35
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI ROMA TRE Facoltà di Scienze della Formazione Corso di Laurea Magistrale in Scienze Pedagogiche TESI DI LAUREA Le donne della Resistenza partigiana di Alfonsine e Santa Sofia Relatrice: Chiar.ma Prof.ssa Maria Cristina Leuzzi Correlatrice: Prof.ssa Liliosa Azara Candidata: Valenti Teresa matricola 273834 Anno accademico 2014-2015

Le donne della Resistenza partigiana di Alfonsine e Santa Sofia

Embed Size (px)

Citation preview

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI ROMA TRE

Facoltà di Scienze della Formazione

Corso di Laurea Magistrale in Scienze Pedagogiche

TESI DI LAUREA

Le donne della Resistenza partigiana di Alfonsine e Santa Sofia

Relatrice: Chiar.ma Prof.ssa Maria Cristina Leuzzi Correlatrice: Prof.ssa Liliosa Azara

Candidata: Valenti Teresa matricola 273834

Anno accademico 2014-2015

2

Introduzione

Questo lavoro si prefigge lo scopo di indagare le motivazioni che hanno spinto

molte donne romagnole, durante gli anni della Resistenza, ad uscire da ruoli culturalmente

precostituiti dal fascismo per scegliere la vita sovversiva. Quella di queste donne resistenti

è «una eredità senza testamento»1 che permette, tuttavia, di fare ulteriore luce sulla

rappresentazione collettiva della donna partigiana, sia in armi che disarmata, cioè nei

differenti, e pur sostanziali, modi resistenziali.

Non è un caso, infatti, che per definire l’opera delle partigiane in generale, si parli, come

sottolineano Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina, «di contributo», che è «un concetto

debole rispetto alla ricchezza dell’esperienza, e un indicatore forte degli orientamenti

storiografici», perché «contribuire, non equivale a fare e a fare parte, anzi marca il divario

fra appartenenza e convergenza momentanea, fra l’azione creativa e il suo contorno o

supporto, che restano vaghi. Tanto vaghi, che la medesima parola è spesso usata

estensivamente per abbracciare l’insieme delle iniziative femminili ritenute utili alla

Resistenza»2.

Le testimonianze qui presentate appartengono a donne che hanno vissuto la Resistenza

nella zona geografica della linea Gotica e, più precisamente, a due staffette , Nara e Nora,

di Santa Sofia, provincia di Forlì-Cesena, ad altre due staffette , Viera ed Annunziata, di

Alfonsine in provincia di Ravenna, e, infine, a due signore di Spazzate Sassatelli, frazione

del Comune di Imola, in provincia di Bologna, Rosa, figlia di una partigiana e al tempo

una bambina, e Paolina che, come altre donne e uomini, non ha avuto il riconoscimento,

dopo la Liberazione, di aver fatto parte attiva della Resistenza.

La loro narrazione registrata, raccolta attraverso le mie domande, mi ha permesso di

entrare in eventi storici che io per ragioni anagrafiche non ho vissuto, ma soltanto studiato

su testi scolastici dove è stata utilizzata una storiografia diplomatico- militare avvalorando,

così, la considerazione di Nuto Revelli sull’inefficacia dello studio di «una storia

senz’anima» 3.

1 A. M. Bruzzone, R. Farina, La Resistenza taciuta. Dodici vite partigiane piemontesi, Milano, La Pietra, 1976, Prefazione, p. IX. 2 Ivi, Prefazione, p. VII. 3 «Una storia militare in cui gli uomini sono sempre e soltanto numeri, in cui i soldati sono classificati come “materiale umano”, è una storia che vale poco o niente, è una storia falsa, sbagliata. È comunque una storia

3

Le testimonianze, come ricorda Nuto Revelli, «non possono e non devono essere

ignorate»4, perché ci informano non solo degli eventi come dato storico, ma con la giusta

distanza, sul loro significato reale e simbolico.

Le narrazioni raccolte restituiscono significato non soltanto a ciò che le persone hanno

fatto, ma a tutto ciò che volevano fare perché vi credevano. Emergono, così, le loro

motivazioni, i ripensamenti, i giudizi e le razionalizzazioni, cioè la complessità della loro

umanità.

Nel quadro storiografico, oltre alla particolarità delle fonti, affiorano anche altri

aspetti del fare storia oggi, che danno, al percorso della trasmissione della memoria, una

ricchezza particolare. «Anche le piccole storie non scritte aiutano a capire. Storie destinate

a restare sommerse per la scomparsa dei testimoni. E ci sono tanti che hanno pagato, tanti

che non conosciamo. Sappiamo invece quasi tutto dei grandi personaggi […]»5.

Le potenzialità racchiuse in ogni singola intervista sono, a volte, sorprendentemente ampie.

Il carattere informativo e la corrispondenza alla verità passano in secondo piano rispetto

alla provocazione intellettuale di trasformare la narrazione in possibile oggetto di

interpretazione. Anna Bravo afferma che il racconto del testimone non si presenta mai

come semplice duplicazione del passato, «piuttosto nasce da una contrattazione ininterrotta

fra forme e immagini di tempi diversi, si costruisce attraverso una pluralità di repertori

narrativi in cui quello d’epoca fa da caposaldo, denso com’è di tradizioni familiari e di

gruppo, di simboli popolari e religiosi, di modelli culturali, messaggi politici, discorsi di

propaganda»6.

Il ricordo si profila come una continua mediazione tra le immagini che vengono dal passato

e l’interpretazione del ricordo con competenze acquisite che fanno parte del presente, in un

rapporto di interazione continua tra storia e memoria. La collaborazione dei tempi alla

formazione del ricordo, trova ragione di essere nel bisogno umano di collocazione storica e

di appartenenza. La storia stessa si umanizza attraverso il collocamento delle vite vissute,

per questo ricordare diventa un fatto politico e non solo culturale in quanto «storia e

memoria nascono da una stessa preoccupazione e condividono uno stesso obiettivo:

l’elaborazione del passato. […] La storia nasce dalla memoria e ne rappresenta una senz’anima». Cfr., N. Revelli, Le due guerre. Guerra fascista e guerra partigiana, Torino, Einaudi, 2003, Introduzione, p. XIII. 4 Ivi, Introduzione, p. XIV. 5 N. Revelli, Le due guerre, cit., p. 9. 6 A. Bravo, A. M. Bruzzone, In guerra senza armi. Storie di donne (1940-1945), Bari- Roma, Laterza, 2000, p.37.

4

dimensione; poi, assumendo una posizione autoriflessiva, la trasforma in uno dei suoi

oggetti»7.

La memoria è continuamente soggetta a variazioni e l’elaborazione del passato assume una

forma soggettiva all’interno della quale, spesso, sono percepibili le linee comuni dettate

dall’identità e dall’appartenenza. Così, come affermano Giovanni Contini e Alfredo

Martini, la memoria assume la caratteristica di «serbatoio in continuo divenire» creando

«un archivio in trasformazione dove accanto agli scarti si determinano anche correzioni,

rivisitazioni e riscritture. La collocazione degli eventi non segue un ordine cronologico

rigido e reale, bensì relativo. Ogni evento si colloca rispetto agli altri e, soprattutto, i

vecchi si posizionano all’aggiungersi dei nuovi»8.

Soprattutto parlando delle donne della Resistenza dobbiamo tenere in conto che «la

partigiana che oggi parla ieri taceva, vede oggi la sua esperienza con occhi diversi, la sua

prospettiva non è più quella di ieri, ha vissuto, ha riflettuto, interpreta la sua esistenza,

individua in essa ciò che ha contato, ciò che conta»9.

In questa mia prima esperienza, con la memoria storica non condivisa da me, le loro

testimonianze mi hanno procurato una forte emozione che ho dovuto contenere. Inoltre,

non ho messo in conto la non conoscenza del dialetto con cui le signore hanno raccontato

la loro storia tanto che ho usufruito di un interprete.

Le testimonianze sull’onda dei ricordi, hanno preso una piega di spontaneità. Questa mia

incapacità di condurre la situazione, come inizialmente avevo previsto e sperato, ha

involontariamente creato un’atmosfera di serenità e di naturalezza. Ciascuna intervistata ha

potuto, così, offrire la sua memoria nella forma e attraverso le conoscenze personali,

affrontando argomenti che erano particolarmente a cuore a ciascuna e che rispondevano

all’emergenza emotiva di essere trasmessi. E non intenzionalmente, ho potuto restituire

alla storia «vista dal basso» […] «lo spazio che merita»10.

La scelta di approfondire l’argomento riguardante la donna della Resistenza, ha per

me un valore affettivo importante. Mi ha permesso di tornare nei tanti racconti di guerra

che mia madre mi ha narrato durante la mia infanzia. Sono stati racconti che hanno

sostituito le favole, carichi di pathos e di figure sconosciute. È stato, quindi, tornare in una 7 E. Traverso, Il passato: istruzioni per l’uso. Storia, memoria, politica, Verona, Ombre Corte Edizioni, 2006, p.17. 8 G. Contini, A. Martini, Verba manent. L’uso delle fonti orali per la storia contemporanea, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1993, p.52. 9 M. Addis Saba, Partigiane. Donne della Resistenza, Milano, Mursia Editore, 1998, p. 17. 10 N. Revelli, Le due guerre, cit., Introduzione, p. XIV.

5

dimensione dal sapore antico e dalle sembianze quasi materne. Per vivere appieno questo

itinerario ho trovato necessario andare personalmente nei luoghi dove si sono svolti i fatti

raccontati. È stato indispensabile camminare sui sentieri della montagna e della sconfinata

pianura, sentire il freddo pungente di quei posti, respirare l’odore del luogo, ascoltare il

silenzio.

Il silenzio di allora non parlava, come oggi, di intima solitudine, ma di presenze sommesse

che facevano paura e che dovevano essere ascoltate attraverso il silenzio dell’altro.

Da questa diversa esperienza sensoriale tra la montagna e la pianura è nata, dentro di me, la

necessità di approfondire la conoscenza sulle possibili differenze vissute dai partigiani

rispetto alle diversità dei luoghi.

La Resistenza, in queste zone, ha assunto un carattere particolare anche per la specificità

del territorio in cui la lotta di Liberazione è stata combattuta, diversificandosi

profondamente.

La pianura, ad esempio, si presenta, oggi come allora, come un’ampia distesa pianeggiante.

La coltivazione del terreno con bassa vegetazione non modificava questa cadenza del

paesaggio tanto che, nei primi mesi della Resistenza, venne accantonata l’idea di

sviluppare una vera e propria lotta in pianura date le caratteristiche territoriali che non

consentivano né un’eventuale fuga, né la possibilità di nascondersi, preferendo

l’installazione dei nuclei antifascisti nei centri urbani e sull’Appennino.

La Resistenza in pianura è stata combattuta grazie alle masse di contadini che la

popolavano, ed ebbe successo perché, chi la combatteva, aveva dalla sua parte la

conoscenza precisissima di tutto il territorio e della sua conformazione, potendo, così,

sfruttare a proprio vantaggio ogni particolarità dell’ambiente come gli argini del fiume, i

canali, i cavi di bonifica, i fossi.

Luciano Bergonzini parla, infatti, della pianurizzazione della lotta, mettendo in luce

«dimensioni e connotazioni particolari» riguardanti non solo «gli aspetti militari, ma anche

e particolarmente per i nuovi rapporti che si vennero a istituire tra la Resistenza e il

movimento di massa»11.

11 «Questa operazione, normalmente definita di pianurizzazione della lotta, e che, proprio in parte notevole della regione emiliano-romagnola assunse dimensioni e connotazioni particolari non solo per gli aspetti militari, ma anche e particolarmente per i nuovi rapporti che si vennero a istituire tra la Resistenza e il movimento di massa». Cfr, L. Bergonzini, La lotta armata. L’Emilia Romagna nella guerra di Liberazione, Bari, De Donato Editore, 1975, p. 247.

6

La partigiana Olga Prati, in una testimonianza agli studenti di Ravenna, definisce «la

pianurizzazione della lotta partigiana» come «una caratteristica tipica della Romagna» che

ebbe successo perché tutte le famiglie contadine contribuirono alla lotta di Liberazione «in

quanto tutta la popolazione era nemica dei tedeschi»12:

La proposta di pianurizzare la Resistenza e di costruire un grande movimento di massa su

un territorio che per conformazione geografica era ritenuto non adatto a quel tipo di lotta,

suscitò dubbi e opinioni opposte per motivi politici oltre che strategici, soprattutto nella

parte antifascista moderata e tra gli esponenti del movimento “Giustizia e Libertà”, in

quanto «il timore, non celato, era che la pianurizzazione –sostenuta con forza specie dai

comunisti e da questi considerata come la necessaria premessa all’insurrezione- finisse per

conferire al movimento un carattere apertamente classista, accrescendo il peso della

componente garibaldina ed alterando così i rapporti politici nel seno delle rappresentanze

unitarie»13.

Fautore della pianurizzazione fu Arrigo Boldrini, nome di battaglia Bulow, comandante

della divisione “Ravenna” della 28^ Brigata Garibaldi “Mario Gordini”14 a cui venne

assegnato il compito di dirigere l’azione complessiva del movimento nelle campagne, nelle

valli e nelle città della provincia di Ravenna. «La lotta nelle campagne ravennati si

configurò, fin dai primi mesi d’inverno, come un esempio di pianurizzazione globale,

sistematica e non episodica. Nel Ravennate, infatti, non vi furono momenti di massima e

minima intensità, ma l’azione si sviluppò con regolarità, dilatandosi senza pause, persino

durante le sanguinose repressioni dell’agosto»15.

12 «Questa è stata denominata la “pianurizzazione” della lotta partigiana e fu una caratteristica tipica della Romagna. Bisogna ricordare però che tutto ciò fu possibile in quanto tutta la popolazione era nemica dei tedeschi. C’erano famiglie contadine che nascondevano intere squadre partigiane nelle loro case, altre non lo facevano, ma comunque mai ci furono denunce, mai nessuno tradì il vicino di casa o di podere. Il popolo era solidale con i partigiani contro i tedeschi e i fascisti». Cfr, O. Prati, Lezione tenuta agli studenti del Secondo circolo didattico “F. Mordani” di Ravenna, in Insieme, ricordando Olga Prati, a cura di, Coordinamento delle donne ANPI di Bologna UDI sede di Bologna, Istituto per la Storia della Resistenza e della società contemporanea nella Provincia di Bologna “Luciano Bergonzini”, p.16. 13 L. Bergonzini, cit., pp. 247-248. 14 Il 26 giugno si diede avvio alla formazione della divisione “Ravenna” affidata al comando di Arrigo Boldrini, nome di battaglia Bulow, composta dalla 28^ Brigata Garibaldi, comandata da Alberto Bardi, nome di battaglia Falco, con commissario Gennunzio Guerrini, nome di battaglia Gianò e dalle formazioni SAP riunite sotto il comando di Gino Gatta, nome di battaglia Zalét con commissario Luigi Bonetti, nome di battaglia Radames. Tale divisione fu solo fittizia in quanto venne consolidata la direzione operativa . Infatti nel Ravennate l’unità d’azione tra GAP (Gruppi di Azione Patriottica) e SAP (Squadre di Azione Patriottica) non venne mai meno. Il movimento si presentava, fin dall’inizio, come un fatto unitario e di massa. Cfr., L. Bergonzini, cit., p. 248. 15 L. Bergonzini, cit., p. 249.

7

Arrigo Boldrini racconta che prima di insediare i raggruppamenti partigiani in un

determinato luogo, ne venivano studiate le caratteristiche geografiche, ma soprattutto

quelle politiche, economiche e sociali. Era ritenuto determinante poter prevedere un

appoggio sicuro da parte della popolazione attraverso la valutazione della realtà territoriale

sotto tutti i punti di vista. Infatti, scrive che «i compagni si soffermano a lungo a valutare la

particolare situazione del ferrarese, che è stata una delle prime province a subire

l’aggressione fascista». L’immaginario che ruota intorno alla Resistenza, porta a pensare

che la scelta del luogo degli insediamenti partigiani possa essere attribuita solo all’aspetto

geografico in funzione dell’eventuale necessità di nascondersi. La pianificazione, vista in

questa ottica, assume caratteristiche di natura sociologica dove per poter «capire le

differenze politiche, economiche e sociali che esistono tra due province confinanti»16 era

necessario un esame del luogo e, soprattutto, della popolazione che lo abitava, del suo

vissuto e delle risposte che aveva dato in passato. Tutto ciò precedeva la decisione di

insediare un gruppo di azione partigiana.

Le unità periferiche presentavano il problema dei collegamenti con il centro

operativo in quanto la relativa fissità delle basi accresceva il pericolo di infiltrazioni e di

spie.

Il problema fu risolto con «la collaborazione dei Gruppi di Difesa della Donna e del Fronte

della Gioventù, organismi che nella mobilitazione di massa avevano potuto selezionare gli

elementi migliori e più idonei allo scopo. Nella maggioranza dei casi il compito dei

collegamenti, anche fra i vari reparti, fu affidato a donne, per lo più a ragazze, assai abili

nei trasferimenti e anche nel passaggio attraverso i posti di blocco tedeschi e fascisti. Gli

ordini, e spesso il materiale bellico, erano collocati nel fondo di grandi sporte campagnole

e il tutto veniva trasportato da luogo a luogo generalmente in bicicletta e in pieno

giorno»17.

16 «I compagni si soffermano a lungo a valutare la particolare situazione del ferrarese, che è stata una delle prime province a subire l’aggressione fascista. Le caratteristiche del fascismo agrario ferrarese e il sindacalismo di Rossoni non sono fenomeni che si eliminano in poco tempo. Apprendo, tra l’altro, che in questa provincia il blocco nazionale fascista ha avuto nel 1921, per le elezioni politiche, il 68-69% dei voti. Ha giocato un ruolo molto forte la demagogia fascista anche se vi è stata una resistenza attiva al regime per cui, pur con molte difficoltà, dopo l’8 settembre a Cento, Argenta, Porto Maggiore è iniziata la lotta armata. È molto interessante capire le differenze politiche, economiche e sociali che esistono tra due province confinanti. Informo i compagni di alcune nostre esperienze, consigliandoli di esaminare le zone vallive che potrebbero essere presidiate da qualche gruppo partigiano». Cfr, A. Boldrini, Diario di Bulow, Roma, Odradek, 2008, pp. 132-133. 17 L. Bergonzini, cit., p. 256.

8

I tedeschi si aspettavano di combattere una guerra tradizionale dove era previsto lo scontro

tra uomini. Si trovarono, invece, davanti ad un nemico invisibile e apparentemente

innocuo, padrone del proprio ambiente.

Nuto Revelli individua la forza della lotta partigiana nella capacità di sorprendere il

nemico attraverso azioni veloci e inaspettate puntando sullo snervamento emotivo: «quel

lasciare il vuoto davanti al nemico in movimento, per poi sorprenderlo e pestarlo, quel

rendere attive le interruzioni con sparatorie volanti, quel far procedere il nemico in stato di

snervante attesa, di batticuore, di tensione nervosa: questa è la guerra partigiana. Il nemico,

risalendo le nostre valli, vedrà partigiani appostati da ogni parte, ma non saprà dove

colpire»18.

I tedeschi si resero conto che la guerra stava cambiando completamente i suoi connotati e,

non solo reagirono con violente rappresaglie sulla popolazione, ma vennero presi severi

provvedimenti, che, nel corso dell’occupazione tedesca, furono emanati, come il divieto

dell’uso della bicicletta o il taglio delle siepi e dei raccolti a bassa vegetazione. Vennero

estirpate, per questo motivo, intere vigne o altri cespugli fruttiferi che potessero essere

considerati pericolosi nascondigli.

Arrigo Boldrini testimonia che, durante la sua esperienza di comandante, la maggiore

preoccupazione, che richiedeva delle attente valutazioni strategiche, era riferita alla

possibilità di ritorsioni tedesche attraverso violente rappresaglie sulla popolazione.

Così scrive: «la nostra politica deve tenere conto di ogni elemento per non creare con

l’azione partigiana indiscriminata una mobilitazione totale del nemico che indubbiamente

metterebbe in crisi la nostra organizzazione con dure rappresaglie. Bisogna saper colpire

con attacchi diversificati in modo che il nemico resti non solo sorpreso, ma venga posto in

difficoltà per non poter agire rapidamente e ovunque»19.

La figura della partigiana si diversifica completamente in base al luogo dove ha

operato. Non solo cambiano gli incarichi, ma cambiano del tutto le abilità richieste e le

competenze emotive necessarie per poter affrontare situazioni diverse tra loro, sia dal

punto di vista dell’organizzazione, sia per la specificità dell’azione stessa.

La donna gappista operava nelle città e, nonostante fosse molto giovane, si distingueva per

la determinatezza e per la ferrea obbedienza agli ordini ricevuti. Ha dovuto, dapprima,

conquistarsi il rispetto degli uomini del gruppo attraverso prove di coraggio e di fedeltà.

18 N. Revelli, La guerra dei poveri, Torino, Einaudi, 1962, p. 252. 19 A. Boldrini, Diario di Bulow, cit., p. 117.

9

Anche nelle formazioni partigiane urbane la figura femminile è stata ritenuta

indispensabile per confondere il nemico sulla base delle aspettative. Le ragazze apparivano

innocue ed eludevano il sospetto che era maggiormente rivolto verso i giovani adulti

maschi, così come racconta Giovanni Pesce: «le ragazze porteranno le bombe alla base; noi

le aspetteremo. Sono due brave ragazze Nuccia e Ines. Si vede chiaramente che hanno

paura, ma una paura composta, controllata»20.

La donna gappista doveva rispondere alle caratteristiche richieste dal comando militare

come un uomo. Estrema fedeltà e assoluta convinzione di agire per un fine giusto

rappresentavano la garanzia per ovviare situazioni che potevano essere fatali per tutto il

gruppo. Per questo, nella fase iniziale della scelta, venivano sottoposte, come gli uomini, a

convincimenti atti a farle desistere dall’incarico.

Inoltre, i gappisti dovevano avere buone doti fisiche oltre che una dimestichezza all’uso

delle armi. Dovevano saper sparare bene, lanciare una bomba e anche saperla costruire.

Dovevano avere anche, e soprattutto, la competenza emotiva di saper sopportare la

tensione senza perdere la lucidità in quanto le situazioni che dovevano affrontare, a volte,

richiedevano ore di attesa snervante in una operazione studiata al minuto. La pericolosità,

infatti, era caratterizzata da un eventuale crollo emotivo che avrebbe messo in pericolo la

propria vita, quella degli altri e la riuscita dell’operazione stessa.

Giovanni Pesce sottolinea l’importanza del controllo emotivo del gappista come

caratteristica necessaria a questa particolare lotta che «non si combatte con le bombe, le

pistole o i mitra. È una battaglia di nervi che si deve vincere prima di tutto in se stessi. Il

nemico ci insidia e ci provoca, ma ci teme». […] «anche se altri sono catturati, il nemico

ne ha paura ugualmente; oltretutto non ha mai creduto e non crederà mai che siamo

soltanto un pugno di uomini»21.

Il gappista conviveva con la paura in ogni momento del giorno e della notte.

Testimonianze di vita descrivono questo aspetto emozionale come il nemico più difficile

da sconfiggere. Nel ricordo e nella descrizione di Giovanni Pesce emerge la drammaticità

di questo sentire tanto da descrivere i momenti vissuti da combattente come «giorni

d’incubo» […]. «Un combattente in città è un isolato, vive tra invisibili sbarre per evitare

quelle solide di una cella carceraria. Ogni giorno programmo i miei movimenti, le ore in

cui debbo uscire di casa o debbo rimanervi chiuso. Posso dormire abbastanza

20 G. Pesce, Senza tregua. La guerra dei GAP, Milano, Feltrinelli, 1967, p. 82. 21 Ivi, pp. 147-148.

10

tranquillamente durante le ore diurne: se nel quartiere o nel caseggiato comparissero

estranei, le donne mi avvertirebbero in tempo. La notte invece è infida […]. Le ore terribili

sono e rimangono quelle della notte. […] Carceriere di me stesso mi concedo giornalmente

un’ora d’aria. Passeggio senza meta; cammino solo per sentirmi in mezzo alla gente, per

scuotermi di dosso la solitudine che conduce alla pazzia» 22.

Le regole che un GAP doveva seguire, nello svolgimento delle operazioni, erano rigorose.

Faceva parte di un gruppo formato da quattro o cinque persone tra i quali il caposquadra e

il vice caposquadra. La divisione dei compiti era stabilita con precisione durante la

preparazione dell’azione e, in genere, due elementi del gruppo facevano da copertura

mentre gli altri due o tre, compreso il caposquadra, compivano l’operazione.

Giovanni Pesce racconta: «avevamo a nostro vantaggio la sorpresa. Il nemico non

sospettava che lo avremmo attaccato proprio dove il suo schieramento era più potente e più

numeroso. Nella tattica militare, l’attacco tende a individuare e a colpire l’avversario nel

punto più debole; nella guerra partigiana, all’opposto, si tende a colpire il nemico dove è

forte, dove può ricevere i colpi più duri»23.

Per evitare la fuga di informazioni ed eventuali delazioni, gli elementi di GAP

diversi non si dovevano frequentare e, spesso, addirittura non si conoscevano. Era

permesso solo ai capisquadra di incontrarsi in luoghi sempre diversi. Il gappista viene

descritto come «un combattente anonimo». «Vive tappato in casa; trascorre, solo, lunghe

ore, giorni, settimane. Sente aleggiare intorno la paura e ne scopre i mille volti; è sempre

all’erta, sempre teso»24.

La donna gappista era, nella maggior parte dei casi, una donna con una

consapevolezza politica strutturata da una educazione familiare antifascista. Aveva già

maturato l’antifascismo durante gli anni del regime e la sua scelta ha radici in una

consapevolezza di idee, valori e credenze che vanno oltre l’istinto.

Fa parte delle donne politicamente coscienti che continuano la battaglia già combattuta nei

venti anni di fascismo. Questo gruppo di donne, che si distinguono per la consapevolezza

dell’aspetto politico delle loro idee, si dividono in due filoni: le gappiste che scelgono la

lotta armata, e le organizzatrici delle lotte clandestine di massa che scelgono, come Ada

Gobetti testimonia, di «stimolare alla Resistenza anche le altre, facendo leva sui loro

sentimenti istintivi per portarle a una visione sia pure genericamente politica, collegandone 22 G. Pesce, cit., pp. 146-147. 23 Ivi, p. 62. 24 Ivi, p. 201.

11

i moti isolati e inquadrandoli nel movimento generale, partendo dagli elementi contingenti

(la fame, il freddo, la paura) per arrivare a problemi di rinnovamento sociale»25.

La formazione che i gappisti ricevevano durante la preparazione alla lotta armata non

riguardava solo la parte della competenza all’uso delle armi, ma anche la cura della

motivazione alla lotta attraverso momenti di incontro che avevano l’obiettivo di

rinvigorirne la consapevolezza.

Carla Capponi descrive come l’organizzazione mirava alla formazione politica del gruppo,

mettendo in risalto una lezione che Gioacchino Gesmundo26 fece in clandestinità ai

compagni: «[…] il professore insisteva sempre sul fatto che la lotta che stavamo

compiendo non poteva né voleva essere una “rivoluzione” come in Russia. Ci spiegava che

il popolo italiano aveva sulle spalle vent’anni di silenzio politico: un’intera generazione era

cresciuta nell’assoluta ignoranza di qualsiasi forma di democrazia e di impegno politico e

non era quindi pensabile che il popolo avesse la capacità di passare dalla totale inerzia

politica a un’azione di lotta rivoluzionaria. […] Ci spiegava che il compito dei comunisti

era quello di intervenire per guidare le masse a prendere coscienza di sé, ad avviarsi verso

nuove forme di democrazia. Noi dovevamo porci alla testa di quello scontento (si riferisce

alle prime esplosioni di ira popolare) e di guidarlo onde impedire che si orientasse verso

forme di ribellismo anarchico, di protesta disorganizzata e quindi perdente. Il percorso di

questa evoluzione politica delle masse lo prospettava come lungo e difficile, e per questo

era fondamentale respingere ogni forma di settarismo, di chiusura ideologica. Si doveva

costruire una grande alleanza antifascista, appoggiando e aiutando ogni movimento a

esprimere la lotta»27.

Il gappista, a differenza di altre forme di partigianato, necessita di una forte motivazione

perché è chiamato ad accettare di lasciare tutta la sua vita, compreso il suo nome.

25 A. Gobetti, Perché erano tante nella Resistenza, in La donna in Italia, Roma, in “Rinascita”, marzo 1961, p.246. 26 Gioacchino Gesmundo fu professore di storia e filosofia presso il liceo Cavour a Roma. Durante il fascismo si iscrisse al Partito Comunista Italiano e fu attivo nella resistenza romana. Sotto l’occupazione tedesca ospitò nella sua casa la redazione del giornale “L’Unità” e, successivamente, detenne l’arsenale dei GAP romani ai quali aderiva. Il 29 gennaio 1944, fu arrestato perché, dopo una perquisizione, lo trovarono in possesso di sacchi di chiodi a tre punte che sarebbero serviti per un attentato ai danni di un trasporto tedesco. Venne tradotto nel carcere di Via Tasso dove venne torturato per circa un mese. Fu condannato dal tribunale di guerra tedesco alla pena capitale. Fu fucilato alle Fosse Ardeatine. 27 C. Capponi, Con cuore di donna. Il ventennio, la Resistenza a Roma, via Rasella: i ricordi di una protagonista, Milano, il Saggiatore, 2009, pp.169-170.

12

Anche il partigiano di montagna lascia la sua casa, ma non nello stesso modo di un

gappista. La famiglia del partigiano di montagna asseconda la scelta, soffre, ma la ritiene

inevitabile per evitare l’arruolamento.

La scelta del gappista nasce esclusivamente da una coscienza politica preesistente e la

famiglia prova lo sgomento dell’allontanamento e del pericolo della perdita.

Dalla montagna si potevano ricevere notizie grazie alle staffette. Si potevano conoscere le

azioni di guerra e il nome dei caduti. Il gappista e la sua famiglia dovevano, invece,

accettare che la completa clandestinità avrebbe richiesto il totale isolamento per garantire

l’anonimato. Inoltre, il gappista lasciava tutto di sé compresa la sua identità per costruirne

una nuova basata sull’unica certezza di appartenere alla causa comune.

Come sostiene Santo Peli, le modalità di azione gappiste, a differenza di quelle messe in

atto dalle brigate partigiane, sono quelle classiche del terrorismo28 con uccisioni mirate di

singoli individui, come avverrà per l’uccisione di Giovanni Gentile, e con attentati

dinamitardi come quello di Via Rasella.

Le condizioni esistenziali e materiali del partigiano urbano sono precarie, sia dal punto di

vista logistico, che emozionale. Vive come un animale braccato, rischia di essere sempre

riconosciuto in quanto le azioni dei GAP si compiono in pieno centro città a viso scoperto.

La volontà è quella di comunicare alla massa degli indecisi che, non solo scegliere non è

impossibile, ma che la scelta non consiste in un gesto eroico in quanto il nemico, al di là

dell’ostentazione della propria forza, è fragile e quindi attaccabile.

La fragilità del gappista è la solitudine. Come testimonia Giovanni Pesce «non è il rischio,

è l’isolamento a logorare il gappista»29 per questo, da tante testimonianze, emerge che,

pur consci delle regole di clandestinità molti gappisti le infrangono più volte. La necessità

di socializzare, di ritrovarsi, di sentirsi vivi, era più forte di quelle regole.

Il commiato con la famiglia era sempre doloroso e carico di senso di colpa. Fare

questo tipo di scelta significava lasciare e aggravare di preoccupazione i propri cari che già

vivevano in gravi difficoltà.

28 I GAP occupano un posto marginale nella memoria collettiva e nella storiografia resistenziale. I motivi che determinano questa assenza sono essenzialmente due: la prima è che i GAP hanno agito secondo le modalità classiche del terrorismo. La seconda motivazione è riconducibile alla radice organizzativa che faceva capo al Partito Comunista. Questa connotazione politica, per motivi facilmente immaginabili, ha prodotto una forma di emarginazione storica nell’immaginario collettivo. Per approfondire questo argomento si veda S. Peli, Storia di GAP. Terrorismo urbano e Resistenza, Milano, Einaudi, 2014. 29 G. Pesce, cit., p. 72.

13

Carla Capponi racconta: «prima di trasferirmi a Centocelle mi recai dalla mamma per

avvertirla che da quel momento ci saremmo separate e che per qualche tempo non

avremmo dovuto frequentarci. […] Non ebbi il coraggio di dirle che stavo per entrare in

piena clandestinità. I nuovi compiti mi imponevano regole severe: non mi era permesso

mantenere contatti con la famiglia e chissà per quanto tempo sarei dovuta restare lontana

dai miei senza poter dare loro notizie»30.

La donna, come l’uomo, deve rinunciare alla sua identità, ai suoi affetti. Deve rinunciare,

inoltre, ad avere un riferimento stabile come la casa. Il gappista è consapevole di dover

essere solo, abitante di un rifugio. «La casa? Un gappista non ci spera neanche: non ha più

casa, solo dei recapiti»31.

Anche il partigiano di montagna lascia la sua casa, ma la situazione è diversa. La

condivisione con gli altri, i legami che si formano all’interno della brigata, la possibilità di

confrontarsi esprimendo ciò che la realtà impone, creano la sensazione di avere una nuova

casa, una nuova famiglia. Il gappista e la gappista sono soli e vivono le loro paure in una

totale assenza di possibilità di espressione. Sanno che possono essere catturati in qualsiasi

momento e che dovranno resistere alle torture per permettere ai compagni di salvarsi.

Carla Capponi ne testimonia la lucida consapevolezza e così scrive: «la consegna per

l’arrestato era di resistere tre giorni alle torture e poi eventualmente cedere su un solo

indirizzo, in modo di consentire nel frattempo alla base di sloggiare portando via tutto il

materiale compromettente e isolandola da ogni collegamento»32.

Il passaggio dall’attività semiclandestina alla lotta armata era caratterizzato dalla

coscienza non solo dei rischi corsi, ma anche delle sofferenze psicologiche che sarebbero

sopraggiunte.

Carla Capponi ricorda e descrive il periodo di semiclandestinità antecedente alla scelta

gappista come «la premessa di quello che mi aspettava: miseria, violenza, forse morte.

Finalmente uscii da quell’incubo, e tuttavia capivo che da quel momento sarei entrata in un

altro terribile periodo della mia vita. Isolata e distaccata dal resto dei combattenti per

necessità di segretezza, avrei avuto scarse notizie di quello che avveniva in Roma a opera

degli altri partiti della coalizione antifascista»33.

30 C. Capponi, cit., pp. 173-174. 31 G. Pesce, cit., p. 99. 32 C. Capponi, cit., p. 175. 33 Ivi, cit., p. 177.

14

La preparazione dettagliata delle uccisioni mirate richiedeva uno sforzo emotivo straziante

nonostante il risentimento fosse il promotore di giustificazioni intime.

Affrontare il nemico in uno scontro armato non lascia la stessa ferita e lo stesso dolore

provato, nonostante la drammaticità del momento, per l’aver organizzato lucidamente una

uccisione che nega la possibilità di difesa.

Lo testimonia Carla Capponi scrivendo che «tuttavia, non potevo fare a meno di pensare

che eravamo lì per preparare il piano di morte di un uomo, e sentivo nascere dentro di me

un’infelicità, un’incertezza improvvisa, come se la mia personalità si sdoppiasse e io mi

sentissi prigioniera di situazioni irrimediabili alle quali non potevo sfuggire, pur avendole

scelte e determinate io stessa»34.

Carla Capponi parla di sdoppiamento della personalità dove da una parte emerge l’umano

dubbio sulla giustezza dell’azione. Si lascia andare alla descrizione di uno stato emotivo in

cui la sensazione di intrappolamento prevale sulla scelta razionale di cui si sente

responsabile.

Diversa è la figura della donna armata che ha combattuto in montagna. In genere

questa donna ha scelto la vita sovversiva per seguire il compagno, il fidanzato, il fratello.

Una partigiana piemontese racconta: «mio fratello mi aveva sempre detto: “ricordati che

non sei una donna: sei una comunista e stai combattendo nella Resistenza”, e non volevo

tradire questo compito»35.

Ada Gobetti, che aveva già una coscienza politica e un’attività antifascista alle spalle, si

aggiunse alla scelta di suo figlio appena diciassettenne, andando in Val di Susa, nei luoghi

dove lui operava, a coordinare le azioni partigiane della Resistenza armata36. Attraverso il

suo libro Diario partigiano37, regala pagine intense dove testimonia i sentimenti

34 C. Capponi, cit., pp. 111-112. 35 A. M. Bruzzone, R. Farina, cit., p. 99. 36 Ada Gobetti, è stata staffetta in Val Germanasca e Val di Susa dove il figlio Paolo era attivo. Insieme a Bianca Guidetti Serra tiene i collegamenti, con la qualifica di ispettore, con il Comando Militare delle formazioni Gielliste che sono i gruppi all’interno delle brigate partigiane legate al movimento politico “Giustizia e Libertà”, antifascista di ispirazione socialista e liberale. 37 «E infelice continuai a essere. E, a misura che passavano i giorni, la speranza si faceva più debole, più forte l’angoscia. Ripensandoci oggi, alla luce di tutto quel che accadde poi, debbo riconoscere che, s’anche posson sembrare eccessive, le mie paure non erano affatto infondate; e ancora mi chiedo come feci a resistere a quell’ansia spaventosa. Non era la prima volta che stavo in pena per Paolo; ma le altre volte s’era trattato al massimo di tre o quattro giorni e sapevo sempre, con maggiore o minore precisione, dove si trovava e dove avrei potuto cercarlo. Ora invece brancolavo nel buio, in un vuoto in cui mi pareva di impazzire. Continuavo a veder gente, a fare un mucchio di cose, un po’ perché ero nell’ingranaggio e andavo avanti per forza d’inerzia, un po’ perché avevo in mano i fili di troppe cose e non potevo lasciarli

15

contrastanti che ha vissuto e che oscillavano tra la disperazione della madre e la

responsabilità dell’impegno politico.

Molte partigiane sono state costrette a rifugiarsi in montagna in seguito ad un evento

specifico, come la distruzione della casa o l’uccisione della famiglia. Renata Viganò nel

suo romanzo L’Agnese va a morire, descrive il momento in cui la protagonista lascia la sua

casa dopo aver ucciso un tedesco.

Miriam Mafai racconta la necessità dello spostamento della staffetta in montagna una volta

scoperta. La riuscita di un’operazione dipendeva dal grado di padronanza che aveva sulle

proprie emozioni, infatti «una staffetta, se ha sufficiente sangue freddo e fortuna, può

svolgere il suo lavoro per molti mesi consecutivi. Ma se, a un certo punto, quando sorge il

sospetto che sia stata individuata, diventa indispensabile trasferirla in montagna»38.

Il lavoro della staffetta si basava, soprattutto, sulle capacità manipolatorie che,

inizialmente, seguivano la via dell’inconsapevolezza come tante testimonianze hanno

confermato. Col susseguirsi delle operazioni, le ragazze facevano esperienza del pericolo

o, addirittura, si confrontavano con la violenza. A lungo andare, il rischio corso sarebbe

stato quello di una possibile perdita del controllo delle emozioni che le avrebbe messe in

pericolo andando incontro ad un sicuro arresto.

Era molto difficile fingere la comunicazione non verbale. Questa operazione

richiedeva la capacità di dominare il turbamento ma, soprattutto, una grande dose di

incoscienza. Miriam Mafai descrive l’azione della staffetta evidenziando l’aspetto della

finzione e della capacità di mostrare naturalezza di fronte al pericolo come elemento

essenziale per la riuscita dell’operazione. La perdita di spontaneità significava essere in

una situazione di pericolo maggiore. Così scrive: «ad ogni posto di blocco la ragazza

scende dalla bicicletta, si avvicina tranquillamente, scherza persino con i militi, se

necessario scambia qualche parola in più, va a bere un caffè. Importante è passare, evitare

la perquisizione o fare della perquisizione stessa nulla più che un gioco, uno scherzo,

un’occhiata rapida con la quale si verificherà che in effetti nella sporta c’è l’uva o il

carbone o dei panni o delle patate. La tensione logora, dopo un pò i nervi delle ragazze. La

cadere. Ma nei rari momenti di sosta, quand’ero sola, avevo delle vere crisi di disperazione e urlavo come una bestia ferita». Cfr., A. Gobetti, Diario partigiano, Torino, Einaudi, 1956, p. 250. 38 M. Mafai, Pane nero. Donne e vita quotidiana nella seconda guerra mondiale, Roma, Mondadori, 2008, p. 250.

16

coscienza del pericolo reale rende i loro gesti meno spontanei, il loro sorriso e le loro

parole meno convincenti. Allora, è il momento di cambiare»39.

I ricordi di queste donne sono molto diversi dalle donne gappiste. Non sono state esenti

dalle sofferenze, semplicemente sono state diverse. Ricordano il freddo, la fame, la paura,

ma mai parlano di solitudine, di isolamento, di dubbio della scelta, anzi, dai loro racconti

emerge la nostalgia della lotta collettiva caratterizzata «dall’avventura, dalle speranze,

dalla giovinezza – tutto era in movimento, tutto poteva succedere. La Resistenza è stata

felicità e pienezza»40.

La stessa Ada Gobetti scrive: «partii per l’impresa che, pur senz’essere pericolosissima,

presentava tuttavia rischi d’ogni genere, in uno stato d’animo d’assurda, incosciente letizia;

come se si andasse in vacanza; come se si partisse per una di quelle avventure di cui era

stata priva la mia infanzia solitaria e a cui avevo cercato di trovare un compenso vivendo,

attraverso quella di mio figlio, un’infanzia nuova, libera e avventurosa»41.

L’esperienza della Resistenza ha significato, per molte donne, una possibilità per vivere

relazioni autentiche mai conosciute prima. Una modalità profonda e fraterna che, anche

dopo la guerra, si riaccendeva tra loro ogni qualvolta si incontravano. Tutte le

testimonianze descrivono il rimpianto di un periodo della vita in cui il benessere della

solidarietà vissuta era più forte della paura del pericolo corso. Così racconta una partigiana:

«sono contenta di aver fatto la Resistenza e rimpiango quel periodo e dico subito perché:

c’era una grande solidarietà, e ancora adesso la sentiamo, incontrandoci, noi che abbiamo

partecipato a quella lotta. […] la nostra amicizia è una cosa pura»42.

Le relazioni del partigianato assumono caratteristiche di veri e propri legami basati sulla

solidarietà. Questa peculiarità relazionale già esisteva nella cultura contadina, ma la

Resistenza la intensifica e permette la caduta delle differenziazioni e delle separazioni di

genere connotando alla relazione un aspetto di autenticità. Ferdinand Ebner sostiene che

«non è la vita che va in frantumi, ma la forma nella quale essa è contenuta»43. La

Resistenza ha demolito le forme relazionali precostituite culturalmente e regolate da

39 M. Mafai, Pane nero, cit., pp. 223-224. 40 A. M. Bruzzone, R. Farina, cit., Prefazione, p., X. 41 .A. Gobetti, Diario partigiano, cit., p. 286. 42 A. M. Bruzzone, R. Farina, cit., pp. 98-99. 43 «la grazia fa dell’io il tu dell’amore. Non è la vita che va in frantumi, ma la forma nella quale essa è contenuta. E quando questa forma è falsa, è bene che si frantumi. Sarebbe però una vita perduta quella che, al frantumarsi della sua forma andasse in rovina. Spiritualità è cercare il valore della vita, nell’incertezza dell’esistenza. Spiritualità è scoprire il valore della vita nel superamento interiore della problematicità dell’esistenza». Cfr, F. Ebner, La parola è la via, Roma, Anicia, 1991, pp. 96-97.

17

comportamenti diversificati dal genere, per lasciare spazio a modi inediti di stare in

relazione.

La relazione tra le persone, non soltanto tra i generi, si intensifica a prescindere la vera e

propria conoscenza intima.

I comandanti delle brigate non escludono, al combattente, la possibilità di collaborare alla

pianificazione di un’azione o di esprimere la propria idea. Il soldato dell’esercito combatte

una guerra che gli è stata imposta e che, spesso, non comprende. Il partigiano la sceglie

quotidianamente e la pianifica attivamente come Vincenzo Moscatelli, nome di battaglia

Cino, dichiara in una intervista: «nell’esercito il combattente è niente, deve essere niente,

non deve neanche pensare, ci sono i comandanti che pensano. Invece nell’esercito

partigiano, direi, è il partigiano il punto di partenza»44.

Il legame si crea attraverso il comune obiettivo che ne diventa il fine, permettendo la

maturazione di una spiritualità che eleva oltre gli eventi, oltre la morte. Forse è questo

aspetto a regalare ai condannati a morte la serenità che hanno mostrato. I loro messaggi

sono state tutte testimonianze di riconciliazione, di perdono e di amore.

L’esperienza del profondo sentimento di solidarietà, probabilmente, dava la certezza che la

propria vita non sarebbe andata perduta nel suo aspetto significante. La morte non era

vissuta con disperazione, ma con la consapevolezza di essere parte di qualcosa di grande

che avrebbe continuato a vivere.

I testimoni parlano di rispetto, di fiducia, di identità scelte e non imposte. Le

esperienze fatte, attraverso l’instaurarsi di relazioni significanti, hanno prodotto un

atteggiamento di fiducia che è perdurato anche dopo la guerra. Una partigiana racconta che

«c’era un grande rispetto, un rispetto massimo, fra donna e uomo: posso dire che ho

dormito insieme a dei partigiani, lui da una parte, io dall’altra. […] Proprio per questo

rispetto, per questa fiducia che io ho acquisito nel movimento della Resistenza, mi son

creata una coscienza interna per cui poi ho dato sempre fiducia a tutti»45.

Dalle descrizioni dei testimoni è possibile notare che, all’interno del partigianato, emerge

un modo di stare in relazione dove aspetti di interesse collettivo e di collaborazione

prevalgono su interessi personali. Sicuramente l’emergenza della situazione non ha lasciato

spazio ad altri sentimenti umani, conferendo alle relazioni stesse un aspetto esente

dall’essere sessuato. La descrizione dei sentimenti provati delineano un tipo di relazione

44Cfr., https://www.youtube.com/watch?v=huw8PS7IKVM 45 A. M. Bruzzone, R. Farina, cit., pp. 98-99.

18

che più si avvicina a quella che possiamo definire amicizia e che assume le sembianze di

amore in quanto libero da tacite attese.

Ciò che ci si aspetta dall’amicizia è la lealtà, quindi, più che a qualcosa, l’attenzione e le

regole amicali sono rivolte allo stile relazionale e alla costruzione della reciproca fiducia.

La rete dei rapporti che ha unito il partigianato, sia maschile che femminile, e che l’ha reso

particolarmente forte, si basava su una solida e reciproca fiducia.

Nuto Revelli, mette in evidenza l’importanza dell’aspetto relazionale nella lotta di

Liberazione. Reputa necessaria la generosità di ognuno attraverso il dono delle proprie

capacità personali e rimanda all’aspetto valoriale della lealtà la possibilità di riuscita.

Dichiara che «quel che conta è che esista una solidarietà di banda, per cui ognuno di noi

riesca a dare il meglio di se stesso. Chi si chiude nell’egoismo, chi si preoccupa della

propria pelle e basta, tradisce gli altri, tradisce i suoi compagni»46.

Non viene, quindi, richiesta una specifica prestazione, ma un atteggiamento collaborativo

dove ognuno aveva il suo compito da eseguire al meglio delle sue potenzialità.

Rosi Braidotti parlerà di soggetto nomade descrivendo colui che si rende disponibile

ad un cambiamento radicale che coinvolge la cultura in tutti i suoi aspetti prestabiliti. Il

nomadismo dell’identità è una forma non strutturata dell’identità stessa che permette

migrazioni di esperienze emotive o culturali considerate, in forma esclusiva, patrimonio

del genere maschile o femminile47.

La Resistenza ha creato le condizioni sociali che hanno permesso tali migrazioni,

emotive e culturali, promuovendo esperienze di sentimenti deputati solo al maschile,

ridefinendo il contesto sociale, i ruoli e la ripartizione del pubblico e del privato nelle

compartecipazioni di genere.

In tutti i racconti delle donne traspare l’esperienza del varcare i confini, reali o simbolici,

senza mai appartenere totalmente a una sola delle sfere tradizionalmente separate come la

sfera pubblica e privata. Ad esempio, nella ridefinizione dei luoghi e dei rapporti, la casa

della contadina non rappresenta più il luogo del privato e dell’intimità. È diventato il luogo

dove viene organizzata e operata la Resistenza.

La scelta resistenziale appare, tuttavia, come un’ esperienza individuale e come assunzione

di responsabilità che coinvolse entrambe i sessi, ma la presenza delle donne ha assunto un

valore diverso in quanto furono costrette ad inventare la propria partecipazione e a

46 N. Revelli, Le due guerre, cit., pp. 148-149. 47 R. Braidotti, Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernità, Roma, Edizioni Donzelli, 1995.

19

misurarsi con la violenza. I nuovi luoghi sociali e le esperienze emotive inaspettate,

rappresentano, per le donne, momenti in cui il confronto, con le radicate costruzioni

ideologiche, richiedevano una sorta di sfida. Ad esempio, da sempre donne e uomini hanno

avuto spazi separati e i rapporti di genere sono sempre stati associati al privato. La

Resistenza abbatte queste barriere relazionali ed apre nuove modalità di rapporto che

irrompono nella cultura come forme trasgressive.

I partigiani della montagna non convivevano con la prepotenza e la presenza

continua dei nazi-fascisti come le staffette. Erano isolati da questa realtà e, pur conoscendo

la paura di essere scoperti e uccisi, l’ambiente, a loro familiare, li proteggeva. Non era

richiesta loro la competenza emotiva dell’affronto manipolatorio del nemico e non

sentivano la continua tensione del mascheramento. Inoltre, non avevano il peso della

doppia identità in quanto erano nascosti, ma scoperti nella loro scelta. La staffetta si

confrontava con l’ordine imposto dal nazi-fascismo e ha imparato a muoversi all’interno di

esso fingendo di assecondarlo. Luciano Bergonzini ricorda che «nella maggioranza dei casi

il compito dei collegamenti, anche fra i vari reparti, fu affidato a donne, per lo più ragazze,

assai abili nei trasferimenti e anche nel passaggio attraverso i posti di blocco tedeschi e

fascisti»48.

La spinta motivazionale della donna, che in diversi modi ha partecipato alla Resistenza, è

quella di appagare il bisogno di salvare qualcosa che non è soltanto il proprio, ma è

qualcosa che appartiene alla collettività. La donna partigiana disarmata vuole salvare i

valori collettivi, la cultura, forte dell’educazione che ha ricevuto dalla terra stessa. Per

queste donne ribellarsi non significa solo imitare gli uomini imbracciando il fucile. Sia in

città che in campagna fanno muro durante i rastrellamenti in difesa degli uomini e ne

salvano a migliaia. Arrigo Boldrini racconta che «a S. Zaccaria e in altre frazioni di Ville

Unite dove i tedeschi hanno rastrellato molti uomini da trasferire in Germania, la reazione

delle donne è stata immediata ed energica, per cui alla fine si sono liberati gli uomini e

alcune donne arrestate nel corso dell’agitazione»49.

Le donne avvertono i partigiani del pericolo, nascondono, curano e sfamano chiunque sia

braccato. Le operaie organizzano gli scioperi e i boicottaggi delle produzioni belliche. Non

distinguono più tra i propri figli e i figli degli altri, rischiano la vita dei propri per salvare

quella degli altri. Volevano resistere ad ogni costo all’ordine nazi-fascista e lo facevano

48 L. Bergonzini, cit., p. 256. 49 A. Boldrini, Diario di Bulow, cit., p. 113.

20

con forza e con ogni mezzo a disposizione. Senza armi volevano salvare la casa nel suo

significato simbolico, la terra e i suoi raccolti, il luoghi della riproduzione di valori su cui

si basava la comunità contadina.

Condividono il dolore delle perdite che erano considerate amputazioni di tutta la comunità.

Lavano e seppelliscono i cadaveri dei partigiani torturati e poi impiccati per essere esposti

a lungo come monito alla popolazione, contravvenendo, a rischio della propria vita, agli

ordini di chi li aveva uccisi.

Il partigiano della pianura operava in modo diverso da quello della montagna e, spesso, la

scelta del collocamento degli organizzatori resistenziali era fatta in base alle necessità.

Nuto Revelli testimonia che «Piero non scelse la montagna nemmeno quando la nostra

organizzazione di pianura sembrava sfaldarsi. Il suo posto era in basso, in città e per le

campagne del cuneese, dove organizzava squadre cittadine e colpi di mano, dove tesseva

una fitta rete di informatori e collegamenti: fra posti di blocco fascisti e tedeschi, fra spie e

doppiogiochisti»50.

Il partigiano della montagna deve conoscere e sapersi muovere in un ambiente che offre la

possibilità di ingannare il nemico non attraverso la parola, ma attraverso una tattica di

guerra dove è più forte chi attacca e chi confonde l’avversario. Infatti, Nuto Revelli

dichiara che «la nostra arma migliore è la sorpresa, è la mobilità, è il tenere in pugno

l’iniziativa. Se punzecchiamo i tedeschi nel momento giusto, se non smascheriamo il

nostro schieramento, se lasciamo credere al nemico che siamo molti e non in cento, il

nostro successo è garantito in partenza»51.

La guerra di Liberazione è stata una guerra caratterizzata da aspetti inediti della guerriglia

dove il conflitto armato classico sarebbe stato impari in quanto le formazioni partigiane

risultavano troppo deboli militarmente per sostenere scontri con l’esercito nemico in

campo aperto.

Quindi, fu necessario creare numerose piccole unità mobili impegnate in continue azioni di

disturbo allo scopo di logorare le forze armate nemiche soprattutto dal punto di vista

emotivo.

La collocazione frammentata delle brigate e la mobilità delle stesse richiedeva

necessariamente la creazione di una rete di raccordo tra le varie basi operative, ruolo che

venne ricoperto dalle donne.

50 N. Revelli, La guerra dei poveri, cit., p. 233. 51 N. Revelli, Le due guerre, cit., p. 155.

21

L’unione e la collaborazione di tutte le forze politiche antifasciste fu determinante per non

disperdere le limitate risorse. La Resistenza ha permesso di sperimentare un contatto

umano che si raggiunge solo attraverso la condivisione delle passioni e delle sofferenze

che ne derivano e di stabilire, inoltre, una forza collettiva coesa dall’intento. Così racconta

una testimone: «quel periodo lo vedo bello, perché veramente c’era l’unione del popolo

italiano. Una solidarietà con i ragazzi del Partito d’azione, del Partito socialista! […] Se si

riuscisse di nuovo a creare quello spirito, per cui non vedi più le divisioni dei partiti! Ma

questo naturalmente è impossibile, perché son cose che si creano nei momenti della

lotta»52. Questa testimonianza permette di valutare aspetti della realtà resistenziale, quali la

necessità e l’emergenza, come caratteristiche indispensabili per innescare forme di

solidarietà molto forti in grado di superare divisioni ideologiche.

Durante la lotta per la Liberazione dall’occupazione nazista, le donne svolsero ruoli

molteplici e determinanti. La Seconda Guerra mondiale fu il momento storico in cui il

compito delle donne si rivelò prezioso e insostituibile anche nelle attività produttive ed

economiche.

Arrigo Boldrini ha dichiarato che «senza le donne non ci sarebbe stata la Resistenza» e

sottolinea la presenza di «una generosità non sempre conosciuta in altre epoche

storiche»53.

La figura della donna appare, dunque, in quegli anni, di fondamentale importanza, sia nelle

attività produttive del Paese che all’interno del movimento partigiano. Essa si deve

confrontare con la miseria, ma anche con uno scenario sociale inedito che appare come un

laboratorio di sentimenti e comportamenti contrastanti. Il rovesciamento delle alleanze e la

guerra civile investono tradizioni culturali, convinzioni politiche, fedi religiose, disegnando

una nuova realtà che cambia radicalmente e che vede le donne, trasformate dal nuovo ruolo

sociale, entrare negli spazi della politica e della guerra.

52 A. M. Bruzzone, R. Farina, cit., p. 99. 53 «Respingiamo l’interpretazione che considera la guerra di Liberazione come una guerra civile per la conquista di centri di potere. La lotta di Liberazione fu un movimento popolare di partigiani e partigiane sostenuto da una grande solidarietà popolare, con i militari delle tre forze armate, che hanno combattuto assieme per riconquistare la libertà per tutti: per chi c’era, per chi non c’era e anche per chi era contro, con una generosità non sempre conosciuta in altre epoche storiche. Questo è il grande dato storico, che va sottolineato anche per rendere omaggio a tutti i Caduti e a quanti della nostra generazione sono scomparsi, e che ci hanno lasciato un nobilissimo testamento che non può essere dimenticato». Cfr., Arrigo Boldrini al Teatro Lirico di Milano il 24 giugno 1994 in occasione del 50° anniversario della costituzione del C.V.L. (Corpo Volontari della Libertà).

22

I sentimenti che sono emersi dalle testimonianze, soprattutto nelle giovani donne che

sentirono la forte spinta a diventare come non era consentito in passato, sono intensi e,

tuttavia, pieni di timore perché affrontare la libertà di decidere in merito alla propria vita

senza che nessuno prescriva la direzione da prendere era un’esperienza nuova.

Infatti, Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina osservano che «in una parte dei racconti

prevale ancora l’idea che per le donne il diritto di presenza e di parola è qualcosa da

meritare»54.

L’adattamento comportamentale femminile antecedente alla Resistenza, chiedeva la

negazione e la repressione sistematica della propria personalità al fine di sostituirla con

un’altra precostituita culturalmente. Paradossalmente, però, questo adeguamento risultava

la soluzione efficace per il superamento dell’inquietudine relativa alla responsabilità della

scelta di chi essere nel mondo.

Le diverse forme che può prendere la vita umana non sono altro che le possibilità che

l’uomo si trova di fronte e tra le quali deve scegliere. Questa apertura verso il possibile dà

vita all’angoscia che è l’esperienza emotiva di questa possibilità, la coscienza di conoscere

la differenza fra il bene e il male.

L’angoscia è un sentimento connaturato all’uomo che si trova davanti alla libertà intesa

come possibilità assoluta. Quindi, è possibile affermare che la libertà, per concretizzarsi

attraverso una scelta, necessita di essere tradotta in azioni che mirano al superamento dei

condizionamenti culturali.

L’adeguamento della donna allo stereotipo culturale salvava dall’ansia di dimostrare di

essere meritevole della presenza nel corollario universale della cittadinanza.

La subordinazione emotiva prima, comportamentale dopo, ha radici in una cattiva

educazione alla responsabilità personale. La diversa educazione di genere prevedeva per la

donna, come sua unica possibilità di realizzazione, il matrimonio e l’adeguamento alla

volontà del marito in quanto deputato al compito di definire l’identità familiare.

Elsa Oliva, partigiana piemontese, «racconta di aver dovuto mettere le cose in chiaro con i

compagni: li avrebbe curati se necessario, ma nessuno contasse su di lei per essere

servito»55. Questa testimonianza dimostra che è la consapevolezza di sé che permette di

cambiare completamente la visione e il giudizio della realtà.

54 A. M. Bruzzone, R. Farina, cit., Prefazione, p. IX. 55 Ivi, Prefazione, p. XII.

23

La possibilità di regredire in un atteggiamento di rassegnazione, però, è sempre in agguato

in quanto, attraverso la scoperta di un’altra possibilità, si concretizza anche la possibilità

dell’errore e dell’azione con esiti imponderabili.

La scelta della donna partigiana ha, come caratteristica, la capacità di saper sostenere

contemporaneamente il carico emotivo dell’angoscia, che ha radici nella scelta e che

accompagna costantemente l’esistenza dell’uomo, e della paura, che ha a che fare con la

realtà contingente e che cessa quando cessa il pericolo.

Questa analisi propone una prospettiva diversa di osservazione della vita concreta del

mondo femminile durante la Resistenza, permettendo di entrare nei sentimenti della donna

sovversiva che interagisce con la realtà esterna e, soprattutto, con la sua realtà emozionale

interna. Infatti, la forza del partigianato femminile si è manifestata soprattutto nella

capacità immediata di operare la scelta, sicuramente provocata da una estrema urgenza di

schierarsi, che ha portato le donne a decidere di agire la possibilità.

La partigiana Onorina Brambilla scrive che «mai come in questi mesi ci siamo sentite pari

all’uomo. Paradossalmente, con la guerra si crearono le condizioni di una libertà personale

mai sperimentata prima. Molte di noi con la Resistenza si guadagnarono la loro autonomia.

E fu nel giornale dei Gruppi di Difesa della Donna, “Noi Donne”, che lessi per la prima

volta la parola “emancipazione”»56.

La disperazione è il sentimento che accompagna la persuasione di una sconfitta

irreparabile. La descrizione di questo sentimento non appare mai nei racconti biografici e,

forse, spiega il coraggio che emerge dagli scritti dei condannati a morte. Le loro

testimonianze si basano sulla certezza che la loro morte non sarà inutile, anche se

inevitabile. Questa consapevolezza determina il paradosso resistenziale che vede la

trasformazione della sofferenza in utilità e facente parte di un individuo che è storico, ma

ha anche trasceso la storia diventando un individuo metastorico nel momento in cui è

diventato martire.

La donna usa armi non convenzionali, come il coraggio, la duttilità, la capacità di

manipolare i rapporti, organizza gli scioperi e le manifestazioni, ostacola lo sfruttamento

delle risorse locali da parte degli occupanti, offre ospitalità ai renitenti e ai partigiani. Le

donne hanno rifocillato, curato, trasportato armi, viveri, cibo, vestiario, informazioni, tutte

affermando che questo si doveva fare perché era giusto.

56 O. Brambilla Pesce, Il pane bianco. Memorie di una partigiana, Varese, Milieu edizioni, 2010, p. 44.

24

Anna Bravo mette in luce come le forme di opposizione al regime fascista e all’occupante

tedesco abbiano seguito modalità molto diverse tra loro, ma senza cancellare il presupposto

comune che era alla base anche della guerra armata dei partigiani57.

Jacques Sémelin parla della resistenza civile58 ponendo al centro dell’attenzione la

modalità della resistenza disarmata che ha radici nella consapevolezza della scelta e che

risulta, allo stesso modo, destabilizzante per il nemico.

Finita la guerra, molte donne sono tornate alla vita normale, hanno pianto i loro morti e

hanno continuato, come loro era consentito, ad accudire la famiglia, a lavorare nei campi o

nelle fabbriche e, come sempre accade quando si parla di un soggetto silenzioso, le tracce

delle attività delle donne dopo l’8 settembre sono scarse e rintracciabili soprattutto nei

racconti dei testimoni. Si ristabiliscono modelli educativi il cui obiettivo è diretto a

«veicolare stili di vita finalizzati ad avviare bambini e bambine, pur con modalità diverse a

secondo della classe sociale d’appartenenza, verso destini sociali e affettivi radicalmente

diversificati secondo le norme implicite in una rappresentazione dell’identità sessuale, alla

quale è stato affidato il compito di segnare il passaggio dalla nascita biologica a quella

culturale»59.

Fino agli anni ’70, anni in cui in Italia si sviluppa la storia di genere, delle donne della

Resistenza si conosce molto poco e continuano ad essere, per l’immaginario collettivo, le

mogli e le madri dei partigiani.

La storia resistenziale di genere si sviluppa nella direzione della raccolta di storie di vita e

si basa su alcuni paradigmi, come Resistenza civile e il maternage di massa introdotti in

Italia da Anna Bravo, assumendo primaria importanza nel tentativo di ridefinizione del

ruolo femminile durante la Resistenza60.

La resistenza civile è la resistenza quotidiana nel quotidiano e le donne assumono un ruolo

decisivo in quanto ne sono le iniziatrici, già all’indomani dell’8 settembre, prestando

soccorso ai soldati sbandati in tutti i loro bisogni.

Questo concetto appare indispensabile per riuscire a superare la visione della realtà storica

in cui l’antagonismo sociale prevale. La Storia richiede la capacità di vedere uno scenario

57 A. Bravo, A. M. Bruzzone, In guerra senza armi, cit. 58 J. Sémelin, Senz’armi di fronte a Hitler. La Resistenza Civile in Europa 1939-1943, Torino, Edizioni Sonda, 1993. 59 C. Covato, Memorie discordanti. Identità e differenze nella storia dell’educazione, Milano, Unicopoli, 2007, p. 54. 60 A. Bravo, Resistenza armata, Resistenza civile, in L. Derossi, a cura di, 1945: il voto delle donne, Milano Franco Angeli, 1998, pp. 87-101.

25

dove cittadini e gruppi sociali sono i protagonisti del loro tempo. L’equiparazione fra il

comportamento attivo attraverso la presa delle armi, e la scelta arbitraria non violenta,

permette il superamento della polarità di genere che vede il maschile associato alla guerra e

il femminile associato alla pace.

Anna Bravo definisce maternage di massa, cioè l’estensione del ruolo materno alla sfera

pubblica, l’istintivo prestare aiuto ai figli di altre madri con la speranza che altre madri

facciano la stessa cosa con i propri. La storica legge, in questo aiuto spontaneo, una

dimensione politica in quanto, dopo il venir meno dello Stato sovrano, le uniche figure che

si assumono il compito di riportare allo stato civile i soldati furono le donne che,

svestendoli degli abiti militari, legittimarono quella che fu la più grande diserzione della

storia61.

Chi protegge un perseguitato non si mette in una posizione di attesa, ma sceglie, si espone

e, con il suo comportamento, esemplifica il rapporto che esiste fra il tema della Resistenza

civile e quello della responsabilità individuale.

Ada Gobetti, pur riconoscendo il ruolo materno come una componente valorizzante

dell’essere donna, teme che questo aspetto vada ad oscurare la motivazione di

consapevolezza sociale che la donna ha, invece, dimostrato di avere. Così scrive: «pensavo

che compiti fondamentali delle donne fossero la tolleranza, la comprensione, l’amore: e

ancora non m’ero resa conto – come compresi – che non è vero amore quello che non

sappia odiare chi minaccia di distruggerne l’oggetto. E se la donna è, proprio in quanto

madre, naturalmente nemica della guerra e amante della pace, è però lontanissima per

temperamento e per necessità da un generico e qualunquistico pacifismo»62.

Infatti, Nuto Revelli spiega che fare politica significa «combattere su un piano di rigorismo

morale, di volontario sacrificio, guardando al domani senza guerre: vuol dire fare la guerra

ai tedeschi e ai fascisti per un mondo nuovo, il mondo di questa gente, contadini, operai,

montanari»63.

La visuale storica della Resistenza cambia completamente se si riconosce la possibilità di

una partecipazione diversa, praticabile in molti più luoghi e forme e accessibile a molti più

soggetti.

61 «Cambiare status ad un individuo, da militare farlo rinascere civile, attiene al giuridico allo stesso modo del suo precedente inverso, che ha trasformato il civile in militare». Cfr, A. Bravo, A. M. Bruzzone, In guerra senz’armi, cit., p. 81. 62 A. Gobetti, Perché erano tante nella Resistenza, cit., p. 247. 63 N. Revelli, La guerra dei poveri, cit., p. 165.

26

Anna Folli, nella prefazione del libro Una donna di Sibilla Aleramo afferma che «se una

donna ha diritto ai mezzi per svolgere compiutamente la sua individualità, di cui la

maternità è parte integrante, allora questa donna recide da sé qualcosa che è pregiudiziale

proprio a quello svolgimento»64.

Le donne della Resistenza creano un nuovo ordine che dà vita ad una seconda esistenza,

recidendo da sé il vecchio ordine imposto dal regime fascista, dove le donne stesse

trovano, forse inconsapevolmente, collocazione in uno spazio sociale inedito in relazione

ad altri attori sociali, non più divisi attraverso gerarchie di genere, ma come individui che

danno significato intenzionale al loro agire e motivati dalla volontà di condividere e

proteggere i valori della comunità.

Sibilla Aleramo mette in luce lo stato emotivo della donna che si sente nell’ordine delle

cose e scrive: «in cielo e in terra, un perenne passaggio. E tutto si contrappone, si

confonde, e una cosa sola, su tutto splende: la pace mia interiore, la mia sensazione

costante d’esser nell’ordine […]. Spero qualcosa? No»65. Essere consapevoli di ciò che si

prova dentro di sé senza sentirsi sbagliate, è il passo fondamentale per essere padrone di se

stesse. La donna che emerge dal silenzio si rende consapevole di sé e i fatti dimostrano che

non si sente sbagliata, anzi, reputa il suo agire necessario.

L’aspetto educativo della Resistenza si palesa attraverso la creazione di situazioni in cui la

donna ha la possibilità di esprimere la sua unicità e irripetibilità scevra da condizionamenti

ideologici. A questo proposito Ada Gobetti sostiene che «un’altra caratteristica della

Resistenza femminile è la sua assoluta mancanza di femminismo da un lato e dall’altro la

sua ricchezza di femminilità. Non troviamo nelle donne della Resistenza neanche l’ombra

di quell’antagonismo nei riguardi degli uomini […]»66.

Un altro importante aspetto educativo resistenziale è stato quello di aver creato spazi

sociali in cui la donna ha potuto utilizzare la personale resilienza, costruita all’interno del

privato, ed erigere su di essa una resilienza sociale e di gruppo.

È possibile osservare, in tutte le donne della Resistenza, un alto grado di resilienza e ciò

induce a riflettere su quali siano stati gli elementi che abbiano prodotto l’emergere e lo

sviluppo di questa capacità che niente ha a che vedere con un atteggiamento di resistenza

rassegnata.

64 A. Folli, Prefazione, in S. Aleramo, Una donna, Milano, Feltrinelli, 2003, p. XIII. 65 Ivi, p. 164. 66 A.Gobetti, Perché erano tante nella Resistenza, cit., p. 249.

27

Ada Gobetti, riflettendo sulla presenza numerosa della donna nella Resistenza, individua il

passaggio in cui la donna matura la sua coscienza. Da una iniziale risposta affettiva

istintiva, la donna trasforma il suo modo di vedere il mondo e struttura la consapevolezza

di sé in relazione al mondo. Quindi, «la donna che non ha pane per sfamare i propri figli si

fa naturalmente bellicosa; quella che se li vede strappare dalle braccia e mandare a morire

lontano, diventa una belva per difenderli. Quando si parla di movimenti femminili di

massa, non bisogna mai dimenticare questo fondamentale istinto materno, esistente

potenzialmente in tutte le donne, che in alcune rimane a uno stadio primitivo di elementare

difesa, mentre in altre, filtrato attraverso una visione razionale, diventa coscienza di una

fraternità universale»67.

Le donne contadine non avevano una consapevolezza politica, ma, nonostante questo,

hanno dimostrato di essere in grado di utilizzare la personale esperienza per giudicare i

benefici e quella solidità emotivo-affettiva che è possibile realizzare solo attraverso il

rapporto con gli altri.

Quindi è possibile individuare, nella donna resistenziale, non solo la capacità di resistere

alle deformazioni culturali e politiche a cui è stata sottoposta senza perdere la sua identità,

ma dimostra capacità di ripristino delle proprie conoscenze per individuare un nuovo

spazio nello scenario sociale e collocarsi nella sfera pubblica con uno stile inedito che non

vuole essere imitazione dell’uomo, ma assume connotazioni e comportamenti che eludono

dalla mascolinizzazione affermando, invece, la femminilità che le appartiene.

La resilienza non è una capacità innata, ma viene appresa all’interno degli ambienti di vita

e dei contesti educativi.

Andrea Canevaro, definisce la resilienza come «la capacità non tanto di resistere alle

deformazioni, quanto di capire come possano essere ripristinate le proprie condizioni di

conoscenza ampia, scoprendo uno spazio al di là di quello delle invasioni, scoprendo una

dimensione che renda possibile la propria struttura»68.

È evidente che la cultura contadina e la durezza stessa della vita siano stati elementi

promotori all’acquisizione di comportamenti resilienti. All’interno della sua famiglia la

donna ha generato fattori biologici, psicologici e sociali che le hanno permesso, poi, di

resistere, adattarsi e rafforzarsi attraverso l’esperienza di rischio che ha affrontato, ma la

67 A.Gobetti, Perché erano tante nella Resistenza, cit., p. 246. 68 A. Canevaro, A. Malaguti, A. Miozzo, C. Venier, a cura di, Bambini che sopravvivono alla guerra. Percorsi didattici e di incontro con i bambini di Uganda, Ruanda e Bosnia, Trento, Erickson, 2001, p. 24.

28

donna resistenziale è, soprattutto, la nuova presenza attiva nella sfera politica e sociale che

ha lasciato un indelebile segno nella sfera valoriale.

È stata creatrice di nuovi valori al femminile. Infatti, la donna che esce dal silenzio e si

affaccia alla vita politica, teatro sociale fino ad allora di esclusiva competenza maschile, ha

necessariamente bisogno di nuovi valori che la rappresentino.

Le donne non vogliono essere di supporto all’azione dell’uomo, ma si differenziano, così

come scrive Ada Gobetti, mantenendo la loro identità di genere e portando «nella battaglia

elementi che distinguevano profondamente la loro azione da quella maschile»69.

Anche il fenomeno del maternage di massa, che richiama il valore tutto al femminile della

maternità, cambia nel suo significato simbolico assegnando alla maternità stessa, fino ad

allora vissuta nel silenzio del privato, un aspetto collettivo e politico inedito.

La donna resistente esprime il bisogno di esserci attraverso un fenomeno di rinnovamento

dei valori tradizionali della cultura contadina, come la solidarietà, in virtù della modernità

che il nuovo scenario politico richiedeva.

La politica, intesa come attività pratica all’organizzazione della vita pubblica, non può

prescindere dal sistema valoriale. Attraverso la caduta delle modalità relazionali che si

basavano su una rigida divisione di genere, la donna allarga competenze comportamentali

ed emotive resilienti al mondo maschile, strutturando un modus operandi che produce

coesione sia con le donne che con gli uomini, creando, così, una resilienza sociale e di

gruppo.

La popolazione contadina, in quel momento costituita prevalentemente da donne,

costruisce la sua forza formando una struttura sociale compatta, con un forte senso di

appartenenza che ha radici anche nel sentimento materno e nell’identità collettiva.

Si creano modi alternativi alla guerra armata per affrontare eventi e situazioni che mettono

in pericolo il gruppo e la sua identità. Paradossalmente, è proprio la conseguenza del

trauma che permette al gruppo di sviluppare capacità e risorse per una nuova fase di

crescita e di affermazione70. Le donne hanno mostrato un alto livello di resilienza,

rafforzato dalle nuove ostilità, che ha permesso alla Resistenza di assumere caratteri di

movimento di massa. 69 A.Gobetti, Perché erano tante nella Resistenza, cit., p. 245. 70 Suzanne Kobasa , psicologa dell’Università di Chicago, afferma che le persone che meglio riescono a fronteggiare le avversità della vita, quindi definite resilienti, mostrano contemporaneamente tre tratti di personalità: «l’impegno; il controllo; il gusto per le sfide». Cfr., http://www.mentesana.it/la-salute-mentale-othermenu-12/140-la-resilienza.html

29

La resilienza femminile resistenziale, quindi, appare come una caratteristica appresa

all’interno della famiglia, ma che si è poi sviluppata fuori di essa. Sono molti i fattori che

contribuiscono a determinare un alto grado di resilienza, ma quello che emerge come

fondamentale al fine di questa indagine, è la presenza di relazioni esterne alla famiglia con

persone premurose e solidali. Queste relazioni creano un clima di amore e di fiducia e

forniscono incoraggiamento e rassicurazione.

Questa caratteristica potrebbe essere riconducibile alla presenza delle tante donne dei

Gruppi di Difesa della Donna che hanno rappresentato, per le donne contadine, un punto di

riferimento comportamentale, ma anche un riferimento affettivo.

Le donne consapevolmente antifasciste hanno avuto il grande merito di aver accompagnato

la massa delle donne contadine e di aver saputo organizzare la grande forza innovatrice da

loro posseduta avvalorando, ancora una volta, quello che Anna Kuliscioff dichiarava: «per

la vittoria del socialismo occorre l’unione di tutti gli oppressi. Se una metà dell’esercito

manca all’appello, o viceversa, la battaglia può essere perduta»71.

La successiva esclusione delle donne dallo scenario del riconoscimento delle azioni di

guerra è il risultato dello ristabilirsi del precedente processo di riproduzione culturale.

Si ripristina, quindi, la naturalizzazione di valori e comportamenti sociali diversi a seconda

del genere, definito da Pierre Bourdieu habitus, che la Resistenza aveva completamente

ridefinito. Con la fine della lotta di Liberazione si ricostituisce il processo di «violenza

simbolica»72. Questo tipo di violenza è definita dolce in quanto viene esercitata col

consenso inconsapevole di chi la subisce73. I rapporti di forza, nelle relazioni di genere,

tornano ad essere predominanti attraverso la rinnovata imposizione della visione del

mondo e dei ruoli sociali che appartenevano alla cultura fascista.

Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina individuano il fenomeno del mancato

riconoscimento alla donna per la partecipazione attiva alla Resistenza come slegato da un

fenomeno di misoginia, ma lo descrivono come un’esclusione naturale dovuta a un fatto

culturale in quanto «quella di Resistenza è una guerra. Che la guerra non si combatta solo

con le armi e che la politica non sia solo quella dei partiti, è un’idea inevitabilmente

lontana dall’Italia di allora». Il ripristino dei luoghi comuni sulle donne, quindi, «le

71 A.Gobetti, Perché erano tante nella Resistenza, cit., p. 245. 72 P. Bourdieu, La violenza simbolica, Enciclopedia Multimediale delle scienze filosofiche, Intervista del 12-07-1993. 73 Il significato di violenza simbolica è bene descritto nel Film Una giornata particolare, di E. Scola, 1977.

30

dichiara inconciliabili con le armi e con la politica, in omaggio al quale azioni simili hanno

uno statuto diverso a seconda di chi le compie»74.

Tuttavia sono state le donne, inaspettatamente visibili nella sfera pubblica, che hanno

legittimato la Resistenza anche attraverso il materno e i comportamenti conflittuali inermi,

ma non solo. La necessità di dividere il genere attraverso la classificazione dei sentimenti è

un tentativo riduttivo di cercare delle certezze culturali. Allo stesso modo appare limitante

associare la Resistenza disarmata esclusivamente alla salvaguardia di beni e persone, e la

pietas a espressioni della coscienza cristiana e, quindi, riconducibili alla partecipazione

cattolica, come se atti e sentimenti simili non appartenessero anche all’esperienza del

combattente uomo o donna che sia.

Nonostante la Seconda Guerra mondiale abbia permesso alle donne di emergere

dall’anonimato e le abbia trasformate in soggetti storici riconoscibili, la figura femminile, a

Liberazione avvenuta, torna nel privato rinunciando al posto sociale acquisito durante

l’esperienza resistenziale. Anche all’interno del partigianato, dunque, si apre uno scenario

di destini educativi e di una pedagogia fondata sulla riproduzione della disuguaglianza di

genere.

Durante la Resistenza sono cadute le dicotomie prescritte e imposte socialmente dalla

cultura patriarcale che prevede il ruolo oblativo di cura per la donna, solida nel corpo e

nella mente, produttrice di figli della nuova Italia fascista, angelo del focolare sottomesso

al maschio lavoratore e guerriero, e un ripiegamento individualista su se stesso per l’uomo.

Goffredo Fofi sottolinea come Ada Gobetti abbia ritenuto che ciò è potuto accadere perché

l’Italia fascista era «un paese in cui il fascismo aveva abituato le persone a un continuo

compromesso con la propria coscienza e in cui il singolo si è sempre più preoccupato dei

propri problemi o di quelli del suo piccolo gruppo o “famiglia”», ma la Resistenza ha

creato la possibilità di «costruire un domani diverso e migliore, in cui non venisse chiesto a

nessuno di essere eroe, ma semplicemente di essere se stesso, serenamente, in una

comunità di uguali, con la responsabilità e i doveri che competono ogni cittadino»75.

74 «Non è misoginia, o non solo, è il frutto di una tradizione di un lungo periodo che sancisce il primato dell’iniziativa in armi e del legame politico in senso stretto, facendo delle altre modalità di azione e delle altre forme di concertazione un aspetto minore. A far apparire naturale questo modello è la stessa realtà: quella di Resistenza è una guerra. Che la guerra non si combatta solo con le armi e che la politica non sia solo quella dei partiti, è un’idea inevitabilmente lontana dall’Italia di allora. Per le donne si aggiunge il peso dello stereotipo che le dichiara inconciliabili con le armi e con la politica, in omaggio al quale azioni simili hanno uno statuto diverso a seconda di chi le compie». Cfr, A. M. Bruzzone, R. Farina, cit., Prefazione, p. XI. 75 G. Fofi, Introduzione, in A. Gobetti, Diario partigiano, cit., p. VII.

31

Le resistenze emotive, che per tutto il ventennio del regime non hanno permesso la

consapevolezza, erano finalizzate a soffocare la voce autentica della propria coscienza

commettendo in un certo senso quello che Virginia Woolf aveva chiamato, in altra sede,

«l’adulterio del cervello»76. La Resistenza ha permesso l’emancipazione di entrambi i

generi dalla rigidità dei ruoli tradizionali passando attraverso la decostruzione dei dualismi

socialmente costruiti privilegiando la valorizzazione della condizione umana.

La donna, schierandosi, ha ascoltato la sua voce autentica, che rifletteva la capacità di

cogliere e registrare il senso di quello che stava accadendo e che reclamava il proprio

desiderio di relazione e di empatia. Appare, quindi, paradossale questo suo dimesso rientro

nei luoghi sociali prestabiliti. L’ipotesi, che appare più convincente, è quella della paura

della eventuale sanzione sulla reputazione personale che la visibilità sociale avrebbe

scatenato.

Miriam Mafai riporta in Pane nero una significativa testimonianza di «Trottolina, la

staffetta del comandante Nanni che aveva passato più di un anno in montagna: “Io non ho

potuto partecipare alla sfilata, però. I compagni non mi hanno lasciato andare. Nessuna

partigiana garibaldina ha sfilato. Mi ricordo che strillavo: “Io vengo a ficcarmi in mezzo a

voi, nel bello della manifestazione! Voglio vedere proprio se mi sbattete fuori”. “Tu non

vieni, se no ti pigliamo a calci in culo! La gente non sa cos’hai fatto in mezzo a noi, e noi

dobbiamo qualificarci con estrema serietà”. Così alla sfilata ero fuori, in mezzo alla gente,

ad applaudire. Ho visto passare il mio comandante Mauri con i suoi distaccamenti

autonomi e le donne che avevano combattuto. Loro sì, che c’erano. Mamma mia, per

fortuna non ero andata anch’io! La gente diceva che erano puttane. Io non ho più nessun

76 Virginia Woolf si rivolge alle donne, in particolare alle scrittrici, e le incita a non commettere mai quello che lei definisce l’adulterio del cervello in quanto lo definisce un crimine molto più grave dell’altro adulterio. Scrivere per denaro cose che non si dovrebbero scrivere o, comunque, operare per ottenere privilegi di vario tipo, rappresenta il tradimento verso se stessi. Inoltre esorta le donne a non usare nessuna delle forme di prostituzione del cervello suggerite da chi trae giovamento da ciò, e di non accettare pubblicità e certificazioni per i meriti intellettuali perché rappresentano i segni che la cultura è stata prostituita e la libertà di pensiero ridotta schiava. Per Virginia Woolf non prostituirsi significa anche non cedere ai richiami del senso di dovere, dei sentimenti patriottici, in quanto la Patria, tanto esaltata nei periodi bellici, tratta la donna come una schiava negandole l’istruzione e qualunque partecipazione alle sue ricchezze. La Patria cessa di essere della donna nel momento che sposa uno straniero. Per questo definisce la Patria della donna il mondo intero. Inoltre, indica come unica possibile prevenzione alla guerra quella di creare una società che non assuma la differenza come elemento di esclusione sulla base del sesso e della razza. Non è un caso che il sessismo e il razzismo siano le colonne portanti di ogni regime totalitario. Per approfondire questo argomento, si veda V. Woolf, Le tre ghinee, Milano, Feltrinelli, 1980.

32

pregiudizio adesso, ma allora ne avevo. E i compagni hanno fatto bene a non farci

sfilare»77.

Inoltre, descrive la nuova Italia che esce dalla guerra e dalla Resistenza come

«tradizionalista e bacchettona» e afferma che nei confronti delle donne che hanno

partecipato alla Resistenza si prova «un misto di curiosità, di ammirazione e di sospetto»78.

Vengono comprese e ammirate le donne che hanno offerto assistenza ad un prigioniero o

ad uno sbandato ancora di più se questo è un familiare. Il maternage di massa viene

accettato in quanto rientra ancora nelle regole che definiscono la donna attraverso la

capacità di declinare il ruolo materno ad una funzione collettiva. Ma «l’ammirazione e la

comprensione diminuiscono quando l’attività della donna sia stata più impegnativa e

determinata da una scelta individuale, non giustificata da affetti e solidarietà familiari. Per

ogni passaggio trasgressivo, la solidarietà diminuisce, fino a giungere all’aperto sospetto e

dileggio»79.

La disapprovazione per le donne che reclamavano la visibilità nella conquista della libertà

doveva essere molto forte. Infatti, alcune partigiane raccontano: «mentre seguendo le

nostre bandiere sfilavamo per la città abbiamo visto disegnarsi sulle labbra dei signori

uomini un sorriso ironico assolutamente inadeguato alla serietà della cerimonia.

Certamente questi uomini pensano che il cervello delle donne sia troppo leggero e

immaturo»80.

La violenza, attraverso la minaccia sull’integrità della reputazione personale, che la donna

subisce è quella relativa all’umiliazione e alla vergogna di essere nel mirino del

pregiudizio sociale.

La paura di essere ridicolizzata e violata attraverso la sfera sessuale, era di grande

importanza in quanto una cattiva reputazione avrebbe compromesso la possibilità del

matrimonio così come viene testimoniato da una donna: «la mia vita privata […]. In una

grande città avrei potuto trovare un compagno; qui no. Il paese è piccolo. Durante il

fascismo, avevo avuto tutti i momenti i carabinieri in casa […]. E poi il clero: io non

frequentavo la chiesa e son tutte cose che ti danneggiano. Così non mi sono sposata»81.

77 M. Mafai, Pane nero, cit., p. 284. 78 Ibidem. 79 Ibidem. 80 Ibidem. 81 Ivi, p. 285.

33

Alle partigiane torinesi della Brigata Garibaldi, viene impedito di sfilare dal partito perché

il PCI temeva di non accreditarsi come forza rispettabile.

In altre città sono proprio i capi brigata a consigliare di non sfilare o, almeno, di farlo senza

armi e vestite da crocerossine.

È evidente che i partigiani avevano paura che la visibilità delle donne, in una

manifestazione pubblica, avrebbe potuto far pensare ad un comportamento morale dubbio

da parte di tutta la formazione.

La donna partigiana che sfilava in divisa, rappresentava un forte elemento trasgressivo sia

perché imbracciava le armi, sia perché indossava un abbigliamento fino ad allora definito

da uomo. Il corpo femminile era stato sempre visto come il contrario di un corpo capace di

prendere le armi. Il diritto al voto era negato alle donne perché il corpo in armi era

riconosciuto dalla Rivoluzione francese come il corpo in grado di difendere la Patria per

questo aveva diritto di voto e di partecipare alla cosa pubblica.

Dopo la Liberazione viene delineata una regola guida per il riconoscimento del partigiano

che si riferisce soltanto alla partecipazione attiva alle azioni di guerra armata. Queste

limitazioni escludono un buon numero di donne, ma molte con questi requisiti preferiscono

non presentarsi a ritirare l’attestato. Non lo chiesero non solo perché pensavano che questo

fosse un riconoscimento dovuto all’uomo, ma per il motivo che consideravano il contributo

dato alla Resistenza come un fatto naturale. Per questo, i racconti delle donne sono privi di

retorica, ma si soffermano sulla descrizione dell’urgenza di una scelta che è stata fatta

semplicemente perché giusta.

Il giornale Noi Donne reputa necessario intervenire sul ripristino dell’antico ordine tanto

che, nell’edizione regionale emiliana, esorta la donna a comportamenti e valori che

rispecchiano la regressione ad una figura femminile dimessa ed eccessivamente

comprensiva82.

82 «Persino il giornale di sinistra, “Noi Donne”, raccomanda: “Dovrai essere molto arrendevole, non dovrai imporre la tua volontà, dovrai far vedere che hai fatto progressi a tenere la casa” […] Siate miti, siate dolci, siate sottomesse. Cosa succederà, chiede una lettrice di Roma, quando lui, tornando, scoprirà che io sono socialista? “È un problema che si pongono molte mogli”, risponde la direttrice di “Noi Donne”. “Devi essere comprensiva, fargli capire le cose senza infastidirlo, senza dimostrare partito preso, senza volergli imporre le tue idee. E piano piano vedrai che, anche se non diventerà socialista come te, almeno ti lascerà fare…”. Siate miti, siate dolci, siate sottomesse. La stagione della trasgressione è finita. C’è la casa da rimettere in ordine, un pranzo e una cena da preparare per un marito che la lontananza e le privazioni hanno reso più esigente. Per frequentare la sezione, per fare vita politica, bisognerebbe trascurare le faccende di casa, e questo non si può, non sta bene». Cfr., M. Mafai, Pane nero, cit., pp. 288-290.

34

Miriam Mafai nel riportarne il testo in Pane nero, spiega che «il ritorno alla normalità»

rappresenta «il ritorno alle vecchie discriminazioni», puntualizzando il fatto che «il

fascismo e l’antifascismo non c’entrano: così era e sarà». Definisce il ritorno dei reduci

come una possibile crisi della famiglia in quanto «è tutto da ricominciare». Gli uomini

«non sempre ritrovano nelle loro donne quella disponibilità alla sottomissione che

ricordano». Per questo le donne vengono spinte a ripristinare i vecchi comportamenti

caratterizzati dalle «qualità di prima della guerra, quelle che gli anni della fame, della

paura e della responsabilità […] hanno fatto perdere»83.

Consapevoli che venti anni di fascismo avevano lasciato una radice profonda nel modo di

pensare e di vivere degli italiani, i Costituenti ritennero necessario porre i valori antifascisti

nei primi articoli della Carta Costituzionale. Goffredo Fofi, a tal proposito, osserva che «la

pregiudiziale antifascista della Costituzione servì a tener lontano lo spettro del ritorno

fascista, uno spettro ben reale visto che la popolazione italiana era stata, almeno negli anni

Trenta, (“gli anni del consenso”), in grandissima parte fascista, e che il suo spostamento

ideologico, conseguente alla presa di coscienza imposta dall’esperienza della guerra e

dell’occupazione, era stata radicale solo in strati sociali e in luoghi dove l’esperienza

dell’occupazione era stata più lunga e più dura»84.

Si può, quindi, sostenere che la Resistenza è stata la grande occasione per tanti uomini e

tante donne di poter ascoltare la personale interiorità e sviluppare la coscienza di sé che il

fascismo aveva soffocato.

Alessandra Carloni, in seguito alla recente intervista fatta alla partigiana Olga Prati,

racconta: «Olga mi ha detto che bisogna combattere il fascismo: “Ma come?” Le ho

risposto “il fascismo lo avete sconfitto sessant’anni fa!” “No, il fascismo come sistema

83 «Il ritorno alla normalità significa anche il ritorno alle vecchie discriminazioni: le donne avranno un salario inferiore agli uomini, come è sempre stato. Qui il fascismo e l’antifascismo non c’entrano: così era e sarà. E le donne, anche le più audaci e coraggiose, quelle che sanno perfettamente che questo non è giusto, pian piano si rassegneranno. Il lavoro non c’è, stanno per tornare i reduci, i prigionieri, gli internati. Il lavoro andrà restituito a loro: anche questo è normalità. […] Tornano i reduci. Tornano dai campi di prigionia, da paesi lontanissimi, dove spesso hanno imparato altre lingue e conosciuto altre donne, dai campi di concentramento dove hanno patito la fame, la lontananza e le malattie. Tornano dopo anni, più vecchi, più magri, più rabbiosi. Spesso pieni di amarezza nei confronti di un paese che durante la loro assenza è così profondamente cambiato. Anche le donne che li hanno aspettati sono cambiate. I figli sono cresciuti. Non li ricordano. È tutto da ricominciare. Gli uomini arrivano all’improvviso, i sacchi in spalla, la barba lunga, i vestiti laceri. Non sempre ritrovano le loro case, danneggiate o distrutte dalla guerra, non sempre ritrovano nelle loro donne quella disponibilità alla sottomissione che ricordano. Siate miti, siate dolci, siate sottomesse, riprendono a consigliare i giornali femminili. Coltivate, suggeriscono, le vostre qualità di prima della guerra, quelle che gli anni della fame, della paura e della responsabilità vi hanno fatto perdere». Cfr., M. Mafai, Pane nero, cit., pp. 288-290. 84 G. Fofi, Introduzione, in A. Gobetti, Diario partigiano, cit., p. XII.

35

mentale, come sistema politico esiste ed esisterà sempre, quindi anche noi dobbiamo

continuare a combatterlo, ad opporci ad ogni forma di conservazione, ad un pensiero

strisciante che vuole conservare il potere nelle mani di pochi a scapito della libertà e del

destino di tanti”»85.

Questa affermazione richiama tutti alla responsabilità personale che non permette deleghe

o deroghe, ma l’attenta lettura della Storia in quanto la saggezza non contempla la

modernità che esclude l’esperienza.

Vorrei ringraziare alla fine della mia ricerca la Dott.ssa Antonietta Di Carluccio, direttrice

del “Museo della Battaglia del Senio”, per la gentile concessione del materiale fotografico

e per l’organizzazione delle interviste; la Dott.ssa Serena Sandri, dell’Istituto Storico della

Resistenza e dell’Età Contemporanea in Ravenna e Provincia, per la gentile concessione

del materiale fotografico e cartografico e la Dott.ssa Annamaria Tagliavini, direttrice della

“Biblioteca delle Donne” di Bologna, per la disponibilità mostrata nel permettermi

un’ampia consultazione dei libri.

85 A. Carloni, Intervista di Alessandra Carloni a Olga Prati: Attraverso la Resistenza percorsi di emancipazione, in Insieme, ricordando Olga Prati, Coordinamento delle donne ANPI di Bologna UDI-sede di Bologna, Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nella Provincia di Bologna “Luciano Bergonzini”, a cura di, Bologna, 2013, p. 39.