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CONTRIBUTI DI STORIA ANTICA 12

La guerra del Peloponneso nell'Epitome di Giustino, in: Studi sull'Epitome di Giustino. I: Dagli Assiri a Filippo II di Macedonia, a cura di C. Bearzot, F. Landucci, Milano 2014 (Contributi

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CONTRIBUTI DI STORIA ANTICA12

PP_Bearzot-Landucci.indd 1 23/09/14 16:16

Comitato scientifico: Cinzia Bearzot, Franca Landucci, Philip A. Stadter, Giuseppe Zecchini.

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a cura di

CINZIA BEARZOT FRANCA LANDUCCI

STUDI SULL’EPITOMEDI GIUSTINOI. DAGLI ASSIRI A FILIPPO II DI MACEDONIA

VITA E PENSIERORICERCHESTORIA

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La pubblicazione di questo volume ha ricevuto il contribu-to finanziario dell’Università Cattolica.

www.vitaepensiero.it

Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633.Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Cen-tro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail: [email protected] e sito web www.clearedi.org

© 2014 Vita e Pensiero - Largo A. Gemelli, 1 - 20123 MilanoISBN 978-88-343-2880-4

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INDICE

Presentazione VII

MARCO PETOLETTILa storia del testo di Giustino: punti di arrivo, prospettive di ricerca 3

SERENA BIANCHETTI La geografi a della Scizia nell’opera di Giustino 27

GIUSEPPE MARIOTTA Geografi a e geopolitica nelle Storie Filippiche 45

BERNARD ECK L’Orient au livre I de Justin au comment Justin écrit l’histoire 57

CINZIA BEARZOTLa «pentecontetia» in Trogo e nell’Epitome di Giustino 85

UGO FANTASIA La guerra del Peloponneso nell’Epitome di Giustino 125

NICOLAS RICHER Le début du IVe siècle avant Jésus-Christ en Grèce d’après le livre VI de l’Abrégé des Histoires philippiques de Justin 167

ANTONELLA RUBERTO La Persia nel IV secolo e il libro X dell’Epitome di Giustino 197

FRANCA LANDUCCI Filippo II e le Storie Filippiche : un protagonista storico e storiografi co 233

RICCARDO VATTUONE Giustino e l’Occidente greco, I: VI-V secolo a.C. 261

UGO FANTASIA

La guerra del Peloponneso nell’Epitome di Giustino

Esistono buone ragioni per rimpiangere la perdita dei 44 libri delle Hi-storiae Philippicae pubblicate poco prima del 9 d.C. da Trogo Pompeo, un provinciale della Gallia Narbonese il cui nonno era stato insignito del-la cittadinanza romana da Pompeo, e a noi note solo attraverso l’Epitome composta da un certo Marco Giunian(i)o Giustino probabilmente poco prima del 200 d.C., integrata dai sommari dei libri trogiani (prologi) con-servati da una tradizione indipendente. Il rammarico è motivato non so-lo dall’evidente prestigio di cui Trogo godeva in età imperiale, tanto da essere inserito in un canone di storici romani che comprendeva i grandi nomi di Sallustio, Livio e Tacito1. L’aspetto più intrigante è che una sto-ria universale in latino pubblicata in età augustea, il cui titolo è una vo-luta ripresa dei Philippika di Teopompo, si risolvesse di fatto in una storia della Grecia e del Vicino Oriente tra Filippo II di Macedonia e Cleopa-tra VII (nei libri VII-XL), con signifi cative aperture verso la Sicilia e Car-tagine, mentre solo pochi capitoli sono dedicati alle origines di Roma co-me premessa alla storia di Massalia in un libro, il XLIII, che è preceduto da due libri interamente dedicati alla storia dei Parti e seguito da un ul-timo sull’Iberia. In realtà Roma, benché defi nita caput totius orbis, non è vista come il punto culminante di quella translatio imperii sul cui schema le Historiae Philippicae sono strutturate: il mondo contemporaneo all’au-tore è rappresentato come diviso in due sfere, l’Occidente sotto il do-minio di Roma e l’Oriente sotto quello dei Parti, l’unico popolo in gra-do di tener testa ai Romani e anche di batterli2. Se conservata integral-mente, l’opera di Trogo non solo ci avrebbe familiarizzato con il meto-do di lavoro di uno storico le cui prese di posizione autoriali, per quel poco che sono fi ltrate attraverso Giustino, appaiono di sicuro interesse3, ma ci avrebbe rivelato qualcosa di più del messaggio, certamente non fi -

1 SHA, Aurel. 2, 1, Prob. 2, 7.2 Iust. XLIII 1, 2; XLI 1, 1 e 7.3 Si veda per esempio la critica a Sallustio e Livio per l’uso di discorsi diretti – essi avreb-bero oltrepassato i limiti propri della storia (quod… historiae modum excesserint) – che è pre-messa al discorso di Mitridate riportato da Trogo/Giustino in forma indiretta: XXXVIII 3, 11.

126 UGO FANTASIA

lo-romano anche se non esplicitamente anti-romano, di cui era portatri-ce e che, secondo un’antica ipotesi che tuttora conserva una sua validi-tà, Trogo avrebbe mutuato dal Peri; basilevwn (o forse una vera e pro-pria storia universale) composto da Timagene di Alessandria (FGrHist 88) nella seconda metà del I sec. a.C.

La perdita è certamente in parte compensata dalla sopravvivenza dell’Epitome di Giustino, un’opera che pur sempre ci ha conservato l’u-nica storia continua dell’età ellenistica che si sia salvata dal grande nau-fragio della storiografi a greca e che ha goduto di una grande e ininter-rotta fortuna fra la tarda antichità e la prima età moderna. Tuttavia, se è vero che nell’Epitome c’è ben poco che non si trovasse già nell’originale, è molto alto il rischio che qualcosa di importante presente nell’opera di Trogo sia andato perduto nella riduzione (circa un decimo dell’origina-le, secondo un ragionevole calcolo) che ne ha fatto Giustino. Per espli-cita dichiarazione dell’autore, infatti, l’Epitome non è un riassunto uni-forme dell’opera di Trogo. Nella Praefatio si legge (4):

Horum igitur quattuor et quadraginta uoluminum... cognitione quaeque dignissima excerpsi, et omissis his, quae nec cognoscendi uoluptate iucunda nec exemplo erant neces-saria, breue ueluti fl orum corpusculum feci...

Io, dunque, di questi quarantaquattro volumi... ho trascelto quelle parti che era-no le più degne di essere conosciute e, tralasciando invece quelle che non era-no né piacevoli ad apprendersi né necessarie come esempi, ho fatto, per così di-re, un breve fl orilegio...4.

Una sorta di antologia, dunque, piuttosto che una vera e propria epito-me, nella quale Giustino non di rado ha introdotto affermazioni e com-menti autoriali e riferimenti incrociati interni al suo testo5, suscitando così il sospetto che anche certe notizie rifl ettano un adattamento ai tem-pi nuovi di quanto scritto da Trogo circa due secoli prima6. Il che giusti-fi cherebbe appieno il fatto che sant’Agostino potesse riferirsi a Giustino, defi nito da Orosio un breviator di Trogo, come a colui che ha scritto una breve storia Trogum Pompeium secutus 7. Ma naturalmente l’idea del fl ori-legio lascia spazio alla possibilità che nell’Epitome siano riprodotti qua-si alla lettera stralci più o meno ampi delle Historiae Philippicae. Quanto si è conservato e quanto è andato perduto dell’originale, e quali criteri debbano essere seguiti per individuare ciò che è propriamente di Trogo

4 Qui e nel resto dell’articolo riprendo, con minime variazioni, la traduzione italiana di Santi Amantini (1981).5 Iust. II 5, 9; XX 1, 12; 5, 1; XXXVIII 3, 11 (già citato); XLIII 1, 1-2; 5, 11.6 Iust. II 10, 2; XLI 5, 8.7 Oros. Hist. adv. pag. I 8, 1; Aug. De civ. D. IV 6.

LA GUERRA DEL PELOPONNESO NELL’EPITOME DI GIUSTINO 127

dentro Giustino, sono due fra le questioni che affi orano più di frequen-te negli studi moderni su Giustino (e che episodicamente ci porremo anche nelle pagine che seguono).

Quanto detto fi nora, una sommaria ma doverosa premessa alla lettu-ra e allo studio dell’Epitome di Giustino8, vale naturalmente anche per la sezione dell’opera che si occupa della storia greca fi no a Filippo II (II 6-VI), con la differenza che per essa è più che legittimo il dubbio sulla esclusiva dipendenza di Trogo da un intermediario ellenistico il cui in-teresse di fondo, pur in un’ottica universalistica, sembra essersi orienta-to sul principio dinastico. Per questa sezione, dunque, il problema delle fonti adoperate da Trogo in via diretta o mediata si pone in forma rela-tivamente più acuta che per altre parti dell’opera. Ma lo studio qui con-dotto non vuole essere solo un discorso sulle fonti, che pure può presen-tare ancora spunti di un certo interesse nonostante il lavoro compiuto da diverse generazioni di studiosi. Guardare alla guerra del Peloponne-so dal punto di vista di Giustino, infatti, comporta il passaggio attraverso il fi ltro della visione storica generale e delle categorie interpretative alla luce delle quali la storiografi a greca del IV secolo e di età ellenistica ha letto e interpretato la storia della Grecia classica e che hanno fi nito per imprimere alle diverse ricostruzioni caratteristiche non tutte spiegabili in un’ottica di pura Quellenforschung.

8 Fra le introduzioni recenti a Trogo e Giustino meritano una segnalazione gli studi di Santi Amantini (1981), pp. 7-49; Alonso-Núñez (1987); Jal (1987); Develin (1994) e Yardley - Heckel (1997). Rimangono tuttavia fondamentali le ricerche di O. Seel (per es. Seel 1972b) e quelle prodotte dalla feconda scuola italiana di studi giustinei, in par-ticolare, sul metodo di lavoro di Trogo/Giustino, l’acuta monografi a di Forni (1958), i cui risultati sono in parte ripresi nella citata introduzione di Santi Amantini e aggiornati dall’autore in Forni - Angeli Bertinelli (1982), pp. 1301-1312. Importanti considerazioni di carattere linguistico a favore della fi ne del II secolo d.C. come data probabile per la composizione della Epitome sono svolte da Yardley (2003); ma cfr. Syme (1988) per una proposta di datazione alla fi ne del IV sec. d.C. Il signifi cato del richiamo ai Philippika di Teopompo o quanto meno alla storia macedone – che appare diffi cilmente contesta-bile (cfr. la rassegna di Santi Amantini, 1981, pp. 24-27), nonostante l’autorevole voce fuori del coro di Seel (1972b), pp. 8 s. – ha suscitato un’ampia discussione: vd. almeno Develin (1985), Alonso-Núñez (1987), pp. 58 s., Jal (1987), p. 195, e da ultimo Canfora (2013a), pp. 364-367. Che Timagene sia stato fonte quasi unica di Trogo fu sostenuto da von Gutschmid (1882), le cui conclusioni furono accettate da F. Jacoby (FGrHist II C, Kommentar zu nr. 64-105, pp. 220 s.), e benché sia ormai assodato che Trogo ha attinto a un ampio ventaglio di fonti, rimane molto probabile che egli abbia fatto uso di Timage-ne, e ne sia stato profondamente infl uenzato, per le ragioni lucidamente richiamate in Yardley - Heckel (1997), pp. 30-33. Mazzarino (1966), pp. 485-491, ha scritto pagine acute sul carattere non necessariamente anti-romano dell’universalismo trogiano. La grande fortuna di cui ha goduto Giustino fra la tarda antichità e l’età umanistica è documentata dai più di 200 manoscritti medievali di cui si ha notizia: cfr. Rühl (1871) e la bibliografi a citata in Fantasia (c.d.s. a).

128 UGO FANTASIA

1. Lo spazio che l’Epitome di Giustino dedica al racconto della guerra del Peloponneso, in sé abbastanza ridotto, è distribuito in modo irregola-re, e ci sembra opportuno delineare all’inizio una visione d’insieme dei suoi contenuti.

Lasciando da parte un episodio marginale del 424, richiamato fuori contesto (XVI 3, 9-12), e la prima spedizione in Sicilia, trattata nel libro ‘siciliano’ (IV 3, 4-7), appena una trentina di righe di testo (III 7, 2-15), calcolate sull’edizione teubneriana curata da O. Seel9, coprono in ma-niera continuativa gli anni 431-415, e quasi un terzo di queste celebra il disprezzo della ricchezza privata esibito da Pericle nel donare preventi-vamente alla città i suoi campi per stornare da sé ogni sospetto nel caso fossero stati risparmiati dalle devastazioni10. Per i fatti d’arme resta per-ciò uno spazio esiguo: prima una spedizione di Pericle nel Peloponne-so messa in relazione con la prima invasione peloponnesiaca dell’Attica, fondendo così in un unico evento il periplo del 431 e la spedizione real-mente guidata da Pericle l’anno successivo nella Akte argolica e in Laco-nia11; poi un rapidissimo accenno a una vittoria ateniese sul mare avve-nuta solo pochi giorni dopo (sic), che non può che essere la duplice bat-taglia navale di Patre e Naupatto dell’estate del 42912. Per il resto Giu-stino riporta che la lotta continuò cruenta e inconcludente per svariati anni fi no ad una pace cinquantennale (cioè la pace di Nicia) che sareb-be rimasta in vigore per appena sei anni. La notizia che ciononostante Atene e Sparta continuarono a farsi la guerra per interposti alleati è ac-compagnata dall’osservazione che sarebbe stato moralmente più giusto affrontarsi a viso aperto piuttosto che commettere spergiuro nel recare aiuto agli alleati (III 7, 11-15).

Il collegamento tra questi eventi e la spedizione in Sicilia del 415 è assicurato, alla fi ne del III libro, dalle parole hinc bellum in Siciliam tran-slatum (III 7, 16), che trovano una precisa eco in IV 4, 12 (quasi Graeciae bellum in Siciliam translatum esset), e una dichiarazione autoriale ne po-spone il racconto all’illustrazione del situs della Sicilia. L’organizzazione della materia in Trogo, infatti, fa sì che le spedizioni del 427-424 e del 415-413 trovino posto, l’una di seguito all’altra (IV 3, 4-7; 4-5), nel IV li-bro dedicato monografi camente alla Sicilia. Il racconto della seconda è relativamente lungo per i canoni giustinei (cinquantacinque righe di

9 Seel (1972a).10 Iust. III 7, 7-10; cfr. Thuc. II 13, 1. Ma quello che in Tucidide era presentato come un timore di Pericle in Giustino è diventato un fatto: gli Spartani risparmiarono le sue pro-prietà, senza però raccoglierne alcun vantaggio. 11 Iust. III 7, 5-6; Thuc. II 25; 30; 56.12 Del resto interiectis diebus è una delle formule ricorrenti di Giustino per indicare inter-valli di tempo che nella realtà storica vanno da pochi giorni a qualche anno: vd. infra, n. 93.

LA GUERRA DEL PELOPONNESO NELL’EPITOME DI GIUSTINO 129

testo) ed è condotto, in omaggio all’idea che la guerra siciliana fosse la prosecuzione in altro teatro del confl itto già divampato in Grecia, sulla falsariga di una lotta fra Ateniesi e Peloponnesiaci nella quale il contri-buto di Siracusa è totalmente assente.

