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93 Filiere internazionali, entrata in nuovi mercati e governance dell’impresa/4 Imprese familiari ed entrata nei mercati esteri: il ruolo del coinvolgimento della famiglia nel business Matteo Giuliano Caroli, Marco Cucculelli, Claudia Pongelli LUISS «Guido Carli», Università Politecnica della Marche, LUISS «Guido Carli» Classificazione JEL: M100; L200 1. INTRODUZIONE L’internazionalizzazione delle imprese familiari risulta caratterizzata da fattori e comportamenti differenti rispetto alle imprese non controllate e ge- stite da un nucleo familiare (Gallo, Garcia Pont 1996; Gallo, Estapè 1992; Claver et al., 2007). Nonostante i numerosi e recenti contributi in letteratura riguardo all’internazionalizzazione delle imprese familiari, tuttavia, è ancora al centro del dibattito la questione di come e in quale misura la natura fami- liare dell’impresa influenzi le decisioni in campo internazionale (Cerrato, Piva 2012). Studi precedenti concordano nel riconoscere un’influenza del coin- volgimento della famiglia, a livello di proprietà e di gestione, sull’espansione estera, ma non hanno opinione unanime se tale influenza sia positiva (Zahra, 2003) o piuttosto negativa (Fernandez, Nieto 2005). Tali studi, difatti, tendono tutti a focalizzarsi sul grado dell’internaziona- lizzazione, trascurando come tale espansione sia perseguita. Più precisamente, sebbene sia proprio nelle scelte strategiche che le imprese familiari si distin- guono da quelle non familiari (Ward, 1998; Harris et al., 1994; Gomez-Mejia et al., 2007; Gomez-Mejia et al., 2010; Berrone et al., 2010), gli scholars si sono finora concentrati prevalentemente sull’effetto del coinvolgimento fa- miliare sul livello dell’internazionalizzazione, tralasciando l’influenza eserci- tata sulle scelte strategiche connesse all’espansione estera e, prima fra tutte, quella relative alla modalità di ingresso in un nuovo mercato geografico. La modalità di entrata è, difatti, una delle decisioni più critiche ed importanti del processo di internazionalizzazione (Wind, Perlmutter 1977; Anderson, Gatignon 1986; Hill et al., 1990; Quer et al., 2007; Brouthers, Hennart 2007; Morschett et al., 2010) e rappresenta uno degli argomenti più studiati nella letteratura di international business (Werner, 2002). L’INDUSTRIA / n.s., a. XXXVI, n. 1, gennaio-marzo 2015

imprese familiari ed entrata nei mercati esteri

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Filiere internazionali, entrata in nuovi mercati e governance dell’impresa/4

Imprese familiari ed entrata nei mercati esteri: il ruolo del coinvolgimento della famiglia nel businessMatteo Giuliano Caroli, Marco Cucculelli, Claudia Pongelli

luiss «Guido Carli», Università Politecnica della Marche, luiss «Guido Carli»

Classificazione jel: M100; L200

1. introduzione

L’internazionalizzazione delle imprese familiari risulta caratterizzata da fattori e comportamenti differenti rispetto alle imprese non controllate e ge-stite da un nucleo familiare (Gallo, Garcia Pont 1996; Gallo, Estapè 1992; Claver et al., 2007). Nonostante i numerosi e recenti contributi in letteratura riguardo all’internazionalizzazione delle imprese familiari, tuttavia, è ancora al centro del dibattito la questione di come e in quale misura la natura fami-liare dell’impresa influenzi le decisioni in campo internazionale (Cerrato, Piva 2012). Studi precedenti concordano nel riconoscere un’influenza del coin-volgimento della famiglia, a livello di proprietà e di gestione, sull’espansione estera, ma non hanno opinione unanime se tale influenza sia positiva (Zahra, 2003) o piuttosto negativa (Fernandez, Nieto 2005).

Tali studi, difatti, tendono tutti a focalizzarsi sul grado dell’internaziona-lizzazione, trascurando come tale espansione sia perseguita. Più precisamente, sebbene sia proprio nelle scelte strategiche che le imprese familiari si distin-guono da quelle non familiari (Ward, 1998; Harris et al., 1994; Gomez-Mejia et al., 2007; Gomez-Mejia et al., 2010; Berrone et al., 2010), gli scholars si sono finora concentrati prevalentemente sull’effetto del coinvolgimento fa-miliare sul livello dell’internazionalizzazione, tralasciando l’influenza eserci-tata sulle scelte strategiche connesse all’espansione estera e, prima fra tutte, quella relative alla modalità di ingresso in un nuovo mercato geografico. La modalità di entrata è, difatti, una delle decisioni più critiche ed importanti del processo di internazionalizzazione (Wind, Perlmutter 1977; Anderson, Gatignon 1986; Hill et al., 1990; Quer et al., 2007; Brouthers, Hennart 2007; Morschett et al., 2010) e rappresenta uno degli argomenti più studiati nella letteratura di international business (Werner, 2002).

L’industria / n.s., a. XXXVi, n. 1, gennaio-marzo 2015

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Nel presente studio si ritiene che proprio nella relazione tra coinvolgi-mento familiare e scelte strategiche sulle modalità di entrata possa risiedere la chiave di volta per meglio comprendere il comportamento internazionale delle imprese familiari. Fornendo evidenza empirica su un campione di 256 modalità di entrata compiute da 204 imprese familiari, tale ricerca si pone dunque l’obiettivo di studiare l’effetto del coinvolgimento familiare, con una particolare attenzione a livello di management, sulle scelte di ingresso in un nuovo mercato geografico con il fine ultimo di far luce sull’espansione estera di tali realtà aziendali.

2. cosa si intende per modalità di entrata?

Nell’ambito degli studi sull’internazionalizzazione, la scelta delle moda-lità di entrata è stata da sempre considerate una delle decisioni strategiche più critiche e complesse (si vedano ad es. Wind, Perlmutter 1977; Ander-son, Gatignon 1986; Hill et al., 1990; Quer et al., 2007; Brouthers, Hennart 2007).

Sharma e Erramilli (2004, p. 4) definiscono le modalità di entrata come «structural agreement that allows a firm to implement its product market strategy in a host country either by carrying out only the market operations (export), or both production and marketing operations there by itself or in partnership with others (contractual modes, joint ventures, wholly owned operations)». Seppur a volte le imprese siano condizionate dai governi locali nella scelta della modalità di ingresso (ad esempio, in Cina le istituzioni ten-dono ad esercitare pressioni ai players stranieri affinché creino partnership con soggetti locali), nella maggior parte dei casi le imprese decidono autono-mamente come entrare in un nuovo mercato geografico. I fattori che deter-minano tale decisione strategica hanno colpito in modo particolare l’interesse degli studiosi. È possibile ravvisare in letteratura due correnti di studio che configurano il fenomeno in modo differente.

Il primo filone (Anderson, Gatignon 1986; Erramilli, Rao 1990; Hill et al., 1990) considera le modalità di entrata lungo un continuum caratterizza-to da un progressivo aumento di controllo, impegno ed assunzione di rischio da parte dell’impresa. In altre parole, si ritiene che l’impresa, man mano che maturi esperienza in un nuovo mercato geografico, tenda a passare attraverso modalità di entrata via via sempre più coinvolgenti in termini organizzativi e finanziari. Al culmine di tale continuum si pone, difatti, la possibilità di en-trare in un nuovo mercato attraverso una wholly owned subsidiary (d’ora in poi abbreviata wos) ovvero una sussidiaria totalmente controllata dalla casa madre: secondo tale logica l’impresa deciderebbe di far ingresso nella nuova area geografica attraverso una wos solo quando è disposta a sopportare un

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grado di rischio molto elevato ed assumere un impegno operativo particolar-mente consistente.

Il secondo filone di studi, invece, considera le modalità di entrata non come scelte incrementali, bensì alternative (Hennart, 1988, 2000; Pan, Tse 2000). Seguendo tale approccio l’imprenditore, nel caso delle piccole realtà aziendali, e i manager, in quello delle multinazionali, scelgono la modalità di entrata ritenuta più appropriata sulla base di due distinti livelli e momenti decisionali. Al primo livello decisionale si colloca la scelta tra una modalità di entrata equity o non-equity. Tale scelta è strettamente connessa all’orizzonte temporale dell’investimento ed alla sua remunerazione: le modalità di entrata equity richiedono un elevato impiego di risorse in quanto una nuova realtà aziendale viene creata, mentre nelle modalità non equity la relazione tra i sog-getti coinvolti è definita da contratto; in altre parole, nella prima tipologia, l’impresa che investe in un nuovo mercato geografico è remunerata ex post dai profitti della nuova organizzazione, nella seconda, invece, la remunerazio-ne è stabilita ex ante da un accordo formale.

Dopo aver compiuto la suddetta scelta di base, il decision maker ad un secondo livello decisionale dovrà scegliere se nel nuovo mercato geografico collaborare con un soggetto terzo (cooperative) o far ingresso in tale area in totale autonomia, esercitando pieno ed esclusivo controllo sulle operazioni internazionali (non-cooperative). Più precisamente, secondo il modello ge-rarchico di Pan e Tse (2000), l’impresa, qualora ad un primo livello decisio-nale abbia optato per una modalità non-equity, dovrà scegliere tra accordi o esportazioni (Burgel, Murray 2000); qualora, invece, abbia optato per modali-tà equity, tra joint venture e wos (Delios, Henisz 2000).

3. il contesto di indagine: imprese familiari ed internazionalizzazione

Le imprese familiari possono essere definite come quelle realtà aziendali in cui un nucleo familiare esercita una sostanziale influenza sul business (Go-mez-Mejia et al., 2011). Tali realtà, estremamente caratteristiche del tessuto imprenditoriale italiano, costituiscono il tipo di organizzazione più diffuso al mondo (La Porta et al., 1999; Morck, Yeung 2003; Gomez-Mejia et al., 2011). Studi effettuati in diversi Paesi hanno dimostrato come le imprese fa-miliari svolgano un ruolo chiave in termini di crescita economica e di creazio-ne di occupazione (Pistrui et al., 2001; Anderson, Reeb 2003). Sebbene i dati sulla loro diffusione differiscano a seconda della specifica definizione adot-tata, è comunque possibile riportare qualche numero significativo. In Asia e Medio Oriente, circa il 95 per cento delle imprese sono di matrice familiare (Kets de Vries et al., 2007). Negli Stati Uniti sono imprese familiari circa il 70 per cento delle società quotate in borsa (Sirmon, Hitt 2003) e in alcuni

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settori, come quello delle costruzioni, tale percentuale sale al 95 per cento (Gomez-Mejia et al., 2003). Inoltre, è fuorviante pensare che le imprese fa-miliari siano necessariamente realtà di dimensioni ridotte: circa un terzo delle imprese elencate negli indici s&p 500 e Fortune 500, oltre a quasi la metà di quelle presenti nell’elenco Fortune 1000, sono controllate da una famiglia (Anderson et al., 2003; Gomez-Mejia et al., 2010).

Il tratto distintivo delle imprese familiari risiede nella forte interdipen-denza tra famiglia e business (Lee, 2006). È difatti possibile affermare che tali realtà constano di due sistemi, la famiglia e il business, che per quanto originariamente distinti tendono poi totalmente a sovrapporsi e confonder-si (Lansberg, 1983) ed è proprio per l’intrecciarsi di questa doppia natura che l’impresa familiare si distingue dalle altre organizzazioni (Gomez-Mejia et al., 2011). La famiglia è, difatti, così intimamente legata al business che il primo sistema non può cambiare senza influenzare l’andamento del secondo (Kepner, 1991).

In tale contesto l’attenzione degli scholars è stata catturata proprio dalla possibilità di studiare la relazione tra coinvolgimento della famiglia nel bu-siness e orientamento strategico dell’impresa, tra cui quello inerente l’inter-nazionalizzazione. L’espansione estera delle imprese familiari, infatti, presenta delle peculiarità rispetto alle altre tipologie di impresa e connesse al fatto che il business è controllato e gestito da una famiglia (Gallo, Garcia Pont 1996; Gallo, Estapè 1992; Claver et al., 2007). Tuttavia, nonostante i numerosi con-tributi a riguardo, alcuni dei quali molto recenti, la letteratura presenta risul-tati contraddittori. Più specificatamente, sebbene sia chiaro che in una certa misura il coinvolgimento della famiglia influenzi l’internazionalizzazione, non si è ancora compreso a pieno se tale effetto è positivo o negativo.

Zahra (2003), ad esempio, ha dimostrato su un campione di 409 imprese manifatturiere statunitensi che la proprietà familiare influenza positivamente sia la presenza all’estero dell’impresa che la quantità di mercati geografici ser-viti; tale relazione risulta, inoltre, moderata positivamente dalla presenza di membri della famiglia nel management.

Qualche anno più tardi Fernandez e Nieto (2005), invece, hanno riscon-trato in un campione di imprese spagnole la relazione opposta: il coinvolgi-mento della famiglia nel business ha un impatto negativo sull’espansione este-ra sia in termine di propensione ad internazionalizzarsi che di intensità degli investimenti in nuovi mercati geografici.

Con l’obiettivo di trovare una spiegazione plausibile a tali risultati con-traddittori Sciascia et al. (2012) hanno ipotizzato che tra presenza della fami-glia nel business ed internazionalizzazione sussista una relazione di tipo non lineare, e più specificatamente, una «U-shape» in base alla quale l’attività di esportazione dell’impresa è massima quando la presenza della famiglia nella proprietà è moderata.

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Tali studi, tuttavia, hanno tutti un comune focus sul grado dell’interna-zionalizzazione, trascurando, invece, la modalità tramite cui l’espansione all’e-stero è perseguita. In altre parole, sebbene sia proprio nelle scelte strategiche che le imprese familiari si distinguono da quelle non familiari (Ward, 1998; Harris et al., 1994; Gomez-Mejia et al., 2007, 2010; Berrone et al., 2011), gli studiosi si sono finora concentrati prevalentemente sulla relazione tra coin-volgimento familiare e livello dell’internazionalizzazione, trascurando l’effetto sulle scelte strategiche connesse all’internazionalizzazione e, prima fra tutte, quella relativa alla modalità di ingresso in un nuovo mercato geografico. La maggior parte di tali studi, difatti, non fa alcuna menzione delle modalità di entrata, e quelli che, invece, affrontano l’argomento, considerano tale feno-meno non come una scelta strategica, ma semplicemente come proxy dell’im-pegno dell’impresa all’estero (Claver et al., 2009).

Con il presente studio si ritiene che proprio attraverso la relazione tra coinvolgimento della famiglia e strategie di ingresso nei mercati esteri sia pos-sibile comprendere meglio il comportamento internazionale delle imprese familiari: introducendo, quindi, le modalità di entrata come nuova variabile dipendente, si intende colmare il gap individuato in letteratura e compiere un passo in avanti nella conoscenza del fenomeno oggetto d’indagine.

4. coinvolgimento della famiglia e modalità di entrata: un’applica-zione della socioemotional wealth

Il presente studio utilizza la Socioemotional Wealth Theory (sew) come lente di osservazione di riferimento. La sew è una recente formulazione teo-rica nata nell’ambito degli studi sulle imprese familiari con il fine cogliere e spiegare la stretta interconnessione tra impresa e famiglia tipica di tale real-tà aziendale (Gomez-Mejia et al., 2007; 2010; 2011; Berrone et al., 2010). Si può considerare la sew come un concetto «ombrello» che racchiude l’utilità che la famiglia proprietaria deriva da tutti quegli aspetti aziendali di natu-ra non strettamente economica e derivante dalla sua posizione di controllo. Tra tali aspetti non economici si ricorda, ad esempio, la volontà della famiglia di esercitare l’autorità sul business, di beneficiare dell’influenza familiare, di mantenere la stessa compagine familiare all’interno dell’impresa, di nominare di membri della famiglia di fiducia alle cariche più importanti, di mantene-re il business familiare con il passare delle generazioni, e di creare una forte identità familiare.

Secondo tale approccio, per un’impresa familiare il criterio decisionale chiave, quello con la maggiore rilevanza, è il mantenimento del sew. Ciò non vuol dire che considerazioni economiche non siano tenute in considerazio-ne, ma che non sono al primo posto nella scala di priorità. Le imprese fami-

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liari considerano, quindi, le possibili perdite o guadagni di sew come punto di riferimento cardine nell’assumere decisioni strategiche: le principali scelte aziendali sono guidate dal desiderio di preservare o incrementare la sew.

Più specificatamente due aspetti sono particolarmente rilevanti al mante-nimento del benessere della famiglia (per una descrizione completa delle di-mensioni della sew vedere Berrone et al., 2012):

– Il controllo e l’influenza della famiglia sull’impresa. Poiché vi è un forte attaccamento all’impresa, la possibilità per i membri della famiglia di eserci-tare autorità e controllo sul business costituisce un’importante fonte di soddi-sfazione emotiva (Schulze et al., 2001).

– L’orizzonte temporale del business a lungo termine. Poiché la fortuna dell’impresa e quella della famiglia sono strettamente legate, la famiglia pro-prietaria cercherà di mantenere il controllo del business per più tempo pos-sibile, concentrando, quindi, gli investimenti nel lungo periodo (Miller et al., 2010).

In tale contesto l’internazionalizzazione può essere percepita come una minaccia per il mantenimento della sew. L’espansione estera potrebbe di-fatti richiedere il ricorso a finanziamenti e manager esterni, con il rischio di diluire la proprietà familiare e trasferire potere decisionale a soggetti terzi (Gomez-Mejia et al., 2011). Il processo di internazionalizzazione potrebbe, inoltre, spingere l’impresa verso conseguenze ritenute poco desiderabili dalla famiglia come, ad esempio, il cambiamento di obiettivi, di cultura o di strut-tura aziendale (Gallo, Sveen 1991). Solitamente l’imprenditore familiare, spe-cialmente se è anche il fondatore dell’impresa, tende ad essere avverso a tutto ciò che può modificare o minacciare lo status quo (Wright et al., 1996).

Per tali motivi è plausibile immaginare che la famiglia voglia influire sulla scelta della modalità di entrata in nuovi mercati geografici al fine di intra-prendere un percorso strategico in grado di proteggere la sew. Con l’obietti-vo di comprendere come il coinvolgimento della famiglia nel business possa influenzare le modalità di entrata, basiamo il nostro studio su due costrutti fondamentali della sew descritti precedentemente, trasponendoli nel contesto dell’internazionalizzazione: il focus sul lungo termine e l’importanza del man-tenimento del controllo sull’investimento all’estero. Tali costrutti chiave risul-tano, inoltre, coerenti con lo schema teorico delle modalità di entrata elabo-rato da Pan e Tse (2000) che prendiamo a riferimento del presente lavoro: la scelta tra modalità equity o non-equity può essere considerata come una scelta tra lungo o breve termine dell’investimento; la scelta tra una modalità coope-rativa (ad esempio, joint venture o licensing) o non cooperativa (esportazioni o wos) riflette, invece, una decisione sul grado di controllo che l’impresa in-tende mantenere sulle operazioni all’estero.

Studi precedenti hanno evidenziato come all’aumentare della proprietà familiare, aumenti anche l’allocazione di risorse per l’internazionalizzazione

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(Zahra, 2003). Il sostegno e l’approvazione della famiglia tende ad aumen-tare l’entità dell’investimento ed allungarne l’orizzonte temporale (James, 1999). Quest’ultimo, inoltre, è ulteriormente esteso dalla rilevanza che riveste nell’impresa familiare la possibilità di tramandare il business alle generazioni future (Kets de Vries, 1993; Zellweger et al., 2011; Miller, Le Breton-Miller 2006; Miller et al., 2008; Sirmon, Hitt 2003). A causa dell’impossibilità di se-parare gli obiettivi della famiglia da quelli dell’impresa, la strategia azienda-le, compresa quella relativa all’espansione estera, risulta quindi imperniata su una visione di lungo periodo e su un forte impegno organizzativo ed econo-mico a realizzarla (Habberson, Williams 1999; Dyer, Handler 1994). Tale ap-proccio permette poi all’impresa familiare di superare le difficoltà connesse al processo di internazionalizzazione, consentendole di assumere decisioni che comportano un più significativo livello di impiego di risorse (Claver et al., 2009). Un così elevato commitment è spesso associato alla forte volontà della famiglia di conservare uno stretto controllo sull’investimento. È stata trovata, difatti, evidenza empirica sulla relazione tra ownership familiare e manteni-mento del controllo sulle operazioni aziendali (Gomez-Mejia et al., 2011).

Sulla base di quanto detto sinora, ci si aspetta dunque che, in un’impresa in cui la presenza della famiglia è particolarmente forte, possa assumere una maggiore rilevanza il focus sul lungo termine e, conseguentemente, in ambito di strategie di internazionalizzazione, essere preferita una modalità di entra-ta equity la quale presenta un ampio orizzonte temporale dell’investimento. Inoltre, coerentemente con la centralità del mantenimento del controllo, si tenderanno a privilegiare modalità di entrata che escludono la collaborazione con soggetti esterni alla famiglia o, più in generale, all’impresa.

Per meglio comprendere come il coinvolgimento della famiglia all’interno dell’impresa ne influenzi il percorso internazionale, tuttavia, si intende appro-fondire il ruolo della famiglia nel management.

Nell’analisi del management di un’impresa familiare occorre distinguere tra situazioni differenti per meglio comprendere il fenomeno oggetto di inda-gine. Più specificatamente, poiché la generazione della famiglia al comando della gestione aziendale può influire notevolmente sulle priorità familiari e, conseguentemente, sulle scelte aziendali (Claver et al., 2009), si è ritenuto op-portuno prendere in considerazione tre casi distinti: il primo in cui la gestio-ne è in mano al fondatore (founder management), il secondo in cui al coman-do vi è un membro della famiglia, ma di una successiva generazione aziendale (family member management) ed, infine, il caso in cui è un manager esterno, e quindi, non appartenente alla famiglia a gestire il business (non-family ma-nagement).

Con riferimento al primo caso considerato, il fondatore dell’impresa è so-litamente un soggetto autoritario, che compie scelte conservative e poco di-sposto a condividere il potere (Birley, 1986; Geeraerts, 1984; Claver et al.,

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2009). Egli tenderà naturalmente ad adottare strategie in grado di massimiz-zare il benessere della famiglia (Zahra, 2003; Minichilli et al., 2010) e, al fine di conservare o addirittura accrescere la sew, compirà scelte strategiche che consentano di concorrere nel lungo periodo (Miller et al., 2010) e mantenere il controllo familiare sull’impresa (Gomez-Mejia et al., 2007). Coerentemente con ciò, è possibile dedurre che l’internazionalizzazione sarà perseguita con un forte orientamento su questi due aspetti e che siano preferite modalità di entrata equity e non-cooperative.

Nel secondo caso preso in considerazione, la gestione aziendale è in mano sempre ad un membro della famiglia, ma appartenente ad una gene-razione successiva rispetto a quella del fondatore. Studi precedenti hanno dimostrato che le nuove generazioni nelle imprese familiari tendono a segui-re percorsi strategici differenti (Claver et al., 2009). Solitamente esse hanno una maggiore consapevolezza delle condizioni esterne dell’ambiente compe-titivo e sono in grado di cogliere opportunità di crescita che la prima gene-razione aziendale avrebbe trascurato o, addirittura, evitato (Peiser, Wooten 1983). Inoltre le imprese familiari gestite dai discendenti del fondatore sono solitamente caratterizzate da un maggior grado di «professionalizzazione» (Bechart, Dyer 1983; McConaughy, Philips 1999) in base al quale gli aspet-ti strettamente connessi alla famiglia dovrebbero cedere il passo alle priorità del business. Secondo quanto detto è possibile immaginare che nel caso del family member management il focus sulla sew tenda a in una certa misura a diminuire: più specificatamente si ritiene che, pur rimanendo il forte orienta-mento al lungo termine dato dalla matrice familiare dell’impresa, possa dimi-nuire l’esigenza dello stretto controllo della famiglia sulle operazioni azienda-li e, allo stesso tempo, esserci una maggiore apertura a coinvolgere soggetti terzi. Coerentemente con ciò si ipotizza che l’internazionalizzazione sarà per-seguita prevalentemente sempre attraverso modalità di entrata equity, ma di tipo collaborativo.

Il terzo caso, infine, considera la situazione in cui a gestire l’impresa è un soggetto non appartenente alla famiglia. La presenza di un manager esterno alla famiglia tende a diminuire il focus sulla sew in quanto il benessere del-la famiglia non è più l’aspetto centrale della gestione aziendale. Nelle scelte strategiche un orientamento al breve termine potrebbe essere preferito da tali attori al fine di garantirsi rapidamente risultati e profitti. Inoltre poiché già sono stati coinvolti soggetti non familiari all’interno dell’impresa, la necessità di escludere partner esterni nell’ingresso in un nuovo mercato geografico ten-de a perdere significato. Sulla base di tali motivazioni si ritiene che saranno preferite modalità di entrata all’estero non-equity e cooperative.

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5. metodologia

5.1. Descrizione del campione

Il presente studio empirico si basa su un dataset di 221 imprese familia-ri italiane del settore manifatturiero. Il dataset è stato costruito unendo i ri-sultati di un’indagine attraverso questionario (dati primari) con i dati forniti da Bureau Van Dick attraverso aida nel periodo 2000-2012 (dati secondari) e contiene un dettagliato elenco di informazioni aziendali tra cui variabili di ownership, management ed internazionalizzazione oltre a dati anagrafici e di bilancio.

Con riferimento alla variabile dipendente di analisi, il dataset contiene in-formazioni sulle modalità di entrata nei mercati esteri di 204 imprese nel de-cennio 1998-2008. Nella tabella 1 è possibile osservare la distribuzione delle modalità di entrata relative a tali imprese. Al fine di validare maggiormente la nostra indagine, sono state escluse dalla distribuzione 17 modalità di entrata relative ad esportazioni occasionali (fatturato all’estero < 5 per cento sul to-tale del fatturato aziendale e realizzate per un solo anno del periodo di anali-si) oppure collocate cronologicamente al di fuori dell’orizzonte temporale di analisi. In particolare, sono state escluse le entrate precedenti il 2000. Si è dunque ottenuto un campione finale di 256 modalità di entrata.

Delle 204 imprese cui fanno riferimento le 256 modalità di entrata del campione è possibile osservare il differente tipo di coinvolgimento della fami-glia proprietaria nel management (tab. 2). Circa un quarto delle imprese delle imprese (46) sono gestite dal fondatore, che è presente anche in 13 imprese di seconda generazione. I membri della famiglia amministrano circa la metà delle imprese del campione, mentre il restante 20 per cento è gestito da ma-nager esterni alla famiglia.

5.2. Analisi

Come descritto nei precedenti paragrafi, le modalità di entrata possono essere classificate in due differenti, ma interconnessi, livelli decisionali (Pan, Tse 2000). Più precisamente, al primo livello il decision maker dovrà sceglie-re tra una modalità equity o non-equity; al secondo livello, invece, egli dovrà selezionare, all’interno della categoria scelta al primo livello, una modalità co-operativa o non cooperativa. Nella modalità non-equity rientrano quindi gli accordi contrattuali e le esportazioni; nelle modalità equity sono comprese le joint venture e le sussidiarie controllate totalmente dall’impresa (wos).

Al fine di rispecchiare il più possibile la struttura gerarchica di Pan e Tse (2000), si è adottato un modello di analisi in grado tenere in conto la relazio-

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ne tra i due livelli decisionali inerenti la scelta della modalità di entrata. Più specificatamente, l’idea che i fattori che incidono sulla decisione di adottare una forma equity o non-equity possano simultaneamente interessare anche la scelta binaria di adottare una forma cooperativa piuttosto che una forma non cooperativa hanno spinto ad adottare un modello di stima probit con selezio-ne a due stadi (Heckman probit selection model). Secondo tale approccio sia la prima equazione (selezione) sia la seconda sono stimate con un modello probit. Tale modello consente di introdurre variabili indipendenti nelle due equazioni di decisione, al fine di testare se i decision makers considerano un set esclusivo di variabili per ogni livello oppure tutti i fattori sono considerati nei due livelli gerarchici. In sintesi, la decisione relativa alla modalità di en-trata equity vs non-equity viene considerata come primo stadio di un processo decisionale più articolato, nel quale il secondo stadio è costituito dalla scelta tra approccio cooperativo vs non cooperativo. Ovviamente, poiché solo una parte delle modalità di entrata è di tipo equity, il secondo stadio di analisi include un numero minore di osservazioni (127) rispetto a quelle considerate per la valutazione al primo livello decisionale (equity vs non-equity, con 368 osservazioni).

Le equazioni stimate prevedono che nel primo stadio l’impresa decida la modalità di entrata (equity vs non-equity) in relazione a caratteristiche osser-vabili dell’impresa. Dopo aver definito questa scelta, che costituisce il criterio di selezione di coloro che adottano un approccio equity, le imprese scelgo-no la forma cooperativo vs non cooperativo sulla base di un set di variabili più limitato di quello considerato nel primo stadio, per rispettare il criterio di

tab. 1. Distribuzione del campione

Tipo N. % Osservazioni utilizzate

Export 170 46,2 112Licensing 71 19,3 54Joint Venture 57 15,5 40wos 70 19,0 50Totale 368 100 256

tab. 2. Distribuzione delle imprese (204) per generazione e tipologia di gestione

Generazione Founder management

Family member management

Non-family Management

Totale

1 – Prima 46 2 3 512 – Seconda 13 54 18 853 – Terza 36 8 444 – Quarta o successiva 13 11 24Totale 59 105 40 204

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esclusione di almeno una variabile che entra nel primo stadio con un coeffi-ciente significativo.

Il vettore delle varabili incluse nel secondo stadio comprende le seguenti variabili: indice del fatturato estero, che sintetizza la dinamica della doman-da estera per l’impresa a livello nace 3-digit; introduzione di nuovi prodotti; quota di export sul totale delle vendite; età e dimensione dell’impresa, con-centrazione dei produttori nel mercato domestico; dimensione del mercato di destinazione, esperienza nel mercato estero e tenure del ceo. In aggiunta a queste variabili, la prima equazione include anche le seguenti variabili: un parametro di profittabilità (ros); il numero di marchi e di brevetti in porta-foglio; il numero di mercati esteri nei quali l’impresa è presente e la distanza dal mercato di interesse in km.

La stima riferita al periodo 2000-2012 conferma che, come per i fondato-ri, i manager familiari preferiscono forme di entrata di tipo equity: il coeffi-ciente è positivo, anche se non significativo, indicando una maggiore proba-bilità di osservare queste forme di ingresso quando le imprese sono gestite da un manager appartenente alla famiglia. I manager esterni, invece, hanno una decisa preferenza per l’entrata di tipo non-equity rispetto ai fondatori: il coef-ficiente nel loro caso è negativo e molto significativo, indicando una riduzio-ne della probabilità di avere questo tipo di entrata quando le imprese sono gestite da manager esterni. Più in generale, rispetto alla decisione relativa alle forme cooperative o meno, sia i manager familiari che i manager esterni ac-crescono la probabilità di adottare forme cooperative rispetto ai fondatori, ma anche in questo caso il dato è statisticamente significativo solo per i ma-nager esterni. Il coefficiente dell’inverse Mills’ ratio è negativo e significati-vo, indicando una correlazione negativa tra i residui del primo e del secondo stadio; in altre parole, i fattori (non osservabili) che accrescono la probabilità che un’impresa adotti un approccio equity tendono a diminuire la probabilità che essa adotti un approccio cooperativo.

6. discussione dei risultati e considerazioni conclusive

Le analisi effettuate suggeriscono che nell’entrare in una nuova area geo-grafica i fondatori e i family manager tendono a preferire un approccio orien-tato al lungo termine, privilegiando forme di tipo equity. I manager esterni tendono, invece, a prediligere un approccio strategico più di breve termine, adottando con più probabilità modalità di entrata non-equity. Nell’ambito delle scelte equity, la presenza del manager fondatore tende a diminuire la probabilità di creare partnership, mentre sia il manager appartenente a suc-cessive generazioni della famiglia sia il manager esterno evidenziano una mag-giore propensione alla cooperazione.

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Si sottolinea la singolarità del risultato relativo al family member manager: seppur non statisticamente significative, le analisi evidenziano in tale caso un accentuarsi tanto della tendenza riscontrata per il fondatore al primo livello decisionale e quanto di quella evidenziata per il manager esterno al secondo livello decisionale. In altre parole, il manager familiare appartenente a gene-razioni successive è associabile al fondatore per quanto riguardo il focus sul lungo termine (maggiore probabilità di osservare forme equity), ma si com-

tab. 3. Probabilità di adozione di una forma equity e cooperativa

First step[Equity vs non equity]

Second step[Cooperative vs non cooperative]

Intercetta 1,35 –17,28(4,32)*** (1,05)

Family member manager 0,349 2,960(1,06) (0,79)

Non family manager –0,065 8,417(2,55)** (3,14)***

Indice del fatturato estero 0,01 0,02(3,65)*** (3,93)***

Introduzione nuovi prodotti 2,85 3,31(0,50) (6,11)***

Quota di export sulle vendite –0,24 1,55(2,16)** (1,94)**

Dimensione (log-vendite) 0,46 0,80(1,01) (0,44)

Età (log) 3,12 0,97(1,96)* (0,40)

Concentrazione settoriale Italia –1,86 –2,83(0,02) (0,96)

Dimensione mercato destinazione (log gdp) 0,69** 0,55(2,67) (1,21)

Esperienza nei mercati esterni (anni presenza) 1,52 4,57(1,12) (1,91)**

ceo tenure (anni dall’inizio della gestione) –1,90 –2,89(1,04) (3,11)***

ros (reddito operativo su vendite) 0,88 –(1,29)

Marche (# in portfafoglio) 1,05 –(0,76)

Brevetti (# in portfafoglio) 2,960 –(0,79)

Numero di mercati esteri serviti –0,48 –(3,19)***

Distanza dal mercato di entrata (km) –1,60 –(2,22)**

Rho –0,492Sigma 18,10Lambda –9,412***Wald 91,1Prob > chi2 0,000

Note: *** p < 0,01; ** p < 0,05; * p < 0,1. Controlli : anno, codice 3-digit Ateco. Equity = jv + wos (quota minima 90 per cento); Non-Equity = accordi di collaborazione + Export (esclusa attività di esporta-zione occasionale , i.e. < 5 per cento delle vendite, sviluppata in un solo anno tra il 2000-2012).

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porta più similmente al manager esterno con riferimento alla possibilità di ce-dere parte del controllo a favore di una collaborazione con un soggetto ester-no (maggiore probabilità di forme cooperative).

Più in generale è possibile affermare che il ruolo della famiglia nella ge-stione aziendale da una parte tende a favorire l’internazionalizzazione per quanto riguarda l’orientamento a lungo termine delle strategie di espansione estera, ma dall’altra tende a frenarla precludendo spesso la possibilità di al-leanze strategiche. Sebbene tale dinamica sia meno stringente con il passare delle generazioni aziendali, solo con l’avvento di un manager esterno è possi-bile osservare una reale apertura alle collaborazioni.

Tale risultato è particolarmente importante in relazione alla diffusione che le alleanze strategiche, hanno nei processi di espansione estera, e della loro rile-vanza in molti ambiti della competizione globale. La gestione familiare dell’im-presa in talune situazioni riduce il ricorso dell’impresa alle alleanze che l’espe-rienza pratica dimostra essere preferibile in diverse situazioni; ne condiziona quindi il percorso di espansione internazionale. Gli effetti di questo condizio-namento vanno compresi, comparando l’opzione strategica in questione con gli investimenti diretti che le imprese con una forte presenza della famiglia nel ma-nagement (founder management e family member management) privilegiano per sviluppare la loro presenza estera oltre le esportazioni.

Le alleanze strategiche presentano due fondamentali vantaggi potenziali per i partner che le costituiscono: i) riducono, a parità di altre condizioni, il rischio sostenuto da ciascuno; ii) permettono di gestire meglio situazioni complesse che richiedono molte competenze differenziate. Nell’ambito dei processi di sviluppo internazionale, esse sono quindi particolarmente adatte in tutti i casi in cui la natura dell’attività, il contesto geografico ove essa è realizzata, o il business cui fa riferimento sono caratterizzati, appunto, da ri-schiosità e/o complessità elevati. In concreto, l’impresa tende a preferire le alleanze in primo luogo quando intende entrare in un’area caratterizzata da elevato «rischio paese», con problematiche la cui gestione rende preferibile la collaborazione con partner locali. La realizzazione di grandi progetti di ricer-ca e di innovazione sono un secondo ambito in cui si ricorre frequentemente alle alleanze, sia per la rilevanza degli investimenti richiesti cui corrisponde per altro un’elevata incertezza dei risultati; sia per la necessità di conoscenze molto ampie, difficilmente controllate da un unico soggetto.

Una gestione familiare «forte» tende, dunque, a ridurre la volontà dell’im-presa di affrontare situazioni di questo genere. Potrebbe limitare, quindi, la sua attenzione verso le aree geografiche più rischiose che però sono oggi quelle che offrono le maggiori potenzialità di crescita. Riduce anche la partecipazione ad iniziative di grande potenziale competitivo che inevitabilmente richiedono l’integrazione con altri attori di diversa provenienza. In definitiva, l’impresa fa-miliare rischia di confinare il suo processo di internazionalizzazione entro per-

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corsi relativamente semplici, per i quali essa disponga internamente di tutte le competenze necessarie per operare con ragionevole successo.

A ben vedere, il minor ricorso alle alleanze strategiche non preclude in assoluto la possibilità di realizzare un’espansione estera consistente; anzi, il nostro lavoro mostra come la presenza della famiglia nel business renda pre-feribile l’investimento diretto.

A riguardo, occorre tenere in considerazione che, sebbene esistano family business di notevoli dimensioni, in molti casi (come anche nel nostro contesto di analisi), le imprese familiari corrispondono a realtà imprenditoriali medio-piccole. Poiché tali realtà sono generalmente caratterizzate da una scarsa dispo-nibilità di risorse, proprio il fatto di preferire gli investimenti diretti riduce l’in-tensità del processo di internazionalizzazione poiché lo condiziona alla risorse disponibili nell’azienda o acquisibili all’esterno, ma individualmente. In altre parole, l’impresa familiare privilegia una modalità di entrata all’estero che di fatto tende a limitarne la portata. Limite che potrebbe manifestarsi sia in una maggiore lentezza del processo, sia nella minore rilevanza del progetto estero. Non sfugga che privilegiare l’internazionalizzazione produttiva con le sole pro-prie forze implica un aumento del rischio specifico dell’impresa, poiché dato un certo livello di risorse finanziarie disponibili, riduce la sua capacità di diver-sificazione geografica/di business, oppure aumenta il grado di leva finanziaria.

Le alleanze internazionali si sono rivelate anche un importante contesto in cui i soggetti coinvolti hanno l’opportunità di sviluppare il proprio set di competenze e maturare quella sensibilità ampia, necessaria per competere in contesti geografici eterogenei. Inoltre, facilitano l’accesso alle informazio-ni sulle opportunità competitive e migliorano la capacità di loro valutazione. I meccanismi di apprendimento si rivelano particolarmente importanti per i soggetti caratterizzati da minore esperienza internazionale e da una organiz-zazione più concentrata nel Paese di origine. Dunque, un minor ricorso agli accordi nel processo di internazionalizzazione riduce la possibilità per l’im-presa di sviluppare quella sensibilità, anche culturale, essenziale per com-prendere in profondità le caratteristiche complessive di Paesi diversi dal pro-prio e individuare le modalità più efficaci per operarvi. Condanna l’impresa ad una «chiusura» che di fatto ne riduce la competitività o quantomeno limi-ta il perimetro delle geografie in cui essa può sfruttare adeguatamente i pro-pri fattori di competitività.

L’attitudine tendenzialmente negativa verso le alleanze strategiche, con-seguenza della gestione familiare dell’impresa, prevalentemente alla prima generazione aziendale, costituisce, dunque un forte limite al suo processo di internazionalizzazione. Ci si chiede quali possano essere misure efficaci per superare tale limite.

Il primo ordine di intervento sta, ovviamente, nei meccanismi che favori-scono l’apertura del business familiare a soggetti esterni.

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È una questione ampiamente dibattuta, anche perché rilevante per raffor-zare non solo la presenza dell’azienda nei mercati esteri, ma più in generale tutto il suo processo di sviluppo. L’importanza di favorire l’utilizzo da parte delle imprese familiari degli accordi strategici come modalità di internazio-nalizzazione conferma l’opportunità di strumenti che spingano verso l’inne-sto nella compagine manageriale di attori esterni alla «famiglia», portatori di un approccio gestionale più «aperto» all’integrazione con altri soggetti. Del resto, è probabile che il solo fatto di accettare il coinvolgimento di nuovi partner nel management implica un’evoluzione culturale che rende molto più naturale un analogo coinvolgimento di soggetti esterni in nuovi mercati geo-grafici.

Infine, lo scarso ricorso alle alleanze come modalità di entrata nelle im-prese caratterizzate da un elevato coinvolgimento della famiglia può non dipendere solo da mancanza di volontà, ovvero da una certa attitudine alla «chiusura» per paura di perdere il controllo. Può essere determinata da un problema di capacità. L’impresa con forte connotazione familiare può sentir-si poco in grado di stabilire alleanze; evita questo strumento perché non sa «dove» individuare i potenziali partner, come valutare la loro compatibilità con i suoi progetti; oppure perché non dispone delle risorse, innanzi tutto umane, per gestire tali alleanze e trarne i dovuti vantaggi. In questa prospet-tiva, è fondamentale approntare strumenti che supportino l’impresa familiare, ovviamente soprattutto quella media e piccola, nell’attuare una strategia di partnership internazionale.

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