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IL SIMBOLO: NUOVE EVIDENZE E ANTICHI LEGAMI Stefano Biancu* Sommario – L’articolo si propone di mostrare le ricadute sulla riflessione morale, sulla politica, sull’assetto del sapere (e, dunque, sull’epistemologia) di alcuni risultati degli studi sul simbolo che hanno caratterizzato gli ultimi cento anni della storia europea e occidentale. Radicandoci in una storia collettiva iniziata prima di noi, il simbolo non può infatti che porre seriamente in discussione la forma di soggettività (etica, politica, epistemica) che è divenuta tradizionale nella modernità occidentale: una soggettività sostanzialmente autonoma, monolitica, irrelata. Un rapporto privilegiato intercorre, in questo senso, tra simbolo e libertà. Il mio percorso si svolgerà come segue. Partirò da una breve presenta- zione di alcuni risultati degli studi sul simbolo che hanno caratterizzato gli ultimi cento anni della storia europea e occidentale (§1), mostrandone le ricadute sull’etica, sulla politica, come anche sull’assetto del sapere (e, dunque, sull’epistemologia). In quanto il simbolo ci radica in una storia collettiva iniziata molto prima di noi, esso non può infatti che porre seria- mente in discussione la forma di soggettività (etica, politica, epistemica) che è divenuta tradizionale nella modernità occidentale: una soggettività sostanzialmente autonoma, monolitica, irrelata. Mi interrogherò quindi sul rapporto che intercorre tra simbolo e libertà (§2) per poi soffermarmi – quasi conseguentemente – sul problema di simboli non autorevoli, ovvero di simboli interessati non a portare libertà, ma dominio e controllo delle coscienze (§3). Sarà a questo punto possibile mostrare come prendere sul serio il simbolo conduca a ipotizzare una socialità e una soggettività mol- to diverse da quelle che la modernità ha saputo (e potuto) rappresentare. La modernità ha infatti trovato in una soggettività autonoma e irrelata la condizione di possibilità sia per un discorso scientifico oggettivo e neu- tro, sia per una politica – fondata sulle figure dello Stato di diritto e del soggetto di diritto – capace di garantire a chiunque libertà e uguaglianza, indipendentemente da differenze di pelle, di razza, di religione, di cultura. * Docente incaricato di Etica presso le Università di Losanna e di Ginevra; docente invitato di Filosofia della cultura presso la Pontifica Facoltà Teologica della Sardegna. eologica & Historica. Annali della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna, XIX (2010), pp. 149-186.

Il simbolo: nuove evidenze e antichi legami [On Symbol: New Evidences and Ancient Connections], «Theologica \u0026 Historica», XIX (2010), pp. 149-185

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il SiMBolo: nUoVe eViDenze e AnticHi legAMi

Stefano Biancu*

Sommario – L’articolo si propone di mostrare le ricadute sulla riflessione morale, sulla politica, sull’assetto del sapere (e, dunque, sull’epistemologia) di alcuni risultati degli studi sul simbolo che hanno caratterizzato gli ultimi cento anni della storia europea e occidentale. Radicandoci in una storia collettiva iniziata prima di noi, il simbolo non può infatti che porre seriamente in discussione la forma di soggettività (etica, politica, epistemica) che è divenuta tradizionale nella modernità occidentale: una soggettività sostanzialmente autonoma, monolitica, irrelata. un rapporto privilegiato intercorre, in questo senso, tra simbolo e libertà.

il mio percorso si svolgerà come segue. Partirò da una breve presenta-zione di alcuni risultati degli studi sul simbolo che hanno caratterizzato gli ultimi cento anni della storia europea e occidentale (§1), mostrandone le ricadute sull’etica, sulla politica, come anche sull’assetto del sapere (e, dunque, sull’epistemologia). in quanto il simbolo ci radica in una storia collettiva iniziata molto prima di noi, esso non può infatti che porre seria-mente in discussione la forma di soggettività (etica, politica, epistemica) che è divenuta tradizionale nella modernità occidentale: una soggettività sostanzialmente autonoma, monolitica, irrelata. Mi interrogherò quindi sul rapporto che intercorre tra simbolo e libertà (§2) per poi soffermarmi – quasi conseguentemente – sul problema di simboli non autorevoli, ovvero di simboli interessati non a portare libertà, ma dominio e controllo delle coscienze (§3). Sarà a questo punto possibile mostrare come prendere sul serio il simbolo conduca a ipotizzare una socialità e una soggettività mol-to diverse da quelle che la modernità ha saputo (e potuto) rappresentare. la modernità ha infatti trovato in una soggettività autonoma e irrelata la condizione di possibilità sia per un discorso scientifico oggettivo e neu-tro, sia per una politica – fondata sulle figure dello Stato di diritto e del soggetto di diritto – capace di garantire a chiunque libertà e uguaglianza, indipendentemente da differenze di pelle, di razza, di religione, di cultura.

* Docente incaricato di etica presso le Università di losanna e di ginevra; docente invitato di filosofia della cultura presso la Pontifica facoltà teologica della Sardegna.Theologica & Historica. Annali della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna, XiX (2010), pp. 149-186.

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conquiste preziosissime, che però non devono essere estenuate, se non si vuole che esse si trasformino nelle peggiori nemiche di quei valori che si intende garantire. il simbolo, contestando alla radice ogni pretesa estrema di autonomia soggettiva, consente di restituire le conquiste della moder-nità alla loro giusta misura e, per così dire, alla loro verità (§4). Da ultimo tenterò di verificare la possibilità di giungere a un criterio che consenta di valutare l’autorevolezza dei simboli; proverò anche a rispondere alla que-stione se i simboli ci aprano agli altri – agli altri in senso forte: a coloro che provengono da orizzonti simbolici differenti dai nostri – o se invece essi ci precludano ogni possibilità di intesa (§5).

1. la riscoperta e le ragioni del simbolo

com’è noto, un forte interesse per il simbolico si è diffuso, in mol-ti campi del sapere, all’indomani della prima guerra mondiale, a seguito anche della crisi delle grandi ideologie ottocentesche (scientismo, positivi-smo, fede incrollabile nel progresso…), crisi in parte determinata proprio dall’esperienza devastante del conflitto e dalla catastrofe che ne era seguita. Partito da ambiti particolari come la psicanalisi, l’etnologia o la fenome-nologia delle religioni, tale interesse per il simbolico ha ben presto conta-minato ambiti tra loro molto diversi come la sociologia, la linguistica, la teologia o addirittura tradizionalmente sospettosi nei confronti di figure alternative a quella di una coscienza monolitica e tutta d’un pezzo, come la filosofia. Da più parti e per vie anche radicalmente diverse,1 si è giunti a

1 Penso alla filosofia (e quindi almeno a Pavel florenskij, ernst cassirer, Alfred Schütz, gilbert Durand, Paul ricœur, Susan langer, Jean-Jacques Wunenburger, Virgilio Melchiorre), alla psicanalisi, che proprio sulla questione del simbolismo ha registrato le sue maggiori divisioni (e quindi almeno a Sigmund freud, Jacques lacan, carl gustav Jung e alle rispettive scuole), all’antropologia (a Victor turner), allo struttu-ralismo (e quindi a claude lévi-Strauss e ai suoi numerosi discepoli, tra i quali l’ete-rodosso Dan Sperber), alla linguistica (Émile Benveniste, edmond ortigues, tzvetan todorov, georges Dumézil), alla sociologia (e quindi almeno a Émile Durkheim, Marcel Mauss, norbert elias), agli studi sull’immaginazione poetica (e quindi almeno a gaston Bachelard e gilbert Durand), agli studi sulle religioni e sul sacro (rudolf otto, gerardus van der leeuw, Mircea eliade, rené Alleau), alla teologia (odo casel, romano guardini e i padri del cosiddetto Movimento liturgico, fino a louis-Marie chauvet). Per una panoramica generale degli studi sul simbolo nel XX secolo, cfr. Baudouin Decharneux – luc nefontaine, Le symbole, Puf, Paris 1998, cap. iii («Au

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riconoscere nella capacità simbolica una delle specificità dell’umano, fino ad accostare alla definizione classica di animal rationalis quella di animal symbolicum. Una bella sintesi della novità portata dal simbolo in molti campi del sapere è offerta da una pagina dello storico delle religioni rume-no Mircea eliade, che mi pare valga la pena di riprendere:

«lo stupefacente successo della psicoanalisi ha posto in auge un certo numero di parole-chiave: termini quali immagine, simbolo, simbolismo sono ormai entrati nell’uso comune. D’altro lato le ricerche sistematiche svolte intorno al meccani-smo della «mentalità primitiva» hanno rilevato l’importanza del simbolismo per il pensiero arcaico e al tempo stesso il suo ruolo fondamentale nella vita di qualsia-si società tradizionale. il superamento dello «scientismo» in filosofia, la rinascita dell’interesse religioso dopo la prima guerra mondiale, le molteplici esperienze poetiche e soprattutto le ricerche del surrealismo (con la riscoperta dell’occulti-smo, dei romanzi neri, dell’assurdo, ecc.) hanno attirato l’attenzione del grande pubblico, su piani diversi e con risultati ineguali, sul simbolo inteso come mo-dalità autonoma di conoscenza. Questa nuova prospettiva rientra nella reazione contro il razionalismo, il positivismo e lo scientismo del XiX secolo e basta da sola a caratterizzare il secondo quarto del XX. la conversione ai diversi simbolismi, tuttavia, non è una «scoperta» veramente inedita, merito del mondo moderno: ripristinando il simbolo nella sua funzione di strumento conoscitivo esso si è li-mitato a riprendere un orientamento che in europa è stato generale fino al XViii secolo e che è inoltre connaturato alle altre culture extra europee, siano esse «sto-riche» (quelle, ad esempio, dell’Asia o dell’America centrale) oppure arcaiche o primitive».2

Secondo eliade la riscoperta novecentesca del simbolo non è dunque stata, propriamente parlando, una novità. e in effetti la vera novità è con-sistita piuttosto in una tematizzazione del problema del simbolo di vastis-sime proporzioni e, come si è detto, trasversale a settori disciplinari anche molto lontani tra loro. certo, già il movimento romantico, tra Sette e ot-tocento, aveva posto con forza il problema della verità del simbolo e delle sue capacità conoscitive, ma allora la questione era rimasta quasi del tutto limitata all’ambito della teoria della letteratura e dell’arte.3 la questione

cœur du symbole. Un siècle de recherches»), pp. 71-110.2 M. eliade, Images et symboles. Essais sur le symbolisme magico-religieux, gallimard,

Paris 1952, pp. 9-10; tr.it. di M. giacometti, Immagini e simboli, Jaca Book, Milano 2004, p. 13.

3 cfr. t. todorov, Théories du symbole, editions du Seuil, Paris 1977, cap. Vi; ed. it. di c. De Vecchi, Teorie del simbolo, garzanti, Milano 1991.

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del simbolo non aveva ancora conquistato il suo spazio decisivo all’interno di una teoria dell’uomo.

non solo: secondo eliade la riscoperta del simbolo ha significato, per la cultura europea, «riprendere un orientamento» che si era perduto. ciò che si era perso (e che, mi permetto di aggiungere, probabilmente neanche oggi si è adeguatamente recuperato) è la coscienza dell’imprescindibilità del simbolo quale modalità autonoma di conoscenza e della sua affinità essenziale con l’umano, ma – anche in forza di questo oblio – non la capa-cità del simbolo di instradare e condurre i sentieri dell’uomo nel mondo. il simbolo ha infatti continuato ad esercitare il suo straordinario potere formativo: ne è prova evidente, ma su questo si tornerà più avanti, il fun-zionamento intrinsecamente simbolico del fenomeno pubblicitario, così centrale nelle nostre società moderne e avanzate.

Quali sarebbero dunque le ragioni di questo «oblio» del simbolo? Sem-brerebbe che in determinate epoche si sia teso per ragioni di natura ideo-logica a rimuovere (nel senso anche psicanalitico della parola «rimozione») l’inaggirabile coessenzialità di uomo e simbolo, ponendo così a distanza di sicurezza quanto attiene al simbolico: in un altrove nel tempo, nello spazio, nell’ordine dei generi e delle specie. «c’è da credere» – ha scritto tzvetan todorov – «che una censura vigilante» abbia autorizzato «a parlare del sim-bolico soltanto ricorrendo a termini di copertura, come “follia”, “infan-zia”, “selvaggi”, “preistoria”»: «dato che è difficile ignorare completamente il simbolo, dichiariamo che noi, uomini adulti e normali dell’occidente contemporaneo, siamo esenti dalle debolezze legate al pensiero simbolico, e che questo esiste soltanto presso gli altri: gli animali, i bambini, le donne, i pazzi, i poeti (questi pazzi inoffensivi), i selvaggi, gli antichi, i quali in-vece non conoscono che questo».4 Sembrerebbe, insomma, che il pensiero occidentale abbia tradizionalmente tentato di mettere in quarantena ciò che ha considerato, per vari motivi, una vacanza della ragione.5 Secondo questa prospettiva, il simbolo non sarebbe altro che la manifestazione della debolezza di un pensiero non ancora giunto alla pienezza delle proprie possibilità: un pensiero al di fuori della verità, la quale è per definizione sempre certa, chiara, distinta, unica e universale.

4 t. todorov, Théories du symbole, cit., p. 262; tr.it. p. 286.5 cfr. g. Durand, Les structures anthropologiques de l’Imaginaire (1960), Puf, Paris

1983, p. 15; tr. it. di e. catalano, Le strutture antropologiche dell’immaginario. Intro-duzione all’Archetipologia generale, Dedalo, Bari 1996, p. 13.

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ora, la riscoperta novecentesca del simbolo ha posto in questione una acquisizione di senso comune che la modernità aveva dato assolutamente per scontata: intendo dire il presupposto della possibilità di un rapporto immediato con il reale. ovvero il postulato in forza del quale, per giungere alla verità di noi stessi, del mondo e degli altri, non sia necessaria alcuna mediazione. che tutto, insomma, sia immediatamente alla portata di un soggetto originariamente autonomo e irrelato.

la riscoperta del simbolismo quale fenomeno antropologico universale attesta infatti la sostanziale impossibilità di un accesso immediato alla re-altà (di noi stessi, degli altri, del mondo): ogni esperienza – ancor prima: ogni percezione – si presenta infatti allo stesso tempo affettivamente e cul-turalmente mediata.

Affettivamente perché davvero – come diceva già Aristotele – «le cose non appaiono le stesse a chi vuol bene e a chi odia, né a chi è adirato o chi si trova in uno stato di calma, bensì appaiono del tutto differenti o in gran parte differenti»:6 il nostro rapporto con le cose non è cioè mai un rapporto con oggetti neutri e indifferenti, ma è sempre mediato dalla tonalità affet-tiva con la quale investiamo queste stesse cose.

culturalmente perché ogni percezione è sempre archetipicamente me-diata dall’esperienza di chi ci ha preceduti, esperienza che giunge a noi attraverso i moduli della cultura di appartenenza: in altri termini, è la cul-tura che ci è stata trasmessa, insieme ai suoi simboli, che ci abilita a leggere la realtà. Si pensi, in questo senso, alla funzione esercitata dal linguaggio nella costituzione dell’esperienza: ogni parola che la tradizione linguistica ci consegna è infatti il condensato di esperienze accumulatesi nel corso del tempo, ed è attraverso quella parola che abbiamo accesso al mondo, di modo che ogni lingua veicola una vera e propria immagine del mondo, una Weltanschauung. Scrive in questo senso louis-Marie chauvet: «il sog-getto non raggiunge mai il “reale” in quanto tale: lo filtra continuamente, lo costruisce e vi si costruisce allo stesso tempo. […] l’immaginario che fermenta in lui e che lo stimola lo lascerebbe andare volentieri al vaga-bondaggio confusionale e alla fantasia sbrigliata. Ma il simbolico lo strut-tura in modo tale da imporgli le regole del gioco, regole comuni a tutto il gruppo culturale; lo rimette “in –gioco”. grazie a questo patto sociale dove l’economico, il politico, le regole di parentela, l’etica, il religioso… si rimandano gli uni agli altri in modo significativo, [l’uomo] non può co-

6 Retorica 1377 b 30-34.

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struirsi il suo mondo, la sua società, la sua storia come gli pare e piace: non ne è padrone, come non lo è di se stesso; deve rinunciare alla immaginaria appropriazione immediata di sé, come di tutto il “reale”: questo è il com-pito che deve assumersi, se vuole diventare un “soggetto”».7

formatore di esperienza e veicolo di identità personali e comunitarie, cosa è dunque il simbolo? Quanto detto rende evidente che non si tratta di un semplice segno. la notazione non è banale, giacché, come todorov ha mostrato,8 il presupposto costante della retorica occidentale in riferimento alla questione del simbolo è stato proprio di pensare quest’ultimo come un derivato del segno e di considerare dunque il simbolico come un sot-toinsieme del semiotico.9 Se però non è una sottospecie del segno, a quale mondo dunque appartiene?

7 l.-M. chauvet, Du symbolique au symbole, cerf, Paris 1979, pp. 33-34; tr. it. di D. Mosso, Linguaggio e simbolo, lDc, leumann (torino) 1988, p. 36. in queste con-siderazioni è d’altra parte facile ritrovare la stessa etimologia del termine «simbolo» quale mediatore privilegiato di identità: il symbolon antico era un oggetto diviso in due parti, ciascuna delle quali era posseduta da uno dei partner di un contratto, di una alleanza. il simbolo è così, originariamente, un operatore di mutuo riconoscimento, capace di costituire e di istituire un io, un tu, un noi. in questo senso è simbolo ogni oggetto, parola, gesto, persona, animale che consenta sia alla comunità che all’indivi-duo di riconoscersi e di identificarsi, sul presupposto che nessuno ha accesso a se stesso al di fuori di una mediazione simbolica.

8 cfr. t. todorov, Théories du symbole, cit.9 Si pensi, in questo senso, alla lettura del simbolo in genere signi proposta da Umberto

eco (in Il modo simbolico (1984), in id., Semiotica e filosofia del linguaggio, einaudi, torino 1997, pp. 199- 254). eco non solo riconduce il simbolo al segno, ma sostan-zialmente riduce il primo al secondo: il termine /simbolo/ non sarebbe infatti altro che un sinonimo di /segno/ talvolta ad esso preferito per via di un’apparenza più colta. la capacità di trasformare un segno (certo) in un simbolo (assai vago) sarebbe dun-que riconducibile a una «decisione pragmatica», a «un fatto eminentemente privato, spesso di competenza del neurologo» (ivi, p. 211). il simbolico non sarebbe insomma altro che «una tentazione ricorrente di varie culture e di vari periodi storici» (ivi, p. 234), sempre comunque legittimata da «una teologia»: «non foss’altro che la teologia negativa e secolarizzata della semiosi illimitata» (ivi, p. 254). nella prospettiva di eco, dunque, il simbolo non è che un segno – certo, chiaro e trasparente – che una decisio-ne pratica di natura strettamente privata (e magari patologica) eleva al rango di segno più complicato e non del tutto traducibile, e questo in forza di una legittimazione ultimamente teologica. Dove «teologico» sta per rimando all’infinito: sia che si tratti di un infinito trascendente, sia che si tratti dell’illimitato proprio di una semiosi infi-nita (ovvero dell’infinita serie dei rimandi e delle traduzioni da un significato all’altro, incapaci di approdare infine alla cosa). in effetti eco ha ragione di indicare in un certo rimando all’infinità del non quantificabile lo spazio proprio del simbolico, ma sba-

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innanzitutto non appartiene all’ordine del significato. A differenza del segno, il simbolo sfonda infatti la dimensione del semantico,10 di modo che propriamente non comunica qualcosa, ma in esso (e non attraverso esso: prospettiva strumentale) qualcosa si comunica. il simbolo è dunque unione non di un significato e un significante, ma di due significanti, lad-dove il segno è invece propriamente comunicazione di altro da sé: rappre-sentazione, appunto, di un significato attraverso un significante. il segno è, per esempio, un cartello stradale dal significato inequivocabile («qui non è consentito parcheggiare»); il simbolo è invece un’entità che è al contempo un’altra: il primitivo che danza la danza del canguro è il canguro; una fron-te corrucciata e uno sguardo sanguigno sono la collera.

non solo: a differenza del segno che rimanda ad altro, il simbolo intro-duce in un ordine di cui esso stesso fa parte.11 Se dunque il segno è rappor-to tra un significante e un significato (tra loro eterogenei, come la parola /pietra/, il concetto pietra e la cosa pietra), il simbolo è invece una unione di due significanti, capace di istituire un riconoscimento, un patto, un’al-leanza che si estendono agli stessi fruitori del simbolo, i quali sono invitati a entrarvi, a partecipare: a riconoscersi all’interno di un comune orizzonte simbolico. la parola /pietra/, che segnicamente è rimando al concetto e alla cosa pietra, se udita all’estero è anche un simbolo di italianità (della co-munità dei parlanti italiano), capace di assegnare e confermare una identità individuale e collettiva.

A differenza del segno – che dunque propriamente designa – il simbolo assegna un posto all’interno di una relazione comunitaria e di un orizzonte culturale. il segno informa, il simbolo forma: esige e produce una inizia-zione, cioè l’ingresso nell’ordine culturale, nella costellazione simbolica, al

glia nel volerlo ridurre all’ambito del segno, che è invece di per sé incapace di uscire dall’identità certa e distinta del rimando alla cosa. il simbolo insomma non è un segno malato d’infinito, ma qualcosa di un genere completamente diverso: considerare il simbolo esclusivamente in genere signi non permette affatto di coglierne l’essenziale; definire le forme del simbolismo come dei significanti associati a dei significati non detti (sul modello del rapporto tra suono e senso nella lingua) non appare sufficiente. cfr., su questo, D. Sperber, Le symbolisme en général, Hermann, Paris 1974; tr.it. di f. zanelli Quarantini e M.V. Malvano, Per una teoria del simbolismo: una ricerca an-tropologica, torino, einaudi 1981.

10 Per una irriducibilità del simbolico all’ambito del semantico è anche V. Melchiorre, L’immaginazione simbolica. Saggio di antropologia filosofica, il Mulino, Bologna 1972, pp. 36-54.

11 cfr. e. ortigues, Le discours et le symbole, Aubier-Montaigne, Paris 1962, p. 65.

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quale esso stesso appartiene. richiede in questo senso una sorta di «mor-te» e di nuova vita del soggetto:12 un certo spossessamento, una specie di abbandono. Attraverso la «morte» dell’iniziazione, l’individuo diventa re-almente soggetto, capace di orientarsi nell’esperienza dei suoi rapporti col mondo, con gli altri e con il proprio fondamento.

Segno e simbolo rispondono dunque a due logiche differenti: se il segno agisce e funziona secondo la logica della rappresentazione, il simbolo segue piuttosto la logica della relazione (non sostituisce, ma unisce). Dovendo veicolare dei significati, il segno opera secondo una logica sostanzialmente strumentale, una logica economica di necessaria funzionalità ad uno scopo, per il perseguimento del quale è ammesso un dispendio minimo di risorse. il segno funziona cioè secondo la logica del ‘minimo necessario’: tutto ciò che è in più, è considerato di intralcio allo scopo (scopo che, finalmente, è la comunicazione e la trasmissione di un significato). il simbolo non è a questa logica che risponde. la logica soggiacente al funzionamento simbo-lico risponde piuttosto al principio del ‘massimo gratuito’ (l’espressione è di Andrea grillo). non avendo significati da comunicare, il simbolo non ha bisogno di istituire sistemi di equivalenze tra cose, idee e segni. esso è piuttosto interessato a istituire legami: legami tra persone attraverso la me-diazione di cose, senza alcuna particolare utilità concreta. ogni simbolo è dunque sempre più di quanto qualsiasi definizione possa esplicitare. esso vive in una logica di spreco apparente, di ridondanza gratuita, di “inutile” eccesso.13 Una logica evidentissima, per esempio, nelle forme simboliche del mito e nel rito: di fatto inutili, esse rappresentano un luogo privilegiato per la costituzione e la maturazione di un «io» e di un «noi». Una cena a lume di candela, per esempio, costituisce simbolicamente e ritualmente una esperienza fortissima, ma propriamente non significa nulla e non ha alcuna finalità pratica immediata: è inutile spreco. il simbolismo rompe dunque l’assetto borghese/strumentale del nostro rapporto col mondo: nel campo del conoscere, del comunicare, del produrre. Sceglie la strada lunga (e antieconomica) di un rapporto con un mondo irriducibile a un insieme di mere cose – semplici esteriorità libere da ogni forma di interiorità – e di individui isolati, di mere interiorità. rappresenta così la condanna di ogni pretesa di dominio da parte di una interiorità che si pensi scevra da ogni

12 cfr. g.A. Possedoni, Introduzione a Aa.Vv., Simbolismo e simbolismi. Raffronti, ana-logie e divergenze, Metauro edizioni, Pesaro 2002, pp. 11-36: 14.

13 È la tesi fondamentale di D. Sperber, Le symbolisme en général, cit.

157Il simbolo: nuove evidenze e antichi legami

traccia di esteriorità (e di animalità) e infrange le pretese di un soggetto che si autocomprende signore assoluto di se stesso e del mondo che lo circonda.

in questo senso, le conseguenze del tradizionale misconoscimento del simbolismo sono state molto pesanti. Al di fuori di uno sguardo simbolico, la realtà appare infatti costituita di mere cose dotate esclusivamente di un valore economico, e corrispondentemente di singoli uomini e donne irri-mediabilmente slegati l’uno dall’altro e da qualsiasi fondamento ulteriore. Un mondo senza simboli è un mondo di soli oggetti nel quale gli scambi tra individui sono scambi esclusivamente mercantili: scambi di cose e non, innanzitutto, scambi tra persone. Scambi dunque non interessati a legare tra loro gli attori dello scambio, ma interessati piuttosto ad un equilibrio che sciolga ogni possibile debito e ogni credito: ogni legame. non è un caso che – come testimonia uno dei protagonisti del rinnovato interesse per il mondo del simbolo, rené Alleau – al congresso su «i fondamenti del sim-bolismo alla luce delle varie discipline» (che si tenne nel giugno del 1962 al palazzo dell’Unesco sotto la presidenza di gaston Bachelard) avessero partecipato alcuni giovani docenti universitari che si erano segnalati come pionieri nello studio dei simboli: la maggior parte di loro – scrive Alleau – «aveva conosciuto l’esperienza della resistenza e non era disposta a sot-tomettersi alla polizia culturale borghese né alla sua gerarchia di valori».14 riconoscere la serietà del mondo del simbolo significa dunque rompe-re l’illusione «borghese» di un mondo composto da individui irrelati che hanno a che fare con cose dotate esclusivamente di un loro determinato valore d’uso, da calcolare secondo la misura astratta della moneta. l’illu-sione, dunque, che l’unica categoria valida e pertinente sia quella dell’utile e dell’inutile, e questo sia per quanto riguarda le cose che per quanto ri-guarda le persone.

Da una più attenta considerazione del simbolo consegue così – per dirla con Merleau-Ponty – «un’immagine dell’uomo e dell’umanità del tutto diversa» rispetto a quella tradizionale: «l’umanità non è una somma di individui, una comunità di pensatori in cui ciascuno, in solitudine, abbia la certezza di capirsi con gli altri poiché tutti condividono la stessa essenza pensante»;15 essa è piuttosto una comunità di esseri corporei in continuo 14 r. Alleau, La science des symboles, Payot, Paris 1976, p. 22; tr.it. di g. Bogliolo, La

scienza dei simboli. Contributo allo studio dei principi e dei metodi della simbolica, San-soni, firenze 1983, p. 19.

15 M. Merleau-Ponty, Causeries 1948, a cura di S. Ménasé, Seuil, Paris 2002, pp. 49-

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cammino verso (la verità di) se stessi, come individui e come comunità, e questo attraverso un incessante scambio con l’altro da sé: con l’altro nel tempo e nello spazio, ma anche oltre il tempo e oltre lo spazio.

2. Il simbolo e la libertà

Vorrei ora mostrare lo stretto legame che intercorre tra simbolo e libertà, evidenziando il ruolo del simbolo quale vero e proprio fondamento antro-pologico della libertà. non sarà qui possibile, per ovvi motivi, riprendere i dibattiti che dagli albori della modernità ad oggi hanno riguardato questa categoria maggiore dell’antropologia, dell’etica, della politica. Basterebbe ricordare soltanto alcuni nomi di pensatori che si sono impegnati su que-sto tema, da Hobbes a Jean-luc nancy, per convincersi che il compito sarebbe del tutto sproporzionato rispetto all’economia di queste pagine.

ci si dovrà così necessariamente accontentare di porre qui in risalto alcuni nodi problematici, con particolare riferimento a esperienze e con-figurazioni della libertà che, per quanto necessarie, mi pare si siano col tempo rivelate insufficienti. Mi riferisco, in particolare, a quella dimensio-ne della “profondità” che, secondo Hannah Arendt, la modernità avrebbe tradizionalmente trascurato: anche, appunto, in riferimento alla questione della libertà. Mi si permetta una valutazione un po’ approssimativa e certo apodittica: è soprendente osservare, a questo proposito, come la modernità abbia tradizionalmente privilegiato la dimensione dell’estensione, e abbia preferito delle metafore spaziali per raccontare se stessa e per autocom-prendersi. il discorso potrebbe essere molto lungo, ma è certo sufficiente ricordare – a titolo emblematico – la finzione cartesiana di un universo composto esclusivamente di res extensa e di res cogitans (atemporale); di estensione e di una intelligenza che ad essa si applica.

Questo genere di categorie e di metafore – che non fanno i conti col fattore «tempo» – si rivelano certamente funzionali al primato della «im-mediatezza» che ha caratterizzato il passaggio alla modernità. Di contro a esagerate pretese di «mediazione» (spirituale e temporale),16 la modernità

50; tr.it. di f. ferrari, Conversazioni, Se, Milano 2002, p. 61. 16 non si dimenticherà come, agli albori della modernità, la riforma protestante abbia

inteso combattere precisamente alcune eccessive pretese della chiesa di roma di porsi quale mediatrice tra Dio e gli uomini: in campo liturgico, nell’accesso alla Bibbia, nella pratica delle indulgenze…

159Il simbolo: nuove evidenze e antichi legami

ha avuto bisogno di affermare una certa immediatezza, grazie alla quale è giunta ad affermare la libertà come un diritto da riconoscere immediata-mente, cioè senza mediazioni, a chiunque. Sul piano giuridico-politico si tratta di una conquista preziosa che deve essere evidentemente considerata irreversibile. Ma non deve essere estenuata.

Se infatti giuridicamente e politicamente la libertà deve essere imme-diatamente riconosciuta come un diritto universale, eticamente e antro-pologicamente questa immediatezza non può che rivelarsi un’astrazione.17 Eticamente, la libertà è anche un dovere e una responsabilità, mentre an-tropologicamente è evidente che liberi non si nasce, ma che si è piuttosto sempre in cammino verso la propria libertà: si diventa liberi, e lo si diventa grazie all’incontro con altre libertà: più mature, più solide della propria. Più le libertà con le quali si entra in relazione sono mature, più esse rivesti-ranno il carattere di autorità autorevoli, maestre di libertà. in fondo, questo è il primo principio di ogni educazione.

e dunque: accanto ad una libertà come diritto (esperienza politico-giuridica), occorre riconoscere perlomeno una libertà come dovere e come responsabilità (esperienza etica) ed una libertà come dono (esperienza antropologica).18

ora, tale libertà come dono risulta finalmente apprezzabile soltanto a condizione di tenere nella dovuta considerazione la dimensione del tempo, della profondità: la dimensione, appunto, di un dono che sempre precede

17 non è forse inutile ricordare, come del resto osserva anche il filosofo francese Jean-Marc ferry, che il primo articolo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo («tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti») ha senso e valore se inteso come enunciato regolativo, mentre rischia di essere del tutto falso se consi-derato come enunciato constatativo. (cfr. J.-M. ferry, Les grammaires de l’intelligence, cerf, Paris 2004, p. 201; ed.it. di g. lingua, Le grammatiche dell’intelligenza, Medusa, Milano 2008).

18 Secondo il teologo Andrea grillo, religiosamente il discorso è ancora più radicale, perché in questo caso – perlomeno nella tradizione ebraico-cristiana – colui che dona la libertà è capace di una liberazione assoluta. Se antropologicamente l’essenziale della libertà è una figura di libertà non-immediata, religiosamente lo è ancora meno, in quanto qui la libertà assume la forma di una radicale liberazione. Accanto all’espe-rienza giuridica e politica di una libertà come diritto (immediato), l’uomo religioso fa dunque anche una esperienza – etica – di una libertà come dovere e come respon-sabilità. Ma è abilitato a queste due esperienze da una terza esperienza fondamentale: l’esperienza della libertà come dono totale, come grazia. cfr. A. grillo, “Passi sulla via della pace”. Libertà e autorità agli inizi del XXI secolo, natrusso, noli (SV) 2007.

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e che abilita a vivere il presente e a costruire futuro. che abilita a incomin-ciare.

A questo proposito, occorre riconoscere come la nostra tarda modernità viva un problema culturale molto serio nei confronti del tempo. Se i mo-derni si sono autocompresi come momento di rottura con la tradizione (del passato), essi hanno però mantenuto l’idea di una trasmissione (nel futuro): la loro «immediatezza» si autocomprendeva comunque come gravida di fu-turo. Si pensi, in questo senso, alle grandi ideologie moderne del progresso: alle «magnifiche sorti e progressive», nelle quali leopardi ha visto l’essen-ziale della sua epoca. oggi però sembra compromesso anche il senso della promessa, del futuro. e non a caso si parla di «fine della storia».19

Ma cosa significa, a riguardo della libertà, recuperare un rapporto sano col tempo? credo che possa significare almeno due cose. A livello indivi-duale mi pare significhi riconoscere che non si nasce liberi, ma che lo si diventa. e lo si diventa nella misura in cui si incontrano delle libertà più mature della propria, che diventano così delle autorità. in questo senso la vera negazione dell’autorità non è affatto rappresentata dall’affermazione della (propria) libertà, ma piuttosto dalla pretesa di essersi fatti da sé: dal-la mitologia del self made man. A livello sociale – ed è qui che il simbolo diventa fondamento della libertà – significa poi riconoscere che non ci rapportiamo soltanto con i nostri contemporanei, ma anche con chi ci ha preceduti e con chi ci seguirà: significa riconoscere che non partiamo da zero, ma che siamo inseriti in una struttura di tradizione e di trasmissio-ne (culturale, linguistica, simbolica…), la quale non è irrilevante neanche nella gestione dello spazio pubblico.20 È soltanto riconoscendo il legame essenziale tra questa struttura di trasmissione e la nostra libertà che è dun-que possibile comprendere il ruolo del simbolo.

19 f. fukuyama, The End of History and the Last Man, free Press, new York 1992; tr.it. di D. ceni, La fine della storia e l’ultimo uomo, rizzoli, Milano 1996.

20 A livello religioso significa poi riconoscere che il tempo non è del tutto a nostra dispo-sizione e che esso – secondo il vocabolario ebraico-cristiano – deve essere santificato. non a caso la tradizione ebraico-cristiana ha sempre riconosciuto un rapporto strettis-simo tra esperienza della libertà e “santificazione del tempo”: si pensi a Deuteronomio 5,15. Sul tema mi permetto di rimandare a S. Biancu, L’autorità e il pensiero cristiano. Tradizioni e prospettive tra XX e XXI secolo, «il regno/Attualità», 16/2009, pp. 516-519 e a id., Autorité versus liberté? Théologie et savoir rationnel dans l’espace publique, «revue d’ethique et de Théologie morale», 252 (décembre 2008), pp. 69-89.

161Il simbolo: nuove evidenze e antichi legami

la questione è delicata giacché, se è vero che la tradizione rimane un fondamento imprescindibile della nostra libertà,21 è anche vero che occorre comprendere bene cosa sia la tradizione. «Struttura di trasmissione» non può infatti significare né una semplice ripetizione sottomessa del passato, né un futuro votato a un compimento che già si conosce (il quale rappre-senterebbe un altro genere di sottomissione). La tradizione è sempre simbo-licamente istituita: essa è molto più simile a una costellazione simbolica tra-mandata da una generazione ad un’altra, a una norma per l’esperienza e per l’azione, piuttosto che a un deposito intoccabile di dottrine. ogni tradizione è, in questo senso, uno schema interpretativo totale, incluso di solito in miti e racconti fondatori e dotato di una forte componente pratica e rituale, capace di strutturare l’esperienza e la comprensione umana dell’io e del mondo. non è dunque un semplice strumento a nostra disposizione (qual-cosa che si possa magari utilizzare come arma nei confronti del diverso), ma piuttosto qualcosa che sta prima di noi e che dunque non è propriamente mai del tutto disponibile: è un mediatore di identità. non dunque una opzione della libertà – come se ciascuno potesse scegliere i «suoi» simboli – ma, in forza di una radicazione comunitaria e pre-conscia, è qualcosa che sta alle radici della libertà di ciascuno. in questo senso, la libertà non ha mai la forma di un inizio assoluto, ma vive di tradizione, di un sostrato che abilita all’esercizio di una soggettività autonoma.

la possibilità della novità – la possibilità della libertà – sta così nel sa-per mantenere una continuità con un passato al quale ci lega un comune orizzonte simbolico. il simbolo – questa eteronomia liberante che è sempre anche una autonomia liberata22 – si rivela così capace di fondare un’etica e persino una politica.23

Ma proprio perché il simbolo si presenta come «uno dei fondamenti antropologici della libertà» – ha scritto Dan Sperber – «il potere, in tutte le sue forme, tenta ostinatamente di contenerlo».24 o, perlomeno, di assog-gettarlo ai suoi scopi.

21 cfr. e. zolla, Che cos’è la tradizione, Adelphi, Milano 20032.22 cfr. A. grillo, “Passi sulla via della pace”. Libertà e autorità agli inizi del XXI secolo,

cit.23 cfr. D. gaita, Il pensiero del cuore. Musica simbolo inconscio, a cura di A carotenuto,

Bompiani, Milano 2000, p. 11524 cit. in r. Alleau, La science des symboles, cit., p. 237; tr.it. p. 214.

162 Stefano Biancu

3. Simboli non autorevoli

la questione del rapporto tra il simbolo e libertà – tra un simbolo che genera libertà ed una libertà che trova nel simbolo una delle sue condizioni di possibilità – non è, evidentemente, così semplice. infatti, nel momento in cui viene a mancare la garanzia tradizionale di un contenuto autorevole, il simbolo può facilmente diventare uno strumento di propaganda e di controllo delle coscienze. Quello stesso simbolo continua a parlare, a muo-vere coscienze, ma non genera più libertà.

lasciando da parte il caso estremo (e tragico) della propaganda all’inter-no di regimi politici totalitari, uno dei casi più evidenti è forse oggi quello della pubblicità.25 Soltanto in apparenza la pubblicità può infatti essere compresa come una semplice informazione concernente un prodotto (un «consiglio per gli acquisti»): in alcuni casi essa può invece rappresentare un chiaro esempio di dinamica simbolica non autorevole. la pubblicità infatti non si limita a consigliare, ma esige di essere creduta: esige cioè l’esercizio di una fede. la sua perversione sta però nel fatto che il comunicatore non cre-de in ciò che il fruitore della comunicazione è invece chiamato a credere.

Sia chiaro: in questa fede non è semplicemente in questione la bontà e la qualità di una merce, il sapore di un biscotto o la fragranza di un profumo. ciò che la pubblicità impone di credere, è piuttosto che quel prodotto sia la condizione di possibilità per l’accesso ad un valore, rispetto al quale tale prodotto è (proposto come) simbolo. in altri termini, la pubblicità rappre-senta un’argomentazione simbolica all’interno della quale una premessa rimane nascosta ed implicita, proprio come accade nella figura retorica dell’entimema. l’argomentazione implicita soggiacente al messaggio pub-blicitario è, in altri termini, simile alle seguenti:

- se vuoi avere successo con le donne (=valore), usa questo profumo (=prodotto);

- se vuoi avere una famiglia felice (=valore), compra questi biscotti (=prodotto);

- se vuoi avere successo e felicità nella vita (=valore), vota questo par-tito politico (=prodotto).

25 cfr. su questo le ottime pagine, alle quali molto devono le considerazioni che seguo-no, di Andrea grillo, La pubblicità e il rito, in: g. Bonaccorso – A. grillo, La fede e il telecomando. Televisione, pubblicità e rito, cittadella editrice, Assisi 2001, pp. 9-87.

163Il simbolo: nuove evidenze e antichi legami

ora, un simbolo è autorevole nella misura in cui rende accessibile l’espe-rienza di un qualcosa che sarebbe altrimenti indisponibile e inaccessibile; la pubblicità rovescia però quest’ordine e utilizza valori (indisponibili) per vendere cose (disponibili). col risultato di mercificare e di banalizzare for-temente quegli stessi valori: quanto potrà infatti valere una famiglia felice se la si può finalmente ottenere al prezzo di un pacco di biscotti?

la condizione di possibilità affinché una simile sostituzione furtiva pos-sa funzionare, è evidentemente che i legami con altri simboli autorevoli – capaci, cioè, di istituire identità soggettive e sociali forti – siano flebili e incerti. in altri termini, la pubblicità funziona solo sradicando e mettendo in crisi tradizioni, e tanto meglio funziona quanto più vi riesce: si fonda, insomma, sull’immaturità simbolica di individui slegati da radicamenti co-munitari e tradizionali autorevoli.

non bisogna però disperare: se è vero che la manipolazione attraverso i simboli può divenire un pericoloso strumento di potere,26 occorre ricono-scere che essa non è un destino ineluttabile. c’è infatti una possibilità per non sacrificare la nostra libertà sull’altare della nostra umanità di animali simbolici. Una possibilità che mi pare richieda perlomeno due passaggi.

il primo passaggio è la necessità di prendere coscienza della forza forma-trice dei simboli, della loro autorità, ma anche del potere e del dominio che questi possono esercitare su di noi. come ha scritto giuseppe Pontiggia, occorre maturare «una consapevolezza dei meccanismi con i quali agiamo, una cautela nell’ascolto e nella lettura, una consapevolezza che c’è una pre-disposizione in noi alla suggestione, che deve essere messa a freno, che deve essere sorvegliata. Quello che dovrebbe rappresentare un gradino ulteriore, espresso in termini linguistici, potrebbe essere il passaggio dall’indicativo al condizionale; una visione più ipotetica, più aperta al dubbio ed all’in-certezza. Questo potrebbe essere una difesa contro i pericoli del linguaggio autoritario, ma temo che, in generale, ne siamo molto lontani».27 26 cfr. a questo proposito: B. Decharneux – l. nefontaine, Le symbole, cit., pp. 112-

115 («Pouvoirs de la fonction symbolique»).27 g. Pontiggia, Il linguaggio autoritario nell’uso quotidiano della parola, in id., Il resi-

dence delle ombre cinesi, A. Mondadori, Milano 2004, pp. 197-211: 210-211. non è certo inutile ricordare, a questo proposito, come la comunicazione non sia mai un semplice trasferimento di informazioni, ma sia anche e sempre una relazione di rico-noscimento, all’interno della quale chi parla (o chi scrive) domanda di essere ricono-sciuto e nella quale, al contempo, ci si riconosce. la comunicazione è il luogo di uno scambio, dal quale si esce necessariamente trasformati. l’ha scritto con finezza Pierre Bourdieu: «relation de communication entre un émetteur et un récepteur, fondée

164 Stefano Biancu

il primo passaggio per proteggerci dal pericolo di simboli autoritari è dunque il prendere coscienza dell’enorme potere che il simbolo può eser-citare su degli animali simbolici quali siamo: si tratta, in altri termini, di maturare una sana coscienza critica. Un passaggio evidentemente necessa-rio, ma non ancora sufficiente. Proprio perché si è animali simbolici, una critica razionale al simbolo non è infatti sufficiente a liberarsi dalla presa di simboli perversi ed autoritari: occorre anche riappropriarsi di simboli auto-revoli, garantiti dal pieno di una tradizione e di una storia che ci precede e ci abilita ad esercitare liberamente la nostra soggettività di animali sociali: a leggere e ad abitare il mondo intorno a noi. Poiché c’è incompatibilità tra iniziazioni, la condizione per essere capaci di resistere al fascino di simboli che possono essere gravemente lesivi della nostra libertà, è dunque di essere iniziati a simboli davvero autorevoli. Qui si cela una debolezza congenita alle nostre società moderne e avanzate, se è vero, come ha sostenuto Mircea eliade, che «una delle caratteristiche del mondo moderno è la scomparsa del concetto di iniziazione».28 occorre riconoscere che una iniziazione di tipo esclusivamente scolare e intellettuale, per quanto necessaria, non è sufficiente a preservarci dai rischi dell’autoritarismo simbolico. Se è impor-tante sapere (e saper fare), è altrettanto importante imparare a fare espe-

sur le chiffrement et le déchiffrement, donc sur la mise en œuvre d’un code, ou d’une compétence génératrice, l’échange linguistique est aussi un échange économique, qui s’établit dans un certain rapport de forces symboliques entre un producteur, pourvu d’un certain capital linguistique, et un consommateur (ou un marché), et qui est propre à procurer un certain profit matériel ou symbolique. Autrement dit, les dis-cours ne sont pas seulement (ou seulement par exception) des signes destinés à être compris, déchiffrés ; ce sont aussi des signes de richesse destinés à être évalués, appréciés et des signes d’autorité, destinés à être crus et obéis. en dehors même des usages litté-raires – et spécialement poétiques – du langage, il est rare que, dans l’existence ordi-naire, la langue fonctionne comme pur instrument de communication : la recherche de la maximisation du rendement informatif n’est que par exception la fin exclusive de la production linguistique et de l’usage purement instrumental du langage qu’elle im-plique entre ordinairement en contradiction avec la recherche, souvent inconsciente, du profit symbolique. S’il en est ainsi, c’est que la pratique linguistique communique inévitablement, outre l’information déclarée, une information sur la manière (dif-férentielle) de communiquer, c’est-à-dire sur le style expressif qui, perçu et apprécié par référence à l’univers des styles théoriquement ou pratiquement concurrents, re-çoit une valeur sociale et une efficacité symbolique» (Langage et pouvoir symbolique, fayard, Paris 2001, pp. 99-100).

28 M. eliade, Naissances mystiques. Essai sur quelques types d’initiation, gallimard, Paris 1959, p. 11; tr.it. di A. rizzi, La nascita mistica. Riti e simboli della iniziazione, Mor-celliana, Brescia 1980, p. 9.

165Il simbolo: nuove evidenze e antichi legami

rienza: questo non viene infatti da sé; non è sufficiente aprire gli occhi per vedere, ma occorre che lo sguardo sia iniziato alla visione.

Per resistere al fascino vuoto di simboli mercificati e ridotti a strumenti di potere e di dominio, occorre dunque non solo essere consapevoli dello straordinario potere formatore dei simboli, ma pure sanare un eventuale vuoto con simboli autorevoli e degni di fede: è questo il secondo passaggio necessario alla salvaguardia della nostra libertà di animali simbolici. come ha scritto elémire zolla, «soltanto conoscendo le implicazioni dei simboli dai quali ci lasciamo guidare possiamo acquistare una certa libertà, cioè un minimo di distacco da ciò che siamo condizionati a essere. il simbolo infat-ti ci regge comunque, il più stupido credente nella razionalità puramente discorsiva senza tregua simboleggia: con l’atteggiamento delle spalle, delle vertebre, con la camminata, il ritmo del cuore, del respiro. egli ha un bel votarsi al culto della pianificazione […]; qualcosa in lui sempre parlerà il linguaggio dei simboli – se non altro coi suoi gesti involontari, con l’ince-spicare del piede o della lingua, con l’amnesia o con i sogni, con la com-pulsione a fare ciò che un simbolo azzeccato possa suggerire occhieggiando da un’insegna, da un cartellone, da un vessillo».29

4. Il simbolo: una socialità e una soggettività differenti

come si è visto, la modernità occidentale sembrerebbe essersi trovata costretta – per varie ragioni – a circoscrivere l’ambito del simbolo a figure marginali, quali bambini, primitivi, folli. Per tutti gli altri, per i normali, l’unica forma legittima e standard di autorità è stata tradizionalmente con-siderata quella della ragione autonoma, intesa nei termini di una essenza esclusivamente pensante (res cogitans) che si applica alla conoscenza di una realtà sostanzialmente riducibile ad aspetti quantificabili e misurabili (res extensa).

Agli albori della modernità, la posta in gioco di questa operazione era perlomeno duplice. in primo luogo, era in gioco l’esigenza di garantire la possibilità di una rapporto oggettivo e neutro con la realtà, in termini funzionali alle esigenze della scienza moderna: la possibilità, dunque, di

29 e. zolla, L’idea d’un dizionario dei simboli, in id., Conoscenza religiosa. Scritti 1969-1983, a cura di g. Marchianò, edizioni di Storia e letteratura, roma 2006, pp. 393-398: 395 (ed. or. in: «conoscenza religiosa», 2, 1977, pp. 112-117).

166 Stefano Biancu

postulare la figura di un osservatore neutrale, totalmente distaccato e di-sinteressato rispetto all’oggetto della propria osservazione.

in secondo luogo, era in gioco l’esigenza di fare giustizia di eccessive pretese di mediazione, provenienti da istanze di natura sia politica che religiosa: occorreva dunque affermare l’immediatezza di alcuni diritti es-senziali dell’individuo, diritti da riconoscere a chiunque in quanto essere umano, fin dal primo istante di vita. Si trattava, in altri termini, di uno dei presupposti essenziali, e irrinunciabili, del moderno liberalismo.

in questo senso, la grande rappresentazione teorica di una netta distin-zione di res cogitans e res extensa ha avuto il merito di assicurare e di garanti-re la nascita e lo sviluppo della scienza moderna, come anche del moderno stato di diritto. Meriti enormi e preziosissimi.

i problemi sono però nati nel momento in cui si è ritenuto che tale rap-presentazione potesse esaurire in se stessa l’intero dell’esperienza umana. consegnare a questa grande rappresentazione le chiavi della metafisica, e dunque la possibilità di dire una parola definitiva ed esauriente rispetto all’umanità dell’uomo, ha infatti comportato che alcuni ambiti dell’espe-rienza umana siano divenuti assolutamente incomprensibili – è certamente il caso del simbolo – e si sia dunque rivelato necessario catalogarli come casi eccezionali e non significativi: propri di mondi marginali quali il mon-do dei bambini, quello dei primitivi o dei pazzi. in questo senso, il simbolo ha rappresentato un’anomalia – nel senso indicato dall’epistemologo ame-ricano Thomas Kuhn30 – che a lungo si è cercato di spiegare e di compren-dere all’interno del paradigma antropologico della modernità occidentale: riconducendola cioè o a deviazioni patologiche (è il caso dei pazzi) o a stadi di uno sviluppo non ancora giunto al proprio compimento (come a riguardo di bambini e primitivi).

non a caso, come si è visto, nel corso del XX secolo si sono registrati importanti tentativi di superamento di quel paradigma: tentativi che han-no mostrato come l’esperienza del simbolo riguardi il pieno dell’umanità dell’uomo e non sia dunque semplicemente riconducibile a forme pato-logiche o a stadi incompiuti di sviluppo. Da questi tentativi emerge una figura di soggettività e di socialità molto diversa da quella che la modernità ha saputo e potuto rappresentare.

30 Su Kuhn si veda quanto si dirà più avanti.

167Il simbolo: nuove evidenze e antichi legami

4.1. Ciascuno è donato a se stesso: una socialità differente nel processo di riconsiderazione dell’antropologia della modernità, un

ruolo di primissimo piano lo hanno giocato, nel XX secolo, le cosiddette scienze umane: l’etnologia, la linguistica, l’antropologia culturale, gli studi sulla mentalità primitiva. È sufficiente ricordare il Saggio sul dono di Mar-cel Mauss31 per dare la misura del cambio epocale di prospettiva che si è prodotto. l’opera di Mauss è nota e non vale dunque la pena soffermarcisi oltre. Mi limito soltanto a ricordare come, a partire dalle sue osservazioni etnologiche sul mondo dei «primitivi», Mauss ritenesse di poter giungere ad alcune conclusioni di antropologia filosofica (che egli definiva, secondo il vocabolario del suo tempo, «conclusioni di ordine morale»): in qualsiasi epoca e in qualsiasi latitudine, e dunque anche presso le nostre società avanzate – sosteneva Mauss – una parte considerevole della morale e della socialità vive nella dimensione del dono, di un ibrido tra libertà e legame. cambiano certamente le proporzioni: in alcune società (come le nostre) prevale un’attitudine mercantile e utilitarista, mentre in altre (come le so-cietà arcaiche) prevale invece il valore simbolico delle cose. Mai però tali cose hanno valore esclusivamente mercantile; nelle proporzioni variabili di cui si è detto, esse conservano sempre un valore affettivo e simbolico che le rende indissociabili dalle persone e dai legami che esse contribuiscono a istituire. lo stesso diritto moderno conserverebbe in se stesso, secondo Mauss, tracce del dinamismo del dono: per esempio nel riconoscimento dei diritti d’autore (in forza del quale l’opera rimane essenzialmente legata al suo autore), come anche in molti dispositivi di Welfare State, che rappre-sentano in fondo una forma di liberalità che intende legare gli individui e tenere unite le società.

in breve: con il suo Saggio, Mauss ha mostrato la sostanziale insufficien-za dei due grandi paradigmi che tradizionalmente si sono contesi l’interpre-tazione della socialità dell’uomo: da una parte il paradigma individualista (per il quale la società nasce dal perseguimento di interessi privati ad opera di individui tra loro isolati) e, dall’altra parte, il paradigma collettivista (che afferma un primato, e in qualche modo un condizionamento, della società sull’individuo).32 in termini a noi più familiari, si tratta dell’alter-31 M. Mauss, Essai sur le don, «Année sociologique», serie ii, 1923-24, t. i.; poi in: id.,

Sociologie et anthropologie, Puf, Paris 1950; tr.it. di f. zannino, Teoria generale della magia e altri saggi, einaudi, torino 1965.

32 Di un terzo paradigma parla, ispirandosi proprio al contributo di Marcel Mauss, Alain caillè (Anthropologie du don. Le tiers paradigme, Desclèe de Brouwer, Paris 2000).

168 Stefano Biancu

nativa tra la prospettiva liberale (che riconosce all’inizio una “immunizza-zione” tra i soggetti) e la prospettiva comunitarista (per la quale all’inizio c’è la “comunità”, con le sue leggi e il determinismo sociale che ne deriva).

Mettendo in luce le dinamiche del dono, Mauss ha mostrato come non siamo una somma di individui irrelati (come vorrebbe l’individualismo liberale), ma neanche siamo soggetti a ogni genere di condizionamento (secondo il modello collettivista e comunitarista): il dono è infatti social-mente obbligato, ma personalmente libero.

Anche in contesto di modernità avanzata, la relazione sociale autentica ha la forma del dono: a fondamento della communitas sta un cum-munus, la reciprocità di un dono, il quale domanda di essere messo in circolo, di essere accolto e scambiato. Per dirla nei termini che maggiormente interes-sano il nostro discorso, questo dono che ciascuno è chiamato a ricevere e a restituire (arricchito), acquista la forma di un dono autorevole, garantito da una storia (anche culturale e simbolica) che lo rende capace di istituire identità sociali e individuali. capace dunque di articolare il donatore e il donatario con un comune mondo culturale e simbolico (e, conseguen-temente, politico, sociale, religioso, economico…). All’interno di questo scambio di doni, ciascuno dona all’altro ciò di cui in realtà non dispone: dona all’altro la possibilità di divenire se stesso. Per usare le parole del filosofo Jean-luc Marion, ciascuno si scopre depositario del più intimo dell’altro.33

È evidente che qui si tratta di una socialità primaria, fatta di rapporti personali. Una socialità rispetto alla quale la socialità dello Stato, del mer-cato, della scienza – una socialità tra funzioni, dunque – non è che seconda-ria.34 Ma è anche evidente che il grande limite della modernità è stato pro-prio quello di aver dimenticato questa socialità primaria, appiattendola sul modello di una socialità secondaria e impersonale, finendo cioè per consi-derare le figure del soggetto di diritto, dell’homo oeconomicus, e dell’uomo di scienza come rappresentative (ed esaustive) dell’umanità dell’uomo. Si

33 cfr. J.-l. Marion, Le phénomène érotique, editions grasset & fasquelle, Paris 2003, p. 191; tr.it. di l. tasso, Il fenomeno erotico. Sei meditazioni, cantagalli, Siena 2007, p. 155.

34 cfr., su questo, A. caillé, Sortir de l’économie, in: Serge latouche (ed.), L’économie dévoilée : du budget familial aux contraintes planétaires, Paris, Autrement, 1995, pp. 177-189: p. 183; cfr. anche M. Aime, Da Mauss al MAuSS, in Marcel Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, einaudi, torino 2002, pp. Vii-XXViii: XXiVss.

169Il simbolo: nuove evidenze e antichi legami

tratta di figure accomunate dal presupposto di una individualità connota-ta – nel rapporto con se stessa, con le altre individualità e con l’ambiente in cui vive – da una radicale neutralità assiologica, culturale, affettiva (in sostanza: da una immunizzazione simbolica). il soggetto di diritto, l’ho-mo oeconomicus e l’uomo di scienza presuppongono infatti, ciascuno nel proprio ambito, la possibilità di una netta distinzione tra ciò che spetta a me e ciò che spetta all’altro (è il piano del diritto),35 tra il mio e l’altrui (è il piano dell’economia), tra ciò che è soggettivo e ciò che è oggettivo (è il piano della scienza). Distinzioni sconosciute, come si è visto, al dinamismo del dono.36

Prendere sul serio la figura dell’homo symbolicus, l’uomo la cui socialità vive delle dinamiche del dono, significa dunque riconoscere come simili rigide distinzioni non siano affatto originarie: significa riconoscere non soltanto che esiste una umanità antecedente a tali distinzioni, ma pure una umanità che sopravvive ad esse. la socialità ispirata alle dinamiche del dono non è il risultato di una scelta etica, ma è la modalità originaria e fon-damentale del nostro rapporto con gli altri, col mondo e con le cose. essa non mira all’equilibrio, a stabilire il mio e il tuo, il soggettivo e l’oggettivo; mira piuttosto ad una certa condizione di debito, capace di mantenere i legami: una situazione nella quale ciascuno è sempre debitore e, ad un tempo, creditore nei confronti degli altri.

È chiaro che l’eguaglianza e la giusta restituzione del dovuto che ispi-rano e regolano la socialità secondaria dello Stato e del mercato non sono 35 Penso qui, evidentemente, al fondamentale precetto del diritto romano «unicuique

suum» (derivato da «suum cuique tribuere» e tramandato da cicerone in vari scritti): a ciascuno il suo. formula che, nella variante tedesca «Jedem das Seine», è tragicamente divenuta il motto del campo di concentramento nazista di Buchenwald.

36 È forse opportuno osservare come la grande intuizione di Marcel Mauss non sia stata semplicemente quella di interpretare il fenomeno del dono come un caso particolare di simbolismo, ma – reciprocamente – di leggere e comprendere il simbolo come una forma di dono: di uno scambio ad un tempo gratuito e obbligatorio, libero e legato. il simbolo è sempre un «dono» che esige di essere messo in circolo. Ha scritto a questo proposito Pavel florenskij: «noi non possiamo inventare i simboli, essi vengono da sé, quando ti riempi di un altro contenuto. Questo altro contenuto, come traboccando dalla nostra personalità non abbastanza capiente, si cristallizza in forma di simboli e noi ci scambiamo questi mazzolini di fiori e li comprendiamo perché un mazzolino sul nostro petto si disfa di nuovo, trasformandosi in ciò da cui era stato creato. [...] È come se si giocasse a tennis: dappertutto nell’aria volano mazzolini. Si può forse dire: “Que-sto è il mio mazzolino?”» (A. Belyj – P. A. florenskij, L’arte, il simbolo e Dio. Lettere sullo spirito russo, ed.it. di g. giuliano, Medusa, Milano 2004, pp. 51-55: 53-54).

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riducibili ad una simile socialità primaria, fatta di legami, di debiti e di doni. eppure né lo Stato né il mercato possono esserne indifferenti: una autentica socialità primaria (tra persone) rimane pur sempre uno dei pre-supposti essenziali di un’autentica socialità secondaria (tra funzioni).37

4.2. Ciascuno è donato a se stesso: una soggettività differente Quanto detto rende evidente l’inadeguatezza della rappresentazione di

una socialità condotta da individui (originariamente) irrelati e costretti alla vita in società per semplice calcolo d’interesse. esseri dunque obbligati a rinunciare ad una parte della propria libertà in nome dei benefici della vita in comune. Siamo invece esseri iscritti in una socialità fatta di scambi sim-bolici: in un sistema di doni e controdoni autorevolmente capaci di attivare, portare a maturazione e garantire identità sociali e personali, soggettività mature, consapevoli e capaci di scelte libere.

Questa socialità, così alternativa rispetto alle grandi rappresentazioni teoriche della modernità, porta con sé – è anzi tutt’uno con – una rappre-sentazione altrettanto alternativa della soggettività, in forza della quale non siamo pure sostanze pensanti, capaci di un rapporto immediato e oggettivo con noi stessi, con gli altri, con il mondo. Siamo piuttosto un miscuglio di interiorità ed esteriorità, di spirito e di carne, che giunge a sé stesso, agli altri, alle cose, per mezzo di mediazioni (riconosciute come) autorevoli. certamente attraverso la mediazione dello sguardo e del volto altrui: siamo infatti abilitati a ri-conoscerci nella misura in cui un altro ci riconosce, a dire «io» nella misura in cui un altro io ci riconosce come un tu; come ha mostrato Hegel, in questo anche il signore dipende dal suo servo.

Ma giungiamo alla verità di noi stessi anche attraverso la mediazione di oggetti, gesti, parole, simbolicamente istituiti; capaci di introdurci nell’or-dine simbolico e culturale al quale essi stessi appartengono e capaci così di istituirci come soggetti.

Sia chiaro: non si tratta di novità assolute, ma di questioni sulle quali la filosofia è al lavoro da decenni. come è noto, già il padre della fenomeno-logia edmund Husserl aveva cercato di superare, nella Krisis,38 la prospet-

37 Su questo punto il discorso potrebbe essere molto lungo. Mi limito dunque a ri-mandare al mio La questione dell’autorità, in S. Biancu – g. tognon, Autorità: una questione aperta, Diabasis, reggio emilia 2010, pp. 9-76.

38 Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie. Eine Einleitung in die phänomenologische Philosophie (1936), Springer, Berlin 1976; tr.it. di e. filippini, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, il

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tiva soggettivista («egologica») della tradizione e delle sue opere precedenti, soprattutto attraverso la categoria di mondo della vita («lebenswelt»): un mondo comune, una vita comune, sempre precedente a ogni possibile af-fermazione soggettiva. tale mondo della vita non sarebbe altro che un’at-titudine pratica e antepredicativa, precedente cioè ogni categorizzazione e ogni giudizio: una sorta di inaggirabile pre-giudizio proveniente da sedi-mentazioni tradizionali (cfr. in particolare il § 15 della Krisis), un luogo comune, appunto. Molti altri, al suo seguito, hanno sviluppato queste intu-izioni, ma è stato certamente Maurice Merleau-Ponty ad averle sviluppate nel modo più fecondo per il nostro discorso; nelle lezioni tenute al collège de france nel 1954/1955, egli ha infatti proposto una sostituzione termi-nologica di grande interesse: al posto del termine (in origine kantiano) «costituzione», tradizionalmente caro alla fenomenologia, egli ha infatti proposto di introdurre il termine «istituzione». Si tratterebbe cioè di rico-noscere come il mondo non sia, in primo luogo, costituito («constitué») dal soggetto (trascendentale): questi se lo troverebbe anzi davanti già sempre culturalmente e simbolicamente istituito («institué»).39 costituzione e isti-tuzione rappresenterebbero, in questo senso, due opposti: mentre ciò che è costituito ha senso soltanto per me, e per me in uno specifico momento, ciò che è istituito ha senso prima di me e anche senza di me.40

riconoscere questa precedenza mai del tutto disponibile significa, se-condo Merleau-Ponty, non soltanto riconoscere qualcosa che fonda ogni ipotetico contratto sociale: il presupposto dunque di una socialità alter-nativa rispetto a quella – sostanzialmente procedurale – che la moderni-tà ha elevato a paradigma di ogni possibile socialità. riconoscere questa precedenza significa anche affermare l’insufficienza di quel primato della coscienza che ha tradizionalmente dominato la filosofia occidentale, perlo-meno da cartesio a Husserl: un primato in forza del quale tra il soggetto e la sua coscienza vi sarebbe una coincidenza perfetta e senza residui, con la

Saggiatore, Milano 1997.39 Per quanto segue faccio riferimento al testo delle lezioni tenute da Merleau-Ponty al

collège de france nel 1954-1955 (L’institution dans l’histoire personnelle et publique / Le problème de la passivité : le sommeil, l’inconscient, la mémoire : notes de cours au Collège de France (1954-1955), Belin, Paris 2003). A questo proposito pagine molto belle si trovano in M. revault d’Allonnes, Le pouvoir des commencements. Essai sur l’autorité, cit., pp. 203-259.

40 «constituer […] est presque le contraire d’instituer : l’institué a sens sans moi, le con-stitué n’a sens que pour moi et pour le moi de cet instant» (L’institution dans l’histoire personnelle et publique, p. 37).

172 Stefano Biancu

conseguente marginalizzazione del mondo del simbolo di cui si è detto.41 nella nozione di istituzione Merleau-Ponty vede, non a caso, la possibilità di rimediare alle difficoltà nelle quali tale filosofia della coscienza non può non cadere.42

tali considerazioni avvicinano molto le lezioni di Merleau-Ponty al collège de france alle riflessioni proposte – qualche anno dopo e, preci-samente, nel 1959 – da Paul ricœur, nel suo celebre saggio «Le symbole donne à penser». Secondo ricœur, soltanto una meditazione sui simboli sa-rebbe infatti in grado di rispondere a una certa condizione problematica in cui versano la filosofia e, probabilmente, la stessa cultura contemporanea. ripartire dal simbolo significherebbe infatti, secondo ricœur, sfuggire alle difficoltà legate alla questione del punto di partenza in filosofia43 e alla delusione legata all’idea di filosofia senza presupposti.

riconsiderare il simbolo significherebbe cioè abbandonare l’illusione di poter partire da zero, da un vuoto di presupposti, per accettare invece la necessità di partire dal pieno del linguaggio («du plein du langage») e del senso che è già là, da presupposti autorevoli che danno a pensare: che domandano di pensare, ma che al contempo permettono di pensare. Una meditazione a partire dai simboli rappresenterebbe così, secondo ricœur, il pensiero con tutti i suoi presupposti: al di là del deserto della critica.

nelle conclusioni di questi grandi maestri della filosofia, prendere sul serio il mondo del simbolo significa dunque riscoprire una socialità e una soggettività molto differenti da quelle tradizionali in modernità. Una so-cialità ed una soggettività nelle quali l’autorità di presupposti autorevoli e finalmente indisponibili si rivela tanto inaggirabile quanto decisiva.

5. Simboli autorevoli o autoritari? Alla ricerca di un criterio

Un’ultima questione mi pare rimanga da affrontare: esiste un criterio che consenta di valutare l’autorevolezza dei simboli? Un criterio che con-

41 emblematico, in questo senso, l’ambito del sogno e dell’onirico, tradizionalmente tra-scurato da una filosofia occidentale che ha preferito occuparsi del soggetto in quanto ego insonne. Su questo mi permetto di rimandare a S. Biancu, «Sogno», in: Enciclope-dia Filosofica, Bompiani, Milano 2006.

42 cfr. L’institution dans l’histoire personnelle et publique, p. 123.43 cfr. P. ricœur, Le symbole donne à penser, «esprit», 7-8, Juillet-Août 1959, pp. 60-76:

60-61; tr.it. di i. Bertoletti, Il simbolo dà a pensare, Morcelliana, Brescia 2002, pp. 7-9.

173Il simbolo: nuove evidenze e antichi legami

senta dunque di distinguere tra simboli autorevoli e autoritari (o ideolo-gici)?

l’ipotesi fin qui avanzata è che lo spazio e il ruolo del simbolo siano apprezzabili soltanto a condizione di prendere sul serio la figura antro-pologica dell’animale simbolico, ovvero riconoscendo che ogni dinamica simbolica si iscrive nella nostra condizione di animali corporei e parlanti: condizione che rende manifestamente insufficiente la finzione cartesiana di una soggettività ridotta ad una (mera) interiorità che si applica immedia-tamente alla conoscenza di (mere) esteriorità. Al fine di pervenire a un cri-terio di valutazione dell’autorevolezza dei simboli, occorre però aggiungere che tale ipotesi, se vuole preservare la propria veridicità, non deve essere estenuata: per quanto necessaria, essa non è cioè sufficiente. Se infatti, per un verso, è vero che soltanto all’homo symbolicus è possibile esperire ed apprezzare le dinamiche autorevoli dei simboli (qui l’ipotesi dice il vero), è però altrettanto vero che, ad un uomo esclusivamente simbolico, mancherà sempre la possibilità di distinguere tra ricchezza e perversione del simbolo: tra il suo volto autorevole, origine di umanità e di libertà, e il suo volto au-toritario e ideologico, fonte di dominio e di mortificazione di quella stessa umanità e libertà che essa dovrebbe invece garantire (qui l’ipotesi non dice dunque abbastanza).

in questo senso, la riscoperta della pertinenza antropologica della fi-gura dell’animale simbolico è un passo necessario da compiere, ma non può condurre ad una netta alternativa, come se si trattasse di scegliere, in termini di aut-aut, tra una definizione dell’uomo o quale animale simbo-lico o quale animale razionale. Detto altrimenti: se la figura antropologica dell’animale simbolico fosse semplicemente alternativa a quella dell’uomo “animale razionale”, la questione del simbolo rimarrebbe del tutto slegata dalla possibilità di giungere a determinare un criterio della sua autorevolez-za e il percorso fin qui compiuto non potrebbe che rivelarsi del tutto inu-tile e insoddisfacente: il simbolo rimarrebbe un’illusione da bambini, da primitivi, da pazzi. Se tra autorevolezza e autoritarismo (o ideologia) non ci fosse distinzione possibile, ogni simbolo che si pretendesse autorevole rappresenterebbe una minaccia per la nostra umanità e per la nostra libertà e sarebbe dunque da rigettare.

Se è dunque necessario riconoscere, secondo l’ipotesi iniziale, che l’im-mediatezza del pensiero non può che rivelarsi un’illusione nel momento in cui se ne dimentichino alcune imprescindibili mediazioni (corporee,

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linguistiche, e dunque simboliche, culturali…), è ora necessario ricono-scere anche l’inverso: quelle mediazioni corporee, linguistiche, simboliche, culturali, rappresentano a loro volta delle immediatezze – mondi all’inter-no dei quali si abita prima ancora di averne coscienza, Lebenswelten – che richiedono necessariamente di essere portati a coscienza attraverso una me-diazione del pensiero critico. Qui si rivela una struttura di tipo circolare: da un lato l’esercizio di un pensiero critico è legato alla mediazione di pre-supposti autorevoli, ma dall’altro lato questi ultimi rappresentano, a loro volta, delle immediatezze che il pensiero critico è chiamato a mediare.44 l’animale razionale ha cioè l’animale simbolico come suo presupposto, come sua mediazione, ma questo animale simbolico deve essere (almeno in parte) sottratto all’immediatezza se vuole la garanzia che i presupposti della sua umanità agiscano, autorevolmente, in vista di un pieno dispiegamento di questa stessa umanità e non, autoritariamente, come freno (corporeo, culturale, ideologico) alla pienezza umana che egli è chiamato a realizzare. non nel senso, però, che di questi presupposti si debba conseguire una tra-duzione razionale (questo era in fondo il sogno di freud e della psicanalisi: liberare l’uomo dai suoi presupposti attraverso la chiarezza del concetto e della parola), ma nel senso che il pensiero non può non ritornare sui suoi presupposti: non può lasciarli del tutto immediati. il problema è dunque di comprendere in che modo questo avvenga.

Sia chiaro: dato che ciascuno è già da sempre inserito in un determinato orizzonte simbolico-culturale (ovvero: in quanto ciascuno è anche e sem-44 in realtà, questo circolo di immediatezza e mediazione vive già (prima di ogni media-

zione critica) nella stessa coscienza simbolica, all’interno della quale l’immediato e il mediato si scambiano continuamente di posto. Per un verso non si dà una percezione immediata del referente del simbolo (ma solo mediata dal simbolo stesso), eppure per altro verso il simbolo è immediatamente percepito come autorevole in quanto implica una qualche immediata percezione di ciò a cui esso rimanda: di un senso che lo travali-ca e lo supera. Valgano su questo le osservazioni di Virgilio Melchiorre: «il movimento della coscienza simbolica va […] da un significato immediato al significato che lo media e lo ricomprende, ma i termini andrebbero – su un altro piano – pronunziati in senso inverso: il significato che media è in realtà quello che illumina e fonda e che, in quanto tale è una prima immediatezza. Si ha, insomma, quel che novalis chiamava una conoscenza ‘antitetico-sintetica’: una conoscenza ‘immediata e ad un tempo me-diata dall’immediato, reale e ad un tempo simbolica’ (fr. 1670 in Werke, a cura di e. Wasmuth, Heidelberg 1953-1957, ii, pp. 438-44; tr.it. di e. Pocar, frammenti, riz-zoli, Milano 1976, p. 152)» (V. Melchiorre, Essere e parola. Idee per una antropologia metafisica, Vita e Pensiero, Milano 19934, p. 183). «il pensare analogico ha, dunque, una struttura di tipo circolare» (p. 184).

175Il simbolo: nuove evidenze e antichi legami

pre un animale simbolico), il problema non è qui di stabilire se sia possibile l’esercizio di un pensiero critico: questo non è un problema né interessante né risolvibile (a meno di riconoscere che la posizione del problema testi-monia evidentemente di un pensiero critico in atto). la questione è semmai un’altra: si tratta cioè di chiedersi (1) come, a quali condizioni, un pensie-ro critico sia possibile e (2) che genere di pensiero critico questo sia. la tradizionale finzione di un pensiero critico radicalmente voraussetzunglos, privo di presupposti, risolveva il problema alla radice, ma – come si è visto – creava più difficoltà di quante non permetesse di superarne. la questione è dunque ora di domandarsi in che modo quei presupposti (corporei, lin-guistici, simbolici e culturali) possano permettere l’esercizio di un pensiero critico. Per dirla con ricoeur: come possa un pensiero essere al contempo legato e libero.

5.1. Dal testo all’azioneAffrontare la questione del «criterio» significa necessariamente fare i

conti con il dibattito che a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso ha visto contrapposte l’ermeneutica delle tradizioni proposta da Hans-georg gadamer (con la riabilitazione di nozioni quali pregiudizio, tradizione, au-torità) e la critica delle ideologie teorizzata da Jürgen Habermas (con il suo porre l’interesse per l’emancipazione a fondamento di ogni approccio cri-tico); dibattito giunto ad una sintesi, com’è noto, nella proposta che Paul ricoeur ha posto sotto il titolo della necessità di una «ermeneutica critica».

non è necessario ricostruire qui tutti i passaggi del dibattito.45 Alla no-stra indagine sarà sufficiente ricordare come ricoeur ritenesse necessario tenere insieme l’istanza ermeneutica gadameriana e l’istanza critica haber-massiana, rifiutando in questo modo un’alternativa netta tra ermeneutica e critica alle ideologie. A tal fine egli osservava come l’ermenutica rechi sempre con sé un’istanza critica: la comprensione (ermeneutica) di un te-sto costituisce infatti anche una comprensione di se stessi davanti al testo e dunque una «possibilità fondamentale per una critica delle illusioni del

45 lo fa molto bene lo stesso ricoeur in Herméneutique et critique des idéologies, in e. castelli (ed.), Démythisation et idéologie : actes du colloque organisé par le Centre inter-national d’études humanistes et par l’Institut d’études philosophiques de Rome, rome, 4-9 janvier 1973, Aubier-Montaigne, Paris 1973, pp. 25-64 (poi ripreso in P. ricoeur, Du texte à l’action: essais d’herméneutique II, Seuil, Paris 1986, pp. 333-377; tr.it. di g. grampa, Dal testo all’azione. Saggi di ermeneutica, Jaca Book, Milano 1989, pp. 321-363).

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soggetto»:46 una forma di sospensione dell’immediato autopossesso del soggetto e dunque di sostanziale critica alle ideologie individuali. D’altro canto egli osservava anche come ogni critica si inserisca infine in «una tradizione»47 e non possa dunque vantare un vuoto assoluto di presupposti: vanta cioè anch’essa una sua genealogia e richiede dunque un certo eserci-zio ermeneutico. ricoeur poneva così in tensione dialettica ciò che prima di lui era stato sostanzialmente pensato come alternativo.

ora, ciò che però mi pare manchi nella soluzione proposta da ricoeur (come già mancava, del resto, nell’approccio gadameriano) è il tentativo di porre la questione delle condizioni di possibilità di una critica applicata a tradizioni che si pretendano autorevoli. Se infatti è vero che la compren-sione di un testo pone il soggetto a distanza da sé stesso – media dunque la soggettività del soggetto – ed è in questo senso liberante rispetto a illusioni soggettive, è però anche vero che questa soluzione non risolve il problema di come sia possibile giudicare rappresentazioni del mondo non semplice-mente soggettive e dunque smascherare quel genere di illusioni collettive che è rappresentato dalle ideologie in senso proprio.

Sebbene ricoeur riconosca che il confronto con il testo assicura una mediazione della soggettività (contribuendo così alla formazione di una soggettività differente rispetto a quella precedente al confronto), mi pare che egli non tenga nel dovuto conto che il soggetto che si confronta con il testo non è un soggetto monolitico, ma un soggetto già «mediato» da alcune inaggirabili mediazioni comunitarie e collettive, soprattutto di na-tura simbolica e linguistica. Questo comporta che le ideologie di cui è portatore potrebbero non essere delle illusioni semplicemente soggettive (à la freud).

e dunque, di nuovo: quale può essere il criterio per giudicare la pretesa autorevolezza di un’autorità intesa in senso forte? l’autorità cioè di una tradizione o di una grande rappresentazione simbolica – culturale, religio-sa, politica, economica: non importa se implicita o esplicita – del mondo?

la questione è evidentemente enorme e non sarà qui dunque possibile fare molto più che porre il problema e indicare una possibile via d’uscita, ancora tutta da verificare e da percorrere.

Propongo di porre l’indicazione di questa possibile alternativa sotto il titolo, ricoeuriano, dal testo all’azione. chiarisco subito però che l’espres-

46 Du texte à l’action: essais d’herméneutique II, p. 370; tr.it. p. 356.47 Du texte à l’action: essais d’herméneutique II, p. 376; tr.it. p. 362.

177Il simbolo: nuove evidenze e antichi legami

sione ha qui un senso differente rispetto a quello che ricoeur dava a queste parole e non deve dunque essere compresa nel senso che il modello dell’in-terpretazione di un testo possa servire per l’azione.48 essa deve essere intesa piuttosto nel senso della necessità di passare da una filosofia del testo – che legge il simbolo e la tradizione attraverso il paradigma della scrittura e del libro – ad una filosofia dell’azione.

l’ipotesi che vorrei avanzare è dunque la seguente: la ricerca di un crite-rio che consenta di giudicare e discernere tra simboli autorevoli e simboli auto-ritari (o – a seconda dei piani – ideologici), e dunque tra strumenti di libertà e strumenti di dominio, richiede di abbandonare la metafora del testo quale grande paradigma esemplificativo di ogni autorità e tradizione.

la metafora del testo suppone infatti che ogni autorità (tradizionale) e ogni tradizione (autorevole) sia portatrice di un contenuto preciso, e rechi dunque traccia di un’intenzione previa e cosciente da parte di un autore. tutto questo, però, non solo non sempre avviene, ma anche quando avvie-ne non è affatto decisivo rispetto all’autorevolezza della tradizione.

in questo senso la metafora del testo appare troppo costringente e non consente di apprezzare – nell’ottica di una ermeneutica critica delle tradi-zioni – il ruolo di vero e proprio paradigma per l’esperienza (del mondo) e per l’azione (nel mondo) che tali tradizioni autorevolmente esercitano.

la ricerca di un criterio che consenta di discernere tra autorevole e au-toritario (o ideologico) non può dunque non tenere conto di questa ricca complessità di ciò che fa davvero autorità. Se l’autorità di una tradizione ha a che fare prima di tutto con esperienze e con azioni e dunque con forme di vita e con modi di essere, è evidente che per comprenderla e per metter-si nelle condizioni di poterla valutare, è necessario passare dal paradigma interpretativo del testo a quello dell’azione.

in questo senso, se la riscoperta dell’inaggirabile mediazione del cor-po ci ha fin qui portati a rivalutare la funzione autorevole di presupposti simbolici e linguistici nella formazione del pensiero – come anche della libertà e dell’umanità stessa dell’uomo – è ora necessario compiere un pas-so ulteriore e riconoscere che non solo il corpo sta inevitabilmente prima del pensiero critico, ma che il pensiero critico è esso stesso corporeo: è esso stesso intriso di esperienza e di azione.48 Penso per esempio al saggio The Model of the Text : Meaningful Action considerd as a

Text, in «Social research», 38/3 (1971), pp. 529-562; tr.it. Il modello del testo: l’azione sensata considerata come un testo, in Dal testo all’azione. Saggi di ermeneutica, pp. 177-203.

178 Stefano Biancu

5.2. La tradizione come paradigma per l’esperienza e per l’azionePrima di procedere oltre, mi pare che l’indagine intorno alla funzione

paradigmatica che le tradizioni esercitano nei confronti dell’esperienza e dell’azione, richieda alcuni chiarimenti preliminari. Un notevole contribu-to in questa direzione può giungere dalla nota teoria elaborata, in chiave di filosofia della scienza, da Thomas Kuhn.49 la domanda fondamentale da cui prende le mosse la riflessione di Kuhn appare certamente molto differente dalla nostra: si tratta infatti della questione dello sviluppo delle dottrine scientifiche, ovvero della questione dello statuto di dottrine che nel passato sono state considerate scientifiche, ma che nel presente non lo sono più: Kuhn si domanda cioè se tali dottrine, abbandonate nel cor-so dell’evoluzione delle scienze, siano catalogabili come semplici errori e superstizioni oppure, se considerate nel loro contesto, non siano meno scientifiche di quelle oggi ritenute valide.

A ben vedere però, tale questione presenta più di qualche attinenza con il nostro problema di giungere a un criterio che permetta di distinguere tra simboli autorevoli e simboli invece autoritari (o ideologici). in entrambi i casi si tratta infatti di cercare un criterio per giudicare differenti e – come direbbe Kuhn – «incommensurabili» maniere di guardare al mondo. la teoria kuhniana è nota e non mi ci soffermo dunque oltre.

in che senso però la teoria di Kuhn può agevolare la nostra ricerca di un criterio che consenta di distinguere tra simboli autorevoli e simboli autori-tari (o ideologici)? Mi pare possa farlo su almeno due versanti.

in primo luogo può aiutare a chiarire la funzione paradigmatica che le tradizioni svolgono nei confronti dell’esperienza e dell’azione. come i paradigmi che sovrintendono e indirizzano il lavoro scientifico, anche le tradizioni operano – ad un precedente livello antropologico/cognitivo – una vera e propria creazione dell’esperienza significativa e della conseguen-te prassi umana. l’esperienza è cioè mediata dal paradigma fornito dalle tradizioni: come si è visto, questa è, ad esempio, la funzione delle lingue naturali, dei grandi sistemi simbolico-culturali, ma anche delle religioni e delle grandi narrazioni collettive (politiche, economiche, sociali…).

in secondo luogo, mi pare sia particolarmente illuminante la sottoli-neatura del carattere di «incommensurabilità» che caratterizza, secondo

49 t. Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions (1962), chicago University Press, chicago 19702; tr.it. di A. carugo, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, einaudi, torino 1969.

179Il simbolo: nuove evidenze e antichi legami

Kuhn, i diversi paradigmi. Questa caratteristica non può infatti non met-terci sull’avviso che, anche nel caso di grandi paradigmi tradizionali, è vano cercare un criterio di giudizio e di valutazione nel senso di una comune “misura”, che sia esterna ai diversi paradigmi, ad essi superiore e con essi nient’affatto compromessa. non esiste insomma un terreno che consenta un confronto dei differenti paradigmi in campo neutro: non esiste nessuna struttura comune che consenta una simile comparazione. Mi pare che la ricerca di un criterio che consenta di distinguere tra autorevole e autorita-rio/ideologico non possa non fare seriamente i conti con questa intuizione kuhniana.

Sia chiaro: l’impossibilità di giungere a una “misura comune” non signi-fica che si debba rinunciare alla ricerca di un criterio, anzi. Un contributo significativo mi pare possa giungere, in questo senso, dalla nozione kuh-niana di «anomalia». com’è noto, nella teoria di Kuhn risulta “anomalo” ciò che un’esperienza e una prassi improntate al paradigma ermeneutico di appartenenza non riescono a collocare nella grande struttura interpretativa fornita dal paradigma stesso. ora, questa intuizione kuhniana non può non suggerirci il fatto che le questioni che sorgono nella comparazione tra differenti tradizioni autorevoli (o tra differenti autorità tradizionali) concer-nono prima di tutto l’adeguatezza al reale delle loro stesse categorie. non nel senso che sia possibile confrontare un’esperienza condotta all’interno del paradigma con un’esperienza neutra e priva di presupposti, ma piuttosto nel senso che un’esperienza informata a determinati presupposti potrebbe dare esiti incompatibili con quegli stessi presupposti.

la teoria delle rivoluzioni scientifiche di Thomas Kuhn ci offre così una prospettiva nuova per la ricerca di un criterio che consenta di giudi-care e di distinguere tra autorevole e autoritario/ideologico. tale criterio non può essere cercato nell’ambito di una ragionevolezza spavaldamente neutrale e voraussetzunglos, priva di presupposti. Può però essere cercato all’interno di un’esperienza e di una pratica informate ad un particolare pa-radigma linguistico, simbolico-culturale, religioso, politico od economico: esso diventa così il criterio dell’adeguatezza al reale – adeguatezza verificata nell’esperienza e nella pratica – dei presupposti che informano quella medesi-ma esperienza e quella medesima pratica. È chiaro che una simile prospettiva – che rinuncia a un criterio di giudi-zio neutro e universale – non è priva di coseguenze. in primo luogo, essa comporta che il criterio di giudizio sia disponibile soltanto alla fine e non

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all’inizio: si è cioè in grado di riconoscere l’autorevolezza o l’autoritarismo di uno schema di esperienza e di azione soltanto attraverso una pratica concreta che possa verificarne l’adeguatezza al reale (nel senso sopra chiari-to). Di conseguenza – e secondariamente – comporta che la critica, il pen-siero critico, non si costruisce di contro alle tradizioni, ma che è anzi una funzione interna alle tradizioni stesse (nel senso appena chiarito). in terzo luogo, comporta che il pensiero critico non ha il corpo semplicemente come suo presupposto inaggirabile, ma pure che esso può prendere forma e sostanza soltanto attraverso l’esperienza e la pratica del corpo. comporta cioè che il corpo sia a tutti gli effetti parte della ragione critica.

5.3. Il criterio dell’azioneriepilogando: le nozioni kuhniane di paradigma, di incommensura-

bilità e di anomalia, applicate al problema della critica delle tradizioni (queste ultime intese quali orizzonti e costellazioni simboliche autorevoli), sembrano indicare una direzione nella ricerca di un criterio di valutazione della tradizione, mostrandoci come un criterio adeguato di giudizio non possa essere rinvenuto nell’ambito di una presunta razionalità neutra e priva di presupposti, ma debba essere piuttosto cercato nel senso di un criterio di ade-guatezza di un’esperienza (del mondo) e di un’azione (nel mondo) informate ad alcuni presupposti, a quei medesimi presupposti. la critica di una tradi-zione non può dunque che compiersi nella verifica, attraverso l’esperienza e l’azione, della sua adeguatezza al reale: non ovviamente nel senso di un reale in sé, ma di un reale esperito all’interno del paradigma stesso. l’eser-cizio del criterio dell’adeguatezza risponde in questo senso alla logica kuh-niana dell’anomalia: un’esperienza e una pratica interni a un determinato paradigma entrano in conflitto con il paradigma stesso nel momento in cui dovessero incontrare, in actu esercito, delle anomalie rispetto a quanto ci si potrebbe attendere di incontrare sulla base del paradigma stesso.

in fondo l’indicazione di questa direzione di ricerca – che queste pagine hanno evidentemente soltanto la forza di ipotizzare – mi pare trovi alcune importanti conferme nella storia travagliata del XX secolo. Se si pensa al crollo delle grandi ideologie nate tra XiX e XX secolo, occorre riconoscere che tale crollo è in genere avvenuto non in forza di potenti argomenti di ra-gione «esterni» e «neutri», ma nel momento in cui l’esperienza e la pratica non sono più state capaci di superare alcune «anomalie» difficilmente com-patibili con i presupposti stessi di quelle grandi costruzioni ideologiche.

181Il simbolo: nuove evidenze e antichi legami

l’argomento è delicato e non è bene insistere troppo su di esso, visto che le anomalie in questione si sono spinte fino ad assumere le forme tragiche del forno crematorio e del gulag. È però fuor di dubbio che l’esperienza e la pratica fondate su alcune utopie tendenti a costruire una società e un’uma-nità migliori (o, meglio, a costruire la società e l’umanità perfetta) abbiano trovato in Auschwitz e nei gulag delle anomalie insuperabili.

D’altro canto, nella storia del pensiero non sono pochi gli esempi di «conversione» (da un paradigma all’altro) a seguito dello scontro diretto con alcuni frutti anomali nell’ambito della pratica e dell’esperienza. Per limitarsi al XX secolo, basterebbe qui pensare al potere che ebbe sulla gio-vane filosofa ebrea Jeanne Hersch il dover fare i conti in presa diretta con l’«anomalia» rappresentata dall’adesione di Martin Heidegger al nazismo: evento che determinò in lei un completo crollo di credibilità di tutti i presupposti del pensiero del maestro, nozione greca di verità compresa.50

Un’esperienza simile è poi alla base di quello che potrebbe essere defini-to il maggiore cambiamento di paradigma avvenuto nella teologia cristiana del XX secolo: secondo la testimonianza di Karl Barth, fu l’apparizione del manifesto dei 93 intellettuali tedeschi che si identificavano nella politica bellica della germania, firmato agli albori della prima guerra mondiale da tutti i suoi maestri tedeschi di teologia, che fece vacillare in lui un modo di fare teologia – in senso liberale – che egli aveva fino ad allora ritenuto so-stanzialmente credibile, producendo così quella vera e propria rivoluzione copernicana di cui sarebbe stato portatore il suo commento alla lettera ai romani, soprattutto nella sua seconda edizione.51

ripeto: non è il caso di insistere troppo su questo genere di esempi, sempre un po’ scivolosi. Ma mi pare chiaro che essi testimoniano del po-tenziale critico di cui l’esperienza e la pratica sono capaci rispetto a gran-di paradigmi autorevoli. Se gli orizzonti simbolici tradizionali funziona-no innanzitutto come grandi paradigmi per l’esperienza e per l’azione, è prima di tutto nel campo dell’esperienza e dell’azione – da parte dunque dell’esperienza e dell’azione – che può esserne adeguatamente valutata l’au-torevolezza. Questo significa che il pensiero critico vive e si esercita nel pie-

50 cfr. su questo, J. Hersch, Eclairer l’obscur – Entretiens avec Alfred et Gabrielle Dufour, l’Age d’Homme, lausanne 1986.

51 cfr. su questa vicenda K. Barth, Nachwort, in Schleiermacher-Auswahl, a cura di H. Bolli, Siebenstern taschenbücher, München-Hamburg, pp. 290-312; tr.it. di A. grillo in K. Barth, Tre ritratti: Schleiermacher, Herrmann, Bultmann, Messaggero, Padova 1998, pp. 43-76.

182 Stefano Biancu

no di un’esperienza e di un’azione ricche di presupposti, e non nel vuoto ideale di ogni presupposto.

Si tratta di intuizioni e di ipotesi che – lo ripeto – queste pagine hanno però solo la forza di avanzare e non certo di dimostrare.

Ancora una questione mi pare rimanga tuttavia in sospeso. la dico così: rinvenire un criterio di giudizio all’interno delle singole tradizioni, rinunciando a un pensiero critico neutro e privo di presupposti, non im-plica forse ammettere un’impossibilità quasi ontologica che si realizzi una comprensione e una comunicazione tra soggetti appartenenti a tradizioni differenti?52 e, soprattutto, un simile approccio «dall’interno» non implica forse che una critica di tradizioni o comunque di paradigmi autorevoli/autoritari/ideologici differenti dai propri sia infine impossibile?

Si potrebbe certo rispondere che una critica ideologica è sempre possibi-le, nel senso che l’ideologia fornisce normalmente schemi concettuali ca-paci di criticare con efficacia ogni possibile paradigma esterno all’ideologia stessa. Ma questa non rappresenta evidentemente una risposta adeguata al nostro interrogativo, che va piuttosto nella direzione di verificare la possi-

52 Si tratta, com’è noto, del problema comunemente posto sotto il titolo di «naziona-lismo ontologico» e sul quale esiste ormai una ricca bibliografia, spesso critica. Mi limito qui soltanto a ricordare la recente e interessante (ma anche discutibile) proposta di Jean-Marc ferry, secondo il quale ciò che può consentire un discorso pubblico e universalmente comprensibile è la comune struttura grammaticale dell’esperienza e del pensiero critico. nell’ultimo capitolo del suo libro Les grammaires de l’intelligence (cerf, Paris 2004) – dal titolo La formation de l’intelligence critique. Du sens commun à la raison critique – ferry ritiene infatti di poter ritrovare qualcosa di «comune» a tutti gli uomini in alcune strutture grammaticali e sintattiche, formali e gerarchicamente ordinate. Secondo ferry, l’intelligenza critica – che coincide con il livello grammati-cale più alto, che egli chiama «grammatica 4» – è quell’intelligenza che è capace di riconoscere il valore di «détecteur de réalité» (l’espressione è di Paul ricoeur) delle grammatiche 1 e 2: ovvero le grammatiche proprie all’intelligenza delle icone e dei se-gni, ovvero le manifestazioni d’ordine simbolico proprie dell’inconscio – individuale e collettivo – e delle culture arcaiche. la grammatica 4, l’intelligenza critica, scopre dunque il valore di verità delle grammatiche non argomentative 1 e 2, riconoscendone al contempo l’inaggirabilità in forza della loro capacità di aprire e di scoprire ampie zone di esperienza. È cioè solo la grammatica 4 che può riconoscere la verità selvaggia dei simboli, come pure la verità degli enunciati verbali propri della grammatica 3 (che è grammatica proposizionale, congiuntiva e sintattica). Di più: la grammatica 4 sareb-be pure in grado di applicare a se stessa la propria capacità valutativa, riconoscendo così che la sua stessa verità critica si trova pur sempre nell’ordine delle raccomanda-zioni, piuttosto che in quello delle constatazioni: nell’ordine dei principî regolatori, piuttosto che in quello dei dati di fatto.

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bilità di una critica secondo verità di tradizioni differenti: secondo ciò che esse veramente sono e non dunque secondo proiezioni ideologiche esterne. Questa critica secondo verità è dunque possibile?

Per affrontare correttamente questa domanda occorre ricordare che, in quanto orizzonti simbolici condivisi (interiorizzati, certo, da ogni membro della comunità, ma non per questo semplicemente privati), le tradizioni hanno una funzione intenzionale rispetto al mondo e al reale – sono infatti funzioni del principio di realtà – che non regola semplicemente il rappor-to del singolo al mondo, ma che è pure capace di fondare e di reggere un mondo comune. i simboli non sono mai semplicemente di qualcuno, ma si collocano sempre tra qualcuno e qualcun altro: «costituiscono quell’‘area relazionale’ in cui si forma l’intelligenza dell’intenzionalità e si produce la volontà». in questo modo «per loro tramite le strutture della coscienza e della consapevolezza sono permeate dalla storia».53 essi rappresentano dunque una condanna netta e severa di ogni tentazione egologica. in que-sto senso, la questione del rapporto tra tradizioni differenti non è riducibi-le nei termini di un rapporto tra differenti punti di vista individuali.

le tradizioni somigliano molto più a organismi viventi soggetti a un certo sviluppo e al succedersi di differenti «età della vita», piuttosto che a immobili punti di vista o a stabili depositi di dottrine. in questo senso esse condividono con il mondo vivente il principio base dell’adattamento. non solo nel senso che circostanze differenti richiedono spesso una revisione della dottrina tradizionale, ma soprattutto nel senso che, in circostanze differenti, l’esperienza e la pratica incidono esse stesse sul paradigma che le genera, portandone alla luce e scoprendone aspetti rimasti probabilmente fino a quel momento impliciti o come addormentati.

il confronto stesso con altri paradigmi, con esperienze e con pratiche differentemente istituite, può avere questa funzione. non solo quando i due paradigmi stanno sullo stesso piano – come nel caso di due tradizio-ni religiose o di due concezioni politiche – ma anche, e forse soprattut-to, quando i due paradigmi si collocano su piani differenti. Qualche caso concreto può forse rendere il discorso più evidente. Si pensi, per esempio, al rapporto intercorso tra “paradigma” religioso cristiano e “paradigma” politico moderno: se è vero che il cristianesimo ha, insieme ad altre tradi-zioni, per molti versi ispirato il sistema politico democratico e fondato sui diritti umani, che si è sviluppato a partire dal XViii secolo in occidente,

53 D. zadra, Il tempo simbolico. La liturgia della vita, Morcelliana, Brescia 1985, p. 103.

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per altro verso è anche vero che l’avvento di quel sistema politico è avve-nuto spesso in contrapposizione al cristianesimo ufficiale; ma soprattutto è vero che esso ha molto contribuito a cambiare il volto di quello stesso cristianesimo, costringendolo a riscoprire in sé stesso alcune radici autore-voli di quel cambiamento. Sempre per rimanere al caso di interazioni tra paradigmi religiosi e paradigmi secolari, un discorso simile potrebbe essere fatto per quanto riguarda il rapporto tra teologia cristiana e scienze umane: scienze quali la linguistica, la sociologia, la psicologia sono nate, a parti-re dal XViii secolo, in decisa contrapposizione rispetto alla pretesa della teologia cristiana di possedere tutta la verità sull’umano. Ma quelle stesse scienze si sono poi rivelate fondamentali ai fini del ressourcement biblico e litugico che ha caratterizzato il XX secolo: hanno cioè permesso al cri-stianesimo (soprattutto in ambito cattolico) di riscoprire alcune sue radici autorevoli delle quali aveva in parte perso memoria. Un ultimo esempio: il fondamentalismo islamico si pone oggi come radicale contestazione reli-giosa del sistema politico-economico-sociale che è proprio della modernità occidentale, senza avvedersi di condividere con quella stessa modernità al-cune premesse fondamentali, quali ad esempio una concezione marcata-mente cognitivo-proposizionale delle verità di fede: concezione che porta, da una parte, ad una negazione della pertinenza pubblica delle religioni e, dall’altra, ad una affermazione anche violenta dell’unica verità possibile e sempre valida (finanche nelle sue contingenti formulazioni linguistiche). Dico fondamentalismo islamico, ma un discorso analogo potrebbe essere fatto anche per altri generi di fondamentalismi, non ultimo il fondamenta-lismo cattolico di matrice lefebvriana (e non solo). tutti questi fondamen-talismi potrebbero comprendere molto di se stessi se facessero seriamente i conti con la modernità che combattono. D’altra parte, la modernità stessa, scoprendosi tra le radici (ideologiche) dei tanti fondamentalismi oggi im-peranti, potrebbe facilmente verificare (o, meglio, falsificare), nella pratica e nell’esperienza, l’effettiva autorevolezza di alcuni dei suoi presupposti.

Un abbozzo di risposta alla questione intorno alla possibilità di una cri-tica secondo verità di tradizioni differenti potrebbe allora essere questo: non una radicale differenza, ma proprio il fatto di condividere alcune comuni esperienze e alcune comuni pratiche, abilita tradizioni differenti a eserci-tare un reciproco senso critico, senza dover postulare la possibilità di un criterio di giudizio radicalmente neutro e voraussetzunglos. la prossimità, e

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non la distanza, abilita insomma all’esercizio di un pensiero critico: l’espe-rienza e la pratica di presupposti comuni.

Abbandonare l’illusione della possibilità di uno sguardo neutro e distac-cato – di uno sguardo privo di presupposti –, comporta dunque di necessità il riconoscimento che l’unico esercizio possibile di un pensiero critico è interno a una esperienza e ad una pratica precise e determinate. l’afferma-zione è, a questo punto, tanto scontata, quanto stonata rispetto a ciò che il nostro senso comune (occidentale e moderno) intende con l’espressione «pensiero critico».

ci si potrebbe infatti chiedere, e a giusta ragione, se la prospettiva di un pensiero critico che si scopre come una delle funzioni interne alla tradizio-ne non sia filosoficamente problematica. Può davvero la filosofia, in quan-to esercizio di pensiero critico, accettare di legarsi a tradizioni particolari, a orizzonti simbolici determinati?

la risposta mi pare non possa che essere la seguente: non lo ha forse sempre fatto? non è forse vero che quel pensiero critico che la filosofia occidentale si gloria giustamente di praticare ha una sua ben precisa tradi-zione? non è cioè forse vero – come è stato giustamente osservato – che «la tradizione filosofica da Platone a Heidegger funge da corpus canonico per gran parte della riflessione occidentale su Dio o sulla condizione umana»?54 non è dunque vero che il valore transculturale al quale la filosofia occiden-tale ambisce vale come ideale regolativo, ma rischia di essere privo di senso e illusorio se postulato come suo originario punto di partenza?

54 g.A. lindbeck, The Nature of Doctrine. Religion and Theology in a Postliberal Age, Westminster John Knox Press, louisville, Kentucky 1984, p. 122; ed.it. a cura di g. campoccia e c. Versino, La natura della dottrina. Religione e teologia in un’epoca postliberale, claudiana, torino 2004, p. 149.