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Marco Musillo
L’attore e il corpo nell’Opera di Pechino: traduzioni cinesi e omissioni occidentali
in Gagliardi Mangilli Elisa & Gianinazzi Barbara (eds.), Jingju. Il teatro cinese nella Collezione Pilone,
Silvana Editoriale, Milano, 2014, 63-73.
Sino alla fine del diciannovesimo secolo a Pechino erano vietate le opere teatrali nelle ore serali,
insieme al divieto di usare luci artificiali nei teatri. Le rappresentazioni iniziavano di solito a metà
giornata e finivano verso le sei di pomeriggio. L’ultima ora di spettacolo era quella in cui i migliori
attori comparivano sul palco ma, durante i rigidi inverni del nord della Cina, quando il sole
tramonta verso le cinque, questi erano già avvolti dall’oscurità. Il pubblico comunque non avrebbe
mai considerato questo ostacolo visivo un problema, era infatti davanti al palco per apprezzare
l’opera attraverso l’ascolto; contesto da cui viene l’espressione tingxi, ‘ascoltare l’Opera’ per
definire questa forma teatrale attraverso la fondamentale percezione della sua platea. La prima
trasformazione moderna si ebbe nel sud della Cina, negli anni settanta dell’Ottocento, quando a
Shanghai comparve l’illuminazione pubblica. In quel periodo i teatri si dotarono della nuova
tecnologia e, diversamente da Pechino e in anticipo sulla capitale, la scena teatrale incominciò ad
essere illuminata. Iniziò così a essere usato il termine kanxi, ‘guardare l’Opera’. Ovviamente la
vista amplificata dalla luce artificiale non mortificò la dimensione aurale, anzi il loro equilibrio
continuò ad affascinare gli spettatori. Oggi, il guardare e l’ammirare questa forma teatrale può
però aiutare lo spettatore occidentale a incominciare a capire la sorgente della voce dell’Opera di
Pechino, detta anche Jingju (Teatro della Capitale): il corpo del suo interprete, che insieme è
acrobata, combattente marziale, cantante e attore. Che cosa ammira visivamente lo spettatore
cinese, che cosa guardarono gli europei o gli occidentali che videro per la prima volta una
compagnia di Opera in azione? Per rispondere a questa domanda occorre interrogarsi proprio sul
ruolo del corpo nella relazione spettatore-scena, sulle diverse idee di corporeità performativa
dell’Opera di Pechino, e infine sulla lettura occidentale dell’attore cinese. Per prima cosa è
necessario sottolineare che nel passato, fuori dalla scena il corpo reale dell’attore cinese aveva un
valore sociale ambiguo: rispettato come veicolo narrativo nello spazio teatrale ma spesso umiliato
come oggetto fuori dalla recitazione. Prima dell’epoca moderna forti convenzioni sociali ma anche
vere e proprie leggi vietavano per esempio agli attori di formare legami matrimoniali fuori dalla
loro casta; e in relazione a tale contesto innumerevoli sono le storie di prostituzione maschile
comune tra gli attori dell’Opera.
Entrato in scena il corpo dell’attore appare a prima vista come una formidabile macchina
performativa: sostiene il costume che identifica il personaggio, militare o civile, l’età, il grado
sociale, e il genere sessuale; si muove con movimenti precisi e codificati, fa sfoggio di arti marziali,
canta brani impegnativi, recita. Addirittura si può sostenere che il costume rappresenti l’elemento
scenografico più importante dell’Opera essendo la scena priva di scenografia, solo occupata di
tanto in tanto da elementi che non rendono mai una visione realistica ma sempre una versione
simbolica, cioè composta da segni significanti di un tutto immaginato, richiamato. Sulle spalle
dell’attore è posato quindi l’intero visibile contesto scenico. A questo compito così gravoso per il
corpo, si aggiungeva nel Diciottesimo e nel Diciannovesimo secolo anche la traduzione e la
personificazione del genere femminile; infatti il Jingju tradizionale era esclusivamente recitato da
attori di sesso maschile, che impersonavano anche i personaggi femminili. Il più famoso attore
dell’epoca moderna, Mei Lanfang (1894-1961), il primo a fare conoscere attivamente questa
tradizione in Occidente era infatti un qiandan, cioè un attore che interpreta personaggi femminili.
Nel mondo della critica dell’Opera di Pechino si sosteneva che i qiandan rendevano con maggiore
convinzione di ipotetiche attrici le espressioni della femminilità, perché solo un uomo può capire
quali sono le qualità della femminilità che attraggono il pubblico maschile.
Mei Lanfang e il corpo globale dell’attore
Nel 1912, un anno dopo la caduta della dinastia Qing, a seguito dell’abrogazione delle leggi
promulgate dall’imperatore Qianlong nel 1772, sorsero compagnie d’opera femminili. Con il
tempo questa riforma fece cessare di fatto il monopolio maschile del Jingju. A Shangai, città più
libera dalle costrizioni morali della capitale, l’allentamento della censura iniziò già negli anni
settanta dell’Ottocento quando compagnie formate da attrici riscossero un certo successo tra le
platee cittadine. Anche il pubblico rispecchiò questo andamento e nella prima metà del secolo le
spettatrici affollarono i teatri, in precedenza privilegio dei soli spettatori maschi, e delle cortigiane.
Prima di tale apertura sociale, le spettatrici cinesi erano comunque educate alla visione teatrale
potendo assistere alle rappresentazioni che ciclicamente si tenevano nei templi o nelle strade
durante celebrazioni civiche o politiche. Il primo teatro di Pechino aperto al pubblico femminile fu
il Wenming chayuan (la Casa da te civilizzata), nel 1907, anche se questo doveva comunque
accomodarsi in un’area separata dalla platea maschile.
Con la caduta della dinastia Qing e l’avvento della repubblica, Mei Lanfang pose la
questione di rinnovare l’Opera attraverso una rilettura della tradizione allora minata dall’idea di
modernità occidentale che veniva propugnata con forza nell’Asia Orientale. La prospettiva critica
di Mei guardava sia alla rappresentazione sia ai libretti, grazie al dialogo con intellettuali dell’epoca
come Qi Rushan (1877-1962), storico del teatro e commediografo che passò un periodo in Europa
per studiare la tradizione scenica occidentale. In particolare Mei decise di amplificare il ruolo del
corpo sulla scena, e se prima i personaggi femminili dan dovevano scegliere una specializzazione
nel canto, nella recitazione o nei movimenti acrobatici, ora dovevano unire i tre linguaggi in
un'unica amalgama performativa (Zhang, 2001, 139). L’idea di Mei era quella di salvare e
mantenere l’Opera attraverso la pratica e lo studio di tecniche performative tradizionali da
adattare poi a libretti moderni. Questa visione è chiaramente spiegata dallo stesso Mei in un
articolo apparso il 10 di dicembre del 1958 sul quotidiano Renmin ribao, con il titolo ‘Yunyong
chuantong jiqiao kehua xiandai renwu’ (L’Uso di tecniche tradizionali per ritrarre caratteri
moderni). In particolare, Mei scelse di guardare al repertorio gestuale delle opere Kun, il genere
teatrale dei letterati e della corte sul quale si fonda l’Opera di Pechino, protetto dalle élite come
espressione musicale e poetica e difeso dalla commercializzazione teatrale. All’inizio del
Ventesimo secolo anche gli altri caratteri tipo, sheng (personaggi maschili), jing (facce dipinte) e
chou (commedianti) mutarono seguendo la visione di Mei. La dimensione aurale, sempre
rimanendo centrale per lo spettatore dell’Opera, si arricchì di una scena più ricca materializzata in
magnifici costumi sempre più costosi, valorizzati dalla nuova attenzione ad esecuzioni teatrali in
cui il corpo, la voce, e la mente dell’attore dovevano formare un’unità armoniosa. Mei capì che
solo attraverso l’attenzione della tradizione verso il corpo dell’attore l’identità dell’Opera sarebbe
stata custodita nel tempo; e da questa prospettiva operò una mirabile traduzione culturale. Infatti,
riconsiderò l’unione di chang, nian, zuo, e da, (canto, recitazione parlata, gestualità, e movimento
fisico) attraverso una visione della scena a lui contemporanea.
