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R D E Rivista di Diritto Ellenico Review of Hellenic Law Edizioni dell’Orso I I I / 2013

Il rammentatore di leggi nel diritto greco, germanico, romano, iranico e indiano antico: ricordare, tramandare, forse scrivere, in: «Rivista di Diritto Ellenico» 3 (2013), pp.65-182

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Rivista di Diritto EllenicoReview of Hellenic Law

Edizioni dell’Orso

I I I / 2013

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Rivista di Diritto Ellenico / Review of Hellenic Law

Pubblicazione periodica annualeRegistrata presso il Tribunale di Alessandria al n. 2 / 13 (31 maggio 2013)Direttore responsabile: Lorenzo Massobrio

© Edizioni dell’Orso S.r.l.Via Rattazzi 47 – 15121 Alessandria (Italia)Tel. ++39-0131-25.23.49 – Fax ++39-0131-25.75.67E-mail: [email protected] – http: // www.ediorso.com

Stampata da Digital Print S.r.l. in Segrate (MI)per conto delle Edizioni dell’Orso

È vietata la riproduzione, anche parziale, non autorizzata, con qualsiasi mezzo effettuata, com-presa la fotocopia, anche a uso interno e didattico. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del 22.IV.1941

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ISSN 2239-6675ISBN 978-88-6274-569-7

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Gabriele Costa

Il rammentatore di leggi nel diritto greco, germanico, romano, iranico e indiano antico: ricordare, tramandare, forse scrivere*

Ik gihorta ðat seggen.In quantum per antiquos homines didicimus.

Dictaverunt Salicam legem per proceris ipsius gentes.

Quella del rammentatore di leggi è figura nota negli studi sul diritto greco, studi ove spesso essa viene, giustamente, accostata a un’analoga presente nella storia del diritto germanico antico; mi sembra sia invece meno noto come tale figura esistesse verosimilmente anche nella Roma imperiale e come se ne pos-sano identificare le tracce anche nel mondo iranico e indiano antico. Scopo del presente lavoro è quello di riassestare il noto, di fornire qualche dato nuovo e, infine, di verificare la possibilità di un’interpretazione unitaria del fenomeno1.

1. Il mondo greco2.

Il lessico giuridico greco utilizza almeno due derivati da radici indeuropee semanticamente connesse al “ricordare, memorizzare, rammentare”: uno è il sostantivo, di genere animato, più diffuso per designare il “testimone, teste”3, e cioè il termine m£rtuj, -uroj, derivato per dissimilazione progressiva da un *m£rturj (altre forme di nominativo sono m£rtur, che è forma dorica, e m£rturoj, che è omerica e tematica).

Etimologicamente, tale lessema è un derivato dalla radice *(S)MER-, che è

* Alla memoria di Louis Gernet e di Emile Benveniste.

1 Ringrazio gli amici Carla Del Zotto, Marcello Meli, Salvatore Monda, Antonio Panaino e Federico Squarcini per i suggerimenti e i consigli che hanno voluto darmi; lungi da me il chiamarli in correità.

2 Poiché il presente lavoro coinvolge filologie diverse da quella classica, col cortese accordo della Redazione ho adottato criteri editoriali in parte discordanti dalle norme della «Rivista di Diritto Ellenico»; i rinvii agli usuali strumenti del mestiere (grammatiche, lessici, concordanze, dizionari, vocabolari etimologici, enciclopedie, manuali, etc.) sono per lo più dati per scontati.

3 Per indicare il “testimone”, in greco esiste anche il sostantivo b…du(i)oj, da un *#idus-ioj, costruito sul grado zero del participio di o�da, ma è piuttosto raro: cfr. Pausania (3.11.2: Bi-dia…oi) e Aristofane (fr. 233 Kassel, Austin: „du…oi).

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molto probabilmente anche quella alla base del sostantivo femminile mšrimna “pensiero, cura, preoccupazione, affanno” e dell’aggettivo mšrmeroj “che reca preoccupazione, pericoloso, funesto”4, così come del latino memor, -oris “che si ricorda, memore, che fa ricordare, che rammenta”, memoria e memorō, -ās “ricordare, rammentare, celebrare il ricordo di, narrare”, dell’avestico mima-ra- “memore”, dell’anglosassone mimorian “ricordarsi” e ge-mimor “noto, co-nosciuto”5, dell’armeno mormok’ “preoccupazione, dispiacere”, tutte forme a raddoppiamento intensivo, a parte quelle latine che sono a raddoppiamento semplice. In Indo-iranico sono poi importanti le famiglie lessicali del verbo indiano antico smárati “ricordarsi, rimembrare, pensare a qualcuno, preoccu-parsi”, insieme ai sostantivi smará- “ricordo, nostalgia” e sm¬ti- “memoria, tradizione, norma, legge”6, e di quello avestico maraiti, che ha lo stesso signi-ficato e una forma raddoppiata in hišmaraiti (cfr. il già visto mimara-)7.

L’altro importante termine giuridico greco connesso al “ricordare, ram-mentare” è mn»mwn, -onoj; si tratta di un nominale formato col suffisso indeu-ropeo, atematico, in nasale e di genere animato -men / -mon, largamente utiliz-zato in greco per creare nomi d’agente e aggettivi a partire da radici verbali, e dove l’alternanza vocalica serve a metter su due sistemi paralleli, con quello basato su -mwn / -monoj assai più diffuso e produttivo anche in epoca storica8.

Etimologicamente, mn»mwn è connesso alla diffusa e importante radice del pensare e delle attività intellettuali *MEN-, una radice che ha dato vita nelle varie lingue indeuropee a numerose parole le cui specificazioni semantiche sono determinate a partire dall’apofonia vocalica radicale e dal tipo di formazione.

Essa è infatti, tra l’altro, alla base dei verbi, a tema debole e in - (< * mṇ- / man-yo-mai), ma…nomai “essere furioso”9, dell’indiano antico mányate, dell’avestico mainyeite e del persiano antico maniyaiy “pensare, comprendere, ponderare”, dell’irlandese antico (do-)muiniur “pensare, credere”; dello slavo mъöjn “pen-sare, preoccuparsi” e del lituano miniù “pensare a, ricordarsi (* < mṇ-yo/e-)”; ma anche del latino mēns, mēntis, dell’indiano antico matíḥ “pensiero”, del lituano mintìs, dello slavo (pa-) mëtǐ e del gotico (ga-)munds “ricordo” (< *mṇ-t[e]i),

4 Nell’Iliade è usato quasi sempre al neutro plurale mšrmera (œrga).5 Cfr. anche i verbi anglosassoni māmrian e murnan, il gotico maúrnan, l’alto tedesco an-

tico mornēn, che significano tutti all’incirca “preoccuparsi (di), essere in ansia (per)”, e poi il nome del gigante norreno Mīmir.

6 Sulla storia di questa importante parola indiana tornerò più avanti.7 Cfr. anche il medio persiano ’šm’r-, il pali sumarati e sarati, il pracrito samaraï, il kashmi-

ri sarun, tutti connessi al “ricordare, annotare, contare”; vd. anche infra, p. 131.8 Questo suffisso tuttavia non è più produttivo nella koin» e scompare del tutto in greco

moderno.9 Altre forme di presente sono mnîmai, mnèonto, e mn£omai, quest’ultimo corrispon-

de come formazione all’a.ind. mnāyate “è menzionato”, con *mÃ- > mnā; la forma suffissata mimn»skw è probabilmente secondaria.

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così come di mšnoj sostantivo neutro sigmatico che corrisponde all’indiano antico manas- e all’avestico manaḥ. (< *mén-es)10.

Alla stessa radice appartiene anche il perfetto arcaico mšmona (< *mé-mon-a [ai]) “pensare intensamente a, avere l’intenzione di, desiderare, essere pieno d’ardore, di coraggio”, che corrisponde, morfologicamente, al latino meminī “aver presente, ricordarsi; fare menzione di”, anch’esso un perfetto usato con valore di presente11 ma il cui corrispettivo semantico è invece mšmnhmai “ave-re in testa, pensare a, ricordarsi, menzionare”, un tema di perfetto medio dal valore pure lui di presente12; altri confronti possibili sono poi qui anche il vedico mamné, l’irlandese antico memne “spirito”, e il gotico, senza raddop-piamento, man “pensare, credere”, (ga-)man “ricordarsi”.

Formati come mšmnhmai a partire da un grado *mneə2-> / mnē-13, il greco ricava, tra l’altro, l’aggettivo verbale mnhstÒj “ricercato, legittimo”, attestato per lo più in composti arcaici, il nome d’agente mnhst»r “che aspira, preten-dente”, il nome d’azione femminile mn»mh, formato col raro e arcaico suffisso -mā / -mh che serve a indicare delle facoltà mentali, come ad esempio ™pist»mh e c£rmh, e dunque mn»mh designa la facoltà astratta della “memoria” in con-trapposizione al sostantivo neutro mnÁma “ricordo”, che è detto solo di oggetti e vale “monumento, tomba”14.

Quest’ultimo sostantivo è formato a sua volta col suffisso -mṇ > -ma, e cioè col corrispettivo neutro di -men / -mon, il che lo lega a mn»mwn, -onoj in una as-sociazione assai antica tra derivati nominali animati in -mwn e derivati inanimati in -ma che in greco ha altri illustri esempi, quali le coppie a‡mwn “sanguigno” e aŒma “sangue”, meled»mwn “che cura, che si dà pensiero” e melšdhma “cura, preoccupazione, no»mwn “riflessivo, intelligente, saggio” e no»ma “accorgi-mento, pensiero, nozione”, st»mwn “ordito” e stÁma “sostegno, puntello” etc.

Le due forme del suffisso legano entrambe strettamente il nominale de-rivato alla radice verbale connessa, ma, mentre la forma inanimata marca soprattutto il risultato dell’azione, quella animata marca piuttosto lo stato, e

10 Cfr. anche a.ind. mánma “pensiero, preghiera”, a.irl. menme “animo”, lettone mīma “enig-ma”, tutti da *mén-men-; a.ind. mant “colui che pensa”, Mšntwr, lat. mentor e commentor, da *men-tor-; a.ind. mántraḥ, avest. m¿qrō “discorso sacro, formula rituale”, lituano (pa-)meñklas “monumento”, da *mén-tr/lo-.

11 Va ricordata anche l’esatta corrispondenza tra l’imperativo perfetto me-m£-tw e il latino me-men-tō (< *mé-mṇ-tōd).

12 Altre corrispondenze precise tra greco e indiano antico sono quelle tra l’aoristo sigmatico amnāsiṣuḥ, e ½mnesa, e tra il participio mnāta- e il n. pr. ”Amn1toj (nel ‘Codice’ di Gortina).

13 Più che un caso generico di metatesi, abbiamo qui più probabilmente a che fare con un fenomeno di Schwebeablaut.

14 Significa invece “ricordo, menzione” e poi “registro, trattato, commentario, note esegeti-che” il termine ØpÒ-mnhma, -atoj, che incontreremo più avanti.

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il lessema che ne deriva funziona sostanzialmente come un nome verbale, e dunque (Ð) mn»mwn, -onoj, che, come vedremo tra breve, funge da sostantivo maschile, da nome proprio o da aggettivo a seconda dell’ambiente sintagmati-co15, significa “(colui) che si ricorda, che ha buona memoria, che rammemora, che fa ricordare”16.

* * *

Venendo alla storia della parola, le due uniche attestazioni omeriche di mn»mwn sono nell’Odissea; in 8.158-163 è Eurialo, alla corte dei Feaci, che, sfidando Odisseo alle gare, lo offende suscitandone l’ira:

«oÙ g£r s' oÙdš, xe‹ne, da»moni fwtˆ ™�skw¥qlwn, oŒ£ te poll¦ met' ¢nqrèpoisi pšlontai,¢ll¦ tù, Ój q' ¤ma nh� polukl»di qam…zwn,¢rcÕj naut£wn, o† te prhktÁrej œasi,fÒrtou te mn»mwn kaˆ ™p…skopoj Ïsin Ðda…wnkerdšwn q' ¡rpalšwn: oÙd' ¢qlhtÁri œoikaj».

“Va, straniero, tu non mi sembri un uomo capacenelle gare, come tante ce n’è fra i mortali,ma uno, che sempre su nave multireme viaggiando,capo di marinai che si dànno al commercio,tiene memoria del carico e i viaggi sorveglia.

15 Le lingue indeuropee storiche riflettono qui una situazione che era già della protolingua, e cioè l’impossibilità di isolare una classe separata di aggettivi: nelle lingue indeuropee, e tra queste il greco, gli aggettivi sono poco o punto differenti dai sostantivi perché la differenza più importante consiste unicamente nel fatto che gli aggettivi mostrano una categoria flessiva del genere pienamente produttiva, mentre nei sostantivi è al più una categoria derivata. Nel corso della loro storia, alcune lingue si sono date sistemi per distinguere meglio tra aggettivi e sostan-tivi, utilizzando, tra l’altro, l’accentuazione: in greco, per esempio, il genitivo plurale dei nomi della Ia declinazione è sempre accentato -õn, (cèra / cwrîn), mentre quello dei corrispettivi aggettivi di Ia declinazione non è accentato allo stesso modo se il nominativo singolare non ha l’accento finale (¢x…a / ¢x…wn). Tipologicamente, il trattamento degli aggettivi – vale a dire dei termini che esprimono prototicamente la qualità piuttosto che l’entità (i sostantivi) o l’attività (i verbi) – in maniera simile o uguale a quella dei sostantivi, sembra sia tipico delle lingue euro-pee, asiatiche e nord-africane, e, fuori da quest’area, in parte solo in Australia, Messico e Filip-pine; nel resto delle lingue del mondo, e cioè nella gran parte, le parole che esprimono qualità sono trattate infatti alla stregua di verbi, o costituiscono una piccola classe chiusa di aggettivi (cui si aggiungono altre parole esprimenti qualità trattate come verbi o come sostantivi).

16 Da mn»mwn, -onoj derivano tra l’altro sia MnamÒna (cfr. Aristofane, Lysistrata 1248) che l’ipocoristico orfico Mnhmè e, naturalmente, il più diffuso MnhmosÚnh, ma anche il verbo deno-minativo mnhmoneÚw, -eÚomai, che significa “ricordarsi, far ricordare” sia all’attivo che al medio, e l’aggettivo mnhmonikÒj, “che ha buona memoria, che possiede una mnemotecnica”.

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e i guadagni rapaci: no, non mi sembri un atleta”17.

Qui il significato di mn»mwn, usato forse come aggettivo o forse più verosi-milmente come sostantivo18, è con chiarezza quello di colui “che ricorda, che serba, che annota, nella memoria” e poi, all’occorrenza, è in grado di rammen-tare a se stesso e ad altri quel che ha memorizzato.

Ancora nell’Odissea (21.93-95), è invece Antinoo, il capo dei pretendenti, che parla poco prima della gara dell’arco che segnerà anche la sua morte e dice agli astanti che lui, Odisseo, l’aveva conosciuto e se lo ricorda eccome:

«oÙ g£r tij mšta to‹oj ¢n¾r ™n to…sdesi p©sin,oŒoj 'OdusseÝj œsken: ™gë dš min aÙtÕj Ôpwpa,kaˆ g¦r mn»mwn e„m…, p£j d' œti n»pioj Ãa».

“Non c’è tra tutti costoro un uomo cosìcome Odisseo – io stesso l’ho visto e ne serbo memoria; certo, ero ancora un piccolo bimbo”19.

In questa seconda attestazione omerica di mn»mwn, dove funge da aggetti-vo copulativo, è la memoria visiva che è chiamata in causa e la semantica del termine si avvicina al valore di “testimone, testimone oculare”20.

Entrambe le attestazioni omeriche fanno parte di un contesto che si può senza patemi definire laico, com’è naturale nell’Odissea; ma tra gli esempi dell’uso di mn»mwn ce n’è almeno uno che mostra come tale laicizzazione in Omero sia lo sviluppo successivo a una fase più antica in cui l’incarico di mn»mwn, di rammentatore, avesse una forte pregnanza religiosa21, ed è la sto-ria di Achille e del suo servo di nome Mnemone22, un servitore che egli aveva espressamente incaricato di accompagnarlo ovunque andasse, al solo scopo di ricordargli la profezia della madre, Teti, secondo la quale, semmai Achille avesse osato uccidere un figlio di Apollo, il dio stesso si sarebbe vendicato uccidendolo. La leggenda è raccontata, tra gli altri23, anche da Plutarco (Aetia Romana et Graeca 297, d 7-f 5):

17 Trad. di CALZECCHI ONESTI, 1963, sub loco.18 Cfr. il commento di HAINSWORTH, 1988, p. 260.19 Trad. di PRIVITERA, 1987, sub loco.20 Anche CARAWAN, 2008, p. 174, commenta questi passi, ma ne trae una diversa interpretazio-

ne: «the familiar function of mnemones is simply to recognize proprietor and property».21 Cfr. GERNET, 1968, p. 236-237. Sull’importanza mitologico-rituale e poetico-testuale della

‘memoria’ nel mondo greco, credo non sia il caso di insistere.22 Cfr. Licofrone (240-241) e Scholia a Licofrone (232-233), Plutarco (Aetia Romana et

Graeca 297 e), Eustazio (Commentarii ad Homeri Iliadem 1.54).23 Cfr. Diodoro Siculo, 5.83; Apollodoro (Epitome), 3.24-26; Pausania, 10.14.1-4.

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«T… d»pote par¦ Tened…oij e„j tÕ toà Tšnou ƒerÕn oÙk œxestin aÙlht¾n e„selqe‹n oÙd' 'Acillšwj ™n tù ƒerù mnhsqÁnai; Ã Óti tÁj mhtrui©j tÕn Tšnhn diaballoÚshj æj boulÒmenon aÙtÍ suggenšsqai MÒlpoj Ð aÙlht¾j t¦ yeudÁ katemartÚrhsen aÙtoà, di¦ toàto tù TšnV sunšpese feÚgein e„j Tšnedon met¦ tÁj ¢delfÁj; 'Acille‹ d� lšgetai t¾n mhtšra Qštin „scurîj ¢pagoreàsai m¾ ¢nele‹n tÕn Tšnhn æj timèmenon Øp' 'ApÒllw-noj, kaˆ paregguÁsai ˜nˆ tîn o„ketîn, Ópwj prosšcV kaˆ ¢namimn»skV, m¾ l£qV kte…naj Ð 'AcilleÝj tÕn Tšnhn. ™peˆ d� t¾n Tšnedon katatršcwn ™d…wke t¾n ¢delf¾n toà Tšnou kal¾n oâsan, ¢pant»saj q' Ð Tšnhj ºmÚneto prÕ tÁj ¢delfÁj, kaˆ ¹ m�n ™xšfugen Ð d� Tšnhj ¢nVršqh: Ð d' 'AcilleÝj pesÒnta gnwr…saj tÕn m�n o„kšthn ¢pškteinen, Óti parën oÙk ¢nšmnhse: tÕn d� Tšnhn œqayen, oá nàn tÕ ƒerÒn ™sti, kaˆ oÜt' aÙlht¾j e‡seisin oÜt' 'AcilleÝj Ñnom£zetai».

“Perché a Tenedo è vietato che un flautista entri nel santuario di Tenete e non si può pronunciare lì il nome di Achille? Forse perché, quando la matrigna calunniò Tenete dicendo che voleva possederla, il flautista Molpo spergiurò sostenendo che l’accusa era vera; per questo accadde che Tenete dovette rifugiarsi a Tenedo con la sorella. Si racconta che la madre Teti avesse raccomandato ad Achille di non uccidere Tenete, il quale era protetto da Apollo; così egli affidò a un servo l’incarico di prestare atten-zione e di ricordargli di non uccidere inavvertitamente Tenete. Quando però stava devastando Tenedo, Achille s’imbattè nella sorella di Tenete, che era di bell’aspetto; Tenete accorse in sua difesa e la ragazza riuscì a fuggire, mentre egli venne ucciso. Achille capì chi era il morto e uccise il servo, che pur essendo presente non gli aveva ricordato la cosa; poi seppellì Tenete nel luogo dove ora sorge il suo santuario, nel quale non può entrare un flautista e Achille non deve essere nominato”24.

Siamo qui nel tempo mitico che precede la guerra di Troia vera e propria, quando, riunita in Aulide la flotta della spedizione per la seconda volta e sacrificata Ifigenia, i Greci finalmente salpano verso la Troade e, dopo aver fatto tappa a Lesbo, dove Odisseo si misurò vittoriosamente col re Filomede, giungono all’isola di Tenedo, da cui si vedeva Troia; l’isola era governata da Tenete (o Tenedo), il quale, pur ritenuto figlio di Cicno e di Proclea, si vantava di essere figlio di Apollo. Su quest’isola Achille litigò per la prima volta con Agamennone, uccise non solo Tenete, e poi il suo servo Mnemone perché non gli aveva impedito di uccidere un figlio di Apollo, ma anche Cicno, figlio di Posidone, dal che sorsero poi una serie infinita di guai per i Greci, a cominciare dalla ferita inguaribile che un serpente, simbolo del dio marino, inflisse a Filottete.

Oltre che dal contesto arcaico e mitopoietico, l’importanza rituale dell’in-carico dato al servo Mnemone, «depositario degli avvertimenti divini che al momento buono doveva rammentare»25, è mostrata anche dal fatto che da esso

24 Trad. di GUIDORIZZI, 2012, p. 113-114.25 GERNET, 1968, p. 237.

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dipendevano la vita e la morte del padrone, Achille, e che il servo smemorato pagherà con la vita la sua fatale dimenticanza26, il che significa che c’era stato un tempo in cui quello dello mn»mwn era un ufficio tale per cui il trasgredire ai propri doveri sacri veniva punito con la morte, come ad esempio accadeva alle vestali a Roma: «dunque, è inizialmente in un modello liturgico che ci appare – ai fini di una memoria collettiva – un elemento di obbligazione che le sia necessario ed essenziale»27.

Sul fatto invece che Mn»mwn fosse un nome di persona già in epoca arcaica non possono più esserci dubbi a partire dalla pubblicazione di un frammento di Alceo rinvenuto in un papiro di Ossirinco28. Pubblicato da Lobel nel 1951, il papiro contiene, in un solo frammento di rotolo, i resti, su due colonne, del testo di un hypomnema alcaico, cioè di tre componimenti di Alceo commen-tati; i componimenti sono connessi tematicamente dall’essere tutti riferiti alle vicende politiche legate al nome di Mirsilo, avversario politico di Alceo e ti-ranno di Mitilene tra il 600 e il 590 a.C. Il terzo componimento, nella colonna II, è quello ben noto con la famosa metafora dello Stato come nave in balia della tempesta (cfr. Alceo, fr. 208 a), che sarà poi ripresa da Orazio (Carmina 1.14); i primi due, nella colonna I, sono invece documentati qui per la prima volta e uno di essi è indirizzato a quello che sembra essere un conoscente di Alceo, di nome appunto Mnemone.

La lettura sicura – il nome compare tre volte e almeno due attestazioni sono filologicamente e paleograficamente certe, la tradizione diretta e l’arcai-cità del testo dimostrano che l’uso di mn»mwn come nome proprio deve essere assai antico29, e ciò conferisce affidabilità e profondità alla storia di Achille e del suo servo Mnemone.

* * *

Le connotazioni semantiche di tipo religioso riemergeranno poi in epoca post-omerica, contribuendo alla formazione e alla diffusione del composto determinativo ƒero-mn»mwn “lo mnemon (del) sacro, il rammentatore della

26 Pur senza scomodare René Girard e la sua teoria mimetica, è certo possibile che dietro tale vicenda si celi un arcaico rituale di sostituzione sacrificale, che Mnemone reciti insomma qui il ruolo del capro espiatorio; sul lato oscuro e omicida di Apollo, è importante DETIENNE, 1998 = 2002.

27 GERNET, 1968, p. 237.28 Cfr. P. Oxy. XXI.2306 = Alceo, fr. 305 A-B Voigt; vd. anche lo scholion alcaico in P. Oxy.

XXI.2297, fr. 93, che a sua volta si confronta con lo scholion a Licofrone, 241; tutti i dati in PORRO, 1994, p. 43-57.

29 Abbiamo qui a che fare con un caso di deonimia, cioè col passaggio da un nome comune a un nome proprio, anche se è difficile dire se il passaggio sia del tipo da sostantivo a nome di persona, o da un sintagma nominale del tipo sostantivo (servo, aiutante o qualcosa del genere) + aggettivo (mn»mwn) a Mn»mwn, in ogni caso, nomen est omen…

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(norma della) sacralità”30. Con tale sostantivo si designavano, tra gli altri31, i rappresentanti, due per ciascuno, degli Stati partecipanti alla Lega Anfizionica che si riuniva a Delfi due volte l’anno, e che facevano da arbitri nei conflitti sorti tra città e città e avevano il potere di indire guerre sacre contro chi vio-lasse le leggi comuni. Ad Atene gli hieromnemones erano eletti a sorte e po-tevano essere sottoposti al voto di sfiducia (apocheirotonia) dell’Assemblea popolare, com’è il caso di Iperbolo cui allude Aristofane (Nuvole 620-626):

«k¶q' Ótan qÚein dšV, strebloàte kaˆ dik£zete,poll£kij d' ¹mîn ¢gÒntwn tîn qeîn ¢past…an,¹n…k' ¨n penqîmen À tÕn Mšmnon' À SarphdÒna,spšndeq' Øme‹j kaˆ gel©t': ¢nq' ïn lacën `UpšrbolojtÁtej ƒeromnhmone‹n k¥peiq' Øf' ¹mîn tîn qeîntÕn stšfanon ¢fVršqh: m©llon g¦r oÛtwj e‡setaikat¦ sel»nhn æj ¥gein cr¾ toà b…ou t¦j ¹mšraj».

“E quando dovreste fare i sacrifici, fate torture e processi; e spesso, mentre noi osserviamo il digiuno in segno di lutto per Memnone e Sarpedone, voi ve la ridete tra una bevuta e l’altra. Ecco perché noi deeabbiamo privato della corona Iperbolo, che quest’annoera stato sorteggiato ieromnemone: così capirà che i giorni bisogna regolarli sul ciclo lunare”32.

30 Altri composti di mn»mwn, più rari, indicano anch’essi cariche elettive importanti, come pro-mn£mwn, che era il titolo del presidente – a capo degli mn£monej – del consiglio della Lega degli Acarnani: cfr. IG IX.1(2).209, 582, 583, 588; cfr. poi anche Plutarco, Aetia Romana et Graeca 292, a 8-b 2: «T…nej ™n Kn…dJ oƒ ¢mn»monej kaˆ t…j Ð ¢fest»r; ˜x»konta pro-kr…toij ¢ndr£sin ™k tîn ¢r…stwn oŒon ™piskÒpoij ™crînto di¦ b…ou kaˆ proboÚloij tîn meg…stwn: ™kaloànto d' ¢mn»monej æj ¥n tij e„k£seie di¦ tÕ ¢nupeÚqunon, e„ m¾ n¾ D…a polumn»monšj tinej Ôntej. Ð d� t¦j gnèmaj ™rwtîn ¢fest»r», “Who were the Forget-ful Ones (amnemones) at Cnidus, and who was the Dismisser (Aphester)? They were wont to employ sixty men chosen from the nobles, and appointed for life, as overseers and preliminary advisers in matters of the greatest importance. They were called the Forgetful Ones, one might conjecture, because they could not be held to account for their actions; unless, indeed, it was because they were men who remembered many things (polumnemones). He who asked them their opinions was the Dismisser” (trad. di BABBITT, 1936, p. 179). Infine, un ¢ei-mn»mwn è attestato in Pseudo-Aristotele (Fisiognomica 808 a 37).

31 Cfr. anche Demostene (XVIII.148, 149, 151; XXIV.150); Diodoro Siculo (16.23); Eschi-ne (III.115 ss.); Diogene Laerzio (6.45.1); Plutarco (Quaestiones convivales 730 d, detto dei sacerdoti di Nettuno, che non mangiano pesce); sarà poi il nome del magistrato eponimo a Bisanzio: cfr. Demostene, XVIII.90 e Polibio, 4.52.4.

32 Trad., con alcuni adattamenti miei, di MASTROMARCO, 1983, sub loco; Aristofane qui se la prende con la riforma del calendario proposta da Metone nel 433-432, riforma che evidente-mente al tempo delle Nuvole, nel 423-422 a.C., ancora non era entrata in vigore ad Atene.

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Lo ƒeromn»mwn, ad Atene e al tempo di Aristofane, si occupava dunque non solo degli aspetti amministrativi e giuridici connessi all’attività della Lega Anfizionica, ma anche di quelli, anch’essi assai importanti, legati all’or-ganizzazione del calendario civile e religioso.

A conferma di tutto ciò, si noti che in Strabone (5.3.2) e in Dionigi di Ali-carnasso (Antichità romane 8.55 e 10.57) la carica e il ruolo dello ƒeromn»mwn sono equiparati a quelle del sacerdote più alto in grado a Roma, il pontifex maximus; il contesto di quest’ultima occorrenza in Dionigi è significativo per l’argomento qui trattato e dunque vale la pena di citare il passo per esteso:

«oátoi oƒ dška ¥ndrej suggr£yantej nÒmouj œk te tîn `Ellhnikîn nÒmwn kaˆ tîn par¦ sf…sin aÙto‹j ¢gr£fwn ™qismîn proÜqhkan ™n dška dšltoij tù boulomšnJ skope‹n, decÒmenoi p©san ™panÒrqwsin „diwtîn kaˆ prÕj t¾n koin¾n eÙaršsthsin ¢peuqÚnontej t¦ grafšnta. kaˆ mšcri polloà dietšlesan ™n koinù met¦ tîn ¢r…stwn ¢ndrîn sunedreÚontej kaˆ t¾n ¢kribest£thn poioÚmenoi tÁj nomoqes…aj ™xštasin. ™peid¾ d' ¢pocrèntwj ™fa…neto aÙto‹j t¦ grafšnta œcein, prîton m�n t¾n boul¾n sunagagÒntej oÙqenÕj œti memfomšnou to‹j nÒmoij proboÚleuma perˆ aÙtîn ™kÚrwsan. œpeita tÕn dÁmon kalšsantej e„j t¾n loc‹tin ™kklhs…an ƒeromnhmÒnwn te kaˆ o„wnistîn kaˆ tîn ¥llwn ƒeršwn parÒntwn kaˆ t¦ qe‹a æj nÒmoj ™xhghsamšnwn ¢nšdwkan to‹j lÒcoij t¦j y»fouj».

“I decemviri provvidero a redigere le leggi, basandosi sulle leggi greche e sulla tradizione locale, non scritta, poi le esposero in dieci tavole per chi vo-lesse prenderne visione, disposti ad accettare consigli dei privati cittadini e ad apportare modifiche cosi da renderle grate a tutti. E per lungo tempo si protras-sero le consultazioni con i personaggi più illustri e l’attento esame del corpo delle leggi. Infine, quando furono paghi dell’operazione effettuata, in primo luogo convocarono il senato e nessuno contestò le leggi, che furono approvate con deliberazione preliminare; poi convocarono il popolo nei comizi centuriati e fecero esprimere il voto alle centurie dopo le consuete cerimonie religiose davanti ai pontefici (hieromnemones), agli auguri e agli altri sacerdoti”33.

Come si vedrà meglio oltre, ritengo non sia un caso se lo storico greco del-le origini di Roma equipari il “rammentatore del sacro” al pontifex parlando di memoria e di scrittura del diritto.

A metà tra religione e diritto post-solonico sono poi alcune delle rare atte-stazioni del V secolo; mn»mwn è infatti attestato come attributo delle Erinni in Eschilo (Eumenidi 38334 e Prometeo incatenato 516)35, così come in Sofocle

33 Trad. GUZZI, 2010, sub loco.34 Per comodità, ricordo che l’Orestea (Agamennone, Coefore, Eumenidi) è del 458 a.C.35 Com’è noto, il Prometeo incatenato è opera di datazione impossibile e perfino la paternità

eschilea è dubbia.

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(Aiace 1390)36:

«Toig£r sf' 'OlÚmpou toàd' Ð presbeÚwn pat¾rmn»mwn t' 'ErinÝj kaˆ telesfÒroj D…khkakoÝj kakîj fqe…reian, ésper ½qelontÕn ¥ndra lèbaij ™kbale‹n ¢nax…wj».

“Il padre degli dèi, l’Erinni che ha lunga memoria, la giustizia infallibile possano colpire quegli uomini malvagi, com’essi volevano colpire indegna-mente Aiace”37.

È poi detto anche dell’Ira (mÁnij) in Eschilo (Agamennone 155). Le Erinni, memori dei mali commessi dagli uomini, sono le dèe preolimpiche del ranco-re, della vendetta e della punizione, figlie e sorelle della Notte per partenoge-nesi assieme alle Moire, le rammentatrici e le esecutrici dell’antica giustizia di sangue, così come lo è l’Ira che “persiste tremenda, pronta a risollevarsi, aggirantesi per la casa, subdola, memore, che vuole vendetta per i figli”38, nel-la profezia di Calcante ai Danai in partenza per Troia, nell’Agamennone.

Un’attestazione di mn»mwn tra oralità scemante e diffusione crescente della scrittura è invece quella in Eschilo (Prometeo incatenato 788-789)39:

«soˆ prîton, 'Io‹, polÚdonon pl£nhn fr£sw,¿n ™ggr£fou sÝ mn»mosin dšltoij frenîn».

“A te prima, Io, narrerò l’agitato vagare,tu scrivilo nelle memori tavolette del tuo cuore”40.

La metafora, implicita41, è anche in Pindaro (Olimpiche 10.1-3), ed è ripre-sa dallo stesso Eschilo, ma senza usare mn»mwn, nelle Supplici (179) e nelle Eumenidi (273).

Il verso del Prometeo è ripreso probabilmente, ma certo non citato pe-dissequamente, da Sofocle (fr. 597 Radt) nel frammento di un’opera42, di cui non si sa nemmeno se tragedia o dramma satiresco, intitolata Trittole-

36 L’Aiace è forse del 456-455 a.C.37 Trad. PADUANO, 1982, sub loco.38 Trad. MORANI, MORANI, 1987, sub loco.39 Cfr. NIEDDU, 1984, e poi FANTUZZI, 1984.40 Trad. MORANI, MORANI, 1987, sub loco.41 Per un uso implicito di tale metafora, cfr. anche Eschilo, Supplici, 991-992; Coefore, 450;

Sofocle, Filottete, 1325; Euripide, Troiane, 662 e fr. 506 Nauck.42 Anche il fr. 598 Radt di Sofocle, appartenente anch’esso al Trittolemo, richiama il Pro-

meteo (707 ss.) di Eschilo.

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mo e risalente forse, secondo alcuni studi recenti, al primo periodo dell’at-tività del drammaturgo:

«qoà d' ™n frenÕj dšltoisi toÝj ™moÝj lÒgouj».

“tu inscrivi i miei discorsi nel libro della tua mente”43.

Come notò tra gli altri Nieddu, sia nel caso di Eschilo che in quello di Sofocle, a prescindere da chi imiti l’altro, la metafora appare essere “la tra-sposizione, in una nuova situazione culturale segnata da una crescente diffu-sione e prestigio della pratica scrittoria”, della ben nota formula con la quale «nell’epos, passando da un argomento all’altro, si raccomanda di conservare gelosamente nell’animo quanto detto: ¥llo dš toi ™ršw, sÝ d' ™nˆ fresˆ b£lleo sÍsi»44.

Più che «la relazione dell’anima con la famiglia semantica della dšltoj»45, pare a me qui significativo il rapporto tra le capacità della memoria espres-se da mn»mwn, semanticamente ancora ben vitale e funzionale, e le tavolette scrittorie, in una relazione non conflittuale, diversamente ad esempio che in noti passi di Platone, difficilmente spiegabile fuori da un contesto che già non «preveda un valore di ‘autorità’ al nesso tavoletta / graphe»46.

Infine, tra la seconda metà del V e la prima metà del IV secolo, mn»mwn è usa-to, senza particolari sfumature semantico-testuali, come aggettivo da Aristofane (Nuvole 414 e 484; Pace 761) col significato di “essere memore, avere buona me-moria”, e una volta da Senofonte (Agesilao 11.13.2), detto come lode di Agesilao stesso; poi, una decina di volte da Platone, sempre con lo stesso significato, come attributo del tiranno saggio (Leggi, etc.) o dell’anima filosofica (Repubblica, Tee-teto, etc.)47, secondo una prassi elogiativa del vir che già Plinio (Naturalis historia 7.24.88) esemplificava con dovizia48.

* * *

Le principali attestazioni epigrafiche superstiti di mn»mwn partono dalla prima metà del V secolo e sono tutte in importanti documenti giuridici; il termine appare di uso diffuso e frequente e serve a designare, come sostanti-vo maschile spesso al plurale, un ‘ufficiale giudiziario’ i cui compiti e le cui

43 Trad. PADUANO, 1982, sub loco.44 Cfr. NIEDDU, 1984.45 Cfr. tra gli altri BOFFO, 1995, p. 104.46 Cfr. ibid.47 Cfr. anche Platone, Menone 71 c; Lettere 340 d, 344 a.48 Cfr. BRETONE, 1984, p. 230 e note.

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mansioni restano tuttavia non del tutto chiarite, nonostante i numerosi studi. Da quel che si riesce a capire – a partire per certo da ben prima del V secolo – gli mnemones, spesso riuniti in collegi composti da un numero variabile di afferenti, affiancano i magistrati senza avere funzioni giudicanti vere e proprie, e il loro ruo-lo appare piuttosto quello, altrettanto importante ai fini procedurali e processuali, «to remember court proceedings, for which there were no written records»49.

Ad esempio, nella Legge di Gortina (IC IV.72 c. IX, l. 32; c. XI, l. 10-17 e 53), databile probabilmente al 480-460 a.C.50, lo mnemon sembra agire come una sorta di segretario del giudice, come una specie di cancelliere51, mentre nella Legge di Alicarnasso, conosciuta anche come Decreto di Ligdamis, da-tabile al 465-450 (Syll.3 45)52, due diversi collegi di mnemones si occupano in diverse fasi di una causa a proposito di una questione legale su proprietà fondiarie ed immobiliari e la loro memoria prevale sulle procedure (15-22):

«Àn dš tij qšlhi dik£ze-sqai perˆ gÁj À o„k…wn, ™pikal[š]-tw ™n Ñktwka…deka mhsˆn ¢p' Ót[e]Ð ¤doj ™gšneto: nÒmwi d� kat£p[e]-r nàn Ðrkîis<a>i tÕj dikast£j: Ó t[i]¨n oƒ mn»monej e„dšwsin, toàtokarterÕn £nai».

“But if anyone wishes to bring suit regarding land or buildings, let him make his claim within 18 months from the date of this decree; in accord with current law let the judges administer the oath; whatever the mnemones know shall prevail”53.

49 THOMAS, 1992, p. 69. Su ciò che segue, cfr. LAMBRINUDAKIS, WÖRRLE, 1983, p. 328-344.50 Cfr. WILLETS, 1967, p. 47 (testo e traduzione) e 74 (commento) per le parti che qui interes-

sano; secondo altri, la datazione va ribassata alla metà del V secolo: cfr. MEIGGS, LEWIS, 1969, n. 41, p. 94-99; vd. poi MAFFI, 1997 e 2003.

51 XI.10-17: «A„ d[š ka | lüi] Ñ ¢mpan£menoj, ¢po#eip|£qq4 kat' ¢gor¦n ¢pÕ tý l£[4 Ð | ¢p' ¢]goreÚonti kata#2lmšn|4n týn poliat©n, ¢nqšm2≥[n d | dšk]a≥ [s]tatüranj ™d dikast|›rion, Ñ d mn£m4n≥ Ñ tý ksen|…4 ¢podÒt4 týi ¢porr2qšnti» («L’adottante, secondo le sue volontà, ripudi l’adottato presso l’agorà laddove si parla al popolo, alla presenza dei cit-tadini riuniti, depositi dieci stateri al tribunale e il mnamon competente sullo xenion li consegni al ripudiato»: trad. it. da COBETTO GHIGGIA, 2013, p. 36 ss., con una discussione aggiornata della que-stione). Secondo lo studioso, è possibile ritenere che l’incarico da parte dello mn£mwn toà xen…ou di ricevere dall’adottante il denaro a risarcimento del ripudiato fosse in realtà una «prerogativa indipendente dal suo compito di cancelliere e che si trattasse, data la sua natura di semplice presa d’atto, di una competenza ricollegabile al concetto di ‘estraneità’, per legame di sangue, dell’adot-tato ripudiato nei confronti della famiglia dell’adottante» (p. 39). Vd. anche MAFFI, 1997 e 2003.

52 Cfr. MEIGGS, LEWIS, 1969, n. 32, p. 69-72. Su questo testo lo studio di riferimento resta MAFFI, 1988.

53 Trad. ingl. da CARAWAN, 2008, p. 164. «Bisogna però capire in quale momento avviene la trasposizione, cioè in quali condizioni la registrazione del passato assume un valore sul piano

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Per meglio comprendere le funzioni degli mnemones è stata avvicinata ai documenti appena visti l’iscrizione cretese su mitra bronzea, databile al 500 a.C., con cui una comunità cretese decreta onori e prebende a uno scriba di nome Spensithios, il Poinikast£j, ‘lo scriba fenicio’, titolo che ricorda quello di foinikogr£foj dell’iscrizione di Mitilene (IG XII.2.96.10) e di foinikografšon, attestato in un recente addendum alla cosidetta Maledizione di Teo (Syll.3 37 e 38)54, scriba i cui incarichi

«are described as ‘to write down and remember (mnemoneuein) the affairs of the city, both secular and divine’. The ‘remembering’ element recalls the mne-mones elsewhere. So writing does not take over completely: the older office of ‘remembrancer’ overlaps with the new one of ‘scribe’, Spensithios continues to remember as well as to write»55.

Ancora nella Legge di Iaso (Syll.3 169), databile al 360-350 a.C.56, sulla redistribuzione di alcune proprietà a seguito di lotte civili, la memoria degli mnemones gioca un ruolo importante: apprendiamo infatti che comitati di mne-mones sono chiamati a svolgere mansioni ufficiali nella vendita di proprietà confiscate; una delle competenze cruciali degli mnemones è proprio quella di «to know the parties and the property issue – to minimize disputes over who had received or claimed a particular assett and precisely what it was», e «in all the sales where mnemones take part, the original owner is prominently named – it seems to be essential to identifying the property»57.

Tuttavia, è lecito supporre che probabilmente già nella seconda metà del IV secolo a.C. l’ufficio degli mnemones si stesse avviando verso il lavoro di archivia-

giuridico. Abbiamo un testo rivelatore che non è molto antico, ma ci è ancor più utile proprio per questo, in quanto l’arcaismo vi si manifesta tramite la sovrapposizione di due pensieri. È il testo di una legge di Alicarnasso dell’inizio del V secolo che regolamenta la rivendicazione di immobili dopo una fase di torbidi: alle vittime della confisca è concesso di far valere i propri diritti nei confronti di coloro che li hanno spogliati dei loro beni. Dapprima sembra sia fonda-mentale sapere quale delle due parti avrà la preferenza per il giuramento: entro un certo termine, ce l’ha l’antico possessore dei beni; scaduto il termine, il diritto viene accordato al nuovo. E la questione parrebbe risolta; ma la legge aggiunge: “Deciderà della attribuzione ciò che è a conoscenza dei mnemoni”. È chiaro che il giuramento non ha una portata pratica maggiore che se fosse un giuramento introduttivo di istanza; ma il fatto che sia accordato a una sola delle parti – che l’azione giudiziaria dipenda dalla sua prestazione e la questione della preferenza inizial-mente in primo piano – indica la persistenza di una antica concezione del processo, secondo la quale il gioco delle prove decisorie tra le sole parti permette e impone un regolamento» (GERNET, 1968, p. 237).

54 Cfr. HERRMANN, 1981; per l’accostamento agli mnemones, vd. THOMAS, 1996, e CARAWAN, 2008, p. 170 ss.; per Syll.3 37 e 38, cfr. MEIGGS, LEWIS, 1969, n. 30, p. 62-66.

55 THOMAS, 1992, p. 70.56 Vd. BLÜMEL, 1985, I, n. 1.57 CARAWAN, 2008, p. 173-175; vd. anche LAMBRINUDAKIS, WÖRRLE, 1983, p. 333-334.

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zione scritturale, stando almeno a quel che dice Aristotele (Politica 1321 b 34):

«˜tšra d' ¢rc¾ prÕj ¿n ¢nagr£fesqai de‹ t£ te ‡dia sumbÒlaia kaˆ t¦j kr…seij [™k] tîn dikasthr…wn: par¦ d� to‹j aÙto‹j toÚtoij kaˆ t¦j graf¦j tîn dikîn g…nesqai de‹ kaˆ t¦j e„sagwg£j. ™niacoà m�n oân mer…zousi kaˆ taÚthn e„j ple…ouj, œsti d' <oá> m…a kur…a toÚtwn p£ntwn: kaloàntai d� ƒeromn»monej kaˆ ™pist£tai kaˆ mn»monej kaˆ toÚtoij ¥lla ÑnÒmata sÚnegguj».

“Presso un’altra magistratura si devono registrare i contratti e le sentenze dei tribunali e devono essere depositate anche le accuse e le denunzie. In alcuni luoghi anche questa magistratura viene divisa in molte altre aventi ognuna una sfera di competenza più ristretta, mentre in altri tutti i compiti cadono sotto il dominio di una sola persona. A questi magistrati vengono dati i nomi di ƒeromn»monej, di ™pist£tai, di mn»monej o altri nomi affini”58.

Conferme di ciò le abbiamo nella Legge di Paro, datata dai primi editori59 al secondo quarto del II a.C., ma che è poi stata retrodata paleograficamente al III secolo60, dove gli mnemones sono i curatori di un archivio scritto di docu-menti (gr£mmata mnhmonik£) che conservano e ‘ri-trasmettono’ (parad…do-mai) ogni anno a uno Mnemon curatore e responsabile capo.

Sappiamo, infine, da un’iscrizione di Taso (IG XII Suppl. 434), datata al I secolo a.C., che anche gli mnemones da un certo momento in poi saranno dotati, così come altri magistrati e pubblici ufficiali, di un grammateÚj, posto alle loro dipendenze61.

Si può dunque concludere che col progressivo diffondersi della literacy e dell’uso della scrittura nell’amministrazione e nei sistemi di archivia-zione documentale delle poleis, le cui prime forme risalgono già forse alla fine del VI secolo a.C.62, la figura dello mn»mwn, diventata nel corso del tempo quella di un vero e proprio pubblico ufficiale di carriera, non scomparve, ma continuò anzi a lungo ad esercitare il suo ruolo di coadiu-tore della giustizia, arrivando ad assumere, lessicalmente, la valenza di “curatore, archivista”, e, amministrativamente, le funzioni di “notaio”63,

58 Trad. it. di VIANO, 2013, sub loco; cfr. anche Aristotele, Costituzione degli Ateniesi 30.2.59 Cfr. LAMBRINUDAKIS, WÖRRLE, 1983.60 Cfr. REGER, 1994, p. 36 e nt. 5.61 Cfr. LAMBRINUDAKIS, WÖRRLE, 1983, p. 329 ss.62 Cfr. BOFFO, 1995 e 2003, con ampia documentazione e bibliografia aggiornata.63 Gli mnemones sono citati ancora in papiri alessandrini della prima epoca augustea (cfr. BGU

1132 e 1144), i funzionari del notariato egiziano si chiameranno mnemones almeno fino a epoca tar-do-ellenistica e imperiale (cfr. WOLFF, 1978, p. 25-27), e mnemones sono chiamati in causa perfino in un’iscrizione macedone del 158-159 d.C. (cfr. LAMBRINUDAKIS, WÖRRLE, 1983, p. 331 e 338-339).

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attraverso una trafila storica in cui per lunga pezza, come osserva anche Thomas, «even after the advent of writing, the mnemon continued his role of remembering, and his memory was authoritative»64.

* * *

2. Il mondo germanico.

Nella storia delle popolazioni germaniche del Nord, la figura del rammen-tatore di leggi ha rappresentato a lungo un punto di riferimento importante e imprescindibile per la società e per il diritto65, esercitando un ruolo su cui siamo relativamente ben informati:

«before the adoption of the roman alphabet the runic mode of northern inscrip-tion was not well suited to codex or chronicle […], and the body of law must needs be carried in the memory. There was no mystery about this. First, there were private individuals knowledgeable in the law, and useful as advisers and consultants to those with a case to plead or defend. These, under one title or another, were lawmen. Second, in Iceland in particular hear a good deal about the lawspeaker, an elected official whose business it was to hold the law in memory and recite one-third of it each year for three years at the main as-sembly. He was a speaking codex (no one, of course, would claim that he had no written aids to memory), the ultimate authority, and we know the names of those Icelanders who held the office from 930 to the end of the Republic in 1262-4. They make an impressive list»66.

In islandese antico tale figura è denomitata lögsögumaðr, un composto di-visibile in lög-sögu-maðr, e che significa alla lettera “l’uomo che enuncia la legge, colui che ripete, che rammemora la legge”.

Si tratta infatti di un composto formato dall’islandese antico lög – il neutro plurale di un singolare lag che significa, solo al plurale, “legge” –, il quale corrisponde al norvegese log, al frisone lag, all’anglosassone lagu > law, etc.; tale sostantivo va confrontato probabilmente col latino lex (<leg-s) e farebbe parte di un gruppo di termini giuridico-sacrali che accomunano il germanico e il latino, quali sáttr che va con sacer e sanctus, sanna (< sannr) con sons, sontis, vé con victima, etc.

64 THOMAS, 1992, p. 69. 65 Tutte le lingue germaniche, ad eccezione del tedesco, mostrano una formazione con il

suffisso -ja- e conseguente geminazione e metafonia palatale.66 JONES, 1984, p. 347. Si troverà molto di quel che serve, comprese la liste dei lögsögu-

menn, a partire da quella tratta dalla Íslendingabók di Ári fróði Þorgilsson con l’elenco dei nomi dal 950 al 1200, nel I capitolo (From Lawspeaker to Lawbook) di SIGURÐSSON, 2002.

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La parte centrale, -sögu- è un derivato dalla radice *SEKW- / SOKW del ver-bo segja “dire”, appartenente alla terza classe dei verbi deboli, con metafonia all’indicativo presente sege “dico”, la stessa dell’antico alto tedesco sagen (ted. sagēn), del sassone antico seggian, del frisone antico sega, dell’anglo-sassone secgan > (say), etc., radice che è anche nel latino īnseque / insece e in œnnepe, ben attestata in varie lingue indeuropee, e che è la stessa da cui deriva anche il sostantivo astratto islandese antico saga (= anglosassone sagu).

La parte finale del composto è maðr, mannr, sostantivo maschile che signi-fica “uomo, persona”, da un proto nordico *mannR e che si confronta col nor-vegese runico ma(n), il gotico manna, l’anglosassone, l’alto tedesco antico, il sassone antico, e il frisone antico mann “uomo”, da cui derivano ovviamente l’inglese e lo svedese man, il tedesco e il norvegese mann, il danese mand, etc.; tale sostantivo va confrontato con lo slavo antico möžъ “uomo, perso-na”, e soprattutto con l’indiano antico mánuḥ che ha lo stesso significato e va avvicinato al nome proprio maschile avestico Manuš.čiqra e persiano medio Manuščihr “che discende da Manuš”. Particolarmente significativo è qui il confronto tra il nome proprio indiano antico Manu(ṣ), che nei Veda è il nome del primo uomo, progenitore e guida dell’umanità, l’archetipo di colui che sacrifica agli dèi, e nella letteratura indiana seguente, come si vedrà meglio più avanti, il nome del primo mitico legislatore, l’autore eponimo del Codice di Manu, e Mannus, il capostipite dei Germani attestato in Tacito.

Il lögsögumaðr islandese va accostato per le funzioni e il ruolo sociale al norvegese antico lögmaðr, plurale lögmenn, che corrisponde etimologi-camente (lög + maðr appena visti) e morfologicamente allo svedese antico lag(h)maþœr, e al nome proprio svedese antico Laghmann e danese antico Lagman; da questi derivano il basso tedesco medio lochman, l’irlandese me-dio lagmainn (dal plurale lögmenn), lawman attestato nelle Orcadi e lagman nelle Shetland; Lög-maðr significa dunque, alla lettera, “uomo delle legge” e cioè “giurisperito, giureconsulto”.

* * *

In Islanda, il lögsögumaðr è citato frequentamente a partire perlomeno dalla Landnámabók – il libro dedicato alla migrazione e alla colonizzazione norvegese in Islanda tra la fine del IX secolo e l’inizio del X67, a seguito della

67 Cfr. JONES, 1984, p. 86 ss. «Il primo atto di natura giuridica, compiuto da ogni profugo, non appena giunto in Islanda, consiste nell’assicurarsi il valido possesso di quella porzione di terreno che ritiene necessaria alle sue esigenze di vita. È l’atto del landnám, “acquisto della terra” (col termine ‘acquisto’ non mi riferisco al negozio della compravendita, ma all’atto di appropriazione di un tratto di terra, che era res nullius) […] Nella Landnámabók sono ricordati non meno di trecentoquaranta casi di acquisto della terra da parte di nuovi coloni provenienti

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famosa battaglia di Hafrsfjord (avvenuta intorno all’885-900) e delle confi-sche territoriali operate sotto la tirannide del re Haraldr Hárfagr (nato intorno al 865 e morto probabilmente nel 945)68 – ad esempio in Landnámabók, Sunn-lendingafjórðungr, 52, 6, 9:

«Ingólfr átti Hallveigu Fróðadóttur systur Lopts ens gamla; þeira son var Þor-steinn, er þing lét setja á Kjalarnesi áðr alþing vœri sett. Hans son var Þorkell máni lögsögumaðr…»

“Ingólfr sposò Hallveig, figlia di Fróði, sorella di Loptr enn gamli; loro figlio fu Þorsteinn, che fece insediare il þing a Kjalarnes, prima che fosse inaugurato l’alþing. Suo figlio fu il lögsögumaðr Þorkell máni…”69.

Il þing era l’assemblea/tribunale distrettuale; fondata nel 930 d.C., rifor-mata nel 964 e abolita definitivamente nel 1800, l’Alþingi era invece l’assem-blea generale di tutti gli uomini islandesi liberi; si riuniva una volta l’anno, in estate, per due settimane, in periodi variati nei secoli, in una zona chiamata “Piana dell’assemblea plenaria” (Þingvellir), e fungeva da organo giuridico supremo della federazione dei Bünde. «Il Bund era un’associazione di fami-glie, di Sippen, che, trovandosi a risiedere in un territorio contiguo, avevano

dalla Norvegia. È il motivo fondamentale di tutta l’opera, e costituisce – senza dubbio – il pri-mo impulso alla formazione del nuovo diritto, pubblico e privato, in Islanda»: SCOVAZZI, 1961, p. 15. «Le liste dei primi esuli (i landmenn) dovettero tramandarsi di bocca in bocca, finché si sentì l’esigenza di fissarle per iscritto (inizi del secolo XII). Di queste liste almeno quattro, una per cantone (= Quarto, vd. infra, p. 82), raggiunsero una diffusione cospicua. Un po’ alla volta, nel corpo delle lunghe tavole genealogiche, s’inserirono spunti aneddotici riferiti a questo o quel personaggio. Alla fine gli episodi confluirono in un’opera unica che fu detta Landnáma-bók»: SCOVAZZI, 1957, p. 97.

68 A tal proposito si può leggere il capitolo 1 della Víglundar Saga: «En eigi var hitt Þó með minna móti, at Þeim þreifst öngum, er í móti gerðu hans vilja, sumir urðu landflœmdir, en sumir drepnir; kastaði konungr þá sinni eign á allt Þat, er Þeir áttu eptir, en margir mikils háttar menn flýuðu ór Nóregi ok þoldu eigi álögur konungs, Þeir sem váru af stórum œttum, ók vildu heldr fyrirláta óðul sin ok frœndr ok vini en liggja undir Þrœlkan ok ánauðaroki konungs, ok leituðu mjök til ýmissa landa. Um hans daga byggðist mjök Island, Því at Þangat leituðu margir Þeir, sem eigi Þóldu ríki Haralds Konungs»; “Ma nullameno non accadde che andasse bene a nessuno quelli che agirono contro la sua volontà: alcuni furono cacciati dalla regione e altri uccisi; allora il re estese la sua proprietà su tutto quello che essi possedevano, e molti uomini di grande importanza fuggirono dalla Norvegia e non sopportarono i soprusi del sovrano, quelli che discendevano da grandi famiglie, e vollero piuttosto abbandonare le loro proprietà avite e i congiunti e gli amici, anziché sottostare alla schiavitù, e al giogo del sovrano; parecchi partiro-no verso varie terre. In quei giorni l’Islanda fu ampiamente colonizzata, perché vi si diressero molti di coloro, che non tolleravano la sovranità del re Haraldr” (testo secondo HALLDÓRSSON, 1959, p. 63; trad. it. da SCOVAZZI, 1975, p. 400-401).

69 Testo e traduzione secondo SCOVAZZI, 1961, p. 209. Un’edizione successiva è quella di BENEDIKTSSON, 1968.

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avuto convenienza a federarsi in una lega, capace di tutelare certi interessi, di contro alle insidie, che potevano venire dall’esterno, e alle intemperanze dei singoli. Il Bund si reggeva su un patto solenne, che le varie famiglie (e per esse i loro capi) avevano stretto e che aveva per oggetto il riconoscimento dell’egua-glianza di tutti i membri e l’impegno solenne a difendere con ogni mezzo gli interessi comuni. Questo complesso di garanzie giuridiche si dice ēwa»70.

Come osserva anche Meli,

«ogni grande famiglia possedeva in Þingvellir capanne o edifici provvisori che venivano preparati e coperti poco prima del periodo assembleare, i quali avevano il compito di rendere più agevole il giorno dei partecipanti. Il luogo stesso era denso di valori simbolici. A nordovest si ergeva una rupe detta Lög-berg (‘Monte della Legge’), ai cui piedi si rendevano di pubblico dominio le questioni legali da risolvere. Più sotto, parallelamente al rialzo, scorreva un corso d’acqua, l’Øxará, attraversato da un ponte più a occidente del Lögberg. In mezzo al fiume si trovavano alcuni isolotti che potevano venire utilizzati per i duelli; e ‘duello’ si dice appunto in islandese antico hólmganga, ‘andata sull’isola’. A oriente dell’Øxará si insediava il tribunale (Lögrétta). Dietro la Rupe della Legge si apriva una forra, l’Almannagjá (‘Forra di tutti gli uomi-ni’). È dunque uno spazio delineato quasi in maniera sacrale, con limiti natura-li, ai quali vengono, in sottofondo, attribuiti valori religiosi. In Þingvellir, ogni anno, le comunità islandesi, che pur avevano altre assemblee distrettuali, costi-tuivano una sorta di comunità di livello superiore, in cui riaffermavano vincoli giuridici e religiosi. Difatti, quando il cristianesimo verrà introdotto in Islanda, non sarà più sopportabile una situazione in cui convivono due religioni, che comporterebbe una deleteria separazione nelle istituzioni giuridiche. Simili as-semblee per genti della stessa stirpe sono del resto di antica attestazione nelle culture germaniche e sono testimoniate sin dai tempi di Tacito […]»71.

Ogni Quarto (Q. orientale, Q. occidentale, Q. settentrionale, Q. meridiona-le) in cui fu divisa l’Islanda – sulla base del modello amministrativo tradizio-nale norvegese e a partire dal 964 – contava 3 o 4 Bünde e ciascuna aveva il proprio þing, ognuno di quest’ultimi era composto da tre goðar (sing. goði): «con goði s’intende una carica politica e religiosa soprattutto dell’Islanda altomedievale. Propriamente il titolo è hofgoði, “sacerdote del santuario” e la sua dignità viene detta goðorð. I primi nobili coloni dell’Islanda, infatti, fondarono in ogni comunità da loro costituita un santuario, di cui erano a capo. […] La carica rimase anche dopo l’introduzione del cristianesimo, ma priva delle antiche connotazioni sacrali»72, e cessò del tutto quando l’Islanda

70 SCOVAZZI, 1961, p. 106.71 MELI, 1997, p. 719-720.72 Ivi, p. 520 nt. 6.

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fu unificata alla Norvegia, nel 1262. Poiché ogni Quarto aveva tre assemblee locali, i goðar furono fissati in trentasei, ma dato che il Quarto Settentrionale era composto invece da quattro assemblee, formalmente i goðar erano 39 ma i dodici del Q. Settentrionale contavano per nove, come quelli degli altri Quar-ti. Nel 1005 fu istituito un Quinto Tribunale, ma i nuovi goðar non avevano diritto di far parte della Lögrétta.

Lögrétta è un sostantivo femminile, attestato anche in norvegese dove designa «das Richterkollegium auf den Landschaftsdingen», derivato dalla formula rétta lög “den Gesetzesvorschlag formulieren”, composta dal ver-bo rétta (*< rehtian; cfr. alto tedesco antico rihten, tedesco richten e Richter ma anche Richtung, anglosassone rihtan, gotico ga-raihtjan, frisone riuhta), fattitivo da Recht e il cui significato “recht machen” si è lentamente evoluto verso la sfera giuridica – «una definizione nuova, diversa dal lat. ius, it. giure, alludente a una norma giuridica sentita come contrapposta alla ‘deviazione’ (sc. dal ‘retto’ cammino): l’ingl. right come sostantivo e così il tedesco Recht e le altre parole germaniche di analoga forma e significato sono perfettamente trasparenti»73 – e dal già visto lög “legge”: «dem anorw. Substantiv lögrétta liegt die ähnliche Vorstellung zugrunde, daß ein Urteilsspruch dieses Richter-ausschusses besprochen und formuliert wird, bevor er dem versammelten Ding zur formellen Annahme vorgelegt wird»74.

Nominato dall’Alþingi, anche in Islanda, così come il suo analogo in Gre-cia, il lögsögumaðr non era tuttavia un giudice, bensì «un esperto di diritto, un giurisperito, che – data la mancanza di leggi scritte – era chiamato, per la sua prudenza e per la sua memoria tenace, a citare le consuetudini giuridiche piú antiche, destinate a regolare le singole fattispecie e le varie controversie. Egli era un autorevole personaggio, cui si ricorreva nei casi dubbi, nelle incertezze procedurali, perché gli si riconosceva una competenza indiscutibile: la sua parola era la legge»75.

Così confermano anche alcuni passi della Saga di Njáll (Njáls Saga)76, per esempio nel capitolo 142:

«Eyjólfur lést eigi til þess hafa vitsmuni að vita það víst. Sendu þeir þá mann til Skafta lögsögumanns að spyrja hann eftir hvort rétt væri. Hann sendi þeim þau orð aftur að þetta væru að vísu lög þó að fáir kynnu».

73 SCARDIGLI, 1977, p. 95.74 SEE, 1964, p. 40 ss.75 SCOVAZZI, 1961, p. 208-209. 76 «L’eponimo della saga, Njáll, poi detto ‘Njáll del rogo’, è un giurista, un avvocato direm-

mo oggi e, come tutti gli avvocati, agisce senza compromettersi in prima persona: Njáll non im-pugna una sola arma, se non una piccola ascia da parata, non combatte, non si espone: si limita a dare consigli e consulenze giocando, tutt’al più, d’astuzia e di cavilli»: MELI, 1997, p. 717.

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“Eyjólfr confessò che le sue conoscenze non erano tali da appurarlo77. Inviarono perciò qualcuno da Skapti, il lögsögumaðr, per chiedere lumi. Skapti mandò a dire in risposta che quelle erano le norme della legge, sebbene pochi le conoscessero”78.

E così come anche poco più avanti:

«Flosi spurði Eyjólf hvort þetta mundi rétt vera en hann lést það eigi víst vita og sagði lögsögumann úr því skyldu leysa. Fór þá Þorkell Geitisson af þeirra hendi og sagði lögsögumanni hvar komið var og spurði hvort þetta væri rétt er Mörður hafði mælt. Skafti svarar: “Fleiri eru nú allmiklir lögmenn en eg ætlaði. En þér til að segja þá er þetta svo rétt í alla staði að hér má ekki í móti mæla. En það ætlaði eg að eg einn mundi nú kunna þessa lagarétting nú er Njáll er dauður því hann einn vissi eg kunna”».

“Flosi domandò a Eyjólfr se l’azione di Mörðr fosse corretta. Eyjólfr rispose che non era in grado di appurarlo e che sarebbe toccato al lögsögumaðr sciogliere il dubbio. Quindi Þorkell figlio di Geitir andò a consultarlo, illustrando al lögsögumaðr lo stato delle cose e domandando se quanto aveva detto Mörðr corrispondesse alla legge. Skapti rispose: ‘Ci sono giuristi estremamente validi, piu di quanto io sospettassi. Devo dirti che la corrispondenza alla legge è assoluta e che non posso eccepire alcun-ché. Pensavo di essere tuttavia l’unico a conoscere questa disposizione procedurale (lagarétting) ora che Njáll é morto. Sapevo che la conosceva soltanto lui’ ”79.

In questo passo, è importante notare anche il sostantivo femminile laga-rétting: «in lagarétting, f., tritt die Bedeutung des “Formulierens” noch stär-ker hervor: lagarétting bedeutet nicht etwa “Gesetzesverbesserung”, sondern “formulierte Gesetzvorschrift, Gesetzformel”»80.

Pur circondato dunque da grande prestigio e autorità, il lögsögumaðr «non fu mai inserito in quelli che furono gli organi specifici, cui era demandato in Islanda l’esercizio del potere giudiziario»81, e le sue decisioni non furono mai intese come verdetti o sentenze (dómr), ma piuttosto come responsi, come pareri (órskurðr).

Egli però presiedeva, assiso su un suo proprio scranno (lögsögumanns rúm) e col compito di dirigerne la procedura, l’Alþingi, e soprattutto la Lö-grétta, cioè la corte giuridico-legislativa dell’Alþingi, composta dai trentano-ve goðar distrettuali, a cui si aggiungevano altri nove partecipanti e, appunto,

77 «Eyjólfr era un uomo tenuto in grande onore, a confronto con gli altri profondo conosci-tore della giurisprudenza, dal momento che era uno dei tre maggiori esperti d’Islanda»: Saga di Njáll 138, MELI, 1997, p. 1011.

78 Ivi, p. 1031.79 Ivi, p. 1032.80 SEE, 1964, p. 49.81 SCOVAZZI, 1961, p. 210.

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il lögsögumaðr; essa era la più autorevole corte d’Islanda e si insediava alla Rupe della Legge (Lögberg) col compito di risolvere, come sede di ultima istanza, i conflitti legali, di garantire l’esecuzione delle leggi esistenti e, se del caso, di adottarne di nuove, nominava i giudici e le sue decisioni erano immediatamente esecutive.

Il compito principale del lögsögumaðr era quello di recitare a memoria di fronte all’Alþingi e a tutti i membri della Lögrétta un terzo delle leggi esistenti per ciascuno dei tre anni in cui rimaneva in carica, paragrafo (Þáttr) per pa-ragrafo nella maniera più completa a sua conoscenza; tale carica era elettiva e non ereditaria, poteva essere reiterata e da questa ci si poteva dimettere per motivi di salute82 o essere cacciati per gravi mancanze, ed era remunerata ma anche punita con multe, secondo una serie di diritti e di doveri che saranno col tempo minuziosamente elencati83.

Se il lögsögumaðr si rendeva conto che la sua memoria era in qualche punto inadeguata, poteva convocare il giorno prima della recitazione pubblica annuale cinque esperti (lögmenn) che lo aiutassero a ricordare a e ricostruire minuziosamente la legge:

«Þat er ok at lögsögumaðr skal svo gerla þáttu alia upp segja at engi viti einna miklugi gerr. En ef honum vinnst eigi fróðleikr til þess, þá skal hann eiga stefnu við fimm lögmenn in næstu dœgr áðr eða fleiri, þá er hann má helst geta af, áðr hann segi hvern þátt upp, ok verðr hverr maðr útlagr þrem mörkum er ólofat gengr á mál þeira, ok á lögsögumaðr sök þá».

“Moreover, the lawspeaker shall recite aloud all parts completely, in such a way that no one knows them more completely in any way. But if his knowledge does not extend so far, then he shall convene a meeting with five or more lawmen the day before, from whom he can get the best [information], before he recites each part, and anyone who tries without permission to interfere in their delib-erations will be liable for a fine of three marks [of silver], with the charge to be brought by the lawspeaker”84.

82 Grímur Svertingsson, ad esempio, fu lögsögumaðr – il primo dopo la conversione del-l’Islanda al cristianesimo – solo tra il 1002 e il 1003 per problemi alla voce, troppo debole per essere udita da tutti i partecipanti all’Assemblea.

83 A partire almeno dalla Grágás, Konnungsbók, capitoli 24, 28, 29, 115, 117; è questo il risultato più illustre dell’opera di codificazione scritta del diritto islandese iniziata intorno al 1117 e confluita dapprima in una raccolta detta Hafliðaskrá dal nome di uno dei suoi redattori, e poi per giustapposizioni e redazioni successive arrivata fino ai due codici – assai divergenti tra loro, redatti probabilmente tra il 1250 e il 1260 e denominati uno Konnungsbók e l’altro Staðarhólsbók – noti appunto a partire dal XVI secolo col nome di Grágás “oca selvaggia”. Per le Grágás è fondamentale ANDREWS, FOOTE, PERKINS, 1980-2006; sulle leggi islandesi succes-sive, vd. ora SCHULMAN, 2010.

84 Grágás 460, Lögsögumannsþáttr, trad. da SIGURÐSSONN, 2002, p. 58.

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Nella Grágás (la, 216) «it is stated that all of the fifty members of the law council (lögrétta) had to be present whenever the lawspeaker recited the laws, a way of spreading the knowledge and memory of law to as many as possi-ble»85; se uno di questi non era in grado di partecipare, poteva inviare al suo posto due persone che ascoltassero la legge al suo posto86.

Molti uomini famosi in Islanda «adorned this office, including Ulfljot him-self, the drafter of the constitution, Thorgeir of Ljosavatn, who held office for seventeen years and though a heathen announced the adoption of Christianity in Iceland, and Skapti Thoroddsson, who held it for twenty-seven years, es-tablished the Fifth Court in 100587, and made other far-reaching legal reforms. Later holders included Snorri Sturluson and Sturla Thordarson, the historians. The Lawspeaker was the embodiment of the Constitution and a repository of law, but he in no sense ruled the country or even courts. He could exert in-fluence, but not wield power»88.

* * *

In Norvegia, nei Frostuþingslög89, il lögmaðr compare spesso; anche se conserva alcune delle antiche prerogative giudiziarie autonome, la sua fun-zione si è tuttavia di fatto ridotta al ruolo di funzionario al servizio del re di Norvegia, che lo nomina e lo stipendia, come ci attestano appunto anche i Frostuþingslög, in Introduzione, cap. 1 e cap. 1690.

In Svezia, invece, la figura del lögmaðr / laghmaþœr conserva meglio e più

85 BRINK, 2005, p. 79.86 Cfr. QUINN, 2000, p. 31 ss.87 Vd. supra, p. 82 ss.88 JONES, 1984, p. 283.89 «In terra di Norvegia ricordiamo, anzitutto, i cosiddetti Frostuþingslög, che raccolsero in-

sieme le tradizioni giuridiche popolari della regione di Nidaros. Nella stretta penisola di Frosta si riunivano i delegati (non già l’assemblea plenaria) di una federazione di otto tribù (fylke) della Norvegia centro-occidentale. Qui si sottoponevano alla prudente saggezza dei logmenn casi e con-troversie di natura giuridica e se ne traevano, più che sentenze, dei consigli, o ammonimenti, ispirati al più fedele ossequio verso il mos maiorum. Naturalmente, le decisioni per i casi più importanti e più frequenti erano state via via trasmesse di generazione in generazione, attraverso una tradizione orale ininterrotta. Finché, introdotta anche in Norvegia la scrittura, si sentì il bisogno di fissare nella sua forma defìnitiva questo filone di esperienza giuridica popolare, e furono redatti i Frostuþingslög. È molto probabile che una prima stesura della raccolta abbia visto la luce verso il 1220. Di essa non ci sono rimasti che alcuni frammenti […]. Alcuni decenni più tardi, verso la metà, del secolo XIII, si addivenne a una revisione e a una stesura più ampia dell’opera. Quest’ultima redazione, che è quella che possediamo, si inizia con la solita sezione di diritto canonico, per proseguire via via con le varie disposizioni di diritto penale e civile. […] Il contenuto dei Frostuþingslög si contraddistingue per lo spiccato accento arcaico, [… ] ci troviamo di fronte a un materiale preziosissimo per la conoscenza del diritto nordico primitivo»: SCOVAZZI, 1957, p. 138-139.

90 Cfr. SCOVAZZI, 1975, p. 300.

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a lungo alcuni dei poteri che un tempo le erano stati accordati, sommando ad essi prerogative in parte diverse, come ci attestano, tra gli altri, gli Äldre Vä-stgötalagh91, in Rotlösœ Bolkœr, cap. 1:

«Sveœr egho konong at taka ok sva vrœkœ. Han skal mœþ gislum ovan fara ok i Östrœgötland. Þa skal han sœndimœn hingœt gœrœ til aldra göta þings. Þa skal sœndimœn hingœt gœrœ til aldra göta þings. Þa skal laghmaþœr gislœ skiptœ, tva sunnan af landi ok tva norþœn af lande. Siþan skal aþra fiurœ mœn af landi gœrœ med þem. Þer skulu til Iunœbekkœr mote farœ. Östgöta gisla skulu þingat fylgiœ ok vittni bœrœ, at han œr sva inlœndœr, sum lagh þerrœ sigiœ. Þa skal aldra götœ þing i gen hanum nœmnœ. Þa han til þings kombœr, þa skal han sic allum götom trolekœn svœriœ, at han skal eigh rœt lagh a landi varu brytœ. Þa skal laghmaþœr han fyrst til konungs dömœ ok siþen aþrir þer, œr han biþar. Kononger skal þa þrim mannum friþ givœ þem, œr eig hava niþingsvœrk giort».

“Gli Svedesi hanno da eleggere il re e procedano così. Egli (il re) deve avan-zarsi con degli ostaggi dalle regioni alte verso l’Östgötaland. Quindi egli deve inviare uomini di qui per convocare l’assemblea di tutti i Goti. Allora il lagh-maþœr deve contare gli ostaggi, due dalla regione del Sud e due dalla regione del Nord. Poi il re deve aggiungere a quelli quattro altri uomini della regione. Questi debbono incontrarsi a Junœbœk. Debbono quindi seguire gli ostaggi dei Goti dell’Est e portar testimonianza che quello (il re) è entrato nella regione come prescrive il diritto di essa. Allora bisogna convocare l’assemblea di tutti i Goti per lui (cioè per accoglierlo). Allorché egli giunge all’assemblea, deve giurare lealmente a tutti i Goti che egli non violerà la giusta legge nella nostra regione. Allora il laghmaþœr deve proclamarlo re, e in seguito proclamare al-tri che egli desidera (nominati per le altre cariche). Il re deve ridare in questa

91 Sono questi il documento più importante del diritto dei Goti occidentali: «fra le innume-revoli raccolte di diritto penale e privato, che furono redatte in Svezia prima della codificazione unificatrice del re Magnus Eriksson (1347-1363), la più antica è quella che va sotto il nome di Västgötalagh. Si tratta di un insieme di consulti giuridici emessi dai vari logmenn della Svezia sud-occidentale verso il 1250. Pochi frammenti di una raccolta più antica, risalente alla prima metà del secolo XIII, recano il nome del lögmaðr Eskil Magnusson, e ci sono stati conservati nella Chronica di Olaus Petri. Di quest’opera possediamo una redazione più antica (Äldre Västgöta-lagh), composta verso il 1250 e pervenutaci con alcune aggiunte apposte in epoca posteriore. Verso l’inizio del secolo XIV si ebbe una profonda rielaborazione condotta con intendimenti innovatori (redazione seconda, o Yngre Västgötalaghen). […] La prima redazione, […] si rivela caratterizzata da istituti molto conservativi. […] Fra i tratti più antichi ricordiamo la procedura particolare che deve seguire il derubato, per poter compiere una perquisizione nella casa del la-dro presunto (Þiuvœ Bolkœr, 5), un istituto che risale addirittura all’epoca indeuropea. Né man-ca la responsabilità penale collettiva, della famiglia intera, in ordine all’omicidio commesso da un singolo (Af mandrapi, 14); si accenna poi alla responsabilità penale pienamente affermata anche in caso di omicidio involontario (ibid., 12), in ossequio a una norma che è comune a tutti i diritti germanici»: SCOVAZZI, 1957, p. 130 ss.

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circostanza il friðr (= la libertà) a tre uomini che non abbiano compiuto delle azioni infamanti”92.

Credo sia evidente come «in questo passo il lögmaðr adempia a una fun-zione ben più alta, rappresentando sostanzialmente l’intera comunità dei Goti e tutelandone le usanze giuridiche, nel momento solenne in cui si procedeva alla elezione di un sovrano. Il lögmaðr accerta il numero prescritto degli ostag-gi dovuti dal candidato, nonché l’esattezza della formula giuridica che deve essere pronunziata per accedere alla dignità di sovrano. Procede finalmente alla elezione, rendendo, con questo atto, il neo-sovrano partecipe dell’ēwa che presiede alla comunità dei Goti»93.

Sulla base di un dotto commento di Scovazzi94 a un passo di Snorri Stur-luson95, è possibile tuttavia dire di più sulle funzioni del lögmaðr in Svezia. Vediamo dapprima il passo dello storico, in Heimskringla, Óláfs Saga Helga, cap. 77:

«Í hverri þeiri deild landsins er sitt lögþing ok sín lög um marga hluti. Yfir hverjum lögum er lögmaðr, ok rœðr hann mestu við bœndr, því at þat skulu lög vera, er hann rœðr upp at kveda. En ef konungr eða jarl eða byskupar fara yfir landit ok eigu þing við bœndr, þá svarar lögmaðr af hendi bónda, en þeir fylgja honum allir svá, at varla þora ofreflismenn at koma á álþingi þeira, ef eigi lofa bœndr ok lögmaðr. En þar allt er lögin skilr á, þá skulu skulu öll hal-lask til móts við Uppsalalög ok aðrir lögmenn allir skulu vera undirmenn þess lögmanns, er á Tíundalandi er».

“In ogni regione di quella terra (sc. Svezia) c’è il suo tribunale legale e la sua legge per molte fattispecie. Sopra ogni legge c’è il lögmaðr, e questi soprat-tutto decide, nei confronti dei contadini, perché questa deve essere la legge, quella che egli decide di proclamare. Ma se un re, o un jarl 96, o dei vescovi, viaggiano per il paese e tengono un’assemblea con i contadini, allora il lög-maðr risponde per conto dei contadini, tanto che diffìcilmente degli uomini, anche potenti, osano andare alle loro assemblee, se i contadini e il lögmaðr

92 Testo e traduzione, con alcune modifiche mie, secondo SCOVAZZI, 1975, p. 300-301.93 Ivi, p. 301.94 Cfr. SCOVAZZI, 1970 = 1975.95 L’autore della cosiddetta Snorra Edda, nota anche come Edda in prosa, e appunto, tra l’al-

tro, della Heimskringla qui citata – che è una storia dei re norvegesi e fu composta da Snorri dopo l’Edda – visse tra il 1178 e il 1242, quando morì assassinato, probabilmente per motivi politici; lögsögumaðr, grande letterato e raffinato poeta, uno scaldo nella tradizione nordica, è ritenuto uno storico più creativo che affidabile, ma sappiamo che passò l’estate del 1219 in Svezia e che soggiornò a Uppsala, dove raccolse di prima mano le notizie con cui poi redasse una breve digres-sione su come si esplicavano a quel tempo in Svezia le funzioni legislative e giudiziarie.

96 Jarl è un titolo nobilare corrispondente all’inglese earl, e vale, all’incirca, “conte”.

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non lo consentono. Ma per tutto quello in cui le leggi differiscono, tutti devono attenersi alla legge di Uppsala, e tutti gli altri lögmenn devono essere soggetti a quel lögmaðr, che è nel Tíundaland ”97.

L’attenzione di Snorri fu attratta verosimilmente dalla diversa concezione politica e giuridica riscontrata rispetto alla sua Islanda, dove non c’era una monarchia o una struttura statuale e semi-feudale rigida, e soprattutto dal fatto che in Svezia era ancora determinante «un retaggio religioso, che risaliva alla più remota tradizione del paganesimo nordico e che non era stato alterato dalla conversione cristiana (secoli X e XI)»; dietro tale retaggio vi era una tradizio-ne sacrale «ininterrotta, che suscitava ancora sentimenti di profonda reverenza e che imponeva l’osservanza delle disposizioni formulate dagli uomini conve-nuti attorno al tempio di Uppsala»98.

Sappiamo che le popolazioni germaniche erano solite riunirsi in assemblee periodiche, che si tenevano spesso in località sacre e a volte presso dei templi, dove convenivano i rappresentanti di tribù stanziate anche molto lontano; alcuni di questi templi ci sono noti dagli storici antichi, ad esempio quello di Freyr a Uppsala (Adamo da Brema, Descriptio insularum Aquilonis 26-28)99, quello di Nerthus sulle rive del Baltico (Tacito, Germania 40); quello di Tamfana nella Renania (Tacito, Annales 1.51); quello del Regnator omnium deus nelle terre abitate dai Semnoni (Tacito, Germania 39)100. Tali assemblee dovevano anche essere occasione per la trattazione di questioni di carattere politico, sociale e giuridico: «durante le sedute assembleari, individui provenienti da terre assai lontane potevano porre dei quesiti in tema di diritto, invitando i convenuti a trovare le soluzioni più convenienti. Tali soluzioni si traducevano in norme nuo-ve, che, partendo poi dal tempio comune, potevano irradiarsi per ampio tratto e produrre i loro effetti giuridici in regioni lontane e separate fra loro»101.

Attorno al tempio di Freyr a Uppsala si confederò dapprima il Tíundaland, la “Terra dei dieci cantoni”, e poi, l’Attundaland, la “Terra degli otto cantoni”, e infine il Fjädryndaland, la “Terra dei quattro cantoni”, cioè, in definitiva, tutto il “Regno degli Svedesi”, il cosiddetto Svearike.

Snorri ci dice che ogni regione della Svezia aveva la sua assemblea / tri-bunale e il suo complesso di tradizioni giuridiche trasmesse oralmente di ge-

97 Testo in AÐALBJARNARSON, 1945, p. 110, e traduzione secondo SCOVAZZI, 1975, p. 423-424.98 Ivi, p. 424-425.99 Il chierico Adamo da Brema scrisse nella seconda metà dell’undicesimo secolo una Hi-

storia Ecclesiae Hammaburgensis, il cui quarto libro si intitola Descriptio insularum Aquilo-nis, ed è una descrizione delle condizioni geografiche, etniche e religiose della Scandinavia in epoca pre-cristiana. Sull’attendibilità della descrizione del tempio di Uppsala in Adamo, cfr. DEL ZOTTO, 2005.

100 Cfr. anche SNORRI, Ynglinga saga, cap. 5.101 SCOVAZZI, 1975, p. 422-423.

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nerazione in generazione, e che sopra ogni legge c’era il lögmaðr; in questa affermazione «sta il vero significato della tradizione svedese più antica. Il lög-maðr è il depositario del patrimonio giuridico di ogni singola regione; è colui che può essere chiamato a interpretare le norme già in vigore; è colui che può sollecitare l’assemblea a ‘trovare’ nuove norme, atte a supplire ad eventuali carenze giuridiche. È indubitato che, per quanto si riferisce alla sfera partico-lare del diritto, a questo lögmaðr svedese (come all’affine lögsögumaðr islan-dese) siano state riservate delle attribuzioni, che, nell’età più remote, erano prerogativa del sacerdote-giudice germanico»102.

L’unica autorità accettata e riconosciuta da tutti, in fatto di diritto, era dun-que quella del lögmaðr; egli era colui che «essendo partecipe di una tradizione giuridica orale ininterrotta, era capace d’imprimere, ad ogni norma e ad ogni fattispecie dibattuta, il suggello di un’interpretazione legittima, che tutti dove-vano accogliere senza discussione». Il suo compito consisteva «nell’accertare la reale essenza giuridica delle norme trovate dall’assemblea (unica autorità sovrana nella sfera legislativa), la loro capacità di adeguarsi al corpus del diritto consuetudinario, e nel proclamarle ufficialmente ai convenuti. Sappia-mo, d’altra parte, che il verbo kveða, usato da Snorri, ha la precisa accezione semantica di “pronunciare la formula magica”, “annunziare una verità sacra”; quindi, quello che è stato annunziato magicamente dal lögmaðr diviene una realtà vera, valida per tutti»103.

A un certo punto, la fama e il prestigio del tempio di Uppsala valicarono i confini del Tíundaland e anche i delegati delle altre anfizionie svedesi, sparse per tutto lo Svearike, iniziarono ad accorrere alle cerimonie che si tenevano nel tempio e a partecipare all’attività legislativa che si svolgeva nell’assemblea; Snorri dice «che ogni anfìzionia minore inviava il suo lögmaðr a Uppsala e che tutti questi lögmenn erano soggetti al loro collega, il più ricco di prestigio, che risiedeva nella località sacra»104; la diffusione delle norme nuove fissate a Uppsala, quando ce n’erano, avveniva poi per mezzo dei singoli lögmenn, che, terminata la sessione assembleare, tornavano nella loro patria, avendo dappri-ma memorizzato e poi trasmesso e diffuso oralmente le novità giuridiche.

Tutto ciò è confermato tra l’altro anche dal fatto che alcune norme di legge contenute nel Dalalag, cioè il codice svedese che ebbe vigore in Dalecarlia, la regione centrale e per lo più montuosa della Svezia, si siano diffuse dal centro politico e giuridico di Uppsala verso una valle remota e isolata, ben prima della loro redazione scritta avvenuta nel secolo XIV, quando ancora facevano parte cioè della tradizione orale (forn frœði). Le corrispondenze tra

102 Ivi, p. 426.103 Ivi, p. 427.104 Ivi, p. 428.

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norme contenute nell’Upplandslag, il codice scritto in cui fu accolta buona parte delle norme valide nella regione di Uppsala, e quelle contenute nel Dalalag risal-gono infatti a scambi culturali di molto precedenti l’epoca della trascrizione e sono dovuti, appunto, al superiore prestigio del centro giuridico-cultuale di Uppsala: «i lögmenn della Dalecarlia convenivano a Uppsala e riportavano, poi, in quella valle alpestre le novità giuridiche annunciate dal più autorevole» dei lögmenn105.

Insomma, anche in Svezia il lögmaðr ebbe «una notevolissima importanza per la conservazione della tradizione giuridica nordica, in quanto fu il raccogli-tore dell’esperienza pratica quotidiana che si era andata accumulando di anno in anno; il lögmaðr tramandava oralmente la propria dottrina ai suoi successori; finché, diffusosi nel Nord l’uso della scrittura, si provvide a fissare definitiva-mente tale tradizione giuridica. Si tratta, quindi, sostanzialmente di giurisperiti, che ebbero una parte attiva nell’elaborazione del diritto consuetudinario»106.

* * *

All’Alþingi dell’estate del 1118 – la prima assemblea successiva a quella in cui fu dato l’incarico a un comitato di lögmenn di codificare, «in the sense both of reorganizing and to writing»107 le leggi islandesi in una redazione poi nota, come si è detto108, col nome di Hafliðaskrá – non fu il lögsögumaðr a recitare la legge, ma un chierico a leggerla.

105 Cfr. ivi, p. 430, con la bibliografia di riferimento. A proposito del legame tra templi e diritto in Scandinavia, è utile anche BRINK, 2002, p. 95 ss.: «In my opinion cultic and legal (as well as probably also skaldic) matters were so intimately connected that it is impossible to sepa-rate one phenomenon from the other during the Pre-Christian times in Scandinavia» (p. 96); interessante la sua ripresa di una precedente ipotesi sui toponimi in -lög, -lag “legge”: «From these names we may assume administrative districts also could be some kind of cult districts, where a specific Pagan god had a special position. This is the old idea of the Swedish legal his-torian Gerhard Hafström, i.e. that the parishes and also the þing districts originated in prehistoric pagan cult districts. This idea has been criticized in later years, but for the interpretation of these few district names, Hafström’s idea should be still considered. In this case it is interesting to note that the above mentioned three Norwegian names in -lög [Njarðar-lög, Freys-lög, Tys-lög, dove la prima parte dei composti è un nome di divinità] may bear witness to the fact that in prehistoric Scandinavia the cult and the law were tied together» (p. 100).

106 SCOVAZZI, 1957, p. 300.107 FOOTE, 1977, p. 53; «It was not only in 1117 at Breiðabólstaðr í Vestrhópi [una località

sita nell’Islanda del nord] that Icelanders recorded law. Some notation doubtless took place earlier and some later; some of it was textually related, some of it had no specific scribal links with any other written sources but was nevertheless inevitably akin in style and language. There were traditional ways of framing law matter, and whoever the source-man his oral report would correspond closely to that of other experts, and all would correspond closely to the recital of the lawspeaker – closely though perhaps seldom identically for long» (p. 54).

108 Vd. supra, p. 85 nt. 83.

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Si discute se sia davvero questo il momento a far data dal quale il rammen-tatore di leggi cessò di essere il punto di riferimento della cultura e della prassi della tradizione giuridico-legale della sua gente; certo è che la diffusione della scrittura alfabetica latina e il progressivo fissare per iscritto il diritto consuetudi-nario avviarono un lungo ma irreversibile processo, non indolore e non privo di ambiguità109, al termine del quale la figura del lögsögumaðr scomparve:

“the age of writing took about 200 years to establish itself fully, from around 1100 to around 1300, in the sense that writing came little by little to dominate all the areas of knowledge to which it might be applied. So far as we know, no secular books at all were written in Iceland in the first century of Christianity, after the year 1000; during these years writing seems to have remained the preserve of the Church. The situation changes early in the 12th century with the codification of the laws, and after this writing comes to extend its influence from one area to the next. But even 200 years on writing had not entrenched itself so firmly that people inevitably turned to books rather than oral tradition when searching for reliable information”110.

Per quasi trecentocinquanta anni, i lögmenn ripeterono e tramandarono oralmente di generazione in generazione le leggi, a partire dal primo, Úlfljótr í Lóni tra il 927 e il 929, agli inizi della storia delle libere istituzioni islandesi, passando per Finnr Hallsson, che fu lögsögumaðr tra il 1139 e il 1145, il primo sacerdote ordinato a diventarlo nella storia islandese – dunque verosimilmen-te anche il primo a saper leggere e scrivere compiutamente –, e per Snorri Sturluson, tra il 1222 e il 1231, il primo lögsögumaðr laico e letterato della potente famiglia degli Sturlungar, fino all’ultimo ad esercitare tale ufficio, quel Þorleifr hreimr Ketilsson che nel 1271, abrogate le leggi islandesi dopo la fine dell’indipendenza nel 1262, fu sostituito da un funzionario nominato dal re norvegese.

E tuttavia, accanto a questa figura storica del diritto islandese, norvegese e svedese, anche altre popolazioni germaniche mostrano di averne o di averne avute di simili. È quel che indica, ad esempio, il termine del frisone antico111 âsega, dove â appartiene alla stessa base radicale del già visto antico alto tede-sco e islandese antico ēwa “norma consuetudinaria, diritto, legge”112, e sega è

109 Cfr. tra gli altri QUINN, 2000, p. 31 ss.110 SIGURÐSSON, 2002, p. 55.111 Il frisone è una lingua del gruppo germanico occcidentale, più vicina all’anglosassone

e al sassone che al nederlandese, ed è oggi parlato nella provincia nederlandese della Frisia (Friesland, frisone occidentale), e, in Germania, nello Schleswig-Holstein (frisone settentrio-nale) e nel Saterland (frisone orientale).

112 Cfr. supra, p. 81-82.

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ancora il verbo frisone antico sega “dire”113 e dunque âsega significa “colui che dice la legge”114.

Il termine è attestato in fonti relativamente tarde, quelle delle raccolte di diritto consuetudinario messe per iscritto, in frisone e con alcune parti tradotte in latino, a partire forse dal XIII secolo, ma che risalgono, secondo la tradi-zione, almeno all’età di Carlo Magno, e il cui nucleo centrale e più autentico, che conserva tratti molto arcaici, è costituito dalle XVII Küren, «una serie di disposizioni giuridiche derivanti dall’antiche sentenze pronunciate alle assise generali delle tribù frisoni»115; XVII Küren, cap. 3:

«Alsa thi asega nimth unriuchta meida, sa ne ach ih nenne dom ma to delane […] wande thi asega bitecnath thene prester. Thi prester ande thi asega hia sce-len alle riuchtlike thing dema ande dela, alsa scelen hia hira scelen bihalda»

“Se l’âsega prende dei doni illegali, allora non deve in seguito emettere una sentenza, perché âsega significa il sacerdote. Il sacerdote e l’âsega debbono giudicare e definire tutte le questioni giuridiche e così essi debbono salvare la loro anima”.

Il testo latino è in parte discordante, ma egualmente significativo: «Si ille (sc. l’âsega) acceperit iniusta munera et prohibitos denarios, tunc non debet deinceps iudicare, quia significat sacerdotem, et ipsi sunt oculi ecclesiae, et debent iuvare et viam ostendere, qui se ipsos non possunt iuvare». E poco dopo: «And thi asega ne ach nenne dom te delane, hit ne se thet hi fara tha kei-sere to Rume sueren hebbe end al ther erkeren se», “l’âsega non deve emettere alcuna sentenza, se non quando sia andato a Roma dall’imperatore a prestare giuramento e sia stato eletto da tutti (dal popolo)”; mentre il testo latino recita: «Ille âsega non habet quemquam iudicare, nisi plebs elegerit ipsum, et ipse coram imperatore Romano iuraverit».

Il ruolo dell’âsega appare dunque essere quello di una carica laica ed elet-tiva – come in Islanda e anch’essa volta a tutelare l’ēwa al di sopra delle con-troversie tribali e di clan116, ma radicata ancora in forti connotazioni religiose pagane, vicina a quella che dovette essere la figura del sacerdote-giudice del-

113 Cfr. supra, p. 80 e 92-93.114 «Wenn davon die Rede ist, daß Rechtsausübung und Kultbrauch im engsten Zusammen-

hang standen, pflegt man zuerst auf das westgerm. Wort ēwa /eo/ œ(w) /ē zu verweisen, das – soweit überliefert – sowohl ‘weltliches Gesetz, Rechtsordnung’ als auch ‘göttliches Gesetz, Religion’ bedeutet, ferner auf zwei Komposita, die mit diesem Wort gebildet sind: ahd. euuart, ags. œweweard, das den Priester bezeichnet, und ahd. as. eosago, afries. asega, das den richter und Rechtsprecher bezeichnet»: SEE, 1964, p. 105-106.

115 SCOVAZZI, 1975, p. 53.116 Testo e trad. da FAIRBANKS, 1939, sub loco; vd. poi ALGRA, 2000.

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l’epoca germanica. Così ci appare infatti nello Skeltanriucht, cap. 1, un testo frisone antico probabilmente risalente al XII secolo:

«Thit is landriucht [thera] Fresena and skeltanriucht. Thi grewa, ther an Fres-lande [grewa] wessa skel, hi skel wessa fulre berde bern and sin riucht unfor-lern. Hi skel ti Suthermutha inkoma and koma to Franekere [in thet del] mith werdere were, mith thes koninges iefte, mith breve and mith insigele. Ther agen hine tha Fresen to undfane and riuchtes ti stedigiane; ther ach him thi asega enne frethe ti delane and hine him selva ti bannane, thet him emma aut unriuchtes dwe. Thenne agen him tha liude thenne frethe ti sterkiane; ther ach thi grewa allera manna likum sin len ti iewane, ascha hit an sinre were hede, one fia. [So thes grewa komste keth is, so is sin frethe, binna there komste, thi dadslachta fiower and sextich pund.]».

“This is the land-law of the Frisians, and the magistrate-law. The governor who is to hold office in Friesland, must be of legitimate birth, and not have forfeited his rights. He shall land at the Take-Zijl and proceed to Franeker in that district, with valid (evidence of) authority, (that is) with the king’s grant, with letters patent and with seal. There the Frisians shall receive him, and allow him to hold court; and the lawsayer (âsega) shall thereupon decree a truce for him and present him in person, so that no man may (unwittingly) do him any wrong. Then the people shall confirm that truce, and thereafter the governor shall grant every man his fief, as far as he may have it in this power, without (special) pay-ment. As soon as the governor’s arrival is announced, the penalty for killing in violation of the truce is sixty-four pounds”117.

Altri corrispettivi è possibile scorgerli nel mondo inglese antico118; mi ri-ferisco a quel personaggio che è indicato col termine forespeca nei documenti anglosassoni e, in latino, col termine perorator, nelle Leges Henrici Primi, che sono del 1115.

Oggi lo diremo un avvocato, ma in realtà, come le Leges chiariscono bene,

egli non è un vero rappresentante di una delle parti, se non altro perché l’av-vocato può essere corretto dal suo cliente: poiché si presume che solo le parole uscite direttamente dalla bocca delle parti in causa di fronte alla corte abbiano valore di verità, lo scopo di avere un avvocato è quello di non fare errori nelle dichiarazioni e nella procedura, che sono affatto orali, perché «spesso accade che una persona veda meno di sé e del suo caso rispetto a qualcun altro, ed è generalmente possibile modificare in bocca di un’altra persona ciò che non può essere modificato nella propria»119.

117 Testi e traduzioni da SCOVAZZI, 1975, p. 298-299.118 Per quel che segue, cfr. CLANCHY, 1993, e poi BRINK, 2002, con rinvii testuali e bibliografia.119 Cfr. DOWNER, 1972, cap. 46.

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Il forespeca / perorator, insomma, «was thus a dispensable mouthpiece. His function was to make the litigant’s formal claim, his ‘tale’ (talu in Anglo-Sax-on), in due form. The Anglo-Saxons had evidently put considerable emphasis on correct enunciation (ryhtracu) in their legal procedure. They may even have rivalled the Icelanders who insisted on word-for-word accuracy»120.

Il riferimento islandese è qui al noto passo della Saga di Njáll, cap. 22 ss., dove il protagonista, maestro di procedura121, insegna a Gunnarr, parola per parola, in un giuoco di memoria e di voce, tipico di una cultura a oralità pri-maria, i cavilli con cui ingannare Hrútr in una causa legale:

«Þá mun Hrútur stefna og skalt þú að því vandlega hyggja hver atkvæði hann hefir. Þá mun Hrútur mæla að þú skulir stefna. Þú skalt þá stefna og skal rangt svo að eigi sé meir en annað hvert orð rétt. Þá mun Hrútur hlæja og mun hann þá ekki gruna en mæla þó að fátt sé rétt í. Þú skalt kenna förunautum þínum að þeir hafi glapið þig. Þá skalt þú biðja Hrút að hann mæli fyrir þér og að hann leyfi að þú stefnir í annað sinn og mælir eftir honum. Hann mun leyfa þér og stefna sjálfur málinu. Þú skalt þegar stefna eftir og mæla þá rétt og spyrja Hrút hvort rétt sé stefnt. Hann mun segja þér að eigi megi það ónýta. Þá skalt þú mæla hátt svo að förunautar þínir heyri: ‘Stefni eg handseldri sök Unnar Marðardóttur’».

“Hrútr pronuncerà la citazione e tu dovrai memorizzare esattamente ogni ter-mine da lui usato. Quindi Hrútr t’inviterá a ripeterla. Ripetila, in maniera tale che non ci sia un solo termine che sia giusto. A quel punto Hrútr si metterà a ri-dere, senza avere alcun sospetto su di te; dirà invece che hai ripetuto con molte inesattezze. Incolpa allora i tuoi compagni che ti hanno distratto e prega Hrútr di ripetere la citazione al tuo posto; pregalo anche che ti permetta di formularla nuovamente. Dovrà perciò ripeterla subito dopo, ma esattamente, e chiedere a Hrútr se tu abbia citato in maniera corretta. Risponderà che è inoppugnabile. Dovrai allora dire a voce bassa, in maniera che i tuoi compagni possano ascol-tare: ‘Formulo questa citazione in una causa intentata per procura, su richiesta di Unnr figlia di Mörðr’ ”122.

Una figura simile riappare nelle fonti del tredicesimo secolo, dove è detta narrator o conteur in anglo-normanno; mancano in apparenza legami diretti col forespeca / perorator, ma, essendo le funzioni le stesse, è più che plausibile supporre una continuità del ruolo pur nella diversità dei nomi:

«the narrator or conteur made the formal claim or pleading on the litigant’s behalf. The pleading was called a ‘tale’ (narratio in Latin or conte in French)

120 CLANCHY, 1993, p. 221. 121 Cfr. supra, p. 83-84.122 Trad. da MELI, 1997, p. 774.

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just as it had been in Anglo-Saxon. The earliest written collection of common law pleadings. the Brevia Placitata dating from the mid-thirteenth century, calls them les contes en romancees. Another early tract (date c. 1285) records that the pleadings “are uttered by narrators in romance words and not in Latin ones” [per narratores in romanis verbis et non in latini pronunciatur]123. The ‘narrator’ was thus a ‘romancer’, a professional teller of tales in the vernacular, but his ‘tales’ were legal pleadings and not romances in the modern sense. Yet in origin the technique of the legal narrator was probably similar to that of his namesake, the Singer of Tales, studied by Milman Parry and A.B. Lord. A nar-rator, whether of common law pleadings or of epic and romance, had originally reconstructed his tale in due form on the basis of a few remembered formulas. He was a professional oral remembrancer, very necessary before law and lit-erature were committed to writing»124.

Così come la presenza della figura del rammentatore di leggi non è dun-que limitata alle sole popolazioni germaniche dell’Europa del Nord, allo stesso modo la sua esistenza risale a ben prima che diventasse, nel nono secolo in Islanda, un ufficio pubblico elettivo, e peraltro occorre ricordare che le popola-zioni germaniche conoscevano la scrittura da ben prima che il cristianesimo la imponesse, insieme alla religione del libro, con l’alfabeto latino.

Innanzitutto, va tenuto presente che l’insegnamento del diritto era – verosi-milmente da tempi assai antichi in quanto esso faceva parte dell’enciclopedia orale delle conoscenze etnolinguistiche proprie alla cultura tradizionale di una data popolazione125 – una componente necessaria dell’educazione del giovane di famiglia nobile, come ci indica, ad esempio, la Saga di Gunnlaugr lingua di serpente (Gunnlaugs Saga Ormstungu), cap. 4:

«Þorsteinn bað hann þar vera þeim stundum, sem hann vildi, ok þar þar lann þau missari ok nam lögspeki at Þorsteini, ok virðisk öllum mönnum þar vel til hans. […] Ok einnhvern dag, er menn sátu í stofu at Borg, þá mælti Gunnlaugr til Þorsteins: “Einn er sá hlutr í lögum, er þú hefir eigi kennt mér, at fastna mér konu”. Þorsteinn segir: “Þat er lítit mál”, ok kenndi honum atferli».

“Þorsteinn gli offrì di rimanere là per il tempo che voleva, e là egli stette per quell’anno, e apprese la giurisprudenza (lögspeki) da Þorsteinn, ed era molto apprezzato da tutte le persone. […] E un giorno, che le persone sedevano nella

123 Cfr. Modus Componendi Brevia: «Sed quia consuetudo regni Angliae talis est, quod pla-cita coram iusticiariis per narratores in romanis verbis, et non in latinis, pronunciantur; idcirco huiusmodi exceptiones lingua romana in scriptis rediguntur» in WOODBINE, 1910, p. 162.

124 CLANCHY, 1993, p. 221-222.125 In COSTA, 1998, 2000, 2007, 2008, e in BRINK, 2002, specificatamente per il mondo

scandinavo, si troverà tutto quel che occorre per un’applicazione, teoreticamente consapevole e testualmente fondata, della ‘oral theory’ agli studi di linguistica storico-comparata.

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sala a Borg, allora Gunnlaugr disse a Þorsteinn: ‘C’è una parte della legge (lögum), che tu non mi hai insegnato, a fidanzarmi con una donna’. Þorsteinn disse: ‘Questa è una piccola cosa’, e gli insegnò la procedura”126.

Troviamo altri esempi anche nella Saga di Oddr l’arciere (Örvar Odds Saga), cap. 40, dove il certame poetico tra il protagonista Oddr e i due guer-rieri Sjólfr e Sigurðr è insieme una gara poetica e una prova di resistenza fisica, perché i contendenti, a turno, declamano i loro componimenti orali e al contempo bevono enormi corni di birra:

«Sjólfr tók við horni þessu ok fell þá af út dauð drukkinn ok þeir Sigurðr báðir, en drykkr fór niðr. Oddr gekk þá til sætis síns ok drakk um stund, ok þóttuz flestir menn eigi mjök finna á honum».

“Sjólfr prese il corno e cadde giù dal sedile, ubriaco fradicio, insieme a Sigurðr, versando così tutta la bevanda. Oddr tornò allora al proprio posto e ingollò un lungo sorso: quasi tutti i presenti osservarono che si notava ben poco che avesse bevuto”.

A quel punto,

«Konungsdóttir gekk þá brátt í braut ok Hárekr með henni, en þau höfðu þó eigi ekki at hafz um kveldit, þvíat allan þeira kveðskap ok sameign höfdu þau ristit á speldi».

“la principessa se ne andò via con Hárekr in tutta fretta, e non avevano avuto poco da fare quella sera: avevano infatti inciso su una tavola di legno tutti i versi e l’intera disputa”127.

Quando invece non si sapeva scrivere, c’era pur sempre qualcuno a cui poter dettare i propri componimenti, come, ad esempio, nel cap. 46 della stessa saga:

«“Nú skulu þér fara ok höggva mér steinþrö, en sumir skulu þér sitja hjá mér ok rísta eptir kvæði því er ek vil yrkja um athafnir mínar ok ævi”. Eptir þat tekr hann at yrkja kvæði, en þeir rísta eptir á speldi, en svá leið at Oddi, sem upp leið á kvæðit».

“ ‘Andate, preparatemi un sarcofago di pietra, ma qualcuno di voi resti qui con me, e trascriva il canto che voglio comporre sulle mie imprese e la mia vita’. Prese poi a comporre un canto, e loro lo incisero su una tavola di legno, e quanto

126 Testo e traduzione secondo CHIESA ISNARDI, 1999, p. 47.127 Testo e traduzione secondo FERRARI, 2003, p. 264-265.

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più si avvicinava la fine del canto, tanto più si avvicinava la fine di Oddr”128.

Poi, non va dimenticato che noi abbiamo testimonianze di iscrizioni runi-che a carattere legale risalenti all’ottavo/nono secolo129, tra le quali la cosid-detta ‘iscrizione dell’anello di Forsa’ (Hälsingland), «the inscription on the Forsa rune ring must be the oldest law or legal custom we have any trace of in Scandinavia»130, e quella di Oklunda (Östergötland), posta in cima a un colle, che è «the oldest information on the right of sanctuary at a pagan cult site»131. Vediamo allora le due iscrizioni132:

÷ uksa tuiskilan auk aura tuo staff at fursta laki ÷ uksa tuo auk aura fiura | |at aþru laki ÷ in at þriþia laki uksa fiura | |auk aura | | ata staf ÷ auk alt aiku i uarR if an hafsk aki rit furiR ÷ suaþ liuþiR aku at liuþriti sua uas int fur auk halkat ÷ in þaR kirþu sik þita | | anunr o tarstaþum ÷ auk ufakR o hiurtstaþum ÷ in uibiurn faþi ÷

«One ox tvisgildan ok tvá staf atfyrsta lagi,oxa tvá ok aura fjóra at öðru lagi, en at þriðjá lagi oxa fjóra ok aura átta staf, ok allt eigu í verr, ef hann hafsk ekki rétt fyrir, svað liuðiR æigu at liuðrett, svá var innt fyrr ok hélgat. En þeir *segð(?) þétta, Önundr á Társtöðumok Ófeigr á Hjörtstöðum. En Vébjörn fáði».

“One ox tvisgildan and two aura [as a fine] to staf for for the first time,Two oxen and four aura the second time,And the third time four oxen and eight aura to staf And all property confiscated unless he fulfils his obligations.Which the people have a right to according to public law, which was recited before and sanctified.But they established the statement, Önund in Tåsta And Ofeg in Hjortsta.And Vibjörn carved”133.

128 Ivi, p. 292-293.129 Sulle iscrizioni runiche come fonti per la storia del diritto germanico, vd. almeno SAWYER,

1998; BRINK, 2002 e 2005; LARSSON, 2010.130 BRINK, 2002, p. 78. «It is a ring made of iron which used to hang on the church door of

Forsa church»: LARSSON, 2010, p. 416.131 LARSSON, 2010, p. 418.132 Testi e traduzioni da ivi, p. 416-417.133 Il significato di staf è per ora ignoto; il significato di tvisgildan è discusso: «it is believed

to mean either “if he does not recite the rule of the law” or “does not pronounce a judgement”» (ivi, p. 417); liuðretti è “la legge del popolo, la legge pubblica”.

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kunar ÷ faþi runaR þisaR ÷ in sa flau sakiR ÷ suti ui þita ÷ in sa fl-(i)n rúþþan ÷ in sa bat uifin ÷ þitta faþi ÷

«GunnaR faði runaR þessar, en sa flo sakiR. Sotti vi þetta. En sa flo in ryð þan. En sa bant. Vifinn þettafaði».

“Gunnar carved these runes, and he fled guilty. He sought this sanctuary out. And he fled into this clearing. And he effected a reconciliation. Vifinn carved this”.

Come osserva anche Brink, «what we find here are two very formulaic inscriptions, showing several characteristics of having been produced in an exclusively oral culture. In the case of Oklunda, we actually get the impres-sion that Gunnar cut the runes on this hilltop […] writing down what he had stated word by word at the thing assembly»134.

Secondo una recente interpretazione135, nell’ultima riga dell’iscrizione di Forsa sarebbero Anund i Tåsta e Ofeg i Hjortsta che avrebbero deciso «how to formulate the text on the ring from the oral form of the law code, and Vimund who carved it. […] We have are what […] might be the first example of law-men formulating a legal enactment in writing – assuming Anund and Ofeg were lawmen. If they were not, they were at least entrusted with the task of formulating a law-code and of having it written down»136.

Il legame fra le rune, la scrittura, la tradizione orale del diritto e la poesia è evidente nel rituale dell’erezione della verga d’infamia, eretta nella Saga di Egill dal protagonista137 contro re Eiríkr e sua moglie Gunnhildr, che lo hanno privato in maniera truffaldina dei diritti ereditari di sua moglie Ásgerðr138.

Nella Saga di Egill, ambientata tra Scandinavia, Islanda e Isole britanniche nel X secolo, ma composta intorno al 1230 forse dallo stesso Snorri Sturluson,

134 BRINK, 2002, p. 79.135 Cfr. KÄLLSTRÖM, 2007, p. 201.136 LARSSON, 2010, p. 418.137 Cfr. DEL ZOTTO, 2010, p. 163. 138 «lI lettore troverà forse troppo insistenti le dispute giuridiche in cui continuamente Egill

s’impegna, giungendo fino a sfidare l’autorità del re di Norvegia, Eiríkr “Asciainsanguinata” soprattutto per via dei loro cavilli e delle loro speciosità […]. La cultura scandinava altomedie-vale si rivela, così, caratterizzata dalla puntigliosa ricerca dell’ordine e della giustizia, special-mente per quanto attiene ai beni ereditari. Il diritto ereditario, che regola il possesso delle terre e dei beni accumulati vuoi con l’interesse di capitali preesistenti, vuoi con il commercio o con l’esercizio della pirateria, è osservato e tutelato in maniera quasi paranoica; e a reazioni patolo-giche è spinto lo stesso Egill, che si mostra cupo, silenzioso, quasi affranto dalla malattia, quan-do non è in grado di tutelare i diritti, che egli avverte usurpati, della moglie Ásgerðr. Perfino gli episodi di violenza, che non mancano, sia individuali che collettivi, nella saga, traggono tutti origine dalla consapevolezza dei diritti calpestati ingiustamente e l’azione violenta si presenta come l’ultimo tentativo di restaurazione di un ordine leso in principio»: MELI, 1997, p. 462.

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il protagonista Egill rivela molti tratti connessi al dio Wotan / Odino: Egill in-fatti è uno scaldo, un vichingo139, un mago, un maestro di rune e un discendente di berserkir, “quelli con la camicia dell’orso”, detti anche úlfheðnar “quelli con il mantello del lupo”, cioè di coloro che erano i guerrieri seguaci di Odino140.

Il rituale dell’erezione della verga d’infamia prevede l’innalzamento di un ba-stone di nocciolo sormontato da una testa equina, che esso sia rivolto verso la Nor-vegia, e che rechi incise alcune rune, accompagnando all’incisione la recitazione della formula, ad alta voce oppure mormorata: la redazione dell’iscrizione runica doveva avvenire infatti contemporaneamente alla sua seconda recitazione.

Nel nostro caso, la verga è accompagnata da due strofe di maledizione con-tro il re e la regina nelle quali si chiede il loro esilio dalla Norvegia e la rovina del loro regno. Egill pronuncia la formula d’infamia e poi la incide sul bastone ripetendola ad alta voce e tanto potente doveva risultare questa poesia d’infa-mia che Egill è poi costretto a comporre un encomio di riparazione per placare il re, il cosiddetto ‘Riscatto della testa’: «il poeta, dunque, padroneggiando la materia sonora risultava anche particolarmente idoneo all’uso, specialmente nei suoi risvolti magici, di questo sistema di scrittura immerso nell’oralità e da quella paradossalmente dipendente»141.

Ed ecco il testo, tratto dalla Saga di Egill (Egils Saga), cap. 57:

139 L’islandese antico Víkingr (cfr l’anglosassone wícing “pirata”) significa verosimilmente “che va di baia in baia” (cfr. vík = “insenatura”), mentre la víking indica l’azione corrisponden-te. Se si tiene presente quel che dice Cesare (Bellum gallicum 6.23) a proposito dei Germani («latrocinia nullam habent infamiam quae extra finis cuiusque civitatis fiunt, atque ea iuventutis exercendae ac desidiae minuendae causa fieri praedicant. Atque ubi quis ex principibus in con-cilio dixit se ducem fore, qui sequi velint profiteantur, consurgunt ii qui et causam et hominem probant, suumque auxilium pollicentur atque ab multitudine conlaudantur; qui ex his secuti non sunt in desertorum ac proditorum numero ducuntur, omniumque his rerum postea fides derogatur». “Il ladrocinio non comporta disonore, se commesso fuori dei territori di ciascun popolo, anzi, lo consigliano per esercitare i giovani e diminuire l’inerzia. E quando, durante l’assemblea, uno dei capi si dichiara pronto a guidare una spedizione e chiede ai volontari di farsi avanti, chi è favorevole all’impresa e all’uomo si alza e promette il proprio sostegno, tra le lodi generali; chi, invece, non si unisce alla spedizione, viene considerato nel novero dei disertori e dei traditori, e in futuro gli viene negata fiducia in ogni campo”), si comprende bene perché víking finisca con «l’indicare un “viaggio per mare a scopo di rapina”, senza per que-sto assumere un valore spregiativo. Al contrario, le saghe norrene sono piene di Vichinghi di enorme statura, per lo più giovani non ancora accasati, che vanno in viaggio per compiere una víking, di solito anzi una vestr-víking, cioè verso occidente» (SCARDIGLI, 1977, p. 122-123).

140 Sono quelli che Snorri, Heimskringla (cap. 6 della Ynglinga saga) descrive in tal modo: «Odino in battaglia poteva fare in modo che i suoi nemici diventassero ciechi o sordi o pieni di terrore e le loro armi non avessero più mordente dei bastoni; i suoi uomini andavano senza corazza ed erano furiosi come cani o lupi, mordevano i loro scudi ed erano forti come orsi o tori. Essi uccidevano la gente e né il fuoco né il ferro avevano effetto su di loro».

141 MELI, 1997, p. 472. Sul valore magico delle rune, vd. tra gli altri DEL ZOTTO, 2007 e 2010, con ulteriori esemplificazioni e ampia bibliografia.

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«Hann tók í hönd sér heslistöng ok gekk á bergsnös nökkura, þá er vissi til lands inn. Þá tók hann hrosshöfuð ok setti upp á stöngina. Síðan veitti hann formála ok mælti svá: “Hér set ek upp níðstöng, ok sný ek þessu níði á hönd Eiríki konungi ok Gunnhildi dróttningu”, – hann sneri hrosshöfðinu inn á land, – “sný ek þessu níði á landvættir þær, er land þetta byggva, svá at allar fari þær villar vega, engi hendi né hitti sitt inni, fyrr en þær reka Eirík konung ok Gunnhildi ór landi”. Síðan skýtr hann stönginni niðr í bjargrifu ok lét þar standa. Hann sneri ok höfðinu inn á land, en hann reist rúnar á stöngina, ok segja þær formála þenna allan».

“(Egill) teneva in mano un bastone di nocciolo e salì su uno sperone roccioso che fronteggiava il continente. Poi prese una testa equina e l’infilò a un’estre-mità della verga, pronunciando una formula solenne: ‘Levo qui un bastone d’infamia; e l’infamia indirizzo a re Eiríkr e alla regina Gunnhildr’. Intanto volgeva la testa equina verso la Norvegia. ‘E questa infamia levo contro i numi tutelari, ché vaghino errando ovunque, ché non vedano né trovino il loro cam-mino, prima che re Eiríkr e Gunnhildr siano dal regno esiliati’. Quindi piantò la verga in un anfratto della roccia e la accomodò in modo che rimanesse eretta, con la testa equina che guardasse il continente. Incise allora lungo il bastone caratteri runici, e ripetè poi per intero le parole della formula solenne”142.

In generale, il punto è che non è sufficiente la conoscenza della scrittura per fare di una cultura una società letterata e, in particolare, la scrittura runica, nota alle popolazioni germaniche – almeno nel suo valore magico-divinatorio – già per Tacito (Germania 10) e il cui uso epigrafico risale perlomeno al I-II secolo d.C., ha sì dato vita nel tempo e per secoli a quella che qualcuno ha chiama-to runic literacy, ma le iscrizioni runiche riflettono «a kind of literacy bear all the characteristics found in oral cultures, in a non-literate society: short, formulaic statements, patterns, fixed sentences repeated on runestone after ru-nestone, something written down not primarily for ‘communication’, but for ‘memorialization’, ‘monumentalization’ and obviously in some cases also for bragging and for purely magical purposes»143.

Anche per questo iscrizioni lunghe e complesse come quella di Rök144, probabilmente la più famosa iscrizione runica esistente assieme forse a quella di Spärlosa, sono destinate a restare per noi a lungo un problema linguistico

142 Trad. da MELI, 1997, p. 610-611, con alcune modifiche mie. Lo stesso rituale è attestato in un’altra saga islandese, la Saga della gente di Vatnsdoela (cfr. SVEINSSON, 1939, p. 91) e nei Gesta Danorum di Saxo (cfr. OLRIK, RÆDER, 1931, cap. 5, 3, 7, p. 114).

143 BRINK, 2005, p. 67-68.144 L’iscrizione, sita oggi presso la chiesa di Rök, una località tra Mjölby e Ödeshög, nel-

l’Östergötland, è la più lunga iscrizione runica pre-cristiana esistente e consta di circa 760 caratteri; essa è per più aspetti un unicum e, nel suo genere, una vera e propria opera d’arte e d’ingegno. Testo e traduzione inglese anche in BRINK, 2005, p. 83 ss., con ampia bibliografia.

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e testuale di difficile soluzione: non solo per la presenza in essa di vari livelli di cifratura (indovinelli, rune ‘segrete’, kenningar), ma anche perché ci man-ca del tutto il contesto mitico, rituale, narrativo, leggendario, quella cultura dell’oralità che invece doveva essere ben presente all’uditorio e ai lettori che, agli inizi del IX secolo nell’Östergötland, potevano leggere o farsi leggere l’iscrizione incisa da Varinn per il figlio Væmoð («Aft Væmoð standa runar þar. En Varinn faði, faðir, aft faigían sunu»).

In maniera frammentaria e volutamente criptica, il testo dell’iscrizione al-lude per certo a miti e a leggende, come verosimilmente quella di Teodorico, a un patrimonio di conoscenze etnolinguistiche orali, di testi fissi tradiziona-li145, se non a un vero e proprio testo orale preesistente, a cui Varinn poteva attingere e che poteva riutilizzare in un contesto diamesico diverso da quello originario, cioè nella scrittura di un’epigrafe monumentale in alfabeto runi-co, sapendo che chi l’avesse letta avrebbe compreso il suo racconto: «sagum mogminni þat…», “io narro gli antichi racconti…”.

Si è ipotizzato146, a parer mio rettamente, che il Varinn dell’iscrizione di Rök sia quello che in svedese antico si dice un þulr “vate, cantore, poeta, saggio”, un termine raro e arcaico – si ritrova in alcuni toponimi, nell’Edda poetica e in almeno una iscrizione runica danese –, e il cui corrispettivo anglosassone, þyle, è menzionato nel Beowulf e nel Widsith147: «Varinn, may very well qualify as a þulr, one of the most important persons in the oral Old Swedish society, the one who could transfer memory and traditions. An Old Swedish þulr might be seen as equivalent to the OE forespeca (who could perform the OE talu) who knew the formulaic ‘tales’ and the Balkan ‘Singer of Tales’»148.

Uno di quegli uomini, insomma, che in svedese antico erano detti anche minnuga mœn “gli uomini di (buona) memoria”: «these old, wise men, in Old Swedish minnuga mœn, had a central position in oral society. They were very often called to the thing assemblies as witnesses, to retell customs and stories. A special case was when borders were codified. A famous Swedish example is when the old farmer Loþinn from Ulvkälla in the province of Härjedalen was at a thing assembly in Sveg in c. 1260-80, giving testimony of when and where he had walked the border between Norway and Sweden when he was young»149.

145 Per questa nozione e il suo utilizzo in ambito comparativo, vd. COSTA, 1998, 2000, 2008.146 Cfr. WESSÉN, 1958; WIDMARK, 1992 e 1997.147 Il Beowulf, l’unica epica compiuta delle letterature germaniche antiche giunta fino a noi, e il

Widsith, entrambi scritti in anglosassone, databili al VI-VII secolo, anonimi e senza titolo, sono i più antichi testi poetici lunghi in volgare d’Europa; in particolare, il Widsith, ritenuto da alcuni forse perfino più antico del Beowulf, è un poemetto di cui abbiamo soltanto un frammento di 144 versi sopravvissuto in un unico manoscritto, il famoso Libro di Exeter, compilato nel decimo secolo; sulla datazione del Widsith, vd. ora NEIDORF, 2013; sul þyle nel Beowulf, vd. anche CHIUSAROLI, 1995, p. 40 ss.

148 BRINK, 2005, p. 88; cfr. supra, p. 94-95.149 BRINK, 2005, p. 94; vd. anche HOLM, 2003, e ZACHRISSON, 2003.

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Questi minnuga mœn erano quegli stessi ‘uomini della memoria’ che erano chiamati a testimoni, ad esempio, nel rituale arcaico svedese detto unfœrð150.

Quando si effettuava la vendita di una fattoria o di un appezzamento di terre-no, i confini di essi dovevano essere identificati davanti al thing; il venditore e il compratore formulavano dapprima un accordo orale davanti a quattro testimo-ni, poi le parti si ricontravano il giorno dopo e ripetevano i termini dell’accordo davanti ad altri testimoni, a quattro diverse generazioni di parenti per ciascuna delle due famiglie e a uno dei minnuga mœn; infine, tenendo assieme le mani su una lancia o su un bastone di legno, compiono l’unfœrð, cioè camminavano insieme attorno alla terra arabile e ai seminativi.

Così come nella grecità storica, gli uomini di buona memoria, i rammen-tatori delle costumanze e delle leggi, erano chiamati anche nei tribunali a dar voce al passato, a farlo testimoniare attraverso la loro memoria, perché, come scrive Snorri, «vit heitir … minni», “la saggezza è memoria”151.

* * *

3. Il mondo romano.

A mia conoscenza, nell’Italia antica del primo millennio a.C., ivi com-presa Roma e l’Etruria, non esiste, esplicitamente, una figura paragonabile al rammentatore di leggi greco e germanico; detto ciò, ritengo tuttavia possibile ipotizzarne l’esistenza a Roma, seppure in maniera indiretta152.

In generale, occorre innanzitutto ricordare che l’Italia antica rimase quasi esclu-sivamente orale fino al IV-III secolo a.C.153, e che, tanto per dirne una, solo tra la fine del III e gli inizi del II secolo la domanda di istruzione e alfabetismo crebbe al punto da favorire l’insorgere delle prime scuole di scrittura private in Roma154.

150 Cfr. Äldre Västgötalagen, cap. 2, e Yngre Västgötalagen, cap. 1, in COLLIN, SCHLYTER, 1827, poi, anche con traduzione, in HÖLMBACK, WESSÉN, 1946.

151 Snorri, Skáldskaparmál, 73: «Vit heitir speki, ráð, skilning, minni, ætlun, hyggjandi, tölvísi, langsæi, bragðvísi, orðspeki, skörungskapr. Heitir undirhyggja, vélræði, fláræði, bri-gðræði», “Understanding is called wisdom, counsel, discernment, memory, speculation, in-telligence, arithmetic, far sight (prophecy), craft, word-wit, preëminence. It is called subtlety, wiliness, falsehood, fickleness”.

152 Per quanto segue, vd. soprattutto SCHIAVONE, 1988 e 2005; con varie modifiche, riprendo in parte COSTA, 2000 e 2002.

153 Sull’uso assai limitato della scrittura in epoca arcaica a Roma, cfr. Dionigi di Alicarnasso (Anti-chità romane 2.24.1 e 2.27.3); sull’abitudine di diffondere oralmente notizie di interesse pubblico a Roma in epoca arcaica, cfr. Macrobio, Saturnalia 1.15.9-12; XII Tavole 3.5; Varrone, De lingua latina 6.28; Plinio, Naturalis historia 35.23; Festo (Paolo Diacono), 15.1-4 Lindsay.

154 Cfr. Plutarco, Aetia Romana et Graeca 278 e, dove si dice che il primo ad aprire una scuola a Roma fu un certo Spurio Carvilio, liberto dell’omonimo console del 234. Anche Ennio e Livio Androni-

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Ciò non significa certo che la scrittura non fosse conosciuta e praticata da tempo, bensì che la diffusione dell’alfabetismo nell’Italia antica del primo millennio a.C. rimase limitata socialmente all’aristocrazia e a parte dei ceti artigiani, e numericamente ancora scarsa, meno del dieci per cento della popolazione, almeno fino all’età medio-repubblicana155.

Bisogna poi avere sempre presente lo strettissimo legame tra ‘parola’ e ‘potere’ – la profondità e l’arcaicità dell’oralità «nella Roma antica si river-bera soprattutto nel valore irrevocabile e nella forza vincolante che vengono costantemente attribuiti alla parola»156 –, tra forma e sostanza, tra rito157 e diritto, che era già nella tradizione indeuropea158, ma che rimase a lungo tipico della men-talità, in generale, dell’Italia antica e, in particolare, di quella romana arcaica: in una cultura orale, il controllo esercitato consapevolmente sulla forma delle parole, sulla loro sintassi, sullo stile e sul ritmo del linguaggio, implica anche un dominio sul pensiero, sui suoi contenuti, e sulla forma delle relazioni sociali: «meno questo controllo è flessibile dal punto di vista dell’innovazione linguistica, più esso diventa esclusivo dal punto di vista delle relazioni di potere. Così, le consuetudini verbali tesaurizzate, fissate prescrittivamente, tendono a trasformarsi in altrettante tec-niche dei rapporti sociali»159.

A Roma, sebbene la scrittura fosse per certo conosciuta e praticata da secoli160, per quel che riguarda il sapere giuridico, e ciò ancora per tutto il III secolo, siamo di fronte a una tradizione quasi esclusivamente orale, a una saggezza di parole e di segni che tendeva a mantenersi dentro modelli formulaici. La memorizzazione di tale sapere si conservava in strutture modulari e frasali stilizzate, in una prosa ritmica non aliena da stilemi mnemotecnici quali, ad esempio, la ripetizione e l’al-litterazione161, ed è forse anche per questo che il sapere giuridico arcaico apparirà all’accresciuta sensibilità giuridico-lessicale di fine repubblica (cfr. Cicerone, Pro Murena 11.25, 14.30; De oratore 1.43.191, 2.33.142; De legibus 2.47) come una conoscenza prigioniera di un’armatura di clausole ripetitive e fossilizzate162.

co furono insegnanti (cfr. Svetonio, De grammaticis 1); Livio Andronico fu chiamato a far parte del col-legium scribarum histrionumque in quanto autore e attore: cfr. Festo (Paolo Diacono), 48.3 Lindsay.

155 Cfr. anche HARRIS, 1989, cap. 6.156 POCCETTI, 1999, p. 190.157 La comune etimologia indeuropea lega tra loro il latino ritus, l’indiano antico tá, il

persiano antico arta e l’avestico aša: il “rito” è “(ciò che mantiene, ciò che stabilisce, ciò che ripristina) l’ordine (naturale, cosmico, liturgico e morale) del mondo”.

158 Vd., tra i molti, BENVENISTE, 1969 = 1976, e POCCETTI, 1999.159 SCHIAVONE, 1988, p. 550.160 Restano importanti a questo proposito gli studi pionieristici di Emilio Peruzzi; vd. anche

POUCET, 1989, e COSTA, 2000.161 Vd. WATKINS, 1995, e COSTA, 2000.162 «Anche la genesi del cosiddetto ‘tradizionalismo’ dei giuristi può ricondursi a questo qua-

dro di caratteri. Un sapere orale che si conserva per secoli, specializzandosi progressivamente, è

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Nella fase più arcaica, la lingua del diritto romano è composta per lo più da enunciati condizionali, spesso giustapposti asindeticamente, legati da un con-nettore logico-semantico e senza soggetto esplicito, ad indicarne la validità come norme generali (XII Tavole 1.1: «si in ius uocat ito, ni it antestamino»). Tale modello sintattico è sotteso anche a quegli enunciati di tipo condizionale formati con un pronome indefinito o relativo, ripreso poi anaforicamente, e l’indicativo presente o il congiuntivo, che sono tipici dell’età medio-repubbli-cana (cfr. Senato Consulto dei Baccanali 25-26). Tale fenomeni – così come altri quali la frequente trasformazione degli enunciati verbali in sintagmi no-minali, spesso con funzione anaforica o cataforica, la rideterminazione se-mantica, mediante la metonimia o la metafora, dei sostantivi, la pronominaliz-zazione, l’assenza di soggetto grammaticale, etc. – sono in realtà tutte forme di coesione e tematizzazione tipiche dell’oralità163.

Sulla lingua del diritto l’oralità «ha esercitato a lungo un ruolo pesante-mente costitutivo marcandone il modo di essere e la stessa forma linguistica. A Roma la figura del giurista ha continuato a rivestire l’antica funzione sa-pienziale della costituzione del diritto nel dare risposte a quesiti riguardanti situazioni concrete ed eventi specifici al punto da essere assimilata ad una forma oracolare («est enim sine dubio domus iuris consulti totius oraculum civitatis»: Cicerone, De oratore 1.200). In sostanza sono gli atti illocutivi dei responsa, insieme all’interpretatio, a costituire una casistica a cui viene attri-buito valore costitutivo di ius («ius civile sine scripto in sola prudentium in-terpretatione consistit»: Digesto 1.2.2.5): tali attività si sono esercitate a lungo per canale esclusivamente orale e sono state affidate solo in età imperiale alla scrittura (responsa signata), riuniti poi, in raccolte (libri responsorum)»164.

L’elaborazione del ius era, al dunque, innanzitutto memoria orale dei mores, delle antiche tradizioni di comportamento formatesi nella fase proto- e pre-urbana della comunità e conservatesi all’interno dei clan gentilizi165:

«la manipolazione di questi ricordi avveniva combinando materiali sociali e im-maginazione religiosa, e si manifestava alla collettività sotto la forma di risposte

portato a sviluppare una rete di protezione contro le novità. La condizione cui tende è quella di una sorta di equilibrio omeostatico garantito dalla memoria e dalla ripetizione del tipico. E non è un caso se sarà proprio la memoria il tratto che segnerà il modello ideale del giureconsulto delineato più tardi in un famoso testo di Cicerone (De oratore 1.28)»: SCHIAVONE, 1988, p. 570. A ciò si può aggiungere quel che Seneca il Vecchio (Controversiae 1 praef. 4) scriveva ancora nel I secolo d.C. sulla memoria come unica fonte sua (e del retore): «ita ex memoria mea quantum uobis satis sit superest; neque enim de his me interrogatis, quos ipsi audistis, sed de his, quid ad uos usque non peruenerunt»; vd. anche BRETONE, 1984.

163 Cfr., tra gli altri, PASCUCCI, 1968 e 1970.164 POCCETTI, 1999, p. 204.165 Cfr. COSTA, 2000.

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dei pontefici – date secondo modalità tipicamente oracolari – a interrogazioni dei patres che chiedevano, in particolari situazioni, cosa fosse ius, quale fosse la condotta gestuale e verbale da tenere per raggiungere determinati risultati nelle relazioni fra i gruppi familiari. È il modello del responsum, un tipo di comunicazione autoritaria di grande rilievo nella vita della città arcaica, che at-traverso infiniti adattamenti, ma sempre conservando una traccia della propria consistenza originaria, sarebbe diventato uno dei paradigmi più stabili della scienza giuridica romana»166.

I responsa, tuttavia, non stabilivano norme di carattere generale, valevano soltanto per la questione sollevata nella domanda che era stata proposta, «e però non venivano dimenticati. Il loro ricordo era affidato alla custodia del collegio pontificale, che la conservava di generazione in generazione. Ogni nuova domanda dei patres veniva innanzitutto confrontata con la possibile esistenza di precedenti, con la massa alluvionale e sedimentata dei pareri già espressi. Iniziava a costituirsi così, passando per il filtro di un gruppo ristret-tissimo, una sapienza potenzialmente nuova rispetto alle risorse della menta-lità arcaica, intrinsecamente casistica, precettiva e puntiforme (un parere per ciascuna domanda): un primo autentico sapere del ius […]»167.

Nello scorrere del tempo e nel mutare della situazione sociale e politica, tale sapienza, com’è tipico di ogni cultura orale tradizionale, tendeva tuttavia pur sempre a conservare schemi arcaici «nell’interpretare mores e leges per ricavarne le regole dei casi che i cittadini proponevano di volta in volta ai loro esperti. La nuova oralità aristocratica portava impresso dentro di sé il sigillo della tecnica sapienziale dei sacerdoti», essa appariva la diretta erede dell’an-tica oralità pontificale.

A partire almeno dalla metà del V secolo, essa fu tuttavia anche un’oralità contrastata, perché le si cercò in più occasioni di opporre la forza della scrit-tura, del testo, del segno che incide e lascia una traccia, e da questo punto di vista, si può pensare alla storia giuridica romana fra V e IV secolo come alla lotta tra un sapere nascosto ed esclusivo incentrato sull’oralità, prima pontifi-cale poi aristocratica, e la certezza pubblica e leggibile della scrittura:

«la natura politica della polarizzazione fra oralità e scrittura è anche in grado di spiegare la struttura di quelle pochissime opere giuridiche composte fra la metà del V secolo e la metà del II, di cui è arrivato il ricordo fino a noi168. […]

166 SCHIAVONE, 1988, p. 570.167 ID., 2005, p. 67 qui e nella successiva citazione.168 Come si sa, il primo testo giuridico romano di cui abbiamo notizia in assoluto è il De

usurpationibus di Appio Claudio Cieco, censore nel 312 a.C.: cfr. Pomponio in Digesta 1.2.2.36 (Enchiridion).

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Scritti di divulgazione e diffusione; si potrebbe dire per certi versi di ‘rivela-zione’ o di riappropriazione di aspetti prescrittivi derivati dalla legislazione decemvirale, che l’interpretazione segreta dei pontefici aveva sottratto allo sguardo della comunità; non opere di approfondimento ‘tecnico’ e di sviluppo cognitivo del sapere cui appartenevano: questi compiti ‘alti’ erano tutti salda-mente riservati all’oralità della tradizione. La parola scritta non voleva ancora spezzare l’oralità come caratteristica intrinseca e costitutiva del sapere giuridi-co. Voleva solo rovesciarne provvisoriamente e dentro ambiti ben determinati il fine e la destinazione politica»169.

A questo riguardo, la vicenda delle XII Tavole è illuminante. Si è oggi generalmente concordi nel ritenere affidabile la tradizione sulla legge delle XII Tavole e sul primo decemvirato legislativo, e autentica la data del 451-450 a.C., anno in cui un governo straordinario composto da dieci saggi, per lo più di origine patrizia, amministrò la repubblica e diede ad essa un corpus di norme pubblicato in dieci tavole, a cui poi se ne aggiunsero in seguito altre due, forse redatte dal secondo decemvirato l’anno seguente. La legislazione decemvirale fu un atto compiuto contro il predominio giuridico-sapienziale del collegio pontificale, un’istituzione «caratterizzata dal tema costante del-la segretezza del diritto e dall’autoriconoscersi come luogo impenetrabile ed esclusivo della sua elaborazione»170.

Le prescrizioni contenute nelle XII Tavole avevano, stilisticamente, il ca-rattere di una prosa ritmica171: «erano formulate, cioè, secondo una cadenza che, pur senza costruire veri e propri ‘metri’, disponeva le parole in sequenze binarie o ternarie di membri, il che ne facilitava la recita e la memorizzazione, quando non ne agevolava addirittura l’interpretazione. Si trattava di regole relativamente semplici e generalizzanti, in forte e voluto contrasto, possiamo pensare, con l’aspetto particolaristico e puntiforme dei precetti contenuti nei responsi pontificali: una breve frase spesso articolata in una premessa ipotetica, introdotta da un “se” (si), dove veniva descritto un evento in una scarnificata con-figurazione tipica, seguita, a mo’ di inevitabile conseguenza, dalla regola vera e propria, il cui carattere vincolante ricorreva, per esprimersi, a un imperativo»172.

Il ricorso alla scrittura e, conseguentemente, la divulgazione del contenuto delle XII Tavole mediante la loro affissione pubblica, accentuò il tentativo di spezzare il monopolio della tradizione pontificale orale, ma ebbe vita breve, perché dell’esegesi interpretativa del testo si impadronirono quasi subito gli stessi pontefici, gli unici d’altronde in grado di applicare concretamente il

169 SCHIAVONE, 1988, p. 570.170 D’IPPOLITO, 1988, p. 406.171 Cfr. COSTA, 2000.172 SCHIAVONE, 2005, p. 84.

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testo medesimo, perché depositari, unici e intoccabili, delle legis actiones, cioè delle procedure giudiziare, delle formule processuali da seguire nell’ap-plicazione delle norme codificate173: «la tradizione unanime conferma che i sacerdoti tornarono subito in scena. Il loro intervento si rivelò indispensabile per garantire la sopravvivenza stessa della legislazione. Era solo attraverso le loro pronunce che le Tavole riuscivano a svolgere la funzione disciplinatrice per cui erano state emanate. La scrittura rivelava tutta la sua ambiguità: era sì portatrice di eguaglianza e di certezza ma anche di una complessità di dettato che andava ogni volta chiarita, vagliata, trasferita dalla generalità delle sue previsioni alla concretezza del caso, della situazione da regolare»174.

La pubblicazione delle XII Tavole fu, insomma, nella storia di Roma arcaica una vicenda eccezionale che conferma come la trasmissione del sapere tradi-zionale, e dunque anche del diritto che di esso era parte integrante e integrata, rimase affidata, almeno fino all’età medio-repubblicana, se non oltre, all’ora-lità e ai sacerdoti, suoi strenui difensori nonostante il fatto che essi conosces-sero, e in qualche forma praticassero, la scrittura all’interno dei loro collegi almeno fin dal periodo monarchico175.

Non sarà certo un caso, infatti, se proprio la divulgazione scritta delle legis actiones da parte del liberto Gneo Flavio, cliente e scriba di Appio Claudio Cieco, sia legata ancora una volta proprio alla scrittura, e che tale divulgazio-ne scritta provocò, 150 anni dopo la redazione delle XII Tavole, uno scandalo così clamoroso che ne conseguì il plebiscito Ogulnio, cioè la legge che sancì l’ammissione dei plebei al collegio pontificale: Gneo Flavio diffuse tra il popolo probabilmente una copia del De usurpationibus scritto proprio da Appio Clau-dio Cieco, un testo che doveva contenere, oltre appunto le legis actiones, anche l’elenco dei giorni fasti e nefasti, quelli cioè in cui era lecito o meno pronunciare le formule rituali dell’amministrazione giudiziaria.

Poi, lentamente, tra la fine del IV, il corso del III e definitivamente infine nel II secolo a.C., alla figura del sacerdote-sapiente si sostituì quella del nobile-sapiente, e il dare responsi (orali) divenne il privilegio dell’oligarchia patrizio-plebea uscita vincitrice dalle lotte sociali del V e IV secolo; un legame, quello

173 «La verità fu probabilmente che al momento della promulgazione, al di là della cerchia pontificale, la cultura ‘laica’ della città non era ancora in grado di reggere lo sforzo interpre-tativo necessario all’applicazione continua e regolare delle norme decemvirali. Fu capace di arrivare a una formulazione non rozza, che in qualche modo utilizzava il precedente accumulo della sapienza sacerdotale, ma non di sostenerne nel tempo una interpretazione accettabile. E il testo non ebbe mai una vita e una tradizione davvero ‘autonoma’, indipendente dal lavoro esegetico dei pontefici, che pur rispettandolo formalmente, se ne appropriarono del tutto, chiu-dendolo nella trama esplicativa delle loro pronuncie, quando addirittura non ne modificavano e aggiornavano gli stessi valori linguistici»: SCHIAVONE, 1988, p. 574.

174 ID., 2005, p. 92.175 Cfr. COSTA, 2000, con dati e bibliografia.

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tra nobilitas, sapere giuridico e esercizio del potere che rimase stabile fino alla fine della repubblica, e che fece in modo che l’oralità della tradizione e la sua interpretazione esoterica continuassero sostanzialmente a dominare la vita culturale e giuridica della città.

Dare responsa assunse così i tratti di una prerogativa aristocratica, legata al primato dei nuovi gruppi dirigenti, senza più un rapporto esclusivo e diretto con la pratica religiosa: un’attitudine che faceva ormai corpo con il predomi-nio di un’oligarchia. La forza del responso adesso non risultava più da un suo innestarsi su un fondo di religione e di sacralità, ma essa

«cominciava a reggersi su un insieme di nozioni e di abitudini cognitive che già alla fine del IV secolo doveva apparire ormai quasi del tutto ‘civile’ (per quanto ancora identificato largamente nella tradizione pontificale), ma non per questo meno austero e degno di rispetto nel sentire dei cittadini: la sua padronanza era comunque patrimonio esclusivo di uomini influenti, impegnati nel governo della repubblica, per quanto sempre meno legati a funzioni sacerdotali»176.

I responsa costituivano dunque ancora l’ossatura prescrittiva delle relazioni fra i cittadini, e tuttavia essi continuavano a non stabilire regole generali e dura-vano il tempo della loro attuazione, oramai svincolata dalla ineluttabilità della religione, ma pur sempre legata al forte rispetto sociale che si tributava a chi li emetteva. La memoria dei responsi era custodita dalla tradizione degli esperti attraverso un apprendimento che si svolgeva all’interno delle famiglie aristocra-tiche, un apprendimento che insegnava a orientarsi nella molteplicità dei casi esaminati per scegliere la regola di volta in volta più opportuna, ma in cui allon-tanarsi dal già detto, dal già stabilito, era una scelta difficile e impegnativa.

L’insieme di queste prescrizioni – che ancora per tutto il III secolo rimase-ro patrimonio della memoria e della sapienza degli esperti – avrebbe costituito il tronco dell’ordinamento repubblicano, che fu chiamato, a partire probabil-mente dal II secolo a.C., ius civile: «esso ormai appariva, nel riflesso della cul-tura del tempo, come un ordinamento autonomo, disintegrato dalle abitudini religiose, ma anche distinto dalla politica […], sebbene in grado di dare potere a chi ne fosse padrone: costituito sulla base di una pratica cognitiva […], dotato di proprie regole e capace di produrre una tecnica consolidata, a metà strada tra i precetti e la loro concettualizzazione, ma con protocolli operativi già rigidi e vincolanti»177.

Poi, com’è noto, così come lo fu per la storia di Roma in generale, il perio-do tra gli anni quaranta e trenta del II secolo a.C. fu cruciale anche per la storia del diritto romano; infatti, «il prestigioso sapere giuridico, parte integrante ed

176 SCHIAVONE, 2005, p. 97.177 Ivi, p. 104.

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elemento di punta del sistema egemonico della nobilitas» entrò nella stagione del suo grande cambiamento178. Che in quegli anni fosse successo qualcosa di memorabile per la cultura romana del diritto se ne era accorto già Sesto Pom-ponio, letterato e giurista vissuto fra Adriano e i Divii Fratres, Marco Aurelio e Lucio Vero, e autore di un’opera singolare nella letteratura giuridica romana, intitolata Enchiridion. La singolarità dello scritto di Sesto Pomponio «è co-stituita dal fatto che in esso veniva sviluppata una prospettiva altrimenti quasi ignota alla cultura antica: quella di un racconto di storia della giurisprudenza e degli ordinamenti giuridici romani, che Pomponio espone, sia pure per sommi capi, dalle lontane origini della città fino ai suoi tempi»179.

Grazie anche a Pomponio, gli studi moderni sono stati in grado di stabilire che tra la generazione dei grandi giuristi del I secolo a.C., Giunio Bruto, Manio Manlio e Publio Mucio Scevola180, e quella di Marco Antistio Labeone, morto tra il 10 e il 22 d.C., in maniera relativamente improvvisa «si realizzò un radi-cale salto di qualità, che riuscì a saldarsi in modo originale con le rielaborazioni della vecchia tradizione sapienziale, secondo un intreccio che sarebbe rimasto uno dei tratti più tipici dell’intero pensiero giuridico romano, e che ci mostra il primo costituirsi, nella storia dell’Occidente, dei giuristi come ceto professiona-le, portatore di interessi e di valori distinti e riconoscibili: naturalmente espres-sione comunque delle élite dominanti, ma non identificabile direttamente con i gruppi al potere e, poi, con lo stesso ambiente del principe»181.

Come ricorda anche Poccetti182, una delle caratteristiche tipiche del lin-guaggio legislativo di età tardo-repubblicana è l’uso di forme arcaizzanti, il che coincide con il gusto linguistico di Cicerone secondo il quale alle leggi derivava una maggiore autorità dall’uso di un sermo più antiquato rispetto a quello quotidiano, purché non fosse così arcaico come quello delle XII Tavole o delle leggi sacrali. In realtà, l’esigenza di tale velatura di antichità («verba […] paulo antiquiora quam hic sermo est»), che serviva a marcare la lingua delle leggi rispetto al parlare quotidiano («quoniam et locus et sermo familia-ris est, legum leges voce proponam»: Cicerone, De legibus 2.18) per conferir-le più autorevolezza («quo plus auctoritatis habeant»), era soddisfatta per lo più attraverso la ricerca di varietà diverse dalla lingua standard (urbanitas), secondo

178 Ivi, p. 135.179 Ivi, p. 136.180 A questo giurista, discendente di una grande famiglia romana che contava consoli, pontefici

e auguri, e padre a sua volta di Quinto Mucio Scevola, anch’egli un grande giurista, dobbiamo tra l’altro l’edizione, che egli curò intorno al 130 a.C., «degli Annali dei pontefici – gli Annales maximi. Era stata una scelta che aveva spezzato una lunghissima consuetudine di segretezza, e che in un certo senso chiudeva un’epoca: un’opera imponente (ottanta libri, risultato di una collazione di fonti diverse) […]»: SCHIAVONE, 2005, p. 151.

181 Ivi, p. 141.182 POCCETTI, 1999, p. 204.

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quello che al tempo era un diffuso sentire metalinguistico, ritenendo cioè che la rusticitas conservasse meglio l’antiquitas. Tale preoccupazione di distanziare formalmente la lingua del diritto dalla lingua standard cessò quasi bruscamente con l’età ciceroniana, cosicché, a partire perlomeno dall’età augustea, la lingua delle leggi si uniformò sostanzialmente alla lingua letteraria.

A partire da questi cambiamenti e ad essi legata come nuovo strumento dia-mesico e cognitivo, la scrittura apparve finalmente come «una tecnica interio-rizzata, non subalterna all’oralità e alle sue regole formulaiche, come ancora in Appio Claudio e Sesto Elio, ma al servizio dello sviluppo e della valorizzazione di personalità con un profilo autonomo, che tendevano consapevolmente a stac-carsi e a distinguersi sullo sfondo rappresentato dalla tradizione»183.

Certo, la letterarizzazione della giurisprudenza non fu un fenomeno isolato nella cultura romana, ma si legò al contesto «di un impetuoso sviluppo della scrittura, che accompagnava l’ondata ellenistica diffusasi con il favore di im-portanti circoli aristocratici, e che andava dalla storiografia, alla poesia, alla retorica. Roma si riempiva di biblioteche e di libri, anche se solo nel caso del ius – il sapere romano per eccellenza – la nuova forma di comunicazione do-veva misurarsi con un importante retroterra, che aveva fatto dell’oralità un suo carattere costitutivo, e ciò determinava una transizione affatto peculiare».

E riferita proprio al periodo di Marco Aurelio risale una testimonianza qui preziosa riguardo alla transizione dall’oralità alla scrittura nella prassi rituale e giuridico-legale.

Come attesta un passo della vita di Marco Aurelio scritta da Giulio Capi-tolino (Vita M. Antonini Philosophi 4.4.1-6), uno degli scriptores historiae Augustae, Marco Aurelio

«educatus est in Hadriani gremio, qui illum, ut supra diximus, Verissimum no-minabat et qui ei honorem equi publici sexenni detulit, octavo aetatis anno in saliorum collegium rettulit. In saliatu omen accepit imperii: coronas omnibus in pulvinar ex more iacientibus aliae aliis locis haeserunt, huius velut manu capiti Martis aptata est. Fuit in eo sacerdotio et praesul et vates et magister et multos inauguravit atque exauguravit nemine praeeunte, quod ipse carmina cuncta didicisset. Virilem togam sumpsit quinto decimo aetatis anno, statimque ei Lucii Ceionii Commodi filia desponsata est ex Hadriani voluntate. Nec multo post praefectus feriarum Latinarum fuit. In quo honore praeclarissime se pro magistratibus agentem et in conviviis Hadriani principis ostendit».

“fu allevato sotto lo sguardo premuroso di Adriano, che, come abbiamo detto in precedenza, lo chiamava Verissimo, e che gli conferì la dignità dell’ordine

183 SCHIAVONE, 2005, p. 144, qui e nella successiva citazione.

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equestre a sette anni, e a otto lo fece entrare nel collegio dei Salii184. Nel perio-do di appartenenza a questo collegio, ebbe un presagio del suo destino imperiale: infatti, delle corone che tutti gettavano secondo l’uso rituale sul letto sacro, le altre si posarono qua e là, mentre la sua andò a cadere proprio sul capo di Marte, quasi vi fosse stata accomodata sopra a mano. Nell’esercizio di questa dignità sacerdotale fu capo delle processioni danzanti, indovino e maestro, e conferì o tolse la consacrazione a molte persone senza bisogno che vi fosse alcun ceri-moniere a suggergli le formule rituali, giacché le aveva imparate personalmente tutte quante. A quindici anni assunse la toga virile185, e subito dopo, secondo le disposizioni di Adriano, si fidanzò con la figlia di Lucio Ceionio Commodo. Non molto tempo dopo, fu prefetto nel corso delle Ferie Latine186: nell’esercizio di questa carica si mise in ottima luce nell’esplicare le funzioni dei magistrati assenti e nell’allestimento dei banchetti dell’imperatore Adriano”187.

Dunque, il futuro imperatore Marco Aurelio rimase nel collegio saliare sette anni, e nell’esercizio del suo sacerdozio, scalando le varie tappe della gerarchia religiosa, egli iniziò molte persone mediante i rituali saliari, e «quei carmina era-no tanti da rendere degno di nota che una persona li sapesse recitare tutti a me-moria (vates) senza l’aiuto del rammentatore (nemine praeeunte)»188. Quel che

184 «Les Saliens comptaient, parmi leurs dignitaires, un chef de danse, praesul, un chef de chant, vates, et, au sommet de la hièrarchie, le magister»: CHAMPEAUX, 1990 b, p. 824 nt. 51. Come il praesul muoveva i primi passi delle figure di danza che poi i membri della confraternita danza-vano insieme (cfr. Lucilio, Fragmenta 9.22 Charpin: «praesul ut amptruet inde, ut ulgus redamp-truet inde»; vd. anche Festo, 334.19 Lindsay), così il vates intonava le prime strofe del carmen che gli stessi confratelli continuavano poi in coro: cfr. Festo (Paolo Diacono), 3.12 Lindsay.

185 Come si sa, l’assunzione della toga virilis, bianca come quella dei candidati alle magi-strature, con il corrispondente abbandono della toga praetexta, di color porpora come quella dei magistrati, sanciva per i giovani il raggiungimento della maggiore età, ed era consegnata loro nel corso di una festa religiosa che si teneva tradizionalmente il 17 di marzo; l’età in cui ciò avveniva non era fissa, ma oscillava tra i quindici e i diciotto anni.

186 Questo magistrato aveva il compito di sostituire nell’amministrazione di Roma i due consoli durante le Feriae Latinae, un’antica festa in onore di Giove Laziale celebrata origina-riamente sui colli Albani, istituita, secondo la tradizione, dal re Fauno o da Enea e che origi-nariamente era propria alle sole città della confederazione latina e che poi, dopo la vittoria su Alba e la soppressione della lega latina nel 338 a.C., continuò a essere celebrata fino ai primi secoli dell’impero, con la partecipazione di rappresentanti delle città laziali e alla presenza dei magistrati supremi dello stato romano; le Feriae Latinae cadevano di solito tra aprile e giugno, duravano ordinariamente 4 giorni e culminavano nel sacrificio a Giove di un toro bianco, offi-ciato da un console romano; durante l’impero l’ufficio di prefetto delle Feriae Latinae rimase formalmente in vita, affidato solitamente a qualche giovane di alto rango (cfr. Tacito, Annales 4.36; Svetonio, De vita Caesarum, Nero 7). In generale, va ricordato che a Roma le feriae erano giorni sacri agli dèi e che in tali giorni ci si asteneva dal lavoro, non si convocavano i comizi e non si potevano emettere giudizi.

187 Traduzione di SEVERINI, 1983, sub loco.188 PERUZZI, 1998, p. 158.

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qui è davvero degno di nota e agiograficamente messo in risalto a suo onore189, è il fatto che Marco Aurelio, ancora nel II secolo d.C., fosse in grado di sostenere le performances tradizionali – pubbliche, orali e mnemoniche – di un vates, secondo quelle che erano state le caratteristiche proprie a un’antichissima fi-gura di indovino / sacerdote / poeta già di epoca indeuropea190, e ciò senza che intervenisse il prae-iens, “il rammentatore”, colui che dettava all’officiante le formule sacrali o del giuramento, secondo una funzione e un ufficio del tutto simile a quelle viste in precedenza nelle tradizioni greca e germanica.

Prae-iens è il participio presente di prae-eo, un verbo usato nel lessico giu-ridico e religioso latino col senso tecnico di «rammentare, dettare una formula (rituale / giuridica / religiosa) a un altro perché la ripeta», per lo più, come nel brano di Giulio Capitolino sopra citato, con l’ablativo assoluto: «in ambito religioso o giuridico, la formula esatta da pronunciare viene suggerita o dettata da magistrati e funzionari (sacerdoti o scribi). Tale atto è designato mediante la locuzione tecnica verba (verbis) praeire […]»191.

In latino192, nel linguaggio rituale, “stipulare, formulare, pronunciare, promulga-

189 Cfr. anche CIPRIANO, 1983, p. 107.190 Si ricordi qui, ad esempio, Varrone, De lingua latina, 7.36: «poetas antiquos uates ap-

pellabant», e per gli aspetti profetici: Plauto, Miles Gloriosus 911; Lucrezio, 1.102; Cicerone, Cato maior de senectute 4.2; De divinatione 1.4 etc. L’etimologia di vates e i suoi confronti con l’irlandese antico fáth “profezia, saggezza profetica”, faíth “profeta, saggio”, il gallese gwawd “poesia”, col nome del dio germanico Wōden/Wuotan/Odinn, con l’avestico, l’indiano antico etc., sono troppo noti per dovercisi soffermare (tutti i dati linguistici sono comunque in WATKINS, 1995, p. 117 ss., e in COSTA, 1998).

191 POCCETTI, 1999, p. 194. Cfr. Varrone, De lingua latina 6.61: «aedis sacra a magistratu ponti-fice praeeunte dicendo dedicatur»; cfr. anche Livio, 4.27.1: «dictator, praeeunte A. Cornelio pontifice maximo, ludos magnos tumultus causa vovit»; 5.41.1: «sunt qui M. Folio pontifice maximo praefante carmen devovisse eos se pro patria Quiritibusque Romanis tradant»; 46.1.6, dove il dedicante è quel Gneo Flavio già visto sopra: «aedem Concordiae in area Vulcani summa invidia nobilium dedicavit; coactusque consensu populi Cornelius Barbatus pontifex maximus verba praeire, cum more maiorum negaret nisi consulem aut imperatorem posse templum dedicare»; 10.28.14, con la nota devotio del console Publio Decio Mure figlio prima della battaglia nel 295 a.C. a Sentino: «Haec locutus M. Livium pontificem, quem descendens in aciem digredi vetuerat ab se, praeire iussit verba quibus se legionesque hostium pro exercitu populi Romani Quiritium devoveret». Cfr. poi anche Tacito, Historiae 1.36; CIL 3.1933, etc. Diversamente da altri, il legame formulare tra pontifex e praeire verba / verbis (cfr. anche Cicerone, De domo sua 133, 138; Livio, 8.9.4, 9.46.6, 10.2814, etc.), seppur frequente, pare a me né così vincolante (cfr. Varrone, De lingua latina 6.95: augur; Livio, 39.18.3, 31.17.9: sacerdos; 4.21.5: «obsecratio […] a populo duumviris praeeuntibus est facta»; Valerio Massimo, 4.1.10: scriba, e poi Acta Arvalia A.27.8 (anni 59-60 e 28); Plinio, Naturalis historia 28.11; Epistulae 10.52, 10.96.5; Plauto, Rudens 1335; etc.), né così culturalmente esclusivo da giustificare in sé la semantica pareti-mologica di pontifex inteso come “facitore di cammini”: la metaforizzazione del tempo attraverso lo spazio fa parte infatti di un sistema designativo proprio in generale alla cultura romana e alla lingua latina, e non solamente al linguaggio religioso arcaico.

192 Cfr. Varrone, De lingua latina 5.86, 6.25, 7.8; De re rustica 139.1, 141.4 («sic verba concipito»); Cicerone, De officis 3.29.108; Epistulae ad Quintum fratrem 2.13.3; Livio, 1.32.8,

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re, giurare, ripetere, pregare, solennemente” si dice concipere verba, espressione che si specializza nel significato tecnico di “ripetere, recitare con parole solen-ni tratte da una fonte autorevole (orale o scritta)”, «secondo la pratica di verba (verbis, carmen, carminibus, precationem ecc.) praeire (o praefari) alicui (de scripto) per opera di un sacerdote o di uno scriba»193 addetto a dettare, a me-moria o leggendolo, il testo che dovrà essere ripetuto dall’officiante ad alta voce e senza la minima difformità194, cosa «che un altro assistente è appunto incaricato di controllare»195.

La figura del rammentatore deve aver conosciuto a Roma, nel lungo tempo della transizione dall’oralità primaria all’affermazione piena della scrittura, fasi intermedie della sua attività ed essersi incarnata in funzioni e in persone diverse; fasi e funzioni in cui, da una dettatura, da un rammentare basato ini-zialmente solo sulla memoria, si passa all’utilizzo da parte dello stesso ram-

5.17.2, 22.1.7; Tacito, Historiae 4.31 («et cum cetera iuris iurandi verba conciperet»); 4.41; Ovidio, Metamorphoses 7.594, («dum vota sacerdos concipit»), etc.; l’espressione è anche fa-lisca: cfr. CIL 12.2.365: «Falerii novi cuando datu rected cuncaptum».

193 Cfr. PERUZZI, 1978, p. 172, da cui in parte, rispettosamente, dissento.194 Cfr. Plinio, Naturalis historia 28.3.11: «praeterea alia sunt verba inpetritis, alia depulso-

riis, alia commendationis, videmusque certis precationibus obsecrasse summos magistratus et, ne quod verborum praetereatur aut praeposterum dicatur, de scripto praeire aliquem rursusque alium custodem dari qui adtendat, alium vero praeponi qui favere linguis iubeat, tibicinem canere, ne quid aliud exaudiatur, utraque memoria insigni, quotiens ipsae dirae obstrepentes nocuerint quotiensve precatio erraverit; sic repente extis adimi capita vel corda aut geminari victima stante», “Altre poi sono le parole delle preghiere per ottenere auguri favorevoli, altre quelle delle deprecazioni, altre ancora quelle delle raccomandazioni, e vediamo che i sommi magistrati usano un linguaggio fisso nelle suppliche, e per evitare l’omissione o l’inversione di qualche termine, c’è sempre qualcuno che legge prima dal testo scritto, un altro sorvegliante preposto a controllare l’esattezza, una terza persona con l’incarico di far rispettare il silenzio, mentre un flautista intanto suona per coprire qualsiasi altra parola estranea alla cerimonia. Infat-ti si ricordano questi due eventi notevoli: ogni qualvolta certe imprecazioni hanno disturbato e danneggiato lo svolgimento di un rito o la preghiera è stata male recitata, subito sono scomparsi il capo delle viscere o il cuore, oppure queste parti sono state trovate doppie senza che la vittima sia stata mossa” (trad. di CAPITANI, 1986, sub loco).

195 Cicerone, De domo sua 139: «ne valeat id quod imperitus adulescens, novus sacerdos, sororis precibus, matris minis adductus, ignarus, invitus, sine collegis, sine libris, sine auctore, sine fictore, furtim, mente ac lingua titubante fecisse dicatur, praesertim cum iste impurus atque impius hostis omnium religionum qui contra fas et inter viros saepe mulier et inter mulieres vir fuisset, ageret illam rem ita raptim et turbulente, uti neque mens neque vox neque lingua consistent?», “tanto meno potrebbe aver valore la cerimonia compiuta, a quel che si dice, da un giovanetto senza esperienza, da un sacerdote novellino, spinto dalle preghiere della sorella e dalle minacce della madre, che agiva nell'ignoranza e contro voglia, senza colleghi, senza libri, senza uno che lo guidasse o lo assistesse, furtivamente, con mente e voce vacillanti, se si tiene soprattutto conto del fatto che questo essere impuro ed empio, nemico di tutto ciò che è sacro, questo sacrilego che si è fatto spesso donna tra gli uomini e uomo tra le donne, compiva quella cerimonia con tanta furia e precipitazione da non aver alcun controllo né sulla sua mente né sulla voce né sulla lingua?” (trad. di BELLARDI, 1975, sub loco).

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mentatore, o di chi svolgeva tali funzioni, di tavole, di tabelle in cui erano scritte, in parte o del tutto, le formule da dettare, cioè in forma abbreviata come ausilio alla memoria o in forma completa come massimo scrupolo in un’epoca in cui gli officianti, e forse anche i rammentatori, non comprendeva-no oramai quasi più quel che andavano recitando196.

Come apprendiamo da una glossa di Servio a Eneide 8.336, «antique vates carmentes dicebantur, unde etiam librarios qui eorum dicta perscriberent, car-mentarios nuncupatos»: l’origine ultima di parte di tali forme di ausilio mne-monico risale verosimilmente alla fase della prima fissazione per iscritto della tradizione orale canonica, a quando il vates non era più, o non era soltanto, il poeta ispirato e oracolante della primigenia tradizione indeuropea, perché era diventato, a Roma, il ‘maestro dei carmina’ religiosi.

In questo passo di Servio va notato anche il participio di nuncupare, un antico composto formato da nomen + capere “pronunciare il nome, designare attraver-so il nome, invocare, proclamare”, verbo usato nel linguaggio rituale e giuridico, soprattutto nella formula lingua nuncupare, ritenuto arcaico già da Cicerone (De oratore 3.153), e attestato nelle XII Tavole197: «all’importanza della formulazio-

196 Dalle spiegazioni che Festo (222.21, 224.6 Lindsay) dà di alcuni fenomeni morfofono-logici che si leggevano nel carmen saliare di Numa riferito da Valerio Flacco, si deduce che le abbreviazioni per troncamento («pa pro parte, et po pro potissum positum est in saliari carmi-ne») erano prassi antica anche nei testi sacerdotali, come sostenuto nel De litteris singularibus fragmentum attribuito al grammatico del I d.C. Valerio Probo (Grammatici latini 4.271.4-9 Keil): «apud veteres cum usus notarum nullus esset, propter scribendi difficultatem, maxime in senatu qui scribendo aderant, ut celeriter dicta comprehenderent, quaedam verba atque nomina ex communi consensu primis litteris notabant et singulae litterae quid significarent, in promptu erat, quod in praenominibus legibus publicis pontificumque monumentis et in iuris civilis libris etiamnunc manet»: cfr. PERUZZI, 1978, p. 162. Come ricordano D’IPPOLITO, 1986, e POCCETTI, 1999, p. 186, «un importante strumento della tachigrafia è rappresentato dal ricorso a sigle e ad abbreviazioni, che entrano man mano anche nella scrittura lapidaria e monumentale, come rivela la ricchissima documentazione epigrafica che ne fa un uso sempre più ampio nel tempo e nei tipi testuali in contrasto con la sua totale assenza nelle iscrizioni più arcaiche. Il repertorio va dalle sigle dei nomi personali, ridotti ad un numero ristretto per consentire un’inequivoca identificazione (ad es. M = Marcus) […], a quelle di organismi e strutture istituzionali (ad esem-pio S.P.Q.R. […]), a quelle di sintagmi stereotipi di ambito funerario (DM.) […] o dedicatorio, fino al compendio di complessi formulari di tipo giudiziario e legislativo (T.PR.I.A.V.P.V.D. – te praetor iudicem arbitrumve postulo uti des), che non potevano essere decrittati se non da esperti. Questo sistema di logogrammi, che costituisce un sottocodice all’interno del codice scrittura, nasce e si sviluppa in ambito giuridico, come rivela l’accenno ironico di Cicerone alla casta dei consulti intenti all’interpretazione delle singole lettere e all’ortografia (in singulis litteris atque interpunctionibus verborum: Pro Murena 11.25), oltre al fatto che un manuale di-vulgativo delle sigle, quasi tutte di pertinenza giuridica, attribuito al grammatico Valerio Probo, contiene formule codificate già nel corpus Flavianum di fine IV secolo a.C.».

197 Cfr. Cicerone, De oratore 3.153; Festo, 180.9 Lindsay = Tabula 6, la «cum nexum faciet man-cipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto» (cfr. anche Cicerone, De officis 3.65 = Tabula 6.2), ma anche Varrone (De lingua latina 7.8), Livio (8.9.8, 11.65.7), Valerio Massimo (5.10.1), etc.

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ne e all’indispensabilità della sua rispondenza a determinate forme fa riferimento l’antica espressione tecnica lingua nuncupare con il suo derivato nuncupatio (an-tico composto da nomen + capere, con ‘apofonia’ e allotropia nella coniugazione del verbo), ricorrente in riferimento all’enunciazione letterale di una formula nel linguaggio giuridico e religioso. Si tratta, in sostanza, della dichiarazione solenne, resa in particolari contesti, della formula richiesta per compiere un atto con valore giuridico o religioso, di cui si dichiara l’efficacia e il carattere vincolante per le due parti proprio in forza della sua enunciazione»198.

Venne così a crearsi un sistema come di vasi continui tra oralità e scrittura,

una rete comunicativa interattiva dove le formulazioni orali standardizzate, una volta messe per iscritto, erano recitate oralmente dall’officiante – spesso non un professionista del rito o del diritto, ma un politico in uno degli incari-chi temporanei del suo cursus honorum – in una forma linguistico-testuale che era inverata e canonizzata dal suggerimento del praeiens199, ma che rimaneva pur sempre possibile modificare autorevolmente, attraverso le performan-ces orali estemporanee, facendo poi trascrivere le modificazioni intervenute, così come dimostra l’episodio in cui Publio Cornelio Scipione Emiliano, det-to l’Africano minore e censore nel 142 a.C., durante un sacrificio espiatorio modificò il carmen rituale suggeritogli dal rammentatore, facendo poi subito trascrivere tale modifica, come ricorda Valerio Massimo (4.1.10):

«Qui censor, cum lustrum conderet inque solitaurilium sacrificio scriba ex pu-blicis tabulis sollemne ei precationis carmen praeiret, quo di immortales ut popoli romani res meliores amplioresque facerent rogabantur, “Satis” inquit “bonae et magnae sunt: itaque precor ut eas perpetuo incolumes servent”, ac protinus in publicis tabulis ad hunc modum carmen emendari iussit».

“Al termine della sua censura, mentre compiva il consueto rituale espiatorio e lo scriba gli suggeriva nel corso del sacrificio solenne la formula tratta dai libri pub-blici, con la quale gli dèi immortali venivano scongiurati di rendere migliori e più grandi le sorti del popolo romano: ‘Esse sono gia abbastanza buone e grandi’, dis-se, ‘e perciò prego gli dèi che le conservino tali per sempre’; e diede subito ordine che la formula dei libri sacri fosse trasformata in questo senso”200.

Eppure, ancora nel 70 d.C., la forza dei verba concepta, dell’oralità rituale e solenne, era così forte da non consentire la modificazione fraudolenta delle formule giurate, come ad esempio quando, come racconta Tacito (Historiae 4.41),

198 POCCETTI, 1999, p. 195.199 «Le formule dettate da chi ne è depositario appaiono spesso desunte da testi scritti deter-

minando, così, un circuito che dall’oralità si canonizza nella scrittura per tornare poi all’oralità ed essere fissato di nuovo, anche con modifiche, per iscritto»: ibid.

200 Trad. di FARANDA, 1971, sub loco.

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«senatus inchoantibus primoribus ius iurandum concepit, quo certatim omnes magi-stratus, ceteri, ut sententiam rogabantur, deos testes advocabant nihil ope sua factum, quo cuiusquam salus laederetur, neque se praemium aut honorem ex calamitate ci-vium cepisse, trepidis et verba iuris iurandi per varias artes mutantibus, quis flagitii conscientia inerat. Probabant religionem patres, periurium arguebant…».

“il senato, cominciando dai membri più importanti, formulò un giuramento, col qua-le tutti i magistrati a gara, e gli altri via via che venivano interpellati, invocavano a testimoni gli dèi che mai nulla era stato fatto ad opera loro contro l’incolumità di qualcuno, e che nessun profitto né onore avevano ricavato dalla rovina di cittadini; mentre quelli che si sapevano in colpa tentavano trepidanti di modificare la formula del giuramento. I senatori applaudivano la lealtà, biasimavano lo spergiuro…”201.

E infatti, fino ad epoca tarda, nel diritto romano «le fasi istruttorie come quelle dibattimentali del processo sono largamente dominate dall’oralità, di cui risente a lungo anche la procedura delle formulae (la definizione da parte del magistrato dei termini della controversia come base per il giudice) nel pro-cesso ‘formulare’ subentrato a quello arcaico, che viene designato appunto per concepta verba, id est per formulas (Gaio, Institutiones 4.30)»202.

Erano altresì tabelle di ausilio alla memoria del rammentatore e degli officianti verosimilmente anche quei libelli che ancora nel 218 d.C. gli Aruales utilizzavano nei loro riti, e che poi venivano ritirati e deposti negli archivi da un funzionario addetto: cfr. CIL 6.2104.31-38: «aedes clusa e(st). Omnes foris exierunt. Ibi sacer-dotes clusi, succincti, libellis acceptis carmen descindentes tripodaverunt in verba haec: ‘enos Lases iuvate […] triumphe, triumphe, trium[phe, tri]umphe’. Post tri-podationem deinde signa dato publici introier(unt) et libellos receperunt».

Non entro nella vexata quaestio ‘libri vs commentarii’, se non per dire che, così come a Sini, anche a me pare molto probabile che nei commentarii si raccoglies-se e si conservasse la memoria dell’attività interpretativa dei collegi; dalle testimonianze, epigrafiche e non, si evince, tra l’altro, che i fratres Aruales avevano propri commentarii alla cui redazione materiale erano preposti degli ausiliari del collegio, quei publici tra i quali era, appunto, anche il Primo Cor-neliano menzionato in alcune epigrafi.

La terminologia delle epigrafi, infatti, sebbene di per sé non sia sufficiente a chiarire la reale differenza di contenuto tra libri e commentarii sacerdotali, attesta tuttavia in maniera convincente «il permanere, anche in età imperiale avanzata, della distinzione tra questi importanti generi di documenti. La qua-lità stessa delle iscrizioni non consente poi alcun dubbio sul carattere pretta-mente tecnico di tale terminologia; infatti, le qualifiche a libris e a commen-

201 Trad. di ARICI, 1970, sub loco.202 POCCETTI, 1999, p. 198.

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tariis si presentano utilizzate in atti ufficiali di collegi sacerdotali e in epigrafi funerarie, riferibili ai primi tre secoli dell’impero, per indicare propriamente il nomen officii dei personaggi menzionati203. Ancora più degna di nota appare infine questa diversità terminologica nella titolatura ufficiale degli ausiliari dei collegi sacerdotali, se si considera che in quest’epoca, già da tempo, ai signi-ficati originari dei termini libri e commentarii si erano sovrapposti nel sentire comune significati diversi o genericamente più ampi»204.

Nel periodo imperiale, la qualifica pubblici a commentariis o commenta-rienses è dunque attribuita a funzionari di numerosi uffici, sia dell’amministra-zione centrale che di quella periferica, e ha certo ragione Peruzzi nel sostenere che «le tarde attestazioni e la genericità semantica della parola commentarius non consentono di vedere specificamente un custode dei sacri testi nel publi-cus a commentariis fratrum arualium», ma, data l’importanza e il rango che gli vengono attribuiti, nominandolo subito dopo i sacerdoti addetti al rito205, ritengo si possa lecitamente supporre che tale funzionario e il rammentatore fossero la stes-

203 Sui commentarii pontificum, vd. Cicerone, Brutus 55: «Possumus […] suspicari diser-tum […] Ti. Coruncanium, quod ex pontificum commentariis longe plurimum ingenio valuisse videatur»; De domo sua 136: «Sed, ut revertar ad ius publicum dedicandi, quod ipsi pontifices semper non solum ad suas caerimonias, sed etiam ad populum iussa accomodaverunt, habetis in commentariis vestris C. Cassium Censorem de signo Concordiae dedicando ad pontificum collegium retulisse eique M. Aemilium pontificem maximum pro collegio respondisse, nisi eum populus Romanus nominatim praefecisset atque eius iussu faceret, non videri eam posse recte dedicari»; CIL 6.2195 b: «Ti. Claudius Natalis a libris pontifical(ibus)»; Livio, 4.3.9, 6.1.2; Quintiliano, Institutio oratoria 8.2.12; Plinio, Naturalis historia 18.14; sui commentarii augurales: Cicerone, De divinatione 2.42: «Itaque in nostris commentariis scriptum habemus: “Iove tonante, fulgurante comitia populi habere nefas”»; Festo, 420 Lindsay; Servio Danielino, Ad Aeneidem 1.398; sui commentarii XVvirorum: Censorino, De die natali 17.9, 10, 11; CIL 6.2312: «Dis Manibus Myrini Domitiani publici a commentaris XVvir(um) s(acris) f(aciundis) Arruntia Doliche fecit coniugi carissimo»; sui commentarii fratrum Arvalium: CIL 6.2103 a 4 :«[…] [detulit Primus Cor]nel(ianus) public(us) a comm(entariis) [fratrum arvalium]»; CIL 6.2104 b 30: «Primus Corne[lianus pub]l(icus) [a c]omm(entariis) fratr(um) arv(alium)»; sui commentarii VII virum Epulonum: CIL 6.2319 b: «[...]lianus Flavianus a comme[nt(ariis) sa]cerdoti VII virum epulonu(m)». L’iscrizione in CIL 6.2312 è la lapide funeraria di un certo Myrinus Domitianus qualificato publicus a commentariis dei Quindecimviri sacris faciundis, e conferma l’esistenza di commentarii del collegio dei quindecimviri; quegli stessi commentarii che sono citati anche nel De die natali di Censorino; l’iscrizione in CIL 6.2319 b è invece l’unica fonte nota in cui sono menzionati i commentarii dei septemviri Epulones, e completa il quadro dei materiali d’archivio riferibili ai quattro amplissima collegia dei sacerdoti romani, i quali appaiono dunque specificatamente competenti per la redazione e la conservazione dei documenti attinenti alla funzione giuridico-religiosa di ciascun collegio.

204 Cfr. Ulpiano, Digesta 32.52: «Librorum appellatione continentur omnia volumina, sive in charta sive in membrana sint sive in quavis alia materia: sed et si in philyra aut in tilia (ut nonnulli conficiunt) aut in quo alio corio, idem erit dicendum». Su tutto ciò, vd. SINI, 2001 a, e 2001 b, cap. 4, da cui cito.

205 Cfr. PERUZZI, 1973, p. 164 nt. 25, e HENZEN, 1874, p. CC (anno 214, a. 4, 11 etc.).

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sa persona, o che comunque le due funzioni, ad un certo punto, abbiano finito per coincidere nella prassi della recitazione rituale.

Isidoro di Siviglia (Origines 9.1.6-7), sosteneva che esistono quattro diffe-renti lingue latine:

«Latinas autem linguas quattuor esse quidam dixerunt, id est Priscam, Latinam, Romanam, Mixtam. Prisca est, quam vetustissimi Italiae sub Iano et Saturno sunt usi, incondita, ut se habent carmina Saliorum. Latina, quam sub Latino et regibus Tusci et ceteri in Latio sunt locuti, ex qua fuerunt duodecim tabulae scriptae. Romana, quae post reges exactos a populo Romano coepta est, qua Naevius, Plautus, Ennius, Vergilius poetae, et ex oratoribus Gracchus et Cato et Cicero vel ceteri effuderunt. Mixta, quae post imperium latius promotum simul cum moribus et hominibus in Romanam civitatem inrupit, integritatem verbi per soloecismos et barbarismos corrumpens».

“Alcuni hanno detto che esistono quattro differenti lingue latine: l’antica, la latina, la romana e la mista. L’antica fu usata dai primi abitanti d’ltalia durante il regno di Giano e Saturno: era assai rozza, come dimostrano i carmi dei Salii. La latina fu parlata dai Tusci e dagli altri popoli del Lazio all’epoca di Latino e dei re: in questa lingua furono redatte le dodici tavole. La romana nacque dopo la cacciata dei re da parte del popolo romano: in essa si espressero i poeti Ne-vio, Plauto, Ennio e Virgilio, nonché, tra gli oratori, Gracco, Catone, Cicerone ed altri. La mista irruppe nella città di Roma dopo l’espansione dell’impero, insieme con nuovi costumi ed abitanti, corrompendo l’integrità delle parole attraverso solecismi e barbarismi”206.

A Roma, la lingua del diritto, così come quella dei carmina sacerdotali – la lingua antica, quella dei Salii, e la lingua latina, quella delle XII Tavole, di cui parla Isidoro –, rimasero immutabili per secoli nelle loro formule, nate nel-l’oralità primaria, anche grazie all’aiuto dei rammentatori; poi, con la lingua romana – il latino di Cicerone e di Virgilio che per un paio di millenni fu, e in parte è ancora, la lingua della cultura e del diritto occidentale –, e con la lenta ma inarrestabile diffusione della scrittura come strumento diamesico e cogniti-vo – un nuovo e potente sistema di immagazzinamento simbolico esterno207 che mutò per sempre, o almeno fino all’avvento dell’era digitale, la mente umana –, anche il modo di comunicare il diritto mutò, iniziando a seguire, «se pur con ritmo più lento, la naturale evoluzione della lingua comune»208.

* * *

206 Trad. di VALASTRO CANALE, 2004, sub loco.207 Su questa nozione, vd. COSTA, 1998 e 2008.208 PERUZZI, 1978, p. 173.

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4. Il mondo iranico.

Discendente della dinastia achemenide – quella, per intendersi, di Ciro il Grande, il re dei re, di Cambise II, il conquistatore dell’Egitto, di Dario e di Ser-se –, Arsica (Arsikas), nato verosimilmente tra il 453 e il 445 a.C., era il figlio primogenito di Dario II e di Parisatide, la figlia di Artaserse I209; alla morte di quest’ultimo e assunto il nome di Artaserse II, egli regnò sulla Persia dal 405-404 al 359-358 a.C., quando, dopo una lunga serie di congiure di palazzo e dopo il regno più lungo nella storia degli Achemenidi, morì alla rispettabile età di novantaquattro anni. Ritenuto un debole e un depravato, ma anche un regnante mite e benevolo verso i sudditi, di lui si ricorda in particolare che sconfisse e uccise il fratello secondogenito Ciro il Giovane, che gli si era ribellato contro, a Cunassa nel 401, e poi che concluse la guerra di Corinto, imponendo ai Greci, nel 386 a Sardi, la pace detta di Antalcida, trattato che stabilì la sovranità per-siana sulle città greche dell’Asia minore e sulle isole di Cipro e di Clazomene, assestando un duro colpo alle rinascenti ambizioni marittime ateniesi.

Ciro era stato inviato dal padre Dario II in Asia Minore nel 407 per sosti-tuire Tissaferne210, il quale aveva tenuto un comportamento ambiguo, appog-giando ora Atene ora Sparta, che si combattevano nell’Egeo, senza fornire a nessuna delle due aiuti tali da riuscire a farle vincere la guerra. Ciro invece appoggiò senza riserve Lisandro, fino alla vittoria finale degli Spartani sugli Ateniesi ad Egospotami, e ciò gli procurò la riconoscenza della città ormai egemone in Grecia. Dario II designò tuttavia come suo successore non Ciro ma il primogenito Arsica e Ciro si ribellò. La guerra peloponnesiaca appena terminata consentì a Ciro di assoldare un gran numero di mercenari greci, ma presso di lui convennero anche personalità di rilievo, tra cui l’ateniese Seno-fonte, allora in esilio (cfr. Anabasis 2.6.16-20, 3.1.4-9), che fu presentato a Ciro da Prosseno di Beozia, un discepolo di Gorgia, e poi Aristippo e Menone, della potente famiglia degli Alevadi, di Larissa di Tessaglia, e, non ultimo, il grande stratega spartano Clearco.

209 Il nome Arta-serse (Arta-xšaśā < *ta-xšaca) è un composto di arta- (cfr. supra, p. 104 nt. 157) e di -xšaśā “regno” (< a.ind. kṣatrám, av. xśaθrəm, a.pers. xšaśām) “colui che regna in giustizia”; m. pers. Ardashir o Ardeshir, che è il nome del fondatore della dinastia Arsacide.

210 Tissaferne, morto a Colosse nel 395, fu satrapo di Lidia e Caria dal 413 a.C.; forse a causa di una cospirazione ordita da suo fratello Teritucme contro Dario II, fu da questi esiliato in Caria nel 408 e Ciro il Giovane gli succedette nel comando della guerra in Grecia. Per aver rivelato ad Artaserse la ribellione del fratello Ciro e per il ruolo decisivo della sua cavalleria nella battaglia di Cunassa, Tissaferne riebbe la satrapia. Durante il successivo conflitto contro Sparta, Tissaferne fu tuttavia sconfitto da Agesilao a Sardi nel 395; accusato ingiustamente di tradimento da Parisatide, che voleva vendicare la morte di Ciro a cui era legata più che all’altro figlio Artaserse e le cui mire sul trono aveva appoggiato risolutamente, ella convinse lo stesso Artaserse a farlo assassinare da un altro satrapo, Titrauste.

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La vasta eco che la spedizione di Ciro ebbe in Grecia nasce non solo dal-l’ampia presenza tra le sue fila di mercenari greci, ma anche dal fatto che essa fu subito divulgata in opere letterarie da testimoni oculari, tra cui Senofonte che la descrisse nell’Anabasi. Anche Sofeneto di Stinfalo, un altro stratega greco agli ordini di Ciro, scrisse una Anabasi, di cui si sono salvati quattro frammenti di argomento geografico in Stefano di Bisanzio (FGrHist 109). Un terzo testimone oculare fu Ctesia di Cnido, medico di Artaserse e della sua fa-miglia, autore di Persik£, un genere storiografico dedicato specificatamente alla storia persiana: «la spedizione di Ciro fu perciò raccontata in monografie (Anabasi), in opere che trattavano della Persia (non solo Ctesia, anche Dino-ne narrò l’episodio nei suoi Persik£ […] ); fu raccontata in opere storiche di carattere generale, per esempio nelle Storie di Eforo (cfr. Diodoro Siculo, 14.22.2). Ma l’episodio suscitò le riflessioni anche di chi, non storico di pro-fessione, fosse però interessato alle vicende di Grecia: vi fece cenno Isocrate in opere significative quali il Panegirico (145-149), il Filippo (39-100), il Panatenaico (104-105), […] si è poi conservato un ampio resoconto della spe-dizione in Diodoro Siculo (14.19-31), una breve relazione in Giustino (5.11), in Orosio (2.18) e in Suidas (sv. Xenofîn)»211. È dunque in questo quadro che si inserisce la Vita di Artaserse plutarchea, la più recente tra le narrazioni ampie dell’episodio.

Nelle fonti greche212, in primis appunto nella vita di Artaserse narrata da Plutarco, Artaserse II è soprannominato Mn»mwn, in persiano antico abiâtaka, secondo una glossa di Esichio (A-123 L.: «¢bi£taka. mn»mona. Pšrsai»), correttamente emendata (¢b…ltaka > ¢bi£taka) già nel 1879 da J. Oppert213.

Certo, resta pur vero, come si diceva sopra214, che lodare i grandi o i potenti per la loro memoria eccezionale era prassi agiografica diffusa nell’antichità, e che l’avere una buona memoria doveva essere, almeno appunto negli elogi letterari, una dote di famiglia – di Ciro il Grande, ad esempio, si narrava che conoscesse a memoria i nomi di tutti gli ufficiali del suo innumerevole eser-cito215 –, purtuttavia, qui di seguito, cercherò indizi per sostenere l’idea che il

211 Cfr. Manfredini in MANFREDINI, ORSI, ANTELAMI, 1987, p. XXIX.212 Cfr. anche Plutarco, Regum et imperatorum apophtegmata 173 f; Nepote, Vitae.

Reges 1.3; Trogo, Historiae Philippicae 9 (fr. prologi) l. 11 Seel; Luciano, Macrobii 15; Eliano, Varia historia 1.32; Temistio, Pentaeterikos, (Harduin) p. 109 b Schenkl, Downey; Suidas, sv. Ktes…aj.

213 Cfr. OPPERT, 1879, p. 229 nt. 1.214 Cfr. supra, p. 113.215 Cfr. Plinio, Naturalis historia 7.24.88, 25.2.6; Valerio Massimo, 8.7.16; Quintilliano,

Institutio oratoria 11.2.50; in Senofonte (Cyropaedia 5.3.46-47), la faccenda è raccontata con maggior equilibrio: «'Ek toÚtou d¾ õconto ™pˆ t¦j skhn¦j kaˆ ¤ma ¢piÒntej dielšgonto prÕj ¢ll»louj æj mnhmonikîj Ð Kàroj ÐpÒsoij sunštatte p©sin Ñnom£zwn ™netšlleto. Ð d� Kàroj ™pimele…v toàto ™po…ei: p£nu g¦r aÙtù ™dÒkei qaumastÕn e�nai e„ oƒ m�n

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soprannome di Artaserse II avesse in realtà a che fare non semplicemente con l’avere avuto egli una buona memoria, ma con la memoria rituale e del diritto, che il suo soprannome Mn»mwn, insomma, non ricordi il rammentatore di leggi greco solo per caso o per piaggeria.

* * *

Stando alle nostre fonti, di Artaserse II sappiamo alcune cose qui signi-ficative: innanzitutto, che, come suo fratello Ciro, anch’egli in gioventù era stato educato dai Magi, poi, che, prima di salire al trono, era stato iniziato dai sacerdoti nel tempio della dea guerriera Anaitis, come ci dice Plutarco (Vita di Artaserse, 3, 1-3):

«'Ol…gJ d' Ûsteron À teleutÁsai Dare‹on, ™x»lasen e„j Pasarg£daj Ð basileÚj, Ópwj telesqe…h t¾n basilik¾n telet¾n ØpÕ tîn ™n Pšrsaij ƒeršwn. œsti d' <™ke‹> qe©j polemikÁj ƒerÒn, ¿n 'Aqhn´ tij <¨n> e„k£seien. e„j toàto de‹ tÕn teloÚmenon parelqÒnta t¾n m�n „d…an ¢poqšsqai stol»n, ¢nalabe‹n d' ¿n Kàroj Ð palaiÕj ™fÒrei, prˆn À basileÝj genšsqai, kaˆ sÚkwn pal£qhj ™mfagÒnta term…nqou katatrage‹n, kaˆ pot»rion ™kpie‹n Ñxug£laktoj: e„ d� prÕj toÚtoij ›ter' ¥tta drîsin, ¥dhlÒn ™sti to‹j ¥lloij. taàta dr©n 'Artoxšrxou mšllontoj, ¢f…keto Tissafšrnhj prÕj aÙtÕn ¥gwn ›na tîn ƒeršwn, Öj ™n paisˆ KÚrou tÁj nomizomšnhj ¢gwgÁj ™pist£thj genÒmenoj kaˆ did£xaj mageÚein aÙtÒn, oÙdenÕj Ât-ton ™dÒkei Persîn ¢ni©sqai, m¾ ¢podeicqšntoj ™ke…nou basilšwj: diÕ kaˆ p…stin œsce kathgorîn KÚrou».

“Poco dopo la morte di Dario, il re giunse a Pasargade216 per essere sottoposto

b£nausoi ‡sasi tÁj aØtoà tšcnhj ›kastoj tîn ™rgale…wn t¦ ÑnÒmata, kaˆ Ð „atrÕj d� o�de kaˆ tîn Ñrg£nwn kaˆ tîn farm£kwn oŒj crÁtai p£ntwn t¦ ÑnÒmata, Ð d� stra-thgÕj oÛtwj ºl…qioj œsoito éste oÙk e‡soito tîn Øf' aØtù ¹gemÒnwn t¦ ÑnÒmata, oŒj ¢n£gkh ™stˆn aÙtù Ñrg£noij crÁsqai kaˆ Ótan katalabe‹n ti boÚlhtai kaˆ Ótan ful£xai kaˆ Ótan qarrànai kaˆ Ótan fobÁsai», “Poi si avviarono verso le rispettive tende e strada facendo discorrevano della memoria che Ciro dimostrava al momento di impartire gli ordi-ni rivolgendosi a ciascuno col proprio nome. Ciro lo faceva di proposito sembrandogli ben strano che, mentre gli artigiani conoscono i nomi degli strumenti del loro mestiere e il medico quelli di tutti gli strumenti chirurgici e di tutte le medicine che impiega, un generale possa essere così di-stratto da non ricordare i nomi degli ufficiali suoi subalterni, dei quali egli deve pur sempre valersi quali strumenti necessari per attaccare come per difendersi, per ispirare fiducia nei suoi come per seminare il panico fra i nemici” (trad. di FERRARI, 2007, sub loco); vd. BRETONE, 1984.

216 Secondo Erodoto (1.125.3), Pasargade era il nome della tribù persiana cui apparteneva-no gli Achemenidi; per onorarne il nome, per il quale sono state proposte diverse etimologie e diversi significati, Ciro il Grande chiamò Pasargade la capitale dell’impero persiano, fondan-dola a metà del VI a.C. (cfr. Strabone, 15.3.7-8; Curzio Rufo, 5.6.19); quando la capitale fu trasferita, Pasargade rimase comunque il centro civile e religioso dell’impero e i re achemenidi

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all’iniziazione regale dai sacerdoti persiani. C’è un tempio di una dea guerrie-ra, che si potrebbe paragonare con Atena. Bisogna che chi deve essere iniziato, entrato nel tempio, si spogli della propria veste, indossi quella che portava Ciro il Grande217 prima di diventare re; che mangi una torta di fichi, mastichi terebinto218 e beva una tazza di latte acido. Se oltre a ciò compiono altro, agli estranei non è noto. Quando Artaserse si accingeva a fare queste cose, Tissa-ferne giunse presso di lui con uno dei sacerdoti, che, incaricato di dare a Ciro l’educazione tradizionale dei fanciulli e avendogli insegnato la magia, meno di ogni altro persiano sembrava essere contento che quello non fosse stato desi-gnato re. Appunto perciò, quando accusò Ciro, fu creduto”219.

Dell’educazione dei giovani nobili e principi persiani ci parla tra gli altri Senofonte, a proposito dell’educazione ricevuta da Ciro il Grande (Anabasis 1.9.3-6):

«p£ntej g¦r oƒ tîn ¢r…stwn Persîn pa‹dej ™pˆ ta‹j basilšwj qÚraij paideÚontai: œnqa poll¾n m�n swfrosÚnhn katam£qoi ¥n tij, a„scrÕn d' oÙd�n oÜt' ¢koàsai oÜt' „de‹n œsti. qeîntai d' oƒ pa‹dej kaˆ timwmšnouj ØpÕ basilšwj kaˆ ¢koÚousi, kaˆ ¥llouj ¢timazomšnouj: éste eÙqÝj pa‹dej Ôntej manq£nousin ¥rcein te kaˆ ¥rcesqai. […] œpeita (sc. Kàroj) d� filippÒtatoj kaˆ to‹j †ppoij ¥rista crÁsqai: œkrinon d' aÙtÕn kaˆ tîn e„j tÕn pÒlemon œrgwn, toxikÁj te kaˆ ¢kont…sewj, filomaqšstaton e�nai kaˆ melethrÒtaton».

“Bisogna sapere che i figli dei nobili persiani sono educati al palazzo reale, ove apprendono soprattutto ad essere saggi nella vita, cioè temperanti. Fra quelle pareti i fanciulli non odono né vedono mai cosa che sia disonesta. Al contra-rio, vedono e ascoltano i personaggi che il re onora, vedono gli altri, che il re disprezza. Così imparano fin dalla prima fanciullezza a comandare e ubbidire. […] Più tardi (Ciro) rivelò un grande amore per i cavalli e una singolare perizia

continuarono a essere lì investiti dell’autorità regale, mediante un lungo cerimoniale. Alessan-dro, secondo quanto attesta Arriano (Alexandri Anabasis 6.29.4-5), giunse fino a Pasargade, ma non la distrusse; essa scomparve dopo una lunga decadenza e le rovine dell’antica città si trovano oggi in Iran, in una zona collinosa del Fārs, nel Dasht-i Murghab, a 1900 mt. s.l.m., a circa 40 km. a nord-est di Persepoli: cfr. STRONACH, 1978; lo stesso studioso, assieme a Hilary Gopnik, è autore delle voce Pasargadae – aggiornata al 2009 e dove si troverà tutto quel che occorre – nell’Encyclopaedia Iranica, com’è noto disponibile anche on-line.

217 Ciro il Grande, o il Vecchio, regnò dal 558 a.C. fino alla sua morte, nel 529; figlio di Cambise I e di Mandane, figlia del re dei Medii Astiage, con la conquista della Media, della Lidia, della Caria, della Frigia e della Babilonia, fu il fondatore dell’impero persiano e il suo organizzatore, inaugurando il sistema delle satrapie.

218 Il terebinto è un arbusto mediterraneo simile al pistacchio, che produce una resina, detta trementina di Chio o di Cipro, un tempo usata come medicinale.

219 Trad. di Antelami in MANFREDINI, ORSI, ANTELAMI, 1987, sub loco.

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nell’equitazione. Si apprezzava altresì l’entusiasmo eccezionale con cui impa-rava e praticava gli esercizi militari, il tiro dell’arco e del giavellotto”220.

Anche Erodoto (1.136.2) ci parla dell’educazione che i Persiani davano ai loro figli; secondo lo storico greco, essi

«PaideÚousi d� toÝj pa‹daj ¢pÕ pentašteoj ¢rx£menoi mšcri e„kosašteoj tr…a moàna, ƒppeÚein kaˆ toxeÚein kaˆ ¢lhq…zesqai».

“insegnano ai figli, cominciando dall’età di cinque anni e fino ai venti, tre cose sole: cavalcare, tirare con l’arco e dire la verità”.

In un mondo dove la cultura tradizionale e il suo insegnamento erano an-cora strettamente legati all’oralità, una sola cosa dunque non era necessario insegnare ai giovani, e cioè a leggere e a scrivere221; dagli Annali del re assiro Assurbanipal, testimoni di una cultura del libro e degli scribi da secoli, ap-prendiamo invece che il futuro re imparava ad andare a cavallo, a tirare con l’arco «e la sapienza di Nabu e l’intera arte dello scrivere secondo le tradizioni dei maestri»222.

Che quella dei giovani persiani fosse un’educazione fondata sull’oralità, e dunque sull’apprendimento mnemonico dei testi tradizionali, ce lo conferma anche Strabone (15.3.18):

« 'ApÕ d� pšnte ™tîn ›wj tet£rtou kaˆ e„kostoà paideÚontai toxeÚein kaˆ ¢kont…zein kaˆ ƒpp£zesqai kaˆ ¢lhqeÚein, didask£loij te lÒgwn to‹j swfronest£toij crîntai, o‰ kaˆ tÕ muqîdej prÕj tÕ sumfšron ¢n£gontej paraplškousi, kaˆ mšlouj cwrˆj kaˆ met' òdÁj œrga qeîn te kaˆ ¢ndrîn tîn ¢r…stwn ¢nadidÒntej».

“Fra i cinque e i ventiquattro anni si addestrano a tirare d’arco, a lanciare giavel-lotti, ad andare a cavallo e a dire la verità. Ricorrono agli insegnamenti dei maestri più saggi, i quali inventano e raccontano a scopo educativo anche delle storie, oltre a celebrare con musiche e canti le gesta degli dèi e degli uomini più valorosi”223.

Tali educatori erano dunque incaricati «de transmettre aux jeunes Perses les

220 Trad. di CARENA, 1962, sub loco.221 Sull’educazione persiana dei fanciulli nobili e dei principi regali, cfr. anche Platone,

Alcibiades I 121 e-122 a; Nicolao di Damasco, FGrHist 90, fr. 67.222 Cfr. WIDENGREN, 1954, p. 63 nt. 311; vd. anche BAUSANI, 1959, p. 20, poi BRIANT, 1996,

p. 339 ss., e Orsi in MANFREDINI, ORSI, ANTELAMI, 1987, p. 273-274.223 Trad. it. di BIFFI, 2005, sub loco, che ringrazio sentitamente per avermi fatto pervenire

una copia del volume.

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traditions orales de leur peuple. Celles-ci avaient trait tant aux dieux qu’aux héros», e non vi è alcun dubbio che «les ‘hommes sages’ qui sont chargés de cette mission sont les Mages, véritables dépositaires de la mémoire collective. Ils sont eux-mêmes spécialisés dans les hymnes et les théogonies. On sait éga-lement qu’ils sont chargés de l’éducation des enfants royaux. Leurs connais-sances spécifiques dans les plantes et les simples les disposaient également à en enseigner les vertus aux jeunes Perses»224.

Così come i brāhmaṇa indiani e i druidi celtici, o il vate romano225 e il þulr germanico226, anche i Magi227 erano gli eredi presso la loro popolazione di una lunga e gloriosa tradizione etnolinguistica legata alla figura del poeta / sacerdote indeuropeo228, il custode del patrimonio mitologico, rituale, sapienziale – tra cui certamente anche le tradizioni normative e del diritto, e della lingua e dei testi poetici che veicolavano e ritrasmettevano oralmente di generazione in genera-zione l’enciclopedia orale delle conoscenze del proprio popolo.

Nel lungo periodo del suo esilio in Persia presso Artaserse I, verosimil-mente nell’anno 465-464 a.C., anche Temistocle andò a lezione dai Magi, e ciò era reputato un grande onore, come ci dice Plutarco (Temistocle 29.6):

«oÙd� g¦r Ãsan aƒ timaˆ ta‹j tîn ¥llwn ™oiku‹ai xšnwn, ¢ll¦ kaˆ kunhges…wn basile‹ metšsce kaˆ tîn o‡koi diatribîn, éste kaˆ mhtrˆ tÍ basilšwj ™j Ôyin ™lqe‹n kaˆ genšsqai sun»qhj, diakoàsai d� kaˆ tîn magikîn lÒgwn toà basilšwj keleÚsantoj».

“Gli onori tributati agli altri stranieri a palazzo non erano minimamente para-224 BRIANT, 1996, p. 341-342. Sulle conoscenze iniziatiche dei Magi, secondo quella che

era una tradizione già di epoca indeuropea, riguardo all’utilizzo di piante curative e di droghe sacre e allucinogene, cfr. ad esempio anche Plinio, Naturalis historia 2.160 e 164, 30.8, 37.157, 38.144-145, etc., e vd. COSTA, 2008, con dati e bibliografia.

225 Vd. supra, p. 113 ss.226 Vd. supra, p. 102.227 L’origine ultima dei Magi (a. pers. magu-, babil. maguš, gr. mάγος (> mage…a), lat. magus,

elamita ma-ku-iš) e financo l’etimologia del loro nome sono stati a lungo una vexata quaestio degli studi di iranistica – anche perché, tra l’altro, non sappiamo quasi nulla dei Magi iranico-occidentali nel periodo pre-zoroastriano – e non è questo certo il luogo per darne conto, essendo in essa coinvolte complesse vicende, che in parte vedremo più avanti, legate alla nascita, alla diffusione e al suo diventare religione di stato nel periodo achemenide, a partire per lo meno da Dario I, dello zoroastrismo; attualmente, pur non essendo affatto cessato il dibattito, seguen-do Erodoto (1.101 e 107), si ritiene che i Magi fossero una delle sei tribù dei Medi all’epoca dell’impero medio (VII secolo a.C.), e in particolare una casta ereditaria di sacerdoti, simile ai Leviti e ai brāhmaṇi; si pensa altresì che il loro nome sia di origine indeuropea (cfr. BENVENISTE, 1938, p. 13 e 18-20, così tra gli altri anche GNOLI, 1980, p. 194) e che sia da connettere all’ave-stico magavan- “purezza rituale”, seppure nella porzione superstite dell’Avesta giunta fino a noi il sostantivo che designa il sacerdote sia aqravan-.

228 Sulla lingua poetica indeuropea e le sue vestigia sapienziali nel mondo iranico antico, vd. WATKINS, 1995; COSTA, 1998, 2008.

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gonabili con quelli di Temistocle: interveniva alle partite di caccia del re e ai divertimenti più intimi; fu ammesso alla presenza della regina madre ed entrò in familiarità con lei; su invito del re assistette anche alle lezioni dei magi”229.

I Magi erano sempre presenti duranti i riti e i sacrifici agli dèi, come sostie-ne Erodoto (1.132):

«'Epe¦n d� diamistÚlaj kat¦ mšrea tÕ ƒr»ion ̃ y»sV t¦ krša, Øpop£saj po…hn æj ¡palwt£thn, m£lista d� tÕ tr…fullon, ™pˆ taÚthj œqhke ðn p£nta <t¦> krša. Diaqšntoj d� aÙtoà m£goj ¢n¾r paresteëj ™pae…dei qeogon…hn, o†hn d¾ ™ke‹noi lšgousi e�nai t¾n ™paoid»n: ¥neu g¦r d¾ m£gou oÜ sfi nÒmoj ™stˆ qus…aj poišesqai. 'Episcën d� Ñl…gon crÒnon ¢pofšretai Ð qÚsaj t¦ krša kaˆ cr©tai Ó ti min lÒgoj aƒršei».

“Dopo che, sminuzzate a brani le carni della vittima, le ha bollite, vi stende sotto dell’erba, la più tenera possibile e preferibilmente trifoglio, e su questa pone tutte le carni. Quando egli le ha deposte, un Mago che gli sta accanto can-ta una teogonia – tale appunto essi affermano sia il carattere del canto. Senza un Mago non è loro lecito compiere sacrifici. Dopo aver atteso per un po’ di tempo, il sacrificante porta via le carni e ne fa l’uso che vuole”230.

Secondo Curzio Rufo (3.3.8-9), era poi tradizione dell’esercito persiano che ci si mettesse in marcia all’alba, quando si levava un segnale di tromba dalla tenda del re, e i Magi, cantando gli inni sacri, erano in testa, assieme al Fuoco, simbolo di Ahura Mazdā, la divinità suprema del pantheon zarathustriano:

«ordo autem agminis erat talis. Ignis, quem ipsi sacrum et aeternum vocabant, argenteis altaribus praeferebatur. Magi pro proximi patrium carmen canebant».

“l’ordine di marcia poi era il seguente. In testa, portato su altari d’argento, veniva il fuoco, che essi chiamavano sacro ed eterno. Subito dopo venivano i Magi, cantando un patrio carme”.

E poi ancora Curzio Rufo (5.1.22):

«Magi deinde suo more carmen canentes, post hos Chaldaei, Babyloniorumque non vates modo, sed etiam artifices cum fidibus sui generis ibant. Laudes hi re-gum canere soliti, Chaldaei siderum motus it statas vices temporum ostendere».

“avanzavano poi i Magi, cantando un inno alla loro maniera; dopo di loro i Caldei e non solo i sacerdoti dei Babilonesi, ma anche gli artisti con le lire

229 Trad. di CARENA, 1974, sub loco.230 Trad. di IZZO D’ACCINNI, 2001, sub loco.

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usuali del loro paese. Questi solevano cantare le lodi dei re, i Caldei invece rivelare i movimenti degli astri e l’ordinato avvicendarsi delle stagioni”231.

Sembra che quella di salutare il sorgere del Sole con inni e preghiere re-citate dai Magi fosse un rito iniziato su disposizione di Ciro il Grande, così almeno secondo quanto racconta Senofonte (Cyropaedia 8.1.23-24):

«kaˆ tÒte prîton katest£qhsan oƒ m£goi […] Ømne‹n te ¢eˆ ¤ma tÍ ¹mšrv toÝj qeoÝj kaˆ qÚein ¢n' ˜k£sthn ¹mšran oŒj oƒ m£goi qeo‹j e‡poien. oÛtw d¾ t¦ tÒte katastaqšnta œti kaˆ nàn diamšnei par¦ tù ¢eˆ Ônti basile‹».

“allora per la prima volta si stabilì che i Magi dovessero cantare inni in onore di tutti gli dèi allo spuntare del giorno ed egli stesso (sc. Ciro) prese a sacrificare quo-tidianamente alle divinità prescritte di volta in volta dai Magi. Le norme fissate a quel tempo durano ancor oggi sotto i re che si succedono sul trono di Persia”232.

La letteratura orale, e la sua memoria, nell’Iran antico del periodo acheme-nide dovevano essere ben vive perché sappiamo che venivano recitati non solo gli inni tradizionali di lode agli dèi e agli eroi, ma che ne erano composti di nuovi per i grandi personaggi dei tempi presenti, come ci racconta, a proposito di Ciro il Grande, Senofonte (Cyropaedia 1.2.1-2):

«fànai d� Ð Kàroj lšgetai kaˆ °detai œti kaˆ nàn ØpÕ tîn barb£rwn e�doj m�n k£llistoj, yuc¾n d� filanqrwpÒtatoj kaˆ filomaqšstatoj kaˆ filotimÒtatoj, éste p£nta m�n pÒnon ¢natlÁnai, p£nta d� k…ndu-non Øpome‹nai toà ™paine‹sqai ›neka. fÚsin m�n d¾ tÁj morfÁj kaˆ tÁj yucÁj toiaÚthn œcwn diamnhmoneÚetai».

“Racconti e odi circolanti ancora oggi fra i barbari ricordano che Ciro era bel-lissimo nella figura e, nell’anima, straordinariamente generoso, avido di cono-scenze, bramoso di gloria, disposto a sopportare qualsiasi fatica e ad affrontare qualsiasi rischio pur di meritarsi le lodi altrui. Se tali, secondo la tradizione che lo riguarda, erano le sue doti fisiche e morali…”233.

231 Trad. di GIACONE, 1977, sub loco.232 Trad. di FERRARI, 2007, sub loco; cfr. anche Senofonte, Cyropaedia 4.5.14 e 8.3.11-12.233 Trad. di FERRARI, 2007, sub loco, con qualche modifica mia, anche per il brano che segue.

Secondo Arriano (Alexandri Anabasis 6.28.4-6, 6.29.4-11), la tomba di Ciro il Grande a Pasarga-de (vd. supra, p. 122 nt. 116) era sotto la custodia dei Magi – che occupavano un edificio all’in-terno del recinto che circondava la tomba e si passavano di padre in figlio, assieme al sacerdozio, anche l’onore e l’onere di sorvegliare la tomba del Gran Re – fin dai tempi del regno di suo figlio Cambise II (morto nel 522), e così fu fino all’arrivo di Alessandro nel 331, il quale, trovata la tomba depredata e in pessime condizioni, diede l’incarico di restaurarla ad uno dei suoi ufficiali,

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E ancora, sempre in Senofonte (Cyropaedia 1.4.25)234:

« 'En m�n d¾ M»doij taàta ™gegšnhto, kaˆ o† te ¥lloi p£ntej tÕn Kàron di¦ stÒmatoj e�con kaˆ ™n lÒgJ kaˆ ™n òda‹j, Ó te 'Astu£ghj kaˆ prÒ-sqen timîn aÙtÕn tÒte Øperexepšplhkto ™p' aÙtù».

“Ecco ciò che avvenne in Media, dove tutti avevano sulla bocca il nome di Ciro sia nei loro racconti che nelle loro odi e dove Astiage, che già prima lo stimava, prese ad ammirarlo incondizionatamente”.

Erano dunque anche questi inni di lode dei grandi regnanti del recente passato i testi che i giovani persiani imparavano a scuola dai Magi; i giova-ni persiani di rango erano tuttavia educati anche all’esercizio della giustizia, come ci dice sempre Senofonte (Cyropaedia 1.2.6):

«oƒ m�n d¾ pa‹dej e„j t¦ didaskale‹a foitîntej di£gousi manq£nontej dikaiosÚnhn: kaˆ lšgousin Óti ™pˆ toàto œrcontai ésper par' ¹m‹n Óti gr£mmata maqhsÒmenoi. oƒ d' ¥rcontej aÙtîn diateloàsi tÕ ple‹ston tÁj ¹mšraj dik£zontej aÙto‹j. g…gnetai g¦r d¾ kaˆ paisˆ prÕj ¢ll» louj ésper ¢ndr£sin ™gkl»mata kaˆ klopÁj kaˆ ¡rpagÁj kaˆ b…aj kaˆ ¢p£thj kaˆ kakolog…aj kaˆ ¥llwn o†wn d¾ e„kÒj. oÞj d' ̈ n gnîsi toÚtwn ti ¢dikoàn-taj, timwroàntai. kol£zousi d� kaˆ Ön ̈ n ¢d…kwj ™gkaloànta eØr…skwsi. dik£zousi d� kaˆ ™gkl»matoj oá ›neka ¥nqrwpoi misoàsi m�n ¢ll»louj m£lista, dik£zontai d� ¼kista, ¢carist…aj, kaˆ Ön ¨n gnîsi dun£menon m�n c£rin ¢podidÒnai, m¾ ¢podidÒnta dš, kol£zousi kaˆ toàton „scurîj […] did£skousi d� toÝj pa‹daj kaˆ swfrosÚnhn: mšga d� sumb£lletai e„j tÕ manq£nein swfrone‹n aÙtoÝj Óti kaˆ toÝj presbutšrouj Ðrî-sin ¢n¦ p©san ¹mšran swfrÒnwj di£gontaj. did£skousi d� aÙtoÝj kaˆ pe…qesqai to‹j ¥rcousi: mšga d� kaˆ e„j toàto sumb£lletai Óti Ðrîsi toÝj presbutšrouj peiqomšnouj to‹j ¥rcousin „scurîj. did£skousi d� kaˆ ™gkr£teian gastrÕj kaˆ potoà».

“I fanciulli che frequentano la scuola imparano i princìpi della giustizia e di-chiarano essi stessi che vi si recano a questo scopo, proprio come da noi lo scolaro dice di andare a scuola per imparare a leggere e scrivere. I loro maestri passano la maggior parte del tempo a dar verdetti che li riguardano: capita

quell’Aristobulo di Cassandrea che in vecchiaia scriverà una Storia di Alessandro di cui a noi sono giunti una sessantina di frammenti. Alessandro fece perfino torturare i Magi per fare loro confessare chi fossero gli autori dello scempio della tomba di Dario, ma, non avendo loro con-fessato nulla o fatto alcun nome, alla fine li lasciò liberi; parzialmente diversa è la versione di Strabone (15.3.7). Secondo Plutarco (Alexander 69.3), l’autore della profanazione era un certo Pulamaco di Pella, un macedone altrimenti sconosciuto.

234 Cfr. anche Erodoto, 3.160; Eliano, De natura animalium 12.21, e Ateneo 14.633 d-e, dove si citano anche i Persik£ di Dinone (FGrHist 690, fr. 9).

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infatti anche ai fanciulli non meno che agli adulti di accusarsi reciprocamente di furti, rapine, violenze, inganni, calunnie e così via; e assegnano un castigo a chi riconoscano responsabile di qualcuna di queste colpe. Però puniscono anche chi sia sorpreso ad accusare ingiustamente un compagno e non mancano di giudicare in merito a quella colpa, l’ingratitudine, per la quale gli uomini possono giungere a odiarsi ferocemente ma che ben di rado diventa oggetto di un procedimento penale e, se notano che un fanciullo avrebbe potuto contrac-cambiare un favore e non lo ha fatto, lo puniscono severamente. […] Si inse-gna ai fanciulli anche la temperanza, e al suo apprendimento molto giova la constatazione che anche gli anziani vivono praticando quotidianamente questa virtù. E poi si insegna loro a obbedire ai superiori, e a questo contribuisce il vedere che gli anziani prestano una scrupolosa obbedienza ai magistrati. E poi si insegna l’autocontrollo nel mangiare e nel bere […]”235.

Come ribadisce più avanti ancora Senofonte (Cyropaedia 8.8.13), era in-fatti prassi abituale portare i fanciulli di buona famiglia ai processi:

«kaˆ Óti ge oƒ pa‹dej ¢koÚontej ™ke‹ prÒsqen t¦j d…kaj dika…wj dikazomšnaj ™dÒkoun manq£nein dikaiÒthta, kaˆ toàto pant£pasin ¢nšstraptai: safîj g¦r Ðrîsi nikîntaj ÐpÒteroi ¨n plšon didîsin».

“e se un tempo sembrava che in Persia i fanciulli assimilassero il senso della giustizia assistendo a processi conclusi da eque sentenze, pure questa prassi si è completamente rovesciata perchè ora constatano che prevale chi paga di più”.

Nel mondo iranico, l’amministrazione della giustizia rimase per secoli pre-rogativa della corte imperiale e dei sacerdoti, il cui capo (magupatān magupat) era alla testa dell’ordinamento giuridico, e la tradizione del diritto rimase lun-gamente orale; solo verso la fine dell’epoca sasanide la giurisprudenza recise le sue radici con la religione e divenne una disciplina a se stante e scritta.

Sappiamo infatti che tra i ventuno Nask (“sezioni, volumi”) perduti che co-stituivano il complesso delle dottrine canoniche della religione mazdaica fissa-to nel I secolo dell’era sasanide, all’incirca tra il primo quarto del II e la metà del III d.C., ve ne erano alcuni che trattavano di diritto perché ne abbiamo un sommario nell’ottavo libro del Dēnkart (La norma della religione), un’opera a carattere enciclopedico, redatta in pahlavī nel IX secolo d.C., e contenente una sorta di compendio dell’eredità religiosa e culturale dell’epoca sasanide. Il cosiddetto Trattato delle mille sentenze (Mādayān ī hazār dādestān) – una vasta raccolta di giurisprudenza sul diritto civile, penale e procedurale che costituisce forse il primo tentativo sistematico di dare una sistemazione orga-nica alla tradizione giuridica zoroastriana – risale invece alla prima metà del

235 Trad. di FERRARI, 2007, sub loco, anche per il brano che segue.

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settimo secolo, e fu compilato da un tale Farroxmard i Wahrāmān, certo un giurista molto esperto del diritto della sua epoca e con libero accesso agli ar-chivi giudiziari, ma di cui non sappiamo nulla se non che il suo nome compare nella prefazione frammentaria. Questo Trattato rappresenta per molti aspetti un unicum perché è la sola opera a carattere legale dell’Iran pre-islamico del periodo zoroastriano sopravissuta fino a noi, e perché, diversamente da ogni altra fonte sul diritto zoroastriano e sasanide successiva, il Trattato delle mille sentenze si occupa esclusivamente di questioni legali, senza mescolare tra loro diritto e religione236.

Riguardo alla diffusione della scrittura nel mondo persiano antico, alcune tra le poche testimonianze giunteci possono aiutarci a comprendere le fasi del passaggio dall’oralità alla literacy.

In uno degli Yašt avestici237, il quinto, detto Ābān Yašt, che è il terzo per lun-ghezza con i suoi 131 paragrafi e su cui tornerò più avanti, leggiamo (Yt. 5.86)238:

«ϑβąm. naraci. yōi. taxmajaidiiṇte. āsu.aspīmxvarǝnaŋhasca. uparatātōϑβąm. āϑrauuanō. marǝmnō.

236 «The Law-Book is, however, not a codex, but a lengthy compilation of actual and hypothet-ical case histories collected from court records and transcripts (saxwan-nāmag, pursišn-nāmag), testaments (handarz), various works on jurisprudence (dādestān-nāmag), commentaries of ju-rists (čāštag), direct quotations of the foremost experts in the field, and a great number of other long lost documents. […] The Law-Book was probably compiled shortly before the Arab inva-sion of Iran, […] there can nevertheless be no doubt that its content is completely Sasanian and uninfluenced by the further development of law in the Islamic age. It was clearly written for specialists in the field of jurisprudence who had expert knowledge of the Sasanian legal system and were fully acquainted with technical terms, since the text offers no explanations whatsover. Another indicator of its age is the fact that only the most difficult and complicated cases are discussed, which leads us to the conclusion that it emerged at a period in which Sasanian law was still practiced and judges had the competence to pronounce judgement in all fields of law. Pahlavi treatises of the Islamic period, on the other hand, reduce legal matters to the simplest considerations in the only field of law which obviously remained within the jurisdiction of the Zoroastrian communities after the Muslim conquest, that of family law and inheritance»: MACUCH, 2005.

237 Gli Yašt sono inni sacrificali in onore di singole divinità (yazatā “venerabili”, part. fut. pass. del verbo yešti) che presiedono ai giorni del mese nel calendario zarathustriano; ce ne sono rimasti soltanto ventuno e gli ultimi due, oltretutto, celebrano divinità, Hauma e la stella Vanant, che non sono nel calendario; gli Yašt fanno parte del cosidetto Avesta recente, ma pos-sono contenere materiale mitologico-rituale e linguistico-testuale assai antico.

238 La traduzione è mia; come sempre, quando si traduce l’Avesta, molto è discusso e po-chissimo è certo: la mia traduzione di questo brano diverge da alcune traduzioni note, ma, me ne sono accorto dopo, concorda invece da vicino con quella inglese di SKJAERVØ, 2007, sub loco (si tratta di materiale ad uso didattico per i corsi che l’illustre studioso ha tenuto ad Harvard, reperibile online, ma non citabile).

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āϑrauuanō. ϑrāiiaonō239.mastīm. jaidiiṇte. spānǝmca.vǝrǝϑraγnǝmca. ahuraδātǝm.vanaiṇtīmca. uparatātǝm».

“perfino gli uomini fortiti chiederanno agilità per i loro cavallie supremazia nella fortuna.I sacerdoti che memorizzano e i sacerdoti loro discepoliti chiederanno la saggezza che insegna e vivifica,la forza che spezza gli ostacoli messa in atto da Ahura Mazdāe la vittoriosa supremazia”.

La parola marǝmnō, che è un hapax, è il nominativo maschile plurale del participio presente medio240 tematico di maraiti- “ricordarsi, rimembrare, pensare a qualcuno, preoccuparsi”, un verbo che abbiamo già visto proprio all’inizio di questa ricerca a proposito del nome del testimone in greco241; qui gioverà aggiungere che l’avestico mar- / šmar- in composizione (con upa-, paiti-, frā-) assume significati quali “raccontare, recitare, mormorare, dire a bassa voce”; il sintagma āϑrauuanō marǝmnō indica dunque i “sacerdoti che si ricordano, che memorizzano” e che, testimoni viventi della loro tradizioni, le ritrasmettono oralmente alle generazioni successive.

In due documenti elamiti del ventitreesimo anno del regno di Dario I, e cioè il 499 a.C., sono invece menzionati dei “ragazzi persiani che ricopiano testi”; si ipotizza, probabilmente a ragione, che possa trattarsi di giovani apprendisti che stanno imparando la scrittura persiana cuneiforme, quella usata appunto solo nelle iscrizioni monumentali e nota, a quel tempo, verosimilmente solo a pochissimi scribi imperiali242.

Una preziosa testimonianza sulla transizione dall’oralità alla scrittura nel mondo iranico antico243, è poi in Pausania (5.27.5-6), che visse, lo ricordo, nella seconda metà del II secolo d.C.:

«kaˆ ¥llo ™n Lud…v qeas£menoj o�da di£foron m�n qaàma À kat¦ tÕn †ppon tÕn FÒrmidoj, m£gwn mšntoi sof…aj oÙd� aÙtÕ ¢phllagmšnon. œsti

239 Pur se con minor convinzione, traduco θrāiyavan- come “discepolo”, sulla base del con-fronto con Yašt 4.9 e Yašt 14.46, e di quanto sostenevo in COSTA, 2012, p. 52-53.

240 L’indeuropeo, e poi le sue lingue storiche, conosceva solo l’opposizione tra attivo e medio e la caratteristica principale della diatesi media era quella di indicare che il soggetto è coinvolto nell’azione posta in essere dal verbo.

241 Cfr. supra, p. 66.242 Cfr. HALLOCK, 1969, n. 871 e 1137, su cui vd. LEWIS, 1990.243 Cfr. CARDONA, 1980; BRIANT, 1996, p. 949-950.

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g¦r Ludo‹j ™p…klhsin Persiko‹j ƒer¦ œn te `Ierokaisare…v kaloumšnV pÒlei kaˆ ™n `Upa…poij, ™n ˜katšrJ d� tîn ƒerîn o‡khm£ te kaˆ ™n tù o„k»mat… ™stin ™pˆ bwmoà tšfra: crÒa d� oÙ kat¦ tšfran ™stˆn aÙtÍ t¾n ¥llhn. ™selqën d� ™j tÕ o‡khma ¢n¾r m£goj kaˆ xÚla ™pifor»saj aâa ™pˆ tÕn bwmÕn prîta m�n ti£ran ™pšqeto ™pˆ tÍ kefalÍ, deÚtera d� ™p…klhsin Ótou d¾ qeîn ™p®dei b£rbara kaˆ oÙdamîj sunet¦ “Ellh-sin: ™p®dei d� ™pilegÒmenoj ™k bibl…ou: ¥neu te d¾ purÕj ¢n£gkh p©sa ¡fqÁnai t¦ xÚla kaˆ perifanÁ flÒga ™x aÙtîn ™kl£myai».

“So, per averlo visto in Lidia, anche di un altro prodigio diverso da quello del ca-vallo di Formide e tuttavia anch’esso non estraneo all’arte magica. I Lidi hanno due santuari della cosiddetta Persica rispettivamente nella città che ha nome Ie-rocesarea e a Ipepa, in ciascuno dei quali v’è un ambiente al cui interno si trova, sopra un altare, della cenere; questa ha un colore diverso da quello di ogni altra cenere. Un mago, entrato in quest’ambiente e accumulata legna secca sull’altare, si poneva innanzitutto una tiara sul capo, quindi cantava a non so quale divini-tà un’invocazione in lingua barbara del tutto incomprensibile per dei Greci; la cantava leggendo da un libro: senza alcun fuoco tutta la legna si accendeva per miracoloso impulso e se ne sprigionava una fiamma splendente”244.

I principali precetti etico-religiosi dell’educazione – orale – dei giovani persiani erano dunque: dire la verità, saper comandare e ubbidire, imparare a praticare la saggezza della tradizione e la giustizia, sapersi dominare. Come conferma del fatto che quest’ultimi due fossero veri e propri topoi ideologici nella concezione della regalità persiana, si può qui confrontare una delle due iscrizioni monumentali trilingue che Dario I fece incidere nella parte esterna della sua tomba rupestre a Naqš-i Rustam, dove egli dice di sé (DNb, 8)245:

rādiy : miqa : kariyaiš : tya : rāstam : ava : mām : kāma : martiyam : draujanam : naiy : dauštā : amiy : naiy : manauviš : amiy : tyāmaiy : dartanayā : bavatiy : daršam : dārayāmiy : manahā : uvaipašiyahyā : daršam : xšayamna : amiy :

“ciò che è giusto, questo è il mio desiderio. Io non sono amico dell’uomo, che è un seguace della Menzogna. Io non sono iroso: ciò che mi viene nella collera, io tengo saldamente: io sono saldamente padrone del mio proprio animo”.

Nell’iscrizione, che è incisa ai due lati della porta, «Dario enumera, non senza orgoglio, le sue qualità morali e fisiche, che sono la prima manifestazio-

244 Trad. di MADDOLI, 2007, sub loco; il corsivo è mio.245 L’iscrizione DNa è in persiano antico, elamita e babilonese, quella in DNb in persiano

antico, elamita ed accadico; nel periodo seleucide (312-64 a.C.) fu aggiunto, sotto la versione elamita, il testo anche in versione aramaica.

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ne della grazia della divinità, poiché legittimano l’esercizio del potere»246.

* * *

Artaserse II, detto Mnemone, era stato dunque educato, era cresciuto e aveva regnato in un ambiente in buona sostanza ancora immerso quasi del tutto nel-l’oralità primaria; di lui sappiamo però anche qualcos’altro che qui può essere decisivo.

Si è detto sopra247, citando Plutarco, che Artaserse II, al momento della sua incoronazione, era stato iniziato dai sacerdoti, cioè dai Magi, nel tempio della dea Anaitis; la storia di questa dea e del suo culto in epoca achemenide è com-plessa e sincretica: vediamola con ordine248.

Lo Ābān Yašt visto sopra è dedicato a una divinità delle acque detta Arədvī Sūrā Anāhitā (persiano medio Ardwīsūr Anāhīd, persiano moderno Nāhīd, ar-meno Anahit); in tale inno, uno dei meglio conservati e dei più recitati dai fe-deli e dai sacerdoti officianti in tutte le epoche, sono compresenti diversi strati storico-linguistici e diverse componenti antropologico-religiose.

I due aggettivi sūrā “forte, potente” e anāhitā, un regolare composto bahuvrīhi femminile, “che non ha macchia, pura, immacolata”, sono di uso comune, mentre arədvī, parola non altrimenti attestata se non in questo teoni-mo, è stata interpretata, su base etimologica, come un aggettivo femminile che significa “umida, bagnata”.

Come ha indicato anche Lommel249, tale divinità iranica va confrontata col suo corrispettivo vedico, Sarasvatī, e ricondotta al nome e alle funzioni di una divinità fonte delle acque primordiali del periodo indo-iranico: Sarasvatī, “colei che possedeva le acque”.

Oltre che un teonimo, Sarasvatī era tuttavia anche il nome di un fiume rig-vedico (cfr. g-Veda, 2, 41, 16), ed è ancora oggi il nome di un fiume sacro in Madhyadeśa (cfr. Aitareya Brāhmana, 9, 3, 1, 8), cioè la “terra di mezzo” posta tra l’Himālaya a nord, le montagne del Vindhya a sud, Vinaśana a ovest e Prayāga (oggi Allahabad) – il luogo sacro dove il Gange e lo Yamuna confluiscono – a est, e forma insieme al fiume Dsadvatī i confini del territorio sacro detto Brahmāvarta, là dove furono composti i Brāhamaṇa e le Saṃhitā recenti.

Nella sua forma iranica, *Harahvatī > avestico Haraxvaitī- (cfr. Vīdēvdāt, 1, 12), persiano antico Harahuvati-, in greco Aracosia ('Aracws…a), ha dato il nome

246 PAGLIARO, BAUSANI, 1968, p. 23-24, da cui traggo anche la traduzione; per un’analisi dettagliata e aggiornata, vd. tra gli altri BRIANT, 1996, p. 222 ss.

247 Cfr. supra, p. 122 ss.248 La vicenda è certamente più complessa di come la riassuma brevemente qui: rinvio, tra

gli altri, a BRIANT, 1996, passim, chi desiderasse degli approfondimenti, anche bibliografici.249 Cfr. LOMMEL, 1954; vd. anche ID., 1927, p. 29.

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a una regione ricca di fiumi, la cui capitale attuale è Kandahar. In iranico, invece, il teonimo *Harahvatī, che non è attestato ma di cui dobbiamo presumere l’esi-stenza, ad un certo punto è stato verosimilmente soppiantato nella pratica rituale dai due epiteti Arədvī e Sūrā, i quali poi uniti tra loro hanno dato la versione me-dio-persiana del teonimo, e cioè Ardwīsūr (Anāhīd).

In quanto divinità delle acque, Sarasvatī/*Harahvatī era invocata come dea della fertilità sia dalle donne che dagli uomini che volevano procreare, ma anche dagli agricoltori e dagli allevatori per favorire la crescita del raccolto e la salute degli animali. Poi, nelle culture antiche il legame tra acqua e co-noscenza è sempre stato forte e infatti, come si è visto sopra250, Arədvī Sūrā è invocata dai sacerdoti per ottenere «la saggezza che insegna e vivifica», così come in India Sarasvati protegge e incoraggia lo studio dei Veda, al punto che essa finirà per essere assimilata alla personificazione della “Parola Sacra”, Vāc251. Le caratteristiche guerriere di *Harahvatī sembrano invece dovute al parziale sincretismo con Aši, lo yazatā avestico della Fortuna.

La popolarità crescente del culto di Arədvī Sūrā a partire almeno dal periodo achemenide è dovuta alla sua identificazione con *Anāhiti, una divinità iranica oc-cidentale verosimilmente venerata dagli Achemenidi prima della loro conversio-ne allo zoroastrismo, e che essi tentarono poi di introdurre nel pantheon avestico. Il problema di come introdurre il culto di una divinità fino a quel momento sco-nosciuta ai testi sacri dell’Avesta fu risolto assimilando *Anāhiti a (*Harahvaitī) Arədvī Sūrā, aggiungendo Anāhitā come terzo epiteto ad Arədvī Sūrā, operazione facilitata dalla vicinanza fonologica tra i due teonimi, e nacque così quella Arədvī Sūrā Anāhitā cui è dedicato lo Ābān Yašt252.

*Anāhiti, teonimo che noi conosciamo solo nella sua resa greca e divinità che dai greci fu avvicinata sia ad Atena che ad Artemide, a sua volta era proba-bilmente il pianeta Venere, una divinità adorata dai Medi e dai Persiani prima della loro conversione allo zoroastrismo, ed era legata alla mesopotamica Ištar, la dea dell’amore e della guerra, una dea dai due volti come il pianeta Venere che appare in cielo al mattino come maschio e alla sera come femmina, e il cui culto, nel I millennio a.C., era diffusissimo nel mondo semitico e tra gli Elamiti.

Si è ipotizzato che i Persiani, conquistato il territorio elamita, abbiano sus-sunto anch’essi il culto di *Anāhiti, sia nei suoi aspetti astronomici e astrologici come divinizzazione del pianeta Venere, che in quelli sincretici di Ištar; l’orto-dossia zarathustriana, stante la popolarità della dea, decise, o fu convinta dalla corte imperiale, di incorporarne la devozione e il culto nel pantheon avestico.

E fu proprio sotto il regno e su impulso di Artaserse II, che pubblicamente 250 Cfr. supra, p. 133.251 La bibliografia su Vāc è amplissima: mi esimo qui dal citarla, anche in parte.252 Per una breve analisi della complessa stratigrafia rituale e linguistica di questo inno e i primi rin-

vii bibliografici, si può vedere la voce omonima, curata da Mary Boyce, nella Encyclopaedia Iranica.

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la invocò nelle sue iscrizioni (cfr. A2Sa, A2Sd, A2Ha), che il culto di Anāhit(a) si integrò definitivamente nel pantheon avestico e si diffuse per tutto l’impero: come ci attesta anche Berosso (FGrHist 680 fr. 20)253, fu proprio Artaserse II, detto Mnemone, che fece per primo innalzare statue di Anāhit(a) a Babilonia, Susa, Ectabana, Persepoli, Battra, Damasco e Sardi, cioè nei principali centri della dominazione achemenide254.

* * *

A questo punto si possono tirare le fila. Nel mondo iranico antico, stando a quel che oggi sappiamo, una figura paragonabile al rammentatore di leggi greco e germanico sembra non sia esistita; non sono emerse neppure testimonianze, diciamo così, indirette sul tipo di quelle analizzate per il mondo romano e che ne lasciano lì supporre, in piena fase aurale, la presenza, seppur dapprima non ufficiale e poi come nascosta nelle pieghe dell’amministrazione imperiale.

Ciò non toglie, tuttavia, che, sulla base di quanto fin qui visto, io credo si pos-sa legittimamente sostenere l’idea che Artaserse II – educato nell’oralità e nella memorizzazione della tradizione, iniziato dai Magi al culto e ai misteri di una divinità pre-zarathustriana che aveva tra le sue caratteristiche quella di proteg-gere e incoraggiare la conoscenza, quella Anaitis il cui culto lo stesso Artaserse II contribuì definitivamente a diffondere nel vastissimo impero persiano assie-me a quello di Mithra, anch’egli divinità assente nel pantheon zarathustriano –, proprio per il suo riformismo in campo rituale e religioso, un riformismo che in parte sembrerebbe consistere anche in un ritorno agli dèi e ai culti di antica data precedenti lo zoroastrismo, possa essere stato visto dai suoi cortigiani e dai suoi sudditi come “colui che rammentava, che ravvivava (gli antichi miti e riti)”, e dunque che la valenza semantica e culturale del suo soprannome persiano sia stata rettamente reinterpretata dai Greci e assimilata a quella del “rammentatore (di leggi)” che loro ben conoscevano, cioè lo mn»mwn; ed ecco perché, a parer mio, Artaserse II passò alla storia col soprannome di Mnemone.

* * *

5. Il mondo indiano.

Prima di affrontare il tema della presente ricerca nel mondo indiano antico, occorre una premessa generale: l’India, o il Sudasia, come da qualche tempo

253 Berossos, attivo tra il IV e il III secolo a.C., fu sacerdote di Marduk e storico di Babilonia; scrisse tre libri in greco di Babulwniak£ di cui ci resta qualche frammento negli autori classici.

254 Cfr. BRIANT, 1996, p. 698; i risvolti storici della politica religiosa di Artserse II, che pure sono importanti, qui non ci riguardano direttamente.

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qualcuno forse più rettamente preferisce dire255, è un continente in cui la memo-ria gioca a tutt’oggi un ruolo fondamentale, e la memorizzazione, l’imparare a memoria testi tradizionali, anche lunghissimi, religiosi e non, costituisce da sempre una prassi normale, nella scuola e nella società, sia laica che religiosa; il che, come osserva anche Rocher256 e come vedremo meglio più avanti, spesso, e a maggior ragione oggi, non coincide né col saper leggere e scrivere, né tampo-co col comprendere il significato di quel che si recita a memoria257.

Per molti secoli, fin oltre il medioevo indiano (XIV-XV secolo), a partire dai testi sacri e più antichi per eccellenza, i Veda, tutto il patrimonio miti-co, rituale, religioso, letterario, grammaticale, culturale, e, ovviamente, anche giuridico, è stato trasmesso di generazione in generazione principalmente, e per lunghi secoli esclusivamente258, per via orale259; eppure, l’esistenza della scrittura, in India, ci è testimoniata a partire perlomeno dal IV-III secolo a.C., e cioè dalle iscrizioni di Aśoka260.

255 Cfr. tra gli altri SQUARCINI, 2005.256 Cfr. ROCHER, 1994, passim, e ID., 1993 = 2012, p. 109: «[…] the entire system of educa-

tion in classical, and to a certain extent in modern India, was and is based on learning by rote. From a very early age onward Indians were – and still are – trained to memorize sentences, passages, even books on all kinds of topics, whether learned or trivial».

257 Per capirsi meglio farò un esempio famigliare. La madre di mia madre, nata agli inizi del ’900 in un paesino romagnolo, si era fermata nei suoi studi alla terza elementare – il che, per una donna di campagna di quei tempi non era poco, anche perché allora tra la terza e la quarta / quinta elementare c’era un esame severo da superare –, e certo aveva imparato a leggere, scrivere e far di conto, ma la sua era rimasta una cultura esclusivamente orale: ad esempio, sapeva a memoria, avendole ascoltate e non lette, le arie delle principali opere verdiane, e ne comprendeva il signifi-cato, ma sapeva anche a memoria, pure queste per averle sempre sentire recitare e mai per averle lette, le preghiere più importanti, in latino, e di queste non capiva praticamente nulla, se non la loro funzionalità religiosa, nella Messa o negli altri rituali cattolici. Soltanto da adulto e da lingui-sta, ho potuto – molti anni dopo avere recitato e imparato a memoria da bambino con mia nonna alcune di tali preghiere, ma anch’io senza capire niente e solo ripetendo ciò che udivo dirle in una lingua di cui nessuno dei due sapeva qualcosa – riconoscere nella sua catena parlata i fenomeni di saṁdhi interni ed esterni, e le influenze dell’idioletto romagnolo – dialetto, per inciso, che io oggi comprendo benissimo ma di cui non so dire una parola –, che erano all’origine delle sue innume-revoli storpiature dei testi latini originarii, storpiature che, stando alla oral theory, di certo erano in parte già nella sua fonte, nel latinorum del parroco…!

258 Il più antico manoscritto del g-Veda che noi possediamo è del 1464 d.C.; a chi abbia qualche dubbio sulle straordinarie capacità di una memoria ben allenata e sulla efficacia delle mnemotecniche testuali e numeriche, consiglio la lettura di YANO, 2006.

259 Si tratta di un fenomeno ben noto e la bibliografia è molto ampia; in ambito giuridico, ROCHER, 1994 e 2012, sono una buona introduzione; in ambito comparatistico, si può partire da WAKTINS, 1995 e da COSTA, 1998 e 2008; tra i più recenti, vd. BOCCALI, 2006; COLAS, GER-SCHHEIMER, 2009; OLIVELLE, 2012.

260 Il Sudasia aveva conosciuto in precedenza anche la scrittura sillabico-ideografica della civiltà della valle dell’Indo (la cui fase centrale si data all’circa al 2600-1900 a.C.), quella tuttora indecifrata di Harappa e di Mohenjo-daro, ma non vi è continuità tra questa e quelle sudasiatiche successive.

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Oltre a quanto appena detto, riguardo alla tradizione del diritto bisogna poi aggiungere due dati imprescindibili: primo, che la parola usata in tutta la sto-ria linguistica dell’indiano (antico, medio e moderno) per indicare ciò che noi chiamiamo “legge” e cioè, dall’Atharvaveda in poi261, il sostantivo maschile dharma- (pali dhamma-, nelle iscrizioni di Aśoka dhrama- e dhaṁma-), signifi-ca piuttosto “armonia, regolarità, comportamento appropriato, forma adeguata, ordine, norma, (che governa la natura e l’uomo)”, e il dharma è per sua natura sanātana, cioè “eterno, immutabile”262. Ciascun essere umano ha il suo dharma, lo svadharma, cui attenersi – perfino i re ne hanno uno, il rājadharma – ed è determinato dall’insieme delle norme e dei costumi che regolano l’appartenza famigliare, di genere, di età, di professione, di casta, etc. Il secondo punto è che tali norme e costumi, nella loro applicazione pratica dettata dalle tradi-zioni cui si appartiene e dalla quotidianità locale e temporale, non possono mai essere in contrasto coi Veda e cioè, in definitiva, col dharma stesso, e una vita in accordo col dharma è il fine verso cui tutte le tradizioni filosofiche e religiose hindū263 convergono.

I Veda – e cioè g-Veda, Sāma-Veda, Yajur-Veda e Atharva-Veda, che tutti assieme sono detti le quattro Saṃhitā “raccolte” –, assieme ai Brāhmaṇa, agli Āryaṇaka, e alle Upaniṣad, testi che contengono prescrizioni rituali e specula-zioni teologiche sulle Saṃhitā, costituiscono la śruti “ciò che è stato udito” in un tempo mitico da alcuni grandi saggi illuminati, i ṣi, e cioè “la rivelazione”: «da un punto di vista culturale, la śruti rappresenta una sorta di spartiacque: le tradizioni filosofico-religiose dell’India sono definite ortodosse o eterodosse a seconda che la accettino o la rifiutino. Le tradizioni ortodosse (parliamo da una prospettiva brāhmaṇa) considerano idealmente i Veda la fonte di tutta la cultura indiana, con le loro liturgie, le usanze, i costumi e gli ordinamenti sociali, e la fonte ultima della conoscenza. Alcuni testi arrivano al punto di affermare non solo che i Veda contengono tutto ciò che necessario alla salvezza, ma anche l’inesistenza di ciò che non si trova in essi»264.

Si indica invece col termine smti “essere consci di, richiamare alla mente, ciò che è ricordato, ciò che è tramandato (dai saggi), memoria”265, e poi “nor-

261 Nel g-Veda è attestato il neutro dharman-.262 «Il dharma rappresenta non solo ciò che chiamiamo religione, ma anche la norma, la giusti-

zia, l’ordine senza tempo e modello inalterabile che fa sì che le cose siano esattamente come sono, la verità (satya), che sostiene – “sostenere” e “preservare” sono i due significati primari della radi-ce dh- da cui proviene il termine (cfr. BENVENISTE, 1969 = 1976, II, p. 358-359) sia il cosmo sia la società e l’individuo che ne fa parte»: SFERRA, 2010, p. XIII; vd. poi almeno HILTEBEITEL, 2011.

263 Il termine hindū è stato coniato dai turchi musulmani nel XIII secolo per indicare gli indiani non islamizzati.

264 SFERRA, 2010, p. XXII.265 «Smti would allude to the remembered past. It would denote what people articulate as

the time-honored norm»: BRICK, 2006, p. 293.

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me ricordate, memorizzate (dai saggi, dai maestri, dagli anziani), tradizione (testuale)”266, quella parte dei testi sacri hindū che, attraverso varie e com-plesse fasi di redazione, testualizzazione e fissazione e di trasmissione orale, aurale e infine scritta267, si costituirà nel canone formato:

1) dai sei Vedāṅga “membra (ausiliarie) dei Veda” (raccolti in un arco di tempo ampio e difficilmente collocabile, ragionevolmente tra gli ultimi se-coli a.C. e i primi d.C.), i testi delle discipline ausiliarie – fonetica, rituale, grammatica, etimologia, metrica, astronomia – ritenute necessarie nelle scuo-le vediche, e dunque facenti parte dell’apprendistato e dell’addestramento dei giovani monaci – per la comprensione dei Veda;

2) dai sūtra “sentenze, aforismi”, testi redatti forse tra la fine del periodo vedico e l’ultimo secolo a.C. (V-IV – II-I a.C.) in una prosa formulare e afo-ristica estremamente concisa, a fini mnemonici, e perciò per noi oggi assai oscura, i più importanti dei quali sono i Kalpa-sūtra (“i sūtra del rituale”), tra cui gli śrauta-sūtra, sui rituali solenni, e i ghya-sūtra, sui rituali domestici, e i dharma-sūtra (“gli aforismi sulla norma”)268;

3) dai successivi (composti forse tra il II-I a.C. e il V-VI d.C.) śāstra “dot-trine, trattati”, opere scritte di solito in versi, in śloka269, che riguardano il

266 Il termine smti passa ad indicare un corpus di testi letterari probabilmente solo a partire dal Gautama Dharmasūtra e cioè all’incirca dalla metà del III secolo a.C.: cfr. BRICK, 2006, p. 301. Intorno al complesso e mutevole rapporto tra śruti e smti e sulla te-stualizzazione della tradizione, negli ultimi anni si è sviluppato un dibattito internazionale innovativo e proficuo, che ha in parte mutato l’approccio disciplinare alla questione: vd. SQUARCINI, 2005, 2008, 2010, 2012.

267 «In short, śruti means nothing other than “(Veda) actually now perceived aurally (in recitation)”, i.e. extant or available; smti, nothing other than “(Veda) that is remembered”, i.e. material that, having once been heard in recitation, no longer is, but remains inferentially recoverable from present reformulations (in language or practice) as having once existed as part of a Vedic corpus. Both refer in their primary connotation to one and the same thing – the Veda, whether as something actually recited or as something whose substance only can still be recalled […]»: POLLOCK, 2005, p. 51.

268 «The first products of Brahmanical reflections on dharma were closely nected to the vedic śākhās. After the composition of the middle and late vedic texts, literary activities of the śākhās focused on the ritual, both on the solemn vedic sacrifices (śrauta), which were probably becoming increasingly rare, and on the more common domestic rites (ghya). These produc-tions adopted the aphoristic sūstra that was in vogue. It was natural for the Brahmanical schol-ars to apply the same genre to its literature on dharma, a term that also had ritual connotations vithin Brahmanical thought. Collectively, the Śrauta-, Ghya-, and Dharma-sūtras are included in the new category of texts, the Kalpasūtra»: OLIVELLE, 2005, p. 43.

269 Lo śloka è la strofe più comune e caratteristica della poesia sanscrita classica; consta di due emistichi, ognuno di due pāda (piedi) di otto sillabe, sillabe che sono parte legate tra loro in quanto le ultime quattro sillabe del secondo e del quarto pāda hanno un andamento giambico, mentre quelle del primo e del terzo evitano tale figura; le prime quattro sillabe di ogni pāda sono invece libere da obblighi metrici. Lo śloka risale all’anuṣṭubhḥ vedica, ma la sua definitiva

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trivarga, i tre fini della vita270, e cioè gli artha-śāstra sugli interessi e la vita pratica (tra i quali i nītiśāstra, dedicati alla politica), i kāma-śāstra sull’amore e il piacere, e i dharma-śāstra, i trattati sul dharma, tra cui il celebre Mānava-Dharmaśāstra, o Manu-smti271, più noto in Europa come Il codice di Manu;

4) dalla cosiddetta itihāsa “storia”272, e cioè i due grandi poemi epici in-diani: il Rāmāṇaya, il primo poema ornato (ādīkavya) della storia della let-teratura indiana in sanscrito, redatto nel suo nucleo centrale e originario – i libri II-VI, mentre il I e il VII e ultimo sono ritenuti aggiunte successive – da un saggio vate (ādikavi) di nome Vālmīki273, e risalente forse al V-III secolo a.C., ma fissato definitivamente probabilmente nel II d.C.; e il Mahābhārata, complessa e monumentale narrazione (è lungo tra le 82.000 e 95.000 strofe in 18 libri274, a seconda della redazione) stratificatasi all’incirca tra il IV-III a.C. e il IV-V d.C.275, attraverso almeno due nuclei antichi, il primo, sorto in ambito brāhmaṇico, di circa novemila strofe e un secondo, successivo, di circa ven-tiduemila strofe; la redazione definitiva è attribuita a Kṣṇa Dvaypaiana – la stessa divinità cui in India viene attribuita la redazione definitiva dei quattro Veda –, il quale l’avrebbe dettato a Gaṇeśa, il dio con la testa di elefante276;

5) dai Pūraṇa (“antiche [narrazioni, recitazioni]”), i ‘racconti antichi’, che raccolgono materiale assai eterogeneo e dove si affrontano gli argomenti più vari: innanzitutto, cosmogonie e cosmologie, pratiche cultuali e norme di con-dotta, miti e leggende su svariate divinità, genealogie sacre e profane, e poi la grammatica, la prosodia, la metrica, la lessicografia, la scienza politica, la me-dicina, l’astronomia, l’astrologia, la fisiognomica, l’architettura, l’iconografia, le arti figurative, la gemmologia, etc. Questa congerie enciclopedica di mate-

conformazione e soprattutto il suo impiego come metro consuetudinario risalgono probabil-mente a Vālmīki, secondo una vicenda narrata proprio in Rāmāyaṇa, 1, 2, 36-37, grandiosa opera dell’epos indiano di cui oggi si ritiene sia davvero lui l’autore.

270 A cui in seguito se ne aggiungerà un quarto, il mokṣa, la “liberazione” dal saṃsāra, il ciclo delle rinascite e delle reincarnazioni.

271 Su come, quando e perché smti per un dato periodo sarà – anche – sinonimo di dharmaśāstra, ipotesi ragionevoli in BRICK, 2006, p. 297 ss.

272 Su questa parola tornerò più avanti. 273 Vālmīki alla lettera significa “quello del termitaio”, in ricordo, narra la leggenda, del

termitaio che egli era cresciuto tutto intorno al corpo durante la sua lunghissima e perfettamente immobile ascesi.

274 Cifra che in Sudasia costituisce un numero simbolico richiamante la totalità perfetta: vd. anche i 18 ‘Pūraṇa maggiori’.

275 Hiltebeitel ha tuttavia proposto di recente una datazione molto più ristretta per la com-posizione originaria del poema, pensando a un arco temporale che va dal II a.C. al I d.C.: cfr. HILTEBEITEL, 1999, 2001, 2005, 2006.

276 Rispetto all’altro poema, il Mahābhārata ha in genere contenuti a carattere religioso ben più articolati e complessi: basti qui ricordare che di esso fa parte la Bhagavad-Gītā.

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riali – redatti per lo più in un sanscrito privo di ricercatezze o di pregi letterari e spesso caratterizzato da irregolarità grammaticali – risale certo in parte a un periodo piuttosto antico, ma fu per secoli elaborata e tramandata in forma orale e anonima dai sūta, i ‘bardi’ itineranti professionisti della narrazione, e fu messa per iscritto, in ambiente brāhmaṇico, in un lungo arco temporale, a partire forse dal IV-V d.C.277. I Pūraṇa maggiori (mahāpūraṇa) sono diciotto, per un totale di oltre 350.000 strofe; anche la redazione definitiva di questi testi è attribuita al dio Kṣṇa, e ciò fa sì che i due Itihāsa e i Pūraṇa siano venerati in Sudasia come il ‘quinto’ Veda278.

* * *

Quanto ho appena detto, in generale, credo ci consenta ora di affrontare con maggior consapevolezza l’indagine sull’esistenza o meno del rammenta-tore di leggi nel mondo indiano antico.

La storia del diritto indiano, antico e non, ruota intorno a uno spartiacque fondamentale, che ne misura, quasi ineluttabilmente, il prima e il dopo: si trat-ta del cosiddetto Codice di Manu o Trattato di Manu sulla norma (Mānava-Dharmaśāstra o Manu-smti), cui si è già accennato sopra. Prima di esaminarlo, occorre tuttavia dar conto di due testimonianze, le quali, se così si può dire, incorniciano cronologicamente, e non solo, il Trattato di Manu: vediamole.

Strabone (15.1.53 e 66), citando Megastene279 e Nearco280, due testimo-

277 «I Pūraṇa esprimono così come una sorta di oralità letteraria: la performance orale del paurānika si accompagna alla forma scritta, ossia si materializza nel ‘libro’ che egli porta sempre con sé. […] L’oralità ha determinato l’espansione e l’arricchimento delle trame gene-rali dell’epica come del racconto mitico, suscitando sviluppi e digressioni che hanno acquisito forma letteraria, sia nelle redazioni brāhmaṇiche sia soprattutto nelle composizioni regionali in vernacolo. […] Nel circolo ermeneutico d’oralità e scrittura, i Pūraṇa vanno compresi quali testi molto particolari poiché ‘porosi’, aperti e divenienti, che sono venuti inglobando nuovi materiali in un processo dinamico durato secoli. […] L’universo dell’affabulazione è l’universo delle possibilità e dell’inclusione: è così che testi in sé autonomi finiscono per essere inseriti in questo o quel Pūraṇa, in un processo di accumulazione che è il carattere distintivo, ‘fisiologico’ della tradizione indiana»: RIGOPOULOS, 2010, p. CXCII-CXCIV.

278 «I racconti mitici tanto dell’epica quanto dei Pūraṇa costituiscono un vero e proprio ‘quinto Veda’, strumento d’istruzione/indottrinamento di massa a uso delle donne e delle caste basse degli śūdra, ai quali non era e non è consentito abbeverarsi direttamente alla “rivelazio-ne” (śruti)»: ivi, p. CXCII.

279 Ricordo che Megastene, mentre era al servizio di Seleuco I Nicatore, si recò più volte in missione nelle regioni orientali del regno seleucide e fu spesso in India; compose i 4 libri inti-tolati 'Indik£ probabilmente tra il 305 e il 290 a.C., servendosi anche di fonti storiche risalenti al periodo di Alessandro Magno.

280 Il cretese Nearco, amico d’infanzia di Alessandro Magno, fu l’ammiraglio della flotta greca che tra l’estate del 325 e l’inverno del 324 a.C. navigò da Pattala, alle foci dell’Indo, fino

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ni diretti, ci racconta che gli Indiani nell’amministrazione della giustizia «si avvalgono di leggi non scritte: non conoscono infatti la scrittura, ma ammini-strano ogni cosa fondandosi sulla memoria», le loro leggi infatti «non sono né scritte (alcune riguardano la vita pubblica, altre la vita privata) né in sintonia con quelle degli altri».

Più di duemila anni dopo Megastene, un padre gesuita missionario in In-dia, Pierre Jean Venant Bouchet281, in una lunga lettera – scritta il 2 ottobre 1714 da Pondichéry e rivolta al giurista parigino Melchior Cochet de Saint-Vailler282 e dedicata tutta ad una disamina di prima mano dell’amministrazione della giustizia in Sudasia – così scrive:

«Ils n’ont ni code ni digeste ni aucun livre où soient écrites les lois auxquelles ils doivent se conformer pour terminer les différends qui naissent dans les families. A la vérité ils ont le Vedam, qu’ils regardent comme un livre saint: ce livre est divisé en quatre parties qu’on appelle lois divines, mais ce n’est point de là qu’ils tirent les maximes qui servent de règles à leurs jugemens; ils ont un autre livre qu’ils appellent Vinachuram:283 on y trouve quantité de belles sentences et quelques règles pour les différentes castes qui pourroient guider

alle foci dell’Eufrate; su questo viaggio, avventuroso ed eccezionale, scrisse un racconto per noi perduto ma citato oltre che da Strabone anche da Arriano.

281 Nato a Fontenay-le-Comte, in Vandea, nel 1655 e morto in India, a Madurai, nel 1732, divenne novizio della Compagnia di Gesù nell’ottobre del 1670 e fu inviato in India nel 1686; a partire dal 1689, padre Bouchet viaggiò molto, specie nel sud-est, nella zona del Tamil Naḍu – che è oggi uno stato federato del Deccan e la cui capitale, dopo essere stata Madras, è oggi nota come Chennai, la quarta città più grande dell’India – e nelle zone confinanti dell’Andhra Pradesh, di Karnataka, e di Kerala (sulla persistenza dell’oralità nel Kerala e in generale nel sud Sudasia, vd. YANO, 2006, p. 153); qui imparò il tamil, lingua in cui scrisse cinque testi pastorali e teologici, arricchiti da numerosi prestiti sanscriti. Divenne poi membro dell’importante mis-sione di Madurai, fondata dal famoso gesuita e grande orientalista Roberto De Nobili (1577-1656) e, dal 1702, visse poi per lo più nella missione di Carnate (Choromandalam / Coroman-dèl), di cui fu il superiore, presso Pondichéry, la principale colonia francese (1673/4-1954) sulla costa del Coromandèl, che si affaccia sul Golfo del Bengala. Fu anche un eccellente cartografo e le sue accurate mappe del 1719 del sud-est indiano furono utilizzate da alcuni dei maggiori cartografi dell’epoca, tra i quali J.-B. Bourguignon d’Anville e G. de l’Isle.

282 Nato a Beaune, nei pressi di Digione, nel 1664 e morto a Parigi nel 1738, consigliere dal 1695, divenne presidente del Parlamento di Parigi nel 1707; insigne giurista dell’epoca, è noto soprattutto per aver pubblicato, nel 1703, il Traité de l’indult du Parlement de Paris, ou du Droit que le chancelier de France, les presidens, maîtres des requêtes, conseillers et autres officiers du Parlement, ont sur les prélatures séculiéres réguliéres du royaume.

283 Secondo alcuni commentatori, si tratta forse di Vijñāneśvara, l’autore nell’XI secolo d.C. del Mitākṣarā (vd. infra, p. 144), un commento fondamentale al Dharmaśāstra di Yājñavalkya: quest’ultimo è il mitico rṣi che appare come interlocutore in varie tra le Upaniṣad più antiche, tra cui la Brhadāraṇyaka Upaniṣad, dove egli, tra l’altro, allude all’impossibilità di una rina-scita individuale parlando del brahman come di un oceano in cui un blocco di sale – l’anima individuale – si scioglie, rendendo l’oceano salato. Più oltre, egli parla del Sé come del creatore del mondo interno ed esterno, spiegando tale creazione mediante l’esempio, poi ricorrente nei

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un juge; […] on trouve une infinité de sentences admirables dans le poëtes anciens, qui faisoient profession d’enseigner une saine morale, mais ce n’est point encore là qu’ils puisent les principes de leurs décisions. Toute l’équité de leurs jugemens est appuyée sur certaines coutumes inviolables parmi eux et sur certains usages que le pères transmettent à leurs enfans. Ils regardent ces usages comme des règles certaines et infaillibles pour entretenir la paix des fa-milles et pour terminer les procès qui s’èlèvent, non-seulement entre les parti-culiers, mais encore entre les princes. […] il me semble que les Indiens ne sont pas si fort blâmables de n’avoir pas pris le soin de compiler en un livre leur coutumer, car enfine ne suffit-il pas qu’ils les possedent perfaitement? Et si cela est, qu’ont-ils besoin de livres? Or rien n’est plus connu que ces coutumes: j’ai vu des enfans de dix ou douze ans qui les savoient à merveille, et quand on exigeoit d’eux quelque chose qui y fût contraire, ils répondoient aussitôt: “aja-ratoucou virodam [ācārattukku virōtam] (ce la est coutre la coûtume)”»284.

Insomma, negli oltre venti secoli intercorsi tra quel che raccontava Strabo-ne e quel che aveva potuto osservare padre Bouchet, nell’esercizio quotidiano della giustizia nel mondo sudasiatico non era cambiato praticamente nulla, si continuava a utilizzare la memoria degli usi e dei costumi tràditi ed inviolabi-li, senza preoccuparsi di possedere o di consultare alcun libro, anche perché tutti, perfino i ragazzini di dieci o dodici anni, conoscevano perfettamente tali norme, il dharma, avendole apprese in famiglia, dal proprio padre. Nel trattato Arthaśāstra attribuito a Kauṭīlya, in 3, 7, 40, a proposito delle leggi di succes-sione, si legge ad esempio285:

deśasya jātyāḥ saṅghasya dharmo grāmasya vā-api yaḥ ucitas tasya tena-eva dāya.dharmaṃ prakalpayet || 40 ||

Vedānta e nel buddhismo madhyamaka (“Dottrina della Via di Mezzo”), del sogno come meta-fora dello status irreale del mondo fenomenico; indicato nella tradizione come un assertore del dovere del ritiro e della meditazione, è considerato l’iniziatore dello yoga; gli viene attribuita la compilazione dello Yajur-Veda bianco, cioè della Vājasaneyi-saṃhitā e, secondo una tradizione conservata anche nel Mahābhārata, dello Śatapatha-brāhmaṇa; il trattato giuridico intitolato Yājñavalkya-dharmaśāstra o Yājñavalkya-smti appartiene in realtà al tardo periodo post-vedi-co e difficilmente ne sarà Yājñavalkya l’autore.

284 Questa lettera di Bouchet si trova in varie delle numerose edizioni che hanno avuto a partire dal 1720 Les lettres édifiantes et curieuses, una amplissima raccolta delle lettere spedite dai gesuiti francesi missionari nel nuovo e nuovissimo mondo; cito qui dall’edizione parigina del 1840, vol. II, p. 485-499 (p. 485-487, passim), lasciando l’ortografia così com’è; i corsivi invece sono miei. Una traduzione inglese è in ROCHER, 1984 = 2012, per un commento, vd. anche ID., 1993 = 2012; una traduzione italiana è in Scelta di lettere edificanti dalle missioni straniere, Milano, Fanfani, 1829, vol. XVI, p. 5-39; sull’opera e la vita di Bouchet, vd. anche CLOONEY, 2005.

285 Uso qui e di seguito la seguente trascrizione: The Kauṭīlya’s Arthaśāstra-Kyoto Digital Version, Joint Seminar on “Law (dharma) and Society in Classical India”, Institute for Resear-ch in Humanities, Kyoto University, 1993. Le parti dei composti sono separate da un punto, il saṁdhi esterno è sciolto e indicato da un trattino.

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“Whatever be the costumary law (dharma) of a region, a caste, a corporation or a village, in accordance with that alone shall he [i.e the judge] administer the law of inheritance (dāya-dharma)”286.

“Whatever Law is costumary in a particular region, caste, association, or vil-lage, acording to that alone should he administer the Law of inheritance”287.

* * *

Pochi decenni dopo la lettera di padre Bouchet, accadde una serie di avveni-menti fondamentali per la storia del diritto indiano e, strano ma vero, anche per la storia degli studi di linguistica storico-comparata e di orientalistica occidentali.

Nel 1772 l’autorità coloniale inglese, The British East India Company, sotto la spinta dell’appena nominato governatore generale del Bengala Warren Hastings, una delle figure più importanti della storia indiana moderna, decise che avrebbe amministrato i territori del suo dominio non secondo le leggi inglesi, che gli abitanti non conoscevano e non potevano comprendere, ma se-condo le leggi hindū e musulmane288, facilitata in ciò, riguardo ai musulmani, dalla conoscenza del Corano e della Sharī’a, dato che molti degli amministra-tori inglesi parlavano persiano e/o arabo; nessuno di loro invece era in grado di leggere e comprendere i pochi libri di diritto indiano su cui erano stati in grado di mettere le mani, scritti in sanscrito.

Dal 1772 si affiancarono così alle corti e ai giudici inglesi dei consiglieri ed eruditi e saggi locali, i paṇḍita (sing. paṇḍit); una commissione formata da

286 Trad. ingl. di ROCHER, 1993 = 2012, p. 116.287 Trad. ingl. di OLIVELLE, 2013, p. 195, sub loco; vd. infra, p. 146 nt. 300. Per compren-

derne meglio la sfera semantica connessa all’oralità, il composto dāya-dharma, “la norma sull’eredità” si può confrontare con brahma-dāya, e affini, gatha-sam-pra-dāya “tradizione poetica”, col verbo sam-pradadāti “trasmettere (la tradizione), impartire, insegnare succedere”, con il sostantivo neutro sam-pradāna “l’atto di trasmettere, l’impartire, l’insegnare (la tradizione)”, il sostantivo maschile, e i suoi derivati, sam-pradāya “tradizione, dottrina trasmessa da maestro ad allievo di generazione in generazione”, e gli aggettivi sam-pradātta, sam-pradātavya, sam-pradāyin “che possiede una tradizione, membro di una setta” etc.

288 Da una lettera di Sir William Jones, del 19 marzo 1788, a Lord Cornwallis, il successore nella carica che era stata di Hastings: «Nothing indeed could be more obviously just, than to determine private contests according to those laws, which the parties themselves had ever con-sidered as the rules of their conduct and endgagements in civil life; nor could any thing be wiser than, by a legislative act, to assure the Hindu and Muselman subjects of Great Britain, that the private laws, which they severally hold sacred, and violation of which they would have thought the most grievous oppression, should not be superseded by a new system, of which hey could have no knowledge, and which they must have considered as imposed on them by a spirit of rigour and intolerance» (cfr. ROCHER, 2012, p. 79).

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dieci di loro fu incaricata nel maggio del 1773, a Calcutta, di curare la redazione di una raccolta di fonti sanscrite sul diritto, compilata sul tipo di un digesto me-dievale e tradotta in inglese per il tramite di una prima versione persiana289. Stessa trafila ebbe luogo col cosiddetto Colebrooke’s Digest, così denominato perché il lavoro della commissione (1788-1794) avvenne sotto la supervisione di Jones, ma fu completato solo dopo la sua morte e il testo (denominato Vivādaṇgārnava “l’oceano delle risoluzioni delle dispute”) fu perciò tradotto in inglese da Cole-brooke290, e non dallo stesso Jones291. In seguito, un’altra commissione di paṇḍita fu invece incaricata di preparare l’edizione di un codice penale292.

L’ufficio dei consiglieri locali fu chiuso definitivamente nel 1864, ma nel frattempo i giudici inglesi, molto insoddisfatti di come i paṇḍita avevano svolto il loro lavoro di affiancamento legale, si erano messi a studiare il sanscrito e a tradurre i libri indiani sul diritto293, il che non risolse certo definitivamente i problemi dell’amministrazione giudiziaria inglese in Sudasia294, ma ebbe delle

289 Cfr. HASTINGS, BRASSEY HALLHED, 1776 (Vivādāṇavabhañjana “la diga all’oceano delle contese”).

290 Cfr. COLEBROOKE, 1875; cfr. anche ID., 1810, p. II: «A very ample compilation on this subject is included in the Digest of Hindu Law prepared by Jagannātha under the direction of Sir William Jones. But copious as that work is, it does not supersede the necessity of further aid to the study the Indu Law of inheritance. In the preface to the translation of the Digest, I hinted an opinion unfavorable to the arrangement of it, as it has been executed by the native compiler. I have been confirmed in that opinion of the compilation since its publication». I due trattati tradotti nel 1810 da Henry Thomas Colebrooke (1765-1837) costituirono per oltre un secolo e mezzo la principale fonte del diritto ereditario in Sudasia (cfr. ROCHER, 2012, p. 186 ss.); egli scrisse anche la prima vera grammatica sanscrita scientifica in una lingua occidentale (COLE-BROOKE, 1805) e il primo vero vocabolario sanscrito-inglese (COLEBROOKE, 1807).

291 Figlio dell’omonimo matematico gallese, William Jones nacque a Londra nel settembre del 1746 e morì a Calcutta nell’aprile del 1794; laureatosi all’University College di Oxford nel 1768, studiò diritto dal 1770 presso la prestigiosa Honourable Society of the Middle Temple a Londra, e fu magistrato dapprima in Galles, e poi, dal 1783, in India, dove ricoprì la carica di Presidente del Tribunale Supremo di Calcutta. Manifestò fin dall’infanzia un talento naturale per le lingue – si dice che ne padroneggiasse una quindicina e che di un’altra trentina avesse una conoscenza più che buona –, e scrisse, tra l’altro, una grammatica persiana, una gramma-tica sanscrita e tradusse, oltre al Codice di Manu, nel 1782 la Sakuntalā di Kālidāsa, su cui vennero immediatamente condotte le traduzioni tedesca, francese, italiana e danese, suscitando l’entusiasmo, tra gli altri, di Goethe. Sugli inizi degli studi di orientalistica e di linguistica comparata in Europa, la vita di Jones e la sua forte polemica con Abraham Hyacinthe Anquetil-Duperron, è utile ed equilibrato APP, 2009; vd. anche CANNON, 1995.

292 Cfr. MACAULAY, MACLEOD, ANDERSON, MILLETT, 1837. 293 Da una lettera di William Jones a Charles Chapman, scritta da Krishnagar, nel Bengala, il

28 settembre del 1785: «I am proceeding slowly, but surely, in this retired place, in the study of Sanscrit; for I can no longer bear to be at the mercy of our pundits, who deal out Hindu law as they please, and make it at reasonable rates when they cannot find it ready-made»: cfr. CANNON, 1970, p. 683-684; vd. anche ROCHER, 1993 = 2012, p. 104.

294 La questione qui non ci riguarda direttamente: per chi voglia farsene un’idea, vd., tra gli altri, ROCHER, 2012, p. 662 ss.

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conseguenze inattese e sorprendentemente seminali per la storia della scienza.Come ricordano tutti i manuali e tutte le storie della linguistica295, Sir

William Jones, in una conferenza che tenne presso la Asiatick Society il 3 feb-braio del 1786, e pubblicata poi nel primo numero di «Asiatick Researches», sostenne che:

«The Sanscrit language, whatever be its antiquity, is of a wonderful structure; more perfect than the Greek, more copious than the Latin, and more exquisi-tely refined than either, yet bearing to both of them a stronger affinity, both in the roots of verbs and in the forms of grammar, than could possibly have been produced by accident; so strong indeed, that no philologer could examine them all three, without believing them to have sprung from some common source, which, perhaps, no longer exists: there is a similar reason, though not quite so forcible, for supposing that both the Gothick and the Celtick, though blended with a very different idiom, had the same origin with the Sanscrit; and the old Persian might be added to the same family, if this were the place for discussing any question concerning the antiquities of Persia».

Questa conferenza del 3 febbraio del 1786 è considerata la data di nascita di quella disciplina scientifica che sarà poi denominata in Germania dapprima Vergleichende Grammatik e poi Indogermanistik, e nel mondo anglosassone Comparative Philology e poi Indo-European Studies296.

Pochi anni dopo, lo stesso William Jones tradusse per la prima volta in una lingua occidentale il Codice di Manu, una delle primissime opere della lette-ratura indiana antica in assoluto a essere tradotta in una lingua moderna, in un’edizione completata nel 1793 e publicata nel 1796297, suscitando in Europa vivissima e duratura impressione, tra gli altri anche in Nietzsche, andando così forse oltre le proprie intenzioni e della stessa amministrazione inglese, che altro non intendeva se non dotarsi di un codice di leggi locali consultabile

295 «This was a turning point in the history of science. For the first time the idea was put for-th that Latin was not derived from Greek, but that they were both ‘sisters’ (as we would now call them) of each other, derived from a common ancestor no longer spoken. The idea was inspired by the critical discovery of the third member of the comparison (the tertium comparationis in technical jargon), namely Sanskrit – a language geographically far removed from the other two. Also, this passage contains the first clear formulation of the central principle of the comparative method»: FORTSON, 2004, p. 8, da cui traggo anche il brano di Jones.

296 Quel che accadde dopo, nella storia degli studi di linguistica, credo sia noto ai più; si può comunque vedere ad esempio CANNON, 2006.

297 Cfr. JONES, 1794; questa traduzione di Jones fu a sua volta tradotta in tedesco nel 1797 e ristampata di nuovo, assieme al testo sanscrito, a cura di Graves Champney Haughton, ancora a Londra, nel 1825; del Trattato di Manu seguirono poi l’edizione e la traduzione di DESLONGS-CHAMPS, 1830, ID., 1833, la traduzione e il commento di BÜHLER, 1886, rimasti a lungo canonici, così come l’edizione di JOLLY, 1887. Su tutto ciò, cfr. anche CANNON, 1979 e 1995.

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da chi non leggesse il sanscrito; fatto sta che da quel momento il Mānava-Dharmaśāstra divenne l’autorità indiscussa del diritto anglo-indiano298 e un classico della civiltà e del diritto tout court per gli Europei299.

Grazie all’acribia e alla competenza di Patrick Olivelle, disponiamo ora di un’edizione filologicamente attendibile del Manu’s Code of Law, titolo con cui è noto il Mānava-Dharmaśāstra nel mondo anglosassone300. A partire da questo lavoro imprescindibile e dagli studi recenti fioriti intorno ad esso, a cui rinvio per ogni approfondimento qui non necessario301, si può oggi affermare con ac-cresciuta fondatezza la centralità e l’autorità di questo trattato nella storia del diritto antico sudasiatico, a partire perlomeno dal V secolo d.C., se non prima.

Composto probabilmente nel II-III secolo d.C.302, per iscritto303 e da un uni-co autore per noi ignoto304, esso raccoglie l’eredità delle tradizioni e delle spe-culazioni giuridico-normative precedenti – «in esso sopravvivono e convivono le ardite speculazioni ascetico-brāhmaṇiche (da quelle moniste delle Upaniṣad antiche a quelle dei nuovi ‘teismi’), le innovazioni ideali del buddhismo e delle tante altre tradizioni ascetiche (śramaṇa), le pratiche e i costumi delle ‘fron-de’ o ‘diramazioni’ (śākhā) delle numerose tradizioni vediche»305 –, e si situa come spartiacque, come punto centrale della transizione «from the prose and

298 Cfr. tra i molti ROCHER, 1993 = 2012, p. 100 e 107 ss.; 2012, p. 661 ss.299 Vd. HALBFASS, 1988.300 Cfr. OLIVELLE, 2005; rinvio all’edizione e al commento di P. Olivelle per un esame accu-

rato e filologicamente saldo della redazione, della struttura, dei contenuti, della tradizione te-stuale interna ed esterna del Codice di Manu. Fondamentali per lo studio del diritto indiano sono anche ID., 2003 e 2013: il primo lavoro indicato è la traduzione commentata dei dharmasūtra superstiti di Āpastamba, Gautama, Baudhāyana, e Vasiṣṭha, il secondo è la traduzione com-mentata – un lavoro durato cinque anni: «this was the most difficult translation project I have never undertaken» – dell’Arthaśāstra di Kauṭilya, considerato una sorta di Principe indiano, il testo più importante, dopo il Mānava-Dharmaśāstra, per la storia del diritto indiano che noi possediamo, e il cui ritrovamento fortuito agli inizi del ’900 è essa stessa una vicenda degna di studio: «the story of the discovery of Kauṭilya’s Arthaśāstra reads like a thriller, one of the few exciting, Indian Jones-like moments in the rather drab history of ancient Indian scholarship» (OLIVELLE, 2013, p. 1).

301 In italiano, assai utile e ben fatta è la traduzione commentata in SQUARCINI, 2010.302 Le opinioni qui divergono tra il II-I a.C. e il II-III d.C.; seguo la datazione proposta

in OLIVELLE, 2005, p. 25: «the likely period for the composition of the MDh would be 2nd-3rd centuries CE».

303 «That scholars in ancient India learned their texts by heart and that instruction involved memorizing is beyond doubt. However, I think that the MDh was originally composed in writ-ing expecially in view of the mention of manuscripts at 12.103»: ivi, p. 20 nt. 30.

304 «The name of this author is unknown, as are any details of his life: his date, his geograph-ical location, influences that may have shaped his life and thought, and a host of biographical questions that would shed light on the text itself. The most we can say is that he was a learned Brahmin from somewhere in northern India»: ivi, p. 20.

305 SQUARCINI, 2010, p. CV.

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scholastic Dharmasūtras to the metrical Dharmaśāstras ascribed to authori-tative divine beings»306.

La nascita di questa nuova trattatistica sul dharma, il cui capofila è proprio il Mānava-Dharmaśāstra, considerato autorevole e paradigmatico da tutti i suc-cessivi compilatori di trattatistica giuridica, rappresenta un momento di «straor-dinaria importanza rispetto alla canonizzazione e alla collettivizzazione di quel-le credenze, pratiche e ideologie socio-politiche che, successivamente, saranno intese da molti come i tratti caratteristici della ‘cultura indiana’. In questo senso i primi dharmaśāstra, pionieri nella ridefinizione e diffusione di un comune canone pratico-simbolico, sono stati uno degli assi portanti della volontà di ac-culturazione, che ha interessato, almeno fino alla fine del III secolo d.C., l’area nordoccidentale e, in seguito, centrale e orientale del Sudasia»307.

Facciamo allora il punto su quanto detto finora: il mondo sudasiatico è uso da sempre a tramandare oralmente la propria cultura, i propri testi, e da sempre, anche da quando, a partire dal IV-III a.C., ebbe modo di dotarsi di una propria forma di scrittura308 e cominciò a farne un uso epigrafico limitato

306 «The dating of the four extant Dharmasūtras is also problematic. In my earlier work (cfr. OLIVELLE, 1999 = 2003) I placed Āpastamba in the first half of the 3rd century BCE and Gauta-ma toward the middle of that century. I still think this is reasonable, but because of my further exploration of the semantic development of the term dharma, I am inclined now to place them somewhat later»: OLIVELLE, 2005, p. 25; cfr. p. 20-21 nt. 32.

307 SQUARCINI, 2010, p. CVII; «Siffatta ripresentazione e riconfigurazione necessitava di nuove fondamenta, legittimazione e autorità. Da qui, molto probabilmente, la scelta di questi specialisti di ricorrere alla figura antica e celebre del progenitore Manu, la quale può essere fatta risalire al gveda. In questa antica “raccolta” (saṃhitā), infatti, Manu è l’archetipo di colui che sacrifica agli dei. Dall’eponimo Manu sono anche derivati i termini utilizzati per indicare l’“uomo”, ciò che è “umano”, le “genti umane”, e l’“umanità” (ad esempio, manuṣya, manuṣyaviś). Questo referente è stato inoltre impiegato per evocare rapporti di parentela con il mitico progenitore. Manu è anche l’appellativo rivolto a differenti personaggi mitici, come nel caso di Vaivāśvata Manu, a cui sono attribuiti alcuni dei sūkta del gveda. Nei testi vedici posteriori i riferimenti a Manu continuano»: ivi, p. CVI.

308 A partire dal IV-III a.C., il Sudasia ha sostanzialmente conosciuto solo due tipi di scrittu-re: la kharoṣṭī e la brāhmī; la prima, il cui uso rimase limitato al nord-ovest e che deriva proba-bilmente dalla scrittura aramaica, essendo come quella ad andamento sinistrorso, scomparve in-torno alla metà del V d.C.; la brāhmī, la “scrittura di Brāhma”, di origine ignota, è invece la più diffusa, grazie soprattutto al fatto di essere stata adottata dal buddhismo. Nel IV d.C., la brāhmī venne modificata sotto la dinastia Gupta, del Magadha, e in questa nuova forma, detta appunto gupta, venne introdotta dai missionari buddhisti in Asia Centrale, che la adattarono alle diverse lingue usate e inventarono anche alcuni segni nuovi; in gupta sono scritti anche i manoscritti buddhisti cotanesi e tocarii. Dalla gupta derivarono a loro volta diverse scritture, la più diffusa delle quali è la nāgarī, detta poi devanāgarī, usuale ancora oggi e in cui si notano il sanscrito e molte lingue indiane moderne, tra le quali l’hindī, il marāṭhī, il nepalī, il kaśmirī, etc.; detto in maniera assai semplificata, essa si scrive da sinistra a destra e ha, di base, 35 grafemi con-sonantici (sempre sillabici, essendo composti da consonante + ă, non esplitamente indicata ma

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– le iscrizioni di Aśoka – considera la scrittura se non proprio un male, certo come un mezzo diametico inadatto, subdolo, culturalmente e funzionalmente secondario rispetto alla memorizzazione, ed così in gran parte ancora oggi, come nei secoli passati.

Nell’esercizio quotidiano del diritto e della giustizia – come ci attestano già per il IV-III a.C. Strabone e le sue fonti e fino agli inizi del 1700 d.C. le osservazioni puntuali di padre Bouchet, e poi ancora nell’Ottocento e financo nel Novecento le grandi difficoltà incontrate dall’amministrazione inglese –, scrittura e diritto sem-brano essere in Sudasia due termini antonimici, seppure si sia visto che nello stesso Sudasia esiste una lunga e importante tradizione di trattatistica giuridico-normati-va, dapprima orale e poi, a partire verosimilente dal II-III secolo d.C., scritta.

In realtà, quelle che a noi occidentali paiono contraddizioni, sono, nella realtà culturale e mentale sudasiatica, tutte espressioni egualmente degne del dharma309, ed è all’interno di queste apparenti contraddizioni che si scoverà il rammentatore di leggi, a partire proprio dal Mānava-Dharmaśāstra e proce-dendo poi a ritroso.

* * *

In Mānava-Dharmaśāstra 1, 92-93, leggiamo quanto segue310:

«ūrdhvaṃ nābher medhyataraḥ puruṣaḥ parikīrtitaḥtasmān medhyatamaṁ tv asya mukham uktaṁ svayambhuvāuttamāṅga.udbhavāj jyeṣṭhyād brahmaṇaś ca-eva dhāraṇāt

sempre presupposta; se la vocale è diversa, ha una sua notazione grafematica che la lega alla consonante) e 13 segni vocalici (che ovviamente fanno sillaba in sé); infine, una caratteristica evidente della devanāgarī è la linea continua orizzontale che lega assieme i grafemi.

309 «Dharma is the particular set of customs accepted and applied in a region, in a village, in a caste, in a sub-caste, in a guild, in a clan, etc. But all these different, even contradictory, customs are dharma in their own right; they are all part of the Hindu dharma. My conclusion on what must have been the true relation between the written law books and oral legal practice is as follows. In actual dispute settlement each region or each group knew exactly the set of customs that applied to them, and they applied them consistently. Members of one group always divided paternal property equally. Among others the eldest son always took everything. Others again reserved an additional share for the eldest. These specific rules were transmitted, within the area or within the group, from father to son, in the form of ‘maxims’, ‘proverbs’, ‘quatrains’, in the vernacular, and unwritten. The dharmaśāstras the law books, on the other hand, were the receptacles of the Hindu dharma, of anything that was accepted as dharma by some Hindus, somewhere in India. They were guarded by the learned, and preserved in the language of the learned, Sanskrit. The fact that these books were not present in the law courts did not prevent them from being books of law, rather books of laws which were real laws of real people some-where in India»: ROCHER, 1994, p. 27-28.

310 Qui e di seguito fornisco sia la traduzione italiana che quella inglese, entrambe come si è detto recentissime, molto accurate e, come si vedrà, non sovrapponibili.

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sarvasya-eva-asya sargasya dharmato brāhmaṇaḥ prabhuḥ»311.

“(Excursus: Excellence of the Brahmin). A man is said to be purer above the navel. Therefore, the Self-existent One has declared, the mouth is his purest part. Because he arose from the loftiest part of the body, because he is the eldest, and because he retains the Veda (dhāraṇa), the Brahmin is by Law the lord of this whole creation”312.

“(Il primato del brāhmaṇa) È noto che l’uomo è più prossimo all’essenza dall’ombelico in su; quindi, il nato-da-sé ha affermato che la bocca è mas-simamente essenziale. Poiché ha avuto origine dalla parte più eminente del corpo, poiché è il primogenito e poiché è il ricettacolo dei Veda (dhāraṇa), il brāhmaṇa è, secondo la norma, il signore di tutta questa manifestazione”313.

La parola dhāraṇa, anche secondo il commento di P. Olivelle, significa «retains the Veda: the term dhāraṇa means both carrying and retaining in memory. This statement is more powerful than it may first appear, because at a time when the Veda did not exist externally in manuscript form it could exist in the world only within the memory of Brahmins who had learnt it. The Brahmin is thus the receptacle of the Veda in the world»314. Si tratta di un aggettivo, derivato dalla radice dh-, attestato con questa accezione a partire dai Brāhmaṇa e dagli Āraṇyaka, i “libri della selva”, opere sul simbolismo e la mistica sacrificale, viatico per la meditazione solitaria nelle selve e che insieme alle Upaniṣad formano il Vēdanta, “la parte finale dei Veda315, e poi nel Mahābhārata; lo si ritrova come secondo membro in composti quali veda-dhāraṇa- e śruta-dhāraṇa-, ma anche nelle varianti śruta-dhara- e śruti-dha-ra-, e poi in dharma-dhāraya-, che significano tutti, nelle rispettive specifica-zioni, “che ritiene, che ha nella memoria, che ritrasmette…”, secondo una tra-dizione che non conobbe soluzioni di continuità”(sampradāyāvicchedāt)316.

E poi, ancora in Mānava-Dharmaśāstra 12, 108-115, leggiamo:

an.āmnāteṣu dharmeṣu kathaṁ syād iti ced bhavet |yaṁ śiṣṭā brāhmaṇā brūyuḥ sa dharmaḥ syād aśaṅkitaḥ ||

311 Uso qui e più avanti la seguente trascrizione: The Mānavadharmaśāstra. SARIT trans-cript, Yano, Micho and Ikari, Yasuke, compilation, data entry, proof correction, Mahoney, Ri-chard, editing and conversion to TEI markup, London, SARIT: Search and Retrieval of Indic Texts, 2009. Le parti dei composti sono separate da un punto, il saṁdhi esterno è sciolto e indicato da un trattino.

312 Trad. da OLIVELLE, 2005, p. 91, sub loco: il corsivo è mio.313 Trad. da SQUARCINI, 2010, p. 12-13, sub loco: il corsivo è mio.314 OLIVELLE, 2005, p. 241.315 Vd. supra, p. 137.316 Cfr. YANO, 2006, p. 144.

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dharmeṇa-adhigato yais tu vedaḥ sa.paribṁhaṇaḥ |te śiṣṭā brāhmaṇā jñeyāḥ śruti.pratyakṣahetavaḥ || daśa.avarā vā pariṣadyaṁ dharmaṁ parikalpayet |try.avarā vā-api vttasthā taṁ dharmaṁ na vicālayet |||raividyo hetukas tarkī nairukto dharmapāṭhakaḥ |hytrayaś ca-āśramiṇaḥ pūrve pariṣat syād daśa.avarā ||gvedavid yajurvid-ca sāmavedavid eva ca |try.avarā pariṣad-jñeyā dharmasaṁśayanirṇaye ||eko ’pi vedavid dharmaṁ yaṁ vyavasyed dvijottamaḥ |sa vijñeyaḥ paro dharmo na-ajñānām udito ’yutaiḥ |||a.vratānām a.mantrāṇāṁ jātimātra.upajīvinām |sahasraśaḥ sametānāṁ pariṣattvaṁ na vidyate ||yaṁ vadanti tamobhūtā mūrkhā dharmam atadvidaḥ |tatpāpaṁ śatadhā bhūtvā tadvaktãn anugacchati ||

[L’INSEGNAMENTO SEGRETO] “12.108. Se serve capire come si deve procedere nei casi per i quali non sia-no già state enunciate apposite norme, allora si sappia che quanto affermano i brāhmaṇa normati dalla norma (śiṣṭa) costituisce la norma certa e indiscussa. 12.109. Vanno considerati ‘normati dalla norma’ quei brāhmaṇa che hanno stu-diato, secondo quanto indicato dalla norma stessa, il Veda e le sue discipline au-siliarie, e che sono esperti nella rivelazione, nella percezione e nell’inferenza.12.110. [Perciò,] se un’assemblea di esperti con un minimo di dieci membri, oppure con un minimo di tre membri dalla condotta retta, delibera su un punto della norma, nessuno deve mettere in discussione quanto deliberato.12.111. Un’assemblea di esperti con un minimo di dieci membri deve esse-re costituita da una persona che conosce i tre Veda, un esperto di logica, un esegeta del rituale, uno specialista di analisi semantica (nirukta), un giurista [dharmapāṭhakaḥ] e tre individui appartenenti ai primi tre stadi della vita. 12.112. Dunque, i costituenti dell’assemblea legale con minimo di tre membri, incaricata di dirimere i dubbi concernenti la norma, devono essere: un conos-citore del gveda, uno dello Yajurveda e uno del Sāmaveda. 12.113. Ciò che è stabilito come norma anche da uno solo tra i migliori dei nati-due-volte, che sia un conoscitore del Veda, dovrà essere accettato come norma suprema, in contrasto a quanto possa essere stabilito da una moltitudine di persone senza conoscenza. 12.114. Se migliaia di persone che non seguono i voti, che non hanno co-noscenza delle formule (mantra) e che, per guadagnarsi da vivere, sfruttano l’appartenenza per nascita a una classe sociale, si riuniscono, non per questo esse costituiscono una vera e propria assemblea legale. 12.115. Di fatto, quando delle persone stolte, immerse nel tamas, dichiarano che una cosa è norma, pur non conoscendo la norma, il male commesso, moltiplicato per cento, è tale da perseguitare gli stessi che così hanno dichiarato”317.

317 Trad. da SQUARCINI, 2010, p. 301-302, sub loco: i corsivi sono miei.

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“If it be asked: what happens in cases where specific Laws have not been laid down? What ‘cultured’ Brahmins state is the undisputed Law. Those Brahmins who have studied the Veda together with its supplements in accordance with the Law and are knowledgeable in scripture, perception, and inference, should be recognized as ‘cultured’.Alternatively, when a legal assembly with a minimum of ten members, or with a minimum of three members firm in their conduct, determines a point of Law, no one must question that Law. A man who knows the three Vedas, a logician, a hermeneut, an etymologist, a spe-cialist in Law [dharmapāṭhakaḥ], and three individuals belonging to the first three orders of life – these constitute a legal assembly with a minimum of ten members.A man who knows the gveda, a man who knows the Yajurveda, and a man who knows the Sāmaveda – these should be recognized as constituting a legal assembly with a minimum of three members for settling doubts regarding the Law.When even a single Brahmin who knows the Veda determines something as the Law, it should be recognized as the highest Law, and not something uttered by myriads of ignorant men.Even if thousands of men who fail to follow the observances, who are unacquain-ted with the Veda, and who merely use their caste to earn a living, come together, they do not constitute a legal assembly.When fools enveloped by Darkness declare something as the Law, though they are ignorant of it – that sin, increased a hundredfold, stalk those who declare it”318.

Di questa che è per più aspetti l’interessantissima parte finale del Trattato di Manu319, qui ci riguarda in particolare il raro composto dharma-pāṭhaka, tradotto, come si è appena visto, come ‘un giurista, a specialist in Law’, ma che ha nel suo secondo membro un sostantivo maschile derivato dal verbo páṭhati “ripetere a voce alta, recitare, invocare, declamare, studiare, insegna-re”, anch’esso attestato a partire dagli Āraṇyaka, e dunque significa sì “spe-cialista del dharma”, ma in quanto “colui che recita il dharma a voce alta” e cioè uno che, nella pratica giudiziaria e in specie nei casi dubbi, “rammenta il dharma”, in quanto specialista facente parte di «un’assemblea di esperti con un minimo di dieci membri [che] deve essere costituita da una persona che conosce i tre Veda, un esperto di logica, un esegeta del rituale, uno specialista di analisi semantica, un dharmapāṭhakaḥ, e tre individui appartenenti ai primi tre stadi della vita»: insomma, uno dei rammentatori di leggi che andavamo cercando potrebbe essere lui320.

318 Trad. da OLIVELLE, 2005, p. 235-236, sub loco.319 OLIVELLE, 2005, ritiene che questa parte su “l’insegnamento segreto” possa essere

interpolata.320 «While the Vedic mantras were orally transmitted with the special technique of recitation

to keep the original string of sounds stable (cfr. STAAL, 1961, 1986, 1989), the non-verbal action in ritual was also transmitted […]. We can make a similar statement about the śulbasūtras, of

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Allo stato attuale della nostra documentazione, e della lessicogra-fia indiana, il punto di partenza della storia lessicale del composto sem-brerebbe essere in Baudhāyanadharmasūtra, 1, 1, 8.2: «cāturvaidyaṃ vikalpī ca aṅgavid dharmapāṭhakaḥ»321, che è ripreso identico in Vasiṣṭha-dharma-sūtra, 3, 20, e in Parāśara-dharma-sūtra (noto anche come Parāśarasmti), 8, 27, a; due attestazioni sono nel Mahābhārata: 1, 88, 12.38: «svārtham eva vadantīha ṣayo dharmapāṭhakaḥ», e 12, 37, 15.1: «daśa vā vedaśāstrajñāstrayo vā dharmapāṭhakaḥ», e una attestazione in Kūrma-Purana, uno dei 18 mahāpūraṇa, forse del VII d.C., 2, 21, 6.2: «mantrabrāhmaṅaviccaiva yaśca syād dharmapāṭhakaḥ»322.

* * *

Così come i Veda, e tutta la letteratura brāhmaṇica immediatamente suc-cessiva, anche il Canone del buddhismo antico, e quello del jainismo323, furo-no composti e trasmessi oralmente.

which the main purpose was to give instructions for preparing the sacrificial alters of various geometrical shapes, where the rope (śulba) was the most important instrument of measurement. The different schools of ritual had their own śulbasūtra as a part of the śrautasūtra, a manual for performing the Vedic rituals. […] The important point here is that when the śulbasūtras were orally transmitted, the non-verbal instructions for using ropes, gnomons, and bricks etc. must have been given to the students. […] When we read the śulbasūtras we have an impres-sion that what has been transmitted by the text is only a part of the whole instruction. The rest of the instruction must have been transmitted by so-called guruśiṣyaparamparā, ‘uninterrupted succession from teacher (guru) to student (śiṣya)’, and it was not open to the general public, or even kept secret»: YANO, 2006, p. 144-146.

321 Hanno all’incirca lo stesso significato del dhāraṇa visto sopra anche catur-veda- e ca-turvidya-, pracrito catur-vedin-, “(che ritiene, che ha nella memoria, che trasmette) i quattro Veda”, anch’essi attestati a partire dal Mahābhārata. «The size of the four Vedas combined would be very close to that of the Old Testament, which is, in King James version, 3,720,000 bytes. One of the reasons of similarity may be that this much size was nearly maximum for an ordinary man to correctly memorize. In other words, the memory capacity of a person is about that of one floppy disk. Some extraordinary persons may have four floppy disk capacity – in ancient India such person might have been highly respected as caturvedin, ‘one who is versed in the four Vedas’»: YANO, 2006, p. 143.

322 Il veda-pāṭhaka- coniato da Nīlakaṇṭha, l’autore, tra l’altro del Bhagavantabhāskara, un trattato giuridico della metà del XVII secolo, e del Bhāratabhāvadīpa, un commento al Mahābhārata usato ancora oggi, deve essere probabilmente una tarda imitazione.

323 Il jainismo trae il suo nome dall’epiteto fisso non del suo fondatore, il mitico Pārśva, ma del suo primo e più importante riformatore,Vardhamāna Mahāvira, detto Jina, “il vincitore”, contemporaneo del Buddha e morto anch’egli intorno alla meta del V secolo a.C.; il canone jaina ha caratteri simili al canone buddhista pāli e risale in gran parte probabilmente al V se-colo d.C.; la lingua è un pracrito detto ārṣa, che si vorrebbe fosse quello in cui il fondatore ha predicato; il jainismo ha conosciuto fin dai suoi primordi scissioni e divisioni, dottrinali e non, che perdurano ancora oggi.

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Il testo di cui ci occuperemo qui di seguito, il Suttanipāta (L’Insieme dei Sutta, o La raccolta di aforismi), fa parte del Canone buddhista pāli, canone redatto oralmente in due concilii successivi alla morte del Buddha; il primo, tenutosi presso Rājagha, si pensa nel 485 a.C., un anno dopo la morte del Bodhisattva, durò sette mesi e vi parteciparono 500 aruhant, ‘i degni’, i santi giunti alla quarta fase del Risveglio: «Buddha’s lectures were “sung together” (saṃgīta) by about 500 disciples. After comparing, correcting, and arranging the lectures in the right order they established Buddha’s teaching as authorized sūtras. This time nothing was written down. Everything was conducted by oral communication. The conference was called saṃgīti (“singing together”). This was nearly the same time as Pāṇini composed his famous sūtras for San-skrit grammar, which was also oral»324.

Il secondo concilio si tenne a Vaiśālī, presso una comunità di monaci accu-sati di aver infranto le regole disciplinari, all’incirca nel 340 a.C. Si cominciò a fissare per iscritto il Canone pāli probabilmente nel terzo grande concilio, quello tenutosi al tempo di Aśoka presso Pāṭaliputra intorno al 247-246 a.C., sotto la direzione di Tissa Moggaliputta, guru di Aśoka stesso e di suo figlio Mahendra; infine, la forma che è giunta a noi risale forse a un periodo a caval-lo tra il I a.C. e il I d.C.

Secondo l’ordinamento più antico del Canone, quello detto Ti-piṭaka “le Tre ceste”, la Prima cesta si chiama Sutta-piṭaka e contiene, sotto forma di dialoghi, gli insegnamenti dottrinali attribuiti direttamente al Buddha; la quin-ta parte della Prima cesta si chiama Khuddaka-nikāya “Mucchio dei testi pic-coli” e, a sua volta, la quinta porzione di quest’ultima è il Suttanipāta. Il Cano-ne pāli è quello del buddhismo dell’isola di Ceylon, della Birmania, del Siam, della Cambogia, del Laos e del Vietnam, noto anche col nome di Hīnayāna, “Piccolo Veicolo”, diffuso a partire da Ceylon quando l’isola fu convertita dal monaco Mahendra, il figlio di Aśoka.

Il Canone è scritto in pāli, che è una lingua del periodo medio-indiano, all’in-circa secoli V a.C. - II d.C., periodo le cui lingue sono dette in generale prācriti e derivano non dal sanscrito classico, che ha una storia linguistica a sé e che poi dal II secolo d.C. prevarrà come lingua letteraria comune, ma da dialetti, vernacoli, parlati già in epoca vedica, il cui sviluppo è da ritenersi parallelo a quello della tradizione vedica vera e propria. La lingua del primo Buddhismo e del Jainismo, così come quella assai simile in cui sono redatte le iscrizioni di Aśoka (272-231 a.C.), è un pracrīto detto appunto pāli, una versione letteraria del māghadi, la lingua di Pāṭaliputra, l’attuale Pāṭna, uno dei luoghi santi dove aveva predicato Siddhārta. Esiste anche un Canone Buddhista sanscrito, più re-cente, ed è conservato in parte in Nēpal e in parte in traduzioni tibetane e cinesi:

324 YANO, 2006, p. 144.

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è quello proprio al buddhismo detto Mahāyāna, “Grande veicolo”, diffusosi tra il II e l’XI secolo d.C. in Asia centrale, Tibet, Cina, Corea, e Giappone.

Il Suttanipāta è una raccolta di 71 sutta brevi, contenenti i frammenti della poesia buddhica più antica. Dal punto di vista linguistico, esso infatti è uno dei testi più antichi del Buddhismo primitivo, denso com’è, lessicalmente, di arcaismi, anche vedici, e, sintatticamente, ancora libero dai successivi, signifi-cativi, influssi sanscriti sul Canone pāli. Dal punto di vista poetico, il suo testo è quasi tutto in versi, śloka, spesso modellati sul tipo degli akhyāna classici, cioè di quelle narrazioni simili a ballate incorniciate da una storia in prosa; se-condo il commento di Buddhaghoṣa, il grande maestro hīnayāna vissuto nel V secolo d.C. e autore di dotti commentari al Tipiṭaka, i testi che compongono il Suttanipāta sono un insieme di gāthā “stanze poetiche”, di mescolanze di pro-sa e di versi (geyya), e di cosidette “notificazioni”, vyākaraṇa, che contengono enunciazioni in prosa fatte dal Buddha stesso. Il Suttanipāta, in definitiva, oltre a restituirci insegnamenti attribuibili direttamente al Buddha, raffigura la vita dei primi eremiti indipendenti, non quella di una comunità ecclesiale già formata, dandoci una rappresentazione probabilmente fedele dell’ambiente ascetico-religioso dell’India di quei tempi325.

Vediamo allora Suttanipāta, 5 (Pārāyana-vagga, 9, 1 [1084]):

Hemaka-māṇava-pucchā (Le Domande del Giovane Hemaka).

«1084. Ye me pubbe viyākaṃsuicc-āyasma Hemakohuraṃ Gotamasāsanā ‘icc-āsi, iti bhavissati’,sabban taṃ itihītihaṃ, sabban taṃ takkavaḍḍhaṃ,1085. nāhaṃ tattha abhiramiṃTvañ ca me dhammam akkhāhi taṇthānigghātanaṃ muni,yaṃ viditvā sato caraṃ tare loke visattikaṃ».

“[1084] Coloro che laggiù mi spiegarono [la dottrina] – così disse il venerabile Hemaka Prima dell’insegnamento del Gotamide, [dissero:] ‘Cosi era, così sarà’,Ma tutto questo era solo tradizione orale (itihītihaṃ), e tutto questo[mi è servito solo] per far accrescere i dubbi.[1085] Io non prendo godimento in tutto ciò,Tu narrami quindi il Dhamma [Dharma], o Muni326, che annienta la sete,325 Cfr. FILIPPANI-RONCONI, 1976, p. 84-85.326 Il sostantivo muni compare una sola volta nei Veda, nell’inno 10, 136 (2, 4, 5), un inno

connesso alla tradizione sciamanico-esoterica (cfr. COSTA, 2008, p. 137 ss.), e indica un asce-ta dotato di poteri magici e in odore di santità, fuori dai ranghi dell’ortodossia sacerdotale e

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Conoscendo il quale chi proceda rammemorante puòguardare di là dal desiderio,[Pur restando] nel mondo”327.

L’insegnamento del Buddha pose in dubbio, dunque, nientemeno che la tradizione orale del dharma, quel che era sempre stato detto così: itihītiha, lessema costruito sulla particella a base pronominale iti, che si confronta tra l’altro col lat. ita e item: iti-h-īti-ha = iti-ha + iti-ha- “così e proprio così (è sta-to detto)”, e cioè “discorso, racconto, credenza, tradizione orale” (cfr. anche Majjhima-Nikāya, 1, 520; Saṃyutta-Nikaya, 1, 154; Niddesa 2, 151), e che si può avvicinare a iti-vuttaka, sostantivo neutro, “così è stato detto” che è, tra l’altro, il titolo di un’opera del canone pāli le cui stanze iniziano tutte con la frase “così è stato detto dal Beato…”.

Riguardo poi a quel che si diceva sopra sugli arcaismi del canone pāli, a itihītiha va certo avvicinato il lessema sanscrito buddhista itihāsa (= iti ha āsa), che conserva la forma vedica āsa, la terza pers. sing. del perfetto del verbo atthi (a. ind. ásti) “essere”, e che significa alla lettera “così come davvero fu, indeed it has been”, e dunque: “racconto tradizionale, leggenda, tradizione orale, storia”; come si è detto sopra, itihāsa sarà poi il termine con cui si indicheranno, assieme, i due grandi poemi epici indiani, il Rāmāṇaya, e il Mahābhārata, ma che vale in primis a indicare parte dell’insegnamento tradizionale dei brāhmaṇi, come nello Śatapata-Brāhmaṇa e nello stesso Mahābhārata, ma anche in Dīgha-Nikāya, 1, 88, e in Anguttara-Nikaya 1, 163; 3, 223, Milindapañca 10, 178, tre testi appartenenti anch’essi al canone pāli, e poi come qui, ancora nel Suttanipāta, 5 (Pārāyana-vagga, 1, 44-45 [1019-1020]).

Vatthu-gāthā (Il Canto della Storia)

«“Vīsaṃvassasataṃ āyu, so ca gottena Bāvari,tīṇ’ assa lakkhāṇa gatte, tiṇṇaṃ vedāna pāragū,lakkhaṇe itihāse ca sanighaṇḍusaketubhe,pa ca satāni vāceti, sadhamme pāramiṃgato”».

[1019] 44. [Disse il Beato:]:“La sua età è di 120 anni, di famiglia è un Bāvarin :

precursore dei guru e degli asceti – seminudi, coi capelli lunghi e la barba incolta, magrissimi per i prolungati digiuni, venerati dal popolo – dell’India post-vedica fino a quella dei nostri giorni. Indra è “amico dei muni” in g-Veda, 8, 17, 14, e nell’Atharva-Veda (7, 74, 1; cfr. anche Śatapatha Brāhmaṇa, 9, 5, 2, 15) è citato un muni divinizzato; già a partire dalle Upaniṣad (cfr. Bhadāraṇyaka Upaniṣad, 3, 4, 1; Taittirīya Āraṇyaka, 2, 20) il sostantivo indica tuttavia anche una persona dedita allo studio del Brahman, dell’Assoluto, mediante sacrifici, ascesi, penitenze e prolungate meditazioni, come sarà poi nella tradizione buddhista, e in generale induista.

327 Qui e di seguito utilizzo la traduzione italiana di FILIPPANI-RONCONI, 1976.

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Tre sono i segni sulle sue membra e nei Tre Vedaegli è perfetto,[1020] 45. Nella [scienza] dei segni, nelle Tradizioni (Itihāsa), assieme al Nigaṇḍu e Keṭubha, Egli ne recita 500 – nel suo Dhamma è giuntoa perfezione”.

Secondo il già citato commento di Buddhaghoṣa, il Dhammapadatthakathā, in 1, 247, «the attainments of a learned brahman are in the suttas invariably described in these word. The Nigaṇḍu is, of course, the Nighaṇṭu. Keṭubha seems to means the Kelpa [= Kalpa-sūtra, vd. supra, p. 138]; it is thus ex-plained by Buddhaghosa: “The science which assists the officianting priests (?) by laying down rules for the rites, or leaving them to their choice” (keṭubhan-ti kiriyākappo, kāvinaṁ kārāya satthaṁ). The Akkharappabheda, according to the same authority, means Śikshā and Nirukti (saha-akkharappabhedana ‘sākkharappabhedānaṁ’; akkharappabhedo ti sikkhā ca nirutti ca). In making the Itihāsas the fifth part of the doctrine, the Vedāngas seems to be reckoned as a whole; the scholiasts, however, thing of Atharvaveda as the fourth part, tough not mentioned […]”»328.

A quanto pare, il pali – e sanscrito buddhista – keṭubha (il legame etimologi-co e semantico col sanscrito classico kaiṭubha, il nome di un demone ucciso da Viśṇu, è a parer mio assai dubbio) è parola rarissima329, ma, oltre alla glossa di Buddhaghoṣa appena vista, abbiamo un’altra preziosa testimonianza che ci aiuta a definirne compiutamente il significato e l’uso, e la troviamo nel Lalitāvistara-sutra, che è uno dei testi mahāyānici ancora oggi più amati dai fedeli: una rac-colta di testi diversi redatti verosimilmente tra il III-IV e il V d.C. sotto forma di una biografia assai romanzata – in prosa e in versi – del Buddha, ritratto come

328 TRENCKNER, 1908, sub loco; lo śikṣā è lo studio (dapprima condotto solo oralmente) della fonetica e della fonologia, disciplina a cui si deve il testo padapāṭha (“piede dopo piede”) del g-Veda prima e poi degli altri Veda in seguito, cioè la versione esatta – divisa parola per parola, senza i fenomeni di interferenza morfo-fonologica (saṁdhi) creati dalla catena parlata della recitazione orale all’interno (nei composti ad es.) e tra fine e inizio di lessemi concate-nati – della primigenia versione saṃhitā, la sola ritenuta sacra perché recitata oralmente in forma continua, ed è, assieme alla grammatica di Pāṇini, il più importante risultato degli studi grammaticali antico-indiani; i Nighaṇṭu sono liste di parole vediche di difficile comprensione o pronuncia, il Nirukta di Yāska appartiene a tale categoria ma è anche il primo e più impor-tante trattato di grammatica e di etimologia (vedica). Tutti questi studi nascono dalla credenza, divenuta poi una teoria lessicografica, che le parole del testo vedico dovessero essere ripetute nel rituale perfettamente come erano state ‘rivelate’ (la śruti), senza alcun errore, pena la nullità dell’atto sacro: cfr. ad esempio Nirukta, 1, 18; vd. DESHPANDE, 2007, e GOPAL, 1983.

329 Risulterebbero solo un paio di attestazioni tarde: una nel Divyāvadana, raccolta di racconti buddhisti del II-III d.C., e una nello Yoga-yatra (noto anche come Swalpa-yatra) di Varāhamihira, un autore del VI d.C.

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una figura oramai divinizzata e dalle molteplici e incredibili capacità, autore di numerosissimi miracoli e guarigioni; è un testo che appartiene al periodo della cosiddetta ‘rinascita sanscrita’, e cioè al periodo in cui il sanscrito, in ve-rità oramai ibridizzato, tornò ad essere la lingua letteraria più usata, scalzando i prācriti, e il pāli in particolare, anche tra gli scrittori buddhisti, e viene detto appunto sanscrito buddhista.

Dunque, in Lalitāvistara-sutra, 12, 33, in un elenco lunghissimo di capacità straordinarie attribuite al Buddha, troviamo: «[…] strīlakṣaṇe, puruṣalakṣaṇe, aśvalakṣaṇe, hastilakṣaṇe, golakṣaṇe, ajalakṣaṇe, miśralakṣaṇe, kauṭubheśvaralakṣaṇe […]», brano che viene tradotto “(In this way the Bo-dhisattva was superior in all the main aspects of the mundane arts, as well as in all practices beyond the reach of gods and humans. He was superior […]) in ancient stories, history, the Vedas, grammar, etymologies, phonetics, me-trics and composition, rules for conducting rituals […]”330, riproducendo così quella che era, come si è visto, la lista, la summa dell’insegnamento impartito ai giovani monaci e sacerdoti.

Tuttavia, quella che qui ci preme di più esaminare è l’ultima parola, il composto kaiṭbhēśvaralakṣana = kaiṭabha-īśvara-lakṣana-, dove kaiṭabha è il nostro keṭubha, īśvará è un aggettivo che significa “capace di…, abile a…”, e lakṣana, che funge da secondo membro in tutti i composti della citazione appena vista, è un derivato dal verbo lakśati “marcare, segnare, indicare, de-signare indirettamente, caratterizzare, definire, percepire, osservare, conosce-re, comprendere”331, derivato che, come aggettivo, significa “che indica, che esprime indirettamente, che suggerisce” e, come sostantivo neutro, “segno, marca, simbolo, linea (tracciata nel sacrificio); descrizione accurata, defini-zione; citazione, qualificazione, proprietà”, e in fine di composto “marcato da, caratterizzato da, versato in, che ha la qualità di o per”; la traduzione letterale di kaiṭbhēśvaralakṣana è dunque “(colui che è) particolarmente versato nel keṭubha”. Tuttavia, il composto kaiṭbhēśvaralakṣana ha l’aria di essere in realtà anche qui una sorta di glossa – in sanscrito buddhista a una parola in pāli – a keṭubha, un lessema che doveva essere da tempo non più compreso se non dai commentatori più esperti; keṭubha significa allora, al dunque, “la scienza di indicare, di dettare le norme rituali nell’assistere il sacerdote officiante”332, una disciplina così importante, quella del rammentatore di norme (rituali), da

330 The Noble Great Vehicle Sūtra “The Play in Full”; Āryalalitavistaranāmamahāyānasūtra, Toh 95, Degé Kangyur, vol. 46 (mdo sde, kha), folios 1 b-216 b, translated by the Dharma-chakra Translation Committee, 2013, sub loco.

331 Questo verbo è privo di confronti etimologici indeuropei.332 «Eine Hilfswissenschaft für Dichter und Priester» traduce Manfred Mayrhofer nel suo

vocabolario etimologico del sanscrito, sv.

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avere una trattatistica a sé e da far parte del cursus studiorum, della tradizione di insegnamento brāhmaṇica e buddhista.

* * *

6. Conclusioni.

Non ero in cerca di un ‘rammentatore di leggi indeuropeo’: sarebbe stato un po’ come se mi fossi messo a cercare la bicicletta degli Indeuropei, quella con cui forse avrebbero potuto davvero compiere quelle mirabolanti imprese invasionistiche a cui qualcuno professa ancora di credere, dopo oltre due seco-li che la linguistica comparata le va invano cercando per l’Eurasia …

Piuttosto – e ciò senza scomodare Georges Dumézil e le sue strutture men-tali ereditate, a cui, alla fine, non credeva più nemmeno lui333 – occorre dire che in quanto si è visto nel corso delle presente ricerca, un imprinting indeu-ropeo, da prendere senza dubbio in senso generale, ma certo non generico né tampoco tipologico, c’è: mi riferisco innanzitutto alla conferma del fatto, pe-raltro già assodato, che alle popolazioni indeuropee non piacesse la scrittura, il che non vuol dire che non la usassero mai, bensì che abbiano preferito, per lunghissima pezza, non mettere per iscritto, o almeno non divulgarla in pub-blico se scritta, la loro cultura ‘alta’, proprio come abbiamo visto succedere ad esempio in Sudasia334; poi, l’ennesima conferma che presso i popoli par-lanti alcune lingue indeuropee esistesse da tempo immemore una tradizione di saggezza e di sapienza orale – di cui facevano parte senza dubbio anche le consuetudini normative –, tramandata di generazione in generazione attra-verso uomini del sacro e della memoria (vati, saggi, poeti, sacerdoti) e con l’ausilio di un linguaggio poetico all’uopo creato e dedicato335. Dietro, sullo sfondo delle varie e composite vicende storiche del rammentatore di leggi, o per meglio dire, come adesso si può, del “rammentatore di norme” in quanto erede (parziale) di una figura esistente da sempre, quella dell’uomo che sa, che conosce, che ricorda il patrimonio tradizionale (normativo), continuano dunque ad agire antichissimi fatti di lingua e di cultura.

Poi, alcuni dei dati in comune alle tradizioni qui esaminate sono dovute, a parer mio, al fatto che ‘il rammentatore di norme’ è stato colui che nella lunga fase di transizione dall’oralità alla literacy, attraverso una serie analogica di trasformazioni in parte simili e comuni e in parte diverse e singole, ha avuto il compito di preservare, e a richiesta di rammentare, la memoria della norma,

333 Cfr. COSTA, 2008, p. 21.334 Come si sa, la vicenda è ben nota e assai studiata, a cominciare da Platone.335 In WATKINS, 1995, e in COSTA, 1998, 2000, 2008, c’è tutto quel che occorre al proposito.

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delle usanze giudiziarie, dei comportamenti procedurali e della giurisdizione del passato, attraverso l’uso sapiente e svariato, nel tempo e nei modi, del dia-sistema, dei diversi registri diafasici e diamesici: oralità vs. scrittura, oralità e scrittura, leggere con gli occhi ad alta voce per comprendere con le orec-chie ciò che (ci) si ascolta dire, scrittura (abbreviata o meno) come sostegno mnemonico all’oralità, oralità come performance retorica di un testo dettato come appunti a uno scriba, scrittura privata di un testo imparato a memoria e recitato oralmente in pubblico, etc.; il ruolo del lögsögumaðr e dei suoi simili, del “rammentatore di norme”, va inteso allora come una delle forme che ha assunto l’opera di salvaguardia della continuità della tradizione nel lungo e variegato periodo della transizione aurale.

C’è però anche altro. Gli studi sull’oralità e la scrittura, anche quelli più accorti e più dotti, pur

prestando la doverosa attenzione a quella fase che oramai tutti chiamano ap-punto auralità, sono tuttavia per la gran parte incentrati su un dualismo media-tico, quello composto dall’oralità e dalla scrittura, che trascura almeno un ter-zo medium, altrettanto se non più importante come mezzo di memorizzazione e trasmissione testuale, e cioè il rito336.

Non solo infatti tra i due poli estremi dell’orale puro e dell’uso esclusivo dello scritto – che probabilmente non sono mai esistiti in quanto anche l’uo-mo paleolitico conosce l’uso cosciente e comunicativo di graffiti e immagini dipinte – esistono numerossime situazioni intermedie e variamente combina-torie, ma nelle società tradizionali che vivono in tali situazioni intermedie né l’uso specifico della parola detta né il segno grafematico della scrittura pre-valgono; prevale piuttosto un’articolazione particolare, in chiave mnemonica, un’articolazione che avviene, in generale, «tramite la focalizzazione di una particolare forma dell’uso linguistico: l’enunciazione rituale, che in queste società è il vero ambito della memoria. Sono culture, queste, ancora in appa-renza fondate sull’esercizio della memoria individuale; ma che quell’uso sono ben lontane dal lasciare al caso, e al contrario di quanto si crede ne elaborano, orientano e gelosamente controllano la pratica»337.

La ricerca antropologica ed etnolinguistica ha infatti mostrato da tempo che ci sono almeno due modi di ‘fare memoria’ condivisa in una società ora-le/aurale: uno, di tipo narrativo, in cui miti, leggende e racconti sono legati dai motivemi in una sequenza linguisticamente lineare e ordinata, l’altro è invece connesso al rito e alla formulazione iconica delle conoscenze; il rito infatti può presupporre una sequenza narrativa, ma non la espone: «l’azione

336 Faccio riferimento qui per lo più a SEVERI, 2004, e a COSTA, 2002, 2005 a, 2005 b, 2006, 2007, 2008, 2012; per la trasmissione rituale della tradizione vedica, vd. HOUBEN, 2011; vd. poi anche RAPPAPORT, 1999 = 2004.

337 SEVERI, 2004, p. XIII-XIV.

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rituale costruisce immagini complesse che traducono, in forma non lineare ma fondata piuttosto su simultaneità e condensazione di diversi aspetti, i topoi tramandati dalla tradizione»338.

Le due forme di costruzione della memoria culturale conoscono due diver-si usi del linguaggio, due diverse forme di agentività codificata, ma anche due diverse figure pragmatiche di enunciatore: chiunque può prendere la parola e raccontare con credibilità una storia ai membri di una data società a tradi-zione orale/aurale, «l’enunciatore di un testo rituale è invece circondato da molte precauzioni, la sua identità è complessa, e va ridefinita come parte di un contesto comunicativo particolare». Queste due diverse condizioni hanno con-seguenze importanti sia dal punto di vista della costruzione del contenuto della comunicazione, sia dal punto di vista della sua ricezione e del tipo di credenza o di ascolto che essa può implicare: l’uso iconico del linguaggio e la definizio-ne di una speciale pragmatica dell’enunciatore definiscono infatti sì il contesto comunicativo, ma fissano anche il tipo di metacomunicazione che le immagini complesse generate dal rito stabiliscono e tramandano nel tempo, servono, in-somma, a definire le cornici metacomunicative e cognitivamente implicite.

Le tradizioni che così si creano sono rituali, sono cioè sempre connesse ad un contesto sacro o cerimoniale, e a una comunicazione pragmatica specifica-tamente connotata, che è ben distante dalla comunicazione quotidiana e non marcata339. Il fenomeno cognitivo che è alla base di ciò, è il legame mentale che si stabilisce tra parola, immagini e gesti, tra le diverse forme della traccia mnestica unite da un legame fondato sull’elaborazione di una salienza, sul-l’organizzazione linguistico-testuale in sequenze ordinate e su concatenazioni operazionali plurime e sovrasegmentali.

Chi prende la parola per la tradizione, e non a titolo personale, subisce una trasformazione: occupa il luogo di un io-memoria che l’azione rituale definisce in dettaglio e «la voce dell’enunciatore (non solo per le parole che enuncia, ma in tutti i suoi registri, le intonazioni, i legati e gli staccati, i soffi, le onomatopee, le grida…), è uno dei veicoli-chiave di qusta trasformazione simbolica dell’identità»340.

Le forme di trasmissione della cultura tradizionale sono dunque processi di apprendimento attuati mediante il rituale e il linguaggio, due sistemi di segni che si uniscono rafforzandosi a vicenda, e la ripetizione verbatim ac litteratim, che è uno dei fattori principali dell’apprendimento mnemonico, è essenziale nel rituale: «una funzione primaria del rito è di iniziare i giovani alle usanze degli avi; e in ciò si compendia l’apprendimento culturale che si fonda sulla memoria»341.

338 Ivi, p. 306, qui e nella successiva citazione.339 COSTA, 2012, p. 58-59.340 Ivi, p. XIX.341 BURKERT, 1996 = 2003, p. 49.

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Il rito, insomma, è di importanza fondamentale nell’organizzazione, nella memorizzazione e nella trasmissione degli apparati istituzionali di significa-zione che compongono la tradizione orale / aurale. In queste tradizioni, la voce è l’immagine sonora di chi parla e della sua trasformazione rituale, e la me-moria, nella doppia valenza di memorizzazione e di rievocazione, possiede una dimensione canonica e una dimensione performativa ed è una memoria che non rappresenta soltanto i suoni del linguaggio, «ma costruisce intorno alla rappresentazione mentale una serie di condizioni di enunciazione, e così ne preserva, in modo originale, la traccia nella memoria comune: quella del rito»342. Poiché il cumulo di esperienze preformate e verbalizzate trascende sempre l’esperienza individuale, la tradizione, insomma, consiste di informa-zione condensata e sistematizzata, fissata nella memoria esterna e collettiva e veicolata dal corpus mitologico, rituale e normativo, le cui chiavi cognitive sono detenute dagli ‘uomini del sacro e della memoria’, e il cui metamessag-gio ‘questo è un rito’ è nascosto nelle pieghe plurimillenarie del linguaggio.

Qualcuno ha scritto che la norma, il diritto, la legge è “the concretization of social wisdom”343, cioè l’estrinsecazione in atto dei costumi della tradizione.

La memoria del linguaggio giuridico-normativo e dei suoi testi tradizionali non può prescindere dal rito come medium, poiché l’atto del giudicare, il pro-cesso e le sue procedure sono intrinsecamente – lo erano vieppiù un tempo, ma lo sono visibilmente ancora oggi – un rito, un atto sacrale dove alcune persone decidono la vita e la morte, la libertà e la prigionia, l’unione e la divi-sione, la ricchezza e la povertà, la proprietà e l’eredità, l’adozione e il ripudio, di altre persone, e dove si indirizzano le interpretazioni della norma e cioè i mutamenti sociali; un rito con i suoi ‘sacerdoti’, i colpevoli e gli innocenti, dove ognuno dei partecipanti ha un suo ruolo definito dalla forma canonica, dalla procedura cerimoniale, ma dove ciascuno può e deve dar luogo alla sua performance, alla sua compartecipazione rituale attiva ma guidata dalla nor-ma, attesa e sempre presente.

Ed è l’assenza o la presenza di questo rituale e del suo svolgimento norma-le e ordinario, e cioè il fare giustizia nella norma – il dharma all’occorrenza rammentato dagli specialisti della memoria – volto a preservare l’ordinamento del mondo – ritus, tá, arta, aša –, che segna l’appartenenza o meno di una cultura al consesso degli uomini liberi.

342 SEVERI, 2004, p. XIX.343 Cfr. BLOOMFIELD, DUNN, 1989, p. 120.

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ARTICOLI

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Il rammentatore di leggi 167

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ARTICLES

168 Gabriele Costa

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ARTICOLI

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ARTICLES

170 Gabriele Costa

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HAINSWORTH, 1988: Omero. Odissea 4, II, cur. J.B. Hainsworth, Milano, Mondado-ri - Fondazione L. Valla, 1988.

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ARTICOLI

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HILTEBEITEL, 1999: A. HILTEBEITEL, Rethinking India’s Oral and Classical Epics. Draupadī among Rajputs, Muslims, and Dalits, Chicago - London, The University of Chicago Press, 1999.

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HILTEBEITEL, 2005: A. HILTEBEITEL, Buddhism and the Māhābharata. Boundaries and Costruction of Tradition, in «Boundaries, Dynamics and Construction of Tradi-tions in South Asia», cur. F. Squarcini, Florence, Firenze University Press, 2005, p. 107-131.

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HÖLKESKAMP, 1992 a: K.-J. HÖLKESKAMP, Written Law in Archaic Greece, in «Procee-

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172 Gabriele Costa

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R EDREVIEW OF HELLENIC LAW

ARTICLES

174 Gabriele Costa

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MAFFI, 2003: A. MAFFI, Studi recenti sul codice di Gortina, in «Dike», VI, 2003, p. 161-226.

MANFREDINI, ORSI, ANTELAMI, 1987: Plutarco. Le vite di Arato e di Artaserse, cur. M. Manfredini, D.P. Orsi, V. Antelami, Milano, Mondadori - Fondazione Lorenzo Val-la, 1987.

MASTROMARCO, 1983: Aristofane. Commedie, I, cur. G. Mastromarco, Torino, UTET, 1983.

MEIGGS, LEWIS, 1969: R. MEIGGS, D. LEWIS, A Selection of Greek Historical Inscrip-tions (to the End of the Fifth Century BC. Revised Edition), Oxford, Clarendon, 1969 (rist. 1999).

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ARTICOLI

III/2013

Il rammentatore di leggi 175

MELI, 1997: M. MELI, Antiche saghe nordiche, I-II, Milano, Mondadori, 1997.

MELI, 2010: M. MELI, Enigmi della sapienza e sapienza degli enigmi. Per la definizione di un ‘genere’ (anche) letterario, in «L’immagine riflessa», XIX, 2010, p. 37-65.

MELI, 2013: M. MELI, Dal centro al cerchio. Fra mitologia e pensiero arcaico, Pado-va, Padova University Press, 2013.

MESSINA, 1930: G. MESSINA, Der Ursprung der Magier und die Zarathustrische Reli-gion, Rome, Pontificio Istituto Biblico, 1930.

MORANI, MORANI, 1987: Eschilo. Tragedie e frammenti, cur. G. Morani, M. Morani, Torino, UTET, 1987.

MUNSKE, 1973: H.H. MUNSKE, Der germanische Rechtswortschatz im Bereich der Mis-setaten: philologische und sprachgeographische Untersuchungen. 1: Die Termi-nologie der alteren westgermanischen Rechtsquellen, Berlin, de Gruyter, 1973.

NEIDORF, 2013: L. NEIDORF, The Dating of Widsið and the Study of Germanic Antiquity, in «Neophilologus», LXXXXVII, 2013, p. 165-183.

NIEDDU, 1982: G. NIEDDU, Alfabetismo e diffusione sociale della scrittura nella Grecia arcaica e classica: pregiudizi recenti e realtà documentarie, in «Scrittura e civil-tà», VI, 1982, p. 233-261.

NIEDDU, 1984: G. NIEDDU, La metafora della memoria come scrittura e l’immagine dell’animo come deltos, in «Quaderni di Storia», XIX.1, 1984, p. 213-219.

NORR, 1998: S. NORR, To Rede and to Rown. Expression of Early Scandinavian King-ship in Written Sources, Uppsala, Uppsala University Press, 1998.

OLIVELLE, 1999 = 2003: P. OLIVELLE, The Dharmasūtras. The Law Codes of Āpastamba, Gautama, Baudhāyana, and Vasiṣṭha. Annotated Text and Translation, Oxford, Ox-ford University Press, 1999 = New Delhi, Motilal Banarsidass, 2003 (new edition).

OLIVELLE, 2004: P. OLIVELLE, Manu and the Arthaśāstra, in «Journal of Indian Philoso-phy», XXXII, 2004, p. 281-29l.

OLIVELLE, 2005: P. OLIVELLE, Manu’s Code of Law. A Critical Edition and Translation of the Mānava-Dharmaśāstra, New York, Oxford University Press, 2005.

OLIVELLE, 2012: «Reimagining Aśoka: Memory and History», cur. P. Olivelle, H.P. Ray, J. Leoshko, Delhi, Oxford University Press, 2012.

OLIVELLE, 2013: P. OLIVELLE, King, Governance and Law in Ancient India. Kauṭilya’s Arthaśāstra. A New Annotated Translation, Oxford, Oxford University Press, 2013.

OLRIK, RÆDER, 1931: «Saxo Grammaticus. Gesta Danorum», cur. J. Olrik, H. Ræder, København, Det Danske Sprog- og Litteraturselskab, 1931.

OPPERT, 1879: J. OPPERT, Le peuple et la langue des Mèdes, Paris, Maisonneuve, 1879.

PADUANO, 1982: Sofocle. Tragedie e frammenti, I, cur. G. Paduano, Torino, UTET, 1982.

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III/2013

R EDREVIEW OF HELLENIC LAW

ARTICLES

176 Gabriele Costa

PAGLIARO, BAUSANI, 1968: A. PAGLIARO, A. BAUSANI, La letteratura persiana, Firenze, Sansoni, 1968.

PAPAKONSTANTINOU, 2008: Z. PAPAKONSTANTINOU, Lawmaking and Adjudication in Ar-chaic Greece, London, Duckworth, 2008.

PASCUCCI, 1968: G. PASCUCCI, Aspetti del latino giuridico, in «Studi italiani di filologia classica», XL, 1968, p. 3-43 = Scritti scelti, I, Firenze, Università degli Studi. Istitu-to di Filologia Classica G. Pasquali, 1983, p. 311-351.

PASCUCCI, 1970: G. PASCUCCI, Diritto e Filologia, in «Atene e Roma», XIV, 1970, p. 161-173 = Scritti scelti, I, Firenze, Università degli Studi. Istituto di Filologia Clas-sica G. Pasquali, 1983, p. 353-367.

PELLOSO, 2012: C. PELLOSO, Themis e Dike in Omero. Ai primordi del diritto dei Greci, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2012.

PERIKHANIAN, 1997: A. PERIKHANIAN, The Book of a Thousand Judgements. A Sasa-nian Law-Book (Introduction, Transcription, and Translation of the Pahlavi Text, Notes, Glossary, and Indexes by A. Perikhanian, translated from Russian by N. Garsoïan), Costa Mesa (CA)-New York, Mazda - Bibliotheca Persica, 1997.

PERUZZI, 1970: E. PERUZZI, Origini di Roma, I, Firenze, Valmartina, 1970.

PERUZZI, 1973: E. PERUZZI, Origini di Roma, II, Bologna, Pàtron, 1973.

PERUZZI, 1978: E. PERUZZI, Aspetti culturali del Lazio primitivo, Firenze, Olschki, 1978.

PERUZZI, 1998: E. PERUZZI, Civiltà greca nel Lazio preromano, Firenze, Olschki, 1998.

POCCETTI, 1999: P. POCCETTI, Orale e scritto, in «Una storia della lingua latina», cur. P. Poccetti, D. Poli, C. Santini, Roma, Carocci, 1999, p. 173-211.

POLLOCK, 2005: S. POLLOCK, The Revelation of Tradition: śruti, smti, and the Sanskrit Discourse of Power, in «Boundaries, Dynamics and Construction of Traditions in South Asia», cur. F. Squarcini, Florence, Firenze University Press, 2005, p. 41-61.

PORRO, 1994: A. PORRO, Vetera Alcaica. L’esegesi di Alceo dagli Alessandrini all’età imperiale, Milano, Vita e Pensiero, 1994.

POUCET, 1989: J. POUCET, Réflexions sur l’écrit dans la Rome des premiers siècles, in «La-tomus», XLVIII, 1989, p. 285-311.

PRIVITERA, 1987: Omero. Odissea, VI, cur. G.A. Privitera, Milano, Mondadori - Fon-dazione L. Valla, 19872.

QUINN, 2000: J. QUINN, From Orality to Literacy in Medieval Iceland in «Old Icelan-dic Literature and Society», cur. M. Clunies Ross, Cambridge, Cambridge Univer-sity Press, 2000, p. 30-60.

RADSTONE, 2000: «Memory and Methodology», cur. S. Radstone, Oxford, Oxford University Press, 2000.

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ARTICOLI

III/2013

Il rammentatore di leggi 177

RAPPAPORT, 1999 = 2004: R.A. RAPPAPORT, Ritual and Religion in the Making of Hu-manity, Cambridge, Cambridge University Press, 1999 = Rito e religione nella co-struzione dell’umanità, trad. it., Padova, Edizioni Messaggero, 2004.

REGER, 1994: G. REGER, The Political History of the Kyklades: 260-200 B.C., in «His-toria», XLIII.1, 1994, p. 32-69.

RIGOPOULOS, 2010: A. RIGOPOULOS, Introduzione ai testi tradotti, in SFERRA, 2010, p. CXCII-CXCIV.

ROCHER, 1984 = 2012: L. ROCHER, Father Bouchet’s Letter on the Administration of Hindu Law, in «Studies in Dharmaśāstra», cur. R.W. Lanviere, Calcutta, Mukho-padhyay, 1984, p. 14-48 = ROCHER, 2012, p. 673-698.

ROCHER, 1993 = 2012: L. ROCHER, Law Books in an Oral Culture: The Indian Dharmaśāstras, in «Proceedings of the American Philosophical Society», CXXXVII, 1993, p. 254-267 = ROCHER, 2012, p. 103-117.

ROCHER, 1994: L. ROCHER, Orality and Textuality in the Indian Context, in «Sino-Pla-tonic Papers», XLIX, 1994, p. 1-28.

ROCHER, 2002: L. ROCHER, Jīmūtavāhana’s Dāyabhāga: The Hindu Law of Inherit-ance in Bengal, New York, Oxford University Press, 2002.

ROCHER, 2007: L. ROCHER, A Glimpse into an Orientalist’s Workshop: Sir William Jones’s Engagement with the Vivādārṇavasetu and Its Authors, in «Expanding and Merging Horizons. Contributions to South Asian and Cross-Cultural Studies in Commemoration of W. Halbfass», cur. K. Preisendanz, Wien, Österreichische Akademie Der Wissenschaften, 2007, p. 63-70.

ROCHER, 2012: Studies in Hindu Law and Dharmaśāstra, cur. D.R. Davies jr., Lon-don - New York - Delhi, Anthem Press, 2012.

RUBANOVITCH, SHAKED, c.d.s.: «Orality and Textuality in the Iranian World (Workshop, Jerusalem, 14-17 December 2008)», cur. J. Rubanovitch, S. Shaked, Leiden, Brill, in corso di stampa.

RUIJGH, 1997: C.J. RUIJGH, La date de la creation de l’alphabet grec et celle de l’épo-pée homerique, in «Bibliotheca Orientalis», LIV.5, 1997, p. 533-603.

SANCISI-WEERDENBURG, KUHRT, 1987: «Achaemenid History II. The Greek Sources», cur. H. Sancisi-Weerdenburg, A. Kuhrt, Leiden, Nederlands Instituut voor het Na-bije Oosten, 1987.

SAWYER, 1998: B. SAWYER, Viking Age Rune-stones as a Source for Legal History, in «Runeninschriften als Quellen interdisziplinärer Forschung. Abhandlungen des Vierten Internationalen Symposiums über Runen und Runeninschriften in Göttingen vom 4-9 August 1995», cur. K. Düwel, Berlin - New York, de Gruyter, 1998, p. 766-777.

SCARDIGLI, 1964: P. SCARDIGLI, Lingua e storia dei Goti, Firenze, Sansoni, 1964.

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III/2013

R EDREVIEW OF HELLENIC LAW

ARTICLES

178 Gabriele Costa

SCARDIGLI, 1977: P. SCARDIGLI, Filologia germanica 2, Firenze, Sansoni, 1977.

SCHIAVONE, 1988: A. SCHIAVONE, I saperi della città, in «Storia di Roma», I, cur. A. Momigliano, A. Schiavone, Torino, Einaudi, 1988, p. 545-574.

SCHIAVONE, 2005: A. SCHIAVONE, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, Torino, Einaudi, 2005.

SCHULMANN, 2010: Jónsbók: The Laws of Later Iceland. The Icelandic Text according to MS AM 351 fol. Skálholtsbók eldri, (with an English Translation, Introduction and Notes), cur. J. K. Schulman, Saarbrücken, AQ - Verlag, 2010.

SCOVAZZI, 1957: M. SCOVAZZI, Le origini del diritto germanico. Fonti, preistoria, dirit-to pubblico, Milano, Giuffrè, 1957.

SCOVAZZI, 1961: M. SCOVAZZI, Il diritto islandese nella Landnámabók, Milano, Giuffrè, 1961.

SCOVAZZI, 1970: M. SCOVAZZI, La diffusione delle norme di diritto germanico, in «Ri-vista di storia del diritto italiano», XLII, 1969-1970, p. 5-15 = SCOVAZZI, 1975, p. 421-431.

SCOVAZZI, 1975: M. SCOVAZZI, Scritti di storia del diritto germanico, I-II, Milano, Giuf-frè, 1975.

SEE, 1964: K. VON SEE, Altnordische Rechtwörter. Philologische Studien zur Rechts-auffassung und Rechtsgesinnung der Germanen, Tübingen, Niemeyer, 1964.

SEVERI, 2004: C. SEVERI, Il percorso e la voce. Un’antropologia della memoria, Tori-no, Einaudi, 2004.

SEVERINI, 1983: Scrittori della storia augusta, I, cur. P. Severini, Torino, UTET, 1983.

SFERRA, 2010: «Hindusimo antico. Volume primo: dalle origini vediche ai Purāṇa», cur. F. Sferra, Milano, Mondadori, 2010.

SIGURÐSSON, 2002: G. SIGURÐSSON, Túlkun Íslendingasagna í ljósi munnlegrar hefðar:Tilgáta um aðferð, Reykjavík, Stofnun Árna Magnússonar á Íslandi, 2002 = The Medieval Icelandic Saga and Oral Tradition. A Discourse of Method, Cambridge (Mass.) - London, Harvard University Press, 2004.

SINI, 1983: F. SINI, Documenti sacerdotali di Roma antica. 1. Libri e commentari, Sassari, Dessì, 1983.

SINI, 2001 a: F. SINI, Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica, Torino, Giappichelli, 2001.

SINI, 2001 b: F. SINI, Libri e commentarii nella tradizione documentaria dei grandi collegi sacerdotali romani, in «Studia et Documenta Historiae et Iuris», LXVII, 2001, p. 375-415.

SKJAERVØ, 2005: P.O. SKJAERVØ, The Achaemenids and the Avesta, in «Birth of the

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ARTICOLI

III/2013

Il rammentatore di leggi 179

Persian Empire. The Idea of Iran 1», cur. V.S. Curtis, S. Stewart, London, Tauris, 2005, p. 52-84.

SKJAERVØ, 2007: Zoroastrian Texts, translated with notes, cur. P.O. Skjaervø, Cam-bridge (Mass.), 2007.

SOUDAVAR, 2010: A. SOUDAVAR, The Formation of Achaemenid Imperial Ideology and Its Impact on the Avesta, in «The World of Achaemenid Persia: History, Art and Society in Iran and the Ancient Near East», cur. J.S. Curtis, S. Simpson, London, Tauris, 2010, p. 111-138.

SQUARCINI, 2005: «Boundaries, Dynamics and Construction of Traditions in South Asia», cur. F. Squarcini, Florence, Firenze University Press, 2005.

SQUARCINI, 2008: F. SQUARCINI, Tradition, Veda and Law. Studies on Southasian Classi-cal Intellectual Traditions, Firenze - Delhi, Società Editrice Fiorentina - Manohar, 2008.

SQUARCINI, 2010: Il trattato di Manu sulla norma (Mānavadharmaśāstra), cur. F. Squarcini, D. Cuneo, Torino, Einaudi, 2010.

SQUARCINI, 2010: F. SQUARCINI, Introduzione ai testi tradotti, in SFERRA, 2010, p. CV.

SQUARCINI, 2011: F. SQUARCINI, La logica della tolleranza di Aśoka e la genealogia di una nuova politica religiosa, a lato del mondo ellenistico, in «Politiche religiose nel mondo antico e tardoantico. Poteri e indirizzi, forme del controllo, idee e prassi di tolleranza. Atti del Convegno internazionale di studi (Firenze, 24-26 settembre 2009)», cur. G.A. Cecconi, C. Gabrielli, Bari, Edipuglia, 2011.

SQUARCINI, 2012: F. SQUARCINI, Forme della norma: contro l’eccentricità del discorso normativo sudasiatico, Firenze, SEF, 2012.

STAAL, 1961: F. STAAL, Nambudiri Veda Recitation, The Hague, Mouton, 1961.

STAAL, 1986: F. STAAL, The Fidelity of Oral Tradition and the Origins of Science, Amsterdam - Oxford - New York, North-Holland Publishing Company, 1986.

STAAL, 1989: F. STAAL, Rules Without Meaning. Ritual, Mantras and the Human Sci-ences, New York - Bern, de Gruyter, 1989.

STAUSBERG, 2004: «Zoroastrian Rituals in Context», cur. M. Stausberg, Leiden - Bos-ton, Brill, 2004.

STRONACH, 1978: F. STRONACH, Pasargadae: a Report on the Excavation Conducted by the British Inst. of Persian Studies from 1961 to 1963, Oxford, Clarendon, 1978.

SVEINSSON, 1939: Vatnsdoela saga («Íslenzk fornrit», VIII), cur. E.Ó. Sveinsson, Reykjavík, Hið íslenzka fornritafélag, 1939.

SVENBRO, 1988 = 1991: J. SVENBRO, Phrasikleia, anthropologie de la lecture en Grèce ancienne, Paris, Ed. La Découverte, 1988 = Storia della lettura nella Grecia an-tica, Roma - Bari, Laterza, 1991.

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R EDREVIEW OF HELLENIC LAW

ARTICLES

180 Gabriele Costa

THOMAS, 1992: R. THOMAS, Literacy and Orality in Ancient Greece, Cambridge, Cam-bridge University Press, 1992.

THOMAS, 1996: R. THOMAS, Written in Stone? Liberty, Equality, Orality and the Codi-fication of Law, in FOXHALL, LEWIS, 1996, p. 9-32.

THOMAS, 2005: R. THOMAS, Writing, Law, and Written Law, in GAGARIN, COHEN, 2005, p. 41-60.

TRENCKNER, 1908: V. TRENCKNER, Critical and Philological Notes to the First Chap-ter of the Milinda-Pañha (Revised and Edited, together with an Index of Word and Subjects, by D. Andersen), in «Journal of the Pali Text Society», VI, 1908, p. 102-151.

TRISTRAM, 1991: «Metrik und Medienwechsel. Metrics and Media», cur. H.L.C. Tristram, Tübingen, Narr, 1991.

VALASTRO CANALE, 2004: Isidoro di Siviglia. Etimologie o origini, I, cur. A. Valastro Canale, Torino, UTET, 2004.

VIANO, 2013: Aristotele. Politica 5, cur. C.A. Viano, Milano, Rizzoli, 2013.

VISMARA, 1987: G. VISMARA, Scritti di storia giuridica. 1. Fonti del diritto nei regni germanici, Milano, Giuffrè, 1987.

VOGT-SPIRA, 1989: «Studien zur vorliterarischen Periode im frühen Rom», cur. G. Vogt-Spira, Tübingen, Narr, 1989.

VOGT-SPIRA, 1990: «Strukturen der Mündlichkeit in der römischen Literatur», cur. G. Vogt-Spira, Tübingen, Narr, 1990.

VOGT-SPIRA, 1993: «Beiträge zur mündlichen Kultur der Romer», cur. G. Vogt-Spira, Tübingen, Narr, 1993.

VOGT-SPIRA, 2008: G. VOGT-SPIRA, Was ist Literatur in Rom? Eine antike Option der Schriftkultur, Zürich - New York - Hildesheim, Olms, 2008.

WATKINS, 1995: C. WATKINS, How to Kill a Dragon. Aspects of Indo-European Poetics, New York - Oxford, Oxford University Press, 1995.

WEBER, 1916-1917 = 1975: M. WEBER, Die Wirtschafts Ethik der Weltreligion. Hin-duismus und Buddhismus, in «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», XLI, 1916; XLII, 1917 = Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie. II. Hin-duismus und Buddhismus 2, I-III, Tübingen, Mohr, 1922-1923 (ed. or. 1920-1921; rist. 1947) = Induismo e buddismo, trad. it., Roma, Newton Compton, 1975.

WERKMÜLLER, 2007: «Worte des Recht-Wörter zur Rechtsgeschichte. Festschrift für D. Werkmüller zum 70. Geburstag», cur. S. Buchholz, H. Lück, Berlin, Schimdt, 2007.

WESSÉN, 1958: E. WESSÉN, Runstenen vid Röks kyrka, Stockholm, Almqvist & Wik-sell, 1958.

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ARTICOLI

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Il rammentatore di leggi 181

WIDENGREN, 1954: G. WIDENGREN, Stand und Aufgabe der iranischen Religionsge-schichte. 1, in «Numen», I.1, 1954, p. 16-83; 2, in «Numen», II.2, 1955, p. 47-134 = Stand und Aufgabe der iranischen Religionsgeschichte, Leiden, Brill, 1955.

WIDMARK, 1992: G. