia
quando, per tale fatto e nei confronti della medesima persona, è disposta:
- l’archiviazione
- ovvero è pronunciata sentenza di non luogo a procedere
- o di proscioglimento
- quando è pronunciata sentenza di condanna alla quale non consegua l’espiazione della pena
(per estinzione o sospensione condizionale della stessa)
- o che infliggano una pena superiore alla custodia cautelare sofferta.
Art. 301 : Estinzione di misure disposte per esigenze probatorie: Le misure disposte per le
esigenze cautelari di pericolo di inquinamento delle prove perdono immediatamente efficacia
se alla scadenza del termine previsto dall'ordinanza che disponeva la misura, non ne è
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ordinata la rinnovazione. La rinnovazione è disposta dal giudice con ordinanza, su richiesta
del p.m. , anche per più di una volta, entro i limiti previsti dagli articoli 305 e 308.
Quando si procede per reati per il cui accertamento sono richieste investigazioni
particolarmente complesse per la molteplicità di fatti tra loro collegati ovvero per l'elevato
numero di persone sottoposte alle indagini o di persone offese, ovvero per reati per il cui
accertamento è richiesto il compimento di atti di indagini all'estero, la custodia cautelare in
carcere disposta per il compimento delle indagini non può avere durata superiore a 30 giorni.
Attraverso la predeterminazione del termine di durata entro limiti assai ristretti, la disposizione
mira a realizzare un equo bilanciamento tra la limitazione della libertà personale e le esigenze
cautelari di natura processuale, connesse all’acquisizione e alla genuinità della prova.
Art. 302 : Estinzione della custodia per omesso interrogatorio della persona in stato di custodia
cautelare: la caducazione ope legis (= di diritto) per mancata audizione della persona sottoposta
a misura cautelare non ha carattere preclusivo della reiterazione della misura stessa: essa potrà
essere nuovamente adottata, su richiesta del p.m. , purchè l’indagato sia effettivamente posto in
libertà e venga interrogato in stato di libertà dal Gip.
Art. 303 : Termini di durata massima della custodia cautelare:
5 sono le fasce processuali prese in considerazione e nell’ambito di ciascuna di esse vengono
determinati termini massimi, di entità varia in relazione alla gravità del reato, il cui decorso
senza che si sia passati nella fascia processuale successiva (o senza che sia intervenuta sentenza
irrevocabile di condanna) estingue la misura e impone la liberazione (art. 306).
La 1^ fascia decorre dall’inizio dell’esecuzione della misura (e quindi dal momento della
cattura, dell’arresto o del fermo) al provvedimento che dispone il giudizio ovvero all’ordinanza
con cui il giudice dispone il giudizio abbreviato (art. 438) o alla pronuncia della sentenza di
applicazione della pena su richiesta delle parti.
a) La custodia cautelare perde efficacia se non viene emesso uno dei provvedimenti ricordati
entro il termine di:
1) 3 mesi (per i delitti puniti fino a 6 anni di reclusione);
2) 6 mesi (per i delitti puniti con la reclusione superiore a 6 anni );
3) 1 anno (per i delitti puniti con l’ergastolo o la reclusione non inferiore a 20 anni o
superiore a 6 anni di reclusione se trattasi di uno dei delitti indicati dall’art 407 comma 2:
associazioni di stampo mafioso, delitti con finalità di terrorismo, omicidio, strage, sequestro di
persona).
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b) La 2^ fascia decorre dall’emissione del provvedimento che dispone il giudizio o dalla
sopravvenuta esecuzione della custodia cautelare e termina con la pronuncia della sentenza di
condanna di primo grado.
La custodia cautelare perde efficacia qualora, senza che sia stata pronunciata la condanna di
1^ grado, siano decorsi:
1) 6 mesi (per i delitti puniti con la reclusione fino a 6 anni);
2) 1 anno (per i delitti puniti con reclusione superiore a 6 anni);
3) 1 anno e 6 mesi (per i delitti puniti con la reclusione superiore nel massimo a 20 anni o
con l’ergastolo).
3-bis) qualora si proceda per i delitti di cui all'articolo 407 comma 2, i termini di cui ai numeri
1), 2) e 3) sono aumentati fino a 6 mesi. Tale termine è imputato a quello della fase precedente
ove non completamente utilizzato, ovvero ai termini di cui alla lettera d) per la parte
eventualmente residua. In quest'ultimo caso i termini di cui alla lettera d) sono
proporzionalmente ridotti.
La lettera b- bis) prevede la perdita di efficacia della custodia cautelare se dall’emissione
dell’ordinanza con cui il giudice dispone il giudizio abbreviato o dalla sopravvenuta
esecuzione della custodia sono decorsi i seguenti termini senza che sia stata pronunciata :
1) 3 mesi (per i delitti con pena edittale non superiore a 6 anni di reclusione);
2) 6 mesi (per i delitti con pena edittale superiore ai 6 anni e non superiore ai 20 anni);
3) 9 mesi (per i delitti con pena edittale perpetua o superiore ai 20 anni) (3^ fascia).
c) La 4^ fascia decorre dalla sentenza di 1^ grado (o dalla sopravvenuta esecuzione della
custodia) alla sentenza di condanna in grado di appello.
La custodia cautelare perde efficacia qualora, senza che venga pronunciata la condanna in
grado d’appello, siano decorsi termini pari a:
1) 9 mesi (se vi è stata condanna alla pena della reclusione non superiore a tre anni);
2) 1 anno (se vi è stata condanna alla pena della reclusione non superiore a dieci anni);
3) 1 anno e 6 mesi (se vi è stata condanna alla pena dell’ergastolo o della reclusione
superiore a dieci anni).
d) La 5^ fascia decorre dalla pronuncia della sentenza di condanna in grado d’appello (o dalla
sopravvenuta esecuzione della custodia) alla pronuncia della sentenza irrevocabile di condanna.
La custodia cautelare si estinguerà con il decorso di termini uguali a quelli previsti per la
fascia precedente, senza che si pervenga alla sentenza definitiva, salve le ipotesi della lettera b)
numero 3 bis.
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La durata complessiva della custodia cautelare, considerate anche le proroghe previste
dall’art. 305, non può superare i seguenti termini:
- 2 anni (per i delitti puniti con la reclusione fino a 6 anni);
- 4 anni (per i delitti puniti con la reclusione superiore a 6 anni ma non a 20 anni);
- 6 anni (per i delitti puniti con la reclusione superiore ai 20 anni o con l’ergastolo).
Le misure custodiali sono previste solo in relazione a delitti e sopprimono totalmente la libertà
dell’inquisito in considerazione della sussistenza di specifiche esigenze cautelari.
La misura detentiva perciò, ancor più delle altre misure cautelari, evidenzia la necessità di
bilanciare le esigenze cautelari di cui all’art. 274 con i diritti di libertà dell’indagato.
Siffatto bilanciamento è stato realizzato attraverso la fissazione di limiti alla durata della
custodia che sono correlati allo stadio del procedimento ed alla gravità del reato, sul
presupposto che la lentezza della giustizia non può indefinitamente pregiudicare lo “status
libertatis” dell’individuo il quale, in assenza di una decisione definitiva di condanna, è pur
sempre beneficiario della presunzione di non colpevolezza (art. 27 Cost.).
Art. 304 : Sospensione dei termini di durata massima della custodia cautelare: I termini previsti
dall’art. 303 sono sospesi nei seguenti casi:
a) nella fase del giudizio, durante il tempo in cui il dibattimento è sospeso o rinviato per
impedimento dell’imputato o del suo difensore (486) ovvero su richiesta dell’imputato o del suo
difensore, sempre che la sospensione o il rinvio non siano stati disposti per esigenze di
acquisizione della prova (509) o a seguito di concessione di termini per la difesa;
b) nella fase del giudizio, durante il tempo in cui il dibattimento è sospeso o rinviato a causa
della mancata presentazione, dell’allontanamento o della mancata partecipazione di uno o più
difensori che rendano privo di assistenza uno o più imputati;
c) nella fase del giudizio durante la pendenza dei termini previsti dall’articolo 544, commi 2 e
3 (15 gg. in caso non sia possibile procedere alla redazione immediata dei motivi della
sentenza; 90 gg. in caso di motivazione complessa);
c bis) nel giudizio abbreviato, durante il tempo in cui l’udienza è sospesa o rinviata per taluno
dei casi indicati nelle lettere a) e b) e durante la pendenza dei termini previsti dall’articolo
544, commi 2 e 3.
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I termini previsti dall'articolo 303 possono altresì essere sospesi, nella fase del giudizio,
quando si tratta di reati indicati dall'articolo 407, comma 2, lettera a), nel caso di dibattimenti
particolarmente complessi, durante il tempo in cui sono tenute le udienze o si delibera la
sentenza nel giudizio di primo grado o nel giudizio sulle impugnazioni.
La sospensione del termine di custodia cautelare, disposta in presenza delle ipotesi
analiticamente individuate dall’art. in questione, giustifica il prolungamento dei termini che
non può mai determinare un periodo di custodia cautelare superiore ai limiti massimi disposti
dal comma 6: la durata della custodia cautelare non può comunque superare il doppio dei
termini previsti dall’art. 303, commi 1, 2 e 3 senza tenere conto dell'ulteriore termine previsto
dall'articolo 303, comma 1, lettera b), numero 3-bis).
A tal fine la pena dell’ergastolo è equiparata alla pena massima temporanea (pari a 24 anni).
Art. 305 : Proroga della custodia cautelare: In ogni stato e grado del procedimento di merito,
quando è disposta perizia sullo stato di mente dell’imputato, i termini di custodia cautelare
sono prorogati per il periodo di tempo assegnato per l’espletamento della perizia. La proroga
è disposta con ordinanza dal giudice, su richiesta del p.m. , sentito il difensore. L’ordinanza è
soggetta a ricorso per cassazione nelle forme previste dall’art. 311.
Nel corso delle indagini preliminari, il p.m. può altresì chiedere la proroga dei termini di
custodia cautelare che siano prossimi a scadere, quando sussistono gravi esigenze cautelari
che, in rapporto ad accertamenti particolarmente complessi, rendano indispensabile il
protrarsi della custodia.
La proroga è rinnovabile una sola volta.
Art. 307 : Provvedimenti in caso di scarcerazione per decorrenza dei termini: quando la
custodia cautelare si sia estinta non per sopravvenuta mancanza dei presupposti che l’hanno
legittimata ma per un decorso dei termini massimi, l’imputato va scarcerato (liberato) con
ordinanza che, al contempo, può disporre l’applicazione di altre misure cautelari in presenza dei
relativi requisiti.
Poiché il ripristino della custodia determina un decorso ex novo dei termini, ma si tiene conto
anche della custodia anteriormente subita, se ne deduce che il ripristino è impossibile se la
scarcerazione è avvenuta per decorso dei termini complessivi massimi (saranno, invece,
possibili misure cautelari non carcerarie).
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La p.g. può fermare il liberato se viola le prescrizioni impostegli all’atto della scarcerazione per
decorrenza dei termini o se è stato condannato con sentenza non definitiva, accingendosi alla
fuga.
Con il provvedimento di convalida il giudice, su richiesta del p.m. , dispone la custodia
cautelare. Tale misura perde efficacia entro 20 gg. se non interviene il giudice competente
(nell’ipotesi in cui il giudice della convalida del fermo non sia quello del procedimento in cui il
soggetto è imputato).
Le impugnazioni
Le misure cautelari, sia personali che reali, sono presidiate da mezzi di impugnazione autonomi
rispetto alla sentenza che definisce il giudizio, che ne consentono una verifica anticipata ed
immediata rispetto al ritmo necessariamente lento dei gradi di giudizio c.d. di merito.
L’autonomia dei gravami (azione di opposizione, impugnazioni) consente un controllo efficace
e celere delle ordinanze in materia di misure cautelari a tutela sia dell’interesse dell’inquisito (al
recupero della sua libertà) sia dell’interesse del p.m. alla corretta applicazione della normativa
cautelare.
Il sistema delle impugnazioni si articola negli istituti del riesame, dell’appello e del ricorso per
Cassazione, relativamente ai provvedimenti cautelari personali, ed in quelli del riesame e del
ricorso per Cassazione, per i provvedimenti cautelari reali.
I mezzi di impugnazione si articolano in 2 gradi:
- uno di merito (riesame e appello, detti appunto “gravami di merito” );
- uno di legittimità (ricorso per Cassazione, detto appunto “gravame di legittimità” ).
Il riesame
L’istituto del riesame è previsto contro tutti i provvedimenti costitutivi di misure cautelari
coercitive, non essendo invece esperibile avverso le ordinanze che dispongono misure
interdittive.
La facoltà di proporre impugnazione è attribuita, in modo autonomo e distinto, all’imputato e al
difensore; il termine perentorio entro il quale proporre la richiesta di riesame dell’ ordinanza
che dispone una misura coercitiva è di 10 gg. ; termine che per l’imputato non latitante
decorre dall’esecuzione o notificazione del provvedimento; per l’imputato latitante decorre
dalla data della notificazione eseguita mediante consegna di copia al difensore; per il
difensore decorre dalla notificazione dell’avviso di deposito del provvedimento (art. 310).
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Sulla richiesta di riesame decide, in composizione collegiale, il tribunale del luogo nel quale ha
sede la corte di appello o la sezione distaccata della corte di appello nella cui circoscrizione è
compreso l’ufficio del giudice che ha emesso l’ordinanza (comma 7).
La richiesta di riesame è presentata nella cancelleria del tribunale indicato nel comma 7
(comma).
Il presidente cura che sia dato immediato avviso all’autorità giudiziaria procedente la quale,
entro il giorno successivo, e comunque non oltre il quinto giorno, trasmette al tribunale gli atti
presentati a norma dell’art. 291, comma 1 (elementi su cui la richiesta si fonda, nonché tutti gli
elementi a favore dell’imputato e le eventuali memorie difensive già depositate), nonché tutti
gli elementi sopravvenuti a favore della persona sottoposta alle indagini (comma 5).
Il tribunale de quo non può applicare una misura coercitiva più grave (o con prescrizioni più
gravi) di quella sottoposta al riesame (c.d. “divieto di reformatio in peius”).
Per il resto potrà dichiarare inammissibile la richiesta (perché tardiva o presentata da persona
non legittimata), annullare il provvedimento, confermarlo o riformarlo (ma soltanto in melius).
Il tutto entro 10 gg. dalla ricezione degli atti, termine anch’esso perentorio,nel senso che
l’omessa decisione o la decisione tardiva determina l’estinzione della misura coercitiva e la
liberazione dell’imputato (comma 10).
La volontà di accelerare i tempi della decisione sull’ordinanza che ha disposto la misura
coercitiva traspare anche dai tempi strettissimi del procedimento avanti al tribunale che si
svolge in camera di consiglio e cioè con garanzia del contraddittorio ma senza la presenza del
pubblico (comma 8).
L’appello
Art. 310 : Il p.m. , l’imputato e il suo difensore possono proporre appello contro le ordinanze
in materia di misure cautelari personali, enunciandone contestualmente i motivi.
L’appello è mezzo di impugnazione di merito a carattere residuale rispetto al riesame, potendo
essere proposto avverso i provvedimenti in materia di libertà personale non oggetto di riesame.
Per l’appello valgono le norme del riesame per quanto concerne i termini per impugnare (10
gg.), i soggetti legittimati (cui va aggiunto il p.m.), la forma e il luogo di presentazione delle
dichiarazioni di appello, il rito camerale e le garanzie del contraddittorio.
La disciplina dei 2 mezzi di impugnazione diverge poiché l’appello deve essere motivato ed i
motivi vanno presentati contestualmente, perché il tribunale decide entro 20 gg. dalla ricezione
degli atti, perché non è previsto che l’omessa o tardiva decisione valga come causa estintiva del
provvedimento contra libertatem impugnato.
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La mancata enunciazione dei motivi di appello rende inammissibile il gravame in virtù
dell’applicazione dell’art. 591 (inammissibilità dell’impugnazione).
Deve ritenersi che il giudizio di appello sia vincolato ai motivi di impugnazione e che non sia
possibile adottare un provvedimento diverso da quello richiesto o dalla conferma (tantum
devolutum quantum appellatum).
Provvedimenti appellabili sono:
- le ordinanze con cui il giudice non accoglie la richiesta di applicazione della misura cautelare
avanzata dal p.m. ;
- le ordinanze che dispongono o negano una misura interdittiva (infatti il riesame è ammesso
solo per le misure coercitive);
- le ordinanze che sospendono i termini di durata max della custodia cautelare;
- le ordinanze che non dispongono la sospensione o la proroga richiesta;
- le ordinanze che accolgono o rigettano la richiesta di revoca o di sostituzione delle misure
cautelari personali;
- le ordinanze che dispongono la rinnovazione di misure applicate per esigenze probatorie.
Ricorso per Cassazione
Il ricorso è consentito contro le decisioni emesse dal tribunale della libertà in sede di riesame e
in sede di appello e contro l’ordinanza di proroga della custodia cautelare per perizia
psichiatrica in ogni stato e grado del procedimento (art. 311).
Legittimato al ricorso (entro 10 gg. dalla comunicazione o notificazione dell’avviso di deposito
del provvedimento) è chiunque vi abbia interesse (e quindi il p.m. che ha chiesto l’applicazione
della misura, l’imputato e il difensore, in relazione al provvedimento impugnato).
Per le sole misure coercitive (e non quindi per le interdittive) è consentito il “ricorso per
saltum”, cioè l’imputato e il suo difensore (non il p.m.) possono adire direttamente la Suprema
Corte per violazione di legge contro le ordinanze che dispongono una misura coercitiva
(senza coinvolgere il tribunale della libertà) al fine evidente di avere una pronuncia definitiva e
più celere sulla legittimità della misura cautelare disposta.
I termini per impugnare per saltum sono quelli dell’art. 309 comma 1- 3; il ricorso proposto
rende inammissibile la richiesta di riesame.
Il ricorso è presentato nella cancelleria del giudice che ha emesso la decisione sul riesame o
sull’appello e va motivato.
La decisione della Cassazione, in camera di consiglio, deve intervenire entro 30 gg. dalla
ricezione degli atti, a conferma della scelta acceleratoria fatta dal legislatore.
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Applicazione provvisoria di misure di sicurezza
Tra le misure cautelari personali, accanto alle misure interdittive e coercitive, gli artt. 312 e 313
prevedono l’applicazione provvisoria di misure di sicurezza a persone socialmente pericolose
nei casi previsti dalla legge.
L’art. 312 richiede 2 condizioni per l’applicazione provvisoria delle misure di sicurezza:
- una, positiva, è che sussistano gravi indizi in ordine alla commissione del fatto;
- l’altra, negativa, è che non ricorrano scriminanti, cause di esclusione della pena o fatti
estintivi.
L’applicazione provvisoria delle misure di sicurezza è disposta dal giudice, su richiesta del
p.m. , in qualunque stato e grado del procedimento.
Compito del giudice è il previo accertamento della pericolosità sociale dell’imputato:
l’interrogatorio della persona sottoposta alle indagini, quale mezzo di difesa e di corretta
formazione del convincimento, è un momento importante e tendenzialmente irrinunciabile (art.
313).
Nel corso del procedimento non è ipotizzabile un’applicazione “definitiva” di misure di
sicurezza, perché la pericolosità sociale, che ne è l’indefettibile presupposto, è accertata in
modo definitivo solo all’esito del processo, con la sentenza irrevocabile.
Riparazione per l’ingiusta detenzione
All’imputato è riconosciuto un vero e proprio diritto ad ottenere un’equa riparazione per la
custodia cautelare subita ingiustamente (art. 314). Si tratta di una novità introdotta dal codice
del 1988 in adempimento della “Convenzione europea dei diritti dell’uomo”.
L’art. 314 riconosce il diritto ad un’equa riparazione:
a) a chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver
commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato,
dopo aver subito un periodo di custodia cautelare o di arresti domiciliari senza dolo o colpa;
b) a chi, già sottoposto a misura cautelare o arresti domiciliari, viene a fruire di un
provvedimento di archiviazione o di una sentenza di non luogo a procedere;
c) a chi, prosciolto per qualsiasi causa o condannato, abbia subito un periodo di custodia
cautelare o arresti domiciliari a seguito di un provvedimento emesso o mantenuto senza che
esistessero i gravi indizi di colpevolezza o un’adeguata gravità del reato.
76
L’imputato non ha diritto alla riparazione se ha dato causa o concorso a dare causa
all’ingiusta custodia cautelare per dolo o colpa grave. (ad esempio nel caso di false
dichiarazioni)(comma 4).
A pena di inammissibilità la domanda di riparazione deve essere proposta dall’interessato (alla
corte d’appello) entro 2 anni dal giorno in cui la sentenza è divenuta irrevocabile (art. 315).
L’entità della riparazione non può comunque eccedere un miliardo di lire del vecchio conio
(comma 2).
La corresponsione di una somma (fino a 1 miliardo di lire) che, tenuto conto della durata della
custodia cautelare, valga a compensare l’interessato delle conseguenze personali di natura
morale, patrimoniale, fisica e psichica che la custodia abbia prodotto.
Misure cautelari reali
Le misure cautelari reali sono misure che incidono sul patrimonio dell’imputato e determinano
l’indisponibilità di cose o beni. Esse sono:
• il sequestro conservativo sui beni mobili e immobili dell’imputato a garanzia delle pene
pecuniarie, delle spese del procedimento e delle obbligazioni civili nascenti da reato;
• il sequestro preventivo delle cose pertinenti al reato, la cui disponibilità potrebbe agevolare
le conseguenze di esso o la commissione di altri reati.
Il sequestro conservativo
Il sequestro conservativo ha funzione di garanzia dei crediti dello Stato e della parte civile e va
adottato in presenza di fondate ragioni di ritenere che manchino o si disperdano le “garanzie
per il pagamento della pena pecuniaria, delle spese del procedimento e di ogni altra somma
dovuta all’erario dello Stato” (art. 316 comma 1) ovvero le “garanzie delle obbligazioni civili
derivanti dal reato” (art. 316 comma 2).
Sequestrabili, a richiesta del p.m. , sono i beni mobili o immobili dell'imputato o somme o cose
a lui dovute, nei limiti in cui la legge ne consente il pignoramento.
Diversamente dal p.m. ,la parte civile, a tutela dei propri interessi individuali, può richiedere il
sequestro sia nei confronti dell’imputato che del responsabile civile a garanzia
dell’adempimento delle obbligazioni civili nascenti dal reato (risarcimento del danno e
restituzione di cose).
Il sequestro conservativo mira ad evitare la dispersione dei beni che potrebbe venir posta in
essere in previsione di una condanna.
77
Il provvedimento che dispone il sequestro conservativo a richiesta del p.m. o della parte civile
è emesso con ordinanza del giudice che procede (art. 317).
Il sequestro è eseguito dall'ufficiale giudiziario.
Gli effetti del sequestro cessano quando la sentenza di proscioglimento o di non luogo a
procedere non è più soggetta a impugnazione.
Il sequestro conservativo si converte in pignoramento quando diventa irrevocabile la sentenza
di condanna al pagamento di una pena pecuniaria ovvero quando diventa esecutiva la sentenza
che condanna l’imputato e il responsabile civile al risarcimento del danno a favore della parte
civile.
Contro l'ordinanza di sequestro conservativo chiunque vi abbia interesse può proporre richiesta
di riesame, anche nel merito, a norma dell'art. 324. La richiesta di riesame non sospende
l'esecuzione del provvedimento.
Se l'imputato o il responsabile civile offre cauzione idonea a garantire i crediti indicati
nell'articolo 316, il giudice dispone con decreto che non si faccia luogo al sequestro
conservativo e stabilisce le modalità con cui la cauzione deve essere prestata (art. 319).
il sequestro preventivo
Quando vi è pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa
aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati, a
richiesta del p.m. il giudice competente a pronunciarsi nel merito ne dispone il sequestro con
decreto motivato.
Il sequestro è disposto con decreto motivato dal gip, prima dell'esercizio dell'azione penale e
nella relativa fase, e dal giudice competente a decidere nel merito, successivamente (art. 321).
Nel corso delle indagini preliminari, quando non è possibile, per la situazione di urgenza,
attendere il provvedimento del giudice, il sequestro è disposto con decreto motivato dal p.m.
(art. 321 comma 3 bis).
Negli stessi casi, prima dell'intervento del p.m. , al sequestro procedono ufficiali di p.g. , i
quali, nelle 48 ore successive, trasmettono il verbale al p.m. del luogo in cui il sequestro è stato
eseguito.
Questi, se non dispone la restituzione delle cose sequestrate, richiede al giudice la convalida e
l'emissione del decreto entro 48 ore dal sequestro, se disposto dallo stesso p.m. , o dalla
ricezione del verbale, se il sequestro è stato eseguito di iniziativa dalla p.g.
Il sequestro perde efficacia se non sono osservati i termini previsti ovvero se il giudice non
emette l'ordinanza di convalida entro 10 gg. dalla ricezione della richiesta. Copia
78
dell'ordinanza è immediatamente notificata alla persona alla quale le cose sono state
sequestrate.
Contro il decreto di sequestro preventivo emesso dal giudice e l’ordinanza di sequestro
conservativo è consentito proporre richiesta di riesame (art. 324) da parte di chiunque vi abbia
interesse (concetto che comprende la persona alla quale le cose sono state sequestrate nonché
quella che avrebbe diritto alla loro restituzione).
La richiesta, che non ha effetti sospensivi dell’esecuzione del provvedimento, va presentata
entro 10 gg. dall’esecuzione o dalla conoscenza dell’avvenuto sequestro.
Fuori da questi casi (residuale, cioè è consentito quando non è prevista richiesta di riesame), il
p.m. , l'imputato e il suo difensore, la persona alla quale le cose sono state sequestrate e quella
che avrebbe diritto alla loro restituzione, possono proporre appello contro le ordinanze in
materia di sequestro preventivo e contro il decreto di revoca del sequestro emesso dal p.m.
Sull'appello decide, in composizione collegiale, il tribunale del capoluogo della provincia nella
quale ha sede l'ufficio che ha emesso il provvedimento. L'appello non sospende l'esecuzione del
provvedimento (art. 322 bis).
Contro le ordinanze emesse a norma degli artt. 322 bis e 324 il p.m. , l’imputato e il suo
difensore, la persona alla quale le cose sono state sequestrate e quella che avrebbe diritto alla
loro restituzione, possono proporre ricorso per cassazione per violazione di legge (art. 325).
Il termine per il ricorso è di 15 gg. dal momento della comunicazione o notificazione
dell’avviso dell’ordinanza. Il ricorso deve essere motivato.
Il procedimento è quello camerale ex art. 127.
CAP. 21^ : LE INDAGINI PRELIMINARI
L’utilizzo dell’aggettivo “preliminare” evidenzia la collocazione delle indagini nella fase pre-
processuale.
Le indagini preliminari (collocate nel libro 5^), in particolare, hanno la finalità di consentire al
p.m. di verificare se sussistono o meno le condizioni per l’esercizio dell’azione penale nei
confronti di un determinato soggetto, per formulare, di conseguenza l’imputazione (l’azione
penale può essere definita come l’atto attraverso il quale il p.m. , che ne è il titolare esclusivo,
manifesta nei confronti di una determinata persona ed in relazione ad un determinato fatto, ,a
pretesa punitiva dello Stato).
Quando la notizia di reato, a seguito delle investigazioni, risulti infondata, le indagini
preliminari si concludono con la richiesta di archiviazione.
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Con l’esercizio dell’azione penale, cioè con la proposizione della richiesta di rinvio a giudizio
da parte del p.m. (che sarà oggetto delle valutazioni del gup) , la fase delle indagini si chiude e
si apre la fase del processo.
Nella fase processuale del procedimento penale, l’indagato assume formalmente la qualifica di
imputato.
Il p.m. è il dominus della fase delle indagini preliminari in quanto titolare di funzioni
investigative proprie, con poteri direttivi nei confronti della p.g.
Quest’ultima, pertanto, pur essendo gerarchicamente inquadrata in modo autonomo, dipende dal
p.m. sotto il profilo funzionale.
Art. 327 : Il p.m. dirige le indagini e dispone direttamente della polizia giudiziaria…
Se il p.m. è titolare esclusivo dell’azione penale e, conseguentemente, delle indagini
preliminari, il legislatore ha previsto, anche durante tale fase, la possibilità, per tutte le parti del
procedimento, di fare ricorso ad un organo giurisdizionale in posizione di terzietà e neutralità
rispetto ad esse.
L’art. 328 stabilisce, infatti, che il gip fa ingresso nelle indagini preliminari soltanto su richiesta
del p.m. o delle parti private nei casi espressamente previsti dalla legge in tutte le ipotesi in cui
vengono richiesti provvedimenti che, per la delicatezza dei diritti sui quali incidono, debbono
essere adottati da un organo giurisdizionale.
Nel nuovo processo penale, il gip esplica una funzione di garanzia e di controllo: di garanzia, in
particolare, della libertà personale, dell’inviolabilità del domicilio e della riservatezza delle
comunicazioni (libertà costituzionalmente garantite); di controllo della legittimità dell’attività
dell’accusa.
L’art. 329 stabilisce che gli atti di indagine preliminare sono coperti dal segreto nel senso che il
p.m. e gli ufficiali ed agenti di p.g. che li hanno compiuti hanno il dovere di non comunicarli né
all’indagato, né al suo difensore né a terzi.
La violazione di tale dovere è sanzionata penalmente.
Il segreto di indagine viene meno:
● in generale, con la chiusura delle i.p. ;
● per singoli atti, anche prima della chiusura delle i.p. , quando si tratta di atti di cui l’imputato
è a conoscenza o che, comunque, avrebbe il diritto, secondo le norme processuali, di conoscere.
La ratio è quella di sfruttare fino in fondo l’effetto sorpresa, di evitare o ridurre il pericolo di
inquinamento del materiale probatorio, di circoscrivere il rischio di favoreggiamento nei
confronti di indagati o indagabili e, infine, di tutelare il buon nome di chi è pur sempre presunto
non colpevole.
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La notizia di reato
Il punto di partenza delle indagini preliminari è rappresentato dalla acquisizione della notizia di
reato.
Per notizia di reato si intende ogni informazione relativa a fatti che appaiono costituire reato.
Sulla base dell’art. 330 è possibile distinguere tra:
- notizie di reato acquisite direttamente dal p.m. o dalla p.g. di sua iniziativa;
- notizie di reato che il p.m. e la p.g. ricevono da altri soggetti nella forma della denuncia, del
referto o della querela.
Art. 331 : Denuncia da parte di pubblici ufficiali e incaricati di un pubblico servizio: I pubblici
ufficiali e gli incaricati di un pubblico servizio che, nell’esercizio o a causa delle loro funzioni
o del loro servizio, hanno notizia di un reato perseguibile di ufficio, devono farne denuncia per
iscritto, anche quando non sia individuata la persona alla quale il reato è attribuito.
La denuncia è presentata o trasmessa senza ritardo al p.m. o a un ufficiale di p.g.
La denuncia è l’atto con cui ogni persona, anche s e diversa dalla persona offesa dal reato,
informa il p.m. o un ufficiale di p.g. , di un fatto che può costituire reato perseguibile d’ufficio.
La denuncia deve contenere una succinta esposizione del fatto, delle eventuali fonti di prova già
conosciute (ivi comprese le persone che potranno essere chiamate a testimoniare) e, se
possibile, le generalità dell’autore del fatto e della persona offesa.
Naturalmente l’eventuale assenza di tali elementi non incide in alcun modo sull’idoneità della
denuncia a determinare l’avvio del procedimento penale (art. 332).
Art. 333 : Denuncia da parte di privati: Ogni persona che ha notizia di un reato perseguibile di
ufficio può farne denuncia. La legge determina i casi in cui la denuncia è obbligatoria.
A differenza dei pubblici ufficiali e incaricati di pubblico servizio, che hanno l’obbligo di
denunciare i reati di cui sono venuti a conoscenza nell’esercizio o a causa delle loro funzioni, il
cittadino non è, salvo casi eccezionali espressamente previsti dalla legge (in relazione ai delitti
contro la personalità dello Stato- sequestro di persona) obbligato, pur avendone la facoltà, a
denunciare all’autorità di polizia o alla magistratura i reati di cui è venuto a conoscenza.
La denuncia è presentata oralmente o per iscritto, personalmente o a mezzo di procuratore
speciale, al p.m. o a un ufficiale di p.g. ; se è presentata per iscritto, è sottoscritta dal
denunciante o da un suo procuratore speciale.
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Non vanno considerate come vere e proprie notizie di reato le denunce anonime di cui non può
essere fatto alcun uso processuale a meno che non costituiscano corpo di reato (es. : in un
processo per calunnia) o si accerti che comunque provengano dall’imputato.
L’esclusione di un utilizzo delle denunce anonime è dovuta a ragioni processuali nel senso che
non può essere utilizzato materiale probatorio non vagliabile in contraddittorio e di cui il
giudice non conosce la fonte.
Il referto
Accanto alla denuncia, il codice prevede come forma tipica di notizia di reato, il referto.
Il referto è l’atto obbligatorio con cui l’esercente una professione sanitaria (medico, farmacista,
ostetrico) comunica al p.m. o alla p.g. , entro 48 ore dal suo intervento, i casi per i quali ha
prestato la propria assistenza e dai quali si possa ravvisare l’esistenza di un reato perseguibile
d’ufficio.
Così, ad es. , il medico che interviene per suturare ferite d’arma da fuoco, ha l’obbligo di far
pervenire il referto alla p.g. o al p.m.
L’inosservanza da parte del sanitario dell’obbligo di referto costituisce reato (art. 365).
Il referto indica la persona alla quale è stata prestata assistenza e, se è possibile, le sue
generalità, il luogo dove si trova attualmente; dà inoltre le notizie che servono a stabilire le
circostanze del fatto, i mezzi con i quali è stato commesso e gli effetti che ha causato o può
causare (art. 334).
Art. 334 bis : Compito del difensore è solo quello di contribuire a provare l’estraneità ai fatti del
proprio assistito, dunque nessun obbligo di denunzia di fatti penalmente rilevanti,
eventualmente emersi nel corso delle indagini ( Il difensore non ha obbligo di denuncia
neppure relativamente ai reati dei quali abbia avuto notizia nel corso delle attività
investigative da egli svolte).
Art. 335 : Registro delle notizie di reato: Il p.m. iscrive immediatamente, nell’apposito registro
custodito presso l’ufficio, ogni notizia di reato che gli perviene o che ha acquisito di propria
iniziativa nonché, contestualmente o dal momento in cui risulta, il nome della persona alla
quale il reato stesso è attribuito.
Dal momento in cui il nome della persona viene iscritto, come presunto autore del fatto, nel
registro delle notizie di reato cominciano a decorrere i termini di durata delle indagini
preliminari entro i quali il p.m. dovrà decidere, sulla base delle indagini preliminari svolte, se
promuovere o meno l’esercizio dell’azione penale.
82
Decorre, inoltre, il termine utile di 90 gg. perché il p.m. presenti la richiesta di giudizio
immediato.
Condizioni di procedibilità
La perseguibilità di determinati reati è subordinata dalla legge al verificarsi di talune condizioni
definite, appunto, di procedibilità.
Se, infatti, di regola il p.m. è tenuto ad esercitate d’ufficio l’azione penale, vi sono dei casi in
cui, in considerazione della non particolare gravità dei fatti o della natura del reato o della
particolare qualifica rivestita dal suo autore, la legge subordina l’esercizio dell’azione penale
e/o lo svolgimento di atti di indagine preliminare ad un’ulteriore manifestazione di volontà
proveniente da altri soggetti, pubblici o privati.
Le condizioni di procedibilità previste dal cpp. sono:
1) la querela;
2) l’istanza di procedimento;
3) la richiesta di procedimento;
4) l’autorizzazione a procedere.
1) La querela (artt. 336- 337) è una dichiarazione con la quale la persona offesa dal reato
manifesta la volontà che si proceda in ordine ad un fatto previsto dalla legge come reato .
La querela è condizione di promuovibilità e proseguibilità dell’azione penale.
Deve essere proposta entro 3 mesi dal giorno in cui la persona offesa ha avuto notizia del fatto
di reato.
La dichiarazione di querela può essere proposta oralmente o per iscritto al p.m. , ad un ufficiale
di p.g. ovvero ad un agente consolare all’estero.
Il contenuto della querela non deve seguire forme prestabilite, la proposizione della stessa non
necessita dell’indicazione e della precisazione del fatto che costituisce reato nei suoi termini
giuridici: basta che da essa si palesi, in forma esplicita o implicita, l’effettiva volontà di
chiedere la punizione del colpevole.
Il diritto di querela è riconosciuto anche alle persone giuridiche, enti o associazioni (in tal caso
è necessaria l’indicazione specifica dei poteri di rappresentanza).
L’inutile decorso del termine previsto per la presentazione della querela (3 o 6 mesi) implica
automaticamente la decadenza dall’esercizio del potere di querela. La venuta meno del potere di
presentare querela può aversi anche prima del decorso del termine finale a seguito di rinuncia
espressa o tacita (mediante il compimento di attività incompatibili con la volontà di proporre
83
querela; ad es. : genitori che, dopo il reato di sottrazione consensuale di minorenne, consentono
al seduttore di convivere presso di loro con la figlia; art. 339).
La querela ritualmente presentata può perdere i suoi effetti di condizione di procedibilità in
forza di una manifestazione di volontà espressa della persona offesa di non voler dare un
seguito penale al fatto illecito in precedenza segnalato all’autorità giudiziaria.
La remissione della querela impone l’immediata liberazione dell’arrestato.
La remissione del querelante non produce effetti (da questo si differenzia dalla rinuncia) se non
vi è accettazione da parte del querelato (quest’ultimo può avere interesse ad un giudizio nel
merito della querela per farne risaltare la pretestuosità o l’infondatezza).
La remissione della querela può avvenire in qualunque momento prima della sentenza definitiva
e implicare l’annullamento di interi gradi di processo: le spese del procedimento sono a carico
del querelato, salvo che nell’atto di remissione sia stato diversamente convenuto (art. 340).
2) L’istanza di procedimento, riservata alla persona offesa dal reato e assoggettata alle forme
della querela, si risolve in una dichiarazione irrevocabile con la quale viene manifestata la
volontà che si proceda per delitti commessi all’estero (che se fossero commessi nel territorio
dello Stato sarebbero stati perseguibili d’ufficio) da stranieri o da cittadini (art. 341).
3) La richiesta di procedimento, riservata al Ministro della giustizia e da presentare al p.m. (art.
342) presuppone o un delitto in danno del Presidente della Repubblica o delitti politici o comuni
commessi all’estero dal cittadino o dallo straniero.
Come la querela, anche la richiesta e l’istanza vanno proposte entro 3 mesi dalla notizia del
fatto costituente reato, ma sono irrevocabili.
4) L’autorizzazione a procedere indica l’atto con cui l’autorità competente (che varia a seconda
dei casi: Corte Costituzionale, Parlamento, Ministro della giustizia) consente l’esercizio
dell’azione penale rimuovendo l’ostacolo ad essa frapposto da particolari disposizioni di legge.
Essa può essere richiesta in considerazione di una speciale qualità o situazione del soggetto
attivo ovvero del soggetto passivo del reato o per motivi di opportunità politica intesa come
esigenza di subordinare l’esercizio dell’azione penale ad una valutazione dell’autorità di
governo (art. 343).
In mancanza di una condizione di procedibilità il p.m. dovrà chiedere l’archiviazione della
notizia di reato.
Analogamente, qualora la mancanza della condizione di procedibilità venga rilevata in un
momento successivo a quello dell’esercizio dell’azione penale, il giudice dovrà pronunciare
sentenza di non luogo a procedere o di proscioglimento.
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In tutti i casi si tratta di provvedimenti meramente processuali che non impediscono l’esercizio
successivo, in ordine allo stesso fatto e nei confronti della stessa persona, dell’azione penale
allorquando si sia verificata la condizione richiesta (art. 345).
L’attività ad iniziativa della p.g.
Il nuovo cpp. non ha eliminato la facoltà della p.g. di svolgere attività di indagine di propria
iniziativa.
Anzi tale autonoma attività, dopo una fase iniziale in cui era stata compressa in tempi
sostanzialmente ridotti, con successive riforme legislative è stata ulteriormente stimolata ed
ampliata.
Naturalmente lo svolgimento di tale attività resta subordinata al rispetto delle eventuali direttive
che il p.m. , una volta informato, abbia ritenuto di adottare.
Art. 347 : Obbligo di riferire la notizia di reato: Acquisita la notizia di reato, la p.g. , senza
ritardo, riferisce al p.m. , per iscritto, gli elementi essenziali del fatto e gli altri elementi sino
ad allora raccolti, indicando le fonti di prova e le attività compiute, delle quali trasmette la
relativa documentazione.
Comunica, inoltre, quando è possibile, le generalità, il domicilio e quanto altro valga alla
identificazione della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini, della persona offesa
e di coloro che siano in grado di riferire su circostanze rilevanti per la ricostruzione dei fatti.
L’attività di iniziativa della p.g. si esplica prima e dopo la notizia di reato, prima e dopo la
comunicazione di questa al p.m. , prima e dopo aver ricevuto le direttive dal magistrato:
quest’ultimo profilo emerge dall’art. 348 secondo cui la p.g. , dopo l’intervento del p.m. ,
svolge le indagini necessarie nell’ambito delle direttive impartitele, ma continua anche le
indagini di propria iniziativa.
La p.g. di propria iniziativa:
a) può ricercare la notizia di reato e cose e tracce pertinenti al reato, provvedere alla
conservazione di esse e dello stato dei luoghi;
b) può ricercare persone in grado di riferire su circostanze rilevanti per la ricostruzione dei
fatti;
c) può compiere operazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, anche avvalendosi
di persone idonee, nonché compiere tutta una serie di atti “atipici” e “tipici”.
● Tra le operazioni “atipiche” della p.g. vanno annoverate l’attivazione di canali informativi
non istituzionalizzati (utilizzo di confidenti), la predisposizioni di blocchi stradali e il
pedinamento, alla ricerca di piste da seguire e di elementi idonei a orientare le indagini.
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● Tipici sono gli atti normativamente previsti e regolati.
L’art. 349 disciplina l’identificazione della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini
(c.d. indagato) e di altre persone quali la persona offesa dal reato e i possibili testimoni.
In questa fase la p.g. potrà, inoltre, ai fini dell’esatta identificazione personale, anche effettuare
rilievi dattiloscopici, fotografici ed altri accertamenti di natura tecnica o scientifica
(accertamenti sul dna).
● Per pervenire all’effettiva identificazione di tali persone è stata inoltre riconosciuta alla p.g. la
facoltà di disporre l’accompagnamento, anche coattivo, nei propri uffici di chi rifiuta di farsi
identificare ovvero fornisce generalità o documenti di identificazione ritenuti falsi.
● La p.g. può assumere informazioni dall’indagato che non si trovi in stato di arresto o di fermo
con la necessaria presenza del difensore.
Prima di assumere le sommarie informazioni, la p.g. invita la persona nei cui confronti
vengono svolte le indagini a nominare un difensore di fiducia e, in difetto, provvede a
nominarlo d’ufficio (art. 350).
Se poi la p.g. non riesce a reperire il difensore di fiducia o d’ufficio ovvero egli, sebbene
avvisato, non si sia presentato, dovrà richiedere al p.m. di provvedere a designare come
difensore d’ufficio un sostituto che sia immediatamente reperibile.
Sul luogo o nell'immediatezza del fatto, gli ufficiali di p.g. possono, anche senza la presenza del
difensore, assumere dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini notizie e
indicazioni utili ai fini della immediata prosecuzione delle indagini.
Delle notizie e delle indicazioni assunte senza l'assistenza del difensore sul luogo o
nell'immediatezza del fatto è vietata ogni documentazione e utilizzazione.
● L’urgenza è alla base dell’attribuzione alla p.g. del potere di effettuare perquisizioni di
propria iniziativa: l’art. 352 consente tale atto nella flagranza del reato o nel caso di evasione,
quando vi è fondato motivo di ritenere che cose e tracce del reato suscettibili di cancellazione o
dispersione si trovino occultate sulla persona (perquisizione personale) o in un determinato
luogo o che ivi si trovi l’indagato o l’evaso (perquisizione locale) ovvero quando sussistono
particolari motivi di urgenza che non consentono l’emissione di un tempestivo decreto di
perquisizione da parte dell’autorità giudiziaria.
Non è previsto l’avviso al difensore, anche se alla perquisizione può assistere.
La p.g. trasmette senza ritardo, e comunque non oltre le 48 ore, al p.m. del luogo dove la
perquisizione è stata eseguita il verbale delle operazioni compiute. Il p.m. , se ne ricorrono i
presupposti, nelle 48 ore successive, convalida la perquisizione.
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● Sempre nell’esercizio di attribuzioni proprie la p.g. procede all’acquisizione di plichi sigillati
o corrispondenza (art. 353) che vanno trasmessi al p.m. o bloccati in previsione di un sequestro.
La tutela della riservatezza fa sì che la p.g. non possa aprirli, salva l’autorizzazione del p.m. per
pericolo di dispersione di elementi probatori.
● Analoga preoccupazione è alla base dell’art. 354 che consente alla p.g. accertamenti e rilievi
urgenti sullo stato delle cose e dei luoghi nonché sulle persone ivi compresi prelievi di materiale
biologico (capelli o saliva).
La p.g. può procedere al sequestro del corpo del reato e delle cose a questo pertinenti, qualora
ricorrano i seguenti presupposti: pericolo che le cose, le tracce e i luoghi si alterino, si
disperdano o, comunque, si modifichino; impossibilità di intervento tempestivo del p.m.
Si tratta, evidentemente, di un sequestro probatorio.
Il difensore dell’indagato potrà assistere al sequestro e/o ai rilievi ma non ha diritto a riceverne
preventivo avviso.
Tali atti vanno inseriti nel fascicolo per il dibattimento e sono pienamente utilizzabili ai fini
della decisione.
Art. 355 : Convalida del sequestro e suo riesame: Nel caso in cui abbia proceduto a sequestro,
la p.g. enuncia nel relativo verbale il motivo del provvedimento e ne consegna copia alla
persona alla quale le cose sono state sequestrate. Il verbale è trasmesso senza ritardo, e
comunque non oltre le 48 ore, al p.m. del luogo dove il sequestro è stato eseguito.
Il p.m. , nelle 48 ore successive, con decreto motivato convalida il sequestro se ne ricorrono i
presupposti ovvero dispone la restituzione delle cose sequestrate. Copia del decreto di
convalida è immediatamente notificata alla persona alla quale le cose sono state sequestrate.
Contro il decreto di convalida, l’interessato (la persona nei cui confronti vengono svolte le
indagini e il suo difensore, la persona alla quale le cose sono state sequestrate) può proporre,
entro 10 gg. dalla notifica del decreto, richiesta di riesame, anche nel merito.
L’attività di indagine del p.m.
Nella fase delle indagini preliminari, che ha valore tendenzialmente solo preparatorio del vero e
proprio processo, la figura soggettiva prevalente è senza dubbio quella del p.m.
Dominus, quindi, delle i.p. è il p.m. chiamato a compiere personalmente ogni attività di
indagine (art. 370).
Questo principio è stato eroso sia consentendo alla p.g. maggiori spazi di indagine “di propria
iniziativa”, sia consentendo al p.m. ampi poteri di delega.
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Dal momento in cui riceve, direttamente o per mezzo della p.g. che ha l’obbligo di informarlo
senza ritardo, la notizia di reato è il p.m. che assume la direzione ed il controllo delle i.p.
In quanto parte imparziale, le indagini del p.m. devono essere finalizzate anche all'acquisizione
di elementi probatori favorevoli all'indagato (art. 358).
Il p.m. può avvalersi della collaborazione di persone dotate di specifiche competenze tecniche,
scientifiche o di altra natura (consulenti tecnici del p.m.) , non soltanto per la constatazione di
dati materiali pertinenti al reato o per la loro raccolta o per la loro raccolta, ma anche per
l’elaborazione critica di tali elementi (si pensi ad es. all'autopsia su un cadavere per determinare
le cause di un decesso; l'analisi tossicologica di una sostanza per stabilirne la natura
stupefacente o meno; la ricostruzione balistica di una sparatoria; art. 359).
L’incarico di consulente tecnico del p.m. è obbligatorio ma retribuito a spese dello Stato.
Gli accertamenti tecnici possono essere ripetibili o no (art. 360).
Gli accertamenti tecnici non ripetibili sono quelli che hanno ad oggetto persone, cose o luoghi il
cui stato è soggetto a modificazioni e che quindi o non possono essere utilmente ripetuti ovvero
se ripetuti avrebbero esito diverso (ad es. : rilievi segnaletici o fotografici disposti in occasione
di un sinistro stradale e dell’autopsia di una persona morta in circostanze tali da far sorgere il
sospetto di un reato. È evidente che per effetto delle condizioni atmosferiche e del transito degli
altri veicoli, le tracce di frenata o i detriti dell’impatto finirebbero, nel caso del sinistro stradale,
per disperdersi e non potrebbero, fino al dibattimento, essere in altro modo conservati).
Quando gli accertamenti tecnici sono non ripetibili, il p.m. avvisa, senza ritardo, la persona
sottoposta alle indagini, la persona offesa dal reato e i difensori del giorno, dell’ora e del luogo
fissati per il conferimento dell’incarico al consulente tecnico della parte pubblica e della facoltà
di nominare consulenti tecnici i quali hanno diritto di partecipare alle operazioni di
accertamento.
Gli accertamenti tecnici non ripetibili sono utilizzabili nel dibattimento e questo è il motivo per
cui, in alternativa, all’indagato è consentito di promuovere l’incidente probatorio, affinché
l’accertamento venga effettuato da un perito nominato dal gip invece che dal consulente tecnico
del p.m.
Art. 361 : Individuazione di persone o cose : Quando è necessario per la immediata
prosecuzione delle indagini, il p.m. invita una persona a riconoscere un'altra persona, una cosa
od un suono ecc (ad es. la vittima di una rapina chiamata a riconoscere se, tra una pluralità di
sospettati portati al suo cospetto, vi sia l'autore dell'atto delittuoso).
Tra gli atti di indagine più tipici che il p.m. può compiere si inserisce l’assunzione di
informazioni dalle persone che possono riferire circostanze utili alle indagini.
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Si tratta, evidentemente, di un’attività sostanzialmente analoga, per contenuto, alla
testimonianza, dalla quale però si distingue per essere resa non al giudice, ma al p.m. (art. 362).
È stata elaborata la locuzione “atti garantiti” per indicare quegli atti di indagine preliminare per
i quali è previsto l’intervento e l’assistenza del difensore dell’indagato.
In particolare, il difensore ha il diritto di assistere, previo avviso : all’interrogatorio,
all’ispezione dell’indagato ed ai confronti effettuati dal p.m.
Nel solo caso dell’ispezione, quando vi è fondato motivo di ritenere che le tracce o gli altri
effetti materiali del reato possano essere alterati, il p.m. può procedere anche senza avviso al
difensore, che conserva, comunque, la facoltà di intervenire (ad es. : ispezione effettuata
sull’indagato per rintracciare le tracce di sangue della vittima o altre microtracce, peli, capelli,
fibre e altro).
Vi è poi la categoria dei c.d. atti a sorpresa; in essa vi rientrano gli atti ai quali il difensore ha
facoltà di assistere senza tuttavia avere diritto al preavviso. Si tratta delle perquisizioni e dei
sequestri, che sono atti per loro natura non ripetibili (art. 365 ).
Art. 366 : Deposito degli atti cui hanno diritto di assistere i difensori : I verbali degli atti
compiuti dal p.m. e dalla p.g. ai quali il difensore ha diritto di assistere, sono depositati nella
segreteria del p.m. entro il 3^ giorno successivo al compimento dell’atto con facoltà per il
difensore di esaminarli ed estrarne copia nei 5 gg. successivi.
Il difensore ha facoltà di esaminare le cose sequestrate nel luogo in cui esse si trovano e, se si
tratta di documenti, di estrarne copia.
Nel corso delle indagini preliminari, i difensori hanno facoltà di presentare memorie e richieste
scritte al p.m. (art. 367).
Art. 369 : Informazione di garanzia: Solo quando deve compiere un atto al quale il difensore
ha diritto di assistere, il p.m. invia per posta, in piego chiuso raccomandato con ricevuta di
ritorno, alla persona sottoposta alle indagini (indagato) e alla persona offesa una informazione
di garanzia con indicazione delle norme di legge che si assumono violate, della data e del luogo
del fatto e con invito a esercitare la facoltà di nominare un difensore di fiducia.
Come espressamente riconosciuto dalla Costituzione, la difesa costituisce un diritto inviolabile
in ogni stato e grado del procedimento.
Deve, dunque, essere effettiva, cioè piena e libera, ed a tal scopo al difensore deve essere
consentito di avere un ruolo attivo e dinamico nella vicenda processuale.
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Proprio allo scopo di garantire l’effettività della difesa tecnica dell’indagato, si è introdotto
l’art. 369 bis (informazione sul diritto di difesa) il quale prevede che : quando il p.m. nomina un
difensore d’ufficio e stia per compire il primo atto a cui il difensore ha diritto di assistere, è
tenuto a fornire le seguenti informazioni:
a) l’informazione della obbligatorietà della difesa tecnica nel processo penale, con
l’indicazione della facoltà e dei diritti attribuiti dalla legge alla persona sottoposta alle
indagini;
b) il nominativo del difensore d’ufficio e il suo indirizzo e recapito telefonico;
c) l’indicazione della facoltà di nominare un difensore di fiducia con l’avvertimento che, in
mancanza, l’indagato sarà assistito da quello nominato d’ufficio;
d) l’indicazione dell’obbligo di retribuire il difensore d’ufficio ove non sussistano le condizioni
per accedere al beneficio di cui alla lettera e) e l’avvertimento che, in caso di insolvenza, si
procederà ad esecuzione forzata;
e) l’indicazione delle condizioni per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato.
La violazione della disposizione comporta la nullità degli atti compiuti.
In definitiva, l’art. 369 bis sancisce il diritto ad essere informati sulle modalità di
estrinsecazione del diritto di difesa e conferma come l’ordinamento giuridico non presuma
nell’indagato la conoscenza della normativa processuale penale (al punto da obbligare il p.m. a
renderlo edotto al riguardo).
Art. 371 : Rapporti tra diversi uffici del p.m. : Per garantire, nella fase delle indagini
preliminari, il coordinamento tra i diversi uffici del p.m. ed evitare , come talvolta accade, che
su fatti collegati si indaghi da parte di più magistrati, l’uno all’insaputa dell’altro, la
disposizione in esame ha previsto 3 strumenti fondamentali:
- scambio di atti ed informazioni (ad es. : verbali di interrogatori, documenti);
- comunicazione delle istruzioni impartite alla p.g. ;
- compimento congiunto di singoli atti di indagine.
Il ruolo del gip
L’art. 328 stabilisce, infatti, che il gip fa ingresso nelle indagini preliminari soltanto su richiesta
del p.m. o delle parti private nei casi espressamente previsti dalla legge in tutte le ipotesi in cui
vengono richiesti provvedimenti che, per la delicatezza dei diritti sui quali incidono, debbono
essere adottati da un organo giurisdizionale.
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Nel nuovo processo penale, il gip esplica una funzione di garanzia e di controllo: di garanzia, in
particolare, della libertà personale, dell’inviolabilità del domicilio e della riservatezza delle
comunicazioni (libertà costituzionalmente garantite); di controllo della legittimità dell’attività
dell’accusa.
In particolare, il gip provvede:
● a controllare la durata delle i.p. decidendo sulla richiesta di proroga (artt. 406 – 407);
● ad applicare, revocare, modificare o prorogare, su richiesta del p.m. o dell’indagato, le misure
cautelari che incidono sulla libertà o sul patrimonio della persona sottoposta alle indagini (artt.
291, 313, 317, 321);
● a convalidare o meno gli arresti in flagranza ed i fermi operati dalla p.g. o, nel caso del fermo,
dal p.m. (artt. 291 e ss.);
● ad autorizzare o convalidare intercettazioni di comunicazioni o conversazioni (art. 267);
● ad anticipare il momento della formazione della prova, rispetto al dibattimento, autorizzando
e dirigendo l’incidente probatorio (artt. 392 e ss.);
● ad accogliere o meno le richieste di archiviazione della notizia di reato avanzate dal p.m. (art.
409).
Durata delle indagini preliminari
Poiché la finalità delle indagini preliminari è quella di orientare il p.m. nella scelta se esercitare
o meno, in relazione ad una determinata notizia di reato, l’azione penale, le indagini preliminari
si concludono:
● o con una richiesta di archiviazione;
● o con l’esercizio dell’azione penale in una qualsiasi delle forme in cui ciò può avvenire (
- la richiesta di rinvio a giudizio, art. 416;
- la richiesta di applicazione della pena su accordo delle parti, art. 444;
- la presentazione dell’imputato o la sua citazione per il giudizio direttissimo, art. 449;
- la richiesta di giudizio immediato, art. 454;
- la richiesta di decreto penale di condanna, art. 459).
La finalità della previsione di un termine massimo delle i.p. sono quelle di assicurare ritmi
accelerati alla fase investigativa e di tutelare l’interesse dell’indagato e della persona offesa ad
una tempestiva definizione delle indagini (art. 405).
È fissato come termine normale di durata delle i.p. quello di 6 mesi dalla data in cui il nome
dell’indagato è iscritto nel registro delle notizie di reato, salvo quanto previsto dall’art. 415 bis e
cioè salvo il supplemento di indagini che il p.m. ritenga di svolgere a seguito di richieste
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dell’indagato: indagini comunque da concludere entro 30 gg. , termine prorogabile per una sola
volta e per non più di 60 gg.
La durata delle i.p. è di 1 anno se si procede per reati di particolare gravità (art. 407/2 lett. a :
delitti di criminalità organizzata).
Art. 406 : Proroga del termine: Il termine ordinario di durata delle i.p. può essere prorogato (Il
p.m. , prima della scadenza, può richiedere al giudice, per giusta causa, la proroga del termine
ex art. 405).
Una prima proroga può essere concessa, per un tempo non superiore a 6 mesi, per giusta causa.
La genericità della formula utilizzata dal legislatore, in contrasto con le più precise locuzioni
utilizzate per le proroghe ulteriori, lascia presumere che la prima proroga possa essere concessa
con maggiore facilità, in presenza di una qualunque ragione non meramente pretestuosa.
La possibilità di accordare proroghe ulteriori alla prima, invece, è collegata a più rigorosi
presupposti, espressamente individuati dal legislatore nella:
- particolare complessità delle indagini (ad es. : crollo di un edificio per cui è necessario dare
corso a complessi e lunghi accertamenti tecnici);
- oggettiva impossibilità di concludere le indagini nel termine prorogato.
La richiesta di proroga va notificata, a cura del gip, alla persona indagata e alla persona
offesa (purchè abbia chiesto di ricevere tale informazione all’atto di presentazione della notizia
di reato o successivamente) con avviso della facoltà di presentare memorie o scritti entro 5 gg.
dalla notificazione.
Se il gip ritiene fondata la richiesta, dispone direttamente la proroga in camera di consiglio,
senza l’intervento del p.m. o dei difensori.
Se, invece il gip non ritiene possibile decidere soltanto sulla base del carteggio presentato dal
p.m. e dalle parti private, fissa la data di un’udienza in camera di consiglio cui parteciperanno il
p.m. e il difensore dell’indagato e, se ne ha fatto richiesta, della persona offesa.
Al termine dell’udienza il gip emette il provvedimento che ha per contenuto o l’autorizzazione
della proroga o il suo diniego.
In caso di diniego il p.m. entro il termine fissato dal gip , e comunque non superiore a 10 gg.
dalla scadenza ordinaria delle indagini, dovrà decidere, sulla base degli atti di indagine già
compiuti, se esercitare l’azione penale o richiedere l’archiviazione.
Secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, avverso l’ordinanza con la quale il gip
decide sulla richiesta di proroga del termine di durata delle i.p. non è consentita alcuna
impugnazione.
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Art. 407 : Termini di durata massima delle indagini preliminari : La norma in esame, nel
fissare la durata massima complessiva delle i.p. (non può comunque superare i 18 mesi), fa
comunque salva la previsione dell’art. 393, in tema di incidente probatorio.
Ne consegue che un ulteriore ipotesi di proroga è prevista nel caso in cui l’incidente probatorio,
ancorché richiesto prima della scadenza, non possa essere esaurito nel termine, anche già
prorogato fino al massimo, di durata delle i.p.
La durata massima è tuttavia 2 anni se le i.p. riguardano:
● delitti di associazione sovversiva, di associazione terroristica e di banda armata;
● delitti concernenti lo sfruttamento sessuale dei minori e la violenza sessuale;
● delitti di illegale fabbricazione, introduzione nello Stato, messa in vendita, detenzione o
cessione di armi da guerra o tipo guerra, di esplosivi, di armi clandestine nonché di più armi
comuni da sparo;
La sanzione che colpisce il procedimento che non si conclude nei termini (qualora il p.m. non
abbia esercitato l’azione penale o richiesto l’archiviazione nel termine stabilito dalla legge o
prorogato dal giudice) è quella dell’inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti oltre la
scadenza.
È stato peraltro precisato che l’inutilizzabilità si riferisce soltanto all’efficacia probatoria degli
atti.
Art. 415 bis : Avviso all’indagato della conclusione delle indagini preliminari : Tra le modifiche
apportate alla disciplina delle indagini preliminari forse la più importante è la previsione
dell’avviso all’indagato della conclusione delle i.p. (introdotta con la Legge 16 dicembre 1999
n. 479 , c.d. Legge Carotti ).
Prima della scadenza del termine previsto dall’art 405 , il p.m. , se non deve formulare richiesta
di archiviazione, fa notificare all’indagato e al difensore avviso della conclusione delle i.p.
Dovendosi ritenere che il p.m. alla conclusione delle indagini sappia già cosa contestare
all’indagato nei cui confronti ritiene di non dovere formulare richiesta di archiviazione, l’avviso
contiene una bozza di imputazione consistente nella sommaria comunicazione del fatto
(all’indagato) per il quale si procede, oltre che della data e del luogo del fatto, e rende edotti i
destinatari del deposito degli atti, della facoltà di prenderne visione e di estrarne copia, della
facoltà entro il termine di 20 gg. (dalla notifica) di presentare memorie, produrre documenti,
depositare documentazione relativa ad investigazioni del difensore, chiedere al p.m. il
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compimento di atti di indagine, nonchè di presentarsi per rilasciare dichiarazioni ovvero
chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio.
L’art. 415 bis, oltre a riaffermare la vitalità delle indagini difensive, mira a garantire il
contraddittorio fra le parti fino a quel momento circoscritto o addirittura mancante.
L’inerzia del p.m.
Dopo aver compiuto ogni attività d’indagine necessaria e consentitagli dai tempi disponibili, il
p.m. deve scegliere tra esercizio dell’azione penale e richiesta di archiviazione del
procedimento.
Ove non lo faccia nel termine stabilito dalla legge o prorogato dal giudice il procuratore
generale presso la corte d’appello dispone con decreto motivato l’avocazione delle indagini
preliminari (art. 412).
I termini delle indagini, ormai scaduti, vengono ad essere riaperti per il tempo necessario a
compiere atti di indagine indispensabili e comunque per non più di 30 gg. (Il procuratore
generale svolge le indagini preliminari indispensabili e formula le sue richieste entro 30 gg. dal
decreto di avocazione).
Il sistema, che si preoccupa di imprimere una accelerazione al procedimento attraverso la
scansione di tempi e di controlli, non può tollerare l’inerzia dell’indagante e il protrarsi dello
stato di persona indagata.
Ove si sia di fronte ad inerzia vera o presunta del p.m. è riconosciuta all’indagato e alla persona
offesa dal reato la facoltà di sollecitare il procuratore generale presso la corte d’appello
all’esercizio dei poteri che gli competono e, in specie, all’avocazione delle indagini (art. 413).
L’indagato ha un interesse ad essere riconosciuto estraneo con l’archiviazione o a una celere
pronuncia da parte del giudice terzo; l’offeso dal reato ha interesse che le indagini si
concludano senza ritardo sia per avere una affermazione del diritto violato sia, più
concretamente, per poter inserire nel processo eventuali pretese di ordine civilistico.
L’archiviazione
Svolgendo le indagini preliminari il p.m. può pervenire a varie conclusioni in merito all’ipotesi
di partenza presentata dalla notizia di reato:
● può accertare che la notizia di reato è infondata (ad es. : quello che poteva sembrare un
omicidio risulta morte naturale o un suicidio);
● che la notizia di reato concerne un illecito effettivamente verificatosi, ma non commesso dalla
persona sottoposta alle indagini;
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● che l’illecito oggetto della notizia di reato è effettivamente stato commesso, ma l’autore
dell’illecito non è perseguibile per mancanza, originaria o sopravvenuta, di una condizione di
procedibilità (ad es. : il diffamato non ha presentato querela o l’ha fatto tardivamente o ha
rimesso la querela tempestivamente presentata e vi è stata accettazione);
● che la notizia di reato è fondata, ma che l’autore dell’illecito non è punibile, essendo
sopravvenuta una causa estintiva del reato (prescrizione, morte del reo);
● che il fatto oggetto delle indagini, sebbene illecito, non costituisce reato (illecito civile,
amministrativo, disciplinare).
● che la notizia di reato è fondata e che a carico dell’indagato vi sono elementi di colpevolezza
acquisiti durante le i.p. , ma non idonei a sostenere l’accusa in giudizio.
Il p.m. presenta al gip richiesta di archiviazione (di trasmissione all’archivio) entro i termini
previsti per l’inizio dell’azione penale (normalmente 6 mesi dall’iscrizione del nome
dell’indagato nel registro delle notizie di reato).
Con la richiesta motivata è trasmesso il fascicolo contenente la notizia di reato, la
documentazione relativa alle indagini espletate e i verbali degli atti compiuti davanti al gip : ciò
affinché il giudice possa valutare la sufficienza dell’attività svolta e la correttezza delle
conclusioni che se ne vogliono trarre.
Della richiesta di archiviazione viene resa edotta, mediante notificazione, la persona offesa dal
reato (non l’indagato perché non ha interesse a contrastare un provvedimento che riconosce
l’infondatezza della notizia di reato) affinché, volendolo, presenti opposizione nel termine di 10
gg. (art. 408).
Gli artt. 408 e 410 precisano che l’opposizione si risolve in una richiesta motivata di
prosecuzione delle i.p. e, quindi, in un dissenso delle conclusioni cui è pervenuto il p.m. ,
dissenso espresso sulla base della visione degli atti e delle indagini svolte: in base all’art. 410
l’offeso, a pena di inammissibilità dell’opposizione, deve indicare le indagini richieste e i
relativi elementi di prova (ad es. : sentire una persona informata dei fatti le cui dichiarazioni
non sono state raccolte dal p.m.).
Se l’opposizione è inammissibile e la notizia di reato è infondata, il gip pronuncia decreto
motivato di archiviazione (altrettanto fa nel caso in cui non vi sia opposizione alla richiesta di
archiviazione e condivida quest’ultima: art. 409 comma 1).
Se condivide l’opposizione o comunque non accoglie la richiesta del p.m. , il gip fissa
un’udienza in camera di consiglio con avviso al p.m. , all’indagato e al suo difensore e alla
persona offesa dal reato (comma 2).
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Fino al giorno dell’udienza gli atti restano depositati in cancelleria con facoltà del difensore di
estrarne copia.
Al termine dell’udienza il gip potrà:
● ritenere convincenti le ragioni del p.m. ed, eventualmente, delle altre parti private intervenute,
e pronunciare ordinanza di archiviazione.
Quest’ordinanza è ricorribile per Cassazione soltanto per nullità attinenti la convocazione e la
partecipazione delle parti all’udienza in camera di consiglio;
● ravvisare la necessità, ai fini della decisione sulla richiesta di archiviazione, di ulteriori
indagini. In tal caso le indica al p.m. , fissando il termine entro il quale debbono essere
compiute;
● decidere che, anche senza ulteriori indagini, la richiesta di archiviazione non può essere
accolta. In tal caso dispone, con ordinanza, che il p.m. formuli, entro 10 gg. , l’imputazione e
fissa d’ufficio l’udienza preliminare (si parla di imputazione coatta).
Art. 415 : Reato commesso da persone ignote : Quando è ignoto l’autore del reato il p.m. ,
entro 6 mesi dalla data della registrazione della notizia di reato, presenta al giudice richiesta
di archiviazione ovvero di autorizzazione a proseguire le indagini.
Quando accoglie la richiesta di archiviazione ovvero di autorizzazione a proseguire le
indagini, il giudice pronuncia decreto motivato e restituisce gli atti al p.m.
Se ritiene che il reato sia da attribuire a persona già individuata ordina che il nome di questa
sia iscritto nel registro delle notizie di reato.
Art. 414 : Riapertura delle indagini : Il provvedimento di archiviazione non ha una particolare
efficacia preclusiva visto che la riapertura delle indagini può essere effettuata ogni volta in cui
vi sia esigenza di nuove investigazioni.
Tale esigenza, secondo la opinione prevalente, può essere fondata:
- tanto sulla sopravvenienza di nuovi elementi ;
- quanto su una diversa valutazione di quelli già acquisiti.
L’esercizio dell’azione penale
Quando il p.m. ritiene concluse le indagini preliminari (cosa che può avvenire ben prima della
scadenza del termine previsto dalla legge o prorogato dal giudice), l’alternativa alla richiesta di
archiviazione è l’esercizio dell’azione penale.
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Il p.m. , se convinto di aver raccolto durante le indagini elementi idonei a sostenere l’accusa in
giudizio, ha l’obbligo di esercitare l’azione penale formulando l’imputazione, ove il suo
convincimento non sia stato intaccato dall’attività difensiva consequenziale all’avviso di
conclusione delle indagini.
La formulazione dell’imputazione segna la cessazione della qualità di indagato e l’assunzione
della qualità di imputato, l’inizio del processo in senso stretto e il momento a partire dal quale è
possibile introdurre accanto al tema penale il tema della pretesa civilistica.
La formulazione dell’imputazione attribuisce al giudice il compito di valutare quanto fino ad
allora fatto durante le i.p.
L’udienza preliminare
Per parlare dell’udienza preliminare dobbiamo preliminarmente ricordare che il gip , in seguito
alla richiesta di rinvio a giudizio operata dal p.m. , conclude il proprio lavoro.
L’ultima fase delle i.p. dunque apre l’udienza preliminare: il gip passa il tutto al giudice per
l’udienza preliminare, e lo investe dunque del potere- dovere di decidere sulla legittimità della
richiesta di rinvio a giudizio operata dal p.m.
Nella versione originaria del codice uno stesso magistrato poteva, in un medesimo
procedimento, essere prima gip e poi gup.
Oggi però le cose sono mutate radicalmente perché, al fine di garantire l’intervento di un
giudice veramente “terzo” e non condizionato da esperienze e decisioni precedenti, si è stabilita
l’incompatibilità tra le 2 funzioni (art. 34 comma 2 bis).
L'atto introduttivo dell'udienza preliminare è costituito dalla richiesta di rinvio a giudizio che il
p.m. deve depositare nella cancelleria del giudice (art. 416).
Alla richiesta è unito il fascicolo contenente la notizia di reato, la documentazione delle
indagini preliminari e i verbali degli atti svolti davanti al gip.
Al fascicolo, qualora non debbano essere custoditi altrove, sono inoltre allegati il corpo del
reato e le cose pertinenti al reato.
Secondo l’interpretazione prevalente dell’art. 416 condivisa dalla stessa Corte cost. , con il
fascicolo debbono essere trasmessi tutti gli atti del procedimento fino ad allora compiuti.
Di più: come risulta dall’art. 419 comma 3, ad essi andrà poi aggiunta la documentazione delle
eventuali indagini del p.m. successive alla richiesta
Questi adempimenti, infatti, hanno lo scopo di attuare quella che nella tradizione anglo-
americana viene chiamata “discovery” : vale a dire l’ostensibilità (= rendere noto) degli atti in
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precedenza rimasti segreti, in modo da consentire alle parti di accedere al processo con la loro
piena conoscenza.
Art. 417 : Requisiti formali della richiesta di rinvio a giudizio : La richiesta di rinvio a giudizio
contiene:
a) le generalità dell’imputato nonché le generalità della persona offesa dal reato qualora ne
sia possibile l’identificazione;
b) l’enunciazione, in forma chiara e precisa, del fatto, delle circostanze aggravanti e di quelle
che possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza con l’indicazione dei relativi
articoli di legge;
c) l’indicazione delle fonti di prova acquisite;
d) la domanda al giudice di emissione del decreto che dispone il giudizio;
e) la data e la sottoscrizione.
Poiché il contraddittorio che caratterizza l’udienza preliminare si realizzi, gli interessati
debbono essere posti nella condizione di parteciparvi con un’adeguata conoscenza degli atti. E
appunto a questo risultato sono dirette le disposizione degli artt. 418, 419.
Art. 418 : Fissazione dell’udienza : Entro 5 gg. dal deposito della richiesta, il giudice fissa con
decreto il giorno, l’ora e il luogo dell’udienza (preliminare) in camera di consiglio.
La celebrazione dell’udienza rende necessaria una difesa tecnica dell’imputato che solo un
difensore può garantirgli (difensore di fiducia o nominato a cura del giudice).
Tra la data di deposito della richiesta e la data dell’udienza non può intercorrere un termine
superiore a 30 gg.
Art. 419 : Atti introduttivi : Il gup fa notificare (a pena di nullità) all’imputato e alla persona
offesa l’avviso del giorno, dell’ora e del luogo dell’udienza, con la richiesta di rinvio a giudizio
formulata dal p.m. e con l’avvertimento all’imputato che non comparendo sarà giudicato in
contumacia.
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Infatti, solo dalla lettura della richiesta di rinvio a giudizio (che è atto del p.m.) le parti possono
prendere conoscenza del fatto contestato e delle fonti di prova. L’avviso, invece, ha una
funzione di mera “vocativo in jus”.
L’avviso (dell’udienza) è altresì comunicato al p.m. e notificato al difensore dell’imputato con
l’avvertimento della facoltà di prendere visione degli atti e di presentare memorie e produrre
documenti.
Gli avvisi sono notificati e comunicati almeno 10 gg. prima della data dell’udienza.
L’imputato può rinunciare all’udienza preliminare e richiedere il giudizio immediato con
dichiarazione presentata in cancelleria, almeno 3 gg. prima della data dell’udienza. L’atto di
rinuncia è notificato al p.m. e alla persona offesa dal reato a cura dell’imputato.
Art. 420 : Costituzione delle parti : L’udienza preliminare si svolge in camera di consiglio con
la partecipazione necessaria del p.m. e del difensore dell’imputato.
Il gup deve controllare se vi sia stata regolare costituzione delle parti.
Sono necessarie le presenze del p.m. e del difensore dell’imputato, alla cui assenza si sopperisce
con la nomina di un difensore d’ufficio.
Inoltre, anche un legittimo impedimento del difensore a comparire (ad es. : malattia o
contemporaneo impegno professionale) impone il rinvio dell’udienza, purchè prontamente
comunicato. A meno che i difensori siano 2, o vi sia un sostituto, oppure lo stesso imputato
chieda che si proceda ugualmente in assenza del difensore impedito (art. 420 ter comma 5).
Nei confronti dell’imputato in persona vale il criterio della partecipazione non necessaria ma
possibile.
L’udienza verrà quindi rinviata, e dovranno rinnovarsi avvisi e notificazioni, quando sia certa o
probabile l’ignoranza incolpevole della precedente citazione oppure certa o probabile l’assoluta
impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o legittimo impedimento. Né da
luogo a diverse conseguenze l’impossibilità di comparire nelle udienze successive (art. 420 bis
e 420 ter).
Rispetto alle parti accessorie, la loro assenza, qualunque ne sia il motivo, non determina una
nuova fissazione dell’udienza (tranne il caso in cui siano invalide citazione e notificazione del
responsabile civile e del civilmente obbligato).
Art. 421 : Discussione : Il contraddittorio si realizza con la discussione: la inizia il p.m. , il
quale illustra sinteticamente i risultati delle indagini preliminari e gli elementi di prova su cui
fonda la richiesta di rinvio a giudizio.
99
Poi, nell’ordine parlano i difensori della parte civile, del responsabile civile e del civilmente
obbligato, ciascuno a sostegno delle rispettive conclusioni.
L’ordine degli interventi è ispirato al “principio del favor rei” , per cui è lasciata per ultimo la
parola al difensore dell’imputato.
L’imputato presente all’udienza ha la facoltà dell’autodifesa: subito dopo l’intervento del p.m.
può chiedere di rendere dichiarazioni spontanee o di essere interrogato.
Quanto accade nell’udienza preliminare viene documentato in un verbale di regola redatto in
forma riassuntiva. Tuttavia il gup, a richiesta di parte, ne disporrà una più accurata formazione
mediante la riproduzione fonografica o audiovisiva o con la stenotipia.
La contumacia
Secondo l’art. 420 quater , se l’imputato non compare e manca una legittima giustificazione
l’udienza preliminare si svolge in sua contumacia.
Essa va dichiarata dal gup con ordinanza, sentite le parti e previo accertamento che la citazione
era valida e che non sussiste né la prova né la probabilità della sua incolpevole ignoranza o
dell’assoluta impossibilità di comparire (comma 1).
Quando si procede a carico di più imputati e per alcuni di loro o dei difensori la non
comparizione è invece giustificata, è altresì disposta la separazione dei procedimenti, con la
prosecuzione del processo per gli uni e il rinvio per gli altri (comma 6).
L’imputato, quando si procede in sua contumacia, è rappresentato dal suo difensore.
Se l’imputato compare prima che il giudice adotti i provvedimenti conclusivi, il giudice revoca
l’ordinanza che ha dichiarato la contumacia. In tal caso l’imputato può rendere dichiarazioni
spontanee e chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio.
Art. 420 quinquies : Assenza e allontanamento volontario dell’imputato : L’assenza è relativa
all’imputato non contumace il quale non presenzi all’udienza fin dal suo inizio. All’assenza
viene equiparato l’allontanamento, che si realizza quando l’imputato, inizialmente comparso, si
allontani dall’aula ovvero, se detenuto, evada.
Una volta comparso all’udienza, l’imputato è considerato come sempre presente, sebbene
decide di allontanarsi nel corso di essa.
Art. 421 bis : Ordinanza per l’integrazione delle indagini : Le i.p. , affidate alla p.g. e al p.m. ,
debbono essere complete, vale a dire acquisire tutti gli elementi necessari e sufficienti perché il
p.m. riesca poi a stabilire se sia o no il caso di esercitare l’azione penale.
100
Però non è da escludere che, pur dopo la discussione , il gup si trovi nelle condizioni di non
poter decidere proprio a causa della loro incompletezza. È pertanto previsto che egli ne
disponga un supplemento, indicando le ulteriori necessarie indagini, il termine entro cui vanno
compiute e la data della nuova udienza.
Del provvedimento è data comunicazione al procuratore generale presso la corte d’appello.
Il potere del gup di ordinare ulteriori e nuove indagini, dando un termine al p.m. per il loro
espletamento, è analogo a quello concesso al gip , ai sensi dell’art. 409 comma 4, in sede di non
accoglimento della richiesta di archiviazione.
Art. 422 : Attività di integrazione probatoria del giudice : Nell’ipotesi in oggetto, il giudice, se
non ordina al p.m. l’integrazione delle indagini, può disporre anche d’ufficio, l’assunzione delle
prove delle quali appare evidente la decisività ai fini della sentenza di non luogo a procedere.
Il giudice, se non è possibile procedere immediatamente all’assunzione delle prove, fissa la
data della nuova udienza e dispone la citazione dei testimoni, dei periti, dei consulenti tecnici.
Art. 423 : Modificazione dell’imputazione : Il tema dell’udienza preliminare è costituito
dall’imputazione formulata dal p.m. all’atto della richiesta.
Ma se durante il suo svolgimento, per il sopravvenire di ulteriori elementi oppure alla luce di
una più attenta considerazione, risulta che il fatto è diverso ovvero è ipotizzabile un reato
connesso o una circostanza aggravante, l’imputazione viene modificata.
Se risulta a carico dell’imputato un fatto nuovo non enunciato nella richiesta di rinvio a
giudizio, per il quale si debba procedere di ufficio, il giudice ne autorizza la contestazione se il
p.m. ne fa richiesta e vi è il consenso dell’imputato.
- Il fatto sarebbe quindi diverso se l’accusa di aver ucciso con arma da fuoco fosse mutata in un
omicidio col mezzo di una violenza manuale, ovvero se la data del reato fosse anticipata o
posticipata.
In casi del genere l’imputazione viene modificata con la contestazione orale del p.m.
all’imputato oppure, se quest’ultimo è contumace o assente, al difensore.
- Il fatto nuovo è un fatto- reato diverso e ulteriore rispetto a quello per cui si procede e non
legato ad esso dal vincolo del concorso formale o della continuazione (ad es. : nel caso di un
processo per rapina, l’imputato confessa di aver sottoposto a violenza sessuale la vittima).
Il decreto che dispone il giudizio
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Esaurita la discussione, il gup , qualora ravvisi elementi sufficienti per passare al dibattimento,
emette un decreto che dispone il giudizio (art. 429).
Il giudice emette il decreto che dispone il giudizio nei casi in cui non pronuncia sentenza di non
luogo a procedere. Il quantum di prova richiesto per l’emissione di tale decreto si ricava a
contrario (vedi sentenza di non luogo a procedere): il giudice emette il decreto quando gli
elementi di prova forniti dal p.m. a sostegno della richiesta di rinvio a giudizio e le prove
eventualmente assunte nell’udienza preliminare eliminano ogni dubbio sulla necessità del
dibattimento.
La norma elenca il contenuto del decreto che dispone il giudizio.
Esso si compone:
● dell’intestazione che contiene :
a) le generalità dell’imputato e le altre indicazioni personali che valgono a identificarlo
nonché le generalità delle altre parti private, con l’indicazione dei difensori;
b) l’indicazione della persona offesa dal reato qualora risulti identificata;
● dell’editio actionis (l’impugnazione che viene formulata a carico dell’imputato e le relative
fonti di prova a sostegno) che contiene :
c) l’enunciazione, in forma chiara e precisa, del fatto, delle circostanze aggravanti e di quelle
che possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza, con l’indicazione dei relativi
articoli di legge;
d) l’indicazione sommaria delle fonti di prova e dei fatti cui esse si riferiscono;
● della vocativo in ius (l’invito all’imputato a comparire per una certa udienza innanzi al
giudice dibattimentale per il giudizio) che contiene :
e) il dispositivo, con l’indicazione del giudice competente per il giudizio;
f) l’indicazione del luogo, del giorno e dell’ora della comparizione, con l’avvertimento
all’imputato che non comparendo sarà giudicato in contumacia;
Non rientra nella vocativo in ius ma nei requisiti del decreto che dispone il giudizio :
g) la data e la sottoscrizione del giudice e dell’ausiliario che l’assiste.
Il decreto è nullo se l’imputato non è identificato in modo certo ovvero se manca o è
insufficiente l’indicazione di uno dei requisiti previsti dal comma 1 lett. c) e f).
Tra la data del decreto e la data fissata per il giudizio deve intercorrere un termine non
inferiore a 20 gg.
102
Il decreto è immediatamente letto in udienza, il che equivale alla sua notificazione per le parti
presenti (art. 424 comma 2); e va notificato per intero all’imputato contumace nonché
all’imputato e alla persona offesa comunque non presenti alla lettura del provvedimento.
Art. 431 : Fascicolo per il dibattimento : Immediatamente dopo l’emissione del decreto che
dispone il giudizio, il giudice provvede nel contraddittorio delle parti alla formazione del
fascicolo per il dibattimento.
Nel caso di richiesta di una delle parti di fissazione di un’altra udienza per la formazione del
fascicolo, il gup è obbligato a fissarla.
Nel fascicolo per il dibattimento sono raccolti:
a) gli atti relativi alla procedibilità dell’azione penale e all’esercizio dell’azione civile;
b) i verbali degli atti non ripetibili compiuti dalla polizia giudiziaria;
c) i verbali degli atti non ripetibili compiuti dal pubblico ministero e dal difensore;
d) i documenti acquisiti all’estero mediante rogatoria internazionale e i verbali degli atti non
ripetibili assunti con le stesse modalità;
e) i verbali degli atti assunti nell’incidente probatorio;
f) i verbali degli atti, assunti all’estero a seguito di rogatoria internazionale ai quali i difensori
sono stati posti in grado di assistere e di esercitare le facoltà loro consentite dalla legge italiana;
g) il certificato generale del casellario giudiziario;
h) il corpo del reato e le cose pertinenti al reato, qualora non debbano essere custoditi altrove.
Art. 432 : Trasmissione e custodia del fascicolo per il dibattimento : Il decreto che dispone il
giudizio è trasmesso senza ritardo, con il fascicolo previsto dall’art. 431 , alla cancelleria del
giudice competente per il giudizio.
Art. 433 : Fascicolo del p.m. : Gli atti diversi da quelli previsti dall'art. 431, unitamente agli
atti acquisiti all'udienza preliminare e al verbale di udienza, sono trasmessi al pubblico
ministero e formano il fascicolo del p.m. (art. 433 – ha quindi un contenuto residuale). Il
fascicolo è conosciuto dalle parti ma non dal giudice.
Sentenza di non luogo a procedere
In via alternativa al decreto di rinvio a giudizio il gup pronuncia la sentenza di non luogo a
procedere allo stato degli atti.
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L’art. 425 contiene un’elencazione tassativa delle situazioni ricorrendo le quali il gup deve
emettere sentenza di non luogo a procedere:
● Se sussiste una causa che estingue il reato (ad es. : morte del reo) o per la quale l’azione
penale non doveva essere iniziata proseguita;
● se il fatto non è previsto dalla legge come reato (ad es. : per abrogazione della norma
incriminatrice, depenalizzazione);
● ovvero quando risulta che il fatto non sussiste;
● o che l’imputato non lo ha commesso (ad es. : è stato provato un alibi);
● o che il fatto non costituisce reato ( è stato commesso in presenza di una causa di
giustificazione oppure senza dolo, colpa, preterintenzione) ;
● o che si tratta di persona non punibile per qualsiasi causa.
Sentenza di non luogo a procedere e decreto che dispone il giudizio : differenze
Il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere anche quando gli elementi acquisiti
risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio.
Il giudice emette il decreto che dispone il giudizio nei casi in cui non pronuncia sentenza di non
luogo a procedere. Il quantum di prova richiesto per l’emissione di tale decreto si ricava a
contrario: il giudice emette il decreto quando gli elementi di prova forniti dal p.m. a sostegno
della richiesta di rinvio a giudizio e le prove eventualmente assunte nell’udienza preliminare
eliminano ogni dubbio sulla necessità del dibattimento.
Art. 426 : Requisiti della sentenza : La sentenza contiene:
a) l’intestazione in nome del popolo italiano e l’indicazione dell’autorità che l’ha pronunciata;
b) le generalità dell’imputato o le altre indicazioni personali che valgono a identificarlo
nonché le generalità delle altre parti private;
c) l’imputazione;
d) l’esposizione sommaria dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata;
e) il dispositivo, con l’indicazione degli articoli di legge applicati (il contenuto decisorio)
f) la data e la sottoscrizione del giudice.
La sentenza è nulla se manca o è incompleto nei suoi elementi essenziali il dispositivo ovvero
se manca la sottoscrizione del giudice.
Art. 428 : Impugnazione della sentenza di non luogo a procedere : Contro la sentenza di non
luogo a procedere possono proporre ricorso per cassazione:
104
a) il procuratore della Repubblica e il procuratore generale;
b) l'imputato, salvo che con la sentenza sia stato dichiarato che il fatto non sussiste o che
l'imputato non lo ha commesso.
Vi è inoltre legittimata la persona offesa nei soli casi di nullità relativi all’omessa o irregolare
notificazione dell’avviso dell’udienza.
Sull’ impugnazione decide la corte di Cassazione in camera di consiglio.
Revoca della sentenza di non luogo a procedere
Provvedimento emanato dal gip su richiesta del p.m. , con il quale, per il sopravvenire di nuove
fonti di prova, si elimina l’effetto preclusivo della sentenza alla possibilità di un nuovo esercizio
dell’azione penale contro l’imputato già prosciolto, per il medesimo fatto – reato.
Art. 435 : Richiesta di revoca : Nella richiesta di revoca il p.m. indica le nuove fonti di prova,
specifica se queste sono già state acquisite o sono ancora da acquisire e richiede, nel primo
caso, il rinvio a giudizio e, nel secondo, la riapertura delle indagini.
Il giudice, se non dichiara inammissibile la richiesta, designa un difensore all’imputato che ne
sia privo, fissa la data dell’udienza in camera di consiglio e ne fa dare avviso al p.m. ,
all’imputato, al difensore e alla persona offesa.
CAP. 23: I PROCEDIMENTI SPECIALI
I procedimenti speciali si distinguono da quello ordinario, che prevede la sequenza così
composta:
● indagini preliminari;
● udienza preliminare;
● dibattimento.
Ai procedimenti speciali è affidato il compito di assecondare l’esigenza di massima
semplificazione nello svolgimento del processo, con l’eliminazione di ogni atto e attività non
essenziale.
I procedimenti speciali si possono distinguere in 3 categorie:
1) Procedimenti tendenti ad evitare la fase dibattimentale.
Essi sono: il giudizio abbreviato e l’applicazione della pena su richiesta delle parti, i quali
permettono di anticipare il giudizio ad una fase pre- dibattimentale, con il consenso
dell’imputato e del p.m. e l’autorizzazione del giudice;
2) Procedimenti tendenti ad accelerare l’ingresso nel dibattimento.
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Essi sono: il giudizio direttissimo, il giudizio immediato. Tali riti consentono in sostanza di
eliminare l’udienza preliminare, sulla base di una presunzione di inutilità e di anti- economicità
della sua funzione di garanzia e di filtro.
3) Procedimenti tendenti ad omettere sia l’udienza preliminare che il dibattimento.
È il caso del decreto penale di condanna che consente, in caso di mancata opposizione, di
pervenire immediatamente all’irrogazione della sanzione penale in assenza di qualsivoglia
contraddittorio.
1) Il giudizio abbreviato
A seguito della L. n. 479/1999 (Legge Carotti) il giudizio abbreviato è divenuto un
procedimento di portata generale consentito quale che sia la pena edittale prevista per il reato
(applicabilità di tale rito anche ai delitti puniti con l’ergastolo).
Tale rito si caratterizza per il potere del giudice di pronunciare sentenza nel corso dell’udienza
preliminare, sempre che vi sia la richiesta dell’imputato, attribuendo valore di prova agli atti
delle indagini preliminari.
Questo rito elimina, dunque, la fase dibattimentale, e quindi la fase più onerosa in termini di
tempo e di impegno giudiziale.
Il giudizio abbreviato presenta come presupposto la richiesta di rinvio a giudizio (presentata dal
p.m. nella cancelleria del giudice per l’u.p. , con contestuale trasmissione del fascicolo e dei
suoi allegati) e la fissazione dell’u.p. (con avviso al difensore dell’imputato del deposito degli
atti trasmessi dal p.m.).
Gli ulteriori requisiti previsti dal codice per l’instaurazione del giudizio abbreviato sono:
● la richiesta dell’imputato che il processo sia definito nell’udienza preliminare; essa deve
pervenire almeno 5 gg. prima dell’udienza preliminare o nel corso della stessa fino alla
precisazione delle conclusioni;
● il consenso del p.m. non è più necessario, è l’imputato che chiede la definizione del processo
all’udienza preliminare;
● la configurabilità anche di un reato che sia punibile con la pena dell’ergastolo;
● la definibilità del processo allo stato degli atti raccolti nel corso delle indagini preliminari,
salva la necessità di ulteriore attività di acquisizione probatoria.
Il “giudizio abbreviato condizionato” è una novità introdotta dalla L. 479/99 ; esso consente
all’imputato di subordinare la sua richiesta di giudizio abbreviato ad una integrazione
probatoria da effettuarsi in udienza davanti al giudice (art. 438).
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Il giudice dispone il giudizio abbreviato se l’integrazione probatoria richiesta risulta necessaria
ai fini della decisione e compatibile con le finalità di economia processuale proprie del
procedimento.
Il giudizio abbreviato ha natura premiale.
La premialità consiste nella riduzione della pena da irrogare in concreto, in misura fissa di un
terzo (riduzione c.d. “secca”, a differenza di quanto è previsto in materia di patteggiamento, in
cui la riduzione della pena è fino ad un terzo).
La riduzione della pena è giustificata solo dal risparmio dei tempi processuali del
dibattimento,derivante dall’utilizzabilità come prova degli atti delle indagini.
Il giudizio abbreviato si svolge nelle forme dell’u.p. e, quindi, in camera di consiglio, con la
partecipazione necessaria del p.m. e del difensore dell’imputato e senza l’intervento del
pubblico.
L’udienza preliminare è informata al principio dell’oralità, sicchè la discussione rappresenta il
suo momento principale e determinante; infatti il p.m. ed i difensori delle parti al fine di
persuadere il giudice delle loro reciproche ragioni, illustrano oralmente le rispettive posizioni e
pretese.
Terminata la discussione, il giudice dell’udienza preliminare, in sede di rito abbreviato, è posto
nella medesima posizione del giudice del dibattimento.
Nessun tipo di decisione è precluso: il giudice potrà emettere:
- sentenza di non doversi procedere;
- sentenza di assoluzione;
- dichiarazione di estinzione del reato;
- sentenza di condanna.
In tale ultimo caso nel calcolo della pena deve essere conteggiata la riduzione di un terzo come
«premio» per l'imputato il quale ha consentito di evitare il dibattimento con il conseguente
dispendio di tempo ed energie processuali.
La misura della pena rientra nella valutazione discrezionale del giudice, il quale è unicamente
tenuto ad operare la diminuzione di un terzo sulla pena in concreto stabilita.
Nel giudizio abbreviato la presenza dell’imputato, diversamente da quella del difensore, non è
obbligatoria.
La sentenza è impugnabile con le forme e i termini delle sentenze dibattimentali.
Mentre non vi sono limiti al ricorso in cassazione, l’art. 443 prevede limiti all’appello sia per
l’imputato che per il p.m. , essendo escluso tale mezzo di impugnazione contro la sentenza di
proscioglimento.
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Il p.m. non può proporre appello contro le sentenze di condanna, salvo che si tratti di sentenza
che modifica il titolo del reato.
La costituzione di parte civile, intervenuta dopo la conoscenza dell’ordinanza che dispone il
giudizio abbreviato, equivale ad accettazione del rito abbreviato.
L’accettazione del rito abbreviato implica che la parte civile ne accetta anche gli epiloghi
(condanna o proscioglimento dell’imputato) e le conseguenze civilistiche.
Ci si può chiedere quale interesse abbia la parte civile ad accettare il giudizio abbreviato in cui
anche le sue possibilità difensive e probatorie sono menomate o compresse.
La risposta è che, alla luce di una valutazione della propria posizione processuale, il giudizio
abbreviato può risultare la via più celere per arrivare ad una sentenza che, pur gratificando
l’imputato quanto a entità della pena, riconosca la pretesa civilistica e condanni alla restituzione
o al risarcimento.
2) L’applicazione della pena su richiesta delle parti
Fulcro essenziale di questo procedimento è l’accordo sulla pena da applicare, concluso tra le
parti principali del processo (imputato e p.m.).
Le parti propongono una soluzione nel merito, e precisamente una pena di un certo tipo ed
entità e il giudice decide se applicarla come da richiesta o no.
Nella prassi giudiziaria l’istituto in questione è ormai chiamato “patteggiamento” e rappresenta
la grande speranza del legislatore di deflazionare il rito ordinario.
L’esperibilità del patteggiamento esige l’indefettibile ed esclusiva volontà concorde di
entrambe le parti: il rito, dunque, non può essere attivato quando manca la volontà di una di
esse.
Nell’ottica dell’imputato, la richiesta di applicazione della pena, pur non potendo essere
considerata ammissione di colpevolezza, comporta la rinuncia a difendersi provando e
l’accettazione degli elementi probatori acquisiti agli atti.
Di conseguenza, ove la richiesta di patteggiamento non venga condivisa dal p.m. o venga
rigettata dal giudice, il semplice fatto di averla presentata non equivale legalmente ad una
ammissione di reità utilizzabile contro l’imputato.
Tra i presupposti normativi del patteggiamento non rientra la confessione dell’imputato ma,
nella prassi, questo riconoscimento di responsabilità è spesso conditio sine qua non per ottenere
il consenso del p.m.
L’accordo delle parti impedisce l’acquisizione di ulteriori elementi probatori e determina
l’obbligo del giudice di pronunciarsi sulla richiesta, accogliendola con una pronunzia
108
conclusiva del processo, ovvero rigettandola, determinando in tal modo la prosecuzione del
procedimento ordinario.
Il patteggiamento si risolve nell’applicazione di una pena sulla cui entità concordano le parti e il
giudice: in tal modo si evita il dibattimento e non si da materia per le impugnazioni.
Qui l’economia processuale si coniuga con l’interesse dell’imputato a chiudere al meglio una
pendenza che non gli consente prospettive più favorevoli e con l’esigenza di repressione
adeguata del comportamento illecito.
Affinché l’imputato rinunci al rito ordinario ed accetti di subire l’applicazione della pena
(invece che sfruttare le opportunità di una compiuta difesa o la lentezza dell’apparato
giudiziario) vengono previsti corposi corrispettivi: innanzitutto, la diminuzione “fino ad un
terzo” della pena.
La riforma operata con L. n. 134/2003 ha elevato a 5 anni il limite massimo di pena entro cui è
applicabile il patteggiamento.
Sempre in seguito allo stesso provvedimento legislativo l’applicabilità del patteggiamento è
esclusa (art. 444):
● qualora la pena superi i 2 anni da sola o congiunta a pena pecuniaria, per i procedimenti
aventi ad oggetto i delitti di associazione mafiosa e di associazione a delinquere finalizzata al
traffico di stupefacenti, al contrabbando, alla tratta di persone, delitti con finalità di terrorismo,
sequestro di persona a scopo di estorsione;
● relativamente ai delinquenti abituali, professionali o per tendenza, o recidivi.
Ulteriori effetti premiali, circoscritti ai casi nei quali la pena patteggiata non superi i 2 anni di
pena detentiva soli o congiunti a pena pecuniaria, sono il non pagamento delle spese
processuali, la non applicazione delle pene accessorie, l’estinzione del reato se nel termine di 5
anni, quando la sentenza concerne un delitto, ovvero di 2 anni, quando la sentenza concerne una
contravvenzione, l’imputato non commette un reato della stessa indole.
È previsto che il momento ultimo in cui può essere chiesto il patteggiamento sia la
presentazione delle conclusioni nell’udienza preliminare e non più quello della dichiarazione di
apertura del dibattimento.
Attualmente quindi le parti sono costrette a determinarsi all’udienza preliminare in modo che,
se la richiesta è formulata e accolta, il processo non perviene proprio al dibattimento.
Al giudice è affidato un pieno controllo di merito sulla richiesta delle parti di applicazione della
pena concordata.
In particolare, il giudice deve verificare che sia corretta la qualificazione giuridica del fatto, che
la pena patteggiata rientri nei limiti edittali e sia congrua.
109
Sicchè il giudice ha sempre facoltà di rigettare la richiesta qualora ritenga che l’accordo tra le
parti contenga errori di qualificazione giuridica ovvero che la pena pattuita sia inadeguata.
Il giudice però non può applicare una pena diversa da quella oggetto dell’accordo delle parti.
Abbiamo visto che il patteggiamento è una soluzione a due: cioè tra imputato e p.m. Il
danneggiato non può intervenire né per esercitare un’azione risarcitoria, né per opporsi alla
definizione anticipata del processo.
Risulta che, quindi, in questo tipo di procedimento, l’azione civile per il risarcimento del danno
scaturente da reato è preclusa.
In caso di rigetto o di dissenso del p.m. l’imputato può rinnovare la richiesta di applicazione
della pena fino a che non sia stato dichiarato aperto il dibattimento.
L’imputato, nel rinnovare l’istanza, deve proporre la stessa richiesta di patteggiamento già
rigettata, senza poter operare alcuna modificazione.
La sentenza di patteggiamento è inappellabile, ma solo ricorribile in cassazione per motivi di
legittimità (art. 448, comma 2).
CAP. 24 : IL GIUDIZIO
La fase del giudizio, di cui si occupa il libro 7^ del codice, è suddivisa in 3 momenti
processuali:
1) quello degli atti preliminari al dibattimento
2) quello del dibattimento
3) quello della sentenza
1) Mentre in passato gli atti preliminari al dibattimento avevano una duplice funzione :
meramente ordinatoria rispetto alla fase dell’istruzione e preparatoria rispetto alla fase del
dibattimento, oggi, invece, hanno soltanto la funzione preparatoria, non potendosi certamente
attribuire loro funzione una funzione ordinatoria della fase pregressa, della quale, di regola, non
si terrà conto nel momento dibattimentale.
Il gup, come abbiamo visto, dispone il giudizio con decreto e fissa la data dell’udienza.
● Il presidente del Tribunale o della Corte di assise, ricevuto il decreto che dispone il giudizio,
può - per giustificati motivi - anticipare o differire l'udienza non più di una volta (art. 465).
Questa è la prima attività che compete al presidente del tribunale o della corte d’assise.
● La fase degli atti preliminari al dibattimento ha inizio in questo momento e termina
allorquando il giudice, in udienza, dichiara aperto il dibattimento (art. 492).
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La seconda attività che compete al presidente del collegio in questa fase è quella di autorizzare
con decreto la citazione dei testimoni, periti e consulenti tecnici (art. 468).
Volendo far assumere testimoni, periti o consulenti tecnici, le parti devono, a pena di
inammissibilità, depositare in cancelleria, almeno 7 gg. prima della data fissata per il
dibattimento, la richiesta scritta, che deve indicare le generalità dei testimoni, periti o consulenti
tecnici e le circostanze su cui deve vertere l’esame.
Il presidente del tribunale o della corte d’assise, quando ne sia fatta richiesta, autorizza con
decreto la citazione di questi soggetti,escludendo solo le testimonianze vietate dalla legge e
quelle manifestamente sovrabbondanti (il giudice del pre-dibattimento non esprime mai una
valutazione di merito sulla rilevanza o sulla pertinenza delle richieste probatorie avanzate,
potendo, come s’è detto, valutare esclusivamente se la lista dei soggetti sia sovrabbondante o se
le richieste siano contra legem).
● Ulteriori atti di competenza del presidente del tribunale o della corte d’assise in questa fase
sono i c.d. “atti urgenti” : quegli atti che non sono rinviabili al dibattimento.
Si è voluto colmare una lacuna che vi sarebbe stata se, fra la chiusura della fase delle indagini
preliminari e l’inizio del dibattimento, non vi fosse stata la possibilità di assunzione anticipata
di una prova non rinviabile.
● Ultimo atto possibile, in questa fase del pre-dibattimento, attribuito al giudice, è la sentenza
anticipata di proscioglimento (art. 469).
Se l’azione penale non doveva essere iniziata o non deve essere proseguita o il reato è estinto e
per accertarlo non occorre giungere al dibattimento, il giudice può emettere sentenza anticipata
di proscioglimento, decidendo con procedimento in camera di consiglio, sentiti il p.m. e
l’imputato e se questi non si oppongono.
Va osservato che una tale sentenza, che non esprime mai un giudizio di merito, è assolutamente
inappellabile con gli ordinari mezzi di impugnazione, ma è ricorribile per Cassazione.
2) Il dibattimento è costituito dal complesso di attività processuali che, secondo un ordinato
svolgimento, si compiono dalla dichiarazione di apertura del dibattimento ex art. 492, dopo il
compimento delle formalità relative alla costituzione delle parti, sino al termine della
discussione.
Rappresenta il momento centrale della fase del giudizio e dell’intero processo e si svolge nel
corso della udienza che indica il momento temporale di una giornata, riservata allo svolgimento
di uno o più dibattimenti.
111
La disciplina dell’udienza e la direzione del dibattimento sono esercitate dal presidente del
collegio; in sua assenza la disciplina dell’udienza è esercitata dal p.m. (art. 470).
Vediamo quali sono i principi che caratterizzano il dibattimento:
● la pubblicità
● l’oralità
● la immediatezza e concentrazione processuale
● il contraddittorio
● l’immutabilità dell’accusa
● Iniziamo con la pubblicità, che ha la precisa funzione di consentire la conoscenza degli atti
che si compiono, non solo a chi è interessato al processo, ma anche a chiunque non sia
direttamente interessato.
È talmente rilevante questo carattere che l’art. 471 stabilisce che l’udienza è pubblica a pena di
nullità.
Sicchè tutti gli atti che dovessero essere compiuti senza la garanzia della pubblicità sono
inficiati da nullità e, quindi, invalidi.
A questo principio vi sono delle eccezioni: alcune di carattere soggettivo e altre di carattere
oggettivo.
Le prime sono quelle relative al divieto di accesso nell’aula di udienza a determinate persone, le
quali appunto non hanno i requisiti soggettivi per poter assistere all’udienza e, quindi,
all’attività dibattimentale che si compie. Si tratta dei minori degli anni 18, coloro che sono
sottoposti a misure di prevenzione, le persone che si trovano in manifeste condizioni di
ubriachezza, di intossicazione o di squilibrio mentale e che sono in possesso di armi o di oggetti
atti a molestare.
Le eccezioni di carattere soggettivo riguardano anche i processi dinanzi al tribunale per i
minorenni il quale, l’intero dibattimento deve avvenire a porte chiuse.
Le seconde eccezioni, di carattere oggettivo, riguardano il compimento di tutto il dibattimento o
di parte di esso a porte chiuse (cioè senza l’accesso in aula del pubblico), nei limiti in cui il
giudice del dibattimento ritenga di disporre in presenza di taluni casi indicati espressamente
nell’art. 472:
-> quando la pubblicità del dibattimento possa nuocere al buon costume;
-> quando vi siano da tutelare notizie che attengano al segreto di Stato, se in proposito vi sia
richiesta dell’autorità competente;
112
-> quando, essendovi richiesta dell’interessato, l’assunzione di prove possa causare pregiudizio
alla riservatezza di testimoni o delle parti private in ordine a fatti che non costituiscono oggetto
dell’imputazione (ad es. : caso dell’amante);
-> quando la pubblicità può nuocere alla pubblica igiene;
-> quando avvengano da parte del pubblico manifestazioni che turbano il regolare svolgimento
delle udienze;
-> quando è necessario salvaguardare la sicurezza di testimoni o imputati;
-> quando occorre procedere all’esame di minorenni come testimone o parte offesa.
In tutti questi casi, il giudice, sentite le parti, dispone con ordinanza che il dibattimento o alcuni
atti di esso si svolgano a porte chiuse (art. 473).
● Il principio dell’oralità è espressione tipica del sistema accusatorio e non consiste nel fatto
che tutta l’attività debba essere svolta oralmente, ma consiste invece nel fatto che il giudice
deve porre a base del suo convincimento esclusivamente ciò che percepisce direttamente dalla
viva voce dei soggetti della prova: dai testimoni, dai periti, dai consulenti, dagli interpreti e
anche dalle stesse parti.
Il giudice, attraverso una percezione diretta, certamente più efficace di ogni atto scritto, ha
contatto con la prova e fonda il suo convincimento in modo più completo di quanto non faccia
nel momento in cui decide valutando la prova che si evince dall’atto scritto.
Anche il principio dell’oralità ha delle eccezioni, costituite da tutte quelle letture consentite che
sono utilizzabili al fine di contribuire a formare il convincimento del giudice (sia pure come
eccezioni rispetto alla regola dell’oralità).
L’art. 514 stabilisce il divieto di lettura di altri atti al di fuori di quelli che sono consentiti dagli
artt. 511, 512, 512 bis e 513 : un principio di tassatività delle eccezioni, che non rende
ammissibile nessun’altra lettura al di fuori di quelle tassativamente elencate nelle norme sopra
indicate.
Vediamo allora quali sono gli atti per i quali è consentita la lettura, come eccezione al principio
di oralità: anzitutto, gli atti contenuti nel fascicolo del dibattimento (che è poi quello a
disposizione del giudice per la decisione), art. 511.
La lettura di verbali di dichiarazioni è disposta solo dopo l’esame della persona che le ha rese, a
meno che l’esame non abbia luogo; parimenti la lettura di una relazione peritale può essere fatta
solo dopo l’esame del perito.
In luogo della lettura, il giudice, anche di ufficio, può indicare specificamente gli atti utilizzabili
ai fini della decisione: l’indicazione degli atti equivale alla loro lettura.
113
L’art. 511 bis consente la lettura di verbali di prove di altri procedimenti.
L’art. 512 stabilisce che il giudice, a richiesta di parte, dispone che sia data lettura degli atti
assunti dalla p.g. , dal p.m. , dai difensori delle parti private e dal giudice nel corso dell’udienza
preliminare quando, per fatti o circostanze imprevedibili, ne è divenuta impossibile la
ripetizione.
L’art. 513 si occupa delle dichiarazioni dell’imputato rese nel corso delle i.p. o nell’u.p.
Basta che l’imputato sia contumace o assente o che non intenda sottoporsi all’esame diretto
perché le sue dichiarazioni possano essere lette.
● I caratteri della immediatezza e della concentrazione processuale si desumono dall’art. 477,
ove è previsto che, di regola il dibattimento si svolge in una sola udienza.
Tale esigenza è collegata all’altro carattere fondamentale della oralità.
Infatti, se l’oralità significa percezione diretta della prova da parte del giudice, è evidente che
solo concentrando il dibattimento in una udienza si consente al giudice di avere saldi i ricordi
della prova da porre a fondamento della sua decisione.
Se il dibattimento viene rinviato, il giudice per fissare i suoi ricordi deve necessariamente far
ricorso alla verbalizzazione e, quindi, all’atto scritto.
Quando non è assolutamente possibile esaurire il dibattimento in una sola udienza, il presidente
dispone che esso venga proseguito nel giorno seguente non festivo.
In caso di necessità, definita enfaticamente “assoluta” dalla norma, non dovrebbe andarsi oltre il
10^ giorno non festivo.
Un’altra norma dalla quale si ricava il principio di immediatezza processuale è l’art. 525, ove è
stabilito che “la sentenza è deliberata subito dopo la chiusura del dibattimento”.
● Il principio del contraddittorio si realizza con la contemporanea partecipazione delle parti
contrapposte all’attività processuale, tanto che il giudice ha l’obbligo di ascoltarle prima di
emettere la sua decisione.
È per questo che l’art. 1 della Legge costituzionale 23 novembre 1999 n. 2 , inserendo i principi
del “giusto processo” nell’art. 111 Cost. , ha rafforzato il principio del contraddittorio, non
soltanto prevedendo che ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di
parità, davanti a giudice terzo e imparziale (art. 111 comma 2) , ma sancendo espressamente che
il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova (art.
11 comma 4).
114
● Nel sistema vigente è solo al termine del dibattimento che l’imputazione (è il fatto storico al
quale il p.m. da una qualificazione giuridica soltanto embrionale e, quindi, con un grado di
modificabilità) si determina e si trasforma in accusa (ha maggiore determinatezza e fondatezza
essendo il risultato di un accertamento della verità dei fatti).
Poiché il giudice deve decidere su un fatto ormai definito e storicamente circoscritto, anche al
fine di rispettare il “principio di correlazione fra accusa e sentenza”, è necessario che vi sia un
momento in cui l’accusa debba cristallizzarsi.
Questo momento è quello della conclusione dell’istruzione dibattimentale.
Infatti, al di là delle possibilità, che pure vi sono, di evidenziare al termine dell’istruzione
dibattimentale un fatto diverso o nuovo o aggiuntivo (che sono le 3 ipotesi possibili di nuove
contestazioni, art. 521) , il principio che viene posto in evidenza è che il giudice può dare al
fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione, ma non può mai
modificare il fatto.
Ed invero, una volta che accerti che il fatto è diverso da come è descritto nel decreto che
dispone il giudizio, il giudice deve con ordinanza restituire gli atti al p.m. perché inizi il
processo ex novo.
Il fatto muta quando uno degli elementi costitutivi della fattispecie contestata sia accertato
essere diverso da quell’elemento che è stato contestato: quando muta, sul piano fattuale, uno
degli elementi essenziali della fattispecie, che la fa apparire diversa da quella contestata, si
incide sul diritto di difesa dell’imputato, in quanto l’imputato si è difeso da un fatto diverso da
quello successivamente accertato dal giudice.
Ecco perché, in tal caso, avendo l’imputato il diritto di difendersi rispetto al fatto diversamente
accertato, gli atti vengono restituiti al p.m.
Altro tema è, invece, quello della qualificazione giuridica: il fatto rimane sempre immutato ma
il giudice, al quale è esclusivamente demandata la valutazione del nomen juris del fatto, può
qualificarlo giuridicamente in modo diverso: non furto ma appropriazione indebita.
In definitiva, in virtù di questo principio di immutabilità dell’accusa, il giudice non può mai
decidere sul fatto che egli valuti diverso da quello che è stato contestato e il fatto è diverso
quando muta in uno dei suoi elementi essenziali.
● Altro principio importante è quello della “non regressione” in forza del quale il processo deve
proiettarsi dinamicamente verso la decisione finale e non può regredire ad una fase anteriore:
mira ad accelerare la dinamica processuale.
115
Gli atti introduttivi del dibattimento: la costituzione delle parti
Gli atti del dibattimento si sviluppano secondo un ordinato svolgimento logico, che consente
idealmente di suddividere in 3 momenti il dibattimento, come fulcro centrale della fase del
giudizio e dell’intero processo:
1) gli atti introduttivi (o operazioni preliminari);
2) l’istruzione dibattimentale;
3) la discussione finale.
1) Gli atti introduttivi del dibattimento (da non confondere con gli atti preliminari al
dibattimento) hanno lo scopo di consentire la verifica delle condizioni necessarie affinché il
dibattimento possa svolgersi in modo ordinato e regolare, nel rispetto dei diritti reciproci delle
parti.
Prima di dare inizio al dibattimento, il presidente del collegio controlla la regolare costituzione
delle parti.
Qualora il difensore dell’imputato non sia presente, il presidente designa come sostituto altro
difensore, al fine di assicurare sin dall’inizio la valida instaurazione del contraddittorio con il
p.m. (art. 484).
(Per l’imputato risulta fondamentale essere presente al dibattimento, che è la fase in cui
essenzialmente si forma la prova).
Il codice disciplina le situazioni relative alla mancata comparizione delle parti prendendo in
esame i casi di ignoranza della citazione ovvero di impedimento a comparire.
Nel primo caso, è stabilito il dovere del giudice di disporre, anche di ufficio, la rinnovazione
della citazione a giudizio, non solo quando è provato, ma anche quando appare probabile, che
l’imputato non abbia avuto effettiva conoscenza della data fissata per il dibattimento.
Nel secondo caso, se l’impossibilità a comparire è dovuta a caso fortuito, forza maggiore o altro
legittimo impedimento dell’imputato, il giudice, nel prenderne atto, è tenuto, anche d’ufficio, a
sospendere o rinviare il dibattimento, fissando la data della nuova udienza (art. 486).
Quanto alla contumacia dell’imputato non costituisce pregiudizio la sua scelta di non
comparire, al quale va assicurata la tutela dei diritti di difesa, semprechè non intenda
volontariamente sottrarsi alla giustizia.
L’imputato, quando si procede in sua contumacia, è rappresentato nel dibattimento dal
difensore.
L’imputato che, dopo essere regolarmente comparso, si allontana dall’aula di udienza, è
considerato presente ed è rappresentato dal difensore (art. 488).
116
Il giudice può disporre l’accompagnamento coattivo dell’imputato contumace, quando la
presenza di costui è necessaria per l’assunzione di una prova diversa dall’esame (mezzo di
prova lasciato alla volontà dell’imputato).
Le questioni preliminari
Dopo l’accertamento della costituzione delle parti e prima della formale apertura del
dibattimento ex 492, troviamo il momento delle questioni preliminari (art. 491).
Sono quei dubbi sulla regolarità formale degli atti processuali che devono essere risolti prima
che inizi la fase di merito del processo.
Tali questioni si possono suddividere in 2 gruppi:
-> quelle riguardanti la competenza per territorio e per connessione, la regolare costituzione
delle parti (costituzione di parte civile, la citazione, l’intervento del responsabile civile e della
persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria);
-> quelle che riguardano il contenuto del fascicolo per il dibattimento e la riunione o
separazione dei giudizi per la valida prosecuzione del dibattimento.
Le prime devono essere decise immediatamente mentre le seconde possono essere decise anche
in seguito, tanto che il giudice può addirittura riservarsi di deciderle unitamente la merito.
2) L’apertura del dibattimento e le richieste di prova
Subito dopo aver verificato la regolare costituzione delle parti e l’eventuale trattazione delle
questioni preliminari, il presidente del collegio o il giudice monocratico deve dichiarare aperto
il dibattimento.
L’ausiliario che assiste il giudice dà lettura dell’imputazione.
Il p.m. , i difensori della parte civile, del responsabile civile, della persona civilmente obbligata
per la pena pecuniaria e dell’imputato nell’ordine indicano i fatti che intendono provare e
chiedono l’ammissione delle prove (art. 493).
Il presidente impedisce ogni divagazione, ripetizione e interruzione e ogni esposizione del
contenuto degli atti delle indagini preliminari.
Esaurita l’esposizione introduttiva, il presidente informa l’imputato che egli ha facoltà di
rendere in ogni stato del dibattimento dichiarazioni spontanee purchè esse si riferiscano
all’oggetto dell’imputazione e non intralcino l’istruzione dibattimentale (art. 494).
Il giudice, sentite le parti, provvede con ordinanza all’ammissione delle prove.
L’istruzione dibattimentale – Esame testimoniale
117
È il momento centrale del dibattimento e, quindi, di tutto il processo, perché è il momento nel
quale si forma la prova e l’imputazione prospettata dal p.m. trova o no il suo riscontro.
Al p.m. il compito di dare inizio all’assunzione delle prove; ciò consente all’imputato e al suo
difensore di potersi rendere conto dell’effettiva portata delle accuse e della concreta necessità di
fronteggiarle.
Prima, dunque, si assumono le prove del p.m. e poi quelle delle altre parti, nell’ordine di cui
all’art. 493.
Nell’ambito della istruzione dibattimentale, viene dato grande rilievo alla novità che il nuovo
codice prevede l’esame diretto dei testimoni.
Ed infatti, una delle espressioni più significative del diritto alla prova è proprio quella di poter
dare alle parti la possibilità di esaminare in modo diretto il testimone, senza che, fra la parte e la
prova, si frapponga il filtro del giudice.
Infatti, se una domanda viene rivolta ad una persona tramite altra persona (il giudice) , la
domanda perde spontaneità ed efficacia. Questa esigenza di diretto contatto fra la parte e la
prova è in definitiva un’esigenza di miglior accertamento della verità.
Occorre adottare ogni possibile cautela perché il testimone non ascolti, prima di deporre, quanto
viene riferito da altro testimone.
I testimoni vengono poi assunti l’uno dopo l’altro, secondo l’ordine prescelto dalle parti che li
hanno indicati (art. 497).
Prima che l’esame abbia inizio, il testimone deve fare la dichiarazione sostituiva del
giuramento: è una dichiarazione di impegno a dire la verità e a non nascondere nulla di quanto è
a sua conoscenza, consapevole della responsabilità morale e giuridica che assume con la sua
deposizione (la precedente formula di giuramento prevedeva un richiamo a Dio che è parso non
conforme alla laicità dello Stato).
Il presidente prima del “giuramento” avverte il testimone delle responsabilità previste dalle
legge penale per i testimoni falsi o reticenti.
Nell’ambito dell’esame del testimone, dobbiamo distinguere : l’esame diretto dal controesame.
Il primo è condotto dalla parte che ha chiesto di esaminare il testimone (perito o consulente) e
mira a dare conforto alla tesi che si intende provare; il secondo, invece, è condotto dalle altre
parti subito dopo l’esame diretto e costituisce il mezzo attraverso il quale colui che vi abbia
interesse tende a screditare le dichiarazioni del teste esaminato per minare la sua credibilità.
Oggetto sia dell’esame che del controesame deve essere sempre un fatto specifico: il testimone
deve essere esaminato su fatti determinati.
118
Sia nell’esame che nel controesame è fatto divieto di porre domande che possano nuocere alla
sincerità delle risposte: si tratta delle c.d. “domande nocive”, cioè di quelle domande che
possano apparire intimidatorie e che non rispondono ai criteri di lealtà che devono
contraddistinguere sempre il comportamento delle parti.
L’esame non può mai essere il pretesto per aggressioni verbali; sono, inoltre, vietate le
domande che tendono a suggerire le risposte.
Chi ha proposto l’esame può proporre nuove domande: questa facoltà ha l’ovvia funzione di
consentire a chi ha introdotto il testimone di superare l’eventuale discredito cagionato alla prova
dalle domande proposte in controesame (al fine di chiarire o precisare circostanze rimaste poco
chiare, art. 498).
L’esame delle parti private
Con le stesse regole previste per l’esame e il controesame testimoniale, le parti private che ne
facciano richiesta o che vi prestino consenso possono essere sottoposte ad esame secondo il
seguente ordine: parte civile, responsabile civile, persona civilmente obbligata per la pena
pecuniaria e imputato.
Nuove contestazioni
Può darsi che a causa della sommarietà delle indagini preliminari, l’istruzione dibattimentale
faccia emergere o che il fatto commesso dall’imputato è diverso da quello contestatogli, o che
vi è connesso altro reato o circostanza aggravante che non furono indicati nel decreto di rinvio a
giudizio, o infine che è stato commesso anche altro reato di cui non si aveva conoscenza.
Come si vede, si tratta di ipotesi che o comporterebbero la restituzione degli atti al p.m. perché
provveda agli incombenti di competenza ovvero dovrebbero determinare altri procedimenti che
si chiuderebbero con un’ulteriore sentenza.
Ciò perché, come sancisce l’art. 521, deve esservi corrispondenza fra il reato contestato e quello
contenuto in sentenza, pena la nullità della stessa.
-> Se nel corso dell'istruzione dibattimentale risulta un fatto diverso da come è descritto nel
decreto che dispone il giudizio, e non appartiene alla competenza di un giudice superiore, il
p.m. modifica l'imputazione e procede alla relativa contestazione (art. 516).
Si tratta del medesimo fatto storico che, tuttavia, risulta essersi svolto diversamente. L’imputato
ha il diritto che il dibattimento sia sospeso ed ha altresì la facoltà di chiedere l’ammissione di
nuove prove (art. 519).
119
-> Stessa cosa per l’ipotesi di reato connesso o circostanza aggravante : il p.m. contesta
all'imputato il reato o la circostanza, purché la cognizione non appartenga alla competenza di un
giudice superiore (art. 517). Anche in tal caso l’imputato ha diritto alla sospensione ed
all’ammissione di eventuali nuove prove.
-> Nell’ipotesi di fatto nuovo, il p.m. procede nelle forme ordinarie, esercitando cioè l’azione
penale in un separato procedimento.
Discussione finale e chiusura del dibattimento
Viene ribadito ancora una volta l’ordine degli interventi, che vede come primo soggetto il p.m.
e come ultimo il difensore dell’imputato i quali formulano e illustrano le rispettive conclusioni
(art. 523).
Ciò perché da un lato deve sottolinearsi la prevalenza dell’interesse pubblico a sostenere
l’accusa, e dall’altro deve garantirsi nel modo più completo il diritto di difesa.
La conclusione della discussione segna il momento conclusivo del dibattimento (art. 524).
3) La sentenza
La disciplina della sentenza è suddivisa:
√ nella parte che attiene alla deliberazione;
√ nella parte che attiene alla decisione;
√ agli atti successivi alla deliberazione (redazione della sentenza- sua pubblicazione – suoi
requisiti – eventuali correzioni- deposito).
√ Quanto alla deliberazione, viene in evidenza il principio di immediatezza: “La sentenza è
deliberata subito dopo la chiusura del dibattimento”.
Alla deliberazione concorrono, a pena di nullità assoluta, gli stessi giudici che hanno
partecipato al dibattimento (art. 525).
Il giudice non può utilizzare ai fini della deliberazione prove diverse da quelle legittimamente
acquisite nel dibattimento (art. 526).
√ Quanto agli atti successivi alla deliberazione, conclusa la deliberazione, il presidente
dell’organo giudicante redige il dispositivo e lo sottoscrive (art. 544, comma 1).
Subito dopo è redatta una concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la sentenza è
fondata.
120
Qualora non sia possibile procedere alla redazione immediata dei motivi (di fatto e di diritto su
cui la sentenza è fondata) in camera di consiglio, vi si provvede non oltre il 15^ giorno da
quello della pronuncia.
Nei casi di particolare complessità il termine viene prolungato a 90 giorni sempre dal giorno
della pronuncia.
La sentenza è pubblicata in udienza dal presidente o da un giudice del collegio mediante la
lettura del dispositivo (art. 545).
Se è coeva, viene letta anche la motivazione.
La sentenza è depositata in cancelleria immediatamente o dopo la pubblicazione ovvero entro i
termini di 15 gg. e non oltre i 90 gg. dalla pronuncia (art. 548).
I requisiti della sentenza
La decisione del giudice si formalizza nella sentenza la quale deve avere dei requisiti formali
tutti enunciati nell’art. 546. In particolare deve contenere:
● intestazione in nome del popolo italiano e l’indicazione dell’autorità che l’ha pronunciata;
• le generalità dell’imputato o le altre indicazioni personali che valgono ad identificarlo,
nonché le generalità delle parti private;
• l’imputazione;
• l’indicazione delle conclusioni delle parti;
• la concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata , con
l’indicazione delle prove poste a base della decisione stessa e l’enunciazione delle ragioni
per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie;
• il dispositivo con l’indicazione degli articoli di legge applicati;
• la data e la sottoscrizione del giudice.
La sentenza è nulla se manca la sottoscrizione del giudice o la motivazione, o anche se manca o
è incompleto nei suoi elementi essenziali il dispositivo (art. 546, comma 3).
√ La decisione può essere di 3 tipi :
1) sentenza di non doversi procedere;
2) sentenza di assoluzione;
3) sentenza di condanna.
1) Il giudice deve quindi pronunciare sentenza di non doversi procedere:
- se l’azione penale non doveva essere iniziata o non deve essere proseguita;
121
- in caso di difetto di una condizione di procedibilità (querela, richiesta, istanza);
- per estinzione del reato: il codice penale prevede varie cause di estinzione del reato: la morte
del reo prima della condanna , l’amnistia, la remissione della querela, la prescrizione del reato,
l’oblazione nelle contravvenzioni, il perdono giudiziale per i minorenni.
Con la sentenza di proscioglimento, il giudice ordina la liberazione dell'imputato in stato di
custodia cautelare e dichiara la cessazione delle altre misure cautelari personali eventualmente
disposte (art. 532).
2) Il giudice pronuncia sentenza di assoluzione :
- se il fatto non sussiste;
- se l’imputato non lo ha commesso;
- se il fatto non costituisce reato;
- se il fatto non è previsto dalla legge come reato;
- se il reato è stato commesso da persona non imputabile o non punibile per altra ragione;
- quando manca, è insufficiente o contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo
ha commesso,ecc.
3) Il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato
contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio.
Con la sentenza si applica la pena e le eventuali misure di sicurezza (art. 533).
I punti essenziali della sentenza di condanna sono l’accertamento del fatto storico di reato, la
sua qualificazione come illecito penale, l’affermazione che l’imputato lo ha commesso ed,
infine, la determinazione della pena.
Se la condanna riguarda più reati, il giudice stabilisce la pena per ciascuno di essi e quindi
determina la pena che deve essere applicata in osservanza delle norme sul concorso di reati e di
pene o sulla continuazione.
La sentenza di condanna pone a carico del condannato il pagamento delle spese processuali,
avendo l’imputato, con la commissione del reato, dato causa al processo (art. 535).
Quando pronuncia sentenza di condanna e vi è stata costituzione di parte civile , il giudice è
tenuto a decidere sulla domanda relativa alle restituzioni ed al risarcimento del danno.
Il giudice deve valutare se il danneggiato era legittimato a costituirsi parte civile e se ha subito
un danno derivante direttamente dal suo reato.
Se la parte civile ha subito un danno, il giudice condanna l’imputato a risarcirlo.
122
Quando le prove acquisite non consentono la liquidazione del danno, il giudice pronuncia
condanna generica e rimette le parti davanti al giudice civile (art. 539).
A richiesta della parte civile, l’imputato e il responsabile civile sono condannati al pagamento
di una provvisionale (risarcimento limitato alla parte del quantum del danno già accertato) nei
limiti del danno per cui si ritiene già raggiunta la prova.
IL PROCEDIMENTO DAVANTI AL TRIBUNALE IN COMPOSIZIONE MONOCRATICA
Il Decreto legislativo 19 febbraio 1998, n. 51 ha riformato l'organizzazione dell'ordinamento
giudiziario istituendo la nuova figura del Giudice Unico di primo grado.
Il decreto ha abolito l'ufficio del Pretore trasferendo le sue competenze al Tribunale ordinario in
materia sia civile che penale, escluso quanto attribuito al Giudice di pace.
Il Tribunale ordinario che decide, sia in materia civile che penale, in composizione monocratica
(giudice singolo) e in composizione collegiale (collegio di tre giudici).
In concomitanza con l'inizio dell'efficacia della normativa relativa al Giudice unico (2 gennaio
2000), è entrata in vigore la Legge n. 479 del 16 dicembre 1999 che ha previsto una nuova
disciplina per il processo innanzi al Tribunale in composizione monocratica, modificando i
criteri per la ripartizione dei reati fra il giudice collegiale e il giudice monocratico.
Sono attribuiti al Tribunale collegiale tutti i reati, consumati o tentati, indicati nell'art. 33 bis
(oltre i reati espressamente elencati, anche quelli puniti con la pena della reclusione superiore
nel massimo a dieci anni).
L’area delle attribuzioni funzionali del giudice monocratico è piuttosto estesa; comprende,
infatti, oltre i reati originariamente di competenza del pretore, i reati in materia di stupefacenti,
con le dovute eccezioni, i reati fiscali, i reati commessi a mezzo stampa, di contrabbando, in
materia di prostituzione e via di seguito.
In ordine alla riunione dei processi se alcuni dei processi da riunire pendono davanti al tribunale
collegiale ed altri davanti a quello monocratico si opera una riunione davanti al tribunale
collegiale, riunione che si mantiene anche in caso di successiva separazione dei processi.
Accesso al dibattimento
Prima della miniriforma introdotta dalla legge 479/99, il sistema delineato dal legislatore, in
ordine alle modalità di esercizio ordinario dell'azione penale, per i reati di rito monocratico e
quelli di rito collegiale, era molto semplice: per i primi non si faceva mai luogo alla
celebrazione dell'udienza preliminare ed essi pervenivano al dibattimento attraverso la citazione
diretta fatta dal P.M.
123
Tale previsione aveva generato molte critiche, in quanto si era evidenziato che per reati puniti
con pena molto elevata (fino a 10 anni di reclusione), era rischioso, per le garanzie
dell'imputato, la rinuncia al filtro costituito dall'udienza preliminare.
La legge Carotti ha quindi significativamente mutato la normativa, sicchè odiernamente la
situazione è la seguente:
1. per i reati attribuiti al rito collegiale (salvo che non venga attivato un rito speciale), si fa
luogo sempre all'udienza preliminare;
2. per i reati attribuiti al giudice monocratico vi è un doppio regime:
a. si fa luogo alla citazione diretta a giudizio per i reati previsti dall'art. 550 (reati
contravvenzionali ovvero delitti puniti con la multa, sola o congiunta con la
reclusione non superiore nel massimo a quattro anni e taluni reati specificamente
indicati: es. furto aggravato, ricettazione, rissa aggravata ecc.);
b. si fa luogo all'udienza preliminare in tutti gli altri casi attribuiti alla cognizione del
giudice monocratico (art. 33ter) e non inclusi nelle ipotesi di citazione diretta (art.
550).
Quando manca l'udienza preliminare, il p.m. ha funzioni propulsive di invio del processo al
giudice del dibattimento, in quanto è l'organo dell'accusa che emette il decreto di citazione a
giudizio.
Il decreto di citazione a giudizio contiene tutti gli elementi necessari o utili ai fini della vocatio
in jus e, quindi, le indicazioni relative a: imputato, altre parti private, la contestazione del fatto-
reato, il tribunale monocratico competente per il giudizio, data e luogo dell'udienza, facoltà di
attivare i riti premiali pre- dibattimentali (patteggiamento ed abbreviato).
La novità più rilevante consiste nel fatto che, essendo più ampia la gamma dei reati destinati al
giudice monocratico (art. 33ter), la conseguente semplificazione del rito troverà di fatto
maggiore applicazione rispetto al passato. Ulteriori semplificazioni sono:
1) l'esame delle parti e dei testi, dei consulenti, ecc., su accordo delle parti, può essere
condotto dal giudice (senza «cross examination»), con evidente accelerazione dei tempi
del dibattimento;
2) il giudice, nell'assumere la sua decisione, può redigere contestualmente il dispositivo
e la motivazione della sentenza.
124
Riti speciali e citazione diretta
La sede naturale per attivare i riti speciali del giudizio abbreviato e del patteggiamento è
l'udienza preliminare. Nei casi di procedimenti destinati al rito monocratico con citazione
diretta, senza tale udienza, il codice detta taluni adattamenti procedurali.
La caratteristica della citazione diretta è, infatti, quella di far passare il procedimento dalle
indagini direttamente al giudizio, dunque, in tale ipotesi il giudizio monocratico è di natura
immediato, con conseguente non configurabilità di un’autonoma figura di procedimento
speciale.
Il dibattimento si svolge secondo le norme stabilite per il procedimento davanti al tribunale in
composizione collegiale, in quanto applicabili.
LE IMPUGNAZIONI
L’attività del giudice può essere inficiata da errori sia di fatto (per cui è necessario un nuovo
esame delle risultanze processuali attinenti al fatto, mediante l’eventuale acquisizione di nuovi
mezzi di prova), sia di diritto (concernono la inesatta interpretazione delle disposizioni di
legge): le impugnazioni sono gli strumenti tecnici predisposti per porre rimedio proprio a tali
errori grazie ad un riesame delle acquisizioni di fatto e ad un controllo in punto di diritto.
Il codice prevede tre gradi ordinari di giudizio, di cui due di merito ed uno di legittimità (oltre
alla impugnazione straordinaria per revisione).
I principi a fondamento del sistema di impugnazione sono:
Tassatività
Questo principio emerge dall’art. 568, comma 1, secondo cui è soltanto la legge che stabilisce i
casi nei quali i provvedimenti del giudice sono soggetti ad impugnazione e determina il mezzo
con cui possono essere impugnati.
L’art. 111 Cost. prevede che sono sempre suscettibili di ricorso per cassazione, quando non
altrimenti impugnabili, i provvedimenti con i quali il giudice decide sulla libertà personale.
Interesse ad impugnare
Ad un sistema processuale preoccupato della necessità di deflazionare il carico dei processi è
pienamente coerente la necessità della esistenza di un interesse concreto, diretto e personale, in
testa a chi si avvale dell'impugnazione.
Il codice, infatti, all’art. 568, comma 4, prevede che per proporre impugnazione è necessario
avervi interesse.
125
L’impugnazione deve essere finalizzata ad eliminare un provvedimento pregiudizievole e a
sostituirlo con un altro vantaggioso.
Ricorso immediato per cassazione
Le esigenze di celerità sono congeniali alla scelta della parte interessata di avvalersi subito della
verifica di legittimità, esperibile direttamente in cassazione, saltando l'appello (ricorso per
saltum). Il ricorso per cassazione è ammesso solo per motivi di legittimità; non possono
pertanto dedursi censure in ordine alla valutazione delle prove, alla mancata assunzione di
prove decisive ovvero alla mancanza o illogicità della motivazione: in questi casi opera
l’appello.
I titolari dell’impugnazione
Dal principio di tassatività deriva che non chiunque può proporre impugnazione, ma
unicamente i soggetti legittimati, i quali sono soltanto quelli espressamente indicati dalla legge
(l’art. 568, comma 3, fissa questo principio aggiungendo poi che se la legge non distingue tra le
diverse parti, il diritto ad impugnare spetta a ciascuna di esse).
Il pubblico ministero
Il procuratore della Repubblica presso il tribunale e il procuratore generale presso la corte di
appello possono proporre impugnazione (art. 570), nei casi stabiliti dalla legge, quali che siano
state le conclusioni del rappresentante del p.m.
L’impugnazione può essere anche proposta dal rappresentante del p.m. che ha presentato le
conclusioni.
Costui che ne fa richiesta nell'atto di appello può partecipare al successivo grado di giudizio
quale sostituto del procuratore generale presso la corte di appello.
L’imputato
L'imputato può proporre impugnazione personalmente o per mezzo di un procuratore speciale.
Può inoltre proporre impugnazione il difensore dell'imputato al momento del deposito del
provvedimento ovvero il difensore nominato appositamente per l’impugnazione.
L’impugnazione dell’imputato non concerne solo i capi penali della sentenza, ma anche gli
interessi civili. Potrà riguardare la condanna alle restituzioni e al risarcimento del danno e la
rifusione delle spese processuali, ma anche, relativamente alla sentenza di assoluzione, le
domande da lui proposte per il risarcimento del danno e la rifusione delle spese processuali.
126
Il responsabile civile e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria
Il responsabile civile può proporre impugnazione contro le disposizioni della sentenza
riguardanti la responsabilità dell'imputato e contro quelle relative alla condanna di questi e del
responsabile civile alle restituzioni, al risarcimento del danno e alla rifusione delle spese
processuali (art. 575, comma 1). L'impugnazione è proposta col mezzo che la legge attribuisce
all'imputato.
Lo stesso diritto spetta alla persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria nel caso in cui
sia stata condannata. Il responsabile civile può altresì proporre impugnazione contro le
disposizioni della sentenza di assoluzione relative alle domande proposte per il risarcimento del
danno e per la rifusione delle spese processuali.
La parte civile e la persona offesa
La parte civile può proporre impugnazione, con il mezzo previsto per il p.m. , contro i capi della
sentenza di condanna che riguardano l'azione civile.
La persona offesa costituita parte civile può proporre impugnazione, anche agli effetti penali,
contro le sentenze di condanna e di proscioglimento per i reati di ingiuria e diffamazione.
Forma dell’atto di impugnazione
L'impugnazione si propone con atto scritto (art. 581) nel quale sono indicati il provvedimento
impugnato, la data del medesimo, il giudice che lo ha emesso, e sono enunciati:
1. i capi o i punti della decisione ai quali si riferisce l'impugnazione (il capo della sentenza è
identificabile con la singola imputazione; il punto è costituito da una questione di fatto o di
diritto che deve essere trattata e risolta per giungere alla decisione in merito ad una o più
imputazioni);
2. le richieste ;
3. i motivi , con l'indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che
sorreggono ogni richiesta. Sicché l’indicazione approssimativa di tali elementi comporta
l’inammissibilità dell’impugnazione.
Presentazione e termini
127
L'atto di impugnazione è presentato personalmente ovvero a mezzo di incaricato nella
cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato (giudice a quo ≠ giudice ad
quem, cioè il giudice dell’impugnazione).
Le parti e i difensori possono proporre l'impugnazione con telegramma ovvero con atto da
trasmettersi a mezzo di raccomandata alla cancelleria del giudice che ha emesso il
provvedimento impugnato.
L'impugnazione si considera proposta nella data di spedizione della raccomandata o del
telegramma.
A cura della cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, l'atto di
impugnazione è comunicato al p.m. presso il medesimo giudice ed è notificato alle parti private
senza ritardo (art. 584).
Quanto ai termini l’impugnazione deve essere necessariamente proposta entro termini perentori,
a pena di inammissibilità.
Il dies a quo coincide con il momento legale della conoscenza della motivazione della sentenza.
In caso di motivazione contestuale alla decisione, il termine decorre dalla lettura in udienza ed è
di 15 gg.
In caso di redazione differita della motivazione (comma 2 art. 544) non oltre il 15° giorno da
quello della pronuncia, il termine sarà di 30 gg.
Nel caso dell’art 544 comma 3, (cioè di motivazione particolarmente complessa redatta in un
termine più lungo e comunque non oltre il 90° giorno), il termine per impugnare è di 45 gg.
In caso di deposito della motivazione oltre tali termini, decorre per le parti dalla notificazione o
comunicazione del relativo avviso di deposito del provvedimento.
Quando la decorrenza è diversa per l'imputato e per il suo difensore, opera per entrambi il
termine che scade per ultimo (art. 585).
Inammissibilità dell’impugnazione
L’impugnazione è inammissibile :
-> quando è proposta da chi non è legittimato o non ha interesse
-> quando il provvedimento non è impugnabile
-> quando vi è rinuncia all’impugnazione
-> decadenza dal diritto di impugnare ( ad es. : per decorrenza dei termini).
Il giudice dell’impugnazione (giudice ad quem), anche d’ufficio, dichiara con ordinanza
l’inammissibilità e dispone l’esecuzione del provvedimento impugnato.
128
Rinuncia all’impugnazione
Una delle cause d’inammissibilità dell’impugnazione è costituita dalla rinuncia, ossia l’atto
negoziale con cui la parte dichiara di non volersi più avvalere dell’impugnazione.
La rinuncia presuppone che l’impugnazione sia stata proposta e sia ammissibile.
Le parti private possono rinunciare all’impugnazione personalmente o per mezzo di un
procuratore speciale. La giurisprudenza ritiene che il difensore non può rinunciare
all’impugnazione, tranne se non munito di procura speciale.
Estensione dell’impugnazione
L’art. 587 disciplina i casi in cui l’impugnazione proposta da una parte privata giova anche ad
un’altra persona.
L’estensione dell’impugnazione comporta il diritto del non impugnante di partecipare al
relativo giudizio.
Essa opera:
1. nel caso di concorso di persone in uno stesso reato: l’impugnazione proposta da uno degli
imputati, purché non fondata su motivi esclusivamente personali, giova anche agli altri;
2. nel caso di riunione di procedimenti per reati diversi;
3. l’impugnazione proposta dall’imputato giova anche al responsabile civile e alla persona
civilmente obbligata per la pena pecuniaria.
Sospensione dell’esecuzione del provvedimento impugnato
Dal momento della pronuncia, durante i termini per impugnare e fino all’esito del giudizio di
impugnazione, l’esecuzione del provvedimento impugnato è sospesa (art. 588).
L’art. 588 2° c. stabilisce che le impugnazioni contro i provvedimenti in materia di libertà
personale non hanno in alcun caso effetto sospensivo.
L’APPELLO
L’appello rappresenta un mezzo ordinario di impugnazione che abbraccia sia il merito che la
legittimità della sentenza di primo grado. Ai sensi dell’art. 593, il p.m. e l'imputato possono
appellare contro le sentenze di condanna.
L'imputato non può appellare contro la sentenza di proscioglimento perché il fatto non sussiste
o per non aver commesso il fatto.
129
L’imputato non può appellare contro le sentenza di proscioglimento con le formule “perché il
fatto non sussiste o per non aver commesso il fatto”, proprio perché manca l’interesse visto che
sono vantaggiose al massimo grado. Sono inappellabili le sentenza di condanna relative ai reati
per i quali sia stata applicata la sola pena pecuniaria e le sentenze di proscioglimento o di non
luogo a procedere relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa.
Nel nostro ordinamento è prevista una pluralità di giudici d’appello, la cui competenza si
determina con riferimento all’organo che aveva deciso in primo grado.
Quanto all’individuazione del giudice competente, l’art. 596 prevede che:
1. sull'appello proposto contro le sentenze pronunciate dal tribunale decide la corte di
appello;
2. sull'appello proposto contro le sentenze della corte di assise decide la corte di assise di
appello.
Quando appellante è il solo imputato, il giudice non può riformare in peius, non può cioè
irrogare una pena più grave per specie o quantità, applicare una misura di sicurezza nuova o più
grave, prosciogliere l'imputato per una causa meno favorevole di quella enunciata nella
sentenza appellata né revocare benefici.
Ovviamente il divieto di reformatio in peius non concerne le disposizioni di natura civilistica,
così come esso non impedisce l’applicazione delle misure di sicurezza obbligatorie ex lege.
L’appello incidentale
La parte che non ha proposto impugnazione può proporre appello incidentale entro 15 gg. da
quello in cui ha ricevuto la comunicazione o la notificazione dalla cancelleria del giudice a quo.
La possibilità di proporre appello incidentale è riconosciuta a tutte le parti. L’appello
incidentale perde efficacia in caso di inammissibilità dell’appello principale o di rinuncia dello
stesso.
Si ritiene che l’appello del p.m. debba concludersi con una richiesta o di reformatio in pejus
della sentenza di primo grado o, diversamente, di una modifica della sentenza nell’interesse
della legge, il che può anche risolversi con un vantaggio per l’imputato.
Il principio del divieto di reformatio in pejus viene tenuto fermo nei confronti dell’imputato non
appellante, verso il quale quindi non può agire il p.m. in sede di appello incidentale.
L’appello incidentale, anche se proponibile da tutte le parti, costituisce nell’intenzione
legislativa uno strumento processuale affidato al p.m. per indurre l’imputato a non presentare
130
appello, ovvero a rinunciarvi per non correre il rischio di vedere riformata in peggio al propria
situazione.
La cognizione del giudice d’appello
L’ambito cognitivo del giudice d’appello è delimitato in relazione ai capi o punti della sentenza
oggetto di specifica contestazione nell’atto di impugnazione.
In linea di principio, quindi, quando ad appellare è il p.m. , si può avere anche un
peggioramento della posizione dell’imputato.
Quando l’appello è invece presentato dall’imputato, scatta il divieto di reformatio in peius. Il
giudice d’appello non solo non può irrogare una pena più grave per specie e quantità né
revocare benefici, ma non può neanche applicare una misura di sicurezza nuova o più grave né
prosciogliere l’imputato per una causa meno favorevole di quella enunciata nella sentenza
appellata.
Giudizio d’appello in camera di consiglio
L’esigenza di semplificare e quindi accelerare il corso del giudizio di impugnazione si
rispecchia nella previsione di un rito camerale, accanto a quello dibattimentale, sempre ai fini
della decisione sul gravame.
Il codice prevede tassativamente le ipotesi di adozione del rito camerale (cosiddetto perché si
svolge in camera di consiglio, quindi senza la presenza del pubblico):
1) quando l'appello ha esclusivamente per oggetto la specie o la misura della pena;
2) nelle ipotesi di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, sia per la riassunzione di prove
già acquisite nel dibattimento di primo grado, ovvero preesistenti ma non assunte;
3) quando le parti ne fanno richiesta dichiarando di concordare sull'accoglimento, in tutto o in
parte, dei motivi di appello, con rinuncia agli altri eventuali motivi e con la consequenziale
nuova determinazione della pena.
Il giudice, se ritiene di non potere accogliere, allo stato, la richiesta, ordina la citazione a
comparire al dibattimento.
Atti preliminari e il dibattimento d’appello
Il presidente ordina senza ritardo la citazione dell’imputato appellante, nonché dell’imputato
non appellante se vi è appello del p.m.
È ordinata in ogni caso la citazione delle parti eventuali.
131
Il decreto di citazione va notificato almeno 20 gg. prima della data fissata per il giudizio
d’appello.
Nell'udienza, il presidente o il consigliere da lui delegato fa la relazione della causa (art. 602).
Nel dibattimento può essere data lettura, anche d’ufficio, di atti del giudizio di primo grado,
nonché di atti compiuti nelle fasi precedenti. Nel dibattimento non può entrare materiale
probatorio, attraverso la lettura, che non sia già stato utilizzato per la decisione di primo grado.
L’acquisizione di prove non utilizzate in primo grado potrà avvenire, al verificarsi di
determinati presupposti, solo attraverso la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale (quando
una parte nell’atto d’appello, ha chiesto la riassunzione di prove già acquisite nel dibattimento
di primo grado o l’assunzione di nuove prove, il giudice, se ritiene di non essere in grado di
decidere allo stato degli atti, dispone la rinnovazione).
Il giudice dispone, altresì, la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale quando l'imputato,
contumace in primo grado, ne fa richiesta e prova di non essere potuto comparire per caso
fortuito o forza maggiore o per non avere avuto conoscenza del decreto di citazione.
La sentenza
Il giudizio d’appello può concludersi :
● con sentenza di inammissibilità
Viene emessa ordinanza di inammissibilità, ricorribile per cassazione, nei casi in cui l’appello
non sia stato validamente instaurato.
L’art. 604, norma di cardinale importanza per comprendere l’essenza stessa del giudizio
d’appello, esprime il divieto di regresso del processo di appello al primo grado.
● con sentenza di conferma che è pronunciata quando, ritenendo infondati i motivi d’appello,
lo rigetta e mantiene ferma la decisione di primo grado.
● con sentenza di riforma quando, accogliendo tutti o alcuni dei motivi proposti, modifica in
tutto o in parte la decisione di primo grado, salvo il divieto della reformatio in pejus
nell’appello dell’imputato.
● L’art. 604 prevede che il giudice di appello dichiara la nullità in tutto o in parte della sentenza
appellata e dispone la trasmissione degli atti al giudice di primo grado quando:
- nullità della sentenza per difetto di contestazione;
- nullità della sentenza che abbia condannato per un fatto diverso da quello contestato;
- nullità quando vi è stata condanna per un reato concorrente o per un fatto nuovo.
IL RICORSO PER CASSAZIONE
132
Il ricorso per Cassazione è un mezzo di impugnazione ordinario, costituzionalmente garantito
avverso tutte le sentenze, sebbene inappellabili, e avverso i provvedimenti sulla libertà
personale (art. 111 Cost.).
I motivi di diritto, indicati tassativamente dalla legge, concernono unicamente i vizi di
legittimità della pronuncia impugnata; tra i motivi vanno ricordati : gli errori commessi dal
giudice di merito nell’applicazione delle norme di diritto sostanziale (error in iudicando) o
nell’applicazione delle norme processuali (error in procedendo).
La corte di Cassazione, quale supremo organo della giurisdizione ordinaria, ha il compito di
assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge (funzione nomofilattica).
Il ricorso per cassazione può essere proposto solo per i seguenti cinque motivi:
a) esercizio da parte del giudice di una potestà riservata dalla legge ad organi legislativi o
amministrativi, ovvero non consentita ai pubblici poteri;
Si parla in genere di “eccesso” di potere.
b) inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche.
Si tratta di ipotesi di error in iudicando, che si verifica quando il giudice applichi in maniera
inesatta la legge penale sostanziale;
c) inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità, di inutilizzabilità, di
inammissibilità o di decadenza; l’error in procedendo (come ad esempio l’inosservanza del
divieto probatorio);
d) mancanza o manifesta illogicità della motivazione
Ai sensi dell’art. 606, comma 3, il ricorso è inammissibile se è proposto per motivi diversi da
quelli consentiti dalla legge.
I soggetti ricorrenti
L'imputato e il suo difensore possono ricorrere per cassazione contro la sentenza di condanna o
di proscioglimento ovvero contro la sentenza inappellabile di non luogo a procedere. Possono,
inoltre, ricorrere contro le sole disposizioni della sentenza che riguardano le spese processuali
(art. 607).
Il procuratore generale presso la corte di appello può ricorrere per cassazione contro ogni
sentenza di condanna o di proscioglimento pronunciata in grado di appello o inappellabile.
Il procuratore della Repubblica presso il tribunale può ricorrere per cassazione contro ogni
sentenza inappellabile, di condanna o di proscioglimento, pronunciata dalla corte di assise, dal
tribunale o dal giudice per le indagini preliminari presso il tribunale.
133
Il procedimento
Il presidente della corte di cassazione provvede all'assegnazione dei ricorsi alle singole sezioni
secondo i criteri stabiliti dalle leggi di ordinamento giudiziario.
Il presidente della corte, se si tratta delle sezioni unite, ovvero il presidente della sezione, fissa
la data per la trattazione del ricorso in udienza pubblica o in camera di consiglio, disponendo
anche la riunione dei giudizi o la separazione.
Almeno 30 gg. prima della data dell'udienza, la cancelleria ne dà avviso al procuratore generale
e ai difensori, indicando se il ricorso sarà deciso a seguito di udienza pubblica ovvero in camera
di consiglio.
In camera di consiglio la corte giudica sui motivi, sulle richieste del procuratore generale e sulle
memorie delle altre parti senza intervento dei difensori. Fino a 15 gg. prima dell'udienza, tutte
le parti possono presentare motivi nuovi e memorie e, fino a 5 gg. prima, possono presentare
memorie di replica.
Il dibattimento
Quando non si procede in camera di consiglio, il ricorso viene deciso in udienza pubblica.
Nell'udienza stabilita, il presidente procede alla verifica della costituzione delle parti e della
regolarità degli avvisi, dandone atto a verbale; quindi, il presidente o un consigliere da lui
delegato fa la relazione della causa. Dopo la requisitoria del p.m. , i difensori della parte civile,
del responsabile civile, della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria e dell'imputato
espongono nell'ordine le loro difese. Non sono ammesse repliche.
Le differenze con i gradi precedenti sono quindi:
1. l’intervento dei difensori non è necessario (“possono” non “devono”!)
2. non è consentita alcuna istruzione dibattimentale e né l’esibizione di nuovi documenti
quando questi potevano essere prodotti in sede di merito.
3. non sono ammesse, di regola, repliche, anche se, quando una questione “è dedotta per la
prima volta nel corso della discussione, il presidente può concedere nuovamente la parola alle
parti già intervenute”.
La corte di cassazione delibera la sentenza in camera di consiglio subito dopo terminata la
pubblica udienza salvo che, per la molteplicità o per l'importanza delle questioni da decidere, il
presidente ritenga indispensabile differire la deliberazione ad altra udienza prossima (art. 615).
134
La sentenza è pubblicata in udienza subito dopo la deliberazione, mediante lettura del
dispositivo fatta dal presidente o da un consigliere da lui delegato.
Conclusa la deliberazione, il presidente o il consigliere da lui designato redige la motivazione.
La sentenza, sottoscritta dal presidente, è depositata in cancelleria non oltre il trentesimo giorno
dalla deliberazione.
Tipologia delle sentenze
Quanto alla tipologia delle sentenza, possono essere d’inammissibilità, rigetto, rettificazione o
annullamento.
1. La corte dichiara inammissibile il ricorso quando è proposto da chi non è legittimato, quando
il provvedimento non è impugnabile, quando vi è rinuncia all’impugnazione. La parte privata
che ha proposto il ricorso dichiarato inammissibile è condannata al pagamento delle spese del
procedimento oltre che un’ammenda.
2. la corte pronuncia sentenza di rigetto, quando il ricorso è infondato, non essendo stato accolto
nessuno dei motivi proposti. Anche in questo caso la parte privata sarà condannata al
pagamento delle spese, ma il pagamento dell’ammenda sarà solo eventuale
3. la corte pronuncia sentenza di rettificazione nelle ipotesi dell’art. 619:
a) nel caso di errori di diritto nella motivazione e di erronee indicazioni di testi di legge
b) nel caso di errori nella denominazione o computo della pena: la corte non annulla la
sentenza, ma si limita a rettificare la quantità e la denominazione della pena
c) nei casi di legge più favorevole all’imputato, anche se sopravvenuta dopo la proposizione del
ricorso, qualora non siano necessari nuovi accertamenti di fatto
4. la corte pronuncia sentenza di annullamento quando accoglie uno o più motivi di ricorso,
ovvero d’ufficio deve dichiarare l’annullamento stesso. Le sentenze di annullamento possono
essere senza rinvio o con rinvio.
L’annullamento senza rinvio
I casi di annullamento senza rinvio (la Cassazione annulla la sentenza impugnata senza rinvio
ad altro giudice) sono elencati all’art. 620.
1. se il fatto non è previsto dalla legge come reato, se il reato è estinto o se l’azione penale non
doveva essere iniziata o proseguita
2. se il reato non appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario.
135
3. se il provvedimento impugnato contiene disposizioni che eccedono i poteri della
giurisdizione
4. se la decisione impugnata consiste in un provvedimento non consentito dalla legge
5. se la condanna è stata pronunciata per errore di persona
L’annullamento con rinvio
Quando la corte non può concludere l’esame del ricorso perché è necessario un giudizio nel
merito, deve annullare con rinvio al giudice di merito, che si occuperà della fase c.d. rescissoria,
al termine della quale verrà emessa una nuova pronuncia, destinata a sostituire quella della
corte. L’art. 623 regola i casi di annullamento con rinvio:
1. se è annullata un’ordinanza, la corte dispone che gli atti siano trasmessi al giudice che l’ha
pronunciata e questi dovrà conformarsi alla sentenza di annullamento
2. se è annullata una sentenza di condanna nei casi previsti dall'articolo 604 comma 1, la corte
di cassazione dispone che gli atti siano trasmessi al giudice di primo grado;
3. se è annullata la sentenza di un tribunale monocratico o di un giudice per le indagini
preliminari, la corte di cassazione dispone che gli atti siano trasmessi al medesimo tribunale;
tuttavia, il giudice deve essere diverso da quello che ha pronunciato la sentenza annullata.
Dato comune delle singole fattispecie regolate da questo art. è la regressione del procedimento
alla fase processuale in cui si è verificato il vizio: la cognizione della causa torna al gip o al gup
o al giudice dibattimentale di 1^ o di 2^ grado, a seconda del tipo di vizio determinante
l’annullamento e del momento in cui esso è sorto. Fondamentale è l’enunciazione espressa,
nella sentenza della corte di cassazione, del principio su cui si fonda la decisione, cui il giudice
di rinvio dovrà uniformarsi.
LA REVISIONE E LA RIPARAZIONE DELL’ERRORE GIUDIZIARIO
La revisione è un mezzo di impugnazione straordinario ed eccezionale, esperibile senza limiti di
tempo avverso provvedimenti di condanna divenuti irrevocabili.
Presupposti indefettibili per l’esperimento di questo rimedio straordinario sono:
1) che si tratti di una sentenza o di un decreto penale (con esclusione dunque dell’ordinanza);
2) che si tratti di una sentenza di condanna (con esclusione delle sentenze di proscioglimento e
di non luogo a procedere);
3) che la decisione sia divenuta irrevocabile.
136
Infatti, ai sensi dell’art. 629, “è ammessa in ogni tempo a favore dei condannati, nei casi
determinati dalla legge, la revisione delle sentenze di condanna o dei decreti penali di condanna,
divenuti irrevocabili, anche se la pena è già stata eseguita o è estinta”.
La revisione può essere richiesta (art. 630):
1. se i fatti stabiliti a fondamento della sentenza o del decreto penale di condanna non possono
conciliarsi con quelli stabiliti in un'altra sentenza penale irrevocabile;
2. se dopo la condanna sono sopravvenute o si scoprono nuove prove che, sole o unite a quelle
già valutate, dimostrano che il condannato deve essere prosciolto a norma dell'articolo 631;
3. se la sentenza o il decreto penale di condanna hanno ritenuto la sussistenza del reato a carico
del condannato in conseguenza di una sentenza del giudice civile o amministrativo,
successivamente revocata;
4. se è dimostrato che la condanna venne pronunciata in conseguenza di falsità in atti o in
giudizio o di un altro fatto previsto dalla legge come reato.
Possono chiedere la revisione:
1. il condannato o un suo prossimo congiunto ovvero la persona che ha sul condannato
l'autorità tutoria e, se il condannato è morto, l'erede o un prossimo congiunto;
2. il procuratore generale presso la corte di appello nel cui distretto fu pronunciata la sentenza
di condanna.
La richiesta di revisione è proposta personalmente o per mezzo di un procuratore speciale. Essa
deve contenere l'indicazione specifica delle ragioni e delle prove che la giustificano e deve
essere presentata, unitamente a eventuali atti e documenti, nella cancelleria della Corte di
appello.
Se la richiesta di revisione viene accolta, si passa alla fase di merito, con emissione del decreto
di citazione da parte del presidente della corte d’appello.
Il presidente della corte d’appello emette il decreto di citazione con avviso delle parti e ai
difensori (art. 636).
In caso di accoglimento della richiesta di revisione, il giudice revoca la sentenza di condanna o
il decreto penale di condanna e pronuncia il proscioglimento indicandone la causa nel
dispositivo (art. 637).
In caso di rigetto della richiesta, il giudice condanna la parte privata che l'ha proposta al
pagamento delle spese processuali e, se è stata disposta la sospensione, dispone che riprenda
l'esecuzione della pena o della misura di sicurezza.
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Qualunque sia l’esito del giudizio di revisione la sentenza può essere oggetto di ricorso per
cassazione.
La riparazione dell’errore giudiziario
Chi è stato prosciolto in sede di revisione, se non ha dato causa per dolo o colpa grave all’errore
giudiziario, ha diritto ad una riparazione commisurata alla durata dell’eventuale espiazione della
pena o internamento e alle conseguenze personali e familiari derivanti dalla condanna (art. 643).
Legittimati a richiedere la riparazione dell’errore giudiziario sono, se il prosciolto è morto
anche prima del procedimento di revisione, il coniuge, i discendenti e gli ascendenti, i fratelli e
le sorelle, gli affini entro il primo grado e le persone legate da vincolo di adozione con quella
deceduta.
La domanda scritta di riparazione è presentata, unitamente ai documenti ritenuti utili, nella
cancelleria penale della corte d’appello che ha pronunciato la sentenza di revisione,
personalmente o per mezzo di procuratore speciale (art. 645, comma 1). Sulla domanda di
riparazione la corte di appello decide in camera di consiglio.
Nell’udienza camerale segreta, il presidente o il consigliere delegato svolge la relazione, dopo
la quale ha luogo la discussione, verbalizzata in forma riassuntiva.
Le forme riparatorie ammesse sono:
● il pagamento di una somma di denaro;
● la rendita vitalizia o il ricovero in un istituto a spese dello stato: viene costituita tenendo conto
delle condizioni dell’avente diritto e della natura del danno.
L’ESECUZIONE PENALE
L’art. 648 stabilisce il principio secondo cui l’irrevocabilità si verifica quando sia inutilmente
decorso il termine per impugnare o quando siano esauriti tutti i possibili gradi di impugnazione
ed il provvedimento non è più soggetto ad impugnazione diversa dalla revisione.
Con la irrevocabilità, la sentenza (come il decreto penale di condanna) acquista autorità di cosa
giudicata che esprime l’atto conclusivo al quale tutto il processo è finalizzato e si traduce nella
immutabilità del comando insito nella decisione del giudice.
L’autorità della cosa giudicata si esprime, oltre che nella esecutività ed obbligatorietà della
sentenza, anche nel divieto del “bis in idem” , ovvero nella preclusione della riproposizione
dell’azione penale per il medesimo fatto per il quale l’imputato è stato condannato o prosciolto (
“L'imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non
può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, art. 649).
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Le sentenze e i decreti penali hanno forza esecutiva quando sono divenuti irrevocabili.
L’esecutività è la caratteristica di quel provvedimento che è idoneo a essere attuato
coattivamente e quindi anche contro la volontà della persona interessata.
La magistratura di sorveglianza
La competenza della magistratura di sorveglianza è ben delimitata a quelle materie, facenti
parte del diritto penale sostanziale e non di quello processuale, in cui prevalente appare il
giudizio sulla funzionalità ed efficienza della pena in relazione al fine specifico della
rieducazione del condannato e in quelle ove appare essenziale l’accertamento della pericolosità
del soggetto.
Gli organi giurisdizionali di sorveglianza sono caratterizzati dalla monocraticità del magistrato
di sorveglianza e dalla collegialità del tribunale di sorveglianza.
Il primo ha compiti di vigilanza sulla organizzazione degli istituti di prevenzione e di pena,
nonché dell’esecuzione della custodia cautelare e delle misure di sicurezza.
Il secondo, invece, è competente a decidere sull’affidamento in prova al servizio sociale, sulla
detenzione domiciliare, sulla semilibertà, sulla liberazione condizionale, ecc.
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