Una visione della scena che si estendeva anche al di fuori dei teatri, usciva nelle strade e
rientrava nello stesso teatro dell’Opera con l’esperienza di una nuova forma di spettacolo: il
cinema. Mei riuscì a tracciare una correlazione tra le espressioni facciali dell’opera Kun quali per
esempio il dui yanshen, l’incontro degli occhi, con la mimica facciale tipica del cinema muto. Per
capire tale sviluppo dell’arte teatrale cinese, sviluppo, si badi bene, nato dalla sola volontà di
riforma dell’attore cinese e non influenza occidentale, occorre considerare l’incredibile attività di
ambasciatore culturale di Mei. Forse l’unico al mondo all’inizio del Ventesimo secolo, Mei nel 1919
e nel 1924 fece un tour nel Giappone (Tokyo, Osaka e Nagasaki), nel 1930 negli Stati Uniti, e negli
anni venti e trenta in Europa visitò Francia Germania, Inghilterra e Russia. Per quanto riguarda il
viaggio americano, nel suo Wo de dianying shenghuo (Il cinema e la mia carriera), Mei racconta del
suo incontro con Charlie Chaplin (1889-1977) a Hollywood nel 1930 (Mei, 1962, 59). L’artista
cinese afferma di aver visto in Cina tutti i film di Chaplin e commenta così la capacità espressiva
del corpo dell’attore inglese nel Grande Dittatore (1940): “[Egli] non spreca un singolo gesto o
espressione, anche la più impercettibile; ed ognuno di questi gesti è il risultato sia di ingenuità, sia
di volontà.” Nello stesso viaggio incontra la star Mary Pickford (1892-1979), conversa con lei e la
osserva nella fase del trucco; e inoltre, riguardo alla gestualità dell’attore e le espressioni degli
occhi dialoga con l’attrice messicana Dolores Del Rio (1905-1983) e il francese Maurice Chevalier
(1888-1972). Occorre tenere presente che questi attori, come Mei comprese subito, esercitavano
il loro corpo, e soprattutto il loro viso, a sostenere l’intera gamma espressiva dei personaggi
rappresentati; e vissero dei cambiamenti radicali nell’arte cinematografica: con l’avvento del
sonoro della fine degli anni venti, infatti, molti di loro mutarono completamente il loro approccio
alla recitazione. Mei pertanto non fu solo un attore che conobbe fama e interesse al di fuori del
suo paese ma, come ambasciatore dell’Opera di Pechino nel mondo fu disinteressato a potenziali
prestiti occidentali e invece attento alla preparazione del corpo dell’attore nelle diverse tradizioni
performative, inclusa la recitazione cinematografica. Guardando Chaplin davanti alla macchina da
presa Mei infatti non scoprì un nuovo modo di recitare ma trovò un’ennesima prova di ciò che
aveva tentato di preservare nell’ambito del teatro cinese: il corpo dell’attore quale soggetto
attraverso cui la tradizione può essere conservata e restituita agli spettatori del futuro.
L’attore cinese e lo straniamento disinformato
Con le mature osservazioni di Mei sul cinema hollywodiano decadono gli immaginari occidentali di
un teatro lontano in cui misteriosi simboli compaiono davanti a spettatori ancora più esotici e
misteriosi. Non è più tempo di ingannarci con studi in cui lo specialista di turno dell’esotico
propone di svelare arcani: il corpo dell’attore del Jingju sotto sforzo parla agli spettatori dal
palcoscenico, cercando quella comunione emotiva comune a tutte le forme di teatro. Per
orientarsi in questa forma teatrale si deve allora partire dalla distinzione di Mei, quella che mette
insieme moti di ingenuità e la volontà, insieme impersonati dal corpo dell’attore e visibili nei sui
gesti. Il corpo può essere quindi paragonato a una parola che abbia in un dato contesto due
significati diversi: da una parte il gesto, lo sguardo, o il movimento fisico, e la sua valenza simbolica;
dall’altra, la sua poetica definita da una dimensione lirica conosciuta e coltivata dalla platea, quella
per cui lo spettatore sospende la conversazione seduto nel teatro-sala da te, e per quell’attimo di
bellezza che vale il biglietto d’ingresso concentra i sensi sul corpo dell’attore visto come
quintessenza estetica. Tale poetica, che unisce attore e spettatore ed era coltivata tra le mura
teatrali comprendeva anche la visione del corpo e della figura dell’attore come oggetto erotico,
definito dalla grazia dei movimenti e dall’aspetto. Non a caso, come riportato da una fonte
ottocentesca, il posto più costoso del teatro è “la seconda poltrona vicino all’uscita dalla scena”, è
da li infatti che si può intercettare un’occhiata dell’attore prima che sollevi la tenda e scompaia nei
camerini, una seduzione effimera che potrebbe preludere - com’era uso - ad un invito a cena dopo
la rappresentazione (Yang, 1842, in Goldman, 2012, 18-20). I primi spettatori europei e nord
americani del Novecento, e ancora oggi noi insieme a loro, non potendo accedere alla dimensione
lirica e poetica e alla cultura sviluppatasi negli spazi teatrali, si fermarono al corpo dell’attore come
mezzo di esecuzione di movimenti meccanici ripetuti per la loro valenza simbolica.
Rappresentante di tale pubblico inconsapevole fu una personalità teatrale del calibro di
Bertolt Brecht (1898-1956) che prima della tournée russa di Mei, iniziata il 23 marzo del 1935,
incontrò l’attore. L’incontro avvenne all’ambasciata cinese di Mosca il diciannove dello stesso
mese: qui Mei durante un ricevimento ufficiale mostrò saggi della sua arte agli invitati. Brecht,
come Mei, era a Mosca grazie all’invito e mediazione dello scrittore Sergej Michajlovič Tret’jakov
(1892-1939), divulgatore dell’opera del tedesco. L’incontro con il teatro cinese fu distillato da
Brecht nella sua teoria del teatro epico, e in particolare nell’effetto di straniamento, il
verfremdungseffekt, termine che compare per la prima volta in uno scritto sul teatro cinese,
Verfremdungseffekte in derchinesischen Schauspielkunst, dedicato proprio a Mei, ma che uscì
prima in lingua inglese con il titolo The fourth Wall of China: An Essay on the Effect of Disillusion in
the Chinese Theatre (Brecht, 1936, 116-123). Senza avere qua lo spazio di discutere delle
complessità di tale concetto, che in diverse tradizioni intellettuali viene contraddittoriamente
indicato di volta in volta con termini non equivalenti come alienazione, straniamento e disillusione,
si vuole comunque notare come Brecht abbia visto nell’attore cinese un uso del corpo in cui il
movimento fisico performativo non è emotivamente pregno. Questo distacco o straniamento
emotivo è inoltre anche prerogativa del pubblico, che non si immedesima nei personaggi
rappresentati sul palco. Quindi, da un lato l’attore non si immedesima nel personaggio e il
pubblico non si immedesima nella rappresentazione. Brecht per esempio scrive: ‘[l’attore cinese]
costruisce il suo stesso mistero attraverso i misteri della natura umana: non permette a nessuno di
esaminare come egli produca questo fenomeno, così come la natura non gli permette di capire
come egli stesso giunga a questo risultato.’(Brecht, 1964, 96). Questa idea distorta del teatro
cinese viene da una visione europea che non ritrova nell’uso del corpo dell’attore cinese
un’interpretazione naturalistica, soprattutto per quanto riguarda le passioni umane, ma solo
un’interpretazione in linea con convenzioni sceniche meccanicamente ripetute. Ovviamente gli
studiosi cinesi di teatro hanno segnalato più volte l’imprecisione brechtiana basata sulla
presunzione di conoscere una forma d’arte solo per aver assistito ad una sua rappresentazione;
ma l’errore continua ad essere divulgato usando gli elementi della tradizione antropologica più
segnati, o addirittura generati, dalla hubris europea dell’epoca moderna. Per guardare da una
prospettiva diversa, conviene allora andare a teatro e ripercorrere i passi che muove il corpo
dell’attore cinese, insieme alla sua mente, fuori e dentro la scena; e dal palco, o dal “cuore dello
stagno” come è chiamata la platea, dare un’ulteriore occhiata al suo pubblico.
Pubblico pagante, corpo immaginato e sudore celato
Prima di entrare in scena, sotto la maggior parte dei costumi l’attore indossa una casacca
imbottita senza maniche, la shui yizi (veste d’acqua); questa ha due funzioni: proteggere il
costume dal sudore, e celare il sudore agli spettatori. La fatica fisica è quindi nascosta mentre il
corpo recita e quando, in scene di battaglia compie le straordinarie evoluzioni acrobatiche proprie
della tradizione marziale cinese. Il corpo è poi nascosto da ricchi costumi, e trucchi facciali come
nel caso dei jing, le faccie dipinte; e copricapi, o capigliature, che con le loro ricche decorazioni
catturano l’attenzione degli spettatori. Questo è il linguaggio scenico dell’Opera di Pechino, che fa
del costume e dei movimenti del corpo sotto di esso, i pilastri scenografici della rappresentazione.
Il corpo è guidato però dalla mente dell’attore, e non solo dalla sua memoria performativa.
L’attore diversamente da quello che pensava Brecht, cioè che ‘ottiene lo straniamento guardando i
suoi stessi movimenti’ (Brecht, 1961, 129), recita partecipando emotivamente e fisicamente alla
storia e caratterizzazione del suo personaggio. Se il fatto di non vedere il sudore è spiegato dalla
veste imbottita, il fatto di non vedere i segni di emozioni sul viso o sul corpo degli interpreti trova
la sua ragione nell’esecuzione di una recitazione regolata in cui le emozioni devono essere
distillate in elementi poetici riconoscibili; quello che è certo è che ciò che è invisibile nell’Opera di
Pechino non è per forza assente. Anche se la recitazione non è improntata ad un naturalismo
completamente espresso, lo spettatore cinese riesce ad immedesimarsi emotivamente e
spiritualmente nelle scene facendo uso di un senso estetico che ricerca e coglie gli elementi
sublimati dalla vita reale nella recitazione per godere del loro principio immateriale. Questi
elementi sono colti soprattutto nella relazione tra movimenti del corpo e musica, e nel canto; cioè
due elementi non visibili ma infatti percepibili. Inoltre, se si considera l’opposizione tra Cina e
Occidente nelle arti visive, in cui la verosimiglianza delle forme percepite fisicamente è ascritta alla
tradizione occidentale, e la consonanza spirituale visibile nelle forme del reale è indicata come
specificità cinese; si può affermare che nel Jingju l’attenzione dello spettatore è tesa verso
l’elemento poetico emotivo non mostrato ma solo suggerito dalla forma. Si evidenzia quindi il
fatto che l’idea europea errata sull’attore del teatro cinese provenga dal non riuscire a distinguere
tra linguaggio performativo (costumi, recitazione, canto e musica), e sua poetica.
Una volta sul palco l’attore dell’Opera parla direttamente al pubblico per introdurlo alla
rappresentazione, spiegando il ruolo del carattere impersonato e il contesto della narrazione
scenica. Anche durante questo momento iniziale, come riportato da diverse fonti storiche cinesi,
lo spettatore si immedesima nel carattere recitato dall’attore, e durante la rappresentazione
l’introduzione iniziale non rappresenta un ostacolo all’identificazione del pubblico con i caratteri
che si muovono sul palcoscenico (Min, 1997, 205). Nel periodo di formazione dell’attore, che dura
circa otto anni, si segue il principio fondamentale della recitazione che è studiato frammentato in
quattro prerequisiti e cinque tecniche. I quattro prerequisiti, si gong, sono: cantare, parlare,
recitare e impegnarsi nei movimenti delle arti marziali. Le cinque tecniche, wu fa, spiegano
ulteriormente come l’attore cinese non dissoci il proprio corpo dalla carica emotiva, ma anzi usi la
propria psiche nella recitazione. Infatti le cinque tecniche sono così raggruppate: uso delle mani,
uso degli occhi, uso del tronco, andatura, e fa che si potrebbe tradurre come soggettività. Nella
preparazione del corpo dell’attore dell’Opera di riconosce quindi che il carattere individuale, l’ego
dell’attore, è quello che coordinerà tutte le parti del corpo fisicamente, intellettualmente, ed
emotivamente.
Il pubblico d’altro canto, è pronto, come menzionato sopra, a farsi stimolare emotivamente
dalla rappresentazione. In particolare la relazione tra attore e pubblico si svolge attraverso due tipi
di accordo dialettico. Nel primo lo spettatore riconosce la situazione in cui si svolge la narrazione
scenica, situazione che è proposta e presupposta (qingjing de jiading); e lega questa alla
corrispondenza emotiva (qinggan debizhen) del carattere recitato. Nel secondo accordo, lo
spettatore accetta di connettere il tempo e lo spazio presupposto (shikong de jiading) sulla scena,
con la conformità della figura umana (ren de bizhen) mostrata dall’attore (Bao, 2010, 263). Per
esempio, se un attore recita un generale sul campo di battaglia, lo spettatore valuta e partecipa
del legame tra situazione (battaglia) e moto emotivo del militare. Insieme si immedesima nei
movimenti dell’attore combattente (il corpo si muove come si muoverebbe un vero soldato?) in
uno spazio e tempo (campo di battaglia e momento storico) che funzionano come cornice scenica.
L’agente di raccordo di questi quattro aspetti della recitazione, e del dialogo tra spettatore e
personaggi teatrali, è il corpo dell’attore, perché è il corpo dell’attore che mostra le passioni
attraverso espressioni facciali e la gestualità; che rende visibile la situazione attraverso il costume
indossato (costume militare, di corte, ecc…); che indica il tempo e lo spazio attraverso movimenti,
per esempio un piede alzato indica uno spazio percorso; e che palesa il suo essere corpo umano
non immaginato ma reale come lo è quello dello spettatore.
Il corpo diventa non solo agente di movimenti simbolici e codificati ma veicolo di passioni
rappresentate e vissute, e mostrate al pubblico. In opposizione alla versione brechtiana o
all’esotismo disinformato, gli scritti di critica teatrale cinese che sottolineano l’importanza di
comunicare al pubblico elementi dell’emotività dei personaggi attraverso il corpo dell’attore
rappresentano una produzione così vasta da sembrare impossibile che sia passata inosservata agli
studiosi occidentali dei primi del Novecento. Addirittura, l’uso del concetto di verosimiglianza o
imitazione, mo, è usato quasi esclusivamente nella letteratura teatrale nell’ambito della resa di
emozioni e non di resa degli elementi visibili sul palco; mo viene infatti a significare una rivelazione
“realistica” dei moti dell’anima (Chen, 1997, 46). In questo ambito, l’alto grado di simbolismo
mostrato dai costumi e dalla gestualità profondamente codificata ha proprio l’intento di
amplificare la resa emotiva attraverso la frattura tra il simbolico che è visibile, e lo spirituale, che
non è mostrato ma è rappresentato sul palcoscenico. La relazione tra scrittura teatrale,
recitazione visibile, e emozioni invisibili è spiegata dalla gerarchia che tradizionalmente descrive il
percorso per arrivare all’espressione drammatica nella cultura cinese. Per esempio, nella
prefazione del primo poema del classico della poesia, lo Shi Jing, il più antico testo di lirica cinese,
datato dall’undicesimo al settimo secolo prima dell’era comune, si descrive il seguente percorso:
‘Quando un’emozione alberga nel cuore sospiriamo, non contenti la cantiamo in poesia, ancora
non soddisfatti inconsciamente incominciamo a danzare con le mani e con i piedi’ (Chen, 1997, 41).
Proprio il corpo quindi, quel corpo che vorremmo esecutore cosciente di movimenti distillati, è il
veicolo principe per descrivere e mostrare passioni nell’ambito della vita e della rappresentazione
teatrale.
Torniamo infine al pubblico: è attento e concentrato sulla scena, o la sua attenzione vaga
nel teatro aspettando il momento di immedesimazione e di rapimento estetico offerto dagli attori?
Nei teatri tradizionali erano pochi i momenti in cui si rivolgeva lo sguardo alla rappresentazione, si
partecipava della vita del teatro e si preferiva chiacchierare con il proprio vicino di sedia, o
mangiare e bere. Una fonte anonima del 1814, che descrive lo spazio teatrale in forma di poesia,
suona pressappoco così: ‘Siedono con le gambe piegate sotto il corpo; le rappresentazioni del
giorno descritte sopra una sottile striscia di carta di colore rosso; da sinistra verso destra, spalla a
spalla, siedono uomini belli come la giada; nessuno nel teatro si preoccupa neanche di guardare in
direzione del palcoscenico’ (Goldman, 2012, 63). Il teatro era infatti un luogo estremamente
rumoroso, anche durante le rappresentazioni era abitudine parlare con gli amici, e quando un
passaggio cantato era eseguito correttamente si gridava hao, “bravo” in direzione dell’attore.
Questo rumore di fondo però non distoglieva mai il pubblico dal suono della rappresentazione:
arrivava sempre il momento in cui la bellezza emotiva, musicale e letteraria giungeva improvvisa
dall’opera, e chi aveva varcato la soglia del teatro era li per questa rivelazione. Il corpo dell’attore
è sempre presente nella mente dei suoi spettatori, ed è dalla sua presenza codificata sul palco, ma
anche dalla sua valenza di agente emotivo, che la vita all’interno dello spazio teatrale può
riflettere, attraverso costumi più o meno regolati, la società del momento. Molti dei conoscitori di
teatro, letterati e intellettuali, erano infatti noti non solo per il loro sapere e frequentazione
dell’Opera, ma anche per atteggiamenti eccentrici che diventavano significanti proprio nello spazio
teatrale. Uno di loro, Yang Maojian, nel testo Menghua suobu (Note concernenti un sogno del
passato splendente) del 1842, racconta il seguente avvenimento:
‘Nel pieno dell’estate andai al teatro Guangde per ascoltare una rappresentazione della
compagnia Chuntai. Era estremamente caldo, i miei amici erano già dentro e il sole rosso aveva
scalato le volte celesti: non c’era una singola nuvola nei quattro angoli del cielo. La sola vista del
sole bastava a fare ansimare il mio cavallo come un bue che lavora nei campi…Quando arrivai il
mio intero corpo colava di sudore. Mi sentivo a disagio ma non c’era niente che potessi fare. Mi
appoggiai alla balaustra del balcone [all’interno del teatro sovrastante la platea su tre lati] e
guardai giù: dal mare di umanità veniva un fragore, un misto di parole e risate, come vapore che
risaliva da un calderone. L’attore Qiu Fang stava recitando e la sua rappresentazione era
incredibilmente suggestiva; il che mi faceva sentire ancora più caldo. Preso da un impulso
improvviso, mi slacciai la cintura e la arrotolai intorno alla balaustra, e mi aprii la casacca
mostrando il petto nudo. In seguito mangiai del cocomero e questo finalmente mi rinfrescò. Ad un
certo punto mi resi però conto che da ogni parte del teatro, dalle balconate e dalla platea, migliaia
di occhi mi fissavano. Sia i miei amici sia gli sconosciuti esclamarono: “che incivile!” Il giorno dopo
in città si parlava dell’uomo dal petto nudo a teatro. Alcuni buoni amici mi dissero a guisa di
consiglio: “il confucianesimo ha definiti ambiti per il piacere”. Ridendo dissi che: “anche se non
vivo tra le bestie, che sono nude di natura, anche l’uomo come loro è naturalmente nudo; che
danno può mai arrecare il girare mostrando il corpo svestito?” “Non sono incivile: la nobiltà della
persona risiede nella mente”’ (Goldman, 2012, 48).
Forse proprio questa visione eccentrica può aiutare a capire la cultura dell’Opera cinese. Nello
spazio teatrale, sia sul palcoscenico sia nella platea, l’umanità tutta è rappresentata; ma
soprattutto si fronteggiano due visioni della società che sono però speculari e che hanno il corpo
come elemento connettivo. Maojian con il corpo esposto, e l’attore Qiu Fang vestito del costume
di scena rappresentano l’individualità in due modi contrapposti - ma comunque sudando entrambi
–: il primo mostra la libertà intellettuale attraverso il proprio corpo; il secondo, sempre usando il
corpo, mostra la regola sociale che porta a quel godimento estetico codificato nella recitazione ma
che infine, se coltivato, conduce alla stessa libertà emotiva ed individuale. Un ulteriore
corrispondenza è tra la folla vociante, che non per questo compromette la qualità della
rappresentazione teatrale; e il corpo nudo che, anche se mostrato in pubblico, non compromette
la nobiltà della persona. Per il pubblico cinese questa rappresentazione della società, della sua
storia, delle passioni, e degli individui che attraversano lo spazio teatrale, si riattiva forse anche
quando seduto davanti alla televisione si sintonizza sul canale numero undici, quello della
televisione di stato dedicato all’Opera. Per il pubblico non cinese rimane l’interesse, e forse una
passione futura, per un’eredità culturale immateriale, ma anche corporea, che un’umanità
globalizzata ma non globale non si può permettere di smarrire. Possiamo allora incominciare a
gioire di tutti gli elementi che compongono l’Opera di Pechino non come idoli autentici di una
cultura lontana, ma come simulacri complessi di percorsi umani vitali.
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