I primi cinque capitoli del V libro (centocinquanta righe di testo), che con un salto indietro nel tempo prende le mosse dagli scandali del 415, sono dominati dalla fi gura di Alcibiade e dai suoi intrighi fi no al momento del secondo e defi nitivo esilio dopo l’insuccesso di Nozio, do-po il quale Conone subentra come protagonista sul versante ateniese. Giustino non dà un nome all’ultima fase della guerra, ma nel prologus al V libro leggiamo che in esso veniva trattato bellum inter Athenienses et Lacedaemonios quod Deceleicum vocatur. Scarsissima è l’attenzione dedica-ta alle vicende propriamente militari, peraltro evocate sempre in mo-do impreciso (a nessuna delle battaglie degli anni 411-405 è associata un’indicazione topografi ca). Nel quarto capitolo, ad esempio, appena sette paragrafi sono dedicati al recupero delle fortune ateniesi nell’El-lesponto negli anni 411-409, mentre i restanti undici contengono una descrizione a effetto del rientro di Alcibiade ad Atene, e nel sesto capi-tolo (una ventina di righe di testo) le battaglie delle Arginuse e di Ego-spotami sono compresse in un unico evento, sì da risultare irriconosci-bili. La descrizione dello sgomento e della disperazione degli Ateniesi all’annuncio del disastro occupa gran parte del capitolo successivo (V 7, 4-12), mentre le trattative di pace e la capitolazione di Atene sono ri-cordate nei primi sei paragrafi dell’ottavo capitolo. In V 8, 7 la conclu-sione delle ostilità è segnalata (insignis hic annus... fuit) attraverso il sin-cronismo della expugnatio Athenarum con la morte del re Dario II e l’exi-lium di Dionisio I di Siracusa13. Ma non c’è una netta cesura tra la fi ne della guerra del Peloponneso e la narrazione della storia interna di Ate-ne fra l’instaurazione del regime dei Trenta e il loro allontanamento ad Eleusi, seguito senza soluzione di continuità dal loro proditorio massa-cro (che avvenne in realtà solo nel 401/0)14 e dalla riconciliazione fi na-le (V 8, 9-10, 11). Quest’ultima sezione, lunga ottanta righe di testo, oc-cupa più di un quarto dello spazio dedicato all’intera guerra del Pelo-ponneso fi no al 404.

2. In presenza di un resoconto talmente sommario e infarcito di erro-ri non c’è da stupirsi che di Giustino non si faccia quasi mai parola nei commenti a Tucidide o negli studi dedicati alla guerra del Peloponne-so. Nei cinque volumi dello Historical Commentary on Thucydides egli è ci-tato solo quattro volte, e solo due passi dell’Epitome, ma attinenti a even-

13 Vd. infra, pp. 143 s.14 Arist. Ath. Pol. 40, 4.

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ti della Pentekontaetia (III 6, 1 e IX 1, 3-4), sono discussi da Gomme. Il secondo di questi contiene in realtà un interessante riferimento fuori contesto, riconducibile probabilmente a fonti di storiografi a locale, al soggiorno del reggente spartano Pausania a Bisanzio all’indomani delle guerre persiane15. Si trova ugualmente fuori del suo contesto cronolo-gico naturale un altro episodio, che ricade nell’ambito della guerra del Peloponneso, per il quale la testimonianza di Giustino è senz’altro da ri-valutare. Esso è collocato all’interno di una lunga digressione dedicata alla storia di Eraclea Pontica, dalla fondazione fi no alla tirannide di Cle-arco e dei suoi successori, che occupa più di metà del XVI libro e che prende spunto dalla guerra mossa contro la città da Lisimaco di Tracia intorno al 284 (XVI 3, 3)16. L’unico evento della sua storia registrato da Giustino tra il momento della fondazione e la presa del potere da parte di Clearco nel 364/3 è il seguente (XVI 3, 9-12):

Cum rerum potirentur Athenienses uictisque Persis Graeciae et Asiae tributum in tutelam classis descripsissent, omnibus cupide ad praesidium salutis suae conferentibus soli Hera-cleenses ob amicitiam regum Persicorum conlationem abnuerant. Missus itaque ab Athe-niensibus Lamachus cum exercitu ad extorquendum quod negabatur, dum relictis in lito-re nauibus agros Heracleensium populatur, classem cum maiore parte exercitus naufragio repentinae tempestatis amisit. Itaque cum neque mari posset amissis nauibus, neque ter-ra auderet cum parua manu inter tot ferocissimas gentes reuerti, Heracleenses honestiorem benefi cii quam ultionis occasionem rati instructos commeatibus auxiliisque dimittunt, be-ne agrorum suorum populationem inpensam existimantes, si quos hostes habuerant ami-cos reddidissent.

L’episodio, come sappiamo da Tucidide (IV 75, 1-2), risale all’estate del 424: una squadra di dieci triremi ateniesi comandata dallo stratego La-maco, che faceva parte di una fl otta di «navi per la riscossione di dena-ro» (ajrgurolovgoi nh'e~) partita nell’inverno precedente per una missio-ne che toccò la Tracia e l’Asia Minore (IV 50, 1), fece una deviazione verso Eraclea e andò completamente distrutta per l’improvviso ingrossa-mento delle acque del fi ume alla cui foce era ancorata. Lamaco si salvò, insieme all’esercito, raggiungendo Calcedone per via di terra attraverso il territorio dei Traci di Bitinia17.

Mentre Diodoro (XII 72, 4) riprende pedissequamente Tucidide, ma

15 Ne tratto in Fantasia (c.d.s. a). 16 Sulla data vd. Burstein (1976), pp. 93 s.17 Il che non implica che il disastro in cui incorse la fl otta non avesse fatto vittime fra gli Ateniesi: non solo Giustino parla di perdite (classem... amisit) ma, come ha dimostrato Knoepfl er (1996), p. 298, i caduti «all’estremo confi ne del continente asiatico» (ejpi; toi'~ ejscavtoi~ th`~ ∆Asianh`~ hjpeivrou) ricordati da un epigramma visto da Pausania nel corso della sua visita al Ceramico (I 29, 11) non possono essere che gli uomini periti in questa spedizione di Lamaco (per la topografi a vd. ibid., p. 298, n. 60).

LA GUERRA DEL PELOPONNESO NELL’EPITOME DI GIUSTINO 131

con l’omissione della notizia del rientro dell’esercito a Calcedone, Giu-stino, come si può vedere dalla seguente sinossi, presenta due interes-santi particolari in più (in corsivo nel testo) rispetto a Tucidide.

Thuc. IV 75, 1-2Nella stessa estate… gli strateghi ate-niesi Demodoco e Aristide, che co-mandavano le navi per la raccolta dei tributi, si trovavano in Ellesponto (il terzo collega, Lamaco, era entrato con dieci navi nel Ponto). … 2 Non mol-to tempo dopo Lamaco, che era entra-to nel Ponto ed aveva gettato le anco-re presso il fi ume Calete nel territorio di Eraclea, perse le navi per il repenti-no aumento della corrente provocato dalle piogge. Tuttavia sia lui che l’eser-cito, marciando attraverso i Traci Biti-ni che abitano oltre lo stretto in Asia, raggiunsero Calcedone, la colonia di Megara situata all’ingresso del Ponto. (trad. di M. Cagnetta)

Iust. XVI 3, 9-12Quando gli Ateniesi erano al loro più alto grado di potenza e, vinti i Persiani, avevano prescritto un tributo alla Gre-cia e all’Asia per il mantenimento del-la fl otta, mentre tutti volentieri contri-buivano per difendere la propria sicu-rezza, soltanto gli Eracleoti, per la lo-ro amicizia con i re di Persia, avevano ricusato il pagamento. Gli Ateniesi per-tanto inviarono Lamaco con un esercito per esigere con la forza quanto veniva rifi u-tato; ma, mentre, lasciate le navi sulla spiaggia, stava saccheggiando le cam-pagne degli Eracleoti, perdette la fl ot-ta con la maggior parte dell’esercito in un naufragio causato da un’improvvi-sa tempesta. Pertanto egli non poteva ritornare indietro per mare, senza le navi, né osava farlo per terra, con una piccola schiera in mezzo a tanti uomi-ni molto bellicosi. Ma gli Eracleoti, giu-dicando che quella fosse occasione più ono-revole di benefi cio che di vendetta, lasciaro-no andare gli Ateniesi dopo averli riforni-ti di vettovaglie e di truppe ausiliarie, sti-mando che la devastazione dei loro campi sarebbe stata un prezzo ben pa-gato, se si fossero resi amici quelli che prima avevano avuto nemici.

Uno di questi, messo in luce dell’ottimo commento di Hornblower al passo tucidideo, è che la salvezza di Lamaco è dovuta al benevolo inter-vento degli Eracleoti: lo stratego viene in pratica scortato, nell’attraver-samento della Bitinia, fi no all’altra colonia megarese del Bosforo, e non c’è motivo di ritenere che si tratti dell’elaborazione romanzesca di un episodio riportato veridicamente dal solo Tucidide18. Se amplifi catio c’è stata, essa potrebbe riguardare semplicemente le motivazioni del com-

18 Hornblower (1996), p. 246, con la critica a J. Steup in Classen - Steup (1900), p. 152.

132 UGO FANTASIA

portamento degli Eracleoti, così vicine al tono moraleggiante che ca-ratterizza molte pagine di Giustino e comunque tali da tornare a ono-re e gloria della città. Giacché alle spalle di Trogo vi è quasi certamen-te, come vide Jacoby, Ninfi de di Eraclea, attivo nella prima metà del III sec. a.C. e il più antico rappresentante di una storiografi a locale di pri-ma grandezza che culminerà in età imperiale con Memnone19. D’altra parte, come suggerisce Hornblower, è più che probabile che il decre-to ateniese che concede la prossenia a un Sotimos di Eraclea (IG I3 74), databile con ragionevole sicurezza al 424/3, sia da mettere in relazione con la felice conclusione della vicenda, andando a ricompensare uno degli Eracleoti che avevano aiutato gli Ateniesi a raggiungere il Bosfo-ro20, piuttosto che con una non documentata instaurazione di un regi-me democratico al posto dell’oligarchia che aveva retto fi no a quel mo-mento la città21.

Ma se la versione di Giustino è corretta su questo punto, perché non dovrebbe esserlo anche per le motivazioni dell’incursione di Lamaco sulle coste eracleoti, vale a dire: esigere il tributo che la città pontica non aveva mai pagato facendo leva sulla sua amicizia con i re di Persia? Am-mettere questa possibilità schiude uno scenario in parte inedito le cui implicazioni non sono state interamente colte. La prima fase del brano di Giustino sopra riportato sembra coprire l’intero periodo storico che si apre con la fondazione della Lega delia, nel corso del quale Eraclea rimase sottoposta, almeno formalmente, all’autorità del Gran Re. Que-sta condizione non dovette mai rappresentare un serio ostacolo ad una eventuale volontà ateniese di estendere l’area delle città soggette a tri-buto al Ponto Eussino, e i tentativi in tal senso probabilmente iniziaro-no molto presto, se dobbiamo dar credito a una delle due versioni riferi-te da Plutarco circa la morte di Aristide, e cioè che essa lo colse mentre si trovava nel Mar Nero per affari di Stato (pravxewn e{neka dhmosivwn)22. Nella tradizione relativa alla spedizione di Pericle nel Ponto, che ca-de quasi certamente negli anni immediatamente successivi al 438, so-no menzionate due città, Amiso e Sinope, la seconda delle quali, a ulte-riore testimonianza della specializzazione geopolitica di molti strateghi ateniesi del V secolo, aveva ricevuto in quell’occasione un contingente di tredici navi al comando dello stesso Lamaco per fare la guerra al ti-

19 F. Jacoby, FGrHist III b, Kommentar zu Nr. 297-607 (Text), pp. 255 e 260. Una limpida discussione degli aspetti storiografi ci in Landucci Gattinoni (1992), pp. 22 e 37.20 Cfr. West (1935), pp. 74 s.; Walbank (1978), n° 46, pp. 253-257.21 Così Burstein (1976), p. 34. Le ragioni della gratitudine ateniese conservano la loro validità anche se concediamo a Burstein che il comportamento degli Eracleoti non era disinteressato, bensì dettato da considerazioni di Realpolitik (ibid., pp. 33 s.).22 Plut. Arist. 26, 1.

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ranno Timesileo23. È possibile che anche Eraclea sia stata visitata in que-sta occasione, ma di fatto per la prima testimonianza esplicita di un con-tatto diretto con Atene dobbiamo attendere il 425: nella taxis phorou di quell’anno, che è parte del famoso decreto di Tudippo, era stato intro-dotto per la prima volta un distretto delle città dell’Eussino e fra queste fi gurava Eraclea24.

Com’è noto, la determinazione del tributo varata nel 425 si segnala per l’ampliamento dell’orizzonte geografi co della arche, la moltiplicazio-ne delle città soggette al phoros e il netto incremento del suo ammonta-re, che tocca quasi i 1.500 talenti. A Tucidide si rimprovera spesso di non aver fatto parola di questo provvedimento preso da Atene nel cruciale anno della vittoria di Pilo sull’onda della popolarità raggiunta da Cleo-ne. Così facendo si dimentica che ciò che a noi appare un innalzamento improvviso potrebbe essere stato in realtà una crescita graduale: pochis-simo sappiamo dell’ammontare del phoros negli anni immediatamente precedenti il 425, e l’unica fonte letteraria che registra il suo incremen-to dopo la morte di Pericle dice che i demagoghi lo portarono «a poco a poco» (kata; mikrovn) a 1.300 talenti25. In ogni caso, il silenzio di Tucidi-de fa sì che l’iniziativa del 424 fi nisca per essere assimilata alle altre due spedizioni di ajrgurolovgoi nh'e~ di cui parla Tucidide e che saranno sta-te, almeno in parte, operazioni di routine dell’amministrazione imperia-le non necessariamente legate alla riscossione del tributo26. In realtà, la fl otta che nel 424 è partita da Atene al comando di almeno due strateghi (il solo ad essere menzionato, oltre a Lamaco, è Aristide fi glio di Archip-po) è di gran lunga la più numerosa di cui abbiamo notizia per questa ti-pologia di iniziative (quelle del 430 e del 428 contavano rispettivamente sei e dodici triremi). Inoltre essa è l’unica che, con la squadra al coman-do di Lamaco, si spinge al di là dei tradizionali confi ni dell’arche atenie-se, mentre le prime due si erano dirette in Licia e in Caria. È diffi cile evi-tare la conclusione che Atene intendesse far rispettare le decisioni che, in base alla documentazione che ci è pervenuta, erano state prese per la prima volta nell’estate del 425. In altri termini, all’autore da cui Tro-go ha attinto l’informazione che fortunatamente non è stata sacrifi cata nel fl orilegio di Giustino, noi dobbiamo quel collegamento pertinente tra la taxis phorou del 425 e la spedizione di Lamaco del 424 che non tro-viamo in Tucidide a causa del suo silenzio sulla storia delle fi nanze im-periali in tempo di guerra. Su un piano più generale, questo risultato in-

23 Plut. Per. 20, 1-2, con il commento di Stadter (1989), pp. 216-218. Amiso: Theopomp. FGrHist 115 F 389, apud Strab XII 3, 14; Plut. Luc. 19, 7. Cfr. Burstein (1976), pp. 30 s.24 IG I3 71 (parzialmente riprodotta come Meiggs - Lewis 1988, n° 69), IV l. 127.25 Plut. Arist. 24, 5; cfr. Meiggs (1972), p. 325.26 Thuc. II 69; III 19. Cfr. Kallet-Marx (1993), pp. 160-164.

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vita a correggere la convinzione ampiamente diffusa negli studi moder-ni che quello del 425 sia stato un «unrealistic assessment», che il decre-to di Tudippo abbia avuto un preminente valore propagandistico, che il quadro della arche che se ne ricava desse voce soprattutto al wishful thin-king degli Ateniesi e rispecchiasse una percezione fi n troppo ottimistica, al limite della presunzione, dei reali rapporti di forza27. Il dibattito è fi -nora ruotato – del tutto comprensibilmente, visto il rilievo che esso assu-me in Tucidide – intorno al caso di Melo, che nella taxis phorou del 425 si vede imporre un tributo di quindici talenti che molto probabilmente essa non ha mai pagato. È salutare che l’attenzione venga spostata su un altro caso, molto meno appariscente, che se non altro dimostra la preci-sa intenzione di Atene di dare seguito all’inclusione di nuovi Stati tribu-tari andando a pretendere da loro, se necessario con l’uso della forza, il versamento di quanto dovuto.

3. Non deve stupire che i due episodi della storia classica di Bisanzio ed Eraclea appena menzionati ricevano luce da Giustino grazie alla storio-grafi a locale confl uita nell’opera di Trogo: le Historiae Philippicae, che avevano come sottotitolo Totius mundi origines et terrae situs, presentavano frequenti digressioni sulla storia antica dei popoli e delle città che veni-vano in contatto con le grandi potenze28. Anche nella narrazione conti-nua della ‘grande storia’ può succedere che il suo ricorso a una buona fonte aggiunga qualcosa alle nostre conoscenze (lo vedremo nel § 4), ma in genere essa presenta un interesse soltanto storiografi co. È questo in particolare il caso dello scoppio della guerra archidamica. La conta-minazione fra il criterio cronologico e quello tematico che governa la disposizione del materiale nell’opera di Trogo fa sì che la prima parte di quella che noi chiamiamo guerra del Peloponneso si trovi alla fi ne di un libro centrato sul Peloponneso. A colpirci, tuttavia, non è solo il fatto che sono Sparta e il Peloponneso a occupare il centro della scena: l’asse stesso intorno al quale è organizzata l’esposizione è la costante aggressi-vità di Sparta, in conseguenza della quale la stessa soglia del 431 perde molto in rilievo e visibilità. Ciò spiega come la transizione dalla pace del 446/5 alla guerra del Peloponneso del 431 possa essere descritta nei ter-mini che leggiamo in III 7, 1-3: «Abbattuti da questi contrattempi [sc. le reazioni ateniesi agli attacchi spartani nel corso di quella che noi chia-miamo prima guerra del Peloponneso], gli Spartani stipularono una pa-ce per trent’anni; ma la loro ostilità non sopportò una così lunga tre-

27 La defi nizione data nel testo è di Meritt - Wade-Gery - McGregor, (1950), p. 196; cfr. Piérart (1984), p. 167, n. 30.28 Importanti osservazioni sulla dimensione geografi ca delle Historiae Philippicae si trova-no in Clarke (1999), pp. 271-274.

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gua. Pertanto, alla scadenza del quindicesimo anno, rotto l’accordo in dispregio degli dei e degli uomini, saccheggiarono il territorio dell’At-tica e, per non dare l’impressione di aver cercato bottino piuttosto che battaglia, provocarono il nemico al combattimento»29.

L’unico elemento storicamente signifi cativo che emerge dal raccon-to della guerra archidamica è l’accento posto sulla gravità dei danni in-ferti agli Spartani dalle incursioni ateniesi lungo le coste del Peloponne-so. Scrive Giustino in III 7, 5-6:

Dein interiectis diebus (Athenienses) naves conscendunt et nihil sentientibus Lacedaemo-niis totam Spartam depraedantur multoque plura auferunt quam amiserant, prorsus ut in conparatione damnorum longe pluris fuerit ultio quam iniuria.

Poi, lasciati passare alcuni giorni, (gli Ateniesi) si imbarcarono sulle navi e, sen-za che gli Spartani si accorgessero di nulla, depredarono tutto il territorio spar-tano e rapinarono molto più bottino di quanto ne avevano perduto, tanto che addirittura, paragonando i danni, fu di gran lunga più grave la vendetta che l’offesa.

In Tucidide questo tema è presente come anticipazione nel primo di-scorso di Pericle30, mentre non assume un particolare rilievo nel reso-conto, che se mai pone un accento più forte sui danni procurati dalle invasioni peloponnesiache e sui penosi contraccolpi delle contromisu-re adottate dagli Ateniesi31. L’effi cacia delle incursioni ateniesi, invece, è un tratto che, già presente come presupposto delle considerazioni che si leggono in un passo delle Elleniche di Ossirinco 32, si riaffaccia in forma sfumata in Plutarco e accomuna soprattutto due testi appartenenti al ge-nere strategematico, Polieno e – seppure con qualche errore di troppo – Frontino33. Polieno, peraltro, usa un’espressione perfettamente paral-

29 Mi sono soffermato sui presupposti di questa lettura della storia del V secolo in Fantasia (c.d.s. a). 30 Thuc. I 143, 4: «Se invaderanno via terra il nostro suolo, noi attaccheremo per mare il loro territorio: e non saranno sullo stesso piano una parziale devastazione del Pelopon-neso ed una, anche totale, dell’Attica. Giacché loro non potranno disporre senza lotta di un altro Peloponneso, noi abbiamo molti altri luoghi – nelle isole e sulla terraferma – che sono nostro territorio...» (trad. di L. Canfora).31 Thuc. II 14, 16-17, 1; 52, 1-2; 55, 1; 57, 2; III 26, 3.32 20, 5 Chambers: negli anni di pace prima dell’occupazione di Decelea il territorio attico era stato riccamente attrezzato anche grazie al bottino che gli Ateniesi avevano realizzato con le guerre condotte in Grecia. 33 Plut. Per. 34, 4: «E dal momento che i nemici, pur infl iggendo molti danni agli Ateniesi in terraferma, non pochi ne subivano a opera loro dal mare, era chiaro che essi non avrebbero protratto a lungo una guerra così impegnativa, e si sarebbero presto ritirati, come Pericle aveva previsto fi n dall’inizio…» (trad. di A. Santoni); Frontin. Strat. I 3, 9: Athenienses, cum Deceliam castellum ipsorum Lacedaemonii communissent et frequentius vexaren-

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lela a quella di Giustino scrivendo che le navi inviate dagli Ateniesi infl is-sero più danni di quanti essi ne subissero a loro volta per via delle inva-sioni spartane, e sempre in Polieno, come in Giustino, subito dopo que-sta circostanza viene evocata la saggezza di Pericle che mise in comune le sue proprietà per sfuggire ad ogni sospetto di trattamento privilegia-to da parte di Archidamo34. Alle radici di questa attenzione verso le con-seguenze che ebbe per il Peloponneso la strategia di Pericle, presentata da Tucidide come caratterizzata da un impianto difensivo, è probabile ci sia Eforo35: non è certo in base a Tucidide che Diodoro (XII 42, 7-8) ha potuto scrivere che nel 431 gli Spartani si ritirarono dall’Attica in con-seguenza del primo periplo ateniese del Peloponneso in tempo di guer-ra (notizia che è fraintesa da Frontino quando attribuisce alla spedizio-ne ateniese l’abbandono di Decelea). Questa indicazione è interessan-te alla luce del fatto che, come ha dimostrato la Schettino, Eforo è uno degli autori che ha maggiormente alimentato le raccolte di stratagem-mi formatesi in età ellenistica da cui hanno attinto Polieno e Frontino36.

4. Come si è già accennato, nessuna precisa scansione viene a separa-re in Giustino quella che Tucidide chiamava «guerra decennale», e po-co dopo il 404 cominciò a essere chiamata «guerra archidamica»37 (ma in Giustino non riceve nessuna denominazione), dagli anni che Tucidi-de defi niva della «tregua inquieta» (u{popto~ ajnakwchv) e che per lui si estendevano dalla stipulazione della pace di Nicia nella primavera del

tur, classem, quae Peloponensum infestare[n]t, miserunt consecutique sunt, ut exercitus Lacedaemo-niorum, qui Deceliae erat, revocaretur; Polyaen. Strat. I 36, 1: «Mentre gli Spartani saccheg-giavano l’Attica, Pericle a sua volta mandò delle triremi ateniesi a devastare le coste della Laconia, sicché gli Spartani patirono più danni di quanti ne avessero infl itti» (qui, e nella nota successiva, la trad. è di E. Bianco). 34 Polyaen. Strat. I 36, 2: «Pericle, che era ricco, possedeva molta terra. Quando Archi-damo, che da tempo gli era amico e prosseno, invase l’Attica per saccheggiarla, Pericle previde che Archidamo si sarebbe tenuto lontano dai suoi terreni per rispetto della pros-senia; sicché, prima della razzia, si presentò all’assemblea e donò alla città tutta la terra che possedeva, per non diventare sospetto agli occhi degli Ateniesi».35 La tendenza a sovrapporre e confondere fra loro le spedizioni ateniesi del 431 e del 430, che abbiamo già segnalato nel resoconto di Giustino, è presente in una certa misura anche in Diodoro (XII 43, 1).36 Schettino (1998), pp. 189 s. Poiché il citato passo di Frontino e Iust. III 7, 2-5 sono riportati come frammento 56 a-b in Seel (1956), p. 69, è questa l’occasione per ribadi-re, sulla scia di molti recensori – per es. Castiglioni (1957) e McDonald (1957) – che la raccolta dei pretesi frammenti di Pompeo Trogo apprestata da Seel presenta non poche debolezze sul piano metodologico, e in primo luogo non chiarisce che cosa debba in-tendersi come ‘frammento’. Nel caso in esame la parziale coincidenza di contenuto tra Frontino e Giustino dimostra soltanto che Frontino può aver attinto dalle Storie Filippiche il discorso sui danni infl itti dagli Ateniesi agli Spartani con la stessa probabilità con cui Frontino e Trogo possono aver adoperato indipendentemente una fonte comune. 37 Vd. infra, p. 144.

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421 all’estate del 414, quando un intervento diretto di Atene nella par-te del Peloponneso controllata da Sparta portò alla ripresa della guerra aperta fra le due superpotenze38. Si coglie qui l’esito fi nale di un proces-so di semplifi cazione che ha operato in un duplice senso. Da un lato il periodo di tregua intermedio viene assorbito nel racconto del confl itto, dall’altro la spedizione ateniese in Sicilia del 415 è innestata nel fi lone principale della vicenda, con il conseguente scioglimento della residua ambiguità insita nella visione storica di Tucidide, che faceva della spedi-zione del 415 un evento in una certa misura parallelo e distinto rispetto all’asse della guerra fra Atene e Sparta39.

Il IV libro, la monografi a siciliana, ha una struttura eccentrica, nel senso che, una volta che si passa sul terreno storico dopo il primo capi-tolo dedicato alla geografi a e ai thaumasia naturalistici dell’isola, il ma-teriale narrativo fi no all’intervento ateniese è costituito dalle vicende di una città, Reggio, che è in posizione periferica rispetto all’area siciliana della storia antica40. È probabile che ciò sia da addebitare al metodo di lavoro di Giustino basato, come si è detto, sulla Exzerpttechnik, ma il so-spetto non può essere provato dall’abituale confronto fra il contenuto del libro e il sommario dell’originale trogiano perché il relativo prologus è, insieme a quello dell’ultimo libro delle Historiae Philippicae, il più bre-ve in assoluto (leggiamo solo che vi sono esposte le vicende della Sici-lia, dalla più lontana origine fi no alla distruzione della fl otta ateniese a Siracusa).

Trogo, d’altra parte, in coda alla descrizione delle drammatiche vi-cende interne di Reggio o Messene doveva verosimilmente parlare del-le relazioni fra le città dello Stretto, o fra alcune città greche di Sicilia, e Atene: solo così si comprende come questo paragrafo possa essere stato collegato al successivo attraverso le parole Catinienses quoque. Inizia così una sezione che ci porterà dal primo intervento ateniese in Sicilia fi no alla partenza della grande fl otta del 415 (IV 3, 4-4, 3):

Catinienses quoque cum Syracusanos graues paterentur, diffi si uiribus suis auxilium ab Atheniensibus petiuere; (5) qui seu studio maioris imperii, quod Asiam Graeciamque peni-

38 Thuc. V 26, 3; 105, 1: una prospettiva apparentemente condivisa da Sparta (VII 18, 2-3).39 Cfr. Fantasia (2012), p. 18.40 Il resoconto su Reggio si chiude con una stasis (IV 3, 1-3) in conseguenza della quale dei mercenari, defi niti come veterani… ex Himera, si sarebbero impadroniti della città dello Stretto massacrando tutti gli uomini adulti. L’episodio andrà probabilmente collo-cato nel quadro delle turbolenze determinate dall’espulsione dei misthophoroi dalle città siciliane e dalla loro defi nitiva concentrazione a Messina (Diod. XI 76, 5; per un tentativo di contestualizzazione della vicenda vd. Maddoli, 1980, p. 60). Ma sulla scorta di un cal-zante confronto testuale fra Iust. IV 3, 3 e Paus. IV 23, 8, De Sensi Sestito (1981), pp. 49-53, ha avanzato buoni argomenti per riferire le notizie di Giustino alla storia di Zancle/Messene.

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tus occupauerunt, seu metu factae nuper idem a Syracusanis classis, ne Lacedaemoniis il-lae uires accederent, Lamponium ducem cum classe in Siciliam misere, ut sub specie ferendi Catiniensibus auxilii temptarent Siciliae imperium. (6) Et quoniam prima initia frequenter cae sis hostibus prospera fuerant, maiore denuo classe et robustiore exercitu Lachete et Cha-riade ducibus Siciliam petiuere; (7) sed Catinienses siue metu Atheniensium siue taedio bel-li pacem cum Syracusanis remissis Atheniensium auxiliis fecerunt. (4, 1) Interiecto deinde tempore, cum fi des pacis a Syracusanis non seruaretur, denuo legatos Athenas mittunt, qui sordida ueste, capillo barbaque promissis et omni squaloris habitu ad misericordiam com-mouendam adquisito contionem deformes adeunt; (2) adduntur precibus lacrimae et ita mi-sericordem populum supplices mouent, ut damnarentur duces, qui ab his auxilia deduxe-rant. (3) Igitur classis ingens decernitur; creantur duces Nicias et Alcibiades et Lamachos, tantisque uiribus Sicilia repetitur, ut ipsis terrori essent in quorum auxilia mittebantur.

Anche i Catanesi, che sopportavano di mal animo i Siracusani e diffi davano del-le proprie forze, chiesero aiuto agli Ateniesi. (5) Costoro, o per brama di più vasto dominio, per cui avevano intenzione di occupare completamente l’Asia e la Grecia, o per timore della fl otta già costruita dai Siracusani, affi nché quelle forze non andassero a rafforzare gli Spartani, mandarono in Sicilia il generale Lamponio con una fl otta, incaricandolo di cercare di impadronirsi della Sicilia, sotto il pretesto di recare aiuto ai Catanesi. (6) E poiché gli inizi dell’impresa erano stati favorevoli, grazie alle perdite frequentemente infl itte ai nemici, una seconda spedizione ateniese, con una fl otta più numerosa e un esercito più for-te sotto la guida di Lachete e di Cariade, si diresse verso la Sicilia. (7) Ma i Cata-nesi, o per timore degli Ateniesi o per stanchezza della guerra, rimandati indie-tro i soccorsi ateniesi, avevano concluso la pace con i Siracusani. (4, 1) Ma dopo un certo tempo, poiché i Siracusani non mantenevano lealmente la pace, man-darono di nuovo ambasciatori ad Atene. Costoro, vestiti a lutto, con i capelli e la barba incolti, assunto in ogni particolare un atteggiamento miserevole per de-stare compassione, si presentarono così sfi gurati all’assemblea; (2) alle preghie-re aggiunsero le lacrime e con le loro suppliche commossero quel popolo pieto-so, al punto che furono condannati i generali che avevano ritirato da Catania le truppe inviate in soccorso. (3) Perciò gli Ateniesi decretarono la costituzione di una grande fl otta, di cui furono posti a capo Nicia, Alcibiade e Lamaco, e si di-ressero verso la Sicilia con tanto spiegamento di forze, da destar terrore in colo-ro stessi, ai quali erano inviati gli aiuti.

È evidente l’errore marchiano consistente nel collegare all’ambasceria del 415 la condanna degli strateghi Pitodoro, Sofocle ed Eurimedonte avvenuta nel 42441, subito dopo la conclusione di quella pace di Gela al-la quale si allude chiaramente in IV 3, 742, così come la descrizione a tin-

41 Thuc. IV 65, 3.42 Questa è l’ipotesi di gran lunga più economica: non sembra esserci spazio per identi-fi care l’ambasceria dei supplici di 4, 1-2 – come propone Burelli Bergese (1992), p. 66 – con quella che avrebbe visitato Atene nell’inverno 426/5 per chiedere rinforzi per la spedizione comandata da Lachete (Thuc. III 115, 3).

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te forti della seconda ambasceria può essere liquidata come una elabo-razione ‘patetica’ – e per ciò, secondo alcuni, caratteristicamente trogia-na – di qualche spunto offerto da una tradizione a noi sconosciuta. Ma se prescindiamo da quell’errore e da questa amplifi catio (l’uno e l’altra sono fenomeni che non fanno notizia nell’Epitome), non c’è dubbio che il passo presenta almeno due motivi di grande interesse per la storia del-le relazioni fra Atene e la Sicilia. Uno è il ruolo da protagonisti assegna-to ai Catanesi, che non c’è motivo di scartare come inattendibile soltan-to perché non fi gura in Tucidide: non solo vi si allude in diverse testi-monianze contemporanee o di poco posteriori, che sono state adegua-tamente valorizzate in una serie di studi inaugurata da un famoso artico-lo di S. Mazzarino del 194543, ma lo stesso Tucidide, nell’indicare come protagonisti della prima ambasceria siciliana che chiede l’aiuto di Ate-ne nel 427 oiJ tw'n Leontivnwn xuvmmacoi44, fi nisce per evocare l’esistenza di una lega di città calcidesi di cui Catania potrebbe aver avuto la guida in rappresentanza degli interessi di tutte le comunità esposte in vari mo-menti all’espansionismo siracusano45.

Il secondo aspetto è l’articolazione che viene ad assumere la prima spedizione ateniese in Sicilia. Nella versione di Giustino sono tuttora ri-conoscibili, pur in una forma selvaggiamente compressa e in parte sfi gu-rata dal punto di vista cronologico e motivazionale, svariati elementi del racconto tucidideo del processo di avvicinamento alla grande spedizio-ne del 41546: la corretta scansione delle tappe del primo intervento (due spedizioni a breve distanza una dall’altra, con la seconda che va a raffor-zare la prima); l’individuazione delle ragioni ateniesi (il timore di fondo che Siracusa avrebbe potuto offrire un sostanzioso contributo allo schie-ramento peloponnesiaco in termini logistici o militari, la volontà di po-tenza ateniese occultata dalla dichiarata intenzione di soccorrere i Cal-cidesi di Sicilia); l’interludio della pace conclusa fra i Sicelioti, con una duplice motivazione – stanchezza per l’aspro confl itto in corso e timo-re della cospicua forza ateniese presente nell’isola – che è quella storica-

43 Cfr. Andoc. III 30, e i passi aristofanei citati da Burelli Bergese (1992), pp. 76-79. La bibliografi a essenziale, oltre al già citato articolo di L. Burelli, comprende: Mazzarino (1944-1945); Maddoli (1980), pp. 71 s.; Scuccimarra (1986); Cataldi (1990), pp. 144-150; Cataldi (1996), p. 52; Cataldi (2007), pp. 430-432. 44 Thuc. III 86, 3.45 Sulla sostanziale equivalenza fra «gli alleati dei Leontini» di Tucidide e i Catinienses di Giustino insiste Cataldi (1990), p. 146, che pure pensa (p. 143) che in Thuc. III 86 lo sto-rico «abbia sintetizzato con una formula densa due distinte ambascerie, susseguitesi a più o meno breve termine l’una dall’altra: quella degli alleati calcidesi dei Leontini e quella successiva ed autonoma degli ambasciatori dei Leontini». 46 Thuc. III 86, 3-4; 115, 3-4; IV 58, 1; 65, 1-2; V 4, 1-2, 5; VI 6, 2.

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mente corretta47 ma non è mai dichiarata esplicitamente in Tucidide; il carattere precario ed illusorio dell’accordo di Gela per il permanere del-le tensioni e della obiettiva minaccia della aggressiva politica siracusa-na. Il problema, per quanto riguarda gli eventi che ricadono nell’ambi-to della guerra archidamica, nasce dal fatto che Giustino fa della prima spedizione, alla cui guida Tucidide pone Lachete e Careade, un’iniziati-va altrimenti sconosciuta guidata dall’ateniese Lampone (nome da sosti-tuire ovviamente all’errato Lamponio), mentre l’invio in due tempi dei rinforzi, che Tucidide dice essere stati affi dati al comando di Pitodoro, Sofocle ed Eurimedonte, è trasformato da Giustino nella spedizione di Lachete e Cariade48. Com’è stato osservato49, i tempi dell’iniziativa ate-niese sono scanditi in modo corretto, ma collegati a dei nomi sbagliati.

Si può perciò comprendere la tentazione di sbarazzarsi di questa ver-sione come variante erronea di quella tucididea50 e di spiegare magari l’innesto di Lampone come risultato di un ruvido taglio operato da Giu-stino rispetto all’originale trogiano, che potrebbe aver menzionato l’A-teniese per il suo ben noto ruolo nella fondazione di Turi51 all’interno di un resoconto che illustrava le relazioni ateniesi con l’Occidente gre-co nel corso del V secolo come prologo alle spedizioni in Sicilia. Tutta-via, se è vero che la tecnica excerptoria di Giustino opera nel senso del-la scelta di un nucleo di eventi a danno di un altro piuttosto che di un compendio uniforme, questa soluzione lascia insoddisfatti nella misura in cui rende diffi cile staccare Lampone dal teatro siciliano a cui Giusti-no lo collega. D’altra parte, alla luce delle esperienze occidentali di que-sto personaggio, niente impedisce di credere che egli sia stato attivo in Sicilia oltre che in Magna Grecia.

Nell’ipotesi che l’episodio di cui Giustino è unico testimone ci restitu-isca un capitolo della vera storia delle relazioni fra Atene e l’Occidente, quali saranno state la sua fi nalità e la sua data? Se si trattò di un’iniziativa a carattere militare, va senz’altro escluso che essa possa cadere nelle fasi ini-ziali della guerra archidamica, com’è stato autorevolmente suggerito52: a meno che non si dimostri preliminarmente la radicale inattendibilità del resoconto di Tucidide, non si vede come un’azione militare nel 431 pos-sa integrarsi nel disegno strategico pericleo. Ma, a ben vedere, qualunque data anteriore al 427 diventa diffi cile da giustifi care: è indiscutibile che la

47 Iust. IV 3, 7; cfr. Fantasia (2010), pp. 313 s.48 Per questo nome vd. infra, pp. 141 s.49 Wentker (1956), p. 94.50 Brandhofer (1971), pp. 126-128.51 Diod. XII 10, 3-4; Plut. Mor. 812D. Cfr. Stadter (1989), pp. 83 s.52 Cataldi (1990), p. 147.

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spedizione del 427 sia stato il primo intervento armato di Atene in Sicilia53. Se invece spogliamo l’azione di qualsiasi aspetto aggressivo e la leggiamo come un’iniziativa di stampo essenzialmente diplomatico – sulla falsariga dell’ambasceria di Feace del 422, che si mosse con due sole navi, oppure della spedizione di dieci navi al comando di Lampone e Senocrito a Turi, nella quale l’aspetto militare non era certamente preminente54 – riman-gono aperte diverse possibilità di datazione. Quella prospettata da Mad-doli, 433/2, da me accettata in un precedente lavoro, ha il merito di col-legare la venuta di Lampone in Sicilia con la stipulazione (meno verosi-milmente il rinnovo) dei trattati fra Atene e Reggio e Leontini che sono sicuramente datati in quell’anno55: essi rappresentano il contesto più ido-neo in cui collocare una missione, come quella di Lampone, rivolta ad un altro componente del koinon calcidese56. Per lo stesso motivo non mi sen-to di escludere una datazione più alta, se si continua a credere che i trat-tati originari con Reggio e Leontini siano stati stipulati non nel 433/2 ma alcuni anni prima57. Ma la data più bassa rimane a mio avviso preferibi-le per non recidere del tutto il nesso di consequenzialità che caratterizza nel resoconto di Giustino il passaggio da Lampone agli altri strateghi. In ogni caso insisterei sulle fi nalità diplomatiche, non militari dell’iniziativa di Lampone: un errore di Trogo sarebbe forse spiegabile se la sua fonte operava un collegamento fra la diplomazia di un Lampone a sostegno del koinon calcidese impaurito dal riarmo di Siracusa e il successivo intervento ateniese in risposta alla richiesta di aiuto. Giacché la chiave di volta per ca-pire ciò che succede in Sicilia tra la fi ne della rivolta di Ducezio e la guer-ra del 427 è il riarmo di Siracusa – un aspetto, si noti, che ha un suo preci-so ruolo in Giustino – di cui Diodoro parla come cosa fatta nel 439/8 (XII 30, 1), ma che l’analisi dei dati disponibili porta a credere fosse ancora in corso, almeno per quanto riguarda il versante della fl otta, negli anni ini-ziali della guerra del Peloponneso58.

Quanto alle fonti di Trogo, un indizio decisivo è la forma errata in Giustino, Cariade, del nome di uno degli strateghi ateniesi del 427 il cui nome esatto, riportato da Tucidide e confermato dalla documentazione epigrafi ca, è Careade (Caroiavdh~): la stessa forma errata compare nel papiro PSI 1283 (FGrHist 577 F 2), il ben noto frammento di opera sto-

53 Wentker (1956), p. 112.54 Diod. XII 10, 3-4; cfr. per la data Nafi ssi (2007), pp. 404 s.55 Condivido su questo punto le posizioni ribadite da Cataldi (2007), pp. 421-427, che riprendono le conclusioni di un suo precedente lavoro (Cataldi 1987). 56 Maddoli (1980), p. 71 (cfr. Fantasia, 2010, pp. 322 s., nn. 96-97).57 Cfr. fra gli altri Wentker (1956), pp. 94 s.58 Questo aspetto non è sfuggito a Cataldi (1990), pp. 143 s., ed è stato approfondito da chi scrive in Fantasia (c.d.s. b).

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rica che la communis opinio attribuisce a Filisto59 e che tratta un episodio, apparentemente non riportato da Tucidide, della prima spedizione in Sicilia risalente all’estate del 42660. La concordia nell’errore61, che non si ripete nel parallelo passo di Diodoro a dimostrazione del fatto che Eforo riportava la forma corretta del nome dello stratego, ci rimanda dunque a Filisto come fonte ultima, diretta o mediata62, di questa sezio-ne della Historiae Philippicae. La presenza preponderante di Filisto mi pa-re confermata dal racconto in Giustino della fi ne dei due strateghi ate-niesi, Demostene e Nicia (IV 5, 10-11): il primo si uccise con la propria spada per sottrarsi alla prigionia, il secondo invece non ebbe pudore a consegnarsi ai vincitori. Come sappiamo da Plutarco63, secondo Timeo (e a differenza di quanto riportavano Tucidide e Filisto) i due non peri-rono per mano dei Siracusani, ma ebbero modo di uccidersi grazie ad un avvertimento fatto loro pervenire da Ermocrate. Però, come sappia-mo da Pausania64, Filisto riferiva che Demostene tentò il suicidio mentre stava per essere catturato. Una distinzione fra i comportamenti dei due comandanti, e l’inizio della damnatio memoriae di Nicia, sembrano avere origine dal racconto di Filisto – anche se in Giustino il tentativo di suici-dio di Demostene è diventato un suicidio riuscito.

L’ambasceria dei «Catanesi» ad Atene che scatena la spedizione del 415 (sono sempre loro il soggetto grammaticale di mittunt in IV 4, 1, usurpando così anche il ruolo che in Tucidide è attribuito ai Segestani) è motivata dalla mancata osservanza dei patti da parte di Siracusa: un ul-teriore tassello dell’aggressività dello schieramento anti-ateniese che ab-biamo visto all’opera nella guerra archidamica. Nel succinto resoconto della guerra fra Atene e Siracusa affi orano talora, accanto ai soliti erro-ri (per esempio, in IV 4, 9, Lamaco viene fatto morire in battaglia dopo e non prima dell’arrivo di Gilippo)65, dei dettagli che non possono non derivare in ultima istanza da Tucidide: la publica ac privata pecunia che gli Ateniesi perdono con la presa siracusana del Plemmirio (IV 5, 1) riman-

59 Vd. Bearzot (2002), pp. 110 s., 132 s., per le ragioni che parlano a favore di Filisto, e che appaiono nettamente più convincenti di altre proposte (la più recente presa di posi-zione a favore dell’attribuzione ad Antioco è quella di Ameruoso, 1999). Il papiro è stato ottimamente riedito da Ozbek (2008).60 Su questo punto seguo Bosworth (1992), pp. 52 s.61 In PSI 1283, fr. A, I, ll. 4-5 (cfr. Ozbek, 2008, pp. 606 e 608) si legge come nota margi-nale un w|d(e), cioè sic, apposto dallo scriba che confrontava evidentemente questa forma con quella che leggeva in Tucidide e in Diodoro (XII 54, 4). 62 Mediata da Timeo secondo Enmann (1880), pp. 146-149. 63 FGrHist 556 F 55 e 566 F 101, apud Plut. Nic. 28, 5.64 FGrHist 556 F 53, apud Paus. I 29, 12. 65 Thuc. VI 101, 6.

LA GUERRA DEL PELOPONNESO NELL’EPITOME DI GIUSTINO 143

da necessariamente alla descrizione tucididea di VII 24, 266. Ma il dato più appariscente del resoconto di Giustino, quello che lo allontana mag-giormente da Tucidide, è la totale obliterazione di Ermocrate e dell’ap-porto siracusano alla guerra e la parallela focalizzazione su Gilippo e gli Spartani. Fin dall’inizio si dice (IV 4, 7) che dagli Spartani viene manda-to Gylippus solus, sed in quo instar omnium auxiliorum erat («il solo Gilippo, ma il suo aiuto valeva per quello di tutti»). In seguito al trasferimento della guerra dalla terra al mare, deciso dagli Ateniesi, «Gilippo fece ve-nire da Sparta una fl otta con rinforzi», e sono queste navi, insieme agli ingentia... auxilia arrivati dal Peloponneso, che assicurano la vittoria a Si-racusa (IV 4, 10 e 12). È infi ne ancora Gilippo che si impadronisce del-le 130 navi abbandonate dagli Ateniesi (IV 5, 9). Quale che sia la fonte principale, Filisto o Timeo, questa cancellazione del versante siracusano rimarrebbe comunque inspiegabile senza chiamare in causa quel pro-cesso di semplifi cazione storica e concettuale che ha fi nito per schiaccia-re il confl itto sull’asse spartano-ateniese, sgombrando il campo da tutti i possibili comprimari. Ma il risalto conferito al solo Gilippo potrebbe an-che essere il frutto della tendenza riscontrata nella Epitome, e da addebi-tare forse a Giustino piuttosto che a Trogo, a tenere agganciata la narra-zione ad un personaggio uno volta che lo si elegge a protagonista.

5. Alla luce di quest’ultima considerazione non stupisce che gran parte delle vicende trattate nel V libro sino al 404 vedano come protagonista assoluto Alcibiade. Arriviamo così alla guerra deceleica, il bellum Decelei-cum di cui si parla nel prologus al quinto libro (benché nel testo di Giu-stino l’occupazione spartana di Decelea non sia nemmeno menzionata, mentre per converso nel prologus non si fa parola di Alcibiade), secondo una defi nizione che compare per la prima volta nelle Elleniche di Ossirin-co e che, probabilmente adottata da Eforo, ritroviamo in Diodoro: Tu-cidide, com’è noto, quando si riferisce all’ultimo decennio della guer-ra del Peloponneso parla di Ionikos polemos 67. Tenendo presenti le consi-derazioni fatte in precedenza sul carattere fl uido dell’incipit e delle par-tizioni interne della guerra del Peloponneso, la fase della guerra dece-leica è forse quella che si staglia in modo più netto e la sua soglia fi na-le, come si è accennato all’inizio, riceve un adeguato rilievo, visto che la resa di Atene è segnalata con una certa solennità attraverso due sincro-nismi (che peraltro ci riconducono a un tratto caratteristico delle storie universali): Insignis hic annus et expugnatione Athenarum et morte Darii, regis

66 «... ché gli Ateniesi avevano usato quei forti come una sorta di tesoreria, e all’interno di essi vi era quindi una gran quantità di beni appartenenti ai mercanti e di grano, nonché vari altri beni di proprietà dei trierarchi…» (trad. di A. Corcella).67 Hell. Oxy. 10, 3 e 22, 2 Chambers; Diod. XIII 9, 2; Thuc. VIII 11, 3.

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Persarum, et exilio Dionysii, Siciliae tyranni, fuit (V 8, 7). Il sincronismo con la morte di Dario è presente, in una forma più mediata, anche in Dio-doro, il quale, dopo aver solennemente ricordato che con la resa di Ate-ne venne a conclusione il confl itto durato ventisette anni («il più lun-go di cui si abbia notizia»), registra che «poco dopo la pace» morì, dopo diciannove anni di regno, Dario, cui successe il fi glio maggiore Artaser-se destinato a regnare per quarantatré anni68. Quanto all’esilio di Dio-nisio, esso non sembra essere frutto di una confusione di Giustino con i due esili di Dionisio II; dovrebbe invece trattarsi dell’esilio ‘virtuale’ di Dionisio I nel 404 di cui parla Diodoro: il tiranno rimase bloccato in Or-tigia, dopo la ribellione dei soldati nell’assedio di Erbesso poi domata con l’aiuto dei mercenari campani, e negoziò con gli insorti il permes-so di abbandonare la città con sole cinque navi. Exilium sarebbe in tal ca-so un’espressione brachilogica per il fi nto accordo stipulato con gli asse-dianti per una sua partenza coperta dall’immunità69.

È la resa di Atene nel 404 la soglia inferiore della guerra del Pelopon-neso in Giustino? Per cercare di rispondere a questa domanda è necessa-rio ampliare per un momento l’orizzonte dell’indagine. Diodoro si mo-stra al corrente in diversi passi della sua opera dell’esistenza di una guer-ra del Peloponneso durata ventisette anni percepita come evento stori-camente unitario alla maniera tucididea70. Lo stesso Diodoro, peraltro, adopera l’etichetta di Peloponnhsiako;~ povlemo~, ma con la qualifi cazio-ne diameivna~ mevcri tw'n uJpokeimevnwn kairw'n e[th devka, per indicare ciò che noi intendiamo come ‘guerra archidamica’71. Tuttavia così facendo non si discosta dalla visione tucididea che identifi ca la nostra ‘guerra archida-mica’ appunto come povlemo~ dekevth~, «guerra decennale»72. Sarebbe sta-to Lisia il primo ad adoperare la dizione ’Arcidavmeio~ povlemo~73, che poi sarebbe stata ripresa da Eforo – sempre che Arpocrazione non commet-ta per Eforo lo stesso errore che commette riguardo a Tucidide, quando nello stesso lemma attribuisce l’uso di questa espressione anche a Tucidi-de74. Se si tiene conto che Tucidide era perfettamente consapevole, nel momento in cui scrisse il ‘secondo proemio’, che fra i suoi contempo-ranei circolavano idee differenti dalla sua circa la scansione del confl it-

68 Diod. XIII 107, 5-108, 1. 69 Diod. XIV 9, 1. È questa la spiegazione meno insoddisfacente per una notizia altri-menti inspiegabile: cfr. Bertinelli Angeli - Giacchero (1974), pp. 265-267, Santi Amantini (1981), p. 176, n. 5, e Yardley - Develin (1994), p. 63, n. 11. 70 Oltre al già citato XIII 107, 5 cfr. anche Diod. XII 37, 2, e, per la dizione «guerra del Peloponneso», gli altri passi citati da Parmeggiani (2011), p. 459, n. 293.71 Diod. XII 74, 6.72 Thuc. V 25, 1; 26, 3.73 Lys., fr. 17 Carey.74 FGrHist 70 F 197, apud Harpocr., s.v. ∆Arcidavmeio~ povlemo~.

LA GUERRA DEL PELOPONNESO NELL’EPITOME DI GIUSTINO 145

to fra Atene e Sparta, e che nelle sue stesse Storie vi sono passi sicuramen-te ‘tardi’ che tradiscono una visione del confl itto come una somma di guerre distinte75, si può affermare che dopo Tucidide non ci sono scosta-menti signifi cativi dalla sua visione del confl itto: un evento da leggere so-stanzialmente in modo unitario, ma non così continuo e geografi camen-te compatto da scoraggiare periodizzazioni o scansioni alternative (senza contare, fenomeno comune a tutte le guerre di ampio respiro, la molti-plicazione di prospettive locali che concorrono a frammentare il quadro generale)76 o un differente inquadramento cronologico e causale degli eventi che avevano portato allo scoppio della guerra77.

Qualcuno fra i continuatori di Tucidide è invece probabilmente in-tervenuto sulla periodizzazione tucididea – almeno quella che possia-mo inferire dal ‘secondo proemio’ di un’opera rimasta incompiuta – per ciò che riguarda il punto terminale del confl itto78. È merito di Lehmann e Schepens l’aver richiamato di nuovo l’attenzione su un fi -lone della variegata tradizione relativa al periodo compreso fra la batta-glia di Egospotami (estate 405) e la restaurazione democratica (autun-

75 Per es. Thuc. IV 48, 5: o{sa ge kata; to;n povlemon tovnde, riferito alla fi ne della stasis di Corcira, non può che presupporre la ripresa della stasis nel 410 o 409 che Tucidide non farà in tempo a raccontare, ma di cui parla Diodoro (XIII 48), e tuttavia usa «questa guerra» in riferimento alla sola guerra archidamica. Cfr. anche IV 81, 2: e[~ te to;n crovnw/ u{steron meta; ta; ejk Sikeliva~ povlemon, riferito alla guerra ionica/deceleica. Per questa ragione non c’è motivo di assegnare un valore periodizzante, nel senso di una fase storica a sé stante rispetto al confl itto fra Atene e Sparta, all’espressione principio belli adoperata da Giustino in V 1, 11 per indicare l’inizio della guerra deceleica. 76 Si comprende, per esempio, come in riferimento allo spazio eolico d’Asia Minore la repressione della rivolta di Mitilene e delle altre città lesbie ad opera dell’esercito coman-dato dallo stratego Pachete potesse essere ricordata come oJ Peloponnhsiako;~ povlemo~ oJ Pachtei'o~ (Strab. XIII 1, 39). 77 Lo scontro fra Corcira e Corinto a partire dalla crisi di Epidamno ha una portata tal-mente grande, in termini anche puramente militari, che affonda le sue radici in moti-vazioni così risalenti nel tempo e ha conseguenze di tale peso per l’intero teatro nord-occidentale fi no almeno alla presa ateniese di Pilo da perdere lo statuto di semplice ‘causa’ della guerra fra Atene e Sparta per diventare la prima ‘guerra corinzia’ della storia greca (Diod. XII 30, 2 e 5). Che dietro l’etichetta diodorea oJ Korinqiako;~ klhqei;~ (op-pure ojnomasqei;~) povlemo~, ci sia Eforo è interpretazione senz’altro verosimile, così com’è probabile che l’operazione intellettuale di staccare la ‘guerra corinzia’ dalla guerra del Peloponneso sia indizio di una critica alla teoria tucididea della ineluttabilità del grande confl itto: cfr. Schepens (2007), pp. 91-93 (e p. 91, n. 82, per l’ipotesi che nella defi ni-zione sia ricompreso lo scontro relativo a Potidea). Sulla diffi coltà di pervenire ad una periodizzazione univoca e condivisa per un evento di così vasto respiro come la guerra del Peloponneso insiste opportunamente Lapini (2002), p. 134, n. 24.78 La variante delle Elleniche di Senofonte, secondo cui è il ritorno di Lisandro a Sparta nell’autunno del 404 ad emergere come momento fi nale della guerra del Peloponneso (II 3, 8-9), sposta di poco i termini della tradizione tucididea, e lo fa, come di norma in Senofonte, dirottando l’attenzione su Sparta.

146 UGO FANTASIA

no del 403)79, nel quale la ‘guerra civile’ del 404-403 è vista come una sorta di appendice del confl itto fra Atene e Sparta, con il risultato di spostare la fi ne di quest’ultimo quanto meno al 40380. La testimonian-za più chiara in proposito è la durata di dodici anni assegnata da Diodo-ro all’ultima fase della guerra del Peloponneso, calcolata a partire dal-la manifesta rottura della pace di Nicia nell’estate del 41481. Diodoro sembra aver fatto proprio un punto di vista che era stato di Eforo: que-sti è l’autorità cui si richiama uno scolio all’Iliade per collocare l’adozio-ne ad Atene dell’alfabeto milesio nell’arcontato di Euclide (403/2) ejpi; tw'n Peloponnhsiakw'n, sicuramente una dizione brachilogica per quel-la che di solito viene indicata come «guerra del Peloponneso»82. Il capo-stipite di questa tradizione potrebbe essere stato l’autore delle Elleniche di Ossirinco. Poiché l’anno corrispondente all’e[to~ o[gdoon di Hell. Oxy. 12, 1 Chambers non può essere anteriore al 396, e ad avviso di molti è il 39583, una cesura signifi cativa del periodo storico abbracciato dall’opera

79 Per la cronologia vd. Krentz (1982), pp. 131-152; cfr. Plut. Mor. 349F: coloro che si erano ribellati ai Trenta tornarono sull’acropoli di Atene il 12 Boedromione (dunque all’incirca primi di ottobre) del 403.80 Lehmann (1978) pp. 117-121; Schepens (1993), pp. 190-195, ripreso nell’articolo cita-to nella n. 77, pp. 71-77. 81 Diod. XIII 8, 8: Kata; de; th;n Pelopovnnhson oiJ Lakedaimovnioi paroxunqevnte~ uJpo; ∆Alki-biavdou ta;~ sponda;~ e[lusan ta;~ pro;~ ∆Aqhnaivou~, kai; oJ povlemo~ ou|to~ dievmeinen e[th dwvdeka. Un’accurata contestualizzazione del passo di Diodoro, collocato nella narrazione subito dopo l’invio della lettera di Nicia agli Ateniesi che Tucidide data ancora nell’estate del 414 (Diod. XIII 8, 6~Thuc. VII 8, 1-3) e immediatamente prima dell’informazione sull’in-vasione dell’Attica e la fortifi cazione di Decelea all’inizio della primavera del 413 (Diod. XIII 9, 2~Thuc. VII 19, 1-2), unitamente alla localizzazione della rottura della tregua kata; th;n Pelopovnnhson (Diod. XIII 8, 8~Thuc. VI 105, 1-2) e al mancato uso dell’espressione «guerra di Decelea» (presente invece in Diod. XIII 9, 2), induce a credere che in XIII 8, 8 Diodoro stia mescolando nello stesso passo un’allusione all’evento (l’attacco ateniese contro località del territorio spartano) che per Tucidide sanziona la rottura uffi ciale della pace (ai{per ta;~ sponda;~ fanerwvtata ta;~ pro;~ tou;~ Lakedaimonivou~ aujtoi'~ e[lusan: VI 105, 1) con la decisione degli Spartani di procedere alla fortifi cazione di Decelea, cui avrebbero messo concretamente mano alcuni mesi più tardi. Questo è il motivo per cui Diodoro, su un piano formale, può addossare agli Spartani la responsabilità di una rottura che in Tucidide ricade in realtà sugli Ateniesi autori del raid sulle coste della Laconia (VI 105, 2). Questa precisazione ci consente di far coincidere, con un conteggio degli anni inclusivo, la fi ne della guerra di dodici anni (fi ne 414-fi ne 403) con la restaurazione democratica: un termine che, all’interno dell’opera di Diodoro, appare più ragionevole che non il 402, preferito da Schepens (1993), pp. 190-195 (ripreso da Ambaglio, 2008, p. 22), in quanto a suo avviso coerente con la durata decennale (402-393) della arche spartana che lo studioso attribuisce all’autore (Cratippo) delle Elleniche di Ossirinco (l’e[to~ o[gdoon = 395 di Hell. Oxy. 12, 1 Chambers sarebbe calcolato, secondo Schepens, appunto a partire dall’instaurazio-ne, nel 402, dell’egemonia spartana nella versione non-lisandrea cara al re Pausania). 82 FGrHist 70 F 106, apud Schol. BTV Hom. Il. VII 185, con Parmeggiani (2011), pp. 461 s.83 Oltre a Schepens (1993), supra, n. 81, anche Lehmann (1978), pp. 117-122, e Tuplin (1993), pp. 170 s., sono favorevoli al 395; ma conservano tutto il loro peso le considera-zioni di Bruce (1967), pp. 66-72, a favore del 396. Per un bilancio critico sul problema

LA GUERRA DEL PELOPONNESO NELL’EPITOME DI GIUSTINO 147

doveva cadere nel 403 o 402, e non si vede quale evento possa fungere da inizio di una nuova epoca se non l’instaurazione dell’egemonia spar-tana conseguente alla conclusione della guerra del Peloponneso84. An-che la rassegna dei temi dell’opera di Cratippo fatta da Plutarco nel De gloria Atheniensium indica che almeno in uno dei continuatori di Tucidi-de l’azione di Trasibulo e Archino e dei ‘Settanta’ di File era considerata non un capitolo della ‘guerra civile’ ateniese, ma una rivolta contro l’e-gemonia spartana85 – dunque in un certo senso la continuazione, pur in un contesto profondamente mutato, della guerra del Peloponneso, pro-dromica alla resurrezione di Atene (il «Conone che riconduce sul mare la potenza ateniese» è appunto l’ultimo degli scenari evocati da Plutar-co in questo stesso passo)86.

Per tornare a Giustino, la segnalazione della soglia cronologica del 404 attraverso il duplice sincronismo su cui ci siamo soffermati mostra chiaramente, posta com’è subito dopo la menzione dell’accordo di pa-ce, il valore epocale che Trogo assegnava al momento della resa di Ate-ne. C’è però un possibile indizio del fatto che anche nella sua prospet-tiva il confl itto non dovesse considerarsi concluso: una volta che i Tren-ta furono deposti e confi nati ad Eleusi e il governo della città fu assunto dai Dieci, «a Sparta fu riferito che gli Ateniesi avevano riacceso la guerra (in bellum Athenienses exarsisse, V 10, 6), e il re Pausania fu mandato per porvi fi ne. Si tratta del bellum civile 87 oppure, come il contesto e una se-rie di loci paralleli richiamati da Schepens sembrano suggerire 88, della ri-proposizione della guerra che gli Ateniesi condussero contro l’egemo-nia spartana? Anche la battaglia di File sarà presentata da Giustino come un combattimento nel quale si scontrano coloro che lottano «con tutte forze per la patria» con quelli che si battono «con una certa noncuranza per una dominazione straniera»89. Si ha pertanto l’impressione che an-che nell’opera di Trogo la guerra di liberazione dal regime dei Trenta e

dell’«ottavo anno» vd., dopo queste pagine di Bruce, l’aggiornata messa a punto di La-pini (2002). 84 Lapini (2002), p. 136. 85 Cratipp. FGrHist 64 T 2, apud Plut. Mor. 345D: ... kai; th;n uJpo; Qhramevnou~ th'~ ojligar-civa~ katavlusin kai; Qrasuvboulon kai; ∆Arci'non kai; tou;~ ajpo; Fulh'~ eJbdomhvkonta kata; th'~ Spartiatw'n hJgemoniva~ ajnistamevnou~ kai; Kovnwna pavlin ejmbibavzonta ta;~ ∆Aqhvna~ eij~ th;n qavlattan... 86 Cfr. Schepens (1993), pp. 176 ss.; Schepens (2007), pp. 72-74.87 Cfr. Yardley - Develin (1994), p. 66: «Meanwhile, it was announced in Sparta that war had fl ared up among the Athenians».88 Schepens (2007), pp. 73 s. Oltre al passo plutarcheo citato supra, n. 85, il parallelo più calzante è Isoc. VII 65: gli esuli ateniesi katelqovnte~ polemei'n uJpe;r th'~ ejleuqeriva~ ejtovlmhsan.89 Iust. Epit. V 9, 10: Sed cum hinc pro patria summis uiribus, inde pro aliena dominatione securius pugnaretur, tyranni uincuntur.

148 UGO FANTASIA

dei Dieci condotta dagli uomini di Trasibulo fosse vista in una certa mi-sura come l’ultima fase del confl itto con Sparta. Ciò che la documenta-zione a noi disponibile non permette di capire è come venisse risolto il paradosso rappresentato dalla convivenza fra una siffatta periodizzazio-ne e la consapevolezza che né le sorti del confl itto potevano più essere ribaltate dopo il 404 né il successo dei democratici sarebbe stato possibi-le senza il sostegno accordato dal re Pausania, in voluta contrapposizio-ne con i progetti di Lisandro, alla soluzione della riconciliazione tra le opposte fazioni ateniesi.

6. Sulle fonti del racconto dal 413 al 404 esiste lo studio molto approfondi-to condotto da M.G. Bertinelli Angeli (capitoli 1-5) e da M. Giacchero (ca-pitoli 6-10). I suoi risultati possono essere riassunti nella seguente tabella:

Sezioni dell’ Epitome di GiustinoV 1-2: dal primo esilio di Alcibiade all’infl uenza da lui esercitata su Tissaferne

V 3: colpo di Stato dei Quattrocento e successivo ritor-no alla democrazia

V 4-5: da una battaglia che dovrebbe essere quella di Cizico fi no al secondo esilio di Alcibiade

V 6, 1-8, 4: dalla battaglia davanti a Mitilene al dopo-Egospotami

V 8, 5-11: dalla stipulazione della pace all’instaurazio-ne del regime dei Trenta

V 8, 12-14: morte di Alcibiade

V 9: il regime dei Trenta e la reazione dei fuorusciti ateniesi fi no alla battaglia fi nale con la morte di Crizia

V 10, 1-3: discorso di Trasibulo

V 10, 4-11: dal trasferimento dei Trenta ad Eleusi fi no alla riconciliazione

Fontiper lo più Tucidide, forse mediato da Eforo

Tucidide

Eforo

Senofonte e Teopompo

Eforo

Teopompo

Eforo

Senofonte (discorso dell’araldo Cleocrito)

Fonte fi lodemocratica, probabilmente Eforo

Ovviamente in questa ricostruzione c’è molto di congetturale. Per esem-pio, visto il pochissimo che è rimasto di Eforo per questo periodo, ap-pare azzardato arrivare a distinguere un Eforo per così dire puro da un

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Eforo che si fa tramite di Tucidide. Non c’è dubbio però che, come nella sezione siciliana, anche qui una certa Stimmung tucididea sembra essersi conservata pur attraverso le molte mediazioni attraverso le quali il testo è passato. La celebrazione della capacità di resistenza di Atene di fronte ad un ampio schieramento nemico, per cui gli Ateniesi alla fi ne non sa-rebbero stati vinti ma consumpti… fortunae varietate (V 1, 10), ricorda da vicino quel passo del necrologio di Pericle (II 65, 12) in cui Tucidide ri-cava una ulteriore ragione di esaltare la previdenza di Pericle, convinto di poter vincere la guerra contro i soli Peloponnesiaci, dal fatto che Ate-ne seppe resistere per diversi anni ad un fronte comune che compren-deva i nemici di sempre con in più Siracusa e la Persia90. Ma anche la pa-rabola del regime dei Quattrocento in V 3, al di là di almeno un errore marchiano – secondo Giustino sarebbe stato Alcibiade in persona a mi-nacciare l’attacco ad Atene se i Quattrocento non avessero restituito il potere al popolo (V 3, 7)91 – appare improntato ad una visione tucidi-dea del carattere violento e arbitrario del nuovo regime (la insita super-bia dei membri del Consiglio: V 3, 6), così come la descrizione delle re-lazioni che si vengono a creare fra Alcibiade e Tissaferne riproduce ab-bastanza fedelmente i contenuti del resoconto tucidideo.

Per i primi tre capitoli del V libro il racconto si mantiene a un livello accettabile di coerenza e di completezza, con qualche particolare più co-lorito che si fa strada nel tessuto narrativo senza che sia possibile ricondur-lo ad una fonte specifi ca92. Nel descrivere invece gli eventi compresi fra il 411 e il 407 – con il consueto contorno di errori (per esempio Farnaba-zo è con Mindaro uno dei due generali spartani) – Giustino se la cava con appena sei brevi paragrafi del capitolo 4. I § 1-3 sono occupati da una sola battaglia (che possiamo identifi care con quella di Cizico, anche se la loca-lità non viene menzionata e le due fasi dello scontro, la marittima e la ter-restre, sono separate da un intervallo di qualche giorno)93, seguita dalla richiesta di pace spartana e dal ricordo della partenza della fl otta siracusa-na per la Sicilia. In questa sezione si susseguono notevoli coincidenze fra

90 Ma cfr. anche Thuc. IV 108, 4; VII 28, 3.91 Cfr. Thuc. VIII 86, 4-5: Alcibiade trattenne gli Ateniesi di Samo, furibondi nei confronti dei legati dei Quattrocento, dal mettersi in mare per attaccare il Pireo.92 Per es., quando gli Spartani tramano per uccidere Alcibiade, è la moglie di Agide (quam adulterio cognoverat: V 2, 5) ad avvisarlo del complotto. Hatzfeld (1951), p. 227, n. 1, ravvisava in questa ulteriore malignità le tracce dell’infl uenza di Duride; ma la storia dell’adulterio con Timea aveva una circolazione talmente ampia che la versione di cui Giustino si fa portavoce potrebbe esser nata per germinazione spontanea in uno dei tanti autori che ricordavano la vicenda.93 Bertinelli Angeli - Giacchero (1974), pp. 49-55, mostrano bene (in base a una serie di paralleli: pp. 54 s., n. 2) come la formula di transizione interiectis quoque diebus tradisca la responsabilità di Giustino nell’aver compresso in un solo episodio l’intera guerra navale ellespontina del 411-410, da Cinossema a Cizico.

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il resoconto di Giustino e quello di Diodoro, e in parte fra il resoconto di Giustino e quello di Plutarco nella Vita di Alcibiade, tali da legittimare l’ipo-tesi di una ripresa abbastanza fedele da parte di Trogo delle Storie di Eforo. Alcune signifi cative corrispondenze sono segnalate nella seguente tabella.

Diod. XIII 53, 1[ascoltata la richiesta di pace degli Spartani] i più moderati fra gli Ate-niesi reagirono mostran-do propensione verso una soluzione pacifi ca, mentre quanti per loro costume erano sostenito-ri della guerra, traendo vantaggi personali dalle agitazioni politiche, era-no favorevoli ad una pro-secuzione delle ostilità.

Iust. V 4, 4Stroncati da questi rove-sci, chiesero la pace. Ma l’intervento di coloro, ai quali quella guerra offri-va guadagno, fece sì che non la ottenessero.

Diod. XIII 68, 3Il rientro degli strateghi suscitava profondo stu-pore, giacché essi con-ducevano non meno di duecento navi cattura-te al nemico, un grande numero di prigionieri e di prede di guerra.

Iust. V 4, 6-8Mentre le speranze spar-tane erano deluse per queste ragioni, Alcibia-de con la fl otta vittoriosa saccheggiò l’Asia, com-batté in molte località, dovunque vincitore, re-cuperò le città che si era-no ribellate, ne conqui-stò alcune e le aggiunse al dominio ateniese. 7 In tal modo, dopo aver rivendi-cato l’antica gloria navale, e dopo avervi aggiunto l’o-nore riportato nei combat-timenti terrestri, desidera-to dai suoi concittadini, Alcibiade fece ritorno in Atene. 8 In tutte queste battaglie furono cattura-te duecento navi nemi-che e fu fatto un ingen-te bottino.

Plut. Alc. 32, 1Alcibiade, desideroso or-mai di rivedere la patria e ancor più di farsi vede-re dai concittadini, ora che tante volte aveva vin-to il nemico, salpò alla volta di Atene con le tri-remi attiche tutte ador-ne di scudi e di altre spo-glie; trainava poi a ri-morchio molte navi cat-turate e portava, ancor più numerose, le pole-ne di quelle da lui vinte e affondate: fra queste e quelle non erano meno di duecento.Plut. Alc. 32, 4… non solo le aveva rida-to il dominio marittimo, ma aveva dimostrato che anche per terra essa era in grado di vincere dovunque i suoi ne-mici. (trad. di L. Prandi)

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Inoltre, la vicinanza a Diodoro e a Nepote94 e la simultanea distanza da Senofonte emergono in modo abbastanza chiaro nella lunga descri-zione, che dovrebbe essere abbastanza fedele all’originale trogiano95, dell’accoglienza di Alcibiade ad Atene che occupa i § 9-18 del cap. 496.

C’è un punto, nel successivo capitolo (che si apre con la nomina di Lisandro e si chiude con l’esilio di Alcibiade), in cui la fedeltà ad Efo-ro determina, nella tradizione rispecchiata da Giustino, una grave de-formazione degli eventi cha causarono la disgrazia di Alcibiade presso i suoi concittadini97. Essa è collegata non al rovescio di Nozio, che l’epi-tomatore passa completamente sotto silenzio98, ma ad un episodio che ne è in un certo senso la conseguenza e sul quale tacciono del tutto Plu-tarco99 e Senofonte, mentre Diodoro vi si sofferma con abbondanza di dettagli e in Nepote se ne avverte una ben precisa eco100. Tornato da Fo-cea subito dopo aver saputo della disfatta subita da Antioco, Alcibiade cercò inutilmente di stanare Lisandro da Efeso e, forse in cerca di fon-di in preparazione di altre iniziative, tornò a praticare una delle sue abi-tuali operazioni di saccheggio – questa volta a danno di un’incolpevole Cuma, alleata di Atene, la cui reazione contribuì a mettere in cattiva lu-ce Alcibiade di fronte ai suoi concittadini101. Evidentemente Eforo, sul cui Lokalpatriotismus qualcuno nell’antichità faceva volentieri del sarca-

94 Ben documentata in Bertinelli Angeli - Giacchero (1974), pp. 174 s. Per le consonanze fra Diodoro e Giustino, oltre che per la sostanziale convergenza che sembra emergere fra Eforo-Diodoro, Nepote e Giustino sul ritratto a tutto tondo positivo di Alcibiade, vd. in particolare Prandi (1993), pp. 279 s. 95 Bertinelli Angeli - Giacchero (1974), pp. 69-70, 172.96 Sappiamo da Plutarco (Alc. 32, 1-2) che Eforo (FGrHist 70 F 200: cfr. Parmeggiani, 2011, p. 470) al pari di Senofonte e Teopompo si era tenuto lontano, nel narrare questo episodio, dalla barocca messinscena della descrizione di Duride (FGrHist 76 F 70).97 Iust. V 5, 2-3: Aucti (sc. Lacedaemonii) igitur uiribus Alcibiaden cum centum nauibus in Asiam profectum, dum agros longa pace diuites securus populatur et praedae dulcedine sine insidiarum metu sparsos milites habet, repentino aduentu oppressere; tantaque caedes palantium fuit, ut plus vulneris eo proelio Athenienses acciperent quam superioribus dederant, …98 Hell. Oxy. 8 Chambers, com’è noto, offriva la migliore descrizione della battaglia di Nozio (sulla storia editoriale del frammento PSI 1304, con nuove proposte di ricostruzio-ne, si sofferma da ultimo Canfora, 2013b, pp. 75-100). La versione più vicina a questa è in Diod. XIII 71 (cfr., per una discussione con bibliografi a aggiornata, Ambaglio, 2008, pp. 125 s.), preferibile a Xenoph. Hell. I 5, 12-15; cfr. anche Plut. Alc. 35, 5-8; Lys. 5, 1-2. 99 Il biografo in realtà potrebbe aver ricompreso l’episodio, privandolo però di qualun-que nesso causale con la sconfi tta di Nozio, fra le numerose incursioni che Alcibiade era costretto a operare (Plut. Alc. 35, 4-5, con l’esplicita menzione solo della Caria, non documentata altrove) per la cronica mancanza di fondi che affl iggeva la fl otta ateniese. È così che comunque lo interpreta de Romilly (1997), p. 163. 100 Diod. XIII 73, 3-6; Nep. Alc. 7, 1-2.101Hatzfeld (1951), pp. 313 s., presenta una ricostruzione corretta degli eventi in base a Diodoro, seguita (con qualche cautela di troppo) anche da Ellis (1993), pp. 161 s. Par-meggiani (2011), p. 371, n. 347, pensa invece che qui Giustino parli della battaglia di No-

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smo102, doveva insistere su questo episodio in quanto frammento di sto-ria locale cumana.

A conferma della tendenza a legare ad un singolo personaggio un ciclo di vicende, il cap. 6 si apre e si chiude con la menzione di Conone, che pri-ma subentra ad Alcibiade nel comando ateniese e infi ne si rifugia da Eva-gora con otto triremi. In mezzo vi è una successione di battaglie senza no-me, ma dietro le quali è possibile intravedere quelle di Mitilene e di Ego-spotami, mentre non vi è alcun accenno alla vittoria ateniese delle Arginu-se. Si tratta di un silenzio sorprendente, e frutto certamente di un netto ta-glio operato da Giustino rispetto all’originale trogiano, perché il fi lo rosso di questa sezione è in realtà l’insistenza sulla stessa circostanza che da altre fonti sappiamo essere all’origine dell’arruolamento degli schiavi come re-matori proprio in occasione di questa battaglia103: Atene è priva di risorse, soprattutto risorse umane, e la città è costretta a reclutare in un caso «vec-chi e fanciulli ancora impuberi» (V 6, 3), in un altro stranieri, schiavi e con-dannati ai quali vengono concesse rispettivamente la cittadinanza, la libertà e l’impunità (6, 5). Ma se gli uomini furono trovati, mancava la qualità dei combattenti, e ne consegue inevitabilmente la sconfi tta.

Il capitolo 7, dopo un breve accenno alle conseguenze della vittoria di Egospotami, compresa l’esecuzione dei prigionieri ateniesi (Dux La-cedaemomiorum... fortunae hostium insultat: 7, 1) e il passaggio sotto il con-trollo spartano delle città dell’impero ateniese, è occupato quasi per in-tero – e si tratta di un brano che quasi certamente riproduceva più o me-no fedelmente l’originale trogiano – dalla descrizione del panico e del-la disperazione che si impadroniscono degli Ateniesi all’arrivo delle no-tizie della disfatta. Si sarebbe tentati di leggervi una ipertrofi ca espansio-ne delle brevi ma effi caci pennellate che traccia Senofonte in Hell. II 2, 3, ma non può certo essere esclusa la riproposizione di una versione al-ternativa di cui non abbiamo notizia diretta.

7. Venendo al capitolo 8 del V libro, sulle condizioni della pace e l’in-staurazione del regime dei Trenta Giustino, pur tenuto conto della com-pleta omissione delle trattative che precedettero la stipulazione dell’ac-cordo, offre una trattazione decisamente coerente e non priva di inte-resse104. Essa si articola in tre momenti: 1) in conformità con quanto leg-

zio (ma distorta secondo il modello di Egospotami), perdendo quindi di vista la possibili-tà che Diodoro menzioni un episodio che doveva ricevere una certa attenzione in Eforo. 102 FGrHist 70 F 236, apud Strab. XIII 3, 6.103 Per es. Xenoph. Hell. I 6, 24, con l’accenno ai dou'loi, Diod. XIII 97, 1, che parla di mevtoikoi e xevnoi, rispettivamente servi e peregrini in Iust. V 6, 5: cfr. Bertinelli Angeli - Giac-chero (1974), pp. 227 e n. 1.104 Neanche qui l’Epitome è esente da errori. I tria milia... satellitum di cui si legge in V 8, 10, per esempio, sono il frutto di una contaminazione fra i 3000 cittadini privilegiati

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giamo in Senofonte e Plutarco105, gli Spartani si opposero alla propo-sta, formulata da alcuni degli alleati, in particolare Corinto e Tebe, del-la completa distruzione di Atene (8, 4); 2) le condizioni della pace pre-vedevano l’abbattimento delle Lunghe Mura, la consegna della fl otta e l’accoglimento di trenta rectores (8, 5; cfr. 8, 9: XXX rectores rei publicae con-stituuntur, qui fi unt tyranni); 3) gli Spartani affi darono la città a Lisandro perché le desse un ordinamento politico (più precisamente, «perché la plasmasse», urbem... formandam Lysandro tradiderunt: 8, 6; cfr. 8, 8: Mutato statu Athenarum etiam civium condicio mutatur).

I due problemi posti dalla testimonianza di Giustino, da tenere in li-nea di principio distinti ma in fi n dei conti fra loro complementari, so-no da un lato – notoria crux storica – la presenza o meno fra le condizio-ni di pace di una clausola che prevedesse esplicitamente un cambiamen-to dell’ordinamento politico ateniese, dall’altro la responsabilità diretta di Lisandro e/o degli Spartani nell’instaurazione del regime dei Trenta. Sulle altre clausole della pace la tradizione, a parte alcune varianti non signifi cative, offre un quadro sostanzialmente unitario: gli elementi che ritornano in varie forme in quasi tutti i testimoni (con l’unica eccezio-ne della aristotelica Costituzione degli Ateniesi), cioè l’abbattimento delle Lunghe Mura e delle mura del Pireo, la consegna della fl otta tranne un piccolo numero di navi, il rientro dei fuorusciti, l’abbandono dei pos-sedimenti all’estero e la conservazione del possesso dell’Attica (punto, quest’ultimo, che si giustifi ca come rifi uto della proposta tebano-corin-zia di cancellare Atene dalla carta geopolitica)106 e la trasformazione di Atene in uno Stato satellite di Sparta possono essere recepiti come parti integranti della stipulazione della pace107.

che furono individuati sotto i Trenta (Xen. Hell. II 3, 19; Arist. Ath. Pol. 37, 2) e i 300 mastigofovroi di cui parla Aristotele (35, 1), ma alla luce del più ampio contesto non c’è dubbio che Giustino qui stesse pensando agli uomini della guardia del corpo. Nel collocare invece correttamente l’arrivo della guarnigione spartana di 700 uomini al co-mando dell’armosta Callibio nella fase iniziale del regime dei Trenta (V 8, 11), Giustino è in accordo con quasi tutta la nostra tradizione (Xenoph. Hell. II 3, 13-14; Diod. XIV 4, 3-4; Plut. Lys. 15, 6) contro il solo Aristotele (Ath. Pol. 37, 2), il quale la fa intervenire solo dopo l’esecuzione di Teramene, certamente allo scopo di allontanare il più possibile dalla sua responsabilità la fase di maggiore durezza del regime. Per questa ricostruzione cronologica vd. Natalicchio (1996), p. 111.105 Xen. Hell. II 2, 19-20 (cfr. III 5, 8; VI 5, 35 e 46); Plut. Lys. 15, 3-4. Cfr. Isoc. XIV 31.106 Il solo Pausania (III 8, 6) è portavoce di una tradizione secondo la quale Lisandro e il re Agide II proposero agli alleati, ma solo a titolo personale, che Atene fosse distrutta dal-le fondamenta (cfr. il commento di L. Piccirilli, in Angeli Bertinelli et al., 1997, p. 255). 107 Plutarco (Lys. 14, 7-8) pretende di riprodurre alla lettera il dogma degli efori con le condizioni poste ad Atene: distruzione delle Lunghe Mura e di quelle del Pireo, ritiro da tutte le città conservando il possesso dell’Attica, rientro dei fuorusciti, consegna della fl otta salvo un piccolo numero di navi da defi nire. In Xenoph. Hell. II 2, 20 ritornano le stesse condizioni (il numero di navi è precisato in dodici), ma il rilascio dei possedimenti

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Solo la Costituzione degli Ateniesi menziona come unica condizione l’instaurazione della pavtrio~ politeiva, mentre un secondo passo di Dio-doro (immediatamente contiguo al precedente, se si tiene conto della lunga parentesi dedicata alle vicende siciliane nell’ultima parte del XIII libro) riassume le clausole della pace appena conclusa sotto i due punti della distruzione delle mura e dell’adozione della pavtrio~ politeiva. Sia Aristotele che Diodoro continuano evocando il dibattito politico che ne seguì ad Atene fra sostenitori della democrazia e dell’oligarchia (Diodo-ro) o fra tre differenti schieramenti (Aristotele), con l’inserimento di una ‘terza forza’ moderata, l’autentica fautrice della patrios politeia, che vedeva al suo vertice, intorno a Teramene, personaggi come Archino, Anito, Formisio e Clitofonte che a differenza di Teramene non si sareb-bero compromessi con il regime dei Trenta e i primi tre dei quali avreb-bero avuto un ruolo di rilievo nella democrazia restaurata (Archino e Anito sarebbero stati con Trasibulo a File)108. Ma anche Diodoro rita-glia una posizione di spicco per Teramene nell’ambito di questo dibatti-to dell’assemblea, quando lo fa intervenire, in presenza di un Lisandro rientrato apposta da Samo, per ribadire che i termini del trattato non violavano l’autonomia di Atene nelle decisioni circa il suo ordinamento politico109. Sia in Aristotele che in Diodoro, infi ne, il dibattito si chiude con l’approvazione del decreto, redatto da Dracontide di Afi dna (Ari-stotele), che stabiliva la cancellazione della democrazia e la nomina dei Trenta come supremi reggitori degli affari pubblici.

all’estero è sostituito dall’obbligo di avere gli stessi nemici e amici degli Spartani e di se-guire questi ultimi per terra e per mare dovunque essi decidessero – in pratica l’ingresso della città nella Lega peloponnesiaca. Andoc. III 11-12 (cfr. 39) menziona l’abbattimento delle mura, la consegna delle navi (tranne dodici), il rientro degli esuli e l’abbando-no dei possedimenti all’estero (clausola, quest’ultima, che si ricava implicitamente dalla specifi cazione che Lemno, Imbro e Sciro sarebbero comunque rimaste in possesso dei coloni che le popolavano). Diod. XIII 107, 4, oltre all’abbattimento delle Lunghe Mura e delle mura del Pireo, alla consegna delle navi (tranne dieci) e al ritiro da tutte le città spe-cifi ca, in comune con il solo Senofonte ma con una formulazione più sintetica, il ricono-scimento dell’egemonia spartana. La migliore discussione recente di questa costellazione di fonti è in Bearzot (1997), pp. 134-138, 215-220; ma cfr. anche Fuks (1953), pp. 52-63.108 Arist. Ath. Pol. 34, 2-3; Diod. XIV 3, 2-7. Ciò che dice qui (2) Diodoro sulle due con-dizioni, distruzione delle mura e ritorno alla patrios politeia, trova il più preciso parallelo nell’accusa che Lisia (XII 70) avrebbe mosso a Teramene di aver offerto agli Spartani, durante i negoziati per la pace, di abbattere le mura del Pireo e di liquidare la costitu-zione esistente.109 Diod. XIV 3, 6: ajnteipovnto~ de; tou' Qhramevnou~ kai; ta;~ sunqhvka~ ajnaginwvskonto~, o{ti th/' patrivw/ sunefwvnhse crhvseqai politeiva/, kai; deino;n ei\nai levgonto~, eij para; tou;~ o{rkou~ ajfaireqhvsontai th;n ejleuqerivan... Sulla cronologia relativa delle differenti assemblee, tre sulla pace, la quarta ‘sulla costituzione’, che si svolsero ad Atene tra la fi ne del 405 e il mo-mento dell’instaurazione dei Trenta nel 404, quando era già in carica l’arconte Pitodoro (404/3), nonché sulla cronologia assoluta del periodo, vd. Bearzot (1997), pp. 207-209; Natalicchio (1996), pp. 105-122; Bearzot (2013), pp. 110-135.

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Bisogna riconoscere che l’esistenza stessa di un dibattito sulla forma di governo all’indomani della stipulazione della pace sarebbe diffi cil-mente spiegabile in assenza di una qualche disposizione, fra le clausole concordate con Sparta, che lo imponesse in termini espliciti o che alme-no offrisse agli avversari della democrazia un’opportunità per metter-la apertamente in discussione nelle drammatiche condizioni in cui Ate-ne versava nei mesi centrali del 404. Ma se un cambiamento dell’ordi-namento politico fosse stato esplicitamente prescritto nel trattato di pa-ce sarebbe altrettanto diffi cile spiegarne la mancata menzione in Seno-fonte, nella prima delle due testimonianze diodoree e in Plutarco110. È per questo che ha goduto di una certa fortuna l’ipotesi di A. Fuks111 che il trattato di pace contenesse una formulazione quale ’Aqhnaivou~ ei\nai aujtonovmou~ kata; ta; pavtria ovvero politeuvesqai kata; ta; pavtria, che in linea di principio preservava l’autonomia ateniese, ma di fatto forniva lo spunto per una discussione sulla forma di governo ed era peraltro suffi -cientemente elastica da non prefi gurare una soluzione precisa, dal mo-mento che l’ordinamento politico democratico poteva essere considera-to altrettanto «ancestrale» di un ordinamento che limitava a un ristretto numero di persone l’accesso ai diritti politici112. Del resto una clausola del genere potrebbe essere stata concepita proprio per proteggere Ate-ne dalle estreme conseguenze dell’imposizione dell’egemonia sparta-na che stavano sperimentando molte altre città greche, vale a dire la so-stituzione dei rispettivi ordinamenti politici con regimi rigidamente oli-garchici legati a Lisandro113. Se così fosse, l’accusa che muove Lisia a Te-ramene nella sua requisitoria del Contro Eratostene, di aver lui stesso sug-gerito agli Spartani le condizioni della pace compresa la cancellazione della democrazia, potrebbe rifarsi ad un dato obiettivo, il fatto che Tera-mene stesso avesse proposto l’inserimento nel trattato della clausola del-

110 Anche se esistono studiosi per i quali ciò non rappresenta una diffi coltà: cfr. McCoy (1975), p. 136; Lanzillotta (1977), pp. 124 s.; Krentz (1982), p. 42. 111 Fuks (1953), pp. 60 s.112 Cfr. Andoc. I 83: nel decreto di Tisameno che ristabiliva la democrazia nel 403 era scritto politeuvesqai ∆Aqhnaivou~ kata; ta; pavtria. L’ipotesi di Fuks è accettata, fra gli altri, da Rhodes (1993), pp. 427 s., e da Bearzot (1997), pp. 137 e 215 (cfr. anche Bearzot, 2013, pp. 123 s., 128). Si potrebbe in teoria pensare (seguendo una traccia additata non senza cautela da Busolt, 1904, pp. 1635 s., n. 1) che una clausola di questo tipo facesse parte non del vero e proprio trattato di pace, bensì del trattato separato, al quale accenna il solo Senofonte, che sanzionava l’ingresso di Atene nella Lega peloponnesiaca; ma cfr. Bengtson (1975), n° 211, pp. 153-155. 113 Questa è la posizione di McCoy (1975), pp. 136-139, che riconduce la clausola al ten-tativo di Teramene, in accordo con un Lisandro non abbastanza forte a Sparta da poter imporre la soluzione della decarchia anche per Atene, di ritagliare uno spazio ad una possibile modifi cazione della democrazia in senso moderato. Cfr. anche Ostwald (1986), pp. 458, n. 165; 469 s., e Parmeggiani (2011), pp. 488 s., n. 443.

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la patrios politeia, ma stravolgendone il signifi cato a fi ni denigratori. La spiegazione data da Diodoro della sua elezione fra i Trenta come tenta-tivo di controbilanciare l’estremismo di un Crizia114 sarebbe così meno apologetica e assolutoria di quanto non sembri a prima vista115. In que-sta prospettiva Teramene avrebbe commesso un duplice errore di cal-colo nel corso delle drammatiche vicende del 404: il secondo, l’illusio-ne di poter addomesticare il nuovo regime dei Trenta depurandolo da-gli eccessi di Crizia, gli sarebbe costato la vita; ma il primo era stato l’a-ver sopravvalutato la propria capacità di governare la transizione atenie-se dalla democrazia ad un regime moderato, senza tener conto della for-za obiettiva del ‘partito’ di Lisandro e della sua verosimile alleanza con le fazioni estreme del ‘partito’ oligarchico, gli esuli e le eterie di cui par-la Aristotele (34, 3)116.

È proprio il ruolo ricoperto da Lisandro nella vicenda il tassello più importante, nel complesso mosaico di fonti su cui ci stiamo sofferman-do, per comprendere la tradizione confl uita in Giustino. Lasciando da parte Andocide, la cui evocazione di questa cruciale svolta nella storia della Grecia classica è strumentale alla tesi che difende nell’orazione Sulla pace, osserviamo che l’insediamento dei Trenta è legato diretta-mente al decisivo intervento di Lisandro sia nei due testimoni che fan-no menzione della clausola della patrios politeia – Aristotele nello stesso contesto, Diodoro nel resoconto dello svolgimento dell’assemblea che avrebbe infi ne votato l’instaurazione del nuovo regime117 – sia in uno dei tre testimoni che non parlano della patrios politeia, cioè Plutarco, il quale attribuisce a Lisandro il preciso disegno di modifi ca della costitu-zione e la stessa accusa, rivolta a un demo recalcitrante, che Atene aveva violato la tregua non abbattendo le mura nei tempi stabiliti118. Quanto

114 Diod. XIV 4, 1.115 È appunto questo tono apologetico ad aver spinto Fuks (1953), pp. 58-62, ad ipotizza-re che la fonte fi lo-terameniana confl uita in Aristotele e Diodoro abbia sfruttato il detta-glio in sé neutro della formula kata; ta; pavtria per inventarsi una vera e propria clausola di pace che avrebbe permesso di anticipare l’opposizione di Teramene a Lisandro e i Trenta al momento dell’instaurazione del loro regime. 116 Mi appare perciò convincente il ritratto di Teramene che ha recentemente delineato Canfora (2013a), pp. 44-52. Un approccio differente in Bearzot (2013), pp. 109-143. 117 Aristotele individua il momento decisivo nello schierarsi di Lisandro a fi anco dei so-stenitori dell’oligarchia (Lusavndrou de; prosqemevnou toi'~ ojligarcikoi'~: 34, 3); Diodoro fa di Lisandro addirittura colui che, chiamato ad Atene dalla fazione oligarchica, convoca l’assemblea decisiva nella quale consiglia agli Ateniesi di istituire il governo dei Trenta e poi reagisce alle rimostranze di Teramene, che lo accusa di violare il trattato, dicendo che erano stati gli Ateniesi a non rispettare i patti allungando oltre il dovuto i tempi della distruzione delle mura (XIV 3, 5-6).118 Plut. Lys. 15, 1-2, 6; ma in Plutarco Lisandro fa pervenire all’assemblea la sua recrimi-nazione senza prendervi direttamente parte (2).

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alla versione di Senofonte, essa non reca alcuna traccia esplicita di una responsabilità diretta di Lisandro nell’istituzione dei Trenta. Tuttavia in II 3, 2-3 (404/3) egli riporta in sequenza l’approvazione del decreto di Dracontide, la lista dei Trenta che risultarono eletti e la notizia che touv-twn de; pracqevntwn Lisandro fece ritorno a Samo; la narrazione delle vi-cende interne ad Atene riprende solo in II 3, 11, con la notazione che i Trenta furono eletti subito dopo la distruzione delle Lunghe Mura e di quelle del Pireo119. Anche per Senofonte, dunque, il decreto di Dracon-tide fu adottato mentre Lisandro si trovava ad Atene. È evidente allora che nell’affermare che l’istituzione dei trenta rectores era addirittura pre-vista nelle clausole della pace e che la città di Atene era stata affi data a Lisandro perché ne disegnasse il nuovo ordinamento, Trogo non faceva altro che trarre le estreme conseguenze di una tradizione che includeva l’instaurazione della patrios politeia fra le clausole della pace e sottolinea-va le dirette responsabilità di Sparta, e di Lisandro in particolare, nell’in-staurazione del nuovo regime. Il suo resoconto, eliminando una serie di passaggi intermedi e comprimendo i fatti in una brevissima sequenza, coglie il nucleo storico essenziale degli eventi che si svolsero ad Atene nella parte centrale del 404, pur sacrifi cando, sul piano della verità sto-rica, l’indubbio ruolo svolto dai ‘collaborazionisti’ ateniesi120.

Del tutto coerente con questa impostazione di fondo, apertamente tanto favorevole ad Atene e alla democrazia quanto antispartana – ma più precisamente antilisandrea, come si ricava dal ruolo positivo asse-gnato al re Pausania dopo che i Trenta furono confi nati ad Eleusi e so-stituiti con i Dieci121 – è la trattazione dell’ultimo episodio rievocato nel cap. 8, la morte di Alcibiade. Giustino è l’unico fra gli autori che ce ne parlano (fra questi non vi è, com’è noto, Senofonte, che passa l’even-to completamente sotto silenzio) a rappresentarla esplicitamente come la prima delle uccisioni dei Trenta («... perché non si impadronisse di nuovo dello Stato, sotto il pretesto di liberarlo») ed eseguita da agenti dei Trenta mentre Alcibiade era in viaggio verso Artaserse II122. Qualco-sa di simile si ritrova nella versione di Nepote. Mentre Alcibiade si trova-va in viaggio in attesa di raggiungere il Gran Re, al quale intendeva sve-

119 Precisamente la ripresa di II 3, 11 (oiJ de; triavkonta h/Jrevqhsan ...) dimostra che il passo che riferisce la decisione del popolo di nominare i Trenta (II 3, 2) non può essere un’in-terpolazione. 120 Va in questo stesso senso anche il poco che Giustino dice (V 9, 1-2) sulla fi ne di Tera-mene, eliminato perché si opponeva alla sanguinaria violenza di cui subito diede prova il nuovo regime.121 Iust. V 10, 6-7. 122 Iust. V 8, 13-14: Quem cum profectum ad Artaxerxen, Persarum regem, conperissent, citato itinere miserunt qui eum interciperent; a quibus occupatus, cum occidi aperte non posset, uiuus in cubiculo in quo dormiebat, crematus est.

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lare le trame che Ciro stava ordendo a suo danno insieme agli Spartani, allo scopo di guadagnare il suo sostegno per la liberazione di Atene, Cri-zia e altri dei Trenta sollecitarono Lisandro a neutralizzare Alcibiade se non voleva vedere prima o poi vanifi cato il suo operato. Lisandro a sua volta ricattò Farnabazo con la minaccia che gli Spartani avrebbero ab-bandonato l’alleanza con il Gran Re se non gli avesse consegnato Alci-biade vivo o morto, e Farnabazo mandò due uomini fi dati per uccider-lo123. Anche una delle versioni riportate da Plutarco assegna l’iniziativa a Crizia e ai Trenta, che prospettarono a Lisandro il pericolo che corre-va l’egemonia spartana fi ntantoché fosse stato vivo Alcibiade. Solo che secondo Plutarco ciò non sarebbe bastato a convincere Lisandro ad agi-re se egli non avesse ricevuto una skytale dagli Spartani, mossi dagli stes-si timori dei Trenta o perché volevano compiacere Agide, con l’ordine di eliminare Alcibiade124.

In questo caso, però, siamo costretti a escludere Eforo dal novero delle possibili fonti. Dopo aver ricordato che Alcibiade fu ucciso da Far-nabazo, il quale voleva con ciò compiacere gli Spartani, Diodoro ripor-ta la differente versione di Eforo125. Questi affermava che il mandante dell’assassinio era il satrapo Farnabazo, che era stato messo dallo stes-so Alcibiade al corrente del fatto che egli intendeva raggiungere quan-to prima Artaserse II, per informarlo dei preparativi che Ciro e Lisan-dro stavano segretamente facendo per far guerra al Gran Re, ma voleva impedire che Alcibiade si prendesse il merito di aver fornito questa vi-tale informazione al sovrano. Una versione, questa di Eforo, che susci-ta diverse perplessità, non ultime di carattere cronologico, ma ha il me-rito, rispetto a tutte le altre, di assegnare una fi nalità specifi ca al viaggio che Alcibiade aveva intrapreso per parlare con il Gran Re, al posto di quella generica imitatio Themistoclis di cui parla esplicitamente Plutarco e che secondo alcuni126 sarebbe lo sfondo, narrativo molto più che sto-rico, su cui andrebbe proiettato, con le sue infi nite varianti, il racconto della morte di Alcibiade.

Una volta escluso Eforo dal novero delle fonti su questo episodio, di-venta molto concreta la possibilità che questa versione della morte di Al-cibiade risalga in ultima analisi alle Elleniche di Teopompo (che Trogo, come detto all’inizio, aveva sicuramente presente come modello nella scelta del titolo delle Historiae Philippicae). Niente anzi impedisce di cre-dere, benché la ricostruzione del contenuto e dell’atteggiamento di fon-do di questa opera teopompea sia notoriamente uno dei problemi più

123 Nep. Alc. 9, 3 - 10. 124 Plut. Alc. 38, 5 - 39.125 FGrHist 70 F 70, apud Diod. XIV 11.126 Bultrighini (2005).

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acuti della storiografi a greca del IV secolo, che l’insistenza sulle respon-sabilità di Lisandro nelle vicende ateniesi dopo il 404 sia da ascriversi all’infl uenza dello stesso Teopompo: se non altro sappiamo che le «sven-ture» degli Ateniesi dopo la sconfi tta del 404 e l’instaurazione del regi-me dei Trenta erano oggetto di una dettagliata narrazione da parte del-lo storico di Chio127. Teopompo, del resto, potrebbe essere stato uno dei canali privilegiati attraverso i quali è pervenuta a Trogo una visione della storia interna di Atene, e di rifl esso della storia greca, che appare così vi-cina al nucleo più signifi cativo e costante della rifl essione isocratea sugli eventi di questi anni cruciali128. Ciò può fornire un’importante chiave di lettura della storia della Grecia classica che da Trogo è trapassata nel suo epitomatore. Commentando appunto il F. 70 di Eforo, Parmeggia-ni sottolinea, con una acuta considerazione che è senz’altro da condivi-dere, come il disegno comune di Ciro e degli Spartani di fare guerra ad Artaserse sia un episodio di quell’attivismo bellico di Sparta su cui Eforo ha più volte insistito e che fa da ponte fra la storia fi no al 404 e la storia successiva129. Tuttavia sbaglieremmo a dedurne, in base ad una mecca-nica combinazione dei dati a nostra disposizione, che la non corrispon-denza tra la versione di Giustino e quella attribuita ad Eforo sulla mor-te di Alcibiade rispecchi un diverso giudizio di Giustino sul ruolo gioca-to da Sparta in questa tumultuosa fase d’inizio della sua egemonia. Ne è prova, da un lato, la doppiezza da lei dimostrata in occasione dell’aiu-to prestato a Ciro in guerra col fratello Artaserse (V 11, 6-7), giacché la motivazione legata alla riconoscenza nei confronti del primo per l’aiuto prestato contro Atene convive con l’osservazione che un’eventuale vitto-ria di Artaserse non l’avrebbe danneggiata in assenza di una sua esplici-ta presa di posizione nella guerra fratricida. Ma è rivelatore soprattutto il tono con cui, all’inizio del VI libro, è presentata l’apertura delle cam-pagne degli Spartani in Asia Minore (VI 1, 1): Lacedaemonii, more ingenii humani quo plura habent eo ampliora cupientes, non contenti accessione Athe-niensium opum uires sibi duplicatas, totius Asiae imperium adfectare coeperunt. Questo incipit rappresenta un coerente prolungamento della fase del-la storia greca che era stata inaugurata dalla politica aggressiva messa in campo da Sparta all’indomani delle guerre persiane, ma che a ben ve-dere era stata annunciata già in età arcaica dalle prime iniziative sparta-ne nei confronti dei loro vicini, visto che la conquista della Messenia è defi nita initium dissensionis Graeciae et intestini belli causa et origo (III 4, 2).

127 Cfr. l’anonima Vita Thucydidis, 5 (FGrHist 115 F 5), in Piccirilli (1985), p. 49: pollai'~ sumforai'~ perievpesen hJ povli~, a{~ hjkrivbwse Qeovpompo~.128 È un aspetto sviluppato da Canfora (2013a), pp. 341-347.129 Parmeggiani (2011), pp. 503-507.

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8. Aver tolto di mezzo Alcibiade signifi ca, come leggiamo in V 9, 1, es-sersi sbarazzati della paura dell’ultimo possibile «vendicatore» di Ate-ne contro i tiranni e quindi contro Lisandro, e perciò il suo assassinio ha il signifi cato di chiudere per il momento il grande scontro fra Ate-ne e Sparta. D’altra parte, il resoconto giustineo delle vicende interne di Atene fi no alla restaurazione democratica e alla riconciliazione civi-ca (V 9-10, 11), che è forse qualcosa di più di un «fossile» in cui è anda-ta a sedimentarsi la tradizione nata dal grande scontro ideologico degli anni 404/3130, offre molti spunti di un certo interesse che meriterebbe-ro un’analisi di un respiro maggiore di quello concesso da un semplice epilogo del discorso condotto in queste pagine. L’ultimo dettaglio che vale la piena richiamare, perché va a saldarsi con l’orientamento di fon-do che pervade la ricostruzione in Giustino di questo periodo di storia greca, è che proprio nella sua Epitome leggiamo la versione più sfaccia-tamente partigiana dell’episodio che rappresentava la macchia più gra-ve della rinata democrazia ateniese del 403/2 e dell’opera di riconcilia-zione subito avviata, vale a dire il massacro dei capi oligarchici confi na-ti nella ridotta di Eleusi. Nessuna delle fonti che ne hanno parlato, pur dai rispettivi punti di vista e con toni più o meno elusivi131, è riuscita a nascondere la sua natura di vero e proprio agguato teso dalla parte usci-ta vincitrice dalla guerra civile ateniese nei confronti degli ultimi nemi-ci rimasti. In Giustino, invece, la loro fi ne, collocata (erroneamente, co-me sappiamo) immediatamente a ridosso della chiusura dell’esperienza dei Trenta e dei Dieci132, sarebbe stata determinata, e quindi pienamen-te legittimata, da un atto di aggressione compiuto da loro per primi (V 10, 8-9): appena conclusa la pace, «i tiranni, indignati non meno per il rimpatrio degli esuli che per la propria cacciata in esilio, quasi che la li-bertà altrui costituisse la loro schiavitù, mossero guerra agli Ateniesi. Ma venuti a parlamentare, quasi con l’intenzione di recuperare la tiranni-de, furono catturati in un agguato e furono uccisi come vittime sacrifi ca-li per la pace (Sed ad conloquium ueluti dominationem recepturi progressi per insidias conprehensi ut pacis uictimae trucidantur)». È diffi cile, come osser-va Canfora, trovare un caso paragonabile a questo di così patente falsifi -cazione della storia ad opera dei vincitori133.

130 È la defi nizione data da Natalicchio (1996), pp. 103 s., al quale dobbiamo comunque un’utile sintesi (pp. 99-104) della posizione dell’Epitome all’interno di questa tradizione. 131 Xenoph. Hell. II 4, 43; Lys. XII 80; Isoc. VII 67; Arist. Ath. Pol. 40, 4.132 Vd. supra, p. 129.133 Canfora (2013a), pp. 189-205.

LA GUERRA DEL PELOPONNESO NELL’EPITOME DI GIUSTINO 161

ABSTRACT

The history of the Peloponnesian War in Justin’s Epitome (a summary/anthology of Pompeius Trogus’ Historiae Philippicae), has mainly a historiographical inter-est, though sometimes it preserves a version that adds historically relevant details omitted in Thucydides or in the other extant sources (this is the case of the Athe-nian expedition to the Black Sea led by Lamachos in 424, reported out of the ap-propriate temporal context in XVI 3, 9-12 and probably based on the local histo-ries of Pontic Heraclea, and of the premises of the fi rst Athenian expedition to Sicily in 427, reported in IV 3, 4-4, 3 and surely based on Philistus). On the whole the arrangement of the narrative is rather loose and irregular and often betrays the characteristic features of the genre of the ‘universal history’, irrespective of the ultimate sources directly or indirectly employed by Trogus or Trogus’ source (certainly Ephorus and almost certainly, for the last years of the confl ict, Theo-pompus too). For instance, the years 431-415 are covered by only a few sections of III 7; the beginning of the war has no clear-cut chronological threshold, in-serted as it is in the exposition of the rivalry between Sparta and Athens since the Persian Wars; its responsibility is attributed to Spartan aggressiveness; the expe-ditions to Sicily are reported in the Book 4 dedicated to the situs and the history of the island; there is a slant towards highlighting the role of the great personali-ties like Pericles, Gylippus (but not Hermocrates), Alcibiades, Conon, Lysander, Thrasybulus etc. Perhaps the bellum Deceleicum, and next the Athenian ‘civil war’, is the phase of the war, though itself too fl awed by savage omissions and mistakes, that receives the most coherent treatment. The issues worthy of special investi-gation are the role of Lysander in the defi nition of the peace-terms and the es-tablishment of the Thirty and a possible different periodization of the end of the war, for there is some evidence that Trogus-Justin considered the restoration of Athenian democracy in 403 as the very end of the Peloponnesian War.

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