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1 In queste note proverò ad argomentare perché un capitolo della futura agenda urbana per il nostro paese dovrebbe essere dedicato al trattamento del patrimonio residenziale privato costruito nelle città italiane durante il boom edilizio che ha fatto seguito alla fine del secondo conflitto mondiale. Un patrimonio attorno a cui senza dubbio si condensano oggi molte questioni problematiche – basti qui richiamare quella energetico-prestazionale, molto presente nel dibattito non soltanto disciplinare – ma che a mio avviso, per le sue caratteristiche, custodisce al tempo stesso occasioni importanti per le città italiane: nelle pagine che seguono tenterò allora di tracciare una sorta di mappa interpretativa delle prime, e di ricondurre le seconde ad alcune ipotesi operative. Con qualche semplificazione, la diffusione di queste «case del boom» può essere fatta corrispondere a una fase e a una geografia precise dello sviluppo urbano del nostro paese. Nel ventennio che va dall’inizio degli anni Cinquanta fino alla crisi petrolifera degli anni Settanta si dispiega con la massima intensità un fenomeno di urbanizzazione caratterizzato da una forte migrazione interna dai contesti rurali e del Mezzogiorno verso i maggiori centri urbani e da una forte crescita della città compatta. Un processo in cui tutti i capoluoghi provinciali vedono crescere la quota della popolazione cittadina sulla popolazione complessiva della provincia – in particolare le più grandi realtà metropolitane di Roma, Milano e Torino, che insieme a Genova guidano il «miracolo» – e assistono alla repentina comparsa di un nuovo ambiente urbano. Un paesaggio residenziale caratterizzato da elevate densità, il cui materiale prevalente è costituito da edilizia collettiva e multipiano, di costruzione privata 1 . 1. Tre elementi d’inquadramento In primo luogo, per inquadrare la riflessione, è necessario introdurre tre elementi. Il primo è che stiamo parlando di un patrimonio residenziale molto vasto. A livello nazionale, l’eredità di un ventennio d’intensissima attività edilizia – basti qui ricordare che l’incremento medio annuo del patrimonio nazionale di alloggi è di 1 milione di stanze negli anni Cinquanta, e di 1,6 milioni negli anni Sessanta 2 – è imponente: secondo alcune stime recenti la quota dello stock nazionale di abitazioni risalente ai decenni del secondo 1 Allo studio di questo paesaggio residenziale si è dedicato il progetto di ricerca Architetture per i ceti medi nell’Italia del boom. Per una storia sociale dell’abitare a Torino, Milano e Roma, finanziato dal Miur per il triennio 2011-2013 attraverso il bando «Firb-Futuro in ricerca», che ha coinvolto il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano, il Dipartimento di Architettura e Design del Politecnico di Torino e il Dipartimento di Storia Culture Religioni dell’Università degli Studi di Roma «La Sapienza» (middleclasshomes.net). Tra i prodotti della ricerca si veda in particolare F. De Pieri, B. Bonomo, G. Caramellino, F. Zanfi (a cura di), Storie di case. Abitare l’Italia del boom, Donzelli, Roma 2013. Più in generale, sul periodo in questione, si vedano anche A. Mioni, Sulla crescita urbana in Italia, Franco Angeli, Milano 1976; G. Crainz, Storia del miracolo italiano. Culture, identità, trasformazioni fra anni cinquanta e sessanta, Donzelli, Roma 1996. 2 CER (Comitato per l’Edilizia Residenziale) – Ministero dei Lavori Pubblici, Libro bianco sulla casa, tomo 1, CER, Roma 1986, p. 21. Le case del boom nella città contemporanea Un’interpretazione e un programma di lavoro Federico Zanfi Politecnico di Milano, Dipartimento di Architettura e Studi Urbani Versione definitiva pubblicata in A. G. Calafati, a cura di, Città tra sviluppo e declino. Un’agenda urbana per l’Italia, Roma, Donzelli, 2014, pp. 371–399.

Le case del boom nella città contemporanea. Un’interpretazione e un programma di lavoro

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In queste note proverò ad argomentare perché un capitolo della futura agenda urbana per il nostro paese dovrebbe essere dedicato al trattamento del patrimonio residenziale privato costruito nelle città italiane durante il boom edilizio che ha fatto seguito alla fine del secondo conflitto mondiale. Un patrimonio attorno a cui senza dubbio si condensano oggi molte questioni problematiche – basti qui richiamare quella energetico-prestazionale, molto presente nel dibattito non soltanto disciplinare – ma che a mio avviso, per le sue caratteristiche, custodisce al tempo stesso occasioni importanti per le città italiane: nelle pagine che seguono tenterò allora di tracciare una sorta di mappa interpretativa delle prime, e di ricondurre le seconde ad alcune ipotesi operative.

Con qualche semplificazione, la diffusione di queste «case del boom» può essere fatta corrispondere a una fase e a una geografia precise dello sviluppo urbano del nostro paese. Nel ventennio che va dall’inizio degli anni Cinquanta fino alla crisi petrolifera degli anni Settanta si dispiega con la massima intensità un fenomeno di urbanizzazione caratterizzato da una forte migrazione interna dai contesti rurali e del Mezzogiorno verso i maggiori centri urbani e da una forte crescita della città compatta. Un processo in cui tutti i capoluoghi provinciali vedono crescere la quota della popolazione cittadina sulla popolazione complessiva della provincia – in particolare le più grandi realtà metropolitane di Roma, Milano e Torino, che insieme a Genova guidano il «miracolo» – e assistono alla repentina comparsa di un nuovo ambiente urbano. Un paesaggio residenziale caratterizzato da elevate densità, il cui

materiale prevalente è costituito da edilizia collettiva e multipiano, di costruzione privata1.

1. Tre elementi d’inquadramento

In primo luogo, per inquadrare la riflessione, è necessario introdurre tre elementi. Il primo è che stiamo parlando di un patrimonio residenziale molto vasto. A livello nazionale, l’eredità di un ventennio d’intensissima attività edilizia – basti qui ricordare che l’incremento medio annuo del patrimonio nazionale di alloggi è di 1 milione di stanze negli anni Cinquanta, e di 1,6 milioni negli anni Sessanta2 – è imponente: secondo alcune stime recenti la quota dello stock nazionale di abitazioni risalente ai decenni del secondo

1  Allo studio di questo paesaggio residenziale si è dedicato il progetto di ricerca Architetture per i ceti medi nell’Italia del boom. Per una storia sociale dell’abitare a Torino, Milano e Roma, finanziato dal Miur per il triennio 2011-2013 attraverso il bando «Firb-Futuro in ricerca», che ha coinvolto il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano, il Dipartimento di Architettura e Design del Politecnico di Torino e il Dipartimento di Storia Culture Religioni dell’Università degli Studi di Roma «La Sapienza» (middleclasshomes.net). Tra i prodotti della ricerca si veda in particolare F. De Pieri, B. Bonomo, G. Caramellino, F. Zanfi (a cura di), Storie di case. Abitare l’Italia del boom, Donzelli, Roma 2013. Più in generale, sul periodo in questione, si vedano anche A. Mioni, Sulla crescita urbana in Italia, Franco Angeli, Milano 1976; G. Crainz, Storia del miracolo italiano. Culture, identità, trasformazioni fra anni cinquanta e sessanta, Donzelli, Roma 1996.

2  CER (Comitato per l’Edilizia Residenziale) – Ministero dei Lavori Pubblici, Libro bianco sulla casa, tomo 1, CER, Roma 1986, p. 21.

Le case del boom nella città contemporaneaUn’interpretazione e un programma di lavoro

Federico ZanfiPolitecnico di Milano, Dipartimento di Architettura e Studi Urbani

Versione definitiva pubblicata in A. G. Calafati, a cura di, Città tra sviluppo e declino.Un’agenda urbana per l’Italia, Roma, Donzelli, 2014, pp. 371–399.

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Federico Zanfi

dopoguerra sarebbe pari a circa 10 milioni di alloggi, in cui risiederebbe il 36% delle famiglie italiane3. Se osserviamo il caso di Milano – una città che nel ventennio considerato conosce un’espansione del settore delle costruzioni civili e un incremento delle

3  Censis, 45° rapporto annuale sulla situazione sociale del paese, Censis, Roma 2011, p. 307. Si veda anche F. Della Puppa, Il patrimonio: quantità e diffusione del patrimonio da rottamare, in M. Dragotto e G. India (a cura di), La città da rottamare. Dal dismesso al dismettibile nella città del dopoguerra, Cicero, Venezia 2007, pp. 19-30.

stanze d’abitazione impetuosi4 – gli alloggi privati costruiti tra il 1946 e il 1971 rappresentavano al 2001 circa la metà dello stock residenziale disponibile e ospitavano una quota analoga della popolazione residente. (fig. 1 e tab. 1)

4  Le stanze d’abitazione censite nel Comune di Milano risultano essere pari a 1.028.726 nel 1951, 1.556.858 nel 1961, e 1.950.937 nel 1971. Cfr. C. Morandi, 1954-1960. Sviluppo economico e crescita urbana negli anni del centrismo, in P. Gabellini, C. Morandi, P. Vidulli (a cura di), Urbanistica a Milano 1945-1980, Edizioni delle Autonomie, Roma 1980, p. 91 e tav. 1-b in appendice.

50-70%

70-85%

85-100%

Figura 1. Comune di Milano, distribuzione delle sezioni censuarie in cui la percentuale di edifici a uso abitativo privati e costruiti tra il 1946 e il 1971 è uguale o maggiore al 50% degli edifici a uso abitativo esistenti (elaborazione di Fabio Manfredini su dati Istat 2001 presso il Laboratorio di Analisi Dati e Cartografia del Politecnico di Milano).

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Le case del boom nella città contemporanea

Il secondo elemento è che stiamo parlando di un patrimonio residenziale in gran parte riconducibile a un mercato e a caratteristiche qualitative di tipo «medio». Nel periodo in esame il settore delle costruzioni orienta l’offerta verso un ceto medio urbano in forte espansione, che può accrescere il proprio livello di consumi grazie a un generalizzato innalzamento dei redditi e che individua nell’appartamento in condominio di taglio medio-grande – in alcune sue caratteristiche distributive, in alcuni suoi elementi architettonici distintivi – una risposta alle aspirazioni di una casa moderna e confortevole5. Se torniamo a considerare il caso di Milano, tanto la qualità della produzione edilizia rilevata nel periodo in esame6, quanto la distribuzione nella città degli alloggi di taglio medio-grande misurata a partire da dati più recenti

5  C. Perogalli, Case ad appartamenti in Italia, Görlich, Milano, 1959; F. Zanfi – G. Caramellino, Costruire la città dei ceti medi, in «Territorio» n. 64, 2013, servizio tematico, pp. 61-120, si vedano in particolare i saggi di L. Gaeta e F. B. Filippi.

6  Tra il 1951 e il 1961 le stanze collaudate nella categoria «case civili e signorili» sono circa 380.000, di cui circa 40.000 di proprietà pubblica, mentre le stanze collaudate per la categoria «case popolari» sono circa 51.000. Cfr. C. Morandi, 1954–1960. Sviluppo economico e crescita urbana negli anni del centrismo, cit. p. 93.

tendono a confermare questo quadro. (tab. 2)Il terzo elemento è che stiamo parlando di abitazioni

che rimangono oggi in gran parte possedute da chi le abita. In un quadro nazionale che vede oltre i due terzi dello stock residenziale goduto in proprietà dagli occupanti7 si può leggere l’effetto combinato di un ampio spettro di provvedimenti che, in modo particolare nei decenni del secondo dopoguerra, danno un formidabile stimolo all’accesso alla proprietà della casa8. Alcuni di essi agiscono dentro il mercato privato, come le leggi Tupini (1949) e Aldisio (1950), e dispongono esenzioni d’imposta e crediti agevolati per la costruzione di case d’abitazione che non abbiano «il

7  Un valore medio che insieme a una limitata quota dello stock di alloggi goduta in affitto, tanto nel settore pubblico quanto in quello privato, e a un ruolo fondamentale della famiglia estesa nell’accesso alla proprietà della casa ci accomuna ad altri paesi dell’Europa meridionale. Cfr. J. Allen, J. Barlow, J. Leal, T. Maloutas, L. Padovani, Housing and welfare in Southern Europe, Blackwell, Oxford 2004.

8  Per valutare l’impatto di tali provvedimenti si può richiamare la progressione nella percentuale di alloggi occupati da proprietari sul totale degli alloggi esistenti alle soglie dei censimenti, pari al 40% nel 1951, al 45,8% nel 1961, al 50,8% nel 1971, al 58,9% nel 1981, al 68% nel 1991. Cfr. L. Padovani, Italy, in P. Balchin (a cura di), Housing policy in Europe, Routledge, London 1996, pp. 188-209.

Percentuale di edifici a uso abitativoprivati e costruiti tra il 1946 e il 1971

Popolazione residente al 2011 % sul totale della popolazione

Tra 50% e 70% 119.040 10%Tra 70% e 85% 102.931 8%Tra 85% e 100% 344.169 28%Altro (< 50%) 675.983 54%Totale 1.242.123 100%

Tabella 1. Comune di Milano, distribuzione (al 2011) della popolazione residente nelle sezioni censuarie ove la percentuale di edifici a uso abitativo privati e costruiti tra il 1946 e il 1971 è uguale o maggiore al 50% degli edifici a uso abitativo esistenti (elaborazione di Fabio Manfredini e Viviana Giavarini su dati Istat 2001 e 2011 presso il Laboratorio di Analisi Dati e Cartografia del Politecnico di Milano).

% sul totale della popolazione

Tra 50% e 70%Tra 70% e 85%Tra 85% e 100%Altro (< 50%)Totale

Percentuale di edifici a uso abitativo privati e costruiti tra il 1946 e il 1971

Numero alloggi di superficiecompresa tra 81 e 200 mq

21.648 10%18.688 9%59.103 28%109.689 52%209.128 100%

Tabella 2. Comune di Milano: distribuzione (al 2001) degli alloggi di superficie compresa tra 81 e 200 mq nelle sezioni censuarie ove la percentuale di edifici a uso abitativo privati e costruiti tra il 1946 e il 1971 è uguale o maggiore al 50% degli edifici a uso abitativo esistenti, e nel resto della Comune di Milano (elaborazione di Fabio Manfredini e Viviana Giavarini su dati Istat 2001 presso il Labo-ratorio di Analisi Dati e Cartografia del Politecnico di Milano).

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Federico Zanfi

carattere di abitazione di lusso»9. Altri agiscono dentro i meccanismi di offerta pubblica e sovvenzionata di abitazioni, come la possibilità di riscattare alloggi costruiti nell’ambito dei piani Ina-Casa10 o la possibilità di includere nei piani realizzati ai sensi della legge 167 (1962) per l’edilizia economica e popolare interventi promossi da operatori privati o cooperative e destinati

9  L. Bortolotti, Storia della politica edilizia in Italia. Proprietà, imprese edili e lavori pubblici dal primo dopoguerra a oggi (1919-1970), Editori Riuniti, Roma 1978; G. Ferracuti – M. Marcelloni, La casa. Mercato e programmazione, Einaudi, Torino 1982.

10  Sarebbero circa 850.000 gli alloggi di edilizia pubblica privatizzati tra il 1951 e il 1971: cfr. L. Padovani, Italy, cit. p. 202. Si vedano anche: P. Di Biagi (a cura di), La grande ricostruzione. Il piano Ina-Casa e l’Italia degli anni cinquanta, Donzelli, Roma 2001; Aa.Vv., Fanfani e la casa. Gli anni Cinquanta e il modello italiano di welfare state. Il piano Ina-Casa, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002.

alla vendita11. Altri, infine, agiscono sulle variegate forme della produzione informale di alloggi12 mediante il loro reinserimento nel mercato legale, come la legge sul condono edilizio (1985) e le sue riproposizioni (1994, 2003)13. Politiche diverse, comunque coerenti con quella che è stata chiamata la «mobilitazione individualistica» dei ceti medi italiani, e accomunate

11  F. De Pieri, La legge 167 e i ceti medi, in «Territorio» n. 64, 2013, pp. 75-81.

12  A. Tosi, La produzione della casa in proprietà: pratiche familiari, informale, politiche, in «Sociologia e ricerca sociale» n. 22, 1987, pp. 7–24.

13  Per alcune considerazioni sugli esiti del condono si vedano: P. Berdini, Breve storia dell’abuso edilizio in Italia: dal ventennio fascista al prossimo futuro, Donzelli Roma 2010; F. Zanfi, The città abusiva in contemporary southern Italy. Outlaw building and prospects for change, in «Urban Studies» vol. 50, issue 16, 2013, pp. 3428–3445.

Tabella 3. Comune di Milano, titolo di godimento (al 2001) delle abitazioni occupate da persone residenti, ricadenti nelle sezioni cen-suarie ove la percentuale di edifici a uso abitativo privati e costruiti tra il 1946 e il 1971 è uguale o maggiore al 50% degli edifici a uso abitativo esistenti, confrontato con la media del Comune di Milano (elaborazione di Fabio Manfredini e Viviana Giavarini su dati Istat 2001 presso il Laboratorio di Analisi Dati e Cartografia del Politecnico di Milano).

Percentuale di edificia uso abitativo privati e costruiti tra il 1946 e il 1971

Abitazioni occupateda persone residentiin proprietà

Abitazioni occupateda persone residentiin affitto

Abitazioni occupateda persone residentiad altro titolo

Abitazioni occupate da persone residentiin proprietà sul totale delle abitazioni

Abitazioni occupateda persone residentiin affitto sul totale delle abitazioni

Tra 50% e 70% 36.284 16.386 3.517 65% 29%Tra 70% e 85% 32.847 13.047 3.054 67% 27%Tra 85% e 100% 118.655 38.818 9.179 71% 23%Altro (<50%) 159.562 135.163 16.812 51% 43%

Media milanese 60% 35%

tra 50% e 70% tra 70% e 85% tra 85% e 100% 0%

10%

20%

30%

40%

50%

60%

70%

80%

Abitazioni occupate da persone residenti in proprietà Abitazioni occupate da persone residenti in affitto

Media milanese abitazioni in proprietà Media milanese abitazioni in affitto

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Le case del boom nella città contemporanea

dall’obiettivo di consolidare attraverso la proprietà della casa il consenso presso popolazioni – urbane e non, come vedremo – intese come elementi portanti della stabilità politica del paese14.

Se torniamo al caso di Milano, possiamo riconoscere l’impronta di alcuni dei provvedimenti richiamati nelle sezioni censuarie maggiormente caratterizzate dalla presenza di abitazioni private costruite tra il 1946 e il 1971: qui la percentuale del titolo di godimento in proprietà degli alloggi occupati si mantiene significativamente più elevata rispetto alla media della città. (tab. 3)

2. Tre dinamiche di cambiamento

In secondo luogo, per mettere a fuoco il cuore del problema, è utile segnalare che il patrimonio residenziale in questione si trova oggi all’incrocio, quasi simultaneamente, di tre dinamiche di notevole portata. La prima è di natura demografica: stiamo assistendo a uno straordinario mutamento della forma della famiglia lungo il ciclo di vita familiare. In un quadro generale del paese che vede aumentare il numero delle famiglie e diminuire il numero medio dei loro componenti, qui è interessante osservare come si allunghi il periodo in cui la coppia vive senza figli. Nell’arco di vita della famiglia risulta essere più esteso il periodo che questa trascorre abitando senza figli piuttosto che quello passato abitando con figli15, e questo aspetto – che porta con sé un’evoluzione nei modi d’uso degli ambienti e nelle esigenze relative alla dimensione dell’abitazione – assume un particolare significato se consideriamo che il patrimonio delle case del boom è stato progettato avendo in mente un modello di famiglia nucleare con genitori e figli, e ipotizzando che la vita di questa famiglia potesse svolgersi con continuità in una sola casa corrispondente al ceto sociale d’appartenenza16.

14  A. Pizzorno, I ceti medi nel meccanismo del consenso, in F. L. Cavazza – S. R. Graubard (a cura di), Il caso italiano, Garzanti, Milano 1974, pp. 315-338. Si veda anche G. Rochat, G. Sateriale, L. Spano (a cura di), La casa in Italia 1945-1980. Alle radici del potere democristiano, Zanichelli, Bologna 1980.

15  Si può richiamare la progressione della percentuale di coppie che vivono insieme senza figli sul totale delle coppie italiane, passata dal 13,4% nel 1961 al 30,9% nel 2011. I dati sono tratti dalla relazione di Chiara Saraceno nel ciclo di seminari «Dal miracolo alla crisi. Il patrimonio residenziale dei ceti medi urbani alla prova delle trasformazioni delle città, della società e dell’economia italiane», Politecnico di Milano, 7 novembre 2013. Si veda anche M. Barbagli, M. Castiglioni, G. Dalla Zuanna, Fare famiglia in Italia. Un secolo di cambiamenti, il Mulino, Bologna 2003.

16  M. Casciato, L’abitazione e gli spazi domestici, in P. Melograni

Ora, non si tratta solo di un problema di ampiezza – ridotta – della famiglia, ma anche della fragilità e della disabilità di tale famiglia – spesso costituita da individui anziani, che scoprono aspetti di difficoltà legati all’abitare17. O ancora di una distanza crescente tra il modello di famiglia appena richiamato e l’emergere delle forme plurali di convivenza – ma anche di nuove integrazioni tra sfera privata e collettiva, tra ambiente della casa e ambiente del lavoro, tra consumo e produzione – che tutte le recenti ricerche sull’abitare ci restituiscono18. Nel comune di Milano, nelle sezioni censuarie maggiormente interessate dalla presenza di edifici privati costruiti tra il 1946 e il 1971, l’andamento dell’età della popolazione residente sembra essere coerente con questo quadro, con una quota di abitanti over 65 in crescita e significativamente più elevata rispetto alla media cittadina. (tab. 4)

La seconda dinamica è di natura tecnologica e gestionale: stiamo parlando di un patrimonio edilizio che è entrato nel quinto o sesto decennio di vita e in cui le facciate, le impermeabilizzazioni, i sistemi tecnologici centralizzati mostrano segni di obsolescenza e necessitano – ovunque nel paese – di una manutenzione urgente. Voci ingenti di spesa straordinaria, che si aggiungono a costi di esercizio ordinari già elevati relativi alla gestione degli spazi comuni condominiali e ai consumi di edifici non efficienti19. Se queste condizioni di criticità sono note e già ampiamente recepite nel dibattito, è forse più interessante notare come esse si manifestino nel momento delicato in cui il condominio vede la popolazione di residenti della prima ora – frequentemente anziani e soli – progressivamente affiancata da altre popolazioni – coppie giovani, studenti e lavoratori fuori sede che condividono un alloggio grande, cittadini stranieri – che affittano alloggi un tempo occupati da proprietari.

(a cura di), La famiglia italiana dall’Ottocento a oggi, Laterza, Roma 1988, pp. 525-587.

17  Il 32,7% degli ultrasessantacinquenni vive da solo in case di proprietà, e nel 61,4% di questi casi in un’abitazione con un numero di vani pari o superiore a 4. Cfr. AeA, Le condizioni abitative degli anziani in Italia, Roma, aprile 2009, cit. in S. Polci, Condivisione residenziale. Il siver cohousing per la qualità urbana e sociale in terza età, Carocci, Roma 2013.

18  A. Lanzani, E. Granata, C. Novak, I. Inti, D. Cologna, Esperienze e paesaggi dell’abitare. Itinerari nella regione urbana milanese, Abitare Segesta, Milano 2006; multiplicity.lab (a cura di), Milano. Cronache dell’abitare, Bruno Mondadori, Milano 2007; C. Bianchetti (a cura di), Territori della condivisione. Una nuova città, Quodlibet, Macerata 2014.

19  Legambiente (a cura di), Tutti in classe A. Radiografia energetica del patrimonio edilizio italiano, Legambiente, Roma 2014.

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Federico Zanfi

E il condominio italiano del secondo dopoguerra, progressivamente meno omogeneo rispetto la società che lo aveva inizialmente abitato, vede oggi crescere le divergenze nei punti di vista, gli squilibri nelle capacità di spesa per le manutenzioni, i conflitti20.

La terza dinamica, infine, è di natura fiscale: stiamo assistendo a una marcata evoluzione delle condizioni di tassazione concernenti la proprietà dell’abitazione. Non è soltanto per l’introduzione dagli anni Novanta di imposte sul patrimonio immobiliare – dapprima con l’Isi e l’Ici, nel 1992, e poi con l’Imu nel 2011

20  Anaci – Censis Servizi (a cura di), La vita nei condomìni: litigiosità e risparmio energetico, 3° Rapporto Anaci – Censis Servizi, Roma 2009. Si vedano anche le storie raccolte in F. De Pieri, B. Bonomo, G. Caramellino, F. Zanfi (a cura di), Storie di case, cit.

– ma è anche per la recente riforma dei catasti – che aggiorna i valori in base a cui si calcola un ampio set di imposte – che si produce un’intensificazione del prelievo fiscale legato alla prima abitazione. Massimo Baldini ha segnalato come tale tassazione, se calibrata esclusivamente sul patrimonio immobiliare senza considerare il reddito del contribuente, rischi di colpire non solo i ceti più ricchi, ma tutta la classe media «o anche più in basso», trattandosi di un contesto, quello italiano, ove il patrimonio abitativo risulta molto meno concentrato del reddito e ripartito – per effetto dei provvedimenti richiamati nei primi paragrafi di questo testo – tra una parte molto ampia della popolazione21.

21  M. Baldini, La casa degli italiani, il Mulino, Bologna 2010, p. 177 e seguenti.

Tabella 4. Comune di Milano, quote di popolazione con più di 65 anni residente al 2001 e al 2011 nelle sezioni censuarie ove la percen-tuale di edifici a uso abitativo privati e costruiti tra il 1946 e il 1971 è uguale o maggiore al 50% degli edifici a uso abitativo esistenti, confrontate con i valori medi del Comune di Milano (elaborazione di Fabio Manfredini e Viviana Giavarini su dati Istat 2001 e 2011 presso il Laboratorio di Analisi Dati e Cartografia del Politecnico di Milano).

Percentuale di edifici a uso abitativo privati e costruiti trail 1946 e il 1971

Popolazione residente> 65 anni al 2001

Popolazione residente> 65 anni al 2011

% popolazione residente> 65 anni al 2001

% popolazione residente> 65 al 2011

Tra 50% e 70% 26.511 28.586 22,3% 24,0%Tra 70% e 85% 24.256 26.044 23,5% 25,3%Tra 85% e 100% 93.596 97.905 26,5% 28,4%Altro (<50%) 141.831 157.571 20,8% 23,3%Media milanese 22,8% 25,0%

tra 50% e 70% tra 70% e 85% tra 85% e 100%0%

5%

10%

15%

20%

25%

30%

Popolazione residente over 65 nel 2001Popolazione residente over 65 nel 2011

Popolazione residente over 65 a Milano nel 2001Popolazione residente over 65 a Milano nel 2011

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Le case del boom nella città contemporanea

In questo quadro, un tale meccanismo di tassazione può aggiungere difficoltà a condizioni ove già si aggregano questioni di natura demografica e gestionale – tipica quella dei pensionati house rich cash poor, che continuano a vivere in case di grande dimensione anche dopo l’uscita dei figli – cambiando di segno in un certo senso ai fattori di stabilità e sicurezza tradizionalmente associati al possesso dell’abitazione, e forse spiegando l’interesse crescente verso strumenti per convertire in liquidità la propria casa senza perderne la possibilità di utilizzo, come la vendita della nuda proprietà o il prestito vitalizio ipotecario sull’alloggio di abitazione.

3. Controcampo: la casa di famiglia nell’urbanizzazione diffusa

Il ragionamento fin qui condotto assume maggiore rilevanza se ne consideriamo la necessaria controparte, se consideriamo cioè che una quota significativa della popolazione italiana non risiede in città, né abita negli appartamenti collocati in edifici collettivi multipiano su cui ci siamo fino ad ora soffermati; oltre i due quinti degli italiani risiedono oggi in comuni di dimensioni inferiori ai 15.000 abitanti22, e una quota analoga abita case in uni- o bifamiliari23. Un patrimonio edilizio che corrisponde a fasi di sviluppo e geografie piuttosto diverse da quelle richiamate in apertura: un patrimonio che si costruisce prevalentemente tra l’inizio degli anni Settanta e gli anni Novanta, in un arco temporale in cui i principali centri urbani vedono rallentare la loro crescita e in una sorta di controcampo del boom edilizio postbellico si dispiegano con straordinaria intensità i processi d’industrializzazione e urbanizzazione diffusa24.

Anche se questo tipo di stock residenziale non è oggetto del presente ragionamento, è importante segnalare brevemente come anche qui – non ancora sufficientemente esplorate da un dibattito disciplinare che si è invece puntualmente soffermato, nei decenni scorsi, sulle modalità di organizzazione economica

22  Al 2011 il 41% della popolazione italiana risiedeva in comuni di ampiezze demografiche inferiori o pari a 15.000 abitanti (Istat, Censimento della popolazione, 2011).

23  La distribuzione della popolazione italiana per tipologia di alloggio occupato vede il 25,4% abitare in una casa unifamiliare, il 19,3% in una bifamiliare, e il 53,4% in appartamento (Eurostat, 2010).

24  A. Bagnasco, Tre Italie. La problematica territoriale dello sviluppo italiano, il Mulino, Bologna 1977; A. Clementi, G. Dematteis, P. C. Palermo (a cura di), Le forme del territorio italiano, Laterza e Ministero dei lavori pubblici-Dicoter, Roma 1996.

e spaziale che sottostavano a queste forme di urbanizzazione25 – stiano affiorando dinamiche di cambiamento per certi versi molto simili a quelle registrate nel patrimonio residenziale urbano risalente al secondo dopoguerra. Dinamiche demografiche d’invecchiamento e di riduzione dimensionale delle famiglie più marcate rispetto alle medie regionali, difficoltà crescenti nel garantire manutenzione tanto agli edifici in sé – invecchiati e di dimensioni oggi eccedenti i bisogni – quanto agli spazi verdi di pertinenza, crescenti costi economici e personali legati alla mobilità privata connaturata in tali forme insediative, evoluzione nelle preferenze relative alla privacy e alla sicurezza nell’abitazione, sono solo alcuni dei fattori di crisi che progressivamente interessano il patrimonio delle «case di famiglia» italiane e che segnalano la necessità di mettere a punto non solo nuovi quadri interpretativi, ma anche aggiornate modalità per intervenire su tale patrimonio residenziale26.

4. Negli ultimi vent’anni,tre condizioni sullo sfondo

Come ultimo elemento di costruzione del problema è utile segnalare tre condizioni che sono andate maturando nell’arco dell’ultimo ventennio e che, pur rimanendo sullo sfondo rispetto le dinamiche di cambiamento appena richiamate, hanno avuto diversi punti di contatto con i destini del patrimonio residenziale in questione.

Innanzitutto la divaricazione – che si avvia negli anni Novanta e si accentua venendo all’oggi – tra i redditi medi delle famiglie italiane e i costi legati all’abitazione: questi ultimi raddoppiati nel caso dell’acquisto e più che raddoppiati nel caso dell’affitto, tanto rispetto ai salari da lavoro dipendente di tipo operaio quanto per

25  In una letteratura molto ampia si vedano almeno, per gli aspetti di organizzazione economica: G. Fuà – C. Zacchia (a cura di), Industrializzazione senza fratture, il Mulino, Bologna 1983; G. Becattini (a cura di), Mercato e forze locali. Il distretto industriale, il Mulino, Bologna, 1987; A. Bonomi, Il capitalismo molecolare. La società al lavoro nel Nord Italia, Einaudi, Torino 1997; e per gli aspetti di organizzazione spaziale: A. Indovina, La città diffusa, Daest, Venezia 1990; S. Boeri, A. Lanzani, E. Marini, Il territorio che cambia. Ambienti, paesaggi e immagini della regione milanese, Segesta, Milano 1993; S. Munarin – M. C. Tosi, Tracce di città. Esplorazioni di un territorio abitato, Franco Angeli, Milano 2001; C. Merlini, Cose/viste, Maggioli, Santarcangelo di Romagna 2010.

26  C. Merlini – F. Zanfi, The family house and its territories in contemporary Italy: present conditions and future perspectives, in «Journal of Urbanism» vol. 7, issue 3, 2014, pp. 221-244.

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Federico Zanfi

quelli di tipo impiegatizio27. Uno squilibrio che nel caso dell’acquisto attraverso mutui bancari si traduce in un’esposizione al debito per più anni e per quote più alte di valore dell’immobile, con una crescita del rischio d’insolvenza. E che nel caso dell’affitto si traduce in un aumento del peso del canone sulle risorse famigliari, con un allargamento della quota di famiglie che scivolano in condizioni di disagio economico a causa dei costi legati all’abitazione, in particolare nella fascia di famiglie più vulnerabili, con redditi più bassi e nel Mezzogiorno28.

Poi, la storia recente del settore delle costruzioni residenziali nel nostro paese. Il sesto ciclo edilizio è ormai concluso – un ciclo imponente, secondo solo al boom edilizio postbellico, con una fase espansiva di 12 anni e un picco nel 2007 di 340.000 nuove abitazioni – a valle del quale resterebbero circa 250.00 abitazioni invendute29. Una mole residua che segnala non tanto un’assenza di domanda, quanto un’evoluzione di una quota importante di tale domanda, che non trova nell’offerta residenziale recente risposte commisurate alle proprie esigenze e disponibilità. In parte richiamando considerazioni già svolte, si tratta di una domanda oggi espressa da famiglie giovani – italiane e straniere – che da un lato vedono ridursi il numero dei propri componenti e vanno in cerca di alloggi più piccoli – proporzionalmente più cari –, da un altro lato non riescono a comprare, non hanno capitali né capacità di risparmio, non sono affidabili per le banche e si rivolgono all’affitto30.

27  T. Poggio, Le principali dimensioni della disuguaglianza abitativa, in A. Brandolini, C. Saraceno, A. Schizzerotto (a cura di), Dimensioni della disuguaglianza in Italia: povertà, abitazione, salute, il Mulino, Bologna 2009, pp. 273-292.

28  M. Baldini, M. Federici, T. Poggio, Le condizioni abitative delle famiglie italiane, in M. Baldini (a cura di), Le politiche sociali per la casa, in «Quaderni della ricerca sociale» n. 22, Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Roma 2013, pp. 4-57.

29  L. Bellicini, relazione al ciclo di seminari «Dal miracolo alla crisi. Il patrimonio residenziale dei ceti medi urbani alla prova delle trasformazioni delle città, della società e dell’economia italiane», Politecnico di Milano, 21 novembre 2013. Si veda anche L. Bellicini, Immobiliare, debito, città: considerazioni sui primi dieci anni del XXI secolo, in G. Dematteis (a cura di), Le grandi città italiane. Società e territori da ricomporre, Marsilio – Consiglio italiano per le Scienze Sociali, Venezia 2011, pp. 77-115.

30  Contribuendo ad accrescere una domanda che si misura da un lato – come abbiamo visto – con una crescente insostenibilità dell’offerta privata, e dall’altro con una ritrazione dell’offerta pubblica. Cfr. Aa. Vv., Case difficili. Le politiche abitative fra dimensioni sociali e dilemmi dell’agenda pubblica, numero monografico de «La rivista delle politiche sociali» n. 3, 2006, in particolare i contributi di A. Tosi e R. Torri. Per alcuni dati recenti più sull’espansione della domanda di alloggi in affitto e sul relativo

Infine, l’effetto di alcune politiche che nell’ultimo ventennio si sono rivolte al patrimonio residenziale delle famiglie italiane con l’obiettivo di migliorarne la qualità e di adeguarlo alle necessità emergenti. Da un lato, come nel caso delle detrazioni fiscali per il recupero e la ristrutturazione edilizia (L. 449/1997) e di quelle per la riqualificazione energetica (L. 296/2006) – oggetto di numerose proroghe nel corso degli anni – si è trattano di misure che hanno avuto un indiscutibile ruolo di stimolo sul mercato del recupero edilizio31, ma che in relazione al quadro che abbiamo tracciato hanno risposto solo a una frazione dell’insieme delle questioni demografiche, tipologiche, gestionali e di sottoutilizzo che le case del boom progressivamente esprimono. Da un altro lato, ed è il caso del cosiddetto «Piano casa» varato nel 2009 per rilanciare l’economia delle costruzioni mediante interventi di modifica sull’edilizia esistente incentivati da bonus volumetrici, si è invece trattato di misure che hanno tentato di agire perpetuando più «classici» immaginari e logiche di mobilitazione individuale in un quadro sociale ed economico ormai mutato, di fatto senza riuscire a intercettare la massa critica delle domande che oggi hanno sempre più a che fare col ridimensionamento e l’ottimizzazione degli spazi esistenti piuttosto che col loro ulteriore ampliamento32.

5. La domanda centrale e le ipotesi di lavoro

Un ceto medio proprietario che per diverse ragioni si trova in difficoltà nel sostenere il peso fiscale e manutentivo delle case che oggi occupa, spesso sottoutilizzate. Una quota crescente della domanda abitativa più giovane e fragile, che non riesce ad accedere alla nuova offerta immobiliare per una strutturale incapacità d’acquisto ed esprime un bisogno di case in affitto a costi contenuti. Un settore delle costruzioni che ha prodotto molto in anni recenti, per una domanda oggi forse svanita, e che è alla ricerca

mercato si veda anche I. Barbaccia, M. Festa, A. Storniolo, Prime analisi sulle locazioni immobiliari, in «Quaderni dell’osservatorio» n. 2, Osservatorio del Mercato Immobiliare-Agenzia delle entrate, Roma 2013, pp. 59-72.

31  Servizio Studi-Dipartimento ambiente – Cresme, Il recupero e la riqualificazione energetica del patrimonio edilizio: una stima dell’impatto delle misure di incentivazione, dossier «Documentazione e ricerche» n. 83, Camera dei deputati, Roma 2013.

32  A. Lanzani – F. Zanfi, Piano Casa. E se la domanda fosse quella di ridurre gli spazi?, in «Dialoghi internazionali-Città nel Mondo» n. 13, 2010, pp. 126-145.

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Le case del boom nella città contemporanea

di nuovi formati e sbocchi. La domanda centrale all’interno di un tale quadro è a quali condizioni possa innescarsi una smobilitazione diffusa dell’immenso capitale fisso costituito dalle case del boom, in una prospettiva di adeguamento tipologico e qualificazione da un lato – per non disperderne il valore residuo e riattivarne la redditività – e di trasformazione creativa rivolta alle domande abitative emergenti dall’altro lato – entro una prospettiva di uso sociale.

Si tratta di una domanda che evidentemente fa proprie alcune delle parole d’ordine del dibattito architettonico e urbanistico corrente – resilienza, equità sociale, sostenibilità, riuso33 – ma che pone al centro anzitutto una questione patrimoniale e distributiva: la necessità di non abbandonare “senza progetto” uno dei principali elementi di ricchezza del nostro paese, accumulato sotto forma di abitazioni private nella seconda metà del Novecento, in una fase – aperta dalla crisi economica e finanziaria del 2008 – in cui gli asset residenziali tendono a diventare per le famiglie italiane ancor più fondamentali riserve di valore cui attingere per mantenere il proprio tenore di vita34.

Si tratta di una domanda che evidentemente solo in parte ha a che vedere con l’architettura e l’urbanistica, e che rimanda a ipotesi più generali di ripensamento tanto del «contratto» tra le élites e i ceti medi proprietari, basato su soluzioni assennate e sostenibili entro un orizzonte di tempo lungo, quanto delle modalità di trasmissione di beni materiali tra generazioni che hanno trascorso e trascorreranno la propria vita all’interno di cicli economici e sistemi di welfare profondamente diversi, e che con ogni probabilità dimostreranno carriere, propensioni al risparmio, stili di consumo e possibilità di accesso alla proprietà della casa altrettanto diversi35. Nella consapevolezza, va aggiunto, che alcune delle dinamiche di cambiamento

33  M. Russo (a cura di), Urbanistica per una diversa crescita. Progettare il territorio contemporaneo, Donzelli, Roma 2014.

34  L. Bartiloro – C. Rampazzi, Il risparmio e la ricchezza delle famiglie italiane durante la crisi, in «Questioni di Economia e Finanza» n. 148, Banca d’Italia 2013; Più in generale, per un quadro degli effetti provocati dalla crisi economico-finanziaria nel settore delle abitazioni si veda M. Baldini – T. Poggio, The Italian housing system and the global financial crisis, in «Journal of Housing and the Built Environment» vol. 29, 2014, pp. 317-334.

35  F. Barbera, N. Negri, M. Zanetti, Una questione generazionale? Ingresso nella vita adulta, crisi del ceto medio e cittadinanza sociale, in A. Bagnasco (a cura di), Ceto medio. Perché e come occuparsene, Il Mulino, Bologna 2008, pp. 119-164; F. Giorgi, A. Rosolia, R. Torrini, U. Trivellato, Mutamenti tra generazioni nelle condizioni lavorative giovanili, in A. Schizzerotto, U. Trivellato, N. Sartor (a cura di), Generazioni disuguali. Le condizioni di vita dei giovani di oggi e di ieri: un confronto, Il Mulino, Bologna 2011, pp. 111-144.

richiamate – in particolare l’evoluzione delle forme di tassazione e la questione dell’obsolescenza materiale – stanno associando nuovi elementi alla proprietà e alla trasmissione intergenerazionale dell’abitazione, e che ciò rende forse più complessa – in relazione allo specifico patrimonio delle case del boom – la valutazione dei meccanismi di riproduzione delle disuguaglianze sociali che sono stati associati alle diverse forme di godimento dell’abitazione36.

Come risposta a questa domanda, provo di seguito a definire tre linee di lavoro. Non si tratta di linee alternative, bensì di riflessioni che corrispondono alle tre principali condizioni in cui a mio avviso si colloca oggi il patrimonio residenziale in questione, e che costituiscono le facce inseparabili attraverso cui iniziare a scolpire una politica orientata alla sua riforma. Tenendo ben presente che tali linee di lavoro hanno pesi diversi: la prima e la seconda, per una serie di vincoli strutturali, non potranno che coinvolgere una quota minoritaria di tale patrimonio – la stima non è facile a farsi, ma si può ipotizzare che le due linee di lavoro, considerate insieme, possano interessare complessivamente circa 1/3 dello stock in questione – mentre è la terza che, potenzialmente, ne potrebbe investire la maggior parte – i rimanenti 2/3 – e che meriterà di essere ulteriormente approfondita.

5.1. Sostituzione intensiva

La prima linea di lavoro prevede la sostituzione intensiva di una quota di case del boom che per caratteristiche tipologiche e localizzative può risultare appetibile per una valorizzazione di tipo immobiliare. Operazioni di demolizione e ricostruzione – o retrofit radicale – d’interi complessi residenziali, in cui la possibilità di aumentare la volumetria rispetto alle condizioni insediative esistenti e l’adozione di tipologie e destinazioni d’uso più rispondenti alle domande del mercato consentono all’operatore di massimizzare l’incremento di valore tra i beni esistenti e i beni di nuova costruzione. Come ha recentemente argomentato Ezio Micelli le situazioni che realisticamente potranno candidarsi ad accogliere questa ipotesi d’intervento

36  F. Bernardi – T. Poggio, Home ownership and social inequality in Italy, in K. Kurz – H. P. Blossfeld (a cura di), Home ownership and social inequality in comparative perspective, Stanford University Press, Stanford 2004, pp. 255-280; T. Poggio, The intergenerational transmission of home ownership and the reproduction of the familialistic welfare regime, in C. Saraceno (a cura di), Families, Ageing and Social Policy. Intergenerational Solidarity in European Welfare States. Edward Elgar, Cheltenham 2008, pp. 59-87.

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Federico Zanfi

Figura 2. Studio per la trasformazione del patrimonio residenziale privato costruito nel periodo 1946-1976 nel quartiere Barriera di Milano a Torino – evidenziato in nero – in relazione all’esistenza e alle previsioni degli spazi e delle attrezzature pubbliche, dei sistemi di spazi verdi, delle aree di trasformazione urbanistica e delle linee del trasporto pubblico locale – evidenziati in rosso – (C. Calleri, S. Comi, M. Fantini, S. Mangialardo, A. Muric, A. Zammataro, R. Di Matteo, C. Galante, G. Pecorelli, M. Persello, O. Shubina, L. Suico, A. Zakaryan, progetto Asp 2012-2013 “Rethinking Condominium. Urban scenarios and design proposals for a transformation of the middle-class housing stock in Milan and Turin”, Politecnici di Milano e Torino, coordinatori: F. Zanfi e F. De Pieri, docenti: M. Bonino, L. Daglio, E. Ginelli e I. Lami, partner Urban Center Comune di Milano e Urban Center Metropolitano di Torino).

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avranno perlopiù a che fare con edifici obsoleti, dal valore residuo non elevato, in cui la proprietà non sia eccessivamente frazionata, e collocati in aree già dotate sotto il profilo dei servizi e dell’accessibilità37.

Nel campo offerto dal patrimonio residenziale in questione questi vincoli di fattibilità economica potranno individuare una duplice geografia. Da un lato potrà trattarsi di tracciati e di epicentri legati allo sviluppo del trasporto pubblico, ove questo saprà creare nuove condizioni di elevata accessibilità (e quindi valore): fasce che seguono nuove linee di tram, areali attorno a nuove stazioni ferroviarie o della metropolitana – non necessariamente in contesti urbani, ma anche in alcuni tratti di urbanizzazione diffusa, dove i tessuti di case di famiglia potranno essere selettivamente sostituiti e consolidati secondo trasformazioni di questo tipo38. Da un altro lato potrà trattarsi di una geografia dettata dalla facilità, per l’operatore, di acquisire le proprietà da trasformare: una geografia che potrà coinvolgere edifici con una struttura proprietaria unitaria o poco frazionata – i tessuti di case di famiglia nell’urbanizzazione diffusa o le piccole palazzine che caratterizzano le corone di espansione risalenti agli anni Sessanta e Settanta in molte piccole e medie città possono costituire un contesto privilegiato in tal senso – o laddove, pur in presenza di un forte frazionamento della proprietà, marcati fenomeni di filtering, di sottoutilizzo, e bassi valori commerciali potrebbero consentire una più agevole acquisizione di interi immobili attraverso le singole unità – è il caso, ad esempio, di certi complessi residenziali di grandi dimensioni attestati lungo le arterie trafficate di ingresso ai principali centri urbani, ove si concentrano con evidenza i fenomeni richiamati. (fig. 2)

Il governo di questi processi rimanda tanto a temi più tradizionali quanto a temi meno esplorati: dalla contrattazione sul prelievo di una congrua quota di rendita39, perché questi interventi di sostituzione

37  E. Micelli, Il recycle come opzione e come necessità. Le condizioni economiche del riuso tra stagnazione e ripresa, in S. Marini – S. C. Roselli (a cura di), Re-Cycle Op-positions, vol. 1, atti del convegno nazionale «Re-Cycle Op-Positions» (Venezia, 4 Aprile 2014), Aracne, Roma 2014, pp. 142-151.

38  L. Fabian, Verso il no-auto. Nuovi paradigmi per “riciclare” la città diffusa, in Id. (a cura di) New Urban Question. Ricerche sulla città contemporanea 2009-2014, Aracne, Roma 2013, pp. 36-47. Più in generale, sui principi del transit oriented development e su alcune esperienze di applicazione europee si veda C. Curtis, J. I. Renne, L. Bertolini (a cura di), Transit oriented development: making it happen, Ashgate, Farnham-Burlington 2009.

39  F. Curti, Lo scambio leale. Negoziazione urbanistica e offerta privata di spazi e servizi pubblici, Officina, Roma 2007.

intensiva siano associati a qualificazioni delle infrastrutture, delle dotazioni e degli spazi pubblici sottesi (il rischio è dato dalla congestione e dal sovraccarico insediativo); all’azione d’indirizzo sul mix funzionale e sull’assetto planivolumetrico dei nuovi interventi (il rischio è quello della segregazione e dell’incongruità dei nuovi oggetti rispetto al contesto); alla messa a punto d’incentivi non volumetrici – in questa congiuntura del mercato immobiliare non sempre utili – che possano agevolare le operazioni di trasformazione sotto l’aspetto fiscale, normativo, tecnologico.

5.2. Demolizione selettiva

La seconda linea di lavoro prevede un progetto di demolizione selettiva rivolto alla quota più problematica del patrimonio edilizio in questione. Una sorta di controparte della prima linea: se quella ipotizzava operazioni di aggiunta e intensificazione mediante meccanismi di valorizzazione immobiliare, questa prevede operazioni di sottrazione e alleggerimento del carico insediativo, rimozione dei manufatti senza ricostruzione, spostamento di diritti edificatori reali, rinaturalizzazione e messa in sicurezza dei suoli che ospitavano gli edifici rimossi mediante azioni a bassa intensità di capitale.

Un progetto “a togliere” che oggi, nel nostro paese, potrebbe rispondere ad almeno tre ordini di questioni. In primo luogo vi è una quota di case del boom che non possiamo più permetterci di sostenere: la crisi dei bilanci comunali consentirà sempre meno di affrontare i costi di gestione di quell’insieme di reti tecnologiche e dotazioni di welfare che si sono progressivamente costruite nella seconda metà del Novecento a supporto di questa edilizia, in modo particolare ove questa ha assunto forme incoerenti rispetto a principi di razionalità e di efficienza – come nelle zone di frangia urbana o nei tratti di urbanizzazione diffusa più rarefatti, in cui la dotazione di reti grigie si misura con contenuti carichi insediativi ed elevati costi di manutenzione per abitante insediato. In secondo luogo vi è una quota di case del boom che non è più sicura: non è (solo) un tema di sicurezza statica degli edifici, ma della loro localizzazione in rapporto alla geografia del rischio idrogeologico, sismico e dei suoli a elevata contaminazione nel nostro paese40. Una

40  M. Russo, Metropoli a rischio: il caso di Napoli, in M. Savino (a cura di), Pianificazione alla prova nel mezzogiorno, Franco Angeli, Milano 2005, pp. 81-92; E. Giannotti – P. Viganò (a cura

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Figura 3. Progetto per un parco agricolo nella «radura» compresa tra i comuni di Carate Brianza, Seregno e Albiate, Sovico, Mache-rio, Lissone. Il progetto individua i recinti e gli edifici più problematici in relazione alla frantumazione dello spazio aperto esistente e ne prevede la demolizione e il trasferimento delle volumetrie nelle fasce urbanizzate a bordo del parco mediante una logica premiale (DiAP-Politecnico di Milano, La riforma degli spazi aperti e delle aree produttive della provincia di Monza e Brianza, contributo al documento di inquadramento per il governo del territorio provinciale in relazione al sistema viabilistico pedemontano lombardo, re-sponsabile A. Lanzani, rapporto finale, ottobre 2011).

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Le case del boom nella città contemporanea

geografia in evoluzione, in cui già ricade una quota rilevante del patrimonio residenziale in questione, troppo estesa per immaginarne una generale messa in sicurezza e bonifica – dalla zona rossa vesuviana alle aree di esondazione in Veneto e nella Bassa Emiliana, dalla terra dei fuochi campana alle aree a rischio di smottamenti nell’Appennino – e su cui si devono piuttosto concentrare con la massima priorità azioni di alleggerimento del carico insediativo. In terzo luogo, infine, vi è una quota di case del boom che non desideriamo più abitare: è il mercato stesso a dirlo, sono gli irreversibili processi di degrado e abbandono che ci segnalano l’esistenza di un patrimonio che per consistenza fisica e localizzazione non incontra più alcun tipo di domanda, ove l’unico valore rimane quello del volume edificato, nell’energia «grigia» incorporata e nell’eventuale possibilità di riciclarla41. (fig. 3)

Il governo di tale seconda linea di lavoro va immaginato in rapporto alla prima: un meccanismo di incentivi e di trasferimento dei diritti edificatori che potrebbe associare alla possibilità di realizzare volumetrie aggiuntive in determinate aree di sostituzione intensiva una mappa del «togliere», che rispondesse alle esigenze di razionalità infrastrutturale – ritraendo e dismettendo rami di infrastrutture urbane dalla costosa manutenzione42 – e di pubblica sicurezza appena richiamate, e che consentisse simultaneamente di rimettere in gioco i volumi di quegli edifici per cui un’ipotesi di riuso è ormai altamente improbabile, e per cui la demolizione e il trasferimento dei diritti edificatori incorporati possono essere una misura “ultima” di valorizzazione43.

di) Our Common Risk. Scenarios for the diffuse city, Et Al., Milano 2012; C. Gasparrini, Unhappy drosscapes in Campania felix, in «Pino Progetto Città» n. 27-28, 2013, pp. 190-205.

41  A. Lanzani, C. Merlini, F. Zanfi, Quando «un nuovo ciclo di vita» non si dà. Fenomenologia dello spazio abbandonato e prospettive per il progetto urbanistico oltre il paradigma del riuso, in «Archivio di Studi Urbani e Regionali» n. 109, 2014, in corso di pubblicazione. Si veda anche P. Viganò, Elements for a theory of the city as renewable resource, in L. Fabian, E. Giannotti, P. Viganò (a cura di), Recycling city. Lifecycles, embodied energy, inclusion, Giavedoni, Pordenone 2012, pp. 12-23.

42  M. Koziol, Dismantling infrastructure, in P. Oswalt (a cura di), Shrinking Cities vol. 2: Interventions, Hatje Cantz, Ostfildern 2006, pp. 76–79.

43  Si vedano, in tale prospettiva, le norme contenute nel Regolamento Urbanistico del Comune di Siena – approvato nel 2011 – riguardo la demolizione senza ricostruzione dei manufatti non residenziali e obsoleti presenti nel territorio rurale e il trasferimento dei loro diritti edificatori in aree di densificazione mediante una logica premiale. Cfr. A. Filpa, M. Talia, F. Valacchi, R. Valentini (a cura di), Siena: il regolamento urbanistico 2011-2015, in «Urbanistica» n. 150-151, 2012, pp. 70-121; in particolare

5.3. Adattamento e rimessa in circolo attraverso una politica di affitto concordato

La terza e ultima linea di lavoro prevede un’azione di leva pubblica finalizzata all’innesco di processi di adattamento diffuso delle case del boom, e della loro rimessa in circolo attraverso un sistema di offerta orientato all’affitto concordato.

Se nella prima e seconda linea si ipotizzava una relazione “a quadrilatero” tutto sommato consueta tra il proprietario di un edificio dal basso valore residuo (interessato alla vendita), la pubblica amministrazione (che definiva incentivi, assegnava indici edificatori e prelevava quote di plusvalore da destinare a nuove opere pubbliche), un operatore immobiliare (propenso a investire in un progetto di sostituzione intensiva e ad acquisire i diritti volumetrici necessari) e un soggetto bancario (che erogava credito a quest’ultimo), ora il sistema presuppone un meccanismo forse meno esplorato. Ci si misura infatti con parti di città ove, da un lato, non si danno le condizioni per un significativo incremento di valore tra i beni esistenti e un’ipotetica nuova costruzione – sia perché gli edifici esistenti ancora incorporano valore, sia perché le aree in cui sono collocate non costituiscono centralità di spiccato interesse immobiliare – e ove, dall’altro lato, i vincoli giuridici implicati dalla frammentazione delle proprietà impongono di procedere con operazioni molecolari, di grana più fine.

In questa linea di lavoro, al piccolo proprietario del singolo alloggio (disponibile a valutare ipotesi di ristrutturazione o frazionamento del proprio bene, per poi destinarlo interamente o in parte all’affitto) si affiancano: un soggetto erogatore di forme di micro-credito (dedicate al finanziamento di operazioni di adeguamento impiantistico, energetico e tipologico low-cost), un soggetto con ruolo di garanzia nei confronti dell’affitto a canone concordato (un soggetto pubblico o no-profit, sul modello di Provivienda o Agenzia Casa44) e un partner tecnico specializzato in opere interne “chiavi in mano” (che propone un catalogo di interventi standardizzati, leggeri e reversibili, sul modello del programma Plus45).

L’orizzonte di lavoro non si limiterà alla ristrutturazione e all’efficientamento energetico. Potrà

F. Valacchi, L’aspirapolvere, ibid. p. 109.44  Cfr. www.provivienda.org; www.comune.modena.it/

politichesociali/il-sociale-per/casa/agenzia-per-la-casa (ultimo accesso agosto 2014).

45  F. Druot, A. Lacaton, J. P. Vassal, Plus. Large scale housing development. An exceptional case, Gustavo Gili, Barcelona 2007.

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Federico Zanfi

essere un ripensamento più complessivo delle tipologie e delle caratteristiche interne degli edifici – frazionando e rimodulando le abitazioni in modo reversibile, ove possibile acquisendo trasformando spazi condominiali sovradimensionati e sottoutilizzati come pianerottoli e ballatoi – con un duplice obiettivo. Nei confronti della proprietà, quello di restituire case proporzionate

agli occupanti – ove questi necessitano di spazi meno ampi e meglio attrezzati – e di destinare la parte rimanente degli alloggi originali alla produzione di una piccola rendita integrativa mediante la locazione. Nei confronti delle domande abitative emergenti, quello di ampliare la gamma di alloggi piccoli offerti in affitto a canoni accessibili: un’opzione non alternativa ma

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Figura 4. Ipotesi di conversione di un appartamento di cinque vani – 135 mq. – costruito nel 1956 nel quartiere di via Cagliero a Mi-lano. Il progetto propone la suddivisione reversibile dell’alloggio originale in due appartamenti più piccoli – 50 e 75 mq. – in questo caso dedicati rispettivamente a un abitante anziano autosufficiente e una coppia (G. Grignani, tesi di laurea magistrale in Architettura, Scuola di Architettura e Società del Politecnico di Milano, A.A. 2014-2015, rel. F. Zanfi, co-rel. L. Daglio).

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Le case del boom nella città contemporanea

integrativa rispetto alle risposte correnti – dall’edilizia pubblica al social housing – non sempre efficaci nel rispondere alle articolazioni assunte dalla domanda abitativa sociale più recente46. È la coppia di coniugi anziani, che frazionano il proprio alloggio diventato troppo grande dopo l’uscita dei figli, che si ritirano in una parte e ne affittano la rimanente per integrare la pensione; sono i due dirimpettai single che creano una terza unità abitativa da destinare all’affitto mediante un modesto ridimensionamento dei loro appartamenti – divenuti troppo onerosi da mantenere – e una piccola riorganizzazione del pianerottolo condominiale; è il grande appartamento un tempo occupato dalla nonna, sfitto da tempo e “impegnativo” da ristrutturare, che – adattato – ritorna in circolo sotto forma di un cohousing per lavoratori fuori sede47. (fig. 4)

Il governo di questa terza linea di lavoro rimanda ad almeno due questioni complesse. In primo luogo, all’organizzazione di un meccanismo calibrato su chi oggi abita o potrebbe abitare il patrimonio residenziale in questione, sulle sue capacità di spesa e sulle sue prospettive di utilizzo. Da forme di micro-credito dedicate, con tempi di rientro calcolabili e garantiti entro il programma di affitto concordato; a detrazioni fiscali vincolate a tale riuso sociale del patrimonio edilizio; a meccanismi di permuta tra alloggi all’interno di uno stesso stabile – utili soprattutto per gli anziani, che hanno bisogno di condizioni di accessibilità non ovunque presenti; al coinvolgimento dei soggetti che devono svolgere il ruolo di garanzia sulla locazione degli alloggi trasformati; alla definizione di standard qualitativi per le ristrutturazioni a basso costo e per le rimodulazioni reversibili (il che rimanda non tanto al settore tradizionale delle costruzioni edili, maggiormente implicato nelle prime due linee di lavoro, quanto a un diverso tipo di impresa che dovrebbe riunire contoterzisti qualificati provenienti dai settori dell’impiantistica, dei serramenti e delle partizioni leggere).

In secondo luogo questa linea di lavoro rimanda a

46  Aa. Vv., Case difficili, cit.; M. Bricocoli – A. Coppola, Sguardi oltre le retoriche. Politiche e progetti per la casa a Milano, in «Territorio» n. 64, 2013, pp. 138-144. Si veda anche A. R. Minelli, La politica per la casa, il Mulino, Bologna 2004, in particolare il cap. V «Vecchie e nuove questioni».

47  Sono alcune ipotesi di applicazione ispirate alle storie raccolte nella ricerca Calling home: explorations on domestic change in Italy a cura di F. De Pieri e F. Zanfi, ospitata nella sezione «Weekend Specials» di «Monditalia» della 14. Mostra Internazionale di Architettura – La Biennale di Venezia, e dedicata all’osservazione degli abitanti che oggi utilizzano e trasformano le case del boom edilizio (callinghome.it).

una rilevante questione architettonica, poiché – pur attuandosi per piccole mosse – per via dell’immensa base di edifici potenzialmente coinvolti potrebbe avere effetti cumulativi molto ampi sull’immagine urbana complessiva della città del Novecento. Il tema è solo in parte riconducibile a questioni di composizione alla scala dell’intero edificio – come lo sono ad esempio le operazioni di «cappotto» esterno, da attuarsi sulla copertura o sulla facciata, e che sollevano casomai un problema relativo alla cancellazione di alcuni dei dettagli e dei materiali che sono i principali tratti identitari di queste architetture48. Qui si tratterà piuttosto di saper indirizzare all’interno di un codice estetico condiviso una moltitudine di operazioni individuali, che si attueranno alloggio per alloggio, che nasceranno dall’interno ma che ad alcune condizioni potrebbero segnalarsi anche all’esterno e reinventare l’immagine urbana dell’edilizia del secondo dopoguerra – ad esempio mediante una rivisitazione in chiave tecnologica dei balconi e delle logge, per massimizzarne la difesa dal surriscaldamento estivo e la captazione invernale dell’energia solare. Non si tratterà allora (solo) di restituire un esito qualitativo e prestazionale che sia paragonabile ai progetti di nuova realizzazione, ma piuttosto di saper rappresentare esteticamente i temi che sottendono tale progetto diffuso49 – dalla consapevolezza ambientale che ispira l’azione di riciclo, all’autorappresentazione delle nuove generazioni e dei nuovi abitanti delle architetture modificate – così come le case del boom hanno saputo benissimo fare con la società e l’economia del loro tempo.

6. Prospettive e primi passi

Resta da chiedersi quali potrebbero essere i primi passi da attuare per verificare con maggiore precisione la praticabilità e l’impatto delle linee di lavoro accennate. Se esistono già esperienze di piano e riflessioni di carattere accademico da cui provengono elementi utili a

48  A. Zamboni, Per una seconda vita del moderno, in «Domus» n. 976, 2014, p. 16-19.

49  L’interrogativo è a quali condizioni e in che misura le esplorazioni condotte fino a ora nel campo del riciclo in architettura – che prevalentemente rimandano a poetiche individuali e a condizioni di committenza poco generalizzabili – possano tradursi in un progetto di ampia diffusione ma comunque coerente con un denominatore estetico comune. Cfr. i progetti raccolti in P. Ciorra – S. Marini (a cura di), Re-cycle. Strategie per l’architettura, la città e il pianeta, Electa, Milano 2011; M. Petzet – F. Heilmeyer (a cura di), Reduce/Reuse/Recycle, Hatje Cantz, Ostfildern 2012.

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Federico Zanfi

prefigurare i caratteri e i limiti delle prime due50, siamo probabilmente molto meno attrezzati per governare azioni come quelle implicate dalla terza linea.

È tutta una filiera che dovrebbe ricostruirsi. A partire dal mondo dei progettisti, cui sarà richiesto un lavoro ulteriore tanto di attenzione e di interpretazione dei vincoli strutturali posti dalle case del boom, per ottenere il più possibile con ciò di cui già si dispone, quanto di interrogazione e di ascolto di domande abitative emergenti, che aldilà delle retoriche e dei formati alla moda esprimono esigenze contraddittorie e cangianti, e che dovranno suggerire l’adozione di modelli spaziali adattabili e reversibili. Al mondo dell’industria delle costruzioni e delle imprese, cui spetterà il compito di proporre un’offerta di componenti e un modello di cantiere compatibili con la necessità di intervenire in edifici che sono oggetti sociali complessi, che sono e rimarranno abitati da popolazioni talvolta fragili, e soprattutto che consentano di operare in tempi brevi e controllabili. Al mondo dell’urbanistica, cui spetterà il compito di definire normativamente le condizioni – mantenendo alcune costanti, ma anche introducendo alcune necessarie flessibilità che l’intervento sul costruito richiede – entro cui queste operazioni di adattamento saranno consentite, e di quale specie saranno gli «standard urbanistici» cui dovranno essere associate. Infine ai vari livelli della pubblica

50  E. Micelli, La gestione dei piani urbanistici. Perequazione, accordi, incentivi, Marsilio, Venezia 2011.

Nota – Questo testo deriva dalla rielaborazione di due relazioni preparate durante la primavera del 2014. La prima, intitolata “Il patrimonio residenziale del secondo Novecento alla prova dell’abitare nel XXI secolo” è stata presentata all’interno del ciclo di lezioni “Città del Novecento e città del futuro” tenutosi presso la Fondazione Collegio San Carlo di Modena nel mese di aprile. La seconda, intitolata “Il patrimonio residenziale privato del secondo Novecento: prospettive di smobilitazione, valorizzazione, adattamento e riciclo” è stata presentata al seminario “Un’agenda urbana per l’Italia” tenutosi presso il Gran Sasso Science Institute a L’Aquila nel mese di maggio. Voglio ringraziare Sandra Annunziata, Laura Daglio, Giovanni La Varra, Chiara Merlini, Cristina Renzoni e Giovanni Semi per la lettura di una prima versione del testo e per i consigli ricevuti.

amministrazione, cui dovrebbero corrispondere almeno due piani d’inquadramento, da un indispensabile piano nazionale che definisse univocamente le condizioni generali d’incentivo e le clausole di applicazione del programma di riforma – magari tornando a osservare alcune delle politiche di ampia diffusione richiamate nella prima parte di questo testo, grazie a cui le case del boom sono state costruite – a piani regionali e locali che fossero espressione delle peculiarità assunte da tale città nei vari contesti territoriali.

È una filiera che forse potrebbe iniziare a ricostruirsi utilmente a partire da un prototipo di scala regionale, che sapesse isolare dei territori-campione espressione di condizioni insediative in qualche misura generalizzabili, e che sapesse riunire attorno ad essi i soggetti del credito, le amministrazioni e le imprese necessarie al funzionamento del meccanismo. Un prototipo il cui ruolo di supervisione e coordinamento scientifico potrebbe utilmente interessare le Scuole di architettura, in particolare i Politecnici, dove già si riuniscono e dialogano quelle competenze di progettazione architettonica, tecnologica, urbanistica e delle scienze sociali indispensabili per dare spessore a un’ipotesi che potrebbe costituire, tra le altre cose, uno dei principali orizzonti di lavoro per i professionisti del progetto nel ventennio a venire.