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Leo Frobenius PAIDEUMA Lineamenti di una dottrina della civiltà e dell'anima EUGEN DIEDERICHS VERLAG “Se anche il mondo progredisce nel suo insieme, la gioventù deve sempre ricominciare daccapo, sì che le epoche della civiltà mondiale si succedono come in un individuo” GOETHE

LEO FROBENIUS

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Leo Frobenius

PAIDEUMA Lineamenti di una dottrina della civiltà e dell'anima

EUGEN DIEDERICHS VERLAG

“Se anche il mondo progredisce nel suo insieme,la gioventù deve sempre ricominciare daccapo,sì che le epoche della civiltà mondiale si succedonocome in un individuo” GOETHE

INDICE

1. Considerazione personale Ricerca meccanicistica e ricerca intuitiva

I. Studi paideumatici2. Gli altri e noi3. Far poesia4. Sperimentare5. Sapere

II. Il paideuma dell'individuo6. Costruzione progressiva paideumatica7. Il paideuma nel mondo demonico dell’infanzia.8. Il paideuma come “ideale” della fanciullezza.9. Il paideuma come “realtà” nell'età adulta10. Estremi paideumatici11. Sviluppo del paideuma

III Il paideuma dei popoli 12. Spazio dell'anima e spazio della vita (Oriente e Occidente) 13. Lo spazio della vita (L'ambiente) 14. Forme e periodi

Conclusione15. Il lavoro paideumatico

I. Qualcosa di personale Ricerca meccanicistica e ricerca intuitiva

Nel 1894 mi toccò di occupami del lavoro di Oskar Baumann, Attraverso la terra dei Masai verso la sorgente del Nilo. Il mio breve saggio nacque da un sentimento di grande rispetto per questo acuto osservatore e attivo ricercatore sul campo, che dava forma alle mie vive passioni, anche se non potei trattenermi dall'esprimere un’opinione divergente riguardo al problema della sorgente del Nilo (i lavori successivi di Richard Kant mi hanno dato ragione). Come un lampo a ciel sereno si abbatté su di me una dura e feroce opposizione da parte di quell'uomo di valore, che mi mostrava tutto il rancore della vanità ferita. Mi sentii colpito nella parte più profonda della mia anima e della mia impostazione scientifica. Mi prese un forte scoramento. Tuttavia ero così preso dal grave compito di chi fa ricerca sul campo, e convinto della necessità di una visione di ampio respiro, che mi risultava assolutamente incomprensibile la pignoleria, soprattutto allorché, molti anni dopo, venni a sapere che Oskar Baumann dovette soccombere a una sfibrante malattia che lo condusse a una morte rapida. Dal canto mio mi preparavo da anni all'attività di ricerca in Africa; avevo studiato le fonti più importanti, ed amavo tanto i miei eroi della ricerca che fremevo nel pensiero di poterli imitare. In tal modo venivo a contatto con i primi segni della debolezza umana. Allora avevo un rapporto di amicizia con i severi professori di Dresda, Schneider, Sophus Ruge e Lindemann. Questi attraverso bonari consigli tentarono di eliminare i miei profondi dubbi, e con esempi concreti tratti dalla storia della scienza e dalle vicende personali degli studiosi, mi fecero comprendere anche le scorie che giacciono sotto ogni grande fuoco umano. Essi mi ricondussero dalla supervalutazione delle figure illustri della scienza alle problematiche e ai dati da elaborare, comprendere, sperimentare.

Con tutta la passione d'uno spirito giovane mi dedicai immersi nel lavoro, ma in breve la mia tranquillità fu distrutta, scossa ogni certezza, e si manifestò in me una profonda ansia per conseguire una comprensione globale. Filtrai tutte le ricerche sino allora compiute nell’ambito della letteratura scientifica e museale; nutrivo la ferma volontà di separare il dato oggettivo, quale unico elemento decisivo, da quel che era elaborazione personale. Percepivo sempre più la necessità di un ordine del tutto nuovo in base al quale organizzare l'enorme materia esistente. Nel mio spirito si celava l’idea di elaborare una grande costruzione relativa all’essenza del divenire umano, in cui tutte le fonti fossero perfettamente ordinate, legate da un senso interno per costituire una struttura solida, come una casa di pietra protetta dalla debolezza umana. Da un falegname ordinai dei cassetti, da un rilegatore delle scatole di cartone e dei contenitori in cui poter collocare il materiale secondo un preciso ordine. In questo modo lavoravo giorno e notte nell’esigenza di obbiettività, elaborando il materiale e mettendolo in ordine. Per la prima volta provai una sensazione di meraviglia derivante dal contatto diretto con una materia organica. In quei giorni per la prima volta non ero “io stesso” l’oggetto della mia esperienza vitale, ma sperimentavo l’esistenza nella sua viva immediatezza, e questa esperienza mi prese in maniera totale. L’oggetto della mia esperienza era la civiltà quale essenza costitutiva dell'essere umano. Non ho compiuta coscienza delle singole fasi del mio lavoro, ma quando il 9 novembre del 1894 gettai uno sguardo di verifica sull'attività e i risultati degli ultimi anni, mi resi conto di aver realizzato il progetto di un vasto archivio per la Völkerkunde (etnologia) e la Kulturkunde (studio della civiltà). Con ciò erano state ritrovate le strutture soggiacenti, ed era stato dimostrato che la civiltà umana nella sua essenza è un organismo. Esattamente nella primavera del 1895 fu abbozzato il primo progetto di una teoria per cui la civiltà è un organismo: a partire da tale principio ebbe inizio il lavoro che da allora ha riempito la mia vita. Ciò avvenne 25 anni fa, e per questo lo scritto attuale ha il carattere di un lavoro commemorativo con cui l'autore vuole

indicare i cambiamenti che si sono prodotti nella sua visione delle cose, in se stesso e nel mondo circostante, nel lungo corso di questi anni.

Una scossa profonda subì nell’autunno del 1894 l’ “Archvio Africa” nel richiamare in vita una teoria appena abbozzata sul carattere organico delle civiltà. Trattai questo argomento nel lavoro Stilgerechte Phantasie (1896) e nei lavori del periodo 1897/99, pubblicati in Pettermanns Mitteilungen::Ursprung der afrikanischen Kulturen (1898) e Naturwissenschaftlichen Kulturlehre (1899). A partire da allora, la teoria, che assunse la denominazione di Kulturkreislehre (dottrina delle sfere culturali), parte dal principio che le civiltà, rispetto agli esseri umani che le rappresentano, sono come organismi indipendenti, sì che ciascuna forma culturale deve essere considerata come un essere vivente con una sua fanciullezza, una maturità e una vecchiaia. Le forme culturali sono sottoposte pertanto a un processo di crescita, le cui fasi corrispondono a quelle dell'essere umano. Sono grossolane e impacciate nella fase giovanile, forti e consapevoli nella maturità, fanciullesche nella fase senile. Ma il dato principale indica che non è la volontà umana a guidare le civiltà, ma è la civiltà che si impone agli individui. (Oggi invece direi che la civiltà vive “per mezzo” degli uomini). La civiltà, per quel che concerne la forma, è legata a fasi determinate, a sfere culturali; le forme mutano e si rinnovano attraverso trapianti, e da tali unioni sorgono nuove forme. La mia concezione del 1898 individua una morfologia, una anatomia e una fisiologia delle forme culturali. È una concezione chiaramente mutuata dalle scienze naturali. Considerai la civiltà come il “terzo ambito” fra la natura organica e la inorganica, tuttavia nella sua impostazione questa concezione traeva le sue verifiche dalle scienze naturali, perché non era in grado di determinare il carattere specifico della civiltà. Da allora è stato fatto un passo in avanti. Si era appena avuta nascita della Kulturkunde (o Völkerkunde), quale ultima concezione della scienza moderna. Essa emergeva in un periodo meccanicistico

sovraccarico di lavori costruiti su basi poco scientifiche. Con grande acume ha notato Heinrich Shurtz: «Si potrebbe ben dubitare del valore dei lavori realizzati in questo campo. Dappertutto una capricciosa soggettività si mescola con una corretta elaborazione. Tutto oscilla e si confonde in mille colori. Tutte le regole sono contraddette da eccezioni, sino alla folgorante consapevolezza finale di non poter raggiungere neppure la più piccola verità. Il solo frutto di questo lavoro instancabile, con relativa amara sensazione, sembra indicare che sarebbe stato molto meglio compiere un lavoro concreto più semplice, piuttosto che dover combattere con un problematica che si dilegua tra le mani». La particolarità di questa materia ha prodotto lo scontro fra due concezioni, quella di Bastian, secondo la quale tutti i processi culturali si fondano su funzioni regolari dello spirito umano, e quella di Ratzel, per cui si fondano su specificità geografiche e sui limiti della coscienza umana. In questo contesto la dottrina delle sfere culturali del 1897 rappresentò certamente un progresso, per il quale la cultura si poneva come soggetto di contro all'uomo quale oggetto, e il limite del suo sviluppo spaziale rappresentava un mezzo per la conoscenza delle specificità morfologiche, mentre le fasi d’età costituivano il mezzo per la comprensione delle forme di vita fisiognomiche. Tuttavia la dottrina del 1897/98 incontrò forti opposizioni. Da una parte a causa di una sorta di fraintendimento tecnico, o meglio a causa di un impedimento psicologico, dall'altra per una concezione ingenuamente materialistica tipica dei tempi. Entrambi gli errori derivavano da una posizione radicale e intransigente dei loro sostenitori. L'impedimento psicologico consisteva nei dissapori sorti nel 1894 e ravvivati da un nuovo gusto per la polemica. Si trattava di qualcosa di riprovevole, visto che proveniva proprio dall’ambito degli studiosi. Per lo sdegno nei confronti degli errori umani, che del resto caratterizzano l'intera storia della scienza, e per l'amarezza derivante dal fatto che i miei colleghi non censurassero le carenze della preparazione scintifica, mi feci trascinare verso giudizi

sprezzanti, che non si adattavano alla mia gioventù, sì che la malevolenza dei recensori non si rivolse solo contro di me, ma, come è naturale, anche contro la mia teoria. In quel tempo ero sepolto sotto la polvere di una conoscenza libresca, così che non ero in grado di comprendere la miseria sulla quale poggiava la polemica. Ma quando compresi che i giudizi assolutamente negativi finivano col gettare via il bambino assieme all'acqua sporca, fui spinto a muovermi par la mia ricerca verso terre lontane, per fruire del sacro apporto dell'esperienza e per comprovare per mezzo di elementi vivi l'esattezza della mia teoria. Pochi giorni prima della partenza del primo viaggio della Spedizione di Ricerca Africana (D.I.A.F.E. = Deutsche Inner-Afrikanische Forschungs-Expedition), gruppo che a quel tempo rifondai, constatai che la mia teoria trovava i principali riconoscimenti, che i risultati delle mie ricerche avevano basi salde. (Seduta della Società Antropologica Berlinese del 5 dicembre 1904). Ma quando le mie argomentazioni risuonarono in altre bocche, ebbi consapevolezza di una seconda debolezza di quella teoria del 1897/99, anche se parziale. Nel corso degli anni successivi sono stato in contatto con altre popolazioni e con uomini di altre culture, ed ho imparato, nella crescita lenta dell'archivio del Forschungsinstitut, a sovrapporre l'esperienza viva alla nozione; ho avuto l'opportunità di comprovare con molti esempi le mie osservazioni per mezzo di dati vivi; ho imparato a conoscere la civiltà in tutte le sue magnifiche, ma a volte anche misere, manifestazioni, tuttavia collocata sempre al di sopra degli esseri umani quali piccoli vettori della sua grandiosa manifestazione. Attualmente credo tra l’altro di riconoscere la seconda debolezza di quella concezione: consisteva in una visione meccanicistica del mondo; la vita organica appartiene invece a un terzo ambito1, sì che la vita della civiltà è per sua natura comprensibile soltanto per mezzo della viva intuizione.

1 Per evitare ogni forma di fraintendimento, consideriamo opportuno tradurre il termine “Reich”, con “regno” o meglio ancora con “ambito”.

Meccanicistica e intuitiva individuano due tipi di concezione. La meccanicistica cerca di comprendere per mezzo di leggi i singoli fatti e le manifestazioni della vita e della realtà e dell'anima. La sua forza consiste nell'evidenza delle “leggi”, la sua debolezza nel fatto che nella natura delle cose non si ha una contrapposizione fra regolare e irregolare, normale e anormale, regola ed eccezione. L'irregolare, l'anormale e l'eccezione appartengono a una seconda classe, per cui questo modo di pensare non ha la capacità di valutare in maniera comprensiva e omogenea. Il principio, così come una rotaia, conduce in maniera più rapida a una meta prefissata, ma rende impossibile il libero movimento e uno sguardo d'insieme sull'ampia superficie. Al contrario la concezione intuitiva deriva dalla rappresentazione di un progetto, e con ciò le è sufficiente individuare i fenomeni significativi e determinare la loro collocazione nella struttura generale dell'esistente (Dasein). Per questo motivo l'intuizione può produrre un’illimitata comprensione per ogni cambiamento nel reale. La concezione meccanicistica del mondo vede dinanzi a sé un sistema di fatti collegati tra loro in base ai principi di causa – effetto, elemento e relazione, e da ciò deduce presumibili collegamenti di carattere generale. Essa può comprendere la vita solo “biologicamente” o “psicologicamente”, vale a dire in base a processi di sintesi e di associazione, affetti, stimoli, gangli, sostanze nervose, e su questa base elabora rigide formule. Il ricercatore intuitivo al contrario cerca di vivere l'intero ambito della vita privo di regole, di condividere le tensioni dell'anima; egli separa il significativo dall'insignificante, la sensazione desunta da un’espressione dalle cause materiali. Si immerge nella logica interna d'ogni divenire, crescere, maturare, che non si può cogliere con la sperimentazione e il sistema, ma trova al posto di leggi rigide, le espressioni del vivo essere e del divenire. Sotto il termine meccanicistico colloco dunque quel che si impone attualmente, mentre sotto il concetto di intuizione la concezione opposta, qualcosa che oggi è divenuto raro. Meccanicismo e intuizione non sono qui intesi in senso filosofico.

Entrambi i termini indicano qualcosa di onnicomprensivo, di decisivo, quasi di costrittivo, che nella sua essenzialità domina il tutto. Tuttavia ribadisco in maniera ben chiara che la concezione intuitiva del mondo non deve essere considerata come qualcosa di nuovo o di “giusto”. Certamente non è nuova. Anche la concezione di Goethe era in certo modo intuitiva, ma la sua affermazione, sotto l'influsso di una propensione alla specializzazione che andava affermandosi nel XIX secolo, fu sempre più limitata; aveva pertanto ragione nell’affermare che i sui lavoro non sarebbe mai potuti divenire popolari, anche se tutto il mondo cita il Faust. Per quel che concerne poi il principio di “giusto” vediamo che tutte le culture oscillavano, nella loro concezione del mondo, tra i due poli, il meccanicistico e l'intuitivo. Nel momento in cui elaboro la teoria del prossimo inizio di una nuova fase della civiltà (si veda il capitolo 14), in base a una dimostrazione non sistematica, ma comprensibile solo in maniera intuitiva, devo richiamare i sentimenti di una ridestata capacità intuitiva in base alla quale acquistano credito i rappresentanti di questa ideologia. È opportuno evidenziare inoltre che non si può contrapporre una concezione totalmente meccanicistica ad una assolutamente intuitiva. Si tratta piuttosto, come sostenni sin dall’inizio, di una tendenza che vede il prevalere dell'una o dell'altra concezione, ed in ogni caso si deve chiarire quando prevale l’elemento fattuale, quando quello demonico nell’essere umano. L'anno 1904 mi condusse verso altri popoli nell'ambito delle civiltà africane. Con ciò iniziò una vita che fu così ricca, sovrabbondante di esperienze ed emozioni, per le quali non sono in grado oggi di esprimere appieno la mia gratitudine. Erano tempi di un'esistenza libera, priva di costrizioni, in cui mi sentivo responsabile conduttore della mia vita e di quella delle persone che mi erano affidate, raccoglievo materiali, conoscenze ed esperienze scientifiche in quantità enorme, che elaboravo nelle fasi di studio in casa e presso l’archivio che andava progressivamente arricchendo.

Il mio raccolto era enormemente ricco, e non sarò in grado di condividerlo appieno col mondo. Visto che diveniva più difficile ordinare il materiale raccolto e i vari manoscritti, si resero sempre più necessarie collaborazioni esterne. Dal piccolo gruppo di studiosi del 1894 sorse un istituto di ricerca, che partecipò tanto alla ricerca interna che a quella sul campo. Si confrontavano i risultati prodotti dalla ricerca sul campo con la produzione scientifica esistente, e su questa base si esaminava il materiale museale verificavano i lavori che si andavano realizzando col materiale museale raccolto. Non si può tralasciare che questo processo esercitò una certa influenza anche sulle mie concezioni del 1895. In ogni modo, attraverso alcuni scritti lungimiranti, quali Geografische Kulturkunde (Scienza geografica della civiltà) e Zeitalter des Sonnengottes (Età del dio del sole), entrambi del 1904, mi ero occupato sia dell'Africa che della preistoria europea. Mentre lo studio delle civiltà del continente rosso, nel continuo mutare dei luoghi di ricerca, lasciava il tipico e l'organico più sullo sfondo rispetto allo specialistico e al particolare, tuttavia l'accresciuta familiarità con quella terra produceva una vista più acuta rispetto a quella con cui potevo osservare le espressioni culturali dell'Europa moderna, delle quali, avendole osservate da lontano, mi mancava de lungo tempo un’esperienza diretta. Fatto ancor più significativo è che la distanza fra uomo e civiltà si accresceva ulteriormente. Ero all'oscuro di molte forme culturali di gran rilievo, avevo visto poche razze e avevo osservato in Europa pochi e sparsi resti in maniera generica, mentre in Africa avevo conosciuto ampie e libere concezioni, una religiosità profonda e intima, una grande e complessa arte poetica di popolazioni ubicate nelle zone più recondite. Ma proprio accanto a quel che è di maggior valore, sono venuto a contatto anche con misere meschinità, invidia, e tutto quel che un tempo contenne il vaso di Pandora. Esseri umani di elevato valore esistono qui come là. La domanda sulla bontà degli esseri umani parte da falsi presupposti, perché gli uomini qui come là sono uguali, determinati da un piccolo numero di caratteristiche ereditate dalla civiltà. Ed oggi la civiltà deve essere considerata

ancor più che nel 1895, un organismo autonomo. La civiltà, oggi ancor più che allora, nella sua grande organicità mi appare indipendente dagli esseri umani. Mi rafforzai in questa convinzione, non solo per gli studi da me condotti, ma anche per ricerche compiute da altri studiosi, che nel frattempo si avvicinavano alla dottrina da me elaborata nel 1895. Come Oswald Spengler, che nel suo primo volume dello Untergang des Abendlandes (Il tramonto dell'Occidente), giunse a un risultato basilarmente uguale, percorrendo lo stesso cammino. Questo lavoro si colloca nell'ambito dello studio della Kulturkunde (studio della civiltà) o della Völkerkunde (studio dei popoli) nel senso ampio del termine. Spengler ha analizzato solo la parte ufficiale della storia in base al significato e all'essenza dell'organismo culturale, rivolgendosi alle forme culturali appartenenti a quel periodo di formazione e che nel capitolo 14 indico come monumentale. L'opera di Spengler è eccelsa, ma a causa di questo limite, è un torso senza gambe né capo. Comunque la mia dottrina ebbe il merito di favorire almeno una collaborazione di rilievo, e di dare credito maggiore a una concezione che precede la sua. Anch'egli dichiara che «L'essenza della vita delle civiltà è di somma importanza» E ancora che: «Le civiltà sono organismi». Involontariamente giungeva ai medesimi principi contenuti nella mia teoria del 1895. La gran differenza consiste però nel fatto che Spengler tratta la materia in maniera intuitiva, proseguendo sul cammino da me tracciato con la conferenza “Oriente e Occidente”, tenuta nel 1916 presso la Società Asiatica di Berlino. Personalmente sono convinto che egli mutuò elementi tratti dalla terminologia di questo mio scritto. Comunque, quel che ho da dire su Spengler si trova nel capitolo 14. Per quel che concerne in particolare questo mio lavoro, occorre evidenziare anzitutto che si tratta di un tentativo dal carattere approssimativo. È pressoché impossibile del resto pubblicare, pur se in forma sintetica, in tempi brevi tutto il materiale che è alla base di questo mio lavoro. Negli archivi vi è un gran numero di scritti dal carattere specifico, che avrebbero bisogno soltanto di una rilettura

per essere pubblicati. Verranno infatti editi nella collana “Kleinafrikanische Grabbau”, ma si tratta di lavori che servono soprattutto agli specialisti. Proprio per questo oggi presentiamo, a chi ha interesse per l'aspetto globale, come guida alle suddette monografie che verranno pubblicate periodicamente, l'elemento fondante della gigantesca struttura della civiltà. Pertanto la seguente analisi non deve essere assolutamente considerata una descrizione di civiltà specifiche, ma piuttosto un tentativo di far intuire al lettore l'elemento animico, ovvero quel che definisco con il termine che è alla base di questo mio lavoro, il “paideuma” dell'essere della civiltà. Sì che tutto quel che segue non si traduce in un “è così”, ma in un “così è comprensibile”. Questo lavoro non ha niente a che fare con la moderna psicologia o con la fisiologia, procede per un cammino proprio, che deve essere liberato degli elementi più rozzi. È un lavoro che si tiene lontano dalla “scienza”, e questo suo isolamento lo si riscontra anche nel linguaggio che, considerando il suo oggetto, non può essere semplice, dovendosi servire di una terminologia specifica. Anzitutto sono stato costretto ad utilizzare il termine “civiltà” secondo un significato specifico, ed a sostituirlo in questo contesto con il termine paideuma. L’analisi parte dal dato vissuto (erlebten) al fine di arrivare arrivare alla comprensione (Verständnis). Dal momento che il fine è la globalità, in questo contesto si offrono solo pochi elementi particolari tratti dalla pienezza di una vita ricca. Si vedano in proposito i capitoli dal 3. al 5. e il capitolo 14.

I. Studi paideumatici 2. Gli altri e noi

Se consideriamo con attenzione la nuova produzione etnografica che si è occupata della descrizione di singoli popoli primitivi, risulta evidente che in tali ricerche è presente una certa energia, pur se invisibile. Ancor più appare necessario prestare una grande attenzione a una tecnica d'osservazione sempre più raffinata. Oggi gli studiosi han bisogno di pochi mesi di ricerca sul campo per descrivere una popolazione in maniera più precisa che in tempi passati, quando occorreva uno studio di decenni. Questo nuovo modo di preparare monografie risulta funzionale allo scopo di conseguire un quadro completo con tutti i particolari della vita di un popolo: produzione artigianale, vita sociale, concezioni religiose e costumi. Un simile ampio lavoro, sovente contenuto in vari volumi, mostra persino i tratti più insignificanti, con lo scopo di presentare un panorama esaustivo della vita di un popolo nei suoi singoli elementi, sì da apparire prossimo alla realtà fotografica. Come esempio di tale attitudine indico i lavori più recenti relativi alla zona oceanica. In generale il nostro tempo dovrebbe essere assolutamente soddisfatto di questo modo di operare, visto che in questi tempi frenetici in cui la forma culturale europea assorbe e distrugge tutte le forme culturali straniere, soprattutto le “primitive” o popolari, per mezzo di monografie etnografiche viene raccolto un materiale che si può considerare un vero tesoro di documenti relativi alla storia delle civiltà. In ogni caso mi chiedo se e fino a che punto questa massa di nozioni risponderà adeguatamente alle esigenze di un tempo futuro. Bisogna soprattutto capire che dai tempi antichi, in cui non si disponeva di simili conoscenze specifiche dei fatti culturali, abbiamo ricevuto diverse monografie, che anche se brevi, goffe e imprecise, che tuttavia esprimono il paideuma dei popoli in maniera più viva e profonda rispetto alle nuove, minuziose monografie, interessate ai singoli particolari, che sovente si segnalano per il loro carattere puramente tecnico, ma che non offrono l'immagine complessiva del popolo e della sua cultura, in quanto ci mostrano un

insieme privo di vita, e al posto dell'anima rappresentano l'aspetto esteriore e superficiale. All'attento osservatore deve risultare ancora più singolare il fatto che i popoli latini utilizzano per questo lavoro una diversa tecnica rispetto ai germanici. I primi, in particolare i Francesi, considerano fondamentale la problematica sociale, mentre i Tedeschi hanno la tendenza all'elaborazione storico-descrittiva. Questa differenza deve destare attenzione, in quanto corrisponde alla maniera di operare e di pensare di un secolo materialista. Ciò dovrebbe far ancor più riflettere sul fatto che, avvicinandoci alla fine di quest'epoca materialista, mentre inizia a farsi strada, con l'enfatizzazione dell'elemento intuitivo, una nuova concezione nella quale si accentua l’aspetto intuitivo, attraverso la scienza della civiltà (Kulturkunde), l'etnologia, l'antropologia, o come la si desidera nominare, in futuro, con l’ausilio delle conoscenze conseguite nel periodo delle scienze naturali, si ricomincerà da lì, dove aveva terminato Kant centocinquant'anni fa con la sua concezione dell'antropologia. Questa ora è la mia domanda: come si collocherà il futuro rispetto a questa produzione etnografica? Che cosa gli mancherà? Qual aspetto della vita culturale sarà per lui essenziale? Quasi ogni nuova monografia completa parte dalla descrizione della cultura materiale e termina con quella della cultura spirituale. Mostra e descrive abiti, capanne e armi, assieme a forme statali, norme giuridiche, opinioni, miti e leggende. Ascoltiamo quindi formule magiche e superstizioni, cerimonie e atti di culto. Vediamo i modi di operare, i modi caratteristici di disegnare. Inoltre ci viene mostrato se e quando ci sono mistificazioni sacerdotali, ma con ciò si esaurisce generalmente il lavoro. Queste eccelse descrizioni offrono quindi un quadro della vita di altre culture come appare a noi. Ma il fatto che il quadro francese si differenzi dal tedesco fa intendere che entrambi sono basilarmente soggettivi, e che sono quindi deformati dalla posizione personale. Ancora più incerto è il fatto che si cerchi in tali monografie la propria essenza, l'anima delle altre culture. In tal caso non vi è alcun

dubbio, che anche dietro l’utilizzazione dell’oggetto più comune, vige un processo animico. Il fatto che il modo di vestirsi, anche al di là del “senso di pudore”, sia espressione di un sentimento spirituale, indica che gli attuali ricercatori hanno messo da parte l'usuale “senso di pudore” o come oggi si dice “le espressioni del senso di pudore”. Il significato altamente simbolico della forma della capanna e della casa diviene chiaro appena si cerca la relazione delle più semplici forme edificatorie con le altre forme espressione di ascesa e di decadenza culturale. Chi osserva il nostro tempo da un punto di vista non politico, deve riconoscere che lo Stato è anche un simbolo che sovente si sottrae all'influsso della nostra volontà utilitaristica. Questi sono solo pochi esempi, tuttavia mostrano che la formazione della civiltà è un fatto animico – cosa che le monografie di cui disponiamo non sono in grado di cogliere – che si manifesta in maniera più chiara nelle forme della vita materiale che non nella consapevole vita dello spirito. Vale a dire che la nostra sensibilità nei confronti di una civiltà straniera è più libera e più sottile che non nei confronti della nostra, della quale noi stessi siamo espressione. Ciò vale soprattutto per i primitivi. Paso a passo il ricercatore non incontra solo forme espressive della vita interiore a lui estranee, ma anche una “più alta” a noi estranea, propensione al gioco. Ci si dà conto immediatamente come in quelle culture risulti di grande importanza per tutti quel che per noi non solo attraverso l'abitudine, ma anche attraverso un sapere di massa è ignorato o rimosso. Tutte quelle domande che il nostro popolo, ovvero gli Occidentali vanno formulando intorno a se stessi, e che vengono affrontate in Europa con difficoltà e imperizia, ricevono risposta dal nostro linguaggio e dalla nostra produzione materiale; in risposta a tutte quelle domande sono state scritte intere biblioteche e giornalmente migliaia di relazioni. Bene, coloro che hanno capacità di osservare possono trovare risposte in ogni giorno, in ogni momento, da parte di quei rpimitivi. Come ho premesso, vorrei presentare tre esempi nella pagine seguenti. Si tratta di rispondere ad alcune domande: prime di tutto sul come un popolo compone poesia; quindi su quale superficie vive

la forza creativa di una civiltà; in terzo luogo, che cosa significa il sapere in una cultura. La prima domanda si identifica col problema della produttività paideumatica, che viene sviluppato nel capitolo 7. relativo al demonico. Quindi in secondo luogo si tratta della forma vitale del paideuma quale introduzione al capitolo 12., che concerne lo spazio dell'anima (Seelenraum). Il sapere di una civiltà, il “periodo creativo” conduce ai concetti espressi nel capitolo 14., concernenti il problema dei periodi culturali.

3. Poetare Il risultato fondamentale dei miei lavori del 1894 relativi alla mitologia (Zeitalter des Sonnengottes), è rappresentato dalla domanda: come sorgono le favole, i miti, le composizioni poetiche? Noi, arroganti figli del Nord meccanicistico, ci diamo una risposta alquanto semplicistica. Parliamo di “fantasia”, e in tal modo colmiamo di solito la carenza della nostra conoscenza con una parola, con un suono vuoto. Come lo dimostra quell'episodio che ho mostrato in Schwarze Seelen (p.5 ss.)2 e che qui ripropongo brevemente. Un vecchio missionario di grande esperienza che visitai nel suo campo di lavoro negava la presenza di narrazioni popolari di rilievo. Visto però che, dopo un buon periodo di permanenza in quella zona, ne declamai alcune che avevo lì raccolto, mi disse che si trattava di un imbroglio. «Questa gente le ha mentito», mi disse . Nel colloquio successivo l'anziano signore aggiunse che gli Europei, sia contadini che cittadini, non sarebbero stati in grado di “inventare” una tale ricchezza di narrazioni in così breve tempo. Successivamente però dovette ammettere con sforzo che effettivamente i miti dei nativi, corrispondendo alle loro stesse esperienze, erano estremamente poveri nella forma e nel significato, così che non si poteva provare l’esistenza di “fantasia”. Al fine non gli rimase altra possibilità che ammettere che alla base delle

2 L. Frobenius, Schwarze Seelen, Berlin-Charlottenburg, Vita, 1913.

narrazioni esistevano residui provenienti da tempi e da luoghi lontani. Le favole autentiche, le narrazioni mitologiche, le leggende, costituiscono beni, eredità, provenienti da un tempo antico. Andersen e Hauff sono poeti, e i loro “racconti”, in quanto creazioni personali, non hanno niente in comune con quelle affabulazioni popolari. Nessuno di noi sarà mai in grado di inventare leggende come quelle che sino a un centinaio di anni fa ogni nonna contadina poteva narrare ai bambini che ascoltavano attoniti. Diversamente i nostri bambini non vivono più il profondo spirito di quella tensione emotiva, dal momento che le favole oggi le leggono. Non se ne stanno più ad ascoltare accanto al filatoio la magia favolistica di un commosso anziano, e quando una cara zia o un buon zio raccontano loro delle favole, raccontano di qualcosa che è lontano dai loro interessi e che ha il carattere di una sorta di commemorazione. Le favole che oggi si raccontano si propongono come “distrazioni”, accanto ad un sapere del tutto diverso che proviene dai giornali e dalla moderna letteratura. Parlo ora di un'esperienza del tutto personale, dal momento che avevo nella mia fanciullezza ancora una nonna con la quale, accovacciato ai suoi piedi nell’ora del crepuscolo, condividevo quel che lei, la vecchietta, esprimeva con demonica forza magica. Aggiungo che si tratta di una conoscenza povera, in quanto io stesso non posso trasmettere niente di simile. Non abbiamo più nulla di quel che i fratelli Grimm ascoltarono dalle loro famose “vecchiette”. Noi le favole le leggiamo. Sì, non le sappiamo più “raccontare”. Si tratta di una esposizione “letteraria”. L'esposizione ha preso il posto della narrazione. Non esiste più un vivo mondo magico, un mondo che rappresentava un bene, appannaggio dei nostri antenati. E così sentiamo la mancanza della magia di quelle esperienze che sono svanite come ombre all'orizzonte. L'epoca di questa conoscenza viva è passata. A questo punto pongo la domanda: come deve essere stata quella favolosa ebbrezza creativa delle origini?

Ho vissuto in prima persona l’estinzione del mondo vivo delle favole, mentre l'epoca della nascita la si deve cercare in Africa. Intrapresi il mio primo viaggio con grandi speranze. Con cura avevo scelto una zona in cui diverse etnie vivevano in stretto contatto. Ma l'inizio fu del tutto deludente. Le rudi etnie praticanti il cannibalismo stanziate presso il Kuilu (ad ovest del Kasai) vivevano nel segno di una costante faida, villaggio contro villaggio. I loro interessi spirituali si riducevano a liti per i loro diritti e per motivi di stregoneria. Gli anziani erano pressoché assenti. Chi incominciava ad avere capelli grigi era condannato a uno scellerato cannibalismo: giudicato sulla base di una ordalia fondata sul veleno, veniva messo a morte e mangiato. Questo era chiaro: il Kuilu non era una zona di nuove espressioni spirituali e pertanto vi si trovano soltanto pochi frammenti di favole, che come ultime foglie rinsecchite avevano ancora una certa forma, per cui rivelavano la loro provenienza, ma avevano perduto ogni traccia della loro origine. A circa 300 chilometri ad Oriente (parte centrale del Kasai), nell'area di frontiera dei severi e taciturni Ba-Kuba e degli allegri nomadi Ba-Luba, si avevano condizioni più favorevoli. Anzitutto gli allegri Ba-Luba potevano raccontare nella maniera più esauriente storie ben conservate. Non chiedevano alcun compenso, lo facevano in maniera spontanea in quanto il raccontare fiabe rappresentava per loro un'attività piacevole, attività che vedeva l'intero gruppo riunito (Im Schatten des Kongostaates, Berlin, 1907: 97). In queste narrazioni si rivelava l’elemento essenziale della poesia nella sua forma originaria: di giorno si narravano preferibilmente favole di animali, mentre leggende d’altro genere erano narrate preferibilmente al tramonto o presso il focolare. I contenuti, per essere genuini, dovevano essere narrati in maniera fedele alla tradizione, e se un narratore collocava qualcosa di nuovo, ossia poneva parole errate, accadeva sovente che gli ascoltatori lo correggessero. La parola svolgeva quindi un ruolo importante. Ma ancor più importanti erano i gesti e il tono della voce. Per i buoni narratori la “messa in scena” era più importante della narrazione. L’importanza di questo duplice aspetto mi fu estremamente chiaro

quando un giorno ripetei una narrazione appena ascoltata e il narratore con forza dichiarò di non aver narrato niente di simile. Ciò era dovuto al fatto che il significato della messa in scena (gesti e tonalità della narrazione) era essenzialmente diverso rispetto alle semplici parole. Allora capii che una traduzione letterale non corrisponde al vero significato dell'originale. Le manca la parte viva, l'anima. Per questa ragione le trascrizioni di queste poesie nella lingua originale sono di gran valore linguistico, e sono significative anche per lo studio del contenuto, mentre le traduzioni hanno valore in relazione allo sviluppo storico per quel che si riferisce per materia al contenuto. Entrambe però sono prive del significato paideumatico come viene inteso in questo libro. Le traduzioni letterali si collocano in relazione con la stessa poesia in un senso che da tempo per gli Europei è andato perduto, in quanto costituiscono una sorta di annotazione rispetto alla vera poesia. Pertanto il vivo valore paideumatico di una poesia viene distrutto con la traduzione, sì che risulta necessario un nuovo modo di trasmettere una composizione poetica per la sua riproposizione e preservazione, che si può paragonare ad una rinascita animica. Questo procedimento ha a che fare con l'esperienza emozionale del narratore, e richiede all'ascoltatore a allo spettatore una capacità intuitiva, mentre riduce il significato dell'uso delle parole in sé (lingua) a una aspetto puramente funzionale. Uno dei missionari del circondario di Luluaburg si sforzava di insegnare ai bambini della zona il francese. Aveva delle favole di Esopo scritte in francese, tradotte in lingua ba-luba: leggeva ai bambini prima il testo in ba-luba, poi in francese, affinché lo imparassero a memoria. Alcune di queste favole erano molto simili a quelle ba-luba. Dal piacere che questi indigeni provavano nell’ascoltarle si poteva pensare che i nuovi contenuti si fossero mescolati all'antico materiale favolistico. Ma niente affatto! C’erano tante persone che conoscevano queste “Mukanda na M'Putu” (designazione degli scritti europei). Più volte ebbi l'opportunità di verificare il grande interesse che queste “mukanda” avevano destato. Quando domandai un giorno ad alcuni di questi tipi allegri se le

nostre narrazioni europee (“tuschimuni”) le trovassero belle come le loro, con grande sorpresa domandarono se anche noi in Europa avessimo tuschimuni. Nell'ascoltare favole di Esopo (le loro mukanda) ridevano: queste non erano tuschimuni, erano mukanda. Inoltre, interrogati sulla differenza rispetto alle loro narrazioni, offrivano la seguente risposta: «Negli tsischimuni sono presenti Gabuluku (piccola antilope che svolge il ruolo della nostra volpe), Ngulu (animale selvaggio), Kaschiama (leopardo). Quando si narrano tsuschimuni, a parlare sono Gabuluku, Ngulu e Kaschiama. Nei mukanda invece si dice solo quel che loro hanno fatto una volta, quel che era loro accaduto. Gli tuschimuni si riferiscono a quel che accade tutti i giorni, ieri, oggi, domani; i contenuti dei mukanda si riferiscono invece a ciò che è accaduto una volta: gli eventi dei mukanda sono morti». Uno dei Ba-luba mostrò un cranio di elefante pendente dinanzi a una capanna e disse: «Questo nsevu (elefante) è morto, non vive più. Non può più vivere. Così sono i contenuti delle mukanda. Quelli dei tuschimuni invece sono vivi come gli elefanti che ogni notte vengono a Galikoko ed ogni notte divorano i campi di manioca. I contenuti dei mukanda sono ossa morte. Quelli dei tuschimuni sono carne viva». Questo deciso contrasto, così singolare per quanto concerne l'esperienza dei nativi, è particolarmente significativo. Il buon Ba-Luba con le sue parole ha indicato e descritto chiaramente la differenza fra documento orale e scritto, meglio di quanto potessi fare io. Scrittura e sapere appartengono, nel senso di questo libro, al mondo dei fatti, che non hanno niente a che fare con la conoscenza e l'esperienza viva. Un musicista che esegue una sonata di Beethoven si immerge in un mondo demonico così come fa, nel mondo contadino, la mammina quando racconta una fiaba ai bambini. Questa esperienza particolare insegna che quegli Africani così poco studiati sono ben più vicini alla comprensione demonico-intuitiva del principio paideumatico di quanto lo siamo noi, uomini di una civiltà dominata dall'intelletto, ai quali queste conoscenze

vengono impartite per mezzo di esagerazioni di fatti oggettivi e pertanto privi d'anima. Queste osservazioni mi facilitarono la comprensione della vera essenza della struttura delle favole, senza però rivelarmi le loro radici più profonde. Si presentava inoltre una difficoltà, una significativa variabilità nella composizione di molte fiabe, favole e leggende. Mi rendevo conto che determinate parti e motivi apparivano ora in contesti differenti. Era come se le varie storie componessero una sorta di mosaico quali tasselli di diverse narrazioni. Simili esempi li troviamo anche nelle fiabe tedesche, che tuttavia appaiono meno evidenti nella lettura di quanto invece si rivelano nella narrazione. Negli ultimi anni ho fatto le medesime osservazioni nell'Africa settentrionale e orientale. Il mosaico favolistico è privo di vita organica. Anche nella primitiva arte narrativa si può quindi riconoscere uno strato organico e uno inorganico. Una nuova spedizione mi ricondusse verso Oriente. Raggiunsi così la regione dei Banalulua, dei quali tratterò più ampiamente nel capitolo quattordicesimo. Ci trovavamo un giorno a Kapululumba. Dopo la cena chiesi di parlare con un giovane, ma non vi era nessun giovane. Mi recai nel villaggio vicino di Baqua Tembo; lì erano tutti riuniti dinanzi a una casa. Anche i nostri erano lì riuniti. Chiesi che cosa fosse accaduto. Era morto un giovane, che era l'ultimo figlio di un vecchio kabamba. Il vecchio era ora profondamente triste. Il vecchio kabamba “diceva” il suo dolore. Entrai furtivamente nella capanna vicina. Un vecchio sedeva accanto al cadavere: era il vecchio kabamba. Regnava un profondo silenzio. Soltanto il vecchio si lamentava a voce alta fra le lacrime per la perdita. Si lamentava per la sua perdita. Ma non diceva “io”, diceva “Kabamba”. Il dolore che aveva provato si esprimeva in un triste lamento. Un lamento ripetitivo. Eccone il contenuto:

La domanda sui morti

Un uomo di nome Kabamba aveva dieci figli. Morirono tutti. Kabamba non smetteva di lamentarsi: «Dove sono i miei dieci bambini?». Kakaschi Kakullu (una divinità) lo ascoltò e gli chiese: «Che vuoi?» Kabamba disse: «Dove sono i miei dieci bambini?» Kakashi Kakullu replicò: «Va nel mezzo alla strada e lo saprai» Kabamba si allontanò dal villaggio e si diresse nel mezzo della strada. Sentì che arrivava un uomo. Era la sera. Kabamba domandò: «Dove sono i miei dieci bambini?» La sera disse: «Io sono la sera», e se ne andò. Kabamba vide un uomo arrivare. Era il far della notte. Kabamba domandò: «Dove sono i miei dieci bambini?» Il far della notte rispose: «Io sono il far della notte», e se ne andò. Kabamba udì un uomo arrivare. Era il sonno profondo. Kabamba chiese: «Dove sono i miei dieci bambini?» Il sonno profondo rispose: «Io sono il sonno profondo», e se ne andò. Kabamba udì un uomo arrivare. Era il sonno agitato. Kabamba domandò: «Dover sono i miei dieci bambini?» Il sonno agitato disse: «Io sono il sonno agitato», e se ne andò. Kabamba udì un uomo arrivare. Era l'alba. Kabamba domandò: «Dove sono i miei dieci bambini?» L'alba disse: «Io sono l'alba», e se ne andò. Kabamba udì un uomo arrivare. Era il mattino. Kabamba domandò: «Dove sono i miei dieci bambini?» Il mattino disse: «Io sono il mattino», e se ne andò. Kabamba ritornò nel suo villaggio e disse a Kakashi Kakullu: «Ho domandato a tutti: “Dove sono i miei dieci figli?” Ma nessuno mi ha dato una risposta». Kakashi Kakullu replicò: «È colpa tua. Perché quando vuoi avere una risposta alla tua domanda, devi afferrare la gente e tenerla ferma. Altrimenti nessuno risponde quando chiedi: “Ho generato dieci figli ma sono morti, dove sono i miei dieci figli?” Tutti se ne vanno, come hanno fatto la sera, il far della notte, il profondo sonno, il sonno agitato, l'alba, il mattino. Così anche i tuoi figli sono andati via». Nella regione dei Bena Lulua un giorno incontrai una donna anziana che raccoglieva frutta nella boscaglia. La gente diceva di lei:

«Gulauka kakesse» (è un po' matta). «Come mai?» «È lei stessa che lo dice». Chiamarono allora la donna che raccontò la breve storia che mi appresto a riferire. Si era a conoscenza che questa anziana donna, che non aveva una lunga prospettiva di vita, nutriva come sua ultima speranza quella di trascorrere la fase finale della sua esistenza con uomo anziano. Ella, distrutta da odiose dicerie, sarebbe scoppiata a piangere il giorno in cui raccontò per la prima volta la seguente storia, e che poi, a furia di ripeterla continuamente avesse perduto l'intelletto. Questa storia, ulteriormente ripetuta, si diffuse molto rapidamente, e quando alcuni mesi dopo tornai dalla zona orientale nel Kasai, era ancora su tutte le bocche. Ecco la storia:

Lo spirito della maldicenza

Una donna cercava delle locuste nella pianura. Ella era cieca di un occhio e non aveva denti. Era vecchia. Arrivò un uomo nella pianura. Lui aveva un membro ma non aveva scroto. L'uomo disse alla donna: «Dove vai?». La donna rispose: «Vado nel mio villaggio qui vicino. E tu dove vai?» L'uomo disse: «Vado nel mio villaggio che è più lontano». Per un tratto camminarono assieme. Giunsero presso un grande albero. L'uomo disse: «Vorrei sposarti». La donna disse: «Mi sta bene». L'uomo disse: «Allora domani a mezzogiorno ci ritroviamo qui. Ma tu che cosa porti?» La donna disse: «Sta bene. Domani a mezzogiorno ci ritroviamo presso quest'albero. Io porto farinata e carne». L'uomo disse: Bene, io porto due zucche vuotate contenenti vino di palma». E se ne andarono. Il giorno seguente l'uomo e la donna volevano mettersi in cammino. Girava uno spirito della maldicenza, che andò dall'uomo e gli disse: «La donna ha detto di non volerti sposare perché non hai lo scroto». L'uomo non andò presso l'albero nella pianura. Rimase a casa. Lo spirito della maldicenza andò dalla donna e le disse: «L'uomo ha detto di non volerti sposare perché non hai denti ed hai solo un occhio». La donna non andò presso l'albero nella pianura.

Entrambi rimasero a casa. Non si sposarono per colpa di uno spirito della maldicenza.

Fra i Bakuba orientali fortemente mescolati con i Bena Lulua ho appuntato soprattutto racconti tribali. Fra questi svolgeva un ruolo molto importante una lite avvenuta tra due famiglie. La disputa era iniziata in relazione a un diritto di caccia; era terminata con la rottura di tutte le relazioni tra due villaggi, così che il cammino che li univa era stato totalmente cancellato. Si era quindi diffusa la diceria che lì si trovasse una “Tuschimuni”. Ecco il racconto come mi fu riferito:

Il cammino intrappolato

Padre e figlio andavano nel bosco per collocare trappole. Percorrevano un cammino per il quale dovevano essere passati molti uomini. Il figlio disse: «Voglio collocare qui la mia trappola». Il padre disse: «Non farlo, questo è un cammino percorso da molte persone». Il figlio disse: «La colloco ugualmente». Il figlio collocò lì la sua trappola. Il giorno seguente il figlio trovò nella trappola il fratello di sua madre. Egli allora gridò: «Padre, padre! Un animale!» Il padre gridò: «Che razza d'animale?» Il figlio disse: «Il fratello di mia madre!» Il padre disse: «Te l'avevo detto. Adesso libera il fratello di tua madre e non rimettere la trappola nello stesso posto!» Il figlio non lo ascoltò. Collocò la trappola nello stesso posto. Il giorno seguente trovò nella trappola il padre del padre, il terzo giorno sua madre. Il quinto giorno il figlio aveva intrappolato lo stesso cammino. Il padre disse: «Lascialo andare! Se non lo lasci andare non possiamo ritornare nel villaggio». Il figlio non lo ascoltò. Afferrò il cammino, lo ripiegò e lo rinchiuse nel sacco. Si pose quindi il sacco sulle spalle. Ma quando volle continuare a camminare col padre, non

poteva vedere altro che boscaglia. Non ritrovarono il villaggio. Alla fine il figlio gettò il suo carico al suolo. Immediatamente balzò fuori il cammino e arrivò al villaggio. Il figlio e il padre vi giunsero dietro di lui. Nel villaggio il figlio accalappiò il cammino. La gente disse: «Adesso il cammino appartiene al figlio che lo ha catturato». Il figlio disse: «È giusto. Questo è il mio cammino e nessuno può percorrerlo!». Perciò nessuno percorse più quel cammino ed il cammino divenne estremamente triste e alla fine morì.

In queste regioni sono stati raccolti ed esaminati racconti delle tribù Kuilu, Ba-kuba, Ba-Luba, Bena Ki, Kalebue, Wa-Kussu, Ma-Lela, Bena Mai, Ba-Pende, Ka-Nioka e Bena Lulua. In tutte queste tribù si raccontavano favole e leggende nettamente differenti. Comunque erano tutte antiche. Solo i Bena Lulua e le tribù che si erano mescolate con loro avevano la capacità e l'esigenza di elaborarne di nuove. Tutte le nuove produzioni mostravano la medesima origine. Erano nate spontaneamente da alcune esperienze, non come una composizione poetica consapevole, come una creazione voluta, ossia come un atto volontario, ma in quanto espressione spontanea di una vita organica dell'anima che si era cristallizzata in tali forme soltanto allorché si erano prodotti determinati eventi che ne avevano provocata la manifestazione. Vissi fra i Bena Lulua in maniera stabile provando l'impressione di una vita interna che scorreva ricca; pur se si trattava di una semplice sensazione, assunse forme visibili appena conseguì un chiaro impulso sulla base di un’espressione compiuta. Quando la capacità poetica individuale dei singoli seguì un proprio percorso, in forma generale, si verificò chd la capacità di un poetare popolare rimase solo a questa tribù mentre venne a mancare a tutte le altre.

4 Esperienza vissuta

Il problema su quali siano forze che favoriscono lo sviluppo storico di una cultura popolare, si ripresenta oggi in primo piano in tutta la sua grandiosità. Da ciò nasce la domanda successiva relativa alla differenza tra forme culturali corrispondenti della diverse popolazioni. Mi sia consentito di portare un esempio di tale diversità dei destini ed anche delle forme culturali, un esempio che appare per lo meno adatto ad indicare in qual direzione si possono trovare risposte a tali domanda fondamentali, soprattutto per qual che concerne la profondità nella quale si trovano la specificità fondamentale della civiltà e il manifestarsi della sua storia. Nel Sudan occidentale, ossia nella regione ubicata tra il corso inferiore del Niger e il Senegal, risiedono tre tipi diversi di popoli: anzitutto i cosiddetti Etiopi primitivi (si veda il prossimo capitolo), che sono nudi, organizzati in piccole tribù residenti in piccoli villaggi; quindi i Gurma, che risiedono nella zona occidentale raggruppati in Stati feudali, e dominano sui primitivi; infine i Mande o Mandingo, che come popolazioni residue dell'impero medioevale del Mali hanno formato nella loro area piccole tribù autoctone basate su un particolare sistema di caste. Essi si sono spostati verso occidente trasformando piccoli villaggi in città di ridotta dimensione. Gli Etiopi primitivi vanno scomparendo, muoiono nelle aree dei Gurma feudali in seguito alla schiavizzazione e alla distruzione della loro economia, mentre soccombono sotto il sistema dei Mande basato sulle caste. La loro cultura viene pertanto distrutta dai Gurma, assorbita dai Mande. Allo stesso tempo bisogna considerare che la forza culturale e statale dei Gurma, che si basa su una politica di potenza, si decompone, mentre i Mande attraverso l'assorbimento dei primitivi, in parte si accrescono, in parte ottengono un incremento di cultura e di potenza per mezzo di una costante infiltrazione, quindi di una grandiosa politica coloniale. Questa politica è costante, per cui i Mande, senza l'intromissione dei colonizzatori europei nella cultura nativa avrebbero conseguito in breve tempo una completa mandizzazione non solo del Sudan Occidentale, ma anche di quello Centrale. Questo processo di

mandizzazione procede comunque molto lentamente ed è appena percepibile; non si manifesta attraverso fatti eclatanti e si realizza in maniera amichevole. Pochi di coloro che si dedicano ad attività commerciali e produttive lasciano la pura comunità dei primitivi; senza costrizione risiedono tra loro, hanno con loro liberi rapporti e affermano il loro sistema di vita e le loro attività. Essi conducono infatti per proprio conto le varie attività: relazioni, produzione e vendita. Si tratta di un'opera culturale generosa e per molti punti di vista ammirevole quella portata avanti dai Mande. Questa loro capacità deriva dalla loro straordinaria organizzazione, espressione di una vita interiore particolare. Nelle aree centrali dei Mande, ossia nelle provincie dell'antico regno del Mali, i Mande sono suddivisi in cinque caste. Al livello più alto ci sono gli Horro, o cavalieri. Essi abitano soprattutto nelle piccole città fortificate assieme ai Dialli o bardi, che compongono la seconda casta e che raccontano, accompagnati dalla chitarra, le gesta epiche dei loro signori e dei loro antenati. Nelle aree rurali vive la terza casta, gli Ulusu o gli assoggettati, che per lo più sono nuovi insediati mandizzati facenti parte degli antichi Etiopi primitivi. Essi non sono solo eccellenti contadini, ma anche ottimi tessitori. Sono stati esiliati nella zona rurale come i loro antenati; ma il loro compito di lavorare per gli Horro è molto limitato. Alla quarta casta in fine appartengono i Numu. Sono abili fabbri e allo stesso tempo persone sagge, e quali preservatori delle antiche usanze malefiche e magiche, sono temuti stregoni e stimati artigiani, e rappresentano una casta a parte, separata dal resto della tribù. Alla fine abbiamo la casta che occupa il quito livello, gli schiavi, i Djong. La divisione in caste è rigida, costituisce comunque la base per una vita cristallina e sana per il popolo. Gli Ulusu vivono nella loro terra; i Numu danno importanza alla razza; gli Horro sono orgogliosi, ma si attengono strettamente ai loro obblighi sociali ai quali li richiamano i Dialli con la loro antica saggezza; gli schiavi sono ligi al loro destino e possono essere anche molto felici, perché possono raggiungere anche la chimera della libertà, quindi di

ottenere il possesso di beni per mezzo di un buon matrimonio i beni, non al meno di un fortunato matrimonio e l’amicizia e la fiduciosa amicizia dei loro padroni. Questa situazione ottima che i Francesi riconosco alla loro colonia di maggior valore, risale al tempo del famoso impero del Mali d'epoca medioevale. Questo Stato era però solo l'eredità della splendida civiltà del Gana, ossia di un impero che attorno all'età della nascita di Cristo occupava l’area fra il Senegal settentrionale e il bacino del Niger, separando il Sudan dal Sahara (si veda cap. 12). Persino nel Gana pre-crisiano doveva vigere questo sistema di caste al quale concordemente si riferiscono tutti gli antichi canti e le eroiche cronache del paese. Per quanto si riferisce all’antica civiltà abbiamo due diverse concezioni. Una concezione ha come esponenti i sacerdoti islamici e le tribù Maure del Sahel a nord del Senegal. Dicono che questa civiltà si origina da Maometto. Naturalmente non è difficile obbiettare che il Regno del Gana esisteva già da molto tempo, ben prima dei tempi di Maometto. Costretti così alle corde, argomentano che furono le tribù del Sud dell'Arabia, migrate in Africa dalla loro terra molti secoli prima dell'egira, a fondare la civiltà del Gana. Secondo l’altra opinione fondatore del Gana sarebbe stato il popolo nemico dei Gara (nominati anche Garanke, Garassa o Garama): questo avrebbe costituito una grande ed antichissima civiltà di cui si sa soltanto che esistette molto tempo prima dei Fulbe. I Gara, provenienti dal Sahara nord-orientale (dove ancor oggi ritrova le loro tombe decorate con pietre preziose e oggetti di rame), si sarebbero stanziati nel Faraka (la Mesopotamia dell'Africa, situata fra il Niger superiore e il Bani). Essi dovrebbero aver fondato già prima del tempo dei famosi mitici Wagadu la loro capitale Wagana (?) a nord-est del Niger. I Gara, secondo questa concezione, sarebbero stati nobili e cavalieri, portatori nel vero senso della parola della civiltà, in quanto fondatori del regno Gana e progenitori della nobile razza recante lo stesso nome; a loro vengono attribuite le poderose colline tombali in forma piramidale, le cui rosse cime si ergono in molti luoghi sulla sabbia gialla e sulla verde steppa. Da

loro si originerebbero anche molti “libri di eroi” e un gran numero di racconti epici dei quali potei pubblicare alcuni nel mio Decameron negro.3 Sono narrazioni simili a quelle che si trovano nei canti dei bardi e nell’epica eroica. Per risolvere questa diatriba fra le due teorie sulle origini della civiltà dei Gana è fondamentale individuare se, dove e presso chi oggi si ritrova questo spirito, che si ponga in armonia con le espressioni culturali dei Mande e il loro sistema basato sulle caste. Impostando la problematica in questa forma, tutto si esprime nettamente a favore della seconda concezione, che fu per me illuminante ed assunse il peso di una decisione, tra l’altro significativa per l’antico spirito del Gana e per una problematica ancor più importante concernente le originarie affinità tra le civiltà, allorché in quel giorno di luglio del 1908 mi trovavo sulla nave della spedizione che aveva raggiunto la città di Njafunke. Avevamo lasciato la nostra imbarcazione e ci eravamo sistemati sulla spiaggia. All'improvviso tutta la popolazione dai villaggi circostanti si radunò attorno a noi. Alla maniera solita il tavolo di lavoro era aperto. Incominciai a intrattenermi con gli ospiti ponendo loro domande relative ai nomi di antiche pitture rupestri tuttora esistenti. Una delle poderose piramidi era designata come la tomba dei Samba Gana, e su questa, fu immediatamente aggiunto, esisteva un canto bardo (questi erano cantati nel tempo precedente Wagadu). Purtroppo era un Dialli che conosceva veramente questo epos, ma non lo sapeva trascrivere. Tuttavia un venerabile antico Diarra conosceva il suo contenuto. Egli così espose il suo racconto:

Samba Gana

Annallja Tu-Bari era figlia di un principe regnante presso Wagana. Ella era considerata notevolmente saggia e bella. Molti Horro venivano nella sua città e la chiedevano in sposa. Ma Annallja 3 Decameron nero. Racconti africani raccolti da Leo Frobenius, Milano, Rizzoli, 1971.

richiedeva loro una prestazione che nessuno osava affrontare. Il padre di Annallja aveva avuto una sola città ma molte fattorie in aree agricole. Un giorno entrò in guerra con i principi (il narratore usa l’interessante termine Amil) di una città vicina per il possesso di un’area agricola. Il padre di Annallja era stato sconfitto ed aveva perduto la sua terra, cosa che il suo orgoglio non sopportò, sì che ne morì. Annallja ereditò la città e la terra; ella era avrebbe sposato soltanto quell’Horro che le avrebbe restituito non solo l’area agricola che aveva perduto, ma anche diciotto città assieme all’area circostante. Passavano gli anni. Nessuno osava affrontare una simile guerra. Passavano gli anni. Annallja rimaneva nubile, ma anno dopo anno diveniva sempre più bella. Ella aveva perduto tutta la sua allegria. Diveniva sempre più bella e più triste. E in base all’esempio della principessa perdettero il sorriso i vari Horro, Djalli, Numu e Ulussu nella terra di Annallja. A Faraka abitava un principe Gana, che aveva un figlio di nome Samba Gana. Quando crebbe, secondo l’usanza del paese, abbandonò con due Dialli e due Supha la città paterna, per conquistare una propria terra. Samba Gana era giovane. Suo maestro, che lo accompagnava, era Dialli Tararafe. Samba Gana era un tipo allegro. Samba Gana partì ridendo. Samba Gana dichiarò guerra al principe di una città (lo sfidò a duello). Si affrontarono con la spada. Assistevano allo scontro tutti gli abitanti della città. Samba Gana vinse. Il principe sconfitto gli chiese di risparmiargli la vita e gli offrì la sua città. Samba Gana sorrise e disse: «Tieniti la tua città. La tua città per me non è niente». Samba Gana andò oltre. Affrontò un principe dopo l’altro, però restituiva a tutti la loro città. Diceva sempre: «Tieniti la tua città. La tua città per me non è niente». Alla fine Samba Gana aveva sconfitto tutti i principi di Faraka, tuttavia non possedeva alcuna città né terra, in quanto le aveva restituite tutte, sì che ridendo riprese il suo cammino. Un giorno riposava col suo Dialli presso il Niger. Il Dialli Tararafe cantava di Annallja Tu-Bari; cantava della bellezza, della tristezza e della solitudine di Annallja Tu-Bari. Tararafe così

cantava: «Avrà Annallja e le ridarà il sorriso solo colui che conquisterà ottanta città». Samba Gana udì tutto. Samba Gana si levò in piedi ed esclamò: «Alzatevi Supha! Preparate i cavalli! Cavalcheremo sino al paese di Annallja, di Tu-Bari». Samba Gana partì con i suoi Dialli e Supha. Cavalcarono giorno e notte. Cavalcarono un giorno dopo l’altro. Giunsero alla città di Annallja Tu-Bari. Samba Gana vide Annallja Tu-Bari. Vide che era bella e che non rideva. Samba Gana disse: «Annallja Tu-Bari, mostrami le ottanta città». Samba Gana partì. Disse a Tararafe: «Rimani presso Annallja Tu-Bari, canta per lei, distraila, falla ridere!» Tararafe rimase nella città di Annallja Tu-Bari. Ogni giorno cantava le gesta degli eroi Faraka, delle città dei Faraka, del serpente dell’Issa Beer, che a suo piacere fa crescere la marea, così che la gente un anno ha sovrabbondanza di riso, un altro soffre la fame. Annallja Tu-Bari ascoltava tutto. Samba Gana si muoveva nella regione. Combatté con un principe dopo l’altro. Vinse tutti gli ottanta principi. Diceva ad ogni principe sconfitto: «Va da Annallja Tu-Bari e dille che la tua città le appartiene». Tutti gli ottanta principi e molti Horro si recarono da Annallja Tu-Bari e rimasero nella sua città. La città di Annallja Tu-Bari crebbe e crebbe. Annallja Tu-Bari comandava su tutti i principi e gli Horro dell’ampia regione attorno alla sua città. Samba Gana tornò da Annallja Tu-Bari. E le disse: «Annallja Tu-Bari, ora possiedi tutto quel che volevi». Annallja Tu-Bari disse: «Hai compiuto il tuo lavoro. Ora prendimi». Samba Gana disse: «Perché non ridi? Ti sposerò solo quando tornerai a ridere». Annallja Tu-Bari disse: «Prima non potevo ridere a causa del dolore per la vergogna di mio padre. Adesso non posso ridere perché ho fame». Samba Gana disse: «Come posso placare la tua fame?» Annallja Tu-Bari disse: «Soggioga il serpente dell’Issa Beer, che un anno concede abbondanza un altro carestia». Samba Gana disse: «Una simile impresa no ha osato intraprenderla ancora nessuno. Io compirò l’impresa». Samba Gana si mosse. Samba Gana arrivò a Faraka e cercò il serpente dell’Issa Beer. Andò oltre e continuò a cercarlo. Si diresse a Koriume e non lo trovò

e allora proseguì risalendo la corrente. Giunse a Bamba, non lo trovò e subito proseguì risalendo la corrente. Quindi Samba Gana trovò il serpente. Lottò con lui. Ora vinceva il serpente. Ora vinceva Samba Gana. Il Djolliba (la corrente del Niger) ora abbandonava questo, ora abbandonava quel percorso. Le montagne precipitava e la terra si apriva in ampi crepacci. Per otto anni combatté Samba Gana con il serpente. Dopo otto anni lo vinse. Samba Gana aveva allora spezzato ottocento lance e rotto ottanta spade. Aveva ancora soltanto una spada insanguinata ed una lancia insanguinata. Diede la lancia insanguinata a Tararafe e disse: «Va da Annallja Tu-Bari, dalle la lancia, dille che il serpente è stato abbattuto, e vedi se Annallja Tu-Bari ride» Tararafe si recò da Annallja Tu-Bari. Disse quel che gli era stato detto. Annallja Tu-Bari disse: «Torna da Samba Gana e digli che deve portarmi qui il serpente vinto, affinché come mio schiavo porti il fiume nella mia terra. Quando Annallja Tu-Bari vedrà Samba Gana con il serpente, allora Annallja Tu-Bari riderà» Tararafe ritornò a Faraka con l’ambasciata. Riferì l’ambasciata a Samba Gana. Samba Gana ascoltò le parole di Annallja Tu-Bari. Samba Gana disse: «Questo è troppo». Samba Gana prese la spada insanguinata, se la infilò nel petto, rise ancora una volta e morì. Tararafe prese la spada insanguinata, montò sul suo cavallo e cavalcò verso la città di Annallja Tu-Baris. Disse ad Annallja Tu-Bari: «Questa è la spada di Samba Gana; su lei c’è il sangue del serpente Djolliba e di Samba Gana. Samba Gana ha riso per l’ultima volta». Annallja Tu-Bari richiamò tutti i principi e gli Horro che si trovavano nella sua città. Ella montò sul suo cavallo; tutta la sua gente montò a cavallo. Annallja Tu-Bari cavalcò con tutta la sua gente verso Oriente. Tutti cavalcarono sino a che giunsero a Faraka. Annallja Tu-Bari si avvicinò al cadavere di Samba Gana. Annallja Tu-Bari disse: «Questo eroe fu più grande di tutti quelli che l’hanno preceduto. Costruitegli una tomba che superi quella di tutti i re ed eroi». Il lavoro ebbe inizio. Otto volte ottocento uomini scavarono la fossa. Otto volte ottocento uomini costruirono la casa (la camera

mortuaria sotterranea). Otto volte ottocento uomini costruirono la sala (la camera del sacrificio in superficie). Otto volte ottocento uomini trasportarono terra e la collocarono sopra la sala, l’ammassarono e la incendiarono. Il monte (la piramide in forma di tumulo) si levava sempre più in alto. Ogni sera Annallja Tu-Bari con i suoi principi, Horro e Djalli saliva sulla cima della montagna. Ogni sera i Djalli intonavano i canti per l’eroe. Ogni sera Tararafe intonava il canto di Samba Gana. Ogni mattina Annallja Tu-Bari si alzava e diceva: «Il monte non è abbastanza alto. Elevatelo sino a che io possa vedere Wagana». Otto volte ottocento uomini vi portavano terra, l’ammassvano sul monte e la incendiavano. Per otto anni il monte si levò sempre più in alto. Al finire degli otto anni il sole sorse, Tararafe si guardò attorno ed esclamò: «Annallja Tu-Bari, oggi posso vedere Wagana». Annallja Tu-Bari guardò verso Occidente. Annallja Tu-Bari disse: «Vedo Wagana! La tomba di Samba Gana è così alta come merita il suo nome». Annallja Tu-Bari rise.Annallja Tu-Bari rise e disse: «Ora andate via tutti, principi e cavalieri, ognuno per suo conto, disperdetevi per tutta la terra e diventate eroi come Samba Gana». Annallja Tu-Bari rise ancora una volta e morì. Fu sepolta nella camera mortuaria del sepolcro di Samba Gana assieme a lui. Gli otto volte ottocento principi e Horro si allontanarono, ognuno in una direzione, combatterono e divennero grandi eroi.

Questo racconto diede naturalmente motivo per porre domande sulla storia delle famiglie Gana, sulla espansione dell’antico regno e sull’espansione di popoli in generale. Fra gli ascoltatori si trovava anche uno Scheikh della tribù maura dei Trarza, che conducevano la loro vita nomade nell’estremo Occidente, nella zona settentrionale del Senegal. Conosceva bene le regioni della sua terra e fu in grado di offrire una valida teoria. Da fanatico musulmano qual era, sostenne con energia l’opinione dell’origine sud arabica dei fondatori Gana. Di contro il vecchio Diarra, che aveva riferito il

contenuto dell’epos di Samba-Gana era certo che i Gara-Gana erano un popolo ricco di antiche tradizioni quando ancora Arabi ed Islam non erano penetrati nelle loro terre. Il Trarza era stato educato alla maniera della sua gente. Nella sua eccitazione parlava in maniera concitata: «Gli Arabi e l’Islam dominano la terra sino ai suoi confini». Gli domandai dove si trovassero i confini della terra. Risposta: «Dove si toccano il cielo e la terra». E il Diarra intanto: «Il cielo non tocca la terra». Dalle loro diverse impostazioni derivavano le loro concezioni attorno alla conformazione del mondo, alla terra, al sole e agli astri, che qui riproduco: Secondo i Mauri Trarza la terra è un disco, sul quale si colloca il cielo come una volta. All’interno della volta ci sono le stelle. Sono aderenti al cielo. Sole, luna e stelle si muovono in questa volta (sempre al suo interno). L’intero sistema stellare si muove lungo la parete di questa volta, “come un gregge di cammelli al pascolo”. Al di fuori della volta celeste non c’è niente. Anche Allah abita all’interno della cupola celeste. Un giorno la volta dovrebbe distruggersi, così lo stesso Allah, tutte le stelle, tutti gli elementi e tutte le vite della terra saranno schiacciate dalla massa celeste collassata, e anche gli ultimi angeli dovranno perire sotto le sue macerie. Ma nessuno sa con certezza se ciò accadrà realmente. In maniera totalmente diversa parlò il Diarra. Secondo lui la terra è senza confini, senza fine, anche se manca l’espressione “infinito”. L’uomo può percorrerla sino a che muore. A piedi o per mare. L’uomo arriva in terre in cui ci sono serpenti con le ali, in altre dove ci sono uccelli parlanti, ed ancora in altre dove vivono alberi parlanti, così come fanno da noi gli esseri umani. Tutto ciò che è significativo si trova al di là della terra conosciuta, ma pur sempre sulla terra, e l’uomo che la percorre per un tempo sufficientemente lungo può raggiungere questi luoghi sconosciuti. Il cielo non tocca mai la terra. Il cielo non è qualcosa di concreto, ma è fatto solo di luce ed ombra. Gli astri sono distribuiti qua e là nello spazio illimitato della terra da Allah (?); anche secondo l’opinione di molti lì sopra ci sono fattori che intervengono nel destino dell’uomo. Sì

che l’uomo non può raggiungere autonomamente quel che vuole e desidera. Siano esempio di ciò eventi che riguardano i Gana in epoca prestorica. Di loro furono miseramente abbattuti quelli che erano vili e incapaci, mentre quelli che avevano coraggio, cuore e forza divennero re. Quando nascerà un Gana di eccelsa grandezza, con la sua forza potrà dominare tutti gli Arabi ed Europei sulla terra e quindi restaurare l’antica gloria del regno Gana.

Da quel momento ho individuato le dimensioni del “potere dell’ideologia” quali dimensioni del sentimento, ovvero le due forme del sentimento della vita in fortissima opposizione: il “mondo nella sua ampiezza” e la “caverna del mondo”, da me definite come sentimento della distanza o dello spazio e sentimento della caverna. La concezione del Trarza mostra il limite dello sguardo del mondo attraverso il sentimento della caverna, quella del Diarra il bisogno dello spazio ampio. Coscienza ristretta, chiusura, mancanza di libertà e quindi fatalismo, pressione continua, sì che sotto questa pressione di tanto in tanto si producono esplosioni sotto forma di fanatismo: tutto ciò caratterizza il sentimento della caverna. Nostalgia e sensazione di infinito spingono verso grandi imprese: un senso forte creativo e una spontanea allegria nel sentirsi liberi sono le espressioni dell’ampiezza del mondo. Le due concezioni fondamentali non sono altro che espressioni dell’anima. Entrambe non si trovano solo in Africa, ossia qui nella regione del Sahel a stretto contatto, ma anche in Europa tra Francesi, Inglesi e Frisoni. Sul significato culturale comune del mondo ampio, aperto e del mondo come caverna parlerò ancora nel 12° capitolo. Per ora mi limito a evidenziare che tali concetti esprimono un problema costante di estremo interesse. Un popolo, la cui anima ha le dimensioni del senso della caverna, per un millennio e ancor più può essere dominato da un’altra forza, e nel corso di questo la sua esistenza animica (seelische Dasein) nella sua ristrettezza può essere ingannata; ma in verità non può mai dominare altri senza distruggerli. Per un sano sistema di caste, per la costruzione di un organismo culturale in espansione, per lo sviluppo

del lavoro, che trovi in se stesso il suo compenso, nel senso concreto d’una costruzione, la condizione essenziale è l’esistenza del sentimento dello spazio aperto. Pertanto il popolo Mande deve ringraziare per questa sua capacità, per il suo splendido organismo, per il suo magnifico impulso all’apertura, per la sua capacità colonizzatrice, il mistico Gana, il popolo nord-orientale. Il popolo semita dell’Ovest, con le varie immigrazioni arabe, con il suo pronunciato sentimento della grotta non avrebbe mai potuto tirare fuori da un nativo, nell’ambito delle possibilità dell’anima dell’uomo nativo, tali capacità intrinseche, mantenerle e svilupparle. Che significano pertanto i racconti epici di Samba Gana, Goroba Dike, Samba Kullung e di Gossi? (Si vedano Il decamerone nero e Atlantis, vol.VI). Il tono fondamentale di questi poemi mostra continuamente quel che noi designiamo come grandezza d’animo nella vita d’ogni giorno. Questi uomini non conoscono alcun limite della loro vita, nel senso di un limite al loro operare in base al loro tipo di ideologia. Vediamo qui soltanto una forza espansiva guidata e regolata per mezzo delle proprietà della loro anima.

Questi uomini, senza esserne consapevoli, hanno superato la soglia del concetto di infinito. Mi sembra che nessun altra epopea mostri questo concetto in maniera tanto chiara, come questo epos di Samba. In maniera evidente viene celebrato, assieme alla nostalgia, alla più grande nostalgia, il limite dello spazio. Esso cresce sino a raggiungere il tramonto dell’uomo, mentre on tramonta il sentimento di nostalgia verso lo spazio aperto del mondo. Sì che, nel modo in cui lo stesso eroe soccombe nella sovreccitata forza della sua azione, è la sua gloria che continua ad agire nell’opera della principessa, opera per la quale gli eroi vanno nel mondo quali portatori di questa potenza animica. «Otto volte ottocento principi e cavalieri si mossero, ognuno in una sua direzione, combatterono e divennero grandi eroi» Questo è il tipo di civiltà che nasce dal sentimento della distanza. Se si consultano tutte le raccolte di leggende dell’Oriente, in tali

creazioni letterarie non si troverà niente di tutto ciò. La tensione dell’anima ivi è sostituita dalla sorte, dal misterioso, dalla meraviglia, dal fantastico, dal sensazionale. Ivi si adorna la volta della caverna con ricche decorazioni per eludere il timore, la pressione, l’eterna paura.

5. Sapere

Nel mio lavoro Unter den unsträflichen Äthiopen (Berlin-Charlottenburg, 1913) si trovano gli accenni a una “Kulturlehre” (dottrina della civiltà) per la cui valida elaborazione è occorso il lavoro di decenni. Con queste ricerche si mostrava che ancor oggi in zone estremamente vaste dell’Africa sono diffusi modi di poetare che sono espressione di una forma culturale già nota alla severa antichità, e che per la loro intima particolarità rievocano l’età omerica. Questi anziani parlavano degli “incolpevoli Etiopi”. Oltre un millennio dopo gli islamisti nominarono i portatori di questa civiltà: “I fedeli pagani”. Gustav Nachtigal, il grande ricercatore del XIX secolo, scrive: «Menzogna, mancanza di parola e furto sono loro sconosciuti». Con queste espressioni non si intende valutare specificamente la loro morale. Il momento etico non è fondamentale in quanto problema concernente il carattere dei singoli, in quanto i portatori di questa civiltà hanno caratteri ben diversificati così come accede in tutte le altre popolazioni: i loro destini sono altrettanto diversificati, le loro propensioni li portano sia al bene che al male. Ciò che distingue questi uomini, per quelli che sono in grado di capire, è la loro civiltà, che si presenta come un tutto (als Ganzes). Civiltà intesa nel senso più ampio come nel più ristretto, a livello individuale come globale. Ho potuto comprendere il loro carattere meglio di quello di altri popoli. Mi è risultato così trasparente e chiaro, per il fatto che offre la possibilità di scrutare i contenuti dell’anima più

profondi, contenuti che si offrono spontaneamente alla nostra conoscenza. Mi si è offerta la possibilità di osservare un sapere altro, che è equivalente al sapere che ci precede. Gli Etiopi sono eccellenti agricoltori. La loro solerte attività si svolge sia presso il fiume Nilo che presso il Senegal. La loro organizzazione è tribale (Sippe) con ordinamento patriarcale: l’intera famiglia estesa vive spesso in forma comunitaria in una fattoria simile a un castello. L’uomo più anziano (non vecchio!) è il capo di questa comunità; i suoi fratelli, i suoi figli, nipoti, gli ubbidiscono; egli si occupa inoltre dei vecchi rimasti privi di forza. Divide il cibo, organizza l’utilizzazione di tutte le provviste, amministra i beni comuni della piccola comunità da qualsiasi fonte provengano, è responsabile della ripartizione degli alimenti, in quanto qualificato come “anziano” in base alla sua nobile discendenza. Le donne si sposano all’interno di questa comunità tribale. Non solo la vita materiale, ma anche quella spirituale è ordinata con semplicità da questo pater familias da generazione in generazione, allo stesso modo e secondo il suo ritmo vitale. Lui, l’ “anziano”, definisce il rito della semina, quello del raccolto, dà le disposizioni per la sepoltura e il culto delle anime dei morti. Lui decide delle feste e delle cerimonie, e stabilisce anzitutto la sequenza delle feste che concernono il formarsi di nuovi legami all’interno della comunità e la consacrazione degli ordini che compongono il sistema delle classi d’età. L’ordinamento in base alla classe d’età si basa essenzialmente sui gradi di crescita naturali. La civiltà etiopica presenta essenzialmente, lì dove si sono mantenuti allo stato puro e non sono stati alterati, quattro livelli di classi d’età: 1. Bambini sino alla pubertà; 2. Giovani, categoria alla quale appartengono ragazzi celibi come sposati; 3. Uomini che hanno figli, fase nella quale il pater familias mostra tutta la sua forza ed esperienza; 4. Uomini non in grado di compiere qualsiasi attività, in fase di invecchiamento spirituale, inquadrati nella categoria dei vecchi.

L’effetto del sistema di classi d’età è ovvio e automatico. Nella civiltà degli Etiopi costituisce l’asse portante, così come nei Mande il sistema delle caste. Ma quel che di particolare individua l’essenza della civiltà etiopica dalle altre forme che conosco, è la cristallina purezza di stile di quel popolo, la sua compiuta organizzazione che nella sua viva armonica unità si può dire che presenta una assoluta identità fra vita materiale, sociale e spirituale. Ogni attività profana qui è allo stesso tempo, religiosa; ogni mezzo materiale serve automaticamente a uno scopo ideale. Il demonico e i “fatti oggettivi” coincidono” nel mondo di un Etiope. Tutto è quindi così naturale, che anche da qui, da questa armonia, da questa congruenza, la loro “irreprensibilità”, l’alto valore etico si affermano come una necessità naturale e giusta, – una necessità naturale che viene scossa solo quando contatti con ondate culturali straniere interrompono quella purezza di stile, la loro organicità e unità.

Nondimeno alcune espressioni di questa cultura appaiono brutali. Un esempio! Quando un vecchio, un appartenente al quarto livello muore, la tribù festeggia con allegria. Alla domanda della causa di questa gioia barbara segue una risposta ancor più barbara: «Era vecchio; non poteva più lavorare, non poteva essere utile nei lavori agricoli». Di contro se muore un giovane appartenente al secondo gruppo, la tribù lo compiange e non sa superare il dolore; si ha così una forte lamentazione, così come prima si esprimeva una sonora gioia. In base a questa risposta, la domanda relativa alla ragione profonda della “Ergriffenheit” (emotività) risuona ancor più ricca di significato: «Il giovane poteva ancora lavorare nei campi; non aveva ancora figli, e non può rinascere; non ha lasciato nessuno dietro di sé che lo faccia rivivere». Da queste dichiarazioni si deduce che: se muore un vecchio, viene inumato; il suo teschio, dopo la decomposizione del corpo viene preso dalla tomba e posto in un luogo consacrato. Lì egli riceve l’offerta rituale: offerta per la festa del raccolto, preghiera per la semina, ed atto cerimoniale soprattutto quando si sposa un nipote

della Sippe. La preghiera che accompagna ogni cerimonia suona così: «Nonno mio! Ti prego, ora ritorna. Te ne stai lontano da troppo a lungo lontano e noi non abbiamo troppi giovani. Mio figlio ha sposato questa giovane, forte e ben educata. Lei sa tirare su i figli in maniera ottimale; io stesso ho visto come si è presa cura dei figli di suo fratello. Ha un seno abbondante e darà la giusta quantità di latte. Ti prego di ritornare attraverso questa giovane donna, così mio figlio avrà figli forti e non dovrà più lavorare la terra» Sovente prima della preghiera è collocato un chicco di grano sul teschio, e la ragazza lo deve prendere con le labbra dal teschio del nonno e ingoiarlo. Così il figlio che nascerà sarà il nonno resuscitato. Questo atto di ingoiare il chicco ha un sì grande significato, poiché in esso si palesa un legame molto profondo, che affonda sin nelle radici, tra la cura dei campi e la vita sociale. L’elemento che lega è la terra, la grande terra originaria, nella quale si decompongono gli ultimi resti della vita e dalla quale sorgono i primi germogli dell’esistenza, la terra dalla quale tutto nasce e nella quale tutto finisce, una terra in cui il nascere e il morire coesistono. Un Etiope del distretto di Gongola, imparentato con i Fulbe originari, diede in proposito la seguente spiegazione: «Un giovane che muore si distrugge come una foglia secca che cade sulla terra e marcisce. Un vecchio che muore è come un frutto maturo, che cade nella terra e torna a crescere. L’uomo è come il grano (sorgo). Tagli il Sorgo maturo, lo fai seccare e lo pianti nella terra nella prossima stagione delle piogge, così avrà radici e foglie, crescerà e porterà frutti maturi. Così è l’essere umano. Il giovane non può rinascere. Il vecchio rinascerà» Il fatto che sia stato possibile che una chiara voce abbia potuto esprimere in parole il demonico dormiente, deriva essenzialmente dal fatto che a far risuonare tale voce non era un puro etiope ma un elemento fulbizzato. Era un Fulbe-ibrido, quindi fornito di altre componenti spirituali rispetto agli specifici esponenti di questa civiltà. I quali, diversamente, sono assolutamente incapaci, anche

solo di indicare i loro costumi (che sono per loro assolutamente evidenti), per cui evitano spiegazioni, quindi di esprimere in parole le loro idee come i loro sentimenti, che manifestano soltanto in usi e costumi inconsapevoli. Gli usi e costumi sono per loro in certa misura forme espressive di quel che da noi si esprime attraverso la lingua, il pensiero, la coscienza; essi rappresentano un livello che per noi è soggiacente. Il “sapere” degli Etiopi è come inconsapevole; esso si muove in un ambito, che nelle prossime pagine indichiamo come piano del sentimento (Gemut). Questo dato è di grande importanza. Da solo chiarisce la straordinaria purezza di opinione e di costumi, che giunge sino al limite di una incredibile ovvietà. Ecco un esempio. Alle peculiari usanze degli Etiopi appartiene un sacrificio che si ripete ogni due anni, un grande sacrificio: l’offerta dell’uomo di maggior valore, il primo sacerdote, il “re dei sacerdoti”, per usare l’espressione degli antichi scritti. La tradizione è conosciuta col nome di “assassinio rituale del re”. Presso i Kirri del Sudan Centrale incontrai un simile tipo di re, che come molti principi Dakka doveva subire tale morte sacrificale l’anno seguente. Egli stesso me ne parlò. Trovava assolutamente naturale che l’anno seguente dovesse subire la morte rituale. Guardava il giorno della sua fine con quella che per noi era una incomprensibile tranquillità e si esprimeva in maniera molto lucida: «Negli ultimi anni il raccolto non è stato buono, scarse le piogge; dopo la mia morte le piogge saranno più abbondanti». E aggiunse: «Ho un nipotino al quale voglio molto bene. Dovrebbe sposare una donna di buona famiglia. Vorrei farmi rigenerare, quando ritornerò dalla selva, da questo nipote». Tutto ciò fu enunciato in un tono così sereno, che suonava come un’espressione di gioia per quanto stava per accadere. Quest’uomo si esprimeva nel modo di chi ci stesse parlando di un piccolo viaggio. Non si coglieva in lui nessuna traccia di tensione, egli si esprimeva con la stessa tranquillità come potremmo fare noi quando ci trasferiamo da un appartamento all’altro o da una città all’altra.

In tal modo da questa vita dell’anima, da questa esistenza che si realizza nell’ambito del sentimento, si evidenzia qualcosa di assolutamente particolare. Il Sapere di questa forma culturale è in armonia con un assoluto “Erleben” organico, ma questa stessa viva esperienza (Erlebnis) presenta varianti. Ecco una dimostrazione che mostra quanto ampio e vario sia il campo nel quale ci si può muovere.

Quando il sommo sacerdote ha compiuto il rituale dell’uccisione del re, per i giovani appartenenti al primo livello inizia il periodo da trascorrere nella boscaglia, il periodo delle feste di iniziazione con la preparazione per l’ingresso nel secondo livello. I giovani vengono circoncisi nella boscaglia; il sangue è considerato come oggetto di sacrificio, e scorre per il re ucciso. Qui il sacerdote che compie l’operazione è travestito da leopardo, anche se solo in maniera superficiale con una pitturazione poco evidente e con una pelle di leopardo e una borsa ricavata da una zampa del leopardo nella quale sono collocati gli attrezzi per il sacrificio. Sicché il sacerdote è segnato come leopardo più che travestito da leopardo. Si assume quindi che l’animale sacro, il totem del re sacrificato è il leopardo, per il fatto che quest’animale è in certo modo il rappresentante della boscaglia, lo spirito incorporato della boscaglia, sì che risulta ben funzionale al sacrificio del re: questi, una volta sacrificato, diviene il degno spirito del bush. Quindi, per ottenere i favori di questo spirito della boscaglia, gli si dà il sangue del rito della circoncisione. Ciò si traduce nel fatto che tutti coloro che in futuro dissodano la boscaglia per la coltivazione, dal momento che feriscono la boscaglia, feriscono sé stessi per potersi conciliare con lo spirito della foresta. (Questo complesso rituale che esprimo in termini sbrigativi, viene sentito in maniera ben più sensibile da coloro che vivono una profonda religiosità). Fra i zoticoni Kirri conobbi prima un gruppo di giovani circoncisi da pochi anni, quindi un gruppo di uomini di maggiore età ai quali posi domande sullo svolgimento di questo rituale. I giovani dichiararono: «Il leopardo che ci circoncide, è il re morto». Gli

uomini adulti dissero: «Il sacerdote come leopardo circoncide i giovani»; ed aggiunsero: «Quando il sacerdote come leopardo, circoncide i giovani, lui è il re morto». E in un altro villaggio Kirri fu dichiarato: «Il re morto circoncide i fanciulli come leopardo». Non c’è niente di contraddittorio che qui meriti attenzione. Dovunque l’uomo mostri una concezione dominante nell’ambito del sentimento vivo con comportamenti consequenziali, ciò avviene in forma spontanea e sporadica, ragion per cui coloro che sono più vicini alle civiltà etiopiche, ma si elevarono a un gradino più alto in quanto civiltà completamente mitiche, mostrano una ridondanza di incoerenze. Il dato che mi appare più importante in questo caso è che per i giovani chi pratica la circoncisione è un leopardo, per gli uomini più grandi qualcuno che funge da leopardo. È la stessa differenza che mostrerò nel capitolo 7. per le creazioni dell’anima dei bambini (esempio della strega). Pertanto anche nella forma della civiltà etiopica si produce nella vita dell’anima dell’individuo un processo di sviluppo che è caratterizzato da un lato da “un leopardo”, dall’altro da un “come leopardo”. Ciò mostra la differenza della vita cognitiva nelle diverse classi d’età e l’ampiezza del campo d’azione paideumatico nel periodo precedente la costruzione mitica. È questa la caratteristica di base del periodo di creazione primitivo. Mostrerò quel che intendo dire nelle prossime pagine.

II. Il problema dell’individuo

6. La struttura paideumatica graduale.

Quando lavoravo sull’opera Die Masken- und Geheimbünde Afrikas,4 per la prima volta destò la mia attenzionee meritò una particolare attenzione, un ordinamento caratteristico diversi popoli, dall’Africa all’Oceania: l’organizzazione in classi d’età.4 Halle, Ehrhardt Karras, 1898.

In particolare fra i primitivi, ma anche fra popolazioni estremamente sviluppate, esiste la tradizione per la quale uomini di pari età (talvolta anche donne) si uniscono in gruppi, che in maniera temporanea o definitiva presentano proprie forme economiche, un proprio tipo di alimentazione e pertanto si distinguono rispetto alla vita comune di un popolo. Sovente non solo si creano alcune classi d’età, ma tutta la popolazione si organizza in base a classi d’età attraverso gruppi separati in maniera più o meno netta. Il numero dei gruppi di classi d’età a prima vista appare variabile. È ora da provare anzitutto se la triplice separazione sia originaria ovvero “naturale”. Nei vari casi osservati prestai particolare attenzione a questo dato per avere una conferma della tripartizione originaria. Potei provare, anche nelle tribù che non avevano più l’antico sistema di divisione in classi d’età come base della loro organizzazione sociale, l’esistenza di residui di un sistema tripartito. Questa antica suddivisione in classi presenta una organizzazione per la quale il primo gruppo è costituito dai bambini sino all’incirca all’età della maturità, un secondo gruppo è composto dai giovani sino al momento del matrimonio, ed in fine un terzo gruppo, dagli anziani, i saggi. In Africa si individuano due diversi tipi di suddivisioni per classi d’età, uno che si riscontra essenzialmente nella parte orientale del continente, l’altro tendenzialmente in quella occidentale. Como tipo dell’Est scelgo i Masai, fra i quali si ha una chiara separazione tra fanciulli, ragazzi e uomini adulti. I fanciulli vivono in casa sino a circa sedici anni, si esercitano nell’uso delle armi e nella guardia del bestiame, e a questa età sono sottoposti alla mutilazione dei denti secondo l’uso tribale e quindi entrano nella classe dei ragazzi. Come tali vanno fuori dalla zona domestica per risiedere in una propria abitazione. Lì vivono con ragazze sessualmente mature e conducono una spensierata vita di combattimenti e ruberie. La loro alimentazione consiste per lo più in carne, latte e sangue. La loro vita è libera, ma non come sovente si è pensato, disordinata. Anzi la stabilità dei rapporti sessuali è assolutamente sana, e rapporti occasionali con le fidanzate dei compagni è fatto inconsueto e

spregevole. Il fatto che più fratelli abbiano la stessa fidanzata non rappresenta una contraddizione, ma fa parte dell’intero sistema della struttura familiare. Questa vita libera termina in parte con i trent’anni. Il ragazzo con la sua donna ha generato un figlio, quindi si taglia i lunghi capelli da giovane, riceve la dote, si sposa e trasloca nell’abitazione degli uomini: egli è ormai entrato nella classe degli adulti. Da questo momento si nutre anche di vegetali. La sua vita scorre tranquilla. La sua occupazione è essenzialmente quella dell’allevamento; partecipa alla guerra solo occasionalmente come “soldato semplice”. Diverso e attualmente poco comune è il sistema di divisione in classi del secondo tipo, che vige in Africa Occidentale. Qui le classi d’età sono alla base del sistema delle leghe segrete: queste sono di grande importanza e sovente costituiscono il sistema statale nella sua funzione di organizzazione e guida, così che rispetto a loro il sistema organizzativo del villaggio assume una posizione secondaria. Le leghe segrete, che si manifestano attraverso mascheramenti, feste di inizio d’anno e di stagioni, danze, “orge”, che attraggono l’attenzione di molti ricercatori, presentano nella loro struttura notevoli differenze, ma tuttavia mostrano un senso interno unitario. Queste hanno le loro piante sacre, le loro sedi, le loro offerte sacrificali e i loro boschi sacri. Il cerimoniale è rigido e complesso, comunque presenta costanti nel modo in cui è messo in atto in situazioni normali come in straordinarie: Donne e bambini si collocano al di fuori della lega segreta. Non possono essere presenti dove di compiono riti; devono andarsene e rimanere nascosti dietro porte chiuse quando g mascherati appaiono per le strade del villaggio. Quando i fanciulli hanno raggiunto la maturità vengono sottoposti a un cerimoniale, che la letteratura generalmente qualifica come “iniziazione”. Sono condotti in un bosco, sono iniziati, vengono sottoposti a scene spaventose, trascorrono nella boscaglia un tempo più o meno lungo e prima dell’uscita dalla comunità della boscaglia e prima del ritorno nel loro villaggio ricevono tatuaggio, mutilazione dei denti, il taglio dei

capelli oppure il segno degli uomini della loro tribù. Sovente subiscono anche dei tagli. È ancora ampliamente diffusa l’idea che i giovani sottoposti al rito o inghiottiti dallo spirito della boscaglia, tornino a nascere. Alcuni viaggiatori e missionari hanno indagato sui “segreti” che verrebbero rivelati ai novizi nella boscaglia, sulle arti che essi apprenderebbero, nel presupposto che questa cerimonia comporti una iniziazione ai misteri della lega segreta. Ma tali ricerche non hanno prodotto risultati per il fatto che i ragazzi, attraverso la cerimonia, non vengono iniziati ma solo inseriti fra i giovani uomini che in futuro potranno prendere parte alle discussioni (riunioni della tribù in particolare per questioni di diritto e di trattati) e prendere la parola. Ora mostrerò quale ruolo svolgono questi giovani nelle riunioni degli uomini. La direzione effettiva della lega è affidata soprattutto agli “anziani”. Si tratta di uomini di circa trentacinque anni, che avendo un sufficiente numero di donne e figli abbastanza grandi, non si devono più occupare personalmente dell’agricoltura e della cura della casa: essi sono soprattutto ricchi d’esperienze di vita. Questi anziani sono i propriamente “iniziati”; essi preparano le maschere, regolano il tempo dei sacrifici, conoscono gli antichi costumi e usanze, il diritto di discendenza. Essi sono considerati equilibrati in quanto sostituiscono con decisioni meditate ogni esplosione temperamentale. Si è pensato che fossero affidate loro anche le decisioni concernenti problemi giuridici e amministrativi, nonché la pace e la guerra. Ma ciò si verifica solo nei casi in cui è fondamentale che ci siano decisioni segrete da parte della lega. Tale potere di tipo segreto e quindi dittatoriale da parte di queste società, esiste solo fra le tribù e le organizzazioni statali dell’Africa Occidentale, mentre le civiltà elevate lo presentano e lo tollerano solo nelle fasi più tarde, quelle del cesarismo. Tutte le organizzazioni tribali dell’Africa Occidentale forti per giovanile energia sono al contrario rette e amministrate da assemblee popolari, alla cui guida, come indicato, vi sono gli

anziani. Quando considero la lunga lista di assemblee africane che ho conosciuto direttamente e delle quali ho ben compreso il loro sviluppo, riscontro sempre un dato estremamente significativo che risulta sempre attuale: gli anziani sono coloro che conoscono il diritto, l’origine, lo sviluppo abituale degli eventi, le proprietà caratteriali e gli errori degli appartenenti alla tribù, che quindi hanno il compito specifico di sciogliere le matasse ingarbugliate. Per quanto concerne l’attività propriamente spirituale, in condizioni di sana e corretta gestione non hanno nessun potere. Questa spetta sempre ai giovani, dai venti ai trent’anni, o da venticinque a trentacinque. Spesso ho verificato che gli anziani nel volere qualche privilegio, qualcosa che facesse loro comodo, dichiaravano di voler seguire l’usanza, la tradizione, e che i giovani della seconda classe d’età si erano mostrati irrispettosi, presentandosi con qualcosa “di nuovo”, di “non lecito”, di “contrario alla tradizione. Ma questi giovani in maniera sbalorditiva ben conoscevano il loro punto debole sul quale insistere, sì che sovente, pur dopo una lunga lotta verbale, conseguivano la vittoria. In tali sfide l’antico sistema delle classi d’età entrava chiaramente in gioco. Involontariamente i giovani e gli anziani si complementavano, gli uni in quanto in possesso di un libero agire, gli altri come suoi ostinati pionieri, come portatori del vivo divenire contro la forma irrigidita. I giovani pertanto sono sempre eccitati, mentre gli anziani sono posati, e soprattutto intendono preservare la dignità della loro classe e non vogliono mai concedere ai giovani manifestazioni di trionfo per la loro vittoria, affinché costoro in nessun caso acquistino piena coscienza del proprio valore. Tutte le esperienze di questo tipo fanno sì che si riconosca nel sistema di classi d’età una elemento basilare delle costruzioni sociali; e di fatto non si tratta solo di una manifestazione dei costumi e degli usi del “tempo delle origini” (“Urzeit”); ad un attento esame si riscontra la sua medesima effettività in tutte le forme culturali e in ogni tempo, presso i Romani come presso gli Egizi. Il sistema delle classi d’età lo si ritrova in tutti i sistemi sociali nel corso della storia. Si comprende facilmente quanto sia importante che in uno Stato

siano la seconda o la terza classe d’età ad avere il potere, e che il destino di ogni Stato dipende dall’armonia delle funzioni, ossia dall’armonica convivenza delle due superiori classi d’età. Anche Heinrich Schurtz (1863-1903), mio successore nel settore della ricerca sulle società segrete, ha giustamente riconosciuto l’importante significato di questo dato e lo ha trattato con profondità nel suo lavoro Alterklasse und Männerbünde (Georg Remer Verlag, Berlin, 1902) Ma anche questa mente acuta non ha saputo liberarsi da alcuni vecchi punti di vista; anche per lui infatti la vita sessuale ha un ruolo fondamentale nella costituzione delle classi d’età. Egli parla di un «tentativo consapevolmente portato avanti», di un «… tentativo estremamente significativo e in certo grado efficace, di limitare il più possibile per una società i pericoli della vita sessuale». Egli scrive: «La divisione in tre classi d’età nella sua forma più semplice esprimerebbe il tentativo di fissare un tempo determinato per il piacere, per il libero sfogo, dopo il quale si impone la fase di vita più ordinata, quella matrimoniale con i suoi compiti, per un rapporto più stretto tra uomo e donna». In ogni caso per lo studioso «il senso e lo scopo fondamentale consiste nel regolare e arginare l’attività sessuale». Riprendo queste frasi alla lettera per mostrare che anche un pensatore di alto livello nell’ambito della storia dello sviluppo della vita culturale, non ha osato separarsi da concezioni finalistiche, materialistiche, dottrinarie de nostro tempo, mentre la mia concezione, che nasce dall’esperienza diretta di questa istituzione, è assolutamente opposta a quelle basate su di motivazioni finalistiche. Heinrich Schurtz nel suo studio ha fondato l’istituzione delle classi d’età essenzialmente sulla vita sessuale. Egli, fu tanto preso da questo elemento che tralasciò completamente il punto centrale di questa istituzione. Vale a dire il dato per cui la suddivisione per classi d’età nasce, come si vede dall’esempio africano, dalla difformità della vita spirituale nelle diverse età. Questi gradi dello spirito sono alla base del fenomeno e del suo formarsi; essi tra l’altro operano in tutti gli ambiti dell’agire: nella vita economica, in

quella familiare, in quella legale, nella lavorativa, nella vita dello Stato. È da considerare inoltre che il sistema di divisione per classi d’età, in quanto proprietà “dello spirito umano” e del suo sviluppo, non è sorto in una costruzione consapevole (secondo Schurtz, per “tentativo” o “scopo”), ma, come viene evidenziato dal fatto che il suo operare sia basato sulle discussioni, ha carattere progressivo, dinamico. Essa corrisponde al continuo trasformarsi della vita dello spirito, come avviene in ogni vita umana, che deve mettere assieme gli “uguali” che “si comprendono” per altezza e per natura. Il fatto che il sistema di classi d’età operi in tutti i tempi, in tutte le espressioni culturali e in tutti i luoghi nella stessa maniera, anche se in forme più o meno evidenti (da noi si trova nelle relazioni fra gli studenti, nelle società degli Stammtisch,5 nelle associazioni militari, etc.) stabilisce e dimostra che la costruzione dello spirito umano è sottoposta a una gradualità “regolata”, le cui forme naturali d’espressione sono le classi d’età. Già nei miei primi lavori relativi alla dottrina delle sfere culturali ho accennato al sistema basato dele classi d’età, che così come in ogni individuo, si ripropone in tutte le civiltà tradizionali. Mi sono pertanto proposto di studiare questa “struttura progressiva della vita spirituale” in base alla sua specificità. Poiché nella letteratura relativa a questa tematica non ho trovato lavori specifici, mi vedo costretto a utilizzare in questa esposizione una mia specifica nomenclatura. In sintesi, quel che segue non è altro che una elaborazione intuitiva della teoria del 1898; tutte le manifestazioni culturali sono concepite come forme espressive di un organismo autonomo. Questo organismo è la “civiltà”, della quale ho parlato già in precedenza, in quanto essa non è prodotta dall’uomo, ma soltanto “vive presso l’uomo”, “vive attraverso gli uomini”. La parola civiltà è stata utilizzata sulla base di molteplici significati, ma come si evince dalle conclusioni di questo lavoro (si veda cap.15), si è trattato di concezioni sempre troppo anguste e

5 Gruppi con interessi comuni che si riuniscono periodicamente attorno a un tavolo per discussioni conviviali. Letteralmente “tavolo fisso” (n.d.T.).

limitate. La sostituisco quindi con la parola derivante dal greco “paideuma”, dal significato più amplio, più profondo. Il paideuma ha come essenza autonoma la sua propria vita. Si manifesta per gradi, ossia in forma “intuitiva” nel contesto demonico dell’infanzia (vita culturale e spirituale dell’infanzia), quindi “idealistica” nel mondo ideale (vita culturale e spirituale della gioventù), ed alla fine “meccanicistica” nel mondo dei “fatti” (vita culturale e spirituale dell’età adulta). Il paideuma è organico, ma si trasforma nell’età senile in inorganico. Questi tre gradi costituiscono le suddivisioni del capitolo seguente. Attraverso lo stile di vita che caratterizza questi gradi, il demonico-creativo, l’ideal-entusiastico, e il realistico, così come per le loro tre espressioni (forza creativa, individualismo e coscienza intellettuale finalizzata) pur non arrivando ad una completa delucidazione, sarà tuttavia possibile comprenderne il senso, ossia concepire l’essenza del paideuma (o della civiltà) dei popoli, scoprire le singole fasi culturali nelle loro relazioni con una civiltà (o forma culturale) e riconoscere il divenire omologo del paideuma negli individui, nelle forme culturali e nei periodi culturali come base di uno sviluppo comune a tutte le civiltà.

7. Il Paideuma nel mondo demonico dell’infanzia

Uno studioso lavora alla sua scrivania: la sua bambina di cinque anni va in giro per la stanza; la bambina non è occupata in niente di particolare e disturba; il padre le dà tre fiammiferi consumati e le dice: “Gioca”. La bambina si adagia sul tappeto e gioca con i tre fiammiferi: Hansel, Greta e la strega. Va avanti a lungo col suo gioco. Lo studioso può lavorare indisturbato. All’improvviso la bambina grida sgomenta. Il padre le chiede: «Che è successo? Qualcosa ti ha colpito?». La bambina (molto impaurita): «Papà, papà, portati via la strega, non la voglio più toccare!».

Chiunque abbia capacità d’osservazione per simili fatti potrebbe addurre esempi simili accaduti nell’infanzia in ogni tempo ed in gran numero. Quel che il fatto ora riportato ha di così straordinario, è la forma eruttiva dell’emozione in connessione con l’attività individuale isolata. Questa esplosione mostra un processo che si è verificato nel mondo della rappresentazione e della conoscenza della bambina. Ciò comporta uno trasferimento di identità. Il fiammifero è divenuto una strega nella sua coscienza; solo così si può spiegare la sua esplosione emotiva. Pertanto la concezione del fiammifero come strega deve essere stata realizzata a un differente livello, che considero opposto a quello della consapevolezza, ossia sul piano dell’emozione. L’esplosione emotiva si individua qui come lo spontaneo spostamento di una rappresentazione dal piano dell’emozione a quello della consapevolezza dei sensi. Ma ancora: l’apparire dello scoppio emotivo indica chiaramente la conclusione di un processo animico. Il fiammifero non è la strega; persino per il bambino non è una strega: il processo consiste nel fatto che il fiammifero è divenuto una strega nell’ambito dell’emotività, e che la conclusione di questo processo esprime lo stesso significato del passaggio della rappresentazione all’ambito della consapevolezza. L’osservazione dell’evento rifiuta una prova basata su un pensiero consapevole, e solo successivamente, con il suo compimento si afferma la consapevolezza. Dal momento però che la rappresentazione esiste deve essersi formata. Il processo è essenzialmente creativo, in quanto mostra che nella bambina da un fiammifero può formarsi una strega. In sintesi: il divenire si realizza nell’ambito dell’emozione (parola che ha un altro significato rispetto a quello solito), l’essere sul piano della consapevolezza. Il paideuma qui, secondo la parola di Goethe del Wilhelm Meister, ha qualcosa di spiritico. Esso riempie il mondo infantile con demoni. Questi demoni (o la misteriosa spettralità del mondo dell’infanzia) sono le espressioni infantili del Paideuma, che corrispondono al divenire, e si presentano come fenomeno, incomprensibile per la riflessione umana (in quanto la riflessione si

realizza nell’ambito della consapevolezza e dell’intelletto), e si affermano al livello “più basso” della vita emotiva, e che solo con la conclusione del processo formativo entrano nella vita della consapevolezza. Il demonico è accessibile all’intelletto solo negli effetti. Anche per l’uomo adulto, che “cade nei demoni” nei momenti più alti dell’eccitazione religiosa e artistica, questo stato successivamente risulta incomprensibile. La realtà di questa condizione è così importante che in futuro ci si meraviglierà per quanta poca attenzione le sia stata dedicata sinora. Tale carenza si potrebbe forse spiegare solo per il fatto che tale condizione si presenta in forma sporadica e spontanea e interessa esclusivamente i bambini, le persone di genio e i popoli primitivi. Che significato hanno i momenti demonici? Si pensi solo al significato del fatto che il fiammifero per la bambine si sia trasformato in strega! Questo evento rappresenta la capacità creativa culturale o paideumatica in sé. Nessun adulto, nessun pur grande artista, nessuno studioso di grande livello sarà in grado di mostrare una tale forza fondamentale. E questo esempio non è isolato, tale creazione non è un fatto unico. Ancor più: nel bambino il paideuma produce tale attività creativa. Qui esso è la regola, nelle persone geniali – e geniale significa demonico – l’eccezione. (Volontà geniale in opposizione a volontà fattuale). Si dà a un bambino una bambola naturalistica, dalle sembianze umane anche nei particolari, e accanto un pezzo di legno malamente lavorato rivestito di stracci, e vedrete che mentre mette da parte la prima bambola, la seconda la tratta con tutto l’amore. Le raffigurazioni naturalistiche sono rifiutate dal bambino allo stato naturale; lui preferisce gomitoli, scatole di fiammiferi, pietre, oggetti qualunque, perché per lui sono materiali a partire dai quali opera con gioia il paideuma giovanile. La vita per il bambino è demonica, le sue forme espressive sono state sinora malamente spiegate come attività ludica, mentre rappresentano la creazione, la formazione, l’atto creativo in sé. Il paideuma infantile ha pertanto una durata e

una capacità di sviluppo tanto lunga quanto dura la sua capacità creativa. Significativo è il rapporto dei “demoni” con i “fatti” nel mondo del paideuma infantile. Anche il demonico per i bambini germina dai fatti. Questi però per il paideuma infantile forniscono solo il materiale col quale il bambino crea e costruisce, ed il limite entro il quale si produce il suo sviluppo. Ciò si verifica almeno nello stato naturale. Pertanto nel paideuma di un’età più cosciente il demonico, come mostrerò più avanti, è caratterizzato da un eccesso di elementi intellettuali prodotti artificialmente, cosa che inizialmente è prevalente, successivamente pressoché costante, mentre nell’ultimo stadio il demonico è quasi sempre soffocato sul nascere. Si può quindi dire che questa evoluzione ha come conseguenza soprattutto l’atrofizzarsi del demonico, che così spesso si associa al geniale. Nel corso naturale dell’esistenza infantile il demonico domina la realtà concreta del mondo e dà al bambino la sua materia. Con il maturare progressivo si riducono i momenti di genialità. Tali momenti si riducono ulteriormente, sino a che nell’età adulta, nel fenomeno della costruzione dell’io e nella figura dell’ideale, il loro esaurimento conduce all’ultima fase dello sviluppo paideumatico. Tuttavia così come nel bambino, anche nelle fasi successive della vita esistono i momenti geniali della creatività. Quante volte un musicista, un pensatore, un pittore, uno scultore “furono animati” da un grande dolore nella composizione della loro opera più significativa. Conosco personalmente un ingegnere che per dieci anni non riusciva a portare avanti la progettazione di una nuova macchina. Una mattina, dopo la morte della madre avvenuta la notte precedente, realizzò il disegno senza alcun intoppo. Questo motivo è così noto sin dai tempi più antichi, che lo ritroviamo in tantissime favole e racconti. L’elemento affettivo è un eccitante naturale che riesce a ridestar la genialità demonica. E sempre accade che quando la persona creativa non riesce a trarre da dentro di sé questa emozione, deve cercarla al di fuori. È questa la ragione per la quale uomini molto creativi hanno bisogno di una vita eccitante, cambiante, perché dai tanti cambiamenti della loro esistenza si

ridestano la loro emozioni, che rendono possibile il passaggio dall’ambito dell’emotività a quello della consapevolezza. Una superficiale considerazione è che la forza produttiva dipenda dall’elemento emotivo. Le capacità geniali come forme di vita del paideuma erano presenti prima dell’eccitazione – presenti nell’ambito del sentimento – mentre questa ha reso possibile il loro ingresso nell’ambito della coscienza. In tal modo la presenza della genialità si rivela in età avanzata così come nell’infanzia. Sino all’ingresso del secondo stadio (il demonico naturale) si manifesta in forma sporadica, spontanea e casuale. La spontaneità caratterizza i momenti geniali, che si manifestano in ogni età, tuttavia in tarda età sono meno visibili. Il demonico manifesta al contrario dei fatti ottenuti attraverso una concezione spirituale, la vita che si costruisce nel paideuma. Rappresenta l’espressione del divenire del paideuma, così come l’ideale e i fatti sono espressioni del divenuto. Per questo si identifica con la “vita”, con la pienezza della vita, mentre si oppone al “sapere”. Esso può ottenere, nell’entrare nella consapevolezza logica, una forma espressiva trasmissibile, tuttavia rimane pur sempre individuale e in senso proprio incomunicabile.

8. Il paideuma come l’ “Ideale” nella fanciullezza

Mostriamo ora un fatto in base al quale ciascuno può trarre una valida conferma dai propri ricordi. Un giovanetto fu educato dai suoi genitori come un bravo bambino, condusse la sua fase scolastica senza particolari stravaganze e raggiunse una condizione soddisfacente attorno all’inizio o alla metà dei vent’anni, rimanendo nell’ambito della normalità per quel che concerne la sua capacità intellettiva, l’aspetto pratico, i sentimenti, sì da rivelarsi un uomo affabile, tranquillo, gradevole. Sino a quel momento la sua vita

interiore rallegrava i suoi genitori. Il suo pensiero era saldamente borghese (nel caso in cui anche i suoi genitori fossero buoni impiegati) o persino fortemente conservatore e fedele alla monarchia (come accade in una famiglia di antica nobiltà), ed in ogni caso presenta il suo quadro corrisponde al paideuma del suo ambiente. La sua convinzione politica, la sua educazione, la sua conduzione di vita sin nei più piccoli dettagli sono un quadro speculare della sua educazione. Ma un giorno incontra una donna, che è più grande di lui. S’innamora: dichiara di non poter vivere senza questo essere. Ma per rendere ciò possibile si dovrebbero rompere tutte le convenzioni sociali, economiche, spirituali. O questa donna, o la sua vita ha perduto valore! Nessun consiglio, nessun ripensamento, nessuna logica possono ricondurre alla “ragione” un ragazzo che sino allora era stato così obbediente, sensato, equilibrato: tutti gli ammonimenti non hanno effetto. Dichiara di poter vivere una vita felice solo con quest’unica donna, per il resto non pensa al futuro, alla posizione sociale, al dolore dei genitori. Nella maggior parte dei casi, in maniera più o meno significativa, è la donna che svolge un ruolo decisivo. Conosco il caso di un giovane, profondamente religioso, in quanto figlio di un pastore, che divenne improvvisamente ateo, o quello del figlio di un impiegato fedele al re divenuto rivoluzionario. Le persone propendono ad attribuire la rottura del primo fidanzamento alla maturità sessuale, e spesso ho ascoltato da medici il seguente amichevole consiglio: «Mandi il giovane in una allegra compagnia femminile, nella quale si possa sfogare, allora l’innamoramento si esaurirà». Ho osservato vari casi simili. Nelle persone di forte carattere l’innamoramento individuale non aveva alcun effetto, e nel caso contrario, il giovane era in grado di opporsi all’impulso spirituale che sino allora lo aveva dominato. Questi casi mostrano chiaramente che parte della vita sessuale è data dall’eccitazione. L’essenziale è questa rottura, questo andare fuori dai confini soliti. La coppa si è rotta, il giovane si colloca rispetto alla sua esistenza precedente come un uomo maturo.

Si paragoni l’essenza di questo gruppo di giovani con quello di bambini, il cui paideuma poté creare una strega da un fiammifero, e si vede che alla fine dell’infanzia, con l’inizio della giovinezza, la forza creativa del paideuma e il demonico scambiano le loro posizioni, ossia per quanto concerne i dominanti fatti spirituali, i demoni divengono ideali. Gli ideali non sono più soltanto fatti spontanei, sporadici, privi di conseguenze; essi sono portati avanti in maniera logica e gli elementi che costituiscono una concezione del mondo, pur se ancora intuitivi, non sono stati tuttavia ordinati su base causale. Il demonico è pur sempre prodotto del mondo interiore; esso affetta oggetti sensitivamente percepiti ed appartiene a singoli demoni (i Romani chiamavano numen questa forza), perde la connessione consapevole-vivente ed offre una autonomia chiaramente sensitiva. Non è questo però l’essenziale. Perché il demonico nel bambino in base a tutta la sua natura è spontaneo e sporadico, per cui è sottoposto a un cambiamento costante senza inibizioni e senza essere sottoposto al giudizio dei sensi, il suo significato può non essere riposto nella realtà dello stesso fenomeno; il dato più importante consiste essenzialmente nella liberazione di dati sensibili del mondo esteriore per il conseguimento di elementi paideumatici, che però in quanto sporadici non hanno ancora nessuna consistenza. Da questi si sviluppano gli ideali, nel cui ambito gli elementi spirituali sono cresciuti all’interno del mondo della realtà, e si spiritualizzano; il che significa che l’uomo è divenuto ormai consapevole del proprio “io”, per il fatto che l’“io” si libera dalla struttura gruppale del “noi” e inizia una propria esistenza nella quale l’io del paideuma si oppone consapevolmente come“una unità”all’ “altra unità” che è quella del “mondo” (duplicità senza dualità). Questa liberazione, in quanto segno caratteristico delle manifestazioni giovanili, è il secondo fenomeno nello sviluppo del paideuma: quello dell’individualità. Da qui si comprenderà perché i Greci conoscevano solo il loro popolo e dovessero contrassegnare come barbari tutti quelli che

abitavano il mondo esterno. Ora si comprende anche perché sinora la “storia mondiale” potesse essere solo la storia e la preistoria del nostro paideuma occidentale, perché fosse considerata la unica grande storia del mondo degna di attenzione. È un sentire simile a quello del giovinetto, che nella fase di impeto emotivo riesce a vedere e riconoscere solo la propria sorte, mentre i genitori sino allora tanto amati, così come gli insegnanti e gli amici, sono considerati nemici. Gli ideali sono sorti come i demoni del bambino, ma differiscono da questi per il fatto che come elementi spirituali consapevoli sono portati avanti in una durevole relazione logica con il mondo dei fatti. Essi si formano assieme all’Io, e questo stesso Io costituisce il primo di tutti gli “Ideali”. Con gli ideali il Paideuma fa il suo ingresso nella vita della consapevolezza spirituale. Il suo attivarsi si realizza proprio in base alla forza dei demoni che li animano, e al radicarsi del senso della realtà dell’uomo adulto. In termini espliciti in tal modo si formano le “ideologie” come concetto. Anche le ideologie infatti hanno un’origine demonica, ma non hanno ideali. Al contrario i veri ideali di valore si evidenziano attraverso di queste, per il fatto che tra loro e i fatti reali del mondo vi è un’armonia, e che questa manifestazione paideumatica può essere portata con le esperienze della vita in un contesto efficace. Solo questo dato rende pertanto l’ideale in grado di fornire vita e forma; questo solo dà all’Io paideumatico il dominio sopra il mondo dei fatti: si potrebbe pertanto designare l’infantile-demonico come forza, e il sensitivo-spirituale come materia. L’esistenza degli ideali ha lo stesso significato della facoltà di creare civiltà, presupponendo che sono in grado di trasformare il mondo dei fatti in un’unità organica, ossia in un paideuma organico, ossia in un atto creativo il cui effetto si traduce col termine “stile”. Gli ideali appartengono a un periodo determinato e di breve durata della vita dell’uomo e di quella di un popolo. Nel loro impeto difronte alla vita si comportano come un Napoleone o Federico il Grande nei confronti dei loro popoli. Nel livello paideumatico delle

civiltà che si sono succedute sinora la loro presenza è apparsa limitata al periodo giovanile, sì che risulterebbero assenti nella vita adulta. Tuttavia conosciamo un gran numero di uomini geniali nella cui vita gli ideali rimangono vivi sino a tarda età. Sino a che dominano in maniera armonica il mondo dei fatti, essi rimangono vivi, ma sotto la massiccia crescita dei fatti razionali, delle esperienze pratiche, dei comportamenti finalistici, ossia di quel che si definisce oggi come intelligenza, si annientano.

9. Il Paideuma come i “fatti” nell’età dell’uomo

I “giovanetti impetuosi” si trasformano in uomini “assennati”, gli ideali in fatti. Gli ideali sorgono nella liberazione dell’Io, nella giustapposizione fra l’unità dell’Io e l’unità del mondo reale, ossia in uno scambio armonico. L’io si crea da sé il proprio mondo, dallo spazio vitale geografico si forma lo spazio paideumatico dell’anima. Gli ideali sono il loro stesso scopo; essi si ridestano da una coscienza esultante e primaverile dell’uomo, che si colloca al di furi del tempo e prova solo la grande gioia dell’esistenza, mentre non ha nessun presentimento della fugacità. Nella sua sporadicità e spontaneità, i demoni nel loro splendore lampeggiante sono senza tempo e senza spazio; essi rappresentano la vita nella consapevolezza, ma non l’esistenza nell’ambito della ragione. Gli ideali, al contrario dei demoni spontanei e sporadici, presentano una relazione durevole e progressiva con il mondo dei fatti, in quanto sono continuamente esposti alla loro influenza. Questo mondo dei fatti si sviluppa infatti in un costante scambio fra divenire, essere e trapassare. Gli ideali sono nel paideuma le forme manifeste dell’essere, si muovono pertanto ai confini del trapassare. Raggiunta infatti la forza completa del loro sviluppo, essi, in quanto consapevoli, devono rendersi conto della loro caducità; si mantiene però la preoccupazione di mantenerli in vita; cresce l’influsso del mondo dei fatti; il bisogno di mantenere la vita, sotto il peso della

preoccupazione, conduce alla raccolta razionale delle esperienze e all’osservazione del consapevole finalismo, ossia alla ragione. Dal timore autunnale del mantenimento della presenza dell’Io sorge come terzo fenomeno la causalità consapevole, e con ciò i “fatti” si affermano appieno nella loro più salda rigidità spirituale. Gli ideali erano scopo a sé stessi, i fatti hanno scopi materiali. Essi sorgono nello spirito e dallo spirito, e perciò questo fenomeno della causalità è incomparabilmente più leggero nel suo sorgere rispetto alla creatività geniale (demoni) e a quella dell’individualità dell’ideale personale. In primo piano si colloca quindi il fenomeno dell’unificazione della coscienza dell’io. L’io non rimane più in una opposizione ideale con il mondo delle cose, ma come “intelligenza” è parte dello stesso. I due raggiungono così uno stato di armonia. Quando nello stadio giovanile l’io paideumatico si contrappone al mondo dei fatti, allora il senso dell’io nella fase adulta, in una progressiva integrazione causale, va in direzione opposta. Ciò accade sulla via dell’incolonnamento sistematico delle esperienze. Nel corso di questa meccanizzazione pratica del mondo scompare l’intuizione, che viene sostituita dal sapere e dalla riflessione.

Gli ideali abbracciarono l’enormità di tutto il mondo della realtà, come controparte dell’io. I “fatti” abbracciano solo elementi singoli di un meccanismo mondiale e misurano in base a questi di caso in caso il proprio io. Dagli elementi singoli l’intelletto elabora una costruzione meschina, che in una valutazione esagerata chiama “il mondo della natura”, che considera come “vero”, “reale”. Per lui è valido solo quel che è causale. Egli non ambisce più alla grandezza titanica di un quadro del mondo fatto di splendenti ideali, in quanto dà importanza solo ai singoli elementi, utili e scientificamente provati, e che soprattutto hanno valore pratico. “Hanno valore”, è ciò che è importante. Su questa via l’ “io” si trasforma lentamente in un “per me”. L’ “io” dell’ideale era una forza, l’ “io” dei fatti è una misura di valore. L’io pertanto non si contrappone più al mondo dei fatti, ma è esso stesso un fatto e quindi come suo punto centrale, è una parte del

mondo dei fatti nel cui ambito tutto viene misurato e valutato: forza, spazio e tempo. Al posto dell’organico sentimento di forza entra la consapevolezza di una forza meccanica utilizzabile; al posto del sentimento dello spazio, uno spazio calcolabile razionalmente, e finalmente al posto dell’essere come sentimento di destino, il tempo misurabile con l’orologio. Il segno decisivo dei “fatti” nella loro oggettività è la causalità intellettuale, cresciuta sulla cura razionale6. In questo consiste il grave e costante errore cui occorre rimediare, per il quale la “necessità” è designata come “la fonte dei progressi della civiltà”. Certamente non è la necessità, per quanto sia primitivo l’uomo e per quanto siano grandi i suoi bisogni. Perché la cura che nasce dal bisogno sorge nel Paideuma sempre e soltanto da una visione fattuale, si colloca sempre e soltanto al confine della conoscenza della fugacità, ossia come frutto della causalità. Solo in connessione con la causalità intellettuale la cura può produrre una forza produttiva sul piano della ragione, ma senza questa coscienza finalistica rimane latente. La civiltà che progredisce esce dalla forma vitale giovanile, ossia dagli ideali. Intendo ora apportare degli esempi tratti dal taglio della legna e dall’aratura. Per quanto concerne queste “invenzioni” sino a poco tempo fa si è pensato che sarebbero state realizzate per necessità, sulla base di una coscienza finalistica. Ebbene, riscontrai l’usanza in una popolazione etiopica del Nord Camerun, una tribù Tschamba trasferitasi nelle montagne, di scendere in autunno nella pianura abbandonata per raccogliere i frutti del grano cresciuti selvaticamente. In primavera tornavano quindi indietro con un aratro di legno, praticavano delle buche nel campo e vi piantavano i semi raccolti in autunno. Era un sacrificio alla madre terra. Dai chicchi raccolti e bolliti si producevano solo piccole quantità di purea, una metà della quale era data agli spiriti degli antenati, l’altra metà alle donne; pertanto la purea era preparata essenzialmente per la rinascita dei morti che si trovavano in stretto

6 Per il termine tedesco Sorge utilizzo l’italiano „cura“, con cui si traduce l’omologa espressione heideggeriana.

rapporto con il grano. Veniva comunque raccolto anche il grano seminato precedentemente, ed era utilizzato da tutti. In questa ripartizione non c’era niente di sacro. Qui si colloca pertanto la nascita dell’agricoltura. Il primo momento era costituito chiaramente dalla raccolta del grano che cresceva selvaticamente. L’elemento ideale consisteva nell’usanza di darlo alla madre terra come segno di riconciliazione, sì che i suoi frutti, come segni di un’offerta sacra non andavano alla vita profana. Solo in un tempo successivo l’agricoltura assunse un carattere sempre più profano. L’usanza qui mostrata risale al tempo dell’aratura e prova che questa è sorta come ideale a partire da concezioni demoniche. Solo quando il principio di causalità legato alla necessità fece tramontare gli ideali, e i fatti connessi con il bisogno divennero dominanti nello spirito, si ebbe la valutazione pratica e finalistica dell’ “invenzione” dell’agricoltura come attività profana.

Questa osservazione risulta di grande interesse per il fatto che coincide con una ipotesi di Eduard Hahn7. Le ricerche di questo studioso riportano il sorgere dell’aratro e dell’aratura a una fonte mitologica; secondo queste ricerche le prime cerimonie concernenti l’aratura, in cui coincidevano l’aratro e il fallo, la “madre” terra era la beneficiaria dello sperma di un vitello. Ugualmente si deve considerare il sorgere del carro sulla base del simbolismo del movimento stellare; ciò vale anche per l’invenzione del fuoco, che i ricercatori naturalisti vogliono ricondurre a osservazioni naturali. (È stato osservato che originariamente la tecnica del fuoco fosse sorta allorché, allo scoppiare di una tempesta, si videro scintille scaturire dal passaggio violento del vento attraverso dei rami). Ugualmente la scrittura si sarebbe originata da rappresentazioni simboliche e da forme di proibizione come mezzo di comunicazione, inizialmente nello stadio della causalità e alla fine in un lungo sviluppo che non

7 Eduard Hahn (1856-1928), Die Entstehung des wirtschaftliahen Arbeit, Leipzig, 1908; Die Entstehung des Pflugkultur, Leipzig, 1909; Von der Hacke zum Pflug, Leipzig, 1914 (n.d.T.).

ha ancora niente a che fare con esperienze di comunicazione intellettuale. Sono tutte trasformazioni di ideali in fatti. I fatti sono ideali applicati intellettualmente. Attraverso una generalizzazione intellettuale e causale degli ideali sorgono i fatti; con ciò si passa dall’ambito dell’intelletto a quello della ragione. La “gioia per il fatto” si dissolve nella “necessità del lavoro”. L’io diviene parte legittima del mondo dei fatti, della natura, del popolo, dello Stato, oppure di una qualche comunità, che come tale, nella preoccupazione per il suo mantenimento, deve sostituire attraverso la formazione della massa la perdita di forza dell’ “Io” individuale. L’Io degli ideali era essenzialmente qualità; l’Io dei fatti è misura in senso quantitativo. I fatti ora non sono più peculiarità e proprietà dell’individuo, che l’accresciuta formazione del popolo si manifesti attraverso un senso personale o paideumatico. Questi sono un bene comune cui tutti partecipano, anche se il fenomeno è limitato e legato esclusivamente all’originario spazio vitale. Come l’albero cresce e fiorisce nel suo pezzo di terra, ossia al suo spazio vitale, i suoi frutti maturi percossi dal vento possono essere raccolti in spazi ampi. La cattedrale di Strasburgo poteva sorgere solo in Strasburgo, Hagia Sofia solo in Costantinopoli; un “edificio moderno in stile Rinascimento” lo si può “costruire” tanto al Polo Sud che nelle foreste vergini del Brasile. L’esistenza dei fatti è anche un meccanismo in cui la singola essenza prende il posto di un ingranaggio. I fatti sono quindi soltanto in maniera limitata legati al tempo e allo spazio, sono in certa misura escrementi del paideuma. Con ciò dipende il fatto che si possa distinguere il grano dalla gramigna e che il bambino appena nato si afferri immediatamente al seno della madre.

10. Estremi paideumatici

Fra gli insegnanti dei miei anni di studio ricordo in particolare due tipi profondamente opposti. Uno insegnava filosofia kantiana, l’altro era il professor Heusler di Basilea, che insegnava allo stesso tempo filosofia e storia della filosofia. Senza dubbio la quantità del materiale trattato dal docente che insegnava Kant era ben maggiore rispetto a quello trattato da Heusler; questa quantità di sapere giungeva però nello spirito dell’ascoltatore come una massa pesante e compressa. Non era questo invece il caso di Heusler. Nel suo caso dominava soprattutto il grandioso stato d’animo, e il suo argomentare era come una passeggiata notturna tra i lampi attraverso un ambiente montano; luci intermittenti illuminavano l’ambiente, qui la luce dei lampi rivelava una bella collina, là un gruppo oleografico di alberi, e nel mezzo una graziosa fattoria, e sullo sfondo apparivano imponenti cime montuose che improvvisamente balzavano fuori dalla notte oscura, sì che alla fine all’osservatore attento si rivelava l’immagine di un grandioso panorama composto in maniera armonica e organica. L’effetto delle due lezioni era naturalmente di tipo profondamente diverso. Da una traevo un chiaro e completo quaderno di appunti e ottenevo un sistema ordinato di conoscenze che mi avrebbe fatto superare l'esame agevolmente. Le lezioni del professor Husler invece non mostravano dati o nozioni di pratico utilizzo, tuttavia dopo ogni sua ora di lezione provavo un’emozione infinita cui si accompagnava un acuto impulso creativo. Ed oggi, dopo tanto tempo, ho perduto la mia bella conoscenza della filosofia kantian, ma non è diminuito il fuoco di Heuler, e il suo effetto durerà sino alla fine della mia vita. Ho portato quest’esempio per mostrare la grande differenza tra due tipi di influssi sulla nostra vita, uno geniale, l’altro pratico. Risulta chiaro che il conoscitore di Kant era un raccoglitore di dati, mentre Heusler era un creatore geniale, in quanto il primo sapeva, ordinava il sapere e lo riportava fedelmente, l’altro offriva la vivacità di qualcosa che egli aveva vissuto. Da ciò risulta evidente che un tipo di insegnamento comporta un effetto non duraturo, di

contro all’altro, il cui effetto è di lunga durata. Il sapere in sé, se non è alimentato da una costruzione spirituale, si perde nel corso della vita. Solo quando l’educazione dello spirito giovanile si trova in relazione con gli ideali, si produce una conoscenza profonda e durevole, uno sviluppo del paideuma. Con ciò nell’ambito del paideuma si propone la differenza tra organico e inorganico. La relazione fra i due stadi è determinante per la capacità di sviluppo e la forma di sviluppo dell’individuo. Nei prossimi capitoli mostrerò, per quanto concerne lo sviluppo paideumatico, come il paideuma giovanile nello suo sviluppo naturale assuma elementi inorganici automaticamente e in tal modo favorisce la sua capacità di crescita. Un esempio di ciò è dato dal bambino, che dà spontaneamente segni e suoni alle cose che egli scopre gradualmente. Qui il linguaggio come elemento inorganico è un mezzo, un arnese, un aiuto; se al contrario costringo un bambino a scomporre una frase in oggetto, soggetto e predicato, ottengo da lui un’utilizzazione finalistica della lingua, in cui il paideuma infantile non solo risulta superficiale, ma anche dannoso, perché va contro la sua natura, ed è qualcosa di estremamente pericoloso, in quanto impedisce il naturale sviluppo dell’anima infantile. Questa crescita ha luogo sul piano del sentimento; l’enorme peso di oggetti estranei conduce per lo meno a uno sviluppo precoce del paideuma al livello intellettuale, sì che in tal modo si allevano creature con corpi fragili e teste eccessivamente pesanti. Un simile peso può arrivare a un tale estremo che nel paideuma infantile tutto il demonico si assopisca troppo presto, cosa che tuttavia non impedisce che l’uomo che da prenderà corpo non divenga un utile elemento della società umana. Pertanto in forme culturali avanzate, particolarmente invecchiate, l’esigenza di intelligenza, cioè il senso della cose reali, è maggiore rispetto a quello per la genialità. Chi a partire dal 1914 ha osservato l’apparato amministrativo medioeuropeo riguardo al metodo di assegnazione delle cattedre universitarie, basato sul valore misurabile degli esami, ha dovuto riconoscere che il cammino della cultura europea si allontanava

sempre più dall’armonia paideumatica, in quanto rinunciava alla genialità paideumatica della giovinezza in favore dell’intelligenza matura dell’età adulta. Il “tranquillo” impiegato fu preferito alla persona piena di spirito, il professore adattato alla risciacquatura sistematica della sua materia semestrale, al geniale combattente dello spirito e costruttore di anime. La quantità di esami richiedeva anzitutto un cumulo di nozioni e soltanto un sapere da rimasticare, ma non poteva riguardare in nessun modo la capacità di organizzarlo attraverso un sapere vissuto. Dal contesto di quanto sinora mostrato deriva che le classi di anziani delle culture primitive corrispondono a un grado naturale e spontaneo del paideuma, in quanto vanno dal demonico infantile, all’ideale giovanile, ai “fatti” dell’età adulta. Si ha così una struttura tripartita i cui elementi si organizzano tra loro nella maniera migliore. Nelle culture primitive gli uomini di ugual livello paideumatico sono generalmente coetanei. Nelle culture più elevate ciò non accade. In queste ci sono due elementi di sviluppo che mancano ai primitivi, il “bambino prodigio” e il “genio”. Il primo si identifica con il “precoce” inserimento dell’ideale giovanile nell’esistenza infantile; il secondo del prolungarsi dell’ideale giovanile nell’età adulta e nell’età matura, nella quale secondo il corso normale i “fatti” hanno assunto da tempo egemonia e predominio. Pertanto il ricercatore deve comprendere, che l’omogeneità paideumatica nei primitivi è più strettamente legata all’uguaglianza, che non negli esponenti delle civiltà più elevate. Nelle nostre banche siedono direttori giovani accanto ad anziani, giovani ingegneri lavorano in grandi fabbriche assieme ad ingegneri anziani. Mentre invece difficilmente vengono riconosciuti e inseriti i giovani talenti fra artisti e studiosi, e ancor più fra gli impiegati raramente si ha un loro riconoscimento e una loro collocazione; il che deriva dal fatto che la vita moderna si basa sull’intelligenza, pertanto inconciliabile con un sistema basato sulle classi d’età. Sistema che invece potrebbe affermarsi anche da noie se le classi d’età assumessero un medesimo

valore etico, e la nostra epoca non avesse preso a modello della vita sociale gli ingranaggi della macchina. Questo allontanamento dallo sviluppo paideumatico mostra però da un lato che le culture più elevate liberano il paideuma individuale, la personalità, dal legame con una classe d’età, e d’altro canto che questa liberazione potrebbe risultare attualmente ancor più evidente e apparire nel suo pieno significato, se si potesse abbattere la tirannia intellettuale del nostro secolo meccanicistico. Osservando l’ampio orizzonte delle civiltà, notiamo che queste si dividono in gruppi: quello delle civiltà primitive, il cui paideuma non può assolutamente raggiungere il livello del mondo dei puri fatti (da ciò la “estinzione dei popoli primitivi”); quello delle culture monumentali, alle quali noi stessi apparteniamo, e che si caratterizzano per la liberazione del paideuma individuale, della personalità, dal destino del paideuma comune, e quindi della separazione dei livelli personali di vita da quelli della comune classe d’età. Con tale presupposto considereremo la forma della civiltà del futuro non ancora realizzata (cap. 14).

11. Sviluppo del paideuma

Chi si muove in regioni lontane, in particolare attraverso i caravanserragli e i bazar di città orientali, come Costantinopoli, Alessandria, Tunisi, Algeri, e il suo sguardo si sofferma sui mezzi di intrattenimento dei bambini, si renderà conto che bambini di 5, 6 anni padroneggiano con leggerezza tre, quattro e anche più lingue, e passano con facilità dall’una all’altra. Alla base di questa osservazione si è dedotto che le razze orientali hanno una propensione nell’apprendimento delle lingue maggiore rispetto alle occidentali. Una ricerca fra questi bambini d’estrazione popolare dimostra la insostenibilità di questa spiegazione; infatti anche bambini italiani, spagnoli, maltesi, francesi e nordici, ne ho trovato

parecchi che a questa età conoscono varie lingue e in ciò non sono da meno degli Orientali. Ciò si osserva anche in altri ambiti. In Svizzera, in area di confine delle aree di lingua italiana, tedesca e francese, moltissimi bambini parlano le tre lingue. Lo stesso accade in Olanda e in Belgio, e ancor più in molte zone dell’Africa Occidentale. La seguente osservazione mostra come effettivamente questa capacità sia peculiare di una determinata età: a Dresda avevo una collega studentessa di origine tedesca nata in Inghilterra. Era vissuta sino a cinque anni in Inghilterra e ivi aveva appreso solo la lingua inglese. Poi era venuta in Germania e qui era vissuta sino a 17 anni. A questa età aveva dimenticato la lingua della sua terra natale e della sua infanzia, aveva imparato francese, latino e greco, e all’età di 24 anni incominciò a studiare daccapo l’inglese. Fu per lei un’impresa imparare quel che da bambina aveva appreso senza alcuno sforzo. La sua pronunzia era cattiva e non riusciva a costruire correttamente la frase in inglese. È ben noto che ogni bambino, che sin dall’infanzia ha al suo fianco una madre tedesca, una balia inglese e una tutrice francese, apprende le tre lingue giocando, se queste persone parlano sempre la loro lingua materna. Si tratta di una capacità del paideuma infantile che si estingue con la maturità. A questo punto si presenta una domanda. Per prima cosa, come si deve intendere il senso della lingua del bambino? Secondo, come si può spiegare la morte di questa capacità in età adulta? Per rispondere alle due domande è necessario essere chiaro sulla condizione del linguaggio o meglio sul rapporto del linguaggio col paideuma. Prima ho mostrato che gli ideali si sviluppano nell’ambito dell’emotività e poi passano nell’ambito della consapevolezza, in quanto i fatti si sviluppano nella consapevolezza e si riconoscono nell’ambito dell’intelletto. In relazione a ciò posso solo dire che il demonico si sviluppa nell’ambito dell’emotività senza alcuna relazione con altre forme espressive, e neppure con il linguaggio. L’uomo realmente creatore, creatore nella scienza o nell’arte (che solo nelle espressioni sono indipendenti, mentre presentano unità nel

senso interno paideumatico) sa che ogni nuova creazione originariamente sorge al di là del linguaggio. Sa quanto sia difficile condurre la creazione nella forma del linguaggio, sì da farne partecipi gli altri, così come capita al musicista, che sente qualcosa bollire nel suo interno, urgere e agitarsi, ma che tuttavia non riesce a esprimere in forma oggettiva. Ciò è assolutamente naturale. Quindi, come detto, questi eventi si svolgono in maniera istintiva, nell’ambito dei sentimenti, e solo mediante la coscienza questo scoppio di emozioni si trasforma in suoni e tonalità. Che, in quanto espressioni emotive, sono solo suoni e tonalità inorganiche, prive di significato, non ancora suoni organico-musicali e tantomeno connessioni sonore con significato. Il paideuma genial-infantile, la creatività demonica, si sviluppano in forma indipendente rispetto all’ambito formale del linguaggio, ed il parlare, valido così come ogni altra forma di comunicazione sensibile, è un nuovo bene culturale acquisito, che come ogni altro si sviluppa in tre fasi, la variabilità spontanea e sporadica, l’organicità armonica e la meccanica inorganica. Questi tre stadi riguardano tutte le lingue. Negli stadi più antichi si ha la grande variabilità dei suoni (lingue caratterizzate dall’altezza dei suoni, come le lingue sudanesi). Successivamente si passa al più ampio ambito formale della grammatica e della sintassi, che rappresenta una forma d’impoverimento rispetto all’aspetto originale. Ciò si osserva fra gli antichi Egizi, fra i Greci, e fatto molto particolare, nello sviluppo del moderno inglese e francese. Le lingue incominciano quindi con suoni, che sorgono come esternazioni primitive, attraverso lo spostamento dal piano emotivo a quello razionale. Questa sarebbe l’età infantile della costruzione del linguaggio. Segue, al livello dell’ideale, la variabilità organica della più grande pienezza formale. Al terzo livello il linguaggio è divenuto un mezzo meccanico, che va esclusivamente nella direzione dell’uso pratico-intellettuale. La vita interiore del nostro mondo infantile si sviluppa dunque senza relazione col linguaggio e il linguaggio conduce un’esistenza inanimata. La vita del bambino si serve del parlare, non della lingua,

e non esiste ancora una vita della lingua che si serva dell’emotività infantile. Molto chiaramente ciò appare anche nello sviluppo dell’arte poetica. L’opera poetica primitiva, come quella degli Ottentotto, come i versi infantili dei popoli nordici, mostra una grande somma di quadri o di oggetti tra loro ordinati, al di sotto dei quali germina un senso, un qualcosa di vivo, che prende vita solo nel sentimento del semplice poeta o cantore, e non in lavori linguisticamente articolati. Il senso in sé, che non ha niente a che fare con il “contenuto”, quale substrato artistico di una “forma”, in questo caso è più essenziale dell’espressione. L’immagine musicale è l’espressione della vita sonora del bambino, che successivamente si rende comprensibile in allitterazioni e rime. In maniera opposta si forma la poesia di un artista moderno: che si esprima in ricadute ataviche come la trascendenza mistica o con il dadaismo, ciascuna unità del movimento emotivo si mostra e si fissa in forma linguistica. Con ciò il livello dei “fatti” si presenta anche attraverso l’utilizzazione del linguaggio. Il linguaggio è diventato un bene meccanico per una utilizzazione meccanica. Fra i due estremi si colloca la poesia organica, la vera grande poesia dei periodi monumentali. L’utilizzazione del linguaggio mostra dunque come si sia sviluppato come pura convenzione esteriore, a partire da ripetizioni a mo’ di eco di varianti sonore sorte dall’ambito dell’emotività. Non le lingue, ma un piacere sonoro è alla base dell’utilizzazione della voce. A questo livello dell’operare mano il parlare non è assolutamente un fatto consapevole e non è un processo che possa essere compreso attraverso i mezzi di cui si serve. Esso tocca l’orecchio del bambino come il cigolare di una porta, come il grido di un uccello, come i rumori e i suoni della vita naturale e culturale, che sono in rapporto col mondo intuitivo dell’esperienza paideumatica, e che gradualmente vengono trasmessi al bambino, ma non vengono restituiti, perché l’organo della voce umana non è adatto a ciò, in quanto essa può essere ripetuta solo con uno sforzo consapevole. Come un bambino senza dover prestare attenzione

apprende una quantità infinita di ritmi e suoni della natura che lo circonda, così può apprendere senza rendersene conto molte lingue che vengono parlate nel suo ambiente. Qui ci si rende conto come ci sia una differenza essenziale ma naturale fra i semplici popoli africani e gli evoluti Europei. Il bambino negro anzitutto “scopre” una persona, poi utilizza per questa un nome sonoro; dapprima "scopre” di adempiere alla necessità, al bisogno, e solo successivamente utilizza designazioni onomatopeiche. La scoperta parte inizialmente dal suono, poi talvolta si comprende in maniera assolutamente chiara che questi primi suoni sorgono da espressioni affettive, che sovente accompagnano il passaggio dal piano del sentimento a quello della consapevolezza. (cap.7, p.60). La grande forza vitale ed espressiva del linguaggio del bambino, oggettivamente limitata, anche se sovente sottostimata, non si spiega per il fatto che gli organi non siano ancora preparati, ma deriva dallo stato creativo, che significa “la scoperta”. Nell’età “infantile” il bambino scopre spontaneamente l’ambiente – è questo il corrispondente sviluppo creativo del demonico che corrisponde alla crescita spirituale. Al contrario il parlare e la lingua sono solo conseguenze. Ciò significa che lo scoprire riempie l’intero essere desto8; il parlare sorge inconsapevolmente e spontaneamente. Ogni scoperta che segue l’eccitazione affettiva è così forte che involontariamente crea differenti designazioni da diversi ambiti espressivi (lingue). L’effetto eco viene immediatamente ostacolato dalla trasposizione della reazione in forma linguistica. Principio che non vale assolutamente per i primitivi. (In proposito si consideri il soggettivismo paideumatico esposto nei capitoli 10 e 13). Ciò vale per il periodo di tempo nel quale il paideuma opera nell’ambito dell’emotività in maniera creativa con la scoperta dell’ambiente. Con la prima utilizzazione delle parole, padre, madre etc., l’espressione linguistica non ha niente a che fare con la consapevolezza. In età più matura al contrario, la consapevolezza si 8 Il termine Wachsein è particolarmente significativo nell’analisi spengleriana, ed ha carattere negativo in quanto espressione di un atteggiamento razionalista non in grado di penetrare l’Essere (Sein) nella sua spontaneità vitale (n. d. T.).

muove, in base al paideuma, dall’oggetto della lingua alla specifica espressione linguistica. La leva della “scoperta” prosegue nel suo effetto. Alla fine la coscienza dell’oggetto si traduce nella consapevolezza dell’espressione linguistica. Quando l’uomo apprende una nuova lingua in età avanzata, non deve acquisire coscienza delle nuove designazioni linguistiche. La persona conosce già le cose in un’altra lingua. Deve pertanto apprendere le parole tecnicamente e non può fare altro che tradurre, ossia sentire e pensare in una o più lingue quel che ha appreso nella sua infanzia, e quando vuole apprendere altre lingue, egli può farlo solo nell’ambito della ristretta consapevolezza della natura. Sino a che le lingue come insieme di suoni, e senza esigenza di consapevolezza del parlare attuano in maniera viva nell’ambito del paideuma infantile, scorrono in maniera fluida. Ma allorché si rende presente la coscienza verbale, il paideuma è sparito e si deve realizzare una correlazione fra senso e lingua (consapevolezza dell’oggetto stesso e consapevolezza del nome dell’oggetto), al posto dello stato di scoperta entra un lavoro di relazione. Il linguaggio è quindi qualcosa che proviene da fuori, qualcosa di “ereditato” da fuori, che deve essere posto in armonia nell’ambito dell’intimo essere paideumatico, con quel che è stato precedentemente vissuto e con il consapevole sapere attuale. Gli ambiti nei quali il paideuma ideale si traduce in forme comunicabili, sono: musica, arti plastiche, architettura, poesia e filosofia. A queste, sulla base di quanto è stato dimostrato, si dovrà aggiungere in futuro anche il linguaggio. In base alle osservazioni relative ai bambini, il linguaggio, come incarnazione sensitiva, come simbolizzazione di ideali, deve essere passato dalla vita sonora dell’emozione, alla vita organica della lingua, nell’ambito della consapevolezza: è questa la ragione per la quale fra i primitivi linguaggi sonori, musicali e i “decadenti” linguaggi commerciali, si trovano infiniti linguaggi completi ben articolati. L’Occidente attuale non è in grado di conoscere appieno questo alto significato del linguaggio, in quanto la sua lingua è divenuta un bene puramente meccanico. Ma ciò significa che un tempo la lingua, come oggi

accade per la vera opera d’arte, era fine a se stesso, che allora esistevano costruzioni e forme artistiche del linguaggio, che rappresentavano per gli uomini quel che attualmente può essere la poesia di Eschilo, un quadro di Raffaello, una fuga di Bach. Un tempo il linguaggio ed il parlare erano qualcosa di sacro, al loro interno dimorava la divinità. Adesso il linguaggio è diventato un mezzo meccanico, che viene insegnato ai bambini dei popoli civilizzati solo in questa forma. Una simile trasformazione si rivela in tutti gli ambiti della civiltà. Karl Bücher9 pensa in maniera puramente meccanica con le sue dimostrazioni materialistiche riguardo all’origine dei canti di lavoro. Ma nessun “lavoro” è “originario”. Tutto inizia con l’atto della creazione. Per dirlo più chiaramente, tutte le nostre creazioni nascono un sentimento profondo, intimo: così sorse il canto. Tutto ciò che oggi è designato come lavoro ha un’origine demonica, è sorto dalla profondità della vita interna ed è entrato nella vita con la stessa commozione con la quale si manifesta una produzione musicale o plastica (si veda quel che è stato scritto precedentemente attorno all’attività agricola). Per tutti i tipi di sentimenti paideumatico-creativi vi è una sola espressione, che è degna di essere utilizzata; è la parola: sacro! Bisogna considerare l’intima solennità con la quale un bambino compie i suoi primi disegni di sabbia, con la quale costruisce i suoi primi attrezzi, con cui ripete continuamente le sue prime parole, soprattutto nel suo primo gioco con fuoco e acqua. E queste caratteristiche che si rivelano nell’anima di un individuo appartengono alla vita intima originaria di tutte le civiltà. Il loro sviluppo risulta pertanto coincidente. Il effetti Preyer10, dopo molte osservazioni ha dimostrato che i bambini al medesimo livello di sviluppo presentano le stesse espressioni del paideuma. Nella sua dimostrazione ha preso in considerazione esclusivamente l’utilizzazione del suono e dell’eco, sino alla costruzione della prima fissazione degli oggetti, ma si è 9 Karl Bücher (1847-1930), Arbeit und Rhythmus, Teubner, 1899 (n. d. T.)10 William Thierry Preyer (1841-1897), Die Seele des Kindes: Beobachtungen über die geistige Entwicklung des Menschen in den ersten Lebensjahren, Leipzig, Grieben, 1882.

fermato alla soglia dell’essenza: si è dovuto fermare in quanto in Occidente oggi i bambini sono in grado di assumere solo limitati elementi spirituali, sono “educati” a questa condizione, sì che sono invasi dai fatti. Il che significa che non c’è più nessuna possibilità per l’affermazione di uno sviluppo naturale del paideuma infantile. Tuttavia, anche se il libero sviluppo dell’anima del bambino è divenuto impossibile nel nostro tempo, è tuttavia possibile riconoscere una chiara sequenza graduale, che corrisponde allo sviluppo del linguaggio e va dall’incosciente costruzione dei suoni infantili, che designa come oggetti le impressioni riconosciute, sino al lavoro intellettuale del tardo apprendimento di una lingua straniera. Come un bambino ripete in sé la storia sintetica di un linguaggio, così la storia della civiltà ripropone in una significativa sequenza, il senso crescente per il costruire, per il gioco con fuoco e acqua, per la danza, il canto, il disegno etc, ma con una differenza: quel che nel paideuma comune è sorto spontaneamente, nel paideuma individuale infantile soltanto è rinato; esso vive nell’anima del bambino come eredità del passato; è divenuto mezzo dello sviluppo. È questo che si intendeva dire con l’espressione che i “fatti” si ereditano. Si tratta di una quantità infinita di elementi singoli che, se espressa in forma a tutti comprensibile, viene intesa come tesoro di fatti ereditabile. Il pulcino, che scappa fuori dal guscio dell’uovo e corre attorno cercando alimento, dal primo sguardo può distinguere il tipo di grano. Il bambino appena nato spontaneamente prende come fonte di nutrimento il seno della madre. D’altro canto mostrerò nel capitolo 12. che anche il senso dello spazio si eredita, per il fatto che l’Ebreo animicamente orientale, come Spinoza, ancor oggi vive la consapevolezza della caverna che si pone come opposto al senso dello spazio aperto.

Questo è quanto sul fenomeno dello sviluppo paideumatico. Il suo significato è di sì grande portata che, se lo si sarà compreso e assimilato, l’educazione del bambino dovrebbe assumere una radicale trasformazione. Ma intanto continuiamo ad istruire i nostri

bambini in base al principio dei fatti, e i nostri insegnanti sono costretti, con la logica, la grammatica e il sapere meccanico, a uccidere il loro senso del mondo infantil-demonico, a soffocare geni in bocciolo e ad allevare anime di anziani in corpi di bambini. Per questo motivo mi sono soffermato con attenzione sullo sviluppo del linguaggio e sul talento dei bambini nell’apprendimento delle lingue. Ho sperimentato personalmente che una bambina di sei anni dovette imparare a scrivere la parola “asino” (Esel) scrivendo tre righi di e, tre di s, tre di e, e tre di l. La bambina venne da mi e mi chiese che relazione avessero la E della testa, la l della coda, con s ed e che costituivano il corpo dell’asino. Successivamente una insegnante alla quale raccontai il fatto, rispose: “Non pensavo che la bambina fosse così stupida”. Il fatto che il bambino sperimenti in maniera sintetica e simbolica (simbolica è sintesi), non è chiaro agli insegnanti, ma lo è sufficientemente a tutti coloro che si occupano della scuola. Quanti insegnanti si sono lamentati di “dover istruire” dei poveri alunni a loro affidati. In effetti è una costrizione, un duro esercizio, insegnare al bambino soggetto, oggetto, predicato, sì da deformare il paideuma sintetico in un processo analitico. È pertanto singolare che i bambini a scuola dopo anni di lezioni di lingue, persino nelle ore di conversazione debbano apprendere l’impiego di una lingua alla cui comprensione hanno lavorato faticosamente per tanto tempo. Non si capisce inoltre perché la lezione di disegno sovente ancora oggi venga impartita in età avanzata. Ogni mamma sa che un bambino all’età di cinque anni sente la necessità di concepire immagini e disegnare. La mamma sa bene inoltre che il bambino cerca di sperimentare le attività di casa “giocando”. Prima ho mostrato che i bambini propendono alla conoscenza di molte lingue, mentre in età adulta è più difficile l’apprendimento linguistico. Ovviamente sarebbe una follia pensare che nella condizione attuale si possa avere un rapido cambiamento, in quanto il nostro secolo è meccanicistico, e lo Stato come i genitori spingono affinché i giovani assumano ben presto una posizione di prestigio nella

società. Dalla fanciullezza in poi, il bambino è oggetto di questa causalità razionale. Essa è il prodotto del meccanicismo! Con qyeste considerazioni non intendo realizzare un cambiamento. Non rappresentano una critica verso la condizione attuale, ma aspirano a una apertura alla comprensione di questa condizione.

Ogni giorno ci avviciniamo a una maggiore comprensione di questo stato di fatto. Ho richiamato in vita la dottrina delle sfere culturali, ho mostrato che antiche forme culturali oggi sono ancora vive, sono presenti, e che sono in relazione tra loro. La dottrina delle sfere culturali è basata sulla diffusione geografica delle antiche forme culturali. La dimostrazione di questa concezione è il compito dello studio di questa disposizione orizzontale. Ora urge lo studio dei rapporti verticali, ossia di una sequenzialità graduale. Non si tratta solo di sostituire la diffusione e l’essenza delle forme culturali dei primitivi con un’espressione che chiariremo successivamente, ma di comprendere i periodi tettonici, ossia di riconosce la sequenza dei suoi strati. I ritrovamenti preistorici, che furono prodotti in Europa, Africa e Asia Minore, e che sono stati rinvenuti in uno strato ben determinato, dimostrano che ancor oggi le loro tracce, collocate ai margini dell’antico ecumene e delle zone ecumeniche, sono vive. Dallo strato in cui si trovano è possibile stabilire la sequenza dello sviluppo paideumatico originario delle forme vive prodotte ai margini dell’ecumene nelle loro varietà.

La dottrina delle sfere culturali ben approfondita è in grado di comporre in poche decine d’anni un albero genealogico delle forme culturali nel loro complesso, o individualmente, cioè una storia del loro sviluppo paideumatico. Sarà dunque possibile comprendere tutte le forme espressive del paideuma nella loro intima composizione. Una volta compiuto questo lavoro, l’umanità avrà guadagnato un grande mezzo per liberarsi dal peso di una realtà meccanica, che ora grava sulle sue spalle.

L’umanità futura farà in modo che il paideuma infantile si sviluppi nelle vite dei singoli nella stessa maniera, nella medesima sequenza, nello stesso ritmo, con cui il paideuma comune si è affermato nei vari stadi. In termini chiari, l’educazione paideumatica prenderà il posto dell’ammaestramento meccanicistico. Termino con una citazione di Goethe, che dimostra come naturalmente questo pensiero fondamentale, quale grande ideologia, già appariva all’inizio del XIX secolo, ossia prima di Darwin e della “scoperta” della legge fondamentale della biogenetica. “Anche se il mondo progredisce nel suo insieme, la gioventù deve sempre iniziare da lontano e deve percorrere come individuo le epoche della civiltà del mondo”

III Il paideuma dei popoli

12. Spazio dell’anima e spazio della vita (Oriente e Occidente)

Coloro che si sono dedicati alla storia dell’architettura e all’origine delle forme edificatorie, hanno notato che ci sono due sistemi differenti per determinare l’inizio. Si parla di interno e di esterno. Riguardo alle strutture interne le forme stilistiche sono concepite come insieme, per cui gli edifici si sviluppano in forma chiusa attorno a un cortile, mentre gli edifici dell’altro gruppo stilistico si collocano come massa compatta al centro di un ampio cortile. Qui in Europa, dove, a causa del clima, la vita negli edifici tende ad avere una sua autonomia, le forme oggi presenti difficilmente si possono riportare alla loro origine. Al contrario, in un paese come l’Africa, nel quale l’uomo cerca lo spazio interno solo quando è costretto da particolari situazioni climatiche, le

differenti forme edificatorie si possono riportare facilmente alla loro origine. Notiamo inoltre che questa essenza della costruzione, interna o esterna, non è altro che un ampliamento delle forme della casa, le cui radici possono essere riportate sino all’enorme profondità della visione paideumatica originaria. Per quanto concerne la forma della sua casa di coloro che vivono in zone desertiche, esiste una chiara divergenza fra gli abitanti delle regioni del nord e quelli del sud, terre fertili e ricche di pioggia. Perciò anche qui possiamo distinguere l’affermazione e il mescolarsi, nel corso dello sviluppo storico, dei due diversi flussi sistemici, ma ugualmente non possiamo ignorare il motivo abitativo originario che corrisponde allo spazio desertico e all’area occupata da oasi. L’uomo del deserto vive in tenda. Gli storici dell’arte sono sempre caduti nell’errore di considerare la tenda una forma originaria di abitazione. Chi invece ha avuto dimestichezza con la mentalità di queste genti, sa che ai nomadi, pur nella loro diversità, tale concezione è assolutamente incomprensibile. Per questa gente vi è solo un principio: “Vivere all’aria aperta” e “vivere in casa”. È indifferente per il nomade se di notte ha o non ha sulla sua testa una tenda. Si sente sotto la tenda come all’aria aperta, come se il cielo stellato fosse il suo tetto. La tenda per lui non è altro che un vestito, ed io ho ascoltato l’espressione “vestito di famiglia” nei canti dei Mauri. Alla tenda corrisponde il luogo dove essa si pianta. Le tende vengono collocate in un circolo, e la vita si svolge nel mezzo di questo circolo. Ho raccontato alcune esperienze singolari da me vissute parlando con l’esponente principale dei Mauri a Niaminia (cfr, cap.4). Il tipo dichiarò molto chiaramente che esisteva solo una casa le cui mura erano il cielo. Chiamò questa casa una caverna. Per lui tutto il mondo era una caverna, il cui suolo era la terra e la cui pareti, il cielo; al di là non c’era niente. L’opposto capita con i contadini che vivono presso il Niger e i monti dell’Atlante. Qui si vive in una casa. La vita quotidiana si svolge nello spazio attorno alla casa, e così in certa misura la parte

esterna è una sorta di espansione della casa. Da tale dato derivava la concezione di quel Diarra che dichiarò: il giovane Gana fu trasferito nella casa e poi uscì nel mondo. E lì in qualche parte del mondo nasceva la sua sorte; egli doveva realizzare il suo destino, e pertanto nel corso di tutta la sua vita andò per il mondo, combatté e cercò. Egli del resto poteva andare quanto voleva, perché il mondo non ha fine (cap.4, p.40). Sono queste le opposizioni della coscienza paideumatica dello spazio. Qui l’Occidente, là l’Oriente. Le terre d’Oriente vivono in una caverna del mondo. L’Oriente non conosce un di fuori. La sua tenda non è un interno, ma un leggero tramezzo che lo avvolge come un vestito. Al contrario l’Occidentale vive in una casa. Gli corrisponde un senso dell’interno, a partire dal quale poté poi sviluppare un senso dell’esterno. Questa realtà esterna è uno spazio senza fine. È il mondo in tutta la sua ampiezza. È ben possibile individuare due stili architettonici in base ai due sentimenti del mondo. In Africa il sentimento della grotta corrisponde all’accampamento arabo, alla costruzione impluviale atlantica; in Europa alla costruzione a volta etrusca; in Asia alla basilica, che si sviluppa a partire da una costruzione centrale, la cui cupola per Spengler non è altro che una sovrapposizione della volta celeste che incombe sul cortile interno. Si contrappongono a queste forme stilistiche, la costruzione a cellula berbera, il castello etiopico, il castello sul Reno e il duomo gotico, quali architetture che esprimono il senso della distanza. In verità nell’attuale contrapposizione fra la concezione della caverna e quella dello spazio aperto, si evidenzia uno sviluppo originario. Anche il senso dell’io dell’essere umano ha il suo limite. Il paideuma ripete questo limite e lo afferma nello spazio abitato. L’essere umano visse inizialmente all’aperto, e per questo il cielo costituiva il limite del suo io. Si può anche dire che il limite del suo io fu riproposto attraverso la volta celeste. Sorgeva allora la concezione della caverna. Per superarla dovette accadere che sorgesse la casa, l’ ”abitazione” chiusa. Solo allora il paideuma poté sviluppare, in opposizione al sentimento dell’interno da parte

dell’abitante della casa, il sentimento dell’esterno. Solo allora poté sorgere il sentimento del mondo in tutta la sua ampiezza, corrispondente allo spirito faustiano indicato da Spengler. Le due grandi concezioni del mondo si sono espresse da allora in una costante interazione. La concezione occidentale della distanza fu portata dalla sua patria sino ai confini dell’Oriente. Dal contatto fra i due sentimenti sorsero le civiltà monumentali. Pertanto il mondo classico è una grandiosa forma primitivo-naif del paideuma nordico, quello egizio si sviluppa a partire dall’oasi, il gotico una elevazione a una forma superiore. E in base a un movimento opposto, come dimostra Spengler, le fuoriuscite del paideuma orientale verso le aree culturali occidentali, diedero origine inizialmente al cristianesimo germanico, e poi in una nuova fase, al Rinascimento. Quando queste espressioni paideumatiche non si comprendono tra loro, ovvero si odiano, si tratta di un odio tra fratelli. In ogni caso si ha una chiara differenziazione fra i due gruppi umani, l’occidentale e l’orientale. Gli uni vivono nella paura costante e sotto la pressione della rappresentazione di un essere chiuso nello spazio (come i Francesi, vedi cap.4, p.43); gli altri nella nostalgia di raggiungere ciò che è distante e nel timore di non poter forse esaurire quel senso di infinito. Lo spazio vitale naturale (si veda il prossimo capitolo) esercita un influsso significativo sulla forma vitale e sulla forza vitale del paideuma, e con ciò anche sul sentimento dello spazio dell’anima. La forza vitale del demonico che vive della distanza, di ciò che è geniale in senso proprio, muore con la rinuncia allo spazio vitale sconfinato (costruzioni coloniali), ma non solo. Come indicato in precedenza, ciò accade anche con la trasformazione del paesaggio abitato, ma anche con la volontaria limitazione dello spazio vitale, ossia con la costruzione metropolitana. La grande città significa la morte per tutto ciò che è geniale, che si vuole realizzare appieno per il libero sviluppo del sentimento dello spazio. Quel che è grande fenomeno della vita paideumatica in questa realtà, ovviamente, cessa, perché questo senso di chiusura determina in molti aspetti la morte del sentimento dello spazio aperto.

Gli uomini percepiscono chiaramente questa rottura. Il fatto che il proletariato della grande città si raggruppi in una cinta periferica attorno a un mare di case, che il cittadino benestante trascorra ogni anno alcune settimane nella natura, lontano dalla città, e l’Inglese, abitante della grande, città trascorra i cuoi fine settimane nel suo cottage, esprimono bisogni che non solo l’Orientale, ma anche il Francese non conosce, esprime le ultime forme di resistenza dinanzi al tramonto del senso dello spazio. Se poi le famiglie delle metropoli si estinguono dopo poche generazioni, è dovuto all’estinzione della condizione originaria del paideumatico. Il paideuma è legato in forma immanente alla vita umana, sì che una morte del senso dello spazio paideumatico ha come conseguenza anche il tramonto dell’uomo stesso. Queste due forme del sentimento dello spazio, quello della distanza e quello della caverna, posseggono innumerevoli possibilità d’espressione, nelle quali non si perde tuttavia la specificità della loro struttura. Si può dire che il puro Orientale può raggiungere un’assoluta percezione della caverna. Spengler dimostra in certo modo questo principio attraverso le figure dei due grandi ebrei come Spinoza ed Herzt, ai quali è rimasto inaccessibile il mondo dello spirito faustiano. Lo spirito orientale è presente anche nei Francesi (si veda Prussianesimo e socialismo)11

Queste mie conclusioni risultano effettive anche in ambito africano. Il paideuma costituisce razze. Esso spinge l’uomo nel suo binario, lo domina in maniera così completa che nessuno può deviare dal suo percorso, in quanto l’uomo, pur se vive per generazioni nell’ambito di un paideuma diverso, può svilupparsi solo secondo i modi del suo paideuma innato. Il paideuma condiziona la razza. Chi ha viaggiato in Oriente o ci è vissuto, conosce l’estrema gentilezza del “tratto” di quei popoli; chi ha studiato i costumi degli Arabi, conosce il nobile senso cavalleresco che li caratterizza. Queste sono manifestazioni che da noi, puri Iperborei, mancano, e la cui sporadica presenza è dovuta a flussi

11 0. Spengler, Preussentum und Sozialismus, München, 1919, ed. Ital. Prussianesimo e socialismo, trad. C. Sandrelli, Padova, Edizioni di Ar, 1994. (n.d.t.).

immigratori orientali in Europa occidentale, come ad esempio è accaduto con i Francesi originari. Diversamente da noi, nell’arte poetica orientale si ha l’assoluta mancanza di uno sviluppo dei caratteri. In tutti i racconti delle Mille e una notte appare solo un carattere, il cambiamento spirituale di un uomo, non diversamente di come si evidenzia nel Vecchio Testamento, in Corneille o Racine. Ivi manca la figura di un eroe, che costruisce da sé il suo destino. Al contrario l’epica cavalleresca dell’arco del Niger, mostra lo sviluppo di Samba Kulung, il folle (caratterialmente simile al tedesco Michel, all’ingenuità del giovane Parsifal e di Simplicissimus12), mentre i canti mostrano eccezionali caratteri femminili, come nella beffa, quello della moglie di Sirani Korro Samba, e le loro storie contengono anche un’idea di destino. In ciò si rivela un netto contrasto: da un lato l’azzardo, magia, cieca casualità, dall’altro, libera volontà e personalità. Presso il Niger ho identificato una frontiera paideumatica fra Oriente e Occidente. Il senso della caverna, in base alla coscienza di uno spazio chiuso, conduce necessariamente al senso del fato. Il mondo si presenta come una pesante volta sugli esseri umani; la più lugubre religione degli Etruschi, le continue condanne e punizioni di Jehovah, la rappresentazione della caverna come la riproduzione dell’aldilà e del mondo sotterraneo, la paura dell’anima di Pascal, gli impeti dolorosi dei Francesi verso la revanche, sono determinati dal sentimento della caverna, sono le forme in cui si manifesta, in base al senso della caverna, la loro eterna mancanza di apertura. Tutto è stretto, ammassato, in senso temporale come spaziale, nel suo spazio; tutto appare misurato, raffinato, dal tatto elegante, sì che il tatto delle forme comuni si affina sempre di più. Sì che in queste condizioni caratteri dallo stile grandioso sotto il peso del fato non possono svilupparsi. Gli uomini di questo paideuma scivolano via come sassi nel letto del fiume; cristalli spigolosi qui non ci possono essere.

12 Protagonista di Der abenteuerliche SimplicissimusTeutsch, romanzo di Hans Jakob Christoffel von Grimmelshausen (1869): considerato la prima narrazione d’avventura in lingua tedesca (n.d.t.).

Solo l’uomo dell’ampio spazio, del concetto di infinito e del mistero di un ambiente sconosciuto, che deposita enigmi (conosce l’Orientale enigmi originari?) può vincere il destino con la propria determinazione. Solo chi si colloca al di là del qui e dell’ora può guadagnarsi un proprio destino e andare incontro a un futuro aperto. Soltanto costui può pervenire a uno sviluppo autonomo individuale (il mondo classico); solo nel suo ambito si può avere la conquista di un aldilà migliore (l’antico Egitto, ma lì, al limite vicino dell’Oriente che viveva sempre più sotto l’oppressione dell’angoscia). Solo costui può alla fine vincere il fato minaccioso (cristianesimo germanico, Parsifal); solo costui può presentare uno sviluppo caratteriale (Shakespeare, Goethe). Ciò deriva dalle due forme spaziali dei due sentimenti del mondo, sì che ora diremo in breve come lo spazio vitale geografico agisce sullo sviluppo del sistema sociale. Il regno Gana presenta una dinastia di 74 re prima dell’arrivo dei Fulbe, e di 44 a partire dal loro arrivo, avvenuto attorno al 300 d. C., sino all’XI secolo. Da tale calcolo risulta che il regno Gana, situato presso il Niger, esisteva prima dell’espansione romana nel mondo. Dalle rivelazioni di Erodoto potremmo sapere qualcosa sull’esistenza di questo regno, ma nessun Romano ne ha mai parlato, e lo storico greco lo avrebbe fatto se ci fosse stata ancora una relazione fra il Mediterraneo e questa terra lontana, che mostrava un significativo sviluppo culturale. Diciamo inoltre che questa civiltà deve essere sorta sotto l’influsso del paideuma occidentale. Il tramonto di questa civiltà è dovuto all’Islam e alla sua espansione meccanicistica sulle terre del Mali. La grande città di Niami Mba, che in questa fase di tramonto meccanicistico aveva circa un milione di abitanti, rappresenta oggi un chiaro sintomo di un esaurimento culturale. La sua gloriosa epica e la struttura sociale, così come alcuni elementi architettonici, sono prodotti della vita spirituale di quel popolo. Qui appare chiaro che dopo il fiorire di questo paideuma autonomo è seguita una fase di decadenza dovuta alla spinta di

ondate migratorie nuove, più giovani, in stretta relazione vitale con la grande forma dell’Islam. Un’altra forma culturale autonoma si sviluppo nell’impero Ba-Kuba. Anche qui possiamo verificare un influsso occidentale e una decadenza, e infine un tramonto sotto l’influsso Ba-Luba. La cultura egizia sorge in un completo isolamento; tuttavia dai resti archeologici dell’Asia Occidentale e della Tripolitania, in riferimento a questa fase appaiono lacune periodiche. Il fatto è che dopo la calata degli Hyksos si produsse un’ininterrotta relazione con il mondo esterno. Anche l’antica Grecia si formò a partire da una chiusura originaria, sino a che, dopo le guerre persiane seguì la aperta e meccanicistica cultura alessandrina. La civiltà euroccidentale alla fine riemerge con il gotico, a partire dal suo isolamento seguito alla fase neolitica, e cade nel meccanicismo con la sua espansione nell’ampia regione del mondo. Pertanto la chiusura dello spazio vitale geografico, della terra madre di una civiltà, costituisce il presupposto del suo sorgere pideumatico. Il paideuma rimane però infruttuoso e privo di forma se all’interno di quest’ambito chiuso non si verifica una fecondazione. Per quanto concerne il Cristianesimo, questo cadde come frutto ultimo e più maturo dall’albero della civiltà orientale, in quanto ultima “formula magica” dell’accentuato sentimento della caverna. Su questa stessa terra madre, dove nel medesimo tempo il nucleo culturale persiano aveva ottenuto il dominio del mondo, non esprime una forza propria, ma vive e si rafforza attraverso il paideuma materno dell’Occidente, che ora, condotto dal più forte sentimento della distanza, che si presente attraverso la civiltà germanico-cristiana, si sviluppa a dismisura nel secolo del gotico. Ciò vale anche per la civiltà egizia. Nella più oscura preistoria, dal sentimento della distanza euroccidentale, giunse nella valle del Nilo attraverso cammini segreti sull’Africa Occidentale quel germe dal quale si sviluppò la sua ferrea potenza. Ma lo spazio sul quale stende la sua ombra una civiltà di alto livello e pienamente matura, viene da questa assorbito. Lo spazio raccoglie in germe tutta la sua forza, e questo accade in una

concentrazione meccanica su tutta la terra, su terre già inaridite, su terre fertili, su terre vergini. E con ciò sono tornato ai concetti espressi inizialmente. Una ricerca approssimativa sulle civiltà monumentali d’ambito europeo mostrerà che la fecondazione paterna e il concepimento materno, in maniera più o meno evidente, rispondono ai due sentimenti originali dello spazio: qui il paideuma della distanza, là il paideuma della caverna, sentimenti che mutano nella loro funzione, a seconda di chi dà e chi riceve. Oriente e Occidente non si possono concepire l’uno senza l’altro, entrambe manifestazioni primordiali, entrambe non dissociabili dallo spazio terreno che li generò, ma entrambe sterili, sino a che l’altra non le introdusse il germe di una paideuma maturato meccanicamente.

13. Lo spazio vitale (L’ambiente)

Nel passo ben noto nel quale Spengler mostra la comune terra d’origine del contrappunto, della pittura ad olio e dello stile gotico, parla di “un ultimo segreto di tutta l’umanità: il legame dell’anima con la madre terra, dalla quale si originano e alla quale si rifanno tutti i miti”. Questo concetto suscita la domanda relativa al rapporto fra il sentimento dello spazio e il proprio spazio vitale, ossia fra l’ambiente paideumatico e le differenti forme di vita. Goethe si è espresso a lungo sul significato dello spazio vitale, dell’ambiente paideumatico. Infatti dice: “Da questo principio deriva che il mondo vegetale di una regione ha esercitato un influsso sul carattere dei suoi abitanti. Questo è assolutamente certo. Chi è circondato nel corso della sua vita da grevi querce, dovrebbe diventare un uomo diverso rispetto a chi ogni giorno vive tra ariose betulle. Non si può pensare che gli uomini in generale non abbiano una natura sensibile, che non cambino e che non subiscano violenza dagli influssi esterni. Mentre è certo che oltre all’elemento congenito

della razza, anche territorio e clima esercitano la loro influenza, così come alimentazione e attività, per determinare il carattere di un popolo” In un altro passo, al margine di una natura libera, guardando nella lontananza verso un bel paesaggio, dichiara: “Qui l’uomo si sente grande e libero come la natura grandiosa che ha davanti, e come dovrebbe sempre essere” E in un terzo passo, dice: “Tutti i tipi di comodità sono contrari alla mia natura. Nella mia stanza non ci sono poltrone; io mi siedo sempre sulla mia vecchia sedia di legno e solo da alcune settimane ho un tipo di appoggio per la testa. Un ambiente caratterizzato da mobili comodi, eleganti, ostacola i miei pensieri e mi trasporta in uno stato di comoda passività. Considerato che sin dalla gioventù si assumono abitudini, le stanze sontuose con mobili eleganti sono per persone che non hanno e non possono elaborare pensieri profondi” Goethe mostra qui tre differenti punti di vista. Il primo riguarda l’influsso del paesaggio sullo sviluppo dei popoli; il secondo concerne la sua personale disposizione animica; il terzo finalmente concerne l’influsso esercitato dallo spazio sulla capacità creativa. In prima istanza si tratta della costruzione del paideuma, in seconda istanza della sua espressione, vale a dire rispettivamente della forza educatrice della pienezza delle forme sull’individuo, e della chiusura dell’individuo alla facilitazione del lavoro creativo. Detto con mie parole: il significato dell’ambiente in prima istanza concerne il demonico, in seconda l’ideale. “L’aria frizzante dei liberi campi rappresenta la condizione ideale alla quale apparteniamo; è come se lo spirito di Dio soffiasse direttamente sugli uomini e una forza divina si esercitasse su di loro” – dice Goethe, e con ciò stabilisce l’influsso della natura sulle propensioni artistiche dell’uomo sin dall’infanzia dinanzi alla natura che lo circonda. Il bambino sin dalla più tenera età fa le sue prime scoperte; può vedere un oggetto luccicante, astrarlo dall’ambiente circostante per evidenziarlo, per poi comprenderlo. All’inizio del linguaggio egli mostra ai suoi amici ogni cosa che gli è intorno con il noto “avere, avere”, espressione caratteristica che ho trovato nei

linguaggi di alcuni popoli africani. Ciò potrebbe apparire come se l’attività di appropriazione fosse la prima fonte dello sviluppo paideumatico. Pertanto un senso di possesso si rivela nella prime forme di denominazione. Una angosciosa sequenza di costumi ed usi, a partire dalle primitive forme di denominazione, espresse in formule magiche e maledizioni, sino alle alte forme di conoscenza scientifica e di saggezza filosofica, mostra che una forza comune produce un ininterrotto rapporto col principio di quel “avere, avere” iniziale, sì che tutte le conquiste culturali appaiono alla fine come il risultato di una nefasta appropriazione. Questa forza resse il mondo umano a partire dalla costituzione dell’Io; il che, espresso in termine fisico, rappresenta la forma centripeta dello sviluppo paideumatico, che designo come soggettivismo paideumatico. Contro questa forza opera un’altra tendenza vitale, che è centrifuga. È comunemente noto che la pratica ininterrotta di un lavoro trasforma l’uomo tipicizzandolo. Ricordo il tipo del calzolaio, al quale la burla degli studenti, sulla base di una profonda saggezza, oppone il tipo del sarto. Ciò vuol dire che l’oggetto, che sia ambiente o lavoro, esercita un potere fondamentale. Da questo punto di vista è ben possibile parlare della forza di possesso di ogni oggetto e del suo profondo effetto sul soggetto. Definisco questa tendenza come oggettivismo paideumatico. Per chiarire meglio i due concetti basilari porto un esempio: il contrasto tra un bosco naturale ubicato in montagna e un bosco piantato dall’uomo in pianura. Nel bosco naturale vivono le piante che nascono dal terreno, sterpi e cespugli, il sottobosco selvatico, alberi caduti, rami secchi, una grande varietà di piante di diversa età che destano involontariamente la sensazione del nascere e morire. Si evidenzia in esso il forte contrasto tra la luce e l’oscurità, fra il divenire e il divenuto. Ben diverso è il bosco ben curato della pianura, col suo terreno mantenuto pulito, liscio, con le chiome degli alberi curate, i tronchi dritti, la crescita simmetrica, la mancanza di ogni marciume! Tale quadro corrisponde alla descrizione di una persona di cui si esprime solo lode, e nei confronto della quale non si può

pronunciare alcun rilievo, non si può trovare nessuna macchia nella sua vita. Una escursione attraverso il tipico bosco di pini della Marca brandeburghese ha un effetto convincente in tal senso. Chi ha osservato giornalmente la pseudonatura della massa umana della grande città, avrà visto come in tale ambiente, un pino, che sia nodoso o ricurvo, desta una comune attenzione. Ebbene, colo che vivono nell’ambiente naturale si sentono vicini alla forma espressa da questa realtà e la vivono in modo piacevole; gli altri, al contrario percepiscono la regola artificiale come ovvietà e la loro attenzione si desta solo con impressioni dall’impatto enorme. I primi vivono l’esperienza del mondo dei fatti, gli altri si limitano alla conoscenza. Nei primi la realtà della natura accentua il tu, ossia l’oggettivismo paideumatico, negli altri è accentuato l’io, il soggettivismo paideumatico. Simili differenze nel rapporto fra l’io e lo spazio vitale valgono per tutti i popoli, primitivi e civilizzati. Si verificano cioè le due opposizioni. Non ho mai sentito parlare un contadino degli altopiani della Germania, se non motivato dal “mondo della civiltà”, della bellezza delle sue montagne e dei suoi boschi. Nella guerra vidi però alcuni che piangevano come bambini per la nostalgia delle loro montagne. Le persone erano e rimangono estranee al loro nuovo ambiente. La loro vita spirituale era divenuta oggetto del potere del paesaggio natale. Al contrario si sa che i cittadini che in primavera cercano la riviera, in estate il Mar del Nord, in inverno vanno verso le montagne innevate, e soprattutto che sono in grado di riconoscere tali bellezze, analizzarle e spiegarle. Sì che i primi esempi mostrano la forza di possesso dell’oggetto, gli ultimi mostrano la forza di possesso del paideuma consapevole. In questo senso l’utilizzazione del linguaggio ha diviso gli uomini fra persone di “natura”, di “temperamento” demonico, geniale, ed esseri di “cervello”, concretezza, razionalità. È dunque del tutto chiaro il perché Goethe si affidasse alla natura per lo sviluppo del suo temperamento e invece si chiudesse in uno spazio severo per lo sviluppo del suo lavoro spirituale.

In Africa questa opposizione nella sua forma primitiva si può osservare ancor oggi. Ogni componente della piccola tribù etiopica conosce soltanto il suolo della sua regione; solo pochi se ne sono allontanati per alcuni chilometri. Ogni individuo si realizza esclusivamente nell’ambito della natura circostante, come viene evidenziato dal fatto che su ogni blocco di pietra, ogni piccolo corso d’acqua, ogni albero, qual che sia la sua dimensione, ogni collina, ricevono offerte rituali. Questi popoli non sono ancora in grado di spiegare su base causale tali usanze. Non ci sono ancora miti. Ma è ovvio che nel momento in cui queste tribù entrano spiritualmente nello stadio dell’ideale, dovrebbero sorgere immediatamente elaborazioni mitiche. I presupposti sono comunque presenti. Le rappresentazioni mitiche sorgono sotto l’influsso della natura soggettiva come oggettivismo paideumatico. Il processo dell’effettiva costruzione dei miti lo chiarirei con l’esempio del bambino, che fa sorgere una strega da un fiammifero, sì che la forma vitale del paideuma deve essere presente immediatamente prima della costruzione del mito attraverso l’essere demonico, da cui deriva il carattere illogico, privo di senso dei miti originari. Solo nello stadio ideale della giovinezza possono sorgere cosmogonie e cosmologie, e non, come si è sovente concluso erroneamente, al contrario.

14. Forme e periodi

Con alcuni esempi ho indicato le differenze tra gli Africani in ambito poetico. Mi riferisco al canto di dolore di Benalulu, poi al significato del Dialli Karongo di Segu sul sorgere dei canti, in fine all’introduzione al racconto del cieco (cfr. Schwarze Seelen). Ribadisco che nonostante l’attento studio che ho effettuato nel nord, nel sud, ad ovest e ad est del continente, ho conosciuto solo poche popolazioni in cui si avevano nuove elaborazioni poetiche. Nel corso degli anni ho ascoltato migliaia di favole, racconti, leggende, storie, canti e ne ho registrate ben più di mille, fra i quali vi è la serie di

piccoli e grandi racconti che costituisce una vera letteratura e la cui analisi mostra il medesimo risultato: le poche tribù con la facoltà di comporre qualcosa di nuovo rappresentano oggi un’eccezione rispetto alle centinaia di popolazioni e migliaia di tribù la cui arte poetica è rimasta completamente immobile. Questa mia verifica evidenzia che non vi è una “propensione speciale” alla poesia da parte di queste popolazioni, bensì che questa è solo una delle tante forme espressive in piena fioritura: il che costituisce una eccezione nei confronti degli alti popoli africani. Ciò lo si verifica facilmente con i Bena Lulua (cfr. cap.3). Questi hanno sviluppato anche una “nuova religione”, il culto Riamba. Hanno sviluppato inoltre un nuovo ornamento tribale; essi apparvero ai loro scopritori, i miei predecessori Pogge e Wissman negli anni Ottanta, come un popolo assolutamente unico. Ed è ancora presente quel che questi ricercatori verificarono fra gli antichi Ba-Shilange e gli attuali Bena Lulua. La loro specificità consiste nella costante capacità di divertirsi, che mutuarono dagli Europei sin dai più densi boschi primordiali, attraverso le diverse tribù di cannibali; inoltre, sebbene non abbiano effettuato alcun viaggio per mare, decisero senza grossi indugi di condurre la gigantesca ondata Kassai nello scuro mondo dell’ignoto. Se si dovesse ipotizzare che saltuariamente le popolazioni dell’Africa orientale e una volta anche quelle dell’Africa occidentale, abbiano ricevuto i medesimo influssi, si deve ammettere che queste tribù costiere dovettero essere state riscattate da un’esistenza non libera e parzialmente nomade, mentre per i Ba-Schilange-Benalulua, la scelta di una piena condizione stanziale fu del tutto volontaria e spontanea. È stato un raro caso fortunato che si siano potute conoscere le condizioni in cui si formò questa civiltà. Nella costa occidentale il racconto dell’uomo bianco ebbe come conseguenza un attento e silenzioso ascolto, al quale seguì lo scoppio sbalorditivo del primo colpo di fucile nella vicina foresta. Ed alla fine l’apparizione degli stessi Europei! Quando gli antichi ne parlavano gli luccicavano gli occhi. Era chiaro che, pur riconosciuta come qualcosa di normale la presenza degli Europei e delle loro armi, non si poté cancellare

l’impressione iniziale della meraviglia, che un tempo aveva illuminato come qualcosa di decisivo le anime di questi uomini. L’avvento della vita straniera aveva portato con sé una profonda commozione. Voglio riproporre gli eventi nella loro sequenza e nel loro significato. Ancora alla metà del secolo passato i Ba-Schilange-Bena Lulua si trovavano incuneati tra popolazioni straniere. Al nord gli autoritari Ba-Kuba, ad oriente i violenti Ba-Songe, a ovest gli ostili Ba-Pende, a sud-ovest i primitivi Ba-Kete, a sud-est i forti Ba-Luba, con i quali i Ba-Schilange erano apparentati linguisticamente, ma dai quali si erano distaccati per mescolarsi con una popolazione ivi residente da lungo tempo. La commistione con questo popolo avvenne silenziosamente. Il ricordo e la consapevolezza di quel tempo per i Ba-Schilange-Bena Lulua hanno carattere fantasioso, oscuro: si tratta di un tempo del quale non si dice nulla. Un ricordo vago concerne l’immigrazione e la separazione dai Ba-Luba. Mentre per la fase successiva, per il tempo dell’assoluto isolamento sino al primo contatto con la costa occidentale, manca ogni ricordo. I Ba-Schilange-Bena Lulua sanno soltanto che la terra era “stretta” e che non c’era alcuna attività, “che ogni giorno era uguale all’altro”. Ma ecco che arriva la prima fase consapevole. Un giorno si produce una profonda commozione. Il primo elemento narrativo arriva nel paese, si diffonde la notizia di una popolazione bianca “che vive in una grande acqua dell’Occidente”; il primo colpo d’arma cade nei mondi del margine occidentale e con questo colpo viene abbattuto un elefante gigantesco che sino allora era considerato invincibile. Una tensione straordinaria, la possibilità soppianta l’antica impossibilità e con questo si supera l’antico scetticismo. Il vecchio consigliere del principe Katende evidenziò il fenomeno con queste parole: «Da quel momento sapemmo che eravamo divenuti qualcosa di diverso da quel che eravamo, che la nostra era divenuta una vita diversa rispetto alla nostra vita». Il tipo di ornamento, il culto Riamba, l’arte poetica, alcuni elementi del loro carattere vennero alla luce. Si ebbe un vero sconvolgimento, sorse e si sviluppò un paideuma demonico.

Il quadro qui delineato corrisponde sin nei particolari a quel che accade nell’individuo col passaggio dalla fase del demonico a quella degli ideali. In un popolo il paideuma mostra i medesimi fenomeni, nella medesima progressione: la formazione del demonico nella barbarie, dell’ideale nella civiltà, la costituzione dei fatti nella meccanizzazione corrispondono rispettivamente al paideuma infantile, giovanile e virile dell’individuo. Spengler nella sua morfologia della storia mondiale ha sviluppato uno straordinario sapere relativo a una fisiognomica organica della storia delle civiltà. Il suo campo è una complessiva “storia delle civiltà”, che ha inizio con gli Egizi e termina con gli Occidentali d’oggi e del prossimo futuro, che io in maniera simile considero come periodo di formazione. Spengler ha pienamente analizzato questo lasso temporale di sviluppo paideumatico, e basandosi su lavori miei e d’altri studiosi ha portato ad effettivo compimento intuizioni formulate negli ultimi decenni. Ma Spengler13 si occupa soltanto delle forme e dei tempi delle culture monumentali o giovanili, perciò non presta attenzione alle forme culturali primitive del mondo. Il paideuma dell’uomo primordiale per lui è un caos (p.410), l’età della pietra priva di stile (p.275), l’ambiente dell’uomo primitivo privo di fisiognomica (p.243) e senza ordine causale (p.171), ai popoli primitivi manca “l’organismo mitico” (p.56). Soprattutto Spengler si limita al dato per il quale l’immagine dell’uomo dell’età della pietra presenta una propensione all’imitazione (p.263). Il che significa che il fenomeno della nascita del demonico gli rimane precluso. L’incipit della Vita Nova di Dante vale anche per Spengler per il momento della costruzione dell’io nell’ambito della vita dell’ideale giovanile, ossia delle cultura popolare monumentale consapevole, e solo per questa! È giusto, ogni cultura ha il suo linguaggio! (p.249) e il nostro tempo mostra che quel che vale è solo la monumentalità, o, detto in maniera più chiara: vi è più facilmente accessibile. La medesima diversificazione che dovettero fare i Greci considerando

13 Le citazioni di Frobenius relative a Der Untergang des Abendlandes si riferiscono all’edizione Beck, München, 1923.

sé stessi come unità contro tutti gli atri popoli, i barbari, fa sì che Spengler si dedichi ad analizzare le differenze fra le forme culturali. Non è pertanto in grado di aprirsi al fenomeno dell’intuizione. A questo quadro di sviluppo delle civiltà monumentali contrappongo l’esempio di un popolo primitivo, i Bena Lulua. Qui abbiamo una forma di civiltà “primitiva”, che all’interno del suo sviluppo mostra uno stadio giovanile. Sono vissuto a lungo fra e con i Bena Lulua per poter dire che il loro stile di vita è particolare; sarà però impossibile descrivere il loro paideuma come si può fare con i popoli del mondo antico od occidentali. No hanno la monumentalità del dramma greco o del duomo gotico. Devo pertanto rivolgermi ad altre forme espressive. Oltre il Sudan, tra il Niger e il Nilo, sono dislocate centinaia di tribù diverse. Chi si dedica allo studio della loro specificità paideumatica, in particolare delle tribù della regione degli Haussa, che hanno specifica attinenza col nostro discorso, si imbatte immediatamente in un elemento che li divide in due gruppi. Un gruppo vive in bande di piccole dimensioni, i suoi componenti non conoscono mercati, ciascun villaggio sovente parla una propria lingua, e la loro struttura sociale si basa su unioni parentali. Gli altri invece vivono in città. La loro lingua si estende su ampie aree. Conducono una ricca vita pubblica, sviluppano commercio, professioni, corporazioni, grandi mercati. La cultura dei primi la contrassegno come cultura piatta, l’altra come cultura alta. Sono due tipi di cultura paideumaticamente differenti. Gli uomini della bassa cultura sono di poche parole. Nel rapporto con loro si percepisce immediatamente che considerano ciascun individuo come un tipo a sé. Considerano e trattano gli altri individui, pur se conosciuti, come estranei, con distanza o con diffidenza. Hanno una concezione del mondo chiaramente deterministica (inteso in senso predeterminato e simbolico), per la quale ciascun elemento della casa occupa un posto determinato, ogni albero e ogni pietra sono inamovibili, ogni valore è stabile e invariabile, tutto è e non può essere minacciato dal dubbio. La linea di movimento del loro destino è chiara. Tutto è ovvio, tanto ovvio

che non si pongono “domande”, che idee di verse dalle loro sono a priori inconcepibili. Gli individui della civiltà alta mostrano al contrario, sin dal primo incontro, la propensione ad assegnare a ciascuno una categoria. Conoscono meno l’individuo che la categoria, e considerano ciascun individuo come rappresentante della sua categoria. Sono sempre pronti al rapporto, allo scambio, parlano molto e mostrano una costante apertura verso nuove opinioni, e sono in grado di mutare il loro destino in base a tale opinione. Il corso della vita per i primi ha un carattere sintetico, per i secondi analitico. I primi conoscono soltanto il destino, gli altri, un destino. I primi vivono in un mondo demonico, che per tutti è uno e lo stesso. Gli altri costruiscono la realtà ciascuno a suo modo. Il paideuma dei primi si muove in maniera pressoché ininterrotta sul piano della barbarie, per gli altri per lo più su quello della meccanizzazione. Entrambe le forme culturali non si influenzano reciprocamente. Lo spazio del proprio paese per le culture basse inizia a pochi chilometri dalle mura della città. Si pone ora il problema sullo sviluppo paideumatico di questa civiltà. Dato essenziale è che procedendo in queste terre degli Haussa potei osservare una relazione fra la costituzione statale e lo spostamento dello spazio vitale (ossia un cambio dello spazio geografico), e ciò corrisponde a un mutamento del livello paideumatico. Ciascuno degli Stati originariamente è sorto da una popolazione della cultura bassa: nessuno di quegli Stati visse una seconda fioritura sotto la guida della stessa popolazione che una volta lo creò. Di pari passo con l’edificazione degli Stati si ha la formazione di una lingua, la formazione di una specie diversa procedente della comune ornamentistica ed anche una propria poesia (elaborazione mitica). Con l’irrigidimento della vita dello Stato questo processo di fioritura si arrestò del tutto. Il che significa, 1. Il paideuma della cultura bassa appartiene al tipo demonico-infantile; 2. Il processo di trasformazione dello spazio vitale geografico con il contemporaneo edificarsi degli Stati costituisce il breve fiorire dell’ideale giovanile;

3. L’esistenza delle culture alte nelle città si identifica con l’assoluto dominio di un senso virile della realtà. La barbarie si trasforma dopo un breve tempo di fioritura (Kulturei) in meccanizzazione. Forse ciò può spiegarsi con un semplice esempio. Quando queste popoli di civiltà bassa entrano improvvisamente in una condizione con la struttura d’uno Stato in fase di decadenza, gli uomini guida non cambiano lo spazio vitale come singoli, ma come popolazione nel suo complesso. Essi occupano la nuova regione e subito si rinchiudono, e racchiudono i “fatti” del loro ambiente in città recintate contro i nativi della civiltà bassa abitanti attorno, e contro il loro demonico. Stando così le cose potevo paragonare soltanto le forme corrispondenti delle popolazioni della civiltà più elevata e delle tribù dei Mande che si differenziavano dalle popolazioni delle terre degli Haussa. Anche noi abbiamo in Europa i due estremi, nella campagna le culture basse, in città quelle elevate. Anche da noi la vita contadina si muove su un altro livello rispetto alla vita nelle grandi città. Ma – e qui si trova la grande differenza – bassa cultura e alta cultura sono portato di individui dello stesso popolo, della stessa lingua e della stessa razza. Entrambi vivono le medesime esperienze, e anche se nel corso del loro sviluppo si differenziano, fra loro si evidenzia comunque uno scambio di forze. Gli abitanti delle città e quelli della campagna sono stratificati a mo’ di una costruzione. In campagna ci sono individui istruiti come in città, che generalmente fanno parte degli strati sociali più alti della campagna come della città (un nobile è un grande proprietario terriero), e hanno fra loro rapporti più facili rispetto agli strati inferiori, sì che al posto (o accanto) dell’articolazione in alte e basse culture si impone la struttura verticale degli strati sociali. Fra i popoli delle terre degli Haussa si aveva un sentire demonico nell’ambito della bassa cultura, un senso dei fatti nell’alta cultura: sentimenti tra loro separati radicalmente, un diverso sviluppo dell’ideale in base alla collocazione geografica. Nelle culture occidentali al contrario il demonico figura anche nelle basse culture

e i fatti sono presenti nelle alte culture; entrambi però vivono in scambio costante, in quanto il rapporto verticale basato sulla differenza geografica si costruisce in un sistema di carattere orizzontale, che almeno per le piccole città ha un significato decisivo. Ma ciò non accade solo fra gli Occidentali. Esempi di tale condizione si trovano anche in Africa, come si evince da quel che accade nell’area occupata dai Faraka-Mandel nel Sudan Occidentale. Ivi esiste una rete di alta cultura molto diffusa, i cui nodi sono piccole e stabili città-mercato, collegate tra loro da strade molto frequentate che attraversano un’area di bassa cultura. Un popolo originario del Nord ha riunito l’intera popolazione dell’area dei Faraka-Mandel, cosicché gli abitanti delle città e quelli della vasta regione esterna parlano la stessa lingua e appartengono alla stessa razza. La chiusura verticale è qui determinante, poiché tutto quel che si trova in queste piccole città si oppone all’accrescimento: la donna, la giumenta, la cagna, vengono portati in campagna, affinché possano in un suolo che offre una ricca alimentazione e un lavoro sano. Qui si ha una chiara stratificazione. I nobili Horro (cavalieri e classe dominante) con il loro cantori Dialli (bardi) al primo livello, gli orefici con il loro ricco tesoro di concezioni sovrasensibili al secondo livello, gli Ulussu (classe obbedinte), semplici contadini, al terzo, vivono in maniera comunitaria e arricchiscono con lo scambio il paideuma dell’individuo come della massa. Gli Horro con i Dialli, i fabbri con gli Ulussu rappresentano due livelli nella conformazione della civiltà. Agli strati inferiori del paideuma appartengono le narrazioni di leggende e favole; a un livello inferiore si collocano le antiche leghe caratterizzate dall’uso di maschere e infine troviamo lo sciamanesimo. Lo strato superiore ha canti epici, abiti riccamente ornati, tombe sontuose, antichi palazzi reali. Una comparazione dello spessore dei due strati mostra che fiabe, leggende etc. costituiscono un bene comune del popolo, perché si ascoltano dappertutto, in quanto non hanno come oggetto azioni

individuali e non sono soggette a trasformazioni. I canti dei bardi al contrario mostrano forme di sviluppo e si riferiscono a storie personali; la loro espressione è consapevolmente artistica, ossia nascono dalle nature creative di professionisti facenti parte di una specifica corporazione. Questo aspetto di una costruzione a due strati è ciò che distingue i cosiddetti popoli civili (Kulturvölker) dai primitivi, a partire dagli antichi Egizi sino a noi. L’antico Egitto aveva accanto al tempio di pietra del dio, le case di argilla del popolo; il mondo greco accanto alle leggende e favole, aveva i sistemi filosofici e le grandi tragedie; l’Occidente, accanto all’arte della fuga ha il canto popolare. Nello strato inferiore vive ancora il paideuma di un periodo più antico, mentre il demonico continua a operare nello strato superiore, nel quale si collocano gli ideali come monumentale edificazione dell’io. Queste forze dell’anima demoniche dello strato inferiore sono e rimangono dappertutto le radici del paideuma, nei popoli come negli individui. Questo insegna l’osservazione del tramonto di una civiltà, anche quello di una civiltà monumentale. È qualcosa di assolutamente naturale che la formazione e lo sviluppo della grande città, come sede di puri fatti, significa la fine dei demoni. E, citando Spengler, diciamo che l’anima apollinea, egizia e faustiana nel radicarsi in un popolo ne esprimono il paideuma. Ma quando quest’anima si esprime nelle costruzioni tipiche delle grandi città, come la matematica, la pittura, l’architettura, la poesia e la plastica, si tratta solo della costruzione di uno strato superficiale, le cui guide sono sempre e unicamente di natura demonico-geniale. Il paideuma si sviluppa pertanto in base a periodi. Il livello più antico, le cui forme tipiche si trovano nella civiltà egizia ed in quella etiopica della regione degli Haussa, è puramente tettonico, ossia costruisce dalle fondamenta della vita dell’anima i lineamenti di una civiltà con pochi tratti chiari e significativi. Io lo definisco periodo creativo. Al contrario la civiltà dei popoli Manda-Faraka costituita da due livelli, deve essere sorta nel periodo della elaborazione, che nel nostro schema temporale corrisponde a Babilonia e all’Egitto.

Il paideuma del periodo della formazione presenta uno strato superiore e in questo appare il libero paideuma individuale, nel caso più alto il genio. Il periodo della creazione poteva cambiare le anime individuali ma solo come copia ridotta dell’anima comune. Quest’anima comune, che, come ho evidenziato, si riscontra nelle civiltà basse della regione degli Haussa, si sviluppa nel periodo della formazione in paideuma del popolo, come mostrano le regioni dei Mande. Sulla base di quanto esposto vediamo che la comprensione della ricchezza di queste forme viene resa complicata dal fatto che l’ambiente del tempo primordiale è definito come caos, e al paideuma umano di questo periodo si nega una fisiognomica; accade allora che si esclude anche la piena comprensione degli infiniti sviluppi successivi delle radici paideumatiche. Il fatto è che la sequenza di strati della vita dell’anima di ciascun uomo ripete quel che accade nel paidema comune di una popolazione: dalla barbarie, alla culturalizzazione, alla meccanizzazione. Pertanto il periodo della creazione corrisponde alla fase infantile del paideuma, il periodo della plasmazione alla sua fase giovanile. Pertanto il periodo di piena realizzazione della meccanizzazione, quale terza ed ultima fase, deve collocarsi al termine di un periodo di pienezza. Ciò appare ovvio. Quando si considera quali sviluppi presenta la cultura “moderna” con le sue automobili, la sua diffusione di informazioni, le sue attività commerciali, come la stampa di libri e di giornali e i vari mezzi di comunicazione, per cui inserisce aree sempre nuove nel suo ambito di potere, allora non è difficile capire che in un tempo molto breve l’intera area abitabile della terra sarà occupata da questi organi di diffusione di un’epoca meccanizzata, così che nessun popolo della terra potrà godere del fatto di non essere toccato e di rimanere isolato, condizione base affinché si sviluppi il paideuma della cultura di un popolo. Il periodo di plasma zione va di pari passo con questa forte necessità di espansione, con la vittoria della volontà dei fatti nei confronti del demonico, con la conseguente impossibilità che le singole civiltà popolari possano non essere toccate, mentre svanisce la possibilità che possano

apparire nuove forma monumentali. Con ciò la civiltà va verso la sua fine. Uno sguardo al seguente schema indica che il paideuma del periodo creativo si mosse prevalentemente sul piano dell’emozione, cioè su un solo livello, ossia che il paideuma del periodo creativo si muoveva sul piano dell’emozione, quindi su un unico piano.

Basi del paideuma

Livelli primo livello secondo livello terzo livello

Classi d’età bambino giovanetto uomo

Paideuma dell’individuo

Forme ed essenza il demonico l’ideale i fatti

Area emozione intelletto ragione

Fenomeni forza creativa individualità secondo intelletto; coscienza finalistica

Carattere spontaneità ambiguità dissoluzione

b) Paideuma dei popoli (forme e periodi)

Livelli di civiltà barbarie civiltà meccanizzazione

Periodi culturali creazione elaborazione compimento

c) Paideuma dei popoli (morfologia e periodi) Fenomeni prima fase seconda fase terza fase Nascita del Sviluppo dell’ideale Armonica com- demonico a partire dal penetrazione di demonico demoni, ideali e reatà

Carattere primitivo monumentale fenomenico

Spazialità comunità popolo regioni dello ecumene

Temporalità pretemporale episodico supertemporale (astorico) (storico) (superstorico)

L’anima individuale era inscindibile da quella della comunità. Nel periodo di formazione si produce il distacco delle personalità individuali in seguito alla costituzione di uno strato superiore e uno inferiore; il paideuma della plasmazione si sviluppa sul piano dell’intelletto. Succede quindi il periodo della pienezza con il ridursi del paideuma del popolo in un unico paideuma che riempie l’intero spazio della terra abitato e porta con sé un ulteriore sviluppo della stratificazione orizzontale; il limite verticale dello spazio vitale perderà il suo significato di contro alla costruzione stratificata orizzontale. La stratificazione spirituale in questo contesto presenta la sua più forte articolazione in quanto i due strati si trasformano in tre; come terzo strato si ha quello della vita della ragione che si sovrappone a quella dell’intelletto. Questo passaggio corrisponde ai demoni del bambino, agli ideali del fanciullo ed alla concretezza dell’uomo, e quindi ai tre gradi di civiltà: barbarie, civililtà, meccanizzazione. La prima stratificazione si ebbe con l’unione dell’anima individuale con l’anima comune, espressa oggi attraverso il sistema

naturale delle classi d’età. Il demonico si esplicava nella comunità, senza che i sentimenti individuali venissero soppressi, e pertanto l’umanità in questo periodo era astorica. In questo contesto unitario non era ancora stato elaborato il concetto del tempo. La durata qui è ciò che è naturale, il sentimento del presente è quel che domina. Con la costruzione dell’io, con gli ideali, inizia a svilupparsi il secondo strato, nel quale con l’opposizione “io e il mondo” dovette apparire l’altra “il mio tempo e il tempo prima di me”. La fugacità di tutti gli ideali si produsse sempre più chiaramente nella più rapida riorganizzazione dei fatti, e con ciò suggellava il carattere episodico del secondo periodo culturale. L’essenza del terzo periodo si produce ora soltanto nella compenetrazione armonica del demonico, dell’ideale e del fattuale, ossia dei fenomeni di tutti e tre i livelli: forza creativa genial-demonica, individualità ideale e consapevolezza intellettuale dell’ultima fase. Per questo motivo le forme culturali di questo periodo hanno il carattere e il nome di “fenomenico”. L’episodico si chiuderà con la costituzione della triplice stratificazione, il concetto di tempo subirà un cambiamento, ovvero si produrrà una ultratemporalità.

15. Il lavoro paideumatico

In questa parte finale riprendo quel che avevo già considerato inizialmente. Il progetto di una filosofia della civiltà contenuto in questo scritto, nella sua concisione e accentuazione del concettuale, ha il significato di una linea retta, che in generale è mancato alle ricerche sinora condotte in questo campo. La sua verifica deve inoltre basarsi sui risultati di una lunga ricerca individuale. Ciò è quanto possiamo e vogliamo, tuttavia non ci accontentiamo. Tutto questo può essere solo un sussidio e come tale condurre alla scienza nell’antico e degno significato, e alla conoscenza delle ultime basi di queste manifestazioni culturali.

Brevemente, mediante due esempi si chiarirà quanto in questo scritto sarà determinante la linea retta soggiacente.

a) Idee e concetti Precedentemente ho mostrato lo sviluppo del paideuma dal demonico al fattuale e portato prove sulla polarità del paideumatico. La differenziazione o meglio l’opposizione corrispondente interessa tutti gli ambiti dell’essere culturale: la vita dello Stato, il lavoro, la religione come l’arte o qualsiasi altro istituto possono essere visti da due prospettive, ovvero secondo il principio paideumatico dell’organico (divenire) o dell’inorganico (divenuto). Il che significa che si può parlare di idee paideumatiche come di concetti paideumatici. Considero inoltre che si possano assumere le idee vive verificate attraverso i concetti. Ossia: Le idee sorgono, in base a quanto sinora esposto, in forma demonica, dall’essenza del paideuma. Esse sono elementi vivi del paideuma, che si incorporano di tempo in tempo in concetti e poi durante il periodo dello sviluppo condannano le loro forme concettuali a uno stato di sogno, che si identifica con un irrigidimento. Le idee sono quindi realtà paideumatica viva, mentre i fatti sono rigidi concetti paideumatici. Dai concetti fattuali e dalle loro forme giocose, le idee devono essere concepite come essenze viventi sotto la copertura del potere del concetto. Ci si rende però conto che i concetti sono come incarnazione delle idee e al contrario di queste sono fugaci, come una sorta di residui del processo del cambio di stato della materia. Essi in certo modo appaiono come derivanti da queste, in forma rinnovata e differenziata, involucro occasionale delle idee, sì che sono una sorta di elementi di copertura del paideuma. Con ciò si afferma che le idee si affermano dietro tutto ciò che è concettuale, costruendo o distruggendo, ossia nella natura che avvolge gli uomini come in quelle forme culturali che derivano dagli uomini, per il fatto che tali idee nel loro prendere corpo non rivelano mai un mondo concettuale così veloce e mutevole come nei concetti

culturali. Attraverso questa varietà risultano più perspicui e più chiare le manifestazioni culturali, rispetto all’ambiente naturale. Perciò i concetti culturali offrono oallavita concreta il materiale primario, la materia essenziale dalla cui comprensione e riconoscimento possono essere concepite le idee che sorgono dal paideuma del mondo. Ciò significa che noi otteniamo dalla via di una ricerca di idee paideumatico-culturale, un procedimento adatto per un organismo razionale umano limitato, per ampliare il paideuma dietro la copertura della totalità concettuale. Quindi nell’essenza più intima è lo stesso se una idea elimina concetti paideumatico-culturali, che come morti servono alla vita solo ancora nel modo che in quanto tali avviluppano l’idea viva proteggendola, o se una pianta costruisce una corteccia che in quanto materia divenuta senza vita abbraccia ancora la vita invisibile del mondo esterno. Tutto ciò non significa altro che i concetti si equiparano ai “fatti” rimanenti e che le idee devono essere considerate come una realtà paideumatica. L’uomo può riconoscere e comprendere concetti e fatti, mentre idee e realtà le può riconoscere soltanto attraverso la “Ergriffenheit”.14 Questa è la realtà, qualcosa che viene vissuto e nella vita ha la sua forza; il fatto al contrario è ciò che è vissuto e che nel sapere è divenuto conoscenza morta. Reale è dunque quel che viene dalla vita, fatto è la manifestazione della realtà divenuta concreta. Realtà è l’operare soggettivo – anche nell’ambiente; il fatto di contro è il sedimento consumato della realtà in quanto oggetto.

B) Trasformazioni di dee e concetti paideumatici secondo regioni paideumatiche. L’etnografia descrittiva opera con i fatti concettuali. La dottrina delle sfere culturali ha mostrato che questi fatti sono costruiti e organizzati in gruppi e in base ai loro significati. La 14 Il rapporto di idee e concetti con il livello paideumatico dell’individuo come nelle culture popolari poté senz’altro chiarire. Appare ad esempio molto chiaro nella lingua e nall’apprendimento delle lingue. Nel bambino la lingua cresce in relazione alle idee. L’adulto apprende la lingua concettualmente. Bisogna anche qui sottolineare che adli uomini che nel corso della loro vita mantengono la facoltà, di apprendere sempre nuove lingue in base alle idee. Anche qui l’idea ha lo stesso significato della vita dell’anima, il concetto con un apprendimento intellettuale.

fisiognomica elaborata per la prima volta da Spengler a partire dalla suddivisione in sfere culturali, mostra che il Rinascimento sorse da un fiorire del mondo occidentale attraverso la concettualizzazione di idee provenienti dall’Oriente, per il fatto che il Cristianesimo, quale ultima “formula magica” dell’Oriente si trasformò in idea nell’Occidente. (cfr. conclusione del cap. 12). Ciò conduce da una parte alla ricerca di differenti dimensioni dell’emotività (p.41), dall’altra alla domanda se lo sviluppo paideumatico possa avere come conseguenza soltanto forme monumentali. Considero questo concetto di estrema importanza, per cui voglio aggiungere ancora qualche parola a quanto ho detto precedentemente (p.41 e p.84) sui sentimenti della caverna e dello spazio aperto, quali tratti specifici di Oriente e d’Occidente. Ci si ricordi dell’opposizione: là l’Oriente nella suo carattere chiuso, col suo stile rigido, il suo formalismo, il suo fatalismo e come salvezza da questo, astrologia e magia, e la capacità, per il suo fanatismo e la sua straordinaria forza emozionale, di creare religioni. All’opposto si colloca lo spazio aperto dell’Occidente con la tendenza a uno stile eclettico, l’inestinguibile nostalgia per l’apertura e la distanza, il pluralismo come base della visione del mondo, il cui limite può essere rappresentato esclusivamente dal sentimento dell’infinito. Il sentimento dello spazio aperto conduce a una vitalità priva di momenti di tregua; l’esistenza è come un sentiero montano che porta sempre avanti. Tutta la produzione del paideuma occidentale si sviluppa in una catena con piccoli intervalli, nella quale ciascun anello si salda al precedente. L’essenza del sentimento della caverna al contrario corrisponde alla disposizione statica di elementi su una superficie chiusa. Il suo tratto decisivo è l “fatalismo”, la sopportazione, che ha come conseguenza l’accumulo di forze demoniche. L’eccedenza conduce quindi al fanatismo, che improvvisamente si fa tempestoso. E mentre il paideuma dell’Occidente scorre come una corrente elettrica attraverso il cavo, quello dell’Oriente salta come un lampo fra cielo e terra.

Il paideuma occidentale si qualifica per il suo “furore organizzato”, per il continuo impeto del suo agire; l’orientale per il continuo mutare da una pace serena all’estasi selvaggia, a una frenesia sfrenata. Il paideuma orientale presenta pertanto una forza incomparabilmente violenta. Il paideuma occidentale opera in modo silenzioso, mantenendo tutto ordinato sulla sua superficie. Le sue forma culturali sono contrarie all’estasi e giustamente, dice Nietzsche, in un progressivo sviluppo culturale tutti i livelli che vengono scavalcati si vendicano. Dalla tolleranza insita nel sentimento della caverna, la forza di espansione del paideuma, acuto e rapido, si solleva sino a raggiungere la vicinanza con gli dei, sino “al dio”, che nella prospettiva orientale è visto come una realtà dall’onnipotenza folgorante, che scuote e atterrisce, che sottomette e schiavizza, sì da poter essere riconosciuto esclusivamente come simbolo di una insolubile contraddizione: tolleranza aurorale ed eruttività elementare. Quando si parla di furore organizzato e di movimento organizzato, si corre il rischio che questo “organizzato” venga scambiato con un “disciplinato”. “Organizzato” non dovrebbe significare altro che “l’operare attraverso l’idea”, mentre la disciplina non è altro che “l’agire in base a concetti”. Dato estremamente importante allorché in una delle due regioni culturali l’organizzazione del movimento sfociava in una disciplina del movimento; il che si è tradotto in uno spostamento tra Oriente e Occidente della mutevole propensione al fatto intuitivo.

Per concludere In tal modo si si ricavano dalle comuni linee direttive della ricerca concernente, la loro struttura e della loro funzione. Si parte anzitutto da relazioni di carattere etnografico. Abbiamo sinora diverse e valide pubblicazioni di questo tipo sulle civiltà primitive, ma sinora sono risultate isolate e scarsamente relazionate per poter gettare più che luci isolate sui problemi qui trattati. Diversamente si

intende offrire un quadro completo e chiaro della civiltà africana inserita nella storia mondiale. In particolare la nostra ricerca conduce l’Africa Occidentale e Centrale nel campo d’osservazione della ricerca storica. Queste regioni hanno elaborato al di fuori dell’Impero romano le proprie creazioni e i propri eventi, i propri concetti e idee, la cui antichità a volte supera i 2000 anni, e il cui senso intimo ha un’impensata implicazione con le rovine monumenti preistoriche delle “civiltà della caverna” del Sudafrica e della Spagna, con la problematica civiltà degli Etruschi, con il sorgere della civiltà egizia e pertanto indicano una nuova via per affrontare l’enorme problema della storia dell’umanità. Per quanto concerne religioni e forme artistiche, ordinamenti sociali e poesia popolare, la nostra ricerca possiede un valore documentario tanto significativo per la storia dell’umanità e della civiltà, da determinare la necessità di un mutamento del quadro della storia del mondo. Da queste ricerche risulta assolutamente chiaro e certo il dato dell’organicità anche delle forme culturali primitive, sì che qui il tettonico incrocia il monumentale; qui anche il primitivo mostra sotto fatti concettuali, idee reali. Entrambi interagiscono con la monumentalità, cosicché attraverso una metodologia che persegue una conoscenza immediata e viva, viene oggi eliminata la differenza fra le civiltà primitive e quelle storico-monumentali. In tal modo si ha la possibilità di considerare scientificamente la complessa civiltà dell’umanità sin dai suoi inizi come unità organica, fattore essenziale, come è stato precedentemente mostrato, per le basi del nostro sistema. L’unica conclusione la costruiscono pertanto, sulla base del progetto del 1895, i fatti etnologici che costituiscono il nucleo centrale delle civiltà africane. Si tratta di una riva aspra e rocciosa che si erge, al di là del mare, dinanzi alla storia delle civiltà monumentali d’Europa e delle sue aree limitrofe. Il nostro lavoro consiste nel gettare un ponte fra l’una e l’altra sponda, che ci permetta di gettare uno sguardo sugli eventi della vita che in profondità traccia i suoi percorsi eterni.

Postfazionedi Hermann Frobenius

Per la terza volta viene pubblicato questo lavoro, Paideuma, edito per la prima volta nel 1921, ed apparso in un’edizione ampliata nel 1925. Forse sarebbe stato gradito al lettore che in questa nuova edizione venissero facilitati l’elaborazione e lo stile dell’autore. Personalmente invece sono convinto che elaborazione e stile corrispondono in maniera viva alla personalità di mio fratello. Lui stesso dice: «È un lavoro che non pretende di essere strettamente “scientifico”. La sua unicità consiste anche nel linguaggio, nella difficoltà di esprimere il suo oggetto, e nelle necessità di utilizzare espressioni proprie». Questa terza edizione basilarmente riproduce la prima, del 1921, e non presenta nuove conoscenze apportate nel frattempo dalla ricerca, perché un lavoro attorno a questo studio che tenesse in conto il livello attuale della ricerca, finirebbe con l’alterare quest’opera di ridotte dimensioni con una rete di note e di richiami che oscurerebbero l’originaria concezione della morfologia delle civiltà elaborata dall’autore. Offro pertanto al pubblico il lavoro di mio fratello così come l’ha scritto nel 1920 – tralasciando solo alcune considerazioni personali di scarsa importanza – nell’ottantesimo anniversario della sua nascita.

Reichenhall, 1953.