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1 Le donne italiane nella Grande Guerra. Un bilancio storiografico (1990-2005) Matteo Ermacora 1. Introduzione. p.13 Lo studio della componente femminile è divenuto un elemento importante della più ampia storia sociale della Grande Guerra non solo per la crescente consapevolezza del ruolo fondamentale che le donne giocarono nella tenuta del «fronte interno» ma anche perchè questo periodo si configurò come un momento di rottura degli «equilibri» fra i sessi, accelerando la trasformazione delle identità di genere. Il richiamo alle armi di milioni di soldati e l’espansione dell’economia di guerra aprivano ampi spazi d’azione per le donne che ebbero modo di sperimentare una maggiore autonomia e nel contempo videro moltiplicare i propri compiti sia a livello familiare sia nella sfera pubblica; la guerra infatti intensificò l’impiego della forza lavoro femminile accrescendone la visibilità sociale 1 . Si trattò di una mobilitazione «totale» e profonda dal punto di vista geografico, anagrafico e di ceto sociale, un processo rapido, caotico e non privo di contraddizioni: le donne furono protagoniste all’interno dello sforzo bellico ma furono anche oggetto di nuove attenzioni da parte delle autorità statali, divise tra istanze repressive e ricerca di consenso. Le operaie negli stabilimenti «ausiliari», le contadine, le tramviere, le impiegate, le «madrine di guerra», le crocerossine solo per citarne alcune, esprimono la varietà dei compiti ma anche atteggiamenti completamente diversi di fronte all’accettazione o meno della guerra, rendendo difficile la valutazione generale dell’esperienza femminile. Nel quadro del «fronte interno», in quanto protagoniste di una «società parziale», senza uomini, punto di raccordo tra l’esperienza del fronte e la difficile quotidianità del paese in guerra, le donne si rivelarono una sorta di catalizzatore delle tensioni e delle novità che si stavano verificando tumultuosamente: processi di urbanizzazione, incontro tra diverse culture contadine ed operaie, nuovi ruoli produttivi e familiari, diretto contatto con la burocrazia statale, precarietà, sofferenze e lutti ma anche entusiasmo e partecipazione nei comitati di assistenza e di propaganda patriottica; proprio in virtù di queste particolari e contraddittorie posizioni, tra «responsabilità e «libertà», le donne furono protagoniste di una inedita ricerca di spazi autonomi di azione 2 . Il tema del rapporto tra le donne e la guerra appare poco studiato; a differenza degli altri paesi, infatti mancano contributi di sintesi specifici su questa tematica che si è spesso intrecciata con l’ormai affermata «storia delle donne» e con la più ampia «storia sociale»: l’importanza della componente femminile è emersa soprattutto tra gli anni Ottanta e i primi anni Novanta quando sono stati studiati il «fronte interno», la Saggio pubblicato in: Donne in guerra. 1915-1918. La Grande Guerra attraverso l’analisi e le testimonianze di una terra di confine, Rovereto, Judicaria-Museo storico italiano della guerra 2007, pp. 11-30. Atti del convegno di Tione di Trento, Museo della guerra di Rovereto, 5 novembre 2005. 1 S. Soldani, Donne senza pace. Esperienze di lavoro, di lotta, di vita tra guerra e dopoguerra (1915- 1920), in «Annali dell’Istituto Alcide Cervi», 1991, n. 13, p. 44; A. Gibelli, La Grande guerra degli italiani 1915-1918, Milano, Sansoni, 1998, p. 9; 175. 2 M. Palazzi, Donne sole. Storie dell’altra faccia dell’Italia tra antico regime e società contemporanea, Milano, Mondadori, 1997, p. 413; A. Molinari, Storia delle donne e ruoli sessuali nell’epistolografia popolare della grande guerra, in M. L. Betri-D. Maldini Chiarito (a cura di), «Dolce dono graditissimo». La lettera privata dal Settecento al Novecento, Milano, Franco Angeli, 2000, p. 223.

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Le donne italiane nella Grande Guerra. Un bilancio storiografico (1990-2005)

Matteo Ermacora

1. Introduzione. p.13 Lo studio della componente femminile è divenuto un elemento importante della più ampia storia sociale della Grande Guerra non solo per la crescente consapevolezza del ruolo fondamentale che le donne giocarono nella tenuta del «fronte interno» ma anche perchè questo periodo si configurò come un momento di rottura degli «equilibri» fra i sessi, accelerando la trasformazione delle identità di genere. Il richiamo alle armi di milioni di soldati e l’espansione dell’economia di guerra aprivano ampi spazi d’azione per le donne che ebbero modo di sperimentare una maggiore autonomia e nel contempo videro moltiplicare i propri compiti sia a livello familiare sia nella sfera pubblica; la guerra infatti intensificò l’impiego della forza lavoro femminile accrescendone la visibilità sociale1. Si trattò di una mobilitazione «totale» e profonda dal punto di vista geografico, anagrafico e di ceto sociale, un processo rapido, caotico e non privo di contraddizioni: le donne furono protagoniste all’interno dello sforzo bellico ma furono anche oggetto di nuove attenzioni da parte delle autorità statali, divise tra istanze repressive e ricerca di consenso. Le operaie negli stabilimenti «ausiliari», le contadine, le tramviere, le impiegate, le «madrine di guerra», le crocerossine solo per citarne alcune, esprimono la varietà dei compiti ma anche atteggiamenti completamente diversi di fronte all’accettazione o meno della guerra, rendendo difficile la valutazione generale dell’esperienza femminile. Nel quadro del «fronte interno», in quanto protagoniste di una «società parziale», senza uomini, punto di raccordo tra l’esperienza del fronte e la difficile quotidianità del paese in guerra, le donne si rivelarono una sorta di catalizzatore delle tensioni e delle novità che si stavano verificando tumultuosamente: processi di urbanizzazione, incontro tra diverse culture contadine ed operaie, nuovi ruoli produttivi e familiari, diretto contatto con la burocrazia statale, precarietà, sofferenze e lutti ma anche entusiasmo e partecipazione nei comitati di assistenza e di propaganda patriottica; proprio in virtù di queste particolari e contraddittorie posizioni, tra «responsabilità e «libertà», le donne furono protagoniste di una inedita ricerca di spazi autonomi di azione2.

Il tema del rapporto tra le donne e la guerra appare poco studiato; a differenza degli altri paesi, infatti mancano contributi di sintesi specifici su questa tematica che si è spesso intrecciata con l’ormai affermata «storia delle donne» e con la più ampia «storia sociale»: l’importanza della componente femminile è emersa soprattutto tra gli anni Ottanta e i primi anni Novanta quando sono stati studiati il «fronte interno», la

Saggio pubblicato in: Donne in guerra. 1915-1918. La Grande Guerra attraverso l’analisi e le testimonianze di una terra di confine, Rovereto, Judicaria-Museo storico italiano della guerra 2007, pp. 11-30. Atti del convegno di Tione di Trento, Museo della guerra di Rovereto, 5 novembre 2005. 1 S. Soldani, Donne senza pace. Esperienze di lavoro, di lotta, di vita tra guerra e dopoguerra (1915-1920), in «Annali dell’Istituto Alcide Cervi», 1991, n. 13, p. 44; A. Gibelli, La Grande guerra degli italiani 1915-1918, Milano, Sansoni, 1998, p. 9; 175. 2 M. Palazzi, Donne sole. Storie dell’altra faccia dell’Italia tra antico regime e società contemporanea, Milano, Mondadori, 1997, p. 413; A. Molinari, Storia delle donne e ruoli sessuali nell’epistolografia popolare della grande guerra, in M. L. Betri-D. Maldini Chiarito (a cura di), «Dolce dono graditissimo». La lettera privata dal Settecento al Novecento, Milano, Franco Angeli, 2000, p. 223.

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legislazione repressiva, la mobilitazione economica, i rapporti tra stato e società civile e le trasformazioni sociali indotte dal conflitto. Questo filone di studi in seguito si è arricchito con nuovi contributi che hanno indagato il ruolo e la protesta delle donne nelle campagne, l’impiego dei minori nella mobilitazione bellica, il lavoro femminile, dando uno spazio sempre più rilevante al tema della mentalità collettiva e al recupero delle memorie soggettive3. p.14

La crescente consapevolezza della cesura storica rappresentata dal primo conflitto mondiale nella storia contemporanea e la riflessione sulla violenza nel ventesimo secolo hanno permesso di istituire idealmente una linea di continuità tra la morte di massa nelle trincee e la Shoah consolidando in questo modo la drammatica «modernità» della Grande Guerra4; proprio nel corso degli anni Novanta la maturazione di una nuova sensibilità ha sollecitato l’esplorazione di tematiche per lungo tempo «dimenticate» - la prigionia, la «guerra ai civili», le occupazioni militari, gli internamenti e la profuganza - temi «nuovi» per la storiografia nazionale, più presenti invece nelle ricerche e nella memoria locale trentina, veneta e friulana, zone di confine che sperimentarono una vera e propria «guerra totale»5. Questi studi hanno dimostrato come la «violenza» della guerra colpì in maniera diretta e profonda anche i «civili», categoria che deve essere declinata prevalentemente «al femminile» dal momento che nelle retrovie del fronte, nelle zone occupate o tra i profughi in fuga, ci si trova di fronte ad un’altra «società», caratterizzata dalla presenza preponderante di donne, bambini e anziani, e forse proprio per questo «dimenticata» da governi ed autorità, spesso indifferenti alla sorte di questi soggetti6.

Più in generale, nel corso dell’ultimo quindicennio, le ricerche si sono incentrate soprattutto su tre settori di indagine: il ruolo delle donne nel «fronte interno», le donne nelle situazioni estreme dell’occupazione e del profugato, le donne nella mobilitazione patriottica7; mentre la storia «sociale» ha assunto una notevole importanza, hanno segnato invece il passo gli studi più strettamente legati alla partecipazione politica e alle differenze di genere. Il problema storiografico principale non è stato tanto quello di ricostruire dimensioni e caratteri della presenza femminile nello sforzo bellico, quanto piuttosto di verificare i mutamenti dei rapporti di genere indotti dal conflitto e di

3 Si veda B. Bianchi, La Grande Guerra nella storiografia italiana dell’ultimo decennio, in «Ricerche Storiche», 1991, n. 3, pp. 694-745, in part. 720-745 e i recenti bilanci di A. Gibelli, Storici italiani e storiografia internazionale della grande guerra: un bilancio, in E. Franzina (a cura di), Una trincea chiamata Dolomiti. Ein Krieg-zwei Schützengräben, Udine, Gaspari, 2003, pp. 29-36. Per un quadro sulla storia delle donne, cfr. A. Bravo-M. Pelaja-A. Pescarolo-L. Scaraffia, Storia sociale delle donne nell’Italia contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 2001. 4 Si veda E. Traverso, La violenza nazista. Una genealogia, Bologna, Il Mulino, 2002; A. Ventrone, La seduzione totalitaria. Guerra, modernità, violenza politica (1914-1918), Roma, Donzelli, 2003; S. Audoin Rouzeau-A. Becker, La violenza, la crociata, il lutto. La Grande Guerra e la storia del Novecento, Torino, Einaudi, 2002. 5 Tra i nuovi studi ci limitiamo a segnalare, rimandando alle bibliografie relative, Laboratorio di storia di Rovereto (a cura di), Il popolo scomparso. Il trentino, i trentini nella prima guerra mondiale (1914-1920), Rovereto, Nicolodi, 2004; P. Malni, Fuggiaschi. Il Campo profughi di Wagna 1915-1918, San Canzian d’Isonzo, Edizioni del consorzio culturale del monfalconese, 1998; F. Cecotti (a cura di), “Un esilio che non ha pari”. 1914-1918. Profughi, internati ed emigrati di Trieste, dell’isontino e dell’Istria, Gorizia, Editrice goriziana, 2001; S. e G. Milocco, “Fratelli d’Italia”. Gli internamenti degli italiani nelle “terre liberate” durante la Grande Guerra, Udine, Gaspari, 2002. 6 B. Bianchi, I civili: vittime innocenti o bersagli legittimi?, in Grande guerra e popolazione civile. Repressione, violenza, deportati, profughi, Milano, Unicopli, in corso di pubblicazione; ringrazio la professoressa Bianchi per avermi permesso la consultazione delle bozze. 7 Risulta invece difficile tenere conto della pubblicistica di carattere locale, particolarmente dinamica nelle regioni di confine direttamente interessate dal conflitto; diari, memorie, libri fotografici, studi su piccole località del fronte riservano molte indicazioni sul mondo femminile.

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valutare la loro portata all’interno della più ampia storia delle donne8; da questo punto di vista il paradigma «emancipazionista», ovvero la guerra come fattore di emancipazione, è stato sottoposto ad una critica serrata, tanto che oggi le storiche delle donne preferiscono considerare questo evento come un periodo complesso, che rafforzò, sotto il punto di vista del ruolo e sullo stesso piano simbolico, le tradizionali differenze di genere9. Ė necessario però affermare che tale nodo problematico è stato posto forse in maniera prematura, quando ancora lo stato delle conoscenze non era molto approfondito e rimane aperto tutt’oggi. In questa prospettiva risulta importante lo sforzo compiuto nel corso di questi ultimi anni per valorizzare la memoria femminile che altrimenti sarebbe rimasta una memoria privata, di secondo livello rispetto a quella dei combattenti, divenuta mito fondante durante il conflitto stesso10. La «prospettiva di genere» e l’analisi dei percorsi individuali diventano quindi uno strumento importante non solo per individuare problematiche specifiche spesso trascurate, ma anche per completare la «memoria» dell’evento bellico, per mettere in luce i meccanismi di percezione e di costruzione dell’evento stesso nella coscienza collettiva11.

L’esplorazione del vissuto quotidiano, la valutazione «in soggettiva» dell’impatto dell’evento bellico sono state compiute anche grazie al mutamento delle fonti utilizzate dall’analisi storica; la guerra agì infatti come «moltiplicatore» delle forme della scrittura privata e burocratica; anche le donne, come i soldati, si avvicinarono alla scrittura per avere notizie dei propri cari, per compilare moduli di sussidio e richieste di licenze, per fermare sulla carta momenti drammatici: p.15 istanze, lettere, diari e memorie scritte, unite alle ultime testimonianze orali, sono quindi diventate fonti preziose e indispensabili12.

La rassegna, seppur consapevolmente limitata data la grande mole di testi relativi al primo conflitto mondiale, cerca di tenere conto di monografie, saggi ed articoli più significativi che hanno sviluppato, sotto molteplici e diverse angolature, il rapporto tra

8 Si veda A. Molinari, Storia delle donne e ruoli sessuali nell’epistolografia cit., p. 226 e Id., Appunti per una storia delle donne nella Grande Guerra, in «Quaderni del Dipartimento di lingue e letterature straniere moderne», 2001, n. 11, p. 74. 9 La revisione è partita da F. Thebaud, La grande guerra: età della donna o trionfo delle differenze sessuali? in G. Duby-M. Perrot (a cura di), Storia delle donne in Occidente. Il Novecento, vol. II, Roma-Bari, Laterza, 1992, p. 26. Gli studi europei sulle donne seguono questa linea interpretativa; per una rassegna, seppur rapida, cfr. A. Prost-J. Winter, Penser la Grande Guerre. Un essai d’historiographie, Paris, Seuil, 2004, pp. 223-227. 10 Si veda M. Isnenghi, Il mito della Grande Guerra, Mulino, Bologna, 1989 [1970] e G. L. Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Roma-Bari, Laterza, 1990. 11 E’quanto si propone la rivista DEP. Rivista telematica di studi sulla memoria femminile (http://venus.unive.it/rtsmf/); si veda anche B. Bianchi- D. Costantini-A. Lotto-E. Magnanini, Dep: deportate, esuli, profughe. Genesi e prospettive di una rivista telematica di studi sulla memoria femminile, in «Genesis», 2004, n. 2 e P. Sorcinelli, Un secolo di guerra, in Id. (a cura di), Identikit del Novecento, Roma, Donzelli, 2004, p.178. 12 Come ha notato Augusta Molinari, durante il conflitto scrivere significò «vivere e far vivere»; in un contesto segnato dalla fragilità dell’esistenza, le lettere inviate ai mariti al fronte appaiono come un vero e proprio «gesto d’amore» ma anche un tentativo di superare l’isolamento e di confermare la stabilità dei ruoli sessuali; A. Molinari, Storia delle donne e ruoli sessuali nell’epistolografia popolare cit., pp. 210-212. Tra i numerosi epistolari di guerra editi si vedano G. Sut, Torno o non torno. Giuseppe Merlino fante friulano e la grande guerra da lui non voluta, Pordenone, Biblioteca dell’immagine, 1998; R. Dondeynaz, Selma e Guerrino. Un epistolario amoroso, Torino, Scriptorium, 1992. Per un quadro sulle scritture popolari, il dibattito metodologico e un’aggiornata bibliografia si rimanda a F. Caffarena, Lettere dalla Grande Guerra. Scritture del quotidiano, monumenti della memoria, fonti per la storia. Il caso italiano, Milano, Unicopli, 2005; oltre alle raccolte di testimonianze di Nuto Revelli e Bianca Guidetti Serra, ormai veri e propri «classici», si veda C. Pavan, L’ultimo anno della prima guerra. Il 1918 nel racconto dei testimoni friulani e veneti, Treviso, Pavan Editore, 2004, Id., In fuga dai tedeschi. L’invasione del 1917 nel racconto dei testimoni, Treviso, Pavan editore, 2004; I. Urli, Bambini nella grande guerra, Udine, Gaspari, 2003.

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le donne e la Grande Guerra, nel tentativo di presentare un quadro delle conoscenze, l’evoluzione degli studi e degli oggetti della ricerca, le tematiche e i problemi ancora da esaminare. 2. Lavorare durante la Grande Guerra Uno dei temi maggiormente indagati è senza dubbio quello della partecipazione femminile nell’economia bellica. Le acquisizioni storiografiche in questo ambito sono sempre più solide e consentono di tracciare un quadro sintetico delle varie articolazioni dell’impiego femminile che, se si eccettua il settore agricolo, era legato principalmente alle opportunità pubblico-private legate alle commesse militari; sebbene inferiori ai livelli che si riscontrarono negli altri paesi belligeranti, alla fine del conflitto circa 190 mila operaie furono impiegate nell’industria del munizionamento, altre 600 mila furono adibite alla confezione di indumenti militari a domicilio, mentre nelle retrovie le donne impiegate nei lavori logistici e difensivi furono circa 20 mila nel 1918. L’analisi del mercato del lavoro in tempo di guerra ha mostrato che l’andamento dell’occupazione femminile registrò, dopo una fase di crisi nel 1914-1915, una decisa intensificazione delle assunzioni nel corso del biennio 1916-1917 e una rapida smobilitazione al termine del conflitto.

Come è noto, furono i mancati proventi della componente maschile, le necessità alimentari, il carovita a costringere le giovani ragazze e anche le donne sposate – questo è un vero e proprio elemento di novità - ad assumere un nuovo ruolo «pubblico» per far quadrare il bilancio familiare, ricercando nuove opportunità occupazionali. Gli studi sulle classi popolari concordano sull’aumento delle responsabilità che ricadde sulle donne: garantire redditi integrativi, coordinare le strategie di occupazione dei vari membri del nucleo familiare, farsi carico delle relazioni di aiuto, gestire nuovi spazi di socialità; come dimostrano testimonianze orali e corrispondenze epistolari questi compiti furono affrontati con sentimenti di paura e di incertezza ma anche di orgoglio e di una accresciuta consapevolezza del proprio ruolo e della propria condizione13.

Il lavoro delle donne si caratterizzò per elementi di novità e di continuità rispetto al periodo prebellico; l’espansione dell’economia di guerra moltiplicò le possibilità di occupazione e di scelta, incentivando l’intraprendenza e alimentando nuove aspettative individuali; vincendo le resistenze padronali, le donne entrarono dunque in settori tradizionalmente «maschili», quali le industrie meccanico-metallurgiche, oppure si fecero largo nel terziario modernizzando in questo modo le caratteristiche dell’occupazione femminile; vennero inoltre sperimentate nuove forme di organizzazione del lavoro mentre la mobilità geografica verso i centri industriali delle regioni centrosettentrionali fu rilevante14. D’altro canto, il peggioramento delle

13 Nella zona veneto-friulana per certi versi la guerra accelerò il processo di emancipazione femminile avviato dal fenomeno migratorio, cfr. A. D’Agostin-J. Grossutti (a cura di), Ti ho spedito lire cento. Le stagioni di luigi Piccoli, emigrante friulano. Lettere famigliari (1905-1915), Pordenone, Biblioteca dell’Immagine, 1997. Desidero ringraziare Giacomo Viola per avermi permesso la consultazione di un saggio, ancora inedito, sulla condizione femminile nella società veneto-friulana durante la guerra. 14 Uno degli aspetti di novità che sono emersi dalle ricerche è dato dalla forte mobilità femminile vero il «Triangolo industriale» ma anche all’interno delle zone di retrovia, dove piccoli e grandi centri interessati dalla forte presenza dell’esercito, offrivano numerose possibilità di impiego; ne conseguì anche l’acquisizione di competenze migratorie e di un nuovo rapporto con enti di collocamento e patronati laici e cattolici; si vedano B. Curli, Italiane al lavoro 1914-1920, Venezia, Marsilio, 1998; L. Savelli, Contadine e operaie. Donne al lavoro negli stabilimenti della Società Metallurgica Italiana, in «Annali dell’Istituto Alcide Cervi», 1991, n. 13, pp. 122-123; S. Ortaggi, Mutamenti sociali e radicalizzazione dei conflitti in Italia tra guerra e dopoguerra, in «Ricerche storiche», 1997, n.13, p. 675; B. Bianchi, Crescere in tempo di guerra. Il lavoro e la protesta dei ragazzi in Italia 1915-1918, Venezia, Cafoscarina, 1995; M. Ermacora, I minori al fronte della grande guerra. Lavoro e mobilità minorile, numero monografico de «Il Calendario del Popolo», 2004, n. 682.

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condizioni di lavoro, la diffusione dei cottimi, il progressivo trasferimento di donne e minori p.16 verso mansioni più faticose e pesanti e la militarizzazione furono elementi comuni nel settore produttivo durante il conflitto; non solo, continuarono a permanere modelli culturali legati alla subordinazione e alla segregazione professionale che impedivano la formazione e rafforzavano le sperequazioni salariali; da questo punto di vista si continuò a considerare le donne come lavoratrici indispensabili, ma di seconda scelta15.

Non meno impegnativo fu il lavoro nelle campagne dove le donne dovettero svolgere i lavori più pesanti ed assumere anche incarichi direttivi all’interno delle aziende agricole. La novità di tali ruoli è stata ridimensionata, infatti le inchieste ministeriali tra Otto e Novecento (Jacini, Faina, Bertani) presentavano il lavoro femminile come una realtà consolidata, il dato inedito fu invece il superlavoro cui furono sottoposte donne, anziani e bambini. Nonostante siano necessari ulteriori approfondimenti, l’impiego femminile più rilevante si verificò nelle regioni del centro - nord mentre risultò meno intenso in quelle meridionali, scoraggiato dalla struttura fondiaria ed insediativa. Se in un primo momento i lavori agricoli furono sostenuti attraverso gli scambi di manodopera, la rotazione delle colture, l’aiuto dei reticoli parentali e comunitari, con il proseguire della guerra le donne si trovarono in crescenti difficoltà, tuttavia fu proprio in virtù dello sforzo femminile senza precedenti che fu impedito il tracollo della produzione agricola durante il conflitto16.

Nelle zone montane a ridosso del fronte - quali la Carnia, gli Altipiani, il Cadore – le donne poterono integrare i bilanci familiari con l’impiego nei servizi logistici militari: tra il 1915 e il 1917 i comandi dell’esercito ingaggiarono circa 12 mila operaie avventizie tra i 13 e i 50 anni di età per eseguire lavori di manutenzione stradale, per il trasporto dei materiali ad alta quota e nei laboratori militari. Si trattò di un impiego efficace e prezioso ma che si risolse in un fenomeno di intenso sfruttamento date le pericolose mansioni e le sensibili sperequazioni salariali e previdenziali rispetto agli operai maschi impiegati in analoghe mansioni; esito di una mobilitazione profonda e radicale, questa esperienza di lavoro si rivelò particolarmente difficile e sofferta perchè spesso si sovrappose agli impegni domestici e di cura17. Al sud, invece, il limitato sviluppo del settore industriale e la presenza di vaste sacche di povertà soprattutto tra le famiglie dei richiamati, suggerirono l’avvio di forme di assistenza attraverso lavoro, come la confezione a domicilio degli indumenti militari18.

L’indagine storiografica ha concentrato la sua attenzione sul settore industriale, un settore strategico e centrale nella prima guerra «moderna», dove si accumularono gli aspetti di novità legati non solo all’ingresso delle donne nelle fabbriche ma anche al complesso rapporto con l’autorità statale attraverso i meccanismi della mobilitazione industriale e della militarizzazione dei rapporti di lavoro. Partendo dalle ricostruzioni generali nei primi anni Ottanta, le nuove ricerche si sono concentrate sulla presenza, le articolazioni e il ruolo delle donne in questo settore, i percorsi di ingresso e di uscita nel quadro più ampio del mercato del lavoro e delle diverse possibilità di impiego offerte dall’economia bellica; da questo punto di vista è emerso che le donne non sostituirono gli uomini nella fabbriche bensì andarono a colmare i vuoti di un’industria in rapida espansione e che le operaie di fabbrica, in realtà una minoranza, ebbero un ruolo

15 Si vedano S. Peli, La classe operaia nella grande guerra e A. Camarda, Note sulla struttura del salario nella grande guerra, entrambi in M. Isnenghi (a cura di), Operai e contadini nella grande guerra, Bologna, Cappelli, 1982. 16 Si veda S. Soldani, Donne senza pace cit. 17 M. Ermacora, Cantieri di guerra. Il lavoro dei civili nelle retrovie del fronte italiano (1915-1918), Bologna, Il Mulino, 2005, pp. 114-130; Id., Minori al fronte della grande guerra cit., pp. 41-47. 18 B. Pisa, Un’azienda di stato a domicilio: la confezione di indumenti militari durante la grande guerra, in «Storia contemporanea», 1989, n. 6.

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fondamentale nel rompere quella rigida separazione tra lavoro «femminile» e lavoro «maschile», che trovava nelle fabbriche del settore meccanico una tradizionale applicazione19. La guerra, da una parte rafforzò la presenza femminile nei settori tradizionali stimolati dalle p.17 commesse militari (tessile, abbigliamento, trasformazione alimentare), dall’altra ne determinò il progressivo ingresso nelle fabbriche «ausiliarie» destinate alla produzione bellica (industria meccanico-metallurgica, spolettifici, lavorazione delle granate e piccoli calibri, reparti verniciatura). Dal 1915 al 1918 la manodopera femminile passò da 14 a 190 mila unità (circa il 22% sul totale degli impiegati), registrando l’incremento massimo nel corso del biennio 1916-1917, quando le operaie passarono da 80 a 140 mila unità; nelle periferie del «triangolo industriale», inoltre, lo sviluppo dell’indotto - caratterizzato da piccole e medie aziende spesso di carattere poco più che artigianale, a bassa tecnologia ed alta intensità di lavoro - costituì il punto di approdo per la manodopera femminile e minorile che affluiva dalle campagne con un movimento pendolare; la soppressione delle leggi di tutela, la necessità di fonti di reddito per sostenere le famiglie spinsero infatti un gran numero di ragazzi e a ragazze - circa 70 mila nel 1918 - ad entrare negli stabilimenti «ausiliari»20. Questa «nuova classe operaia», dequalificata, inesperta ed indocile, incontrò l’ostilità delle maestranze di più antica formazione che temevano il pericolo del deprezzamento dei salari, uno svilimento delle competenze professionali e soprattutto l’invio al fronte; le giovani operaie nelle fabbriche furono oggetto di pregiudizi, umiliazioni e vessazioni in quanto donne ed in quanto espressione della trasformazione del ruolo femminile in atto durante il conflitto21. L’ingresso in questo contesto lavorativo fu un elemento di indubbia novità (e come tale ricordato dalle ragazze più giovani), ma i tratti prevalenti dell’occupazione industriale femminile, ampiamente documentati dalle ricerche, sono caratterizzati da isolamento, precarietà, fatica e subordinazione. La durezza delle condizioni di lavoro è ormai un dato acquisito: salari modesti, alti ritmi per compensare la mancanza di innovazioni tecnologiche, elevata rotazione delle maestranze, turni straordinari e notturni, impossibilità di abbandonare il lavoro, mansioni più gravose e insalubri, alto tasso di infortuni e di intossicazioni dovute al contatto con materiali nocivi e sostanze chimiche22. Le condizioni lavorative, unite alle precarie condizioni alimentari, igieniche ed abitative determinarono la diffusione dell’alcolismo tra le operaie, un progressivo indebolimento organico, l’aumento degli aborti e della mortalità infantile, probabilmente dovuta al più frequente ricorso delle operaie al baliatico oppure all’abbandono precoce dell’allattamento23.

19 B. Curli, Italiane al lavoro cit.; si veda anche M.P. Bigaran, Donne nella Grande Guerra, in «Italia Contemporanea», n. 220-221, pp. 628-629. 20 B. Bianchi, Crescere in tempo di guerra cit. 21 Per un quadro generale, cfr. A. Camarda-S. Peli, L’altro esercito. La classe operaia durante la prima guerra mondiale, Milano, Feltrinelli, 1980; sull’ostilità maschile, cfr. A. Molinari, L’esercito operaio dell’Ansaldo, in V. Castronovo (a cura di), L’Ansaldo e la grande guerra, Roma-Bari, Laterza, 1997; Id, Istanze individuali e pratiche aziendali. Lettere all’Ansaldo (1915-1918), in C. Zadra-G. Fait (a cura di), Deferenza, rivendicazione, supplica. Le lettere ai potenti, Treviso, Pagus, 1991; Id., Pratica della scrittura e culture operaie. L’Ansaldo dei Perrone, in «Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli», Milano, Feltrinelli, 1997, pp. 577-617. 22 Si veda A. Camarda-S. Peli, L’altro esercito cit., pp. 155-156. Sulle assenze per malattia e infortuni negli stabilimenti ausiliari, cfr. B. Bianchi, Salute e rendimento nell’industria bellica (1915-1918), in M.L. Betri-A. Gilgi Marchetti (a cura di), Salute e classi lavoratrici in Italia dall’Unità al Fascismo, Milano, Angeli, 1982, pp.124-125; 158. Sulla legislazione repressiva, cfr. G. Procacci, Repressione e dissenso nella prima guerra mondiale, in «Studi storici», 1981, n.1 e Id., La legislazione repressiva e la sua applicazione, in Stato e classe operaia in Italia durante la prima guerra mondiale, Milano, Franco Angeli, 1983. 23 E’ l’ipotesi sul caso lombardo avanzata da L. Pozzi-A. Rosina, Quando la madre lavora: industrializzazione e mortalità infantile nelle province lombarde dall’Unità alla Grande Guerra, in L. Pozzi-E. Tognotti (a cura di), Salute e malattia fra ‘800 e ‘900 in Sardegna e nei paesi dell’Europa

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Sfibrate dalle fatiche del lavoro, donne e ragazze risultano essere le categorie più colpite dalla recrudescenza della tubercolosi, dalle affezioni polmonari e particolarmente esposte alle falcidie della «spagnola» nel biennio 1918-191924.

Sin dai primi mesi di guerra tutti gli stabilimenti interessati alla produzione bellica furono sottoposti al codice penale militare che impediva gli scioperi ed equiparava assenze e malattie alla diserzione, una condizione che acuì i motivi di malessere e di insoddisfazione delle maestranze25; a differenza di altri paesi belligeranti, complice anche l’improvvisazione e lo scarso controllo dello stato sull’industria privata, il nesso tra salute e produttività fu compreso molto tardi: nei confronti della classe operaia prevalse quindi un atteggiamento fortemente repressivo. Solo a partire dal 1917, sull’onda delle crescenti tensioni sociali, furono varati i limiti di orario, la regolamentazione dei turni e le misure igienico-sanitarie, provvedimenti che ebbero un carattere disorganico, e furono spesso disattesi, come dimostra l’alta percentuale di assenteismo tra le donne sposate e le madri.

Contrariamente a quanto proposto dagli stereotipi della smobilitazione, è stato mostrato come in alcuni settori le capacità lavorative p.18 acquisite e la tipizzazione per sesso protessero le donne dalla disoccupazione postbellica; nel complesso, nell’intervallo censuario 1911-1921 la presenza delle donne nel mondo del lavoro aumentò, tuttavia solo in alcuni settori si verificò un incremento percentuale delle addette, in particolar modo nei trasporti, banche ed assicurazioni (da 3.5 a 11%) e nel settore amministrativo pubblico e privato (da 4.7 a 12.9%), dilatato dalle nuove necessità belliche. La guerra contribuì quindi a «femminilizzare» il terziario e i servizi (insegnamento, lavori impiegatizi, assistenza sanitari), ampliando così le possibilità di occupazione delle donne appartenenti alle classi medie, una tendenza strutturale collegata al progressivo processo di scolarizzazione femminile26. 3. Le «ribelli» L’iniziale sottovalutazione del ruolo femminile nella protesta operaia e contadina è stata superata dalle ricerche condotte nel corso degli anni Novanta che hanno mostrato come donne, ragazze e minori siano stati assoluti protagonisti delle forti tensioni sociali a partire dalla prima metà del 1916 quando si moltiplicarono i segnali di malessere dovuti al peggioramento delle condizioni di vita nel paese27. Uno degli elementi di novità derivanti dagli studi sullo «spirito» pubblico e i comportamenti popolari, è stato l’accento posto sui fattori morali e psicologici, al pari di quelli strettamente economici, nella genesi delle proteste; donne e ragazzi percepirono acutamente le ingiustizie, le divisioni sociali e la sordità delle autorità statali di fronte alla progressiva precarizzazione della vita, sentimenti che si trasformarono in una profonda avversione contro il sistema politico e la guerra. Le donne costituirono non solo l’elemento

mediterranea, Sassari, Edes, 2000, pp. 153-177; per un quadro generale, cfr. L. Pozzi, La population italienne pendant la Grande Guerre, in «Annales de Démographie Historique», 2002, n. 1, pp. 121-142, in part. p. 127. Sulla mortalità infantile cfr., Id., La lotta per la vita. Evoluzione e geografia della sopravvivenza in Italia tra ‘800 e ‘900, Udine, Forum, 2000. 24 Sulla forte incidenza delle malattie sulle donne, cfr. S. Soldani, La Grande Guerra lontano dal fronte, in G. Mori (a cura di) Storia d’Italia, Le regioni dall’Unità ad oggi, Torino, Einaudi, 1986, p. 370. Sulla «spagnola» si veda il recente saggio di E. Tognetti, La febbre spagnola in Italia. La storia dell’influenza che fece temere la fine del mondo (1918-1919), Milano, Franco Angeli, 2002. 25 Sulle reazioni della classe operaia e contadina, cfr. G. Procacci, Dalla rassegnazione alla rivolta. Mentalità e comportamenti popolari nella grande guerra, Roma, Bulzoni, 1998, pp.157-167. 26 B. Curli, Italiane al lavoro, cit. 27 La partecipazione femminile nelle proteste prebelliche nel 1914-1915, principalmente annonarie, in Veneto e in Friuli fu particolarmente alta proprio perché le donne vivevano in prima persona le difficoltà di approvvigionamento, la disoccupazione e il blocco migratorio. Per un esempio si veda M. Ermacora, Un anno difficile: Buja tra pace e guerra (agosto 1914-maggio1915), Buja, El Tomât, 2000.

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«trainante» delle lotte, ma anche un importante elemento «di collegamento» tra la fabbrica e la società, e, dal momento che molto spesso si erano inurbate, tra la fabbrica e la campagna; nell’ambito rurale, inoltre, il ruolo femminile fu preponderante e di fatto coincise con la protesta del movimento contadino nel suo insieme28. Negozi e uffici comunali, dove le donne affrontavano lunghe code per il pane e per i sussidi - questi ultimi percepiti come strumento di prolungamento delle sofferenze - diventarono quindi luoghi di incontro e di condivisione del malessere ma anche i luoghi da cui partivano le manifestazioni contro la guerra. Parallelamente l’impatto della «nuova classe operaia» con le dure condizioni di lavoro imposte dalla Mobilitazione Industriale innescò un ciclo di lotte nelle fabbriche particolarmente aspro; sin dai primi studi si è infatti sottolineato come le donne siano state promotrici di scioperi ed agitazioni autonomi e non subordinati, frutto di una specifica esasperazione femminile dovuta alle condizioni di lavoro, e come questo inedito movimento di protesta abbia in qualche modo rotto gli equilibri all’interno delle fabbriche; nel corso del 1917, anche per gli echi della rivoluzione russa, le proteste di donne e minori si saldarono con la classe operaia di più antica formazione, sfociando in manifestazioni contro il caroviveri e, in seguito, di opposizione alla guerra. Sia in campagna che in città la componente femminile si dimostrò audace e risoluta, anche perché era meno ricattabile dell’elemento maschile - che poteva essere chiamato alle armi - e meno facilmente punibile; ciononostante le autorità militari e di pubblica sicurezza non si dimostrarono meno dure ed inflessibili: agitazioni, assenteismo, mobilità non autorizzata ma anche scioperi di p.19 solidarietà nei confronti dei compagni di lavoro furono duramente puniti, al punto che nel biennio 1917-1918 un quarto delle condanne complessive per questi reati fu comminato contro donne29. La precarietà delle condizioni di lavoro, l’inasprimento della repressione, gli abusi del personale tecnico e di sorveglianza, equiparato a personale militare, accrebbero l’audacia femminile ed ebbero l’effetto di produrre una rapida maturazione sindacale e politica delle maestranze, con un’alta partecipazione negli scioperi e una forte solidarietà nelle lotte per il salario e nelle richieste di pace30.

Le diverse ricerche condotte in ambito urbano e rurale concordano sul carattere spontaneo delle proteste e sulla limitatezza di una lettura esclusivamente economica delle motivazioni che spingevano le donne alla protesta; le interpretazioni divergono sulla dimensione «politica»: se alcune storiche tendono ad accentuare la maggiore possibilità delle donne di agire al di fuori degli abituali canoni della conflittualità operaia31, altre tendono invece a sottolineare la dimensione consapevole e politicamente più matura della protesta femminile, mettendo in evidenza il fatto che le donne, attraverso i soldati in licenza oppure i disertori, erano consapevoli del massacro in atto nelle trincee e pertanto le agitazioni si scatenavano in coincidenza con le offensive militari o con le iniziative politiche in favore della pace condotte dai socialisti in

28 G. Procacci, Dalla rassegnazione alla rivolta cit., p. 209. 29 Nel 1917 il 20% dei condannati erano donne, nel 1918 pari al 21%. G. Procacci, La società come una caserma. La svolta repressiva nell’Italia della Grande Guerra, in «Contemporanea», 2005, n. 3, p. 433. 30 A Milano, circa il 30% delle ragazze processate fu condannato nel 1917-1918 per violazione del decreto sugli assembramenti, scioperi e manifestazioni di protesta, una presenza comunque inferiore ai coetanei maschi perché socialmente più controllate nell’ambito domestico e lavorativo. A. Gessner, La delinquenza minorile a Milano durante la prima guerra mondiale, in «Storia e problemi contemporanei», 2001, n. 27, p. 89; 104; per un quadro generale sulla protesta giovanile, cfr. B. Bianchi, Crescere in tempo di guerra cit. 31 S. Soldani Donne senza pace cit., pp. 25-26; 28-29. Si veda anche M. Casalini, I socialisti e le donne. Dalla “mobilitazione pacifista” alla smobilitazione postbellica, in «Italia Contemporanea», 2001, n. 222, pp. 15-16. A riprova di questa dimensione non politica le storiche adducono il ridimensionamento della presenza femminile nelle vertenze organizzate e nelle proteste dell’immediato dopoguerra.

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parlamento32. La protesta femminile risulta così legata con il nuovo e complesso ruolo «pubblico» assunto dalle donne che determinò una sorta di acculturazione politica incalzata dallo stato di guerra33. Queste interpretazioni sembrano essere confermate soprattutto al nord (nelle città) e nelle zone a forte tradizione socialista dove, come nel Polesine, la protesta popolare, essenzialmente femminile e minorile, assunse esplicite tendenze antimilitariste e connotati di forte radicalità: scontri con la polizia, blocco dei raccolti, rifiuto dei sussidi, distruzione dei materiali logistici militari, aperta ostilità contro la mobilitazione patriottica, sostegno e rifugio a sbandati e disertori, azioni peraltro sconfessate dalla dirigenza socialista34. Le proteste, rilevanti anche nel corso dell’ultimo anno di guerra nonostante gli interventi governativi e il clima di forzata resistenza, raggiunsero limitati obiettivi sia all’interno delle fabbriche sia nelle campagne ed ebbero l’effetto di ampliare, seppur temporaneamente, la considerazione della componente femminile nelle attività produttive. 4. La «guerra in casa» Nelle zone di confine, divenute improvvisamente «fronte», i civili ebbero modo di sperimentare una vera e propria «guerra totale» che comportò la massiccia mobilitazione della popolazione civile, la militarizzazione dell’economia, degli spazi e dei tempi della vita quotidiana e nuove forme di controllo e di discriminazione politica dovuta a sospetti di infedeltà. Le operazioni militari inoltre determinarono sfollamenti, esodi e regimi di occupazione ma, mentre gli studi sulla profuganza trentina ed isontina in terra austriaca sono ormai ben consolidati, solo recentemente è stato esplorato il fenomeno degli internamenti in Italia, delle evacuazioni forzate e soprattutto della profuganza e dell’occupazione austro-tedesca, temi ampi e complessi che riservano ancora molti interrogativi, soprattutto per quanto riguarda la dimensione femminile35. Si rivelano invece più sviluppate, seppure non si disponga di studi di sintesi, le tematiche p.20 relative al rapporto tra i militari e i civili, ai processi di trasformazione sociale, culturale ed economica nelle comunità a ridosso del fronte, investite improvvisamente da consistenti flussi di soldati, trasformate dalle infrastrutture militari, sottoposte a bombardamenti, insidiate da epidemie36.

32 S. Ortaggi, Italian woman during Great War, in G. Braybon (dir.), Evidence, History and the Great War. Historians and the impact of 1914-1918, New York-Oxford, Bergham books, 2003, p. 223; 229. 33 Su questo soprattutto S. Ortaggi, Italian Woman cit., e G. Procacci, Dalla rassegnazione alla rivolta cit. 34 Si veda B. Bianchi, La protesta popolare nel Polesine durante la guerra, in Nicola Badaloni, Gino Piva e il Socialismo padano-veneto, Rovigo, Associazione culturale minelliana editrice, 1998, pp. 170-174; sul sostegno ai disertori, cfr. Id., La follia e la fuga. Nevrosi di guerra, diserzione e disobbedienza nell’esercito italiano (1915-1918), Roma, Bulzoni, 2001, pp. 280-294. 35 Oltre ai testi già citati, segnalo, E. Ellero, Autorità militare italiana e popolazione civile nell’udinese (maggio 1915-ottobre 1917). Sfollamenti coatti ed internamenti, in «Storia contemporanea in Friuli», 1998, n. 29, pp. 9-107. D. Ceschin, La popolazione dell’alto vicentino di fronte alla Strafexpedition: l’esodo, il profugato, il ritorno, in V. Corà-P. Pozzato (a cura di), 1916. La Strafexpedition, Udine, Gaspari, 2003, pp. 248-280; Id., I profughi vicentini durante la Strafexpedition. Aspetti storiografici ed ipotesi interpretative, in «Venetica», 2002, n. 6, pp. 93-121; P. Svoljsak, La popolazione slovena nella zona di guerra, in C. Pavan (a cura di), Grande Guerra e popolazione civile, vol. I, Caporetto, Treviso, Pavan Editore, 1997, pp. 241-264. Per quanto riguarda i profughi segnalo, E. Ellero, Storia di un esodo. I friulani dopo la rotta di Caporetto 1917-1919, Pasiano, Ifsml, 2001; D. Ceschin, Gli esuli di Caporetto. I profughi in Italia durante la Grande Guerra, Roma-Bari, Laterza, 2006. Incentrati sull’esperienza femminile della profuganza, cfr. L. Palla, Scritture di donne: la memoria delle profughe trentine nella prima guerra mondiale, in «DEP. Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica di studi sulla memoria femminile», 2004, n. 1 (http://venus.unive.it/rtsmf/); Scritture di guerra, quaderni 4 e 5, Trento, Museo storico italiano della guerra, Rovereto, 1996; Q. Antonelli, «Io sono di continuo in pensieri..». Donne che scrivono nella Grande Guerra, in A. Iuso (a cura di), Scritture di donne. Uno sguardo europeo, Arezzo, Protagon, 1999, pp. 103-119. 36 Si vedano I. Urli, Bambini nella grande guerra cit.; G.Viola, Storia della ritirata nel Friuli della Grande Guerra. Cîl e int: diari e memorie dell’invasione austro-tedesca, Udine, Gaspari, 1998.

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Anche nella «società di retrovia» l’elemento femminile assunse un ruolo centrale e fu sottoposto a forti tensioni; è ormai documentata l’importanza che rivestirono le numerose possibilità di impiego offerte dall’economia informale derivante dalla presenza militare (ambulantato, spacci ed osterie, affitto di stanze, lavaggio e stiratura di indumenti militari, laboratori logistici) mentre devono essere ancora esplorati i contatti tra le donne e i soldati che giungevano nelle retrovie per brevi periodi di riposo37. Queste relazioni, spesso all’insegna della fragilità, della ricerca di comprensione e conforto, non sempre furono univoche, a volte accettate a volte rifiutate, anche in relazione alla provenienza degli stessi soldati; ricerche e testimonianze mostrano comunque una ampia solidarietà nei confronti dei soldati, perché le donne vi intravedevano la fragile condizione dei propri figli, fratelli o mariti: l’intreccio di compassione, sottomissione e precarietà faceva sì che le famiglie si allargassero accogliendo i nuovi venuti; d’altro canto non si può sottovalutare il carattere strumentale di queste relazioni dal momento che gli scambi di servizi, lavoro e approvvigionamento si intensificarono con il progressivo peggioramento delle condizioni di vita nella «zona di guerra» e per contro l’esercito necessitava di manodopera per i servizi logistici38. Povertà e ristrettezze alimentarono il fenomeno della prostituzione clandestina nei piccoli e grandi centri delle retrovie, al punto che i comandi furono costretti ad istituire un apposito servizio di postriboli militari per impedire la diffusione di malattie veneree39. La «tenuta» della componente femminile diventò dunque fondamentale per il mantenimento dell’integrità morale e culturale delle stesse comunità di retrovia perchè la presenza militare comportò una sorta di rottura delle norme che regolavano i rapporti sociali tra i diversi sessi; in questo senso «diversità» e alterità in ambienti ristretti diventarono novità sconvolgenti. L’aumento della nascite illegittime, tuttavia, non può, a livello locale quanto nazionale, essere considerato come indicatore di una maggiore emancipazione e di una conquistata indipendenza nelle relazioni a causa dell’ampia portata del fenomeno della prostituzione clandestina, un aspetto che rimanda alla precarietà e alla marginalità sociale che spesso contraddistinsero l’esperienza femminile durante il conflitto. 5. Donne tra profuganza e occupazione La disfatta di Caporetto segnò il diretto e massiccio coinvolgimento dei civili nell’evento bellico, nella duplice dimensione della profuganza e dell’occupazione. Gli eventi dell’ottobre del 1917, per la loro drammaticità e dimensione, si sono rivelati qualitativamente diversi dai movimenti di popolazione che si registrarono nella prima fase del conflitto e durante la Strafexpedition del 1916; mentre in questi casi furono spostate intere comunità o gruppi familiari, con la ritirata le separazioni e le lacerazioni familiari divennero un fenomeno di massa che costrinse le donne ad assumere una notevole importanza come «custodi» ed organizzatrici di una nuova esistenza al di qua

37 Si rimanda a L. Fabi (a cura di), La gente e la guerra, Udine, Il Campo, 1990; M. Ermacora, Cantieri di guerra cit.; per i numerosi riferimenti ai rapporti tra soldati e ragazze friulane, cfr. A. Lodolini, Quattro anni senza Dio, Udine, Gaspari, 2003. 38 C. Fragiacomo, Un paese in guerra: Paularo, in L. Fabi (a cura di) La gente e la guerra cit.; sul rimescolamento sociale e sui ruoli femminili, cfr. D. Leoni-C. Zadra, I ruoli sconvolti: donne e famiglia a Volano nella guerra del quindici, in «Movimento operaio e socialista», 1982, n. 3. A. Scottà, I vescovi veneti e la Santa Sede nella guerra 1915-1918, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1991. Per un quadro generale sul Friuli, cfr. L. Fabi, Militari e civili nel Friuli della Grande Guerra, e G. Viola, L’arcidiocesi di Udine nella Grande Guerra, in G. Corni (a cura di), Storia della società friulana 1914-1925, Udine, Ifsml, 2000. 39 E. Franzina, Casini di guerra. Il tempo libero della trincea e i postriboli militari, Udine, Gaspari, 1999, Id., Le fabbriche dell’amore castrense: Case e Casini del soldato, in La memoria della Grande Guerra nelle Dolomiti, Udine, Gaspari, 2001, p. 170; A. Sema, Soldati e prostitute. Il caso della III Armata, Valdagno, Rossato, 1999.

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e al di là del Piave. Le donne che fuggivano dovettero infatti preparare la p.21 partenza, affrontare un viaggio difficile verso l’interno, assistere i familiari e trovare una nuova sistemazione nei luoghi di accoglienza richiedendo alloggi, sussidi e lavoro; analogamente, chi rimase nei paesi invasi dovette cercare di evitare le violenze, intessere nuove relazioni con l’occupante, lottare per la sopravvivenza. In entrambi i casi, le nuove e difficili incombenze furono gravate da un forte peso psicologico dovuto alle separazioni: bambini e parenti smarriti nella fuga, mariti richiamati alle armi o prigionieri, congiunti rimasti nei territori invasi oppure fuggiti oltre il Piave. Gli studi hanno dimostrato che l’esperienza della profuganza, del dislocamento geografico, culturale, economico, avvenuto in maniera drammatica e violenta, impose alle donne un notevole sforzo di adattamento: divenute capifamiglia, dovettero lottare contro la scarsa considerazione sociale, in quanto donne, e contro i diffusi pregiudizi delle comunità ospitanti, in quanto appartenenti alla categoria dei profughi40. Lontane dal proprio ambiente, isolate, prive di appoggi, molte caddero in uno stato di estrema indigenza, caso particolarmente frequente tra i gruppi di profughi diretti nell’Italia meridionale. Più in generale l’insufficienza dei sussidi governativi e l’aumento del costo della vita determinarono un’intensa ricerca di occupazioni integrative modulate in relazione alla mobilità individuale: gli stabilimenti «ausiliari» o il lavoro a domicilio o nei laboratori per la confezione degli indumenti militari costituirono gli orizzonti occupazionali principali per le giovani e le madri. Le autorità statali fecero ben poco e per di più considerarono i profughi come potenzialmente eversivi nei confronti dell’ordine pubblico: privilegiarono così il controllo rispetto all’assistenza e in definitiva non fecero altro che accrescerne l’isolamento. Assistenza e occupazione, lungi dall’essere ancora un diritto richiesero - così come avvenne in altri casi dell’esperienza dei profughi - una inedita mobilitazione delle stesse donne che dovettero protestare oppure rivolgersi agli uffici e ai comitati41; istanze, lettere e testimonianze delle profughe, distanti dai toni vittimistici utilizzati dalla propaganda, rivelano invece orgoglio, combattività, un forte senso di solidarietà e desiderio di un trattamento dignitoso42.

La difficile condizione femminile nella profuganza trova un suo speculare riscontro nei territori veneti e friulani invasi dalle truppe austro-tedesche43; anche in questo caso pochi sono gli studi sull’occupazione, ancor meno quelli specificatamente diretti all’analisi della condizione femminile; tuttavia, le fonti non mancano: oltre alla documentazione ufficiale prodotta dopo la fine del conflitto, vi sono numerose fonti soggettive che i ricercatori locali hanno tenacemente riportato alla luce (dai diari alle testimonianze, dalle lettere ai libri storici parrocchiali). Si tratta di frammenti separati che devono essere ricomposti, periodizzati, per concorrere alla ricostruzione di un

40 Si veda D. Ceschin, Le condizioni delle donne profughe e dei bambini dopo Caporetto, in «DEP. Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica di studi sulla memoria femminile», 2004, n. 1 (http://venus.unive.it/rtsmf/); Spesso le profughe venivano descritte come «indolenti e pigre», dedite al vizio e alla prostituzione, aspetti che in realtà erano riflesso della forzata promiscuità e delle difficili condizioni materiali che dovevano affrontare. Tra i profughi friulani, il 60% circa era composto da donne tra i 15 e i 50 anni di età, il 37% da bambini minori di 15 anni. 41 Si veda F. Cecotti ( a cura di), “Un esilio che non ha pari” cit. 42 D. Ceschin, Le condizioni delle donne profughe cit. 43 Oltre alle già citate raccolte di testimonianze di Camillo Pavan, tra i numerosi diari segnalo, per la ricchezza delle informazioni relative al mondo femminile, A. Roja. Tutta una immensa desolazione. La Carnia da Caporetto alla Vittoria, Udine, Gaspari, 1998 e Id., Il Friuli da Caporetto alla Vittoria (1917-1918), “Senza alcun barlume d’alba”, Udine, Gaspari, 2000; L. Martinis (a cura di), Eroi dimenticati? La grande Guerra in Carnia attraverso i diari di Oltris di Ampezzo, Udine, Gaspari, 2004. Per un quadro generale sull’invasione, oltre ai lavori di Gustavo Corni, si veda E. Folisi (a cura di), Carnia invasa 1917-1918. Storia, documenti e fotografie dell’occupazione austro-tedesca della Carnia e del Friuli, Tavagnacco, Arti Grafiche friulane, 2003; Id., Udine: una città nella Grande Guerra: fotografie e documenti dell’invasione austro-tedesca, Udine, Gaspari, 1998.

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quadro generale volto a indagare il vissuto quotidiano, le relazioni con gli occupanti, il funzionamento di una nuova società, il rapporto con i parroci, lo spirito pubblico, le attese e le speranze, le false notizie, la mentalità, gli adattamenti della popolazione al regime di occupazione. In quel frangente la componente femminile fu sottoposta a pressioni fortissime, spesso affrontate in piena solitudine: violenze, saccheggi, requisizioni, violazioni di domicilio, ma anche la continua necessità di offrire protezione e sostegno affettivo ai propri familiari; un altro problema rilevante è dato dall’approvvigionamento alimentare: come è noto, soprattutto nelle comunità della zona montana e pedemontana, questa incombenza ricadde completamente sulle donne che dovettero affrontare lunghe spedizioni alla ricerca di farine e granaglie, sfidando i pericoli e i divieti dei gendarmi austriaci, ma anche cercando di p.22 attuare tutta una serie di strategie e di sotterfugi pur di garantire l’autosufficienza ai nuclei familiari. Emerge in questo quadro il problema della «fame» dei figli, percepita come una sorta di violenza, motivo di profonda angoscia e dolore perchè frequente causa di morte. La sfera dell’emotività femminile fu fortemente segnata dalla paura, dal senso di impotenza di fronte alle requisizioni e alle angherie dell’occupante, ma anche dalla necessità di relazionarsi con il «nemico», necessità che, come è stato notato, non può essere ridotta «unicamente al modulo della violenza» o della «separazione», perché nei racconti femminili i soldati austro-tedeschi assumono spesso un «volto umano» e nelle donne sembrano prevalere la «pietas», il sentimento di comprensione e di umanità44. Le donne, con la loro capacità di «umanizzare la vita», di fungere da elemento collante all’interno delle comunità attraverso attività di cura «allargate» giocarono un ruolo di primo piano nella società invasa; dietro il fatalismo e la rassegnazione, mediati dalla fede popolare, diari e memorie rivelano coraggio, costanza, volontà di resistenza che passa giocoforza attraverso una maggiore autonomia e spazi di relazione anche con gli stessi invasori, una «libertà» che procurò accuse di collaborazionismo o di smodata «lussuria», critiche che però non tenevano conto delle difficili condizioni di vita, delle responsabilità femminili nei confronti delle famiglie e dei ricatti sessuali dei soldati austro-tedeschi.

Un altro tema, difficile e delicato, per lungo tempo «dimenticato» è stato quello relativo alla violenza sessuale contro le donne nei territori occupati. Le poche ricerche fino ad oggi disponibili si sono incentrate sull’analisi della tipologia delle violenze, sulle conseguenze sociali e sugli stereotipi culturali e propagandistici45. Gli storici hanno attribuito il lungo «oscuramento» di questo tema alla tardiva scoperta delle violenze, non più spendibili sul piano propagandistico e ben presto messe ai margini per far posto al mito della vittoria e tacitare i sospetti di scarsa resistenza all’occupante da

44 Se si prescinde dalla gran numero rassicuranti di fotografie austro-tedesche di propaganda, l’analisi delle foto private suggeriscono tentativi di comprensione reciproca. Queste tematiche, ha scritto Gustavo Corni, sono importanti perchè «sottendono ai temi della nazionalizzazione, alla mentalità e alla società contadina, alla memoria dell’occupazione, alla sua rielaborazione e interpretazione»; si tratta dunque di analizzare complessivamente questo problema includendovi anche gli strascichi giudiziari, le polemiche postbelliche e l’analisi dei casi di infanticidio. Si veda G. Corni, La società bellunese nell’ultimo anno di guerra, in La memoria della grande guerra nelle Dolomiti, Udine, Gaspari, 2001, p. 96; 129. Analogamente, ancora poco si conosce delle requisizioni di manodopera per i lavori logistici nelle retrovie e degli internamenti ordinati dai comandi austro-tedeschi che coinvolsero gli uomini rimasti, gli adolescenti e centinaia di donne. Si veda M. Rech, 1918. La Novena-Trichiana Strasse. Il San Boldo, Rasai, Dbs, 1998; sul lavoro dei ragazzi e le le violenze degli occupanti, cfr. M. Ermacora, I minori al fronte della Grande Guerra cit. 45 Nell’ordine, L. Calò, Le donne friulane e la violenza di guerra durante l’occupazione austro-tedesca 1917-1918. Alcuni esempi per la Carnia, in E. Folisi (a cura di), Carnia invasa 1917-1918 cit., pp. 111-132; D. Ceschin, «L’estremo oltraggio»: la violenza alle donne in Friuli e in Veneto durante l’occupazione austro-germanica (1917-1918), in B. Bianchi-D. Ceschin (a cura di), Grande guerra e popolazione civile cit.; A. Gibelli, Guerra e violenza sessuale: il caso veneto e friulano, in La memoria della grande guerra nelle dolomiti, Udine, Gaspari, 2001, pp. 195-206.

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parte della popolazione veneto-friulana. L’esame delle fonti ufficiali ha inoltre rivelato una serie di forti codici morali familiari e comunitari volti a rimuovere questi dolorosi episodi e un diffuso senso di colpa e di vergogna nelle stesse vittime, colpite dall’«onta» della illegittimità della nascita (simbolo della colpevolezza e della debolezza femminile) e della paternità del nemico, elementi che si rivelarono una vera e propria «condanna morale e sociale» che confinò la memoria delle violenze ad una dimensione strettamente privata46.

Benché difficilmente quantificabile, il fenomeno delle violenze fu molto ampio anche perchè l’accresciuta visibilità della figura femminile e la difficile posizione familiare rendeva le donne particolarmente esposte alla violenza e vulnerabili ai ricatti47. Le donne furono colpite non tanto in ragione di un piano preordinato, utilizzando lo stupro come un’arma, bensì come la volontà di sottomettere e umiliare le popolazioni occupate, una prassi che fu laconicamente avallata dai comandi militari («krieg ist krieg») e che pertanto rimase impunita. Le violenze colpirono le donne di tutte le età, dalle giovanissime alle anziane, ed ebbero luogo principalmente nella fase iniziale dell’occupazione; gli stupri si accompagnarono a gesti di sadismo, spesso infatti gli stessi familiari furono costretti ad assistere alle violenze, fattore che amplificò la profondità dei traumi; non furono infrequenti i casi in cui le violenze fisiche, gli spaventi, i traumi psichici portarono le donne all’aborto, alla malattia e alla morte. Gli strascichi furono drammatici, soprattutto per le donne che rimasero incinte; infatti, come emerge dall’analisi condotta sulla documentazione dell’opera pia San Filippo Neri, fondata nel dicembre del 1918 p.23proprio per soccorrere i quasi 400 «figli del nemico» e ricomporre in nuclei familiari, le madri degli illegittimi andarono incontro a situazioni altamente conflittuali. Il trauma subito dalle donne e le dolorose ragioni di queste gravidanze non furono tenuti in alcun conto e soccombettero di fronte alle convenzioni sociali e al salvataggio dell’«onore» maschile e familiare; la necessità di lasciare in secondo piano le proprie sofferenze e ancor più il forzato abbandono dei bambini furono percepite dalle donne come ennesime violenze, tuttavia, furono numerosi i casi in cui le donne non si rassegnarono e, nonostante i meccanismi vessatori ed umilianti dell’adozione, si fecero riconsegnare i figli, superando così le forti discriminazioni sociali48. 6. Donne, propaganda e mobilitazione patriottica La mobilitazione innescata dal conflitto mondiale interessò anche le classi medie che sostenevano idealmente gli scopi del conflitto; in questo contesto le donne di estrazione

46 L. Calò, Le donne friulane e la violenza cit., p. 120 47 Secondo Daniele Ceschin, che ha analizzato le carte preparatorie della «Reale commissione di inchiesta sulla violazione al diritto delle genti commesse dal nemico», le denunce di stupro furono 165, delle quali ben 93 si conclusero con l’assassinio o la morte delle vittime in seguito alle percosse ricevute; altri 570 sono i casi di violenze di cui le notizie sono incomplete o incerte, mentre, ancor più numerose furono le mancate denunce; D. Ceschin, «L’estremo oltraggio»: la violenza alle donne cit.. 48 Dei 355 neonati affidati all’istituto tra il 1919 e il 1939 ben 205 morirono entro il 1922; oltre cento bambini furono riconsegnati alle madri e alle famiglie di origine. L. Calò, Le donne friulane e la violenza cit., p. 124, n. 67 e pp. 124-129. L’atteggiamento maschile, si è sottolineato, fu in qualche modo alimentato anche dalla propaganda italiana secondo la quale le donne nei territori occupati avrebbero dovuto difendere eroicamente il proprio onore ed attendere fedelmente i propri mariti. I «i figli della colpa» aumentarono i sentimenti di tradimento e di frustrazione; dal punto di vista simbolico il tradimento dell’onore maschile diventò il tradimento della nazione, tanto da giustificare l’aborto e un’eutanasia «di stato»; sulle istanze nazionaliste, razziste ed igieniste legate al corpo femminile, cfr. A. Gibelli, Guerra e violenza sessuale cit., p.204; A. Ventrone, La seduzione totalitaria cit., pp. 170-175. Sulla figura femminile «tradizionale» proposta dalla propaganda diretta ai soldati dopo Caporetto, cfr. M. Isnenghi, I giornali di trincea 1915-1918, Torino, Einaudi, 1977, pp. 107-143. L’analisi delle violenze hanno fatto emergere peraltro alcuni stereotipi maschili quali il deprezzamento delle donne sposate, il mito della verginità.

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borghese svolsero un ruolo di primo piano nelle attività assistenziali e di propaganda, uscendo per la prima volta dall’ambito familiare sentendosi protagoniste, valorizzate in compiti utili e riconosciuti. D’altro canto, il conflitto sancì la brusca fine del pacifismo femminista e la subordinazione della lotta per i diritti politici alle necessità della nazione durante il conflitto. Le analisi relative a queste tematiche hanno avuto nuovo impulso, nel tentativo di ricostruire le attività dei vari comitati, rileggere le ragioni della svolta interventista, ma anche per equilibrare una immagine eccessivamente «monolitica» e «pacifista» delle donne italiane delineata dagli studi sulle classi popolari49.

Risulta evidente che il pacifismo fu più un fatto di ceto che di genere, infatti furono ampi strati delle donne delle classi medie e i settori più politicizzati del femminismo borghese (socialiste, repubblicane, democratiche, oltre ai settori nazionalisti) ad essere in «prima linea» nella mobilitazione patriottica50. Questo dato è stato variamente interpretato: se la prima generazione di storiche aveva posto l’accento sulle divisioni interne all’associazionismo femminile interpretando il passaggio all’interventismo come una sorta di difesa per non apparire antinazionale oppure una sorta di «doppio gioco» in vista della concessione dei diritti politici, le nuove ricerche hanno invece rivalutato il potere attrattivo del «sentimento della patria» e il bisogno di legittimazione delle donne delle classi medie; l’attività sociale, filantropica e assistenziale, già esercitata precedentemente, con il conflitto assunse quindi una «valenza politica» e, come dimostrano i percorsi biografici delle dirigenti, l’attività propagandistica diventò una vera e propria militanza politica51. Altri studi hanno invece voluto sottolineare l’importanza della consapevolezza della associazioni femministe rispetto all’evento bellico: in questa prospettiva più che un «cedimento» al richiamo della propaganda nazionalista, l’abbandono delle posizioni neutraliste e pacifiste, avvenuto peraltro con una continua messa a punto delle motivazioni, è stato interpretato come una «strategia» attuata per conseguire l’obiettivo del riconoscimento dei diritti civili e sociali perchè solo attraverso l’attiva partecipazione alla «nazione in armi» le donne avrebbero potuto essere considerate cittadine a pieno titolo. Le interventiste considerarono quindi la guerra come una grande occasione per promuovere una classe dirigente femminile autonoma, con un suo proprio campo d’azione nella nuova società p.24che si stava plasmando durante il conflitto52.

49 M. Casalini, I socialisti e le donne cit., p. 5. 50 Si vedano a questo proposito A. Fava, Assistenza e propaganda nel regime di guerra (1915-1918), in M. Isnenghi (a cura di), Operai e contadini cit., pp. 174-212 e A. Staderini, Combattenti senza divisa. Roma nella Grande Guerra, il Mulino, Bologna, 1995. 51 M. C. Angeleri, Dall’emancipazionismo all’interventismo democratico: il primo movimento politico delle donne di fronte alla grande guerra, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 1996, n. 1; A. Molinari, Da donne a italiane: il patriottismo femminile nella grande Guerra, in S. Delfino-P. Castagneto (a cura di), Guerre culture tra età moderna e contemporanea, Genova, Brigati, 2001, pp. 93-94. Sull’importanza del patriottismo nel mondo femminile, cfr. M. De Giorgio, Le italiane dall’Unità a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1992. 52 E. Schiavon, Interventismo al femminile nella grande guerra. Assistenza e propaganda a Milano e in Italia, in «Italia contemporanea», 2004, n.234, pp. 89- 104: Id., L’interventismo femminista, in «Passato e presente», 2001, n. 54, pp. 59-72; S. Bartoloni, L’associazionismo femminile nella prima guerra mondiale e la mobilitazione per l’assistenza civile e la propaganda, in A. Gilgi Marchetti-N. Torcellan (a cura di), Donna Lombarda 1860-1945, Milano, Angeli, 1992, pp. 65-91. Proprio attraverso l’analisi della «nazionalizzazione» dei giovani è emerso il ruolo centrale della scuola (ma non l’unico dato il proliferare di iniziative private) nella mobilitazione propagandistica durante la guerra; cfr. A. Gibelli, Il popolo bambino. Infanzia e nazione dalla Grande Guerra a Salò, Torino, Einaudi, 2005; E. De Fort, La scuola elementare dall’Unità alla caduta del Fascismo, Bologna, il Mulino, 1996, pp. 311-323; B. Pisa, Crescere per la patria. I giovani esploratori e le giovani esploratrici di Carlo Colombo (1912-1927), Milano, Unicopli, 2000.

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Accanto ai nodi di carattere politico, le ricerche hanno messo in luce la grande capacità organizzativa, il dinamismo, la vastità e la varietà delle attività a favore delle famiglie dei richiamati e l’opera di mobilitazione patriottica; le donne di estrazione borghese (insegnanti, impiegate, studentesse) aderirono ai modelli loro proposti dalla propaganda e parteciparono alle attività patriottiche con entusiasmo e forte partecipazione emotiva. Esemplare in questo senso l’esperienza delle «madrine di guerra», e ancor di più l’opera di cura ed assistenza prestata da circa 20 mila tra crocerossine e volontarie negli ospedali militari. Benché esaltata dalla propaganda, l’attività delle infermiere fu osteggiata dai comandi militari perché la loro presenza veniva considerata un intralcio e un potenziale elemento di «disordine»; l’analisi delle memorie e degli epistolari ha mostrato come la libertà, l’autonomia e la responsabilità accrebbero l’autostima e la consapevolezza delle crocerossine, ma all’iniziale entusiasmo e soddisfazione per i compiti svolti subentrarono ben presto sentimenti di impotenza e di repulsione per le sofferenze dei soldati53. Le opere di assistenza prestate all’interno del paese, tuttavia, si rivelarono interventi episodici, non sufficienti a colmare l’assenza di interventi governativi ed ebbero l’effetto di accentuare la distanza tra femminismo borghese e ceti popolari non solo a causa delle modalità di gestione dei servizi erogati ma anche perché operaie e contadine erano molto distanti dai sentimenti patriottico-nazionali espressi dalle «signore» e dalle «dame di carità»; questa, distanza, è stato notato, si accentuò ancor di più nel corso dell’ultima fase della guerra quando le femministe si distinsero per un nazionalismo intransigente ed estremo che le portò a perdere autonomia e a farsi portavoce della lotta contro i «nemici» interni ed esterni54.

L’esplorazione della mobilitazione patriottica e delle modalità di comunicazione ha sollecitato, sin dagli anni Ottanta, l’indagine sulla figura femminile proposta dal discorso propagandistico, una immagine utilizzata sia per motivare i combattenti sia per rafforzare la tenuta del «fronte interno» ed invitare al lavoro, alla sobrietà e alla compressione dei consumi in quanto le donne erano vicine ai problemi annonari e alla gestione delle case; oltre alla cucina quotidiana, la guerra influenzò anche la moda che fu semplificata per risparmiare tessuti e per agevolare i movimenti delle donne che lavoravano55. L’analisi condotta sulle fonti iconografiche (stampe, manifesti, fotografie, cartoline) ha messo in luce la valorizzazione della presenza della figura femminile nelle sue molteplici accezioni simboliche, in particolare sottolineandone il binomio madre-patria e la capacità di sacrificio56. Se da una parte si tentò di dissimulare e di presentare come un gioco le nuove mansioni femminili, dall’altro si puntò sulla immagine materna e rassicurante della donna, sia in veste di custode del focolare domestico, sia in veste pubblica come crocerossina, infermiera, madrina, immagini che replicavano il ruolo di cura delle donne svolto in ambito familiare; in questo senso gli studi hanno evidenziato la sostanziale discrepanza tra immagine «tradizionale» proposta dalla propaganda e la dirompente novità dei nuovi ruoli pubblici femminili; tali immagini rispondevano ad una necessità di rassicurare gli uomini sulla stabilità delle gerarchie sessuali nel

53 S. Bartoloni, Italiane alla guerra. L’assistenza ai feriti 1915-1918, Venezia, Marsilio, 2003, pp. 155-216. Sulle «madrine di guerra», cfr. A. Molinari, La buona signora e i giovani soldati. Lettere ad una madrina di guerra (1915-1918), Torino, Scriptorium, 1998. 54 A. Molinari, Da donne a italiane cit., pp. 97-99; G. Procacci, Dalla rassegnazione alla rivolta cit., p. 248. 55 Si veda M. Dentoni, «L’arte di vivere bene mangiando poco». Signore e contadine di fronte ai problemi alimentari, in «Annali dell’istituto A. Cervi», 1991, n. 13 e E. Morini-M. Rosina (a cura di), Le donne la moda, la guerra. Emancipazione femminile e moda durante la prima guerra mondiale, Rovereto, Museo storico italiano della guerra di Rovereto, 2003. 56 A. Gibelli, Il popolo bambino cit.; per l’immagine della donna, gli stereotipi e i modelli proposti nelle cartoline, cfr. E. Sturani (a cura di), La donna del soldato. L’immagine della donna nella cartolina italiana, Rovereto, Museo storico italiano della guerra, 2005.

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momento in cui si stava verificando un indebolimento della figura maschile del soldato in trincea, sempre più fragile ed esposto alla violenza57.

All’esaltazione del nuovo ruolo femminile come parte indispensabile dello sforzo bellico nazionale, si contrappose la necessità di un maggiore controllo sociale e sessuale delle donne, soprattutto delle giovani operaie libere da vincoli maritali e familiari, la cui indipendenza e i p.25 nuovi costumi furono interpretati come segno di una pericolosa «degenerazione morale»; la campagna propagandistica contro la gioventù celava tuttavia il timore delle classi medie per l’avanzata del movimento operaio e la necessità di un nuovo ordine interno58. La figura della giovane lavoratrice, frivola, indipendente, accusata di una progressiva «mascolinizzazione» e di essere la causa dell’invio al fronte degli uomini, venne accostata a quella della prostituta e, con il crescere delle tensioni sociali, venne identificata come una figura antinazionale, poco disposta ai sacrifici, «disfattista». Il lavoro femminile extradomestico, d’altra parte, venne quindi sempre presentato e rappresentato come eccezionale, una sorta di deroga alle occupazioni tradizionali, come dimostra la ripresa di forti stereotipi antifemministi durante la fase della smobilitazione postbellica e l’oscuramento del ruolo femminile da parte della propaganda patriottica. 7. Considerazioni conclusive e prospettive di ricerca L’esperienza di guerra si rivelò uno snodo importante per la storia delle donne perchè comportò una temporanea ridefinizione dei ruoli, ma soprattutto offrì inedite possibilità di libertà e di autonomia personale, contribuendo, sul lungo periodo, a diminuire le distanze tra la sfera «maschile» e quella «femminile». Questo passaggio cruciale deve peraltro essere inserito in una situazione segnata da una forte precarietà, aspetto che accresce il valore e la portata di questa «trasformazione»; lo sforzo attuato per continuare ad essere «l’anello forte» all’interno delle proprie famiglie non fu lieve nè indolore, lo dimostrano infatti non solo gli alti tassi di mortalità, il crollo dei matrimoni e della natalità, ma anche l’incremento del numero delle vedove e la crescita del fenomeno delle separazioni59. Mogli e figlie inoltre dovettero assumersi inediti compiti di cura e di riabilitazione di mutilati ed ammalati, gestire indennità e pensioni; si devono infatti al conflitto l’affermazione di due nuove categorie «pubbliche», quelle degli «orfani» e quella delle «vedove di guerra»60.

In attesa dei risultati di ulteriori ricerche, è possibile sintetizzare l’esperienza femminile nei termini di contraddittorietà e di complessità, dal momento che, finita la guerra, gli spazi pubblici si restrinsero mentre nella dimensione privata la posizione delle donne sembra invece assumere una nuova importanza; a fronte di un ritorno di modelli patriarcali e di una nuova subordinazione, ci sono i segnali di una nuova consapevolezza, che si traduce nella limitazione della prole, in un lento miglioramento delle condizioni generali di vita, in una maggiore autonomia nella conduzione di attività economiche e commerciali, in processi di «emancipazione culturale», di sindacalizzazione e di partecipazione politica che riemergeranno nel corso del secondo conflitto mondiale. Il lavoro prestato durante il conflitto non ebbe che un limitato riconoscimento in quanto considerato per definizione «ausiliario» rispetto al ruolo

57 A. Molinari, Appunti per una storia delle donne cit., 77. 58 B. Bianchi, Crescere in tempo di guerra cit. 59 Per questi dati si rimanda a M. Palazzi, Donne sole cit., pp. 417-419; 424; per un quadro generale a livello europeo, cfr. J. Winter, La famiglia in Europa e le due guerra mondiali, in M. Barbagli-D. Kertzer (a cura di), Storia della famiglia in Europa. Il Novecento, Roma-Bari, Laterza; 2005, pp. 232-243. 60 Su queste tematiche la bibliografia è ridotta; cfr. A. Baù, “I figli miei che non son più miei”. Note sulla condizione delle vedove di guerra in Padova nel primo dopoguerra (1923-1927), in «Venetica», 2002, n. 5, pp. 79-104; per un quadro gnerale, F. Lagorio, Appunti per una storia sulle vedove di guerra italiane nei conflitti mondiali, in «Rivista di storia contemporanea», 1994-1995, n. 1-2.

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maschile, pertanto concorse ad una cittadinanza «secondaria», sancita dalla mancata concessione del voto e da una scarsa attenzione dal punto di vista delle misure sociali e previdenziali61. Tra guerra e dopoguerra maturò quindi l’esclusione delle donne dalla memoria «pubblica» della Grande Guerra, un processo che verrà proseguito ideologicamente dal regime fascista attraverso l’esasperazione delle differenze di genere62.p.26

Oltre alle lacune storiografiche che sono già state indicate nel corso della rassegna, in sede conclusiva è necessario accennare ad altre tematiche che attendono ulteriori approfondimenti. Le conoscenze sulla popolazione dipendono tuttora da studi risalenti agli anni Venti e Trenta, non si dispongono – in ambito urbano e rurale - di dati sulle conseguenze demografiche (natalità, morbilità e mortalità, matrimoni) del conflitto; ancora da esplorare, con qualche eccezione, i problemi sociali quali le malattie professionali, gli infortuni, alcolismo, sia per il periodo bellico ed ancor di più per l’immediato dopoguerra. Il lavoro femminile nelle campagne, la propaganda diretta alle donne e i riflessi del conflitto sulle famiglie del meridione d’Italia, così pure la mobilità interna e verso l’estero e i rapporti tra manodopera femminile ed enti di collocamento laici e cattolici, sono ancora poco noti. Il tema del «ritorno a casa», interpretato come desiderio di «normalità» e volontà di chiudere un periodo di sofferenze e di sacrifici deve essere ancora compiutamente indagato anche alla luce della successiva esperienza femminile durante il periodo fascista, individuando continuità e mutamenti e prestando attenzione all’accumulo di competenze acquisite durante il conflitto.

Il vissuto femminile durante l’occupazione austro-tedesca, la storia della «ricostruzione» materiale e sociale nelle «Terre Liberate» è ancora tutta da scrivere. Analogamente, sono necessari ulteriori approfondimenti sull’esperienza del profugato, degli internamenti e sul controllo della militanza politica femminile operata dal governo austriaco ed italiano, temi che rimandano a dimensioni più generali della violenza bellica, della repressione interna, del nazionalismo e delle doppie appartenenze. Come insegnano le guerre contemporanee le difficoltà non cessano con la fine delle ostilità: è necessario ampliare l’indagine ricostruendo la storia delle donne e delle famiglie alle prese con traumi e lutti familiari, le difficoltà della vedovanza, la ricerca di nuove energie per ricominciare; mancano a questo proposito studi relativi alle politiche statali nei confronti degli orfani e delle vedove, alla loro esperienza e al discorso pubblico relativo a queste categorie. A livello generale è poi necessario adottare un approccio comparativo e intervalli cronologici di studio più estesi per meglio apprezzare continuità e mutamenti e dare una corretta collocazione al periodo della Grande Guerra nel più ampio quadro della storia delle donne.

61 B. Curli, Italiane al lavoro cit., p.14. 62 Non a caso, gli unici riconoscimenti conferiti dallo stato alle donne sono quelli, concessi nel 1993 alle «portatrici carniche», alle donne che secondo la perpetuazione di questo tipo di percezione, si avvicinavano di più allo status di «combattenti». Giova ricordare a questo proposito che la caserma Plozner Mentil di Paluzza (Ud) è l’unica ad essere intitolata ad una donna, un’eroina, per l’appunto che perse la vita nel 1916 sul fronte carnico, uccisa da un cecchino austriaco mentre trasportava materiali per le truppe ad alta quota. Un mito che sarà alimentato subito anche dal fascismo stesso e riconosciuto ed «ufficializzato» con ritardo dallo stato italiano. M. Ermacora, I minori al fronte cit., p. 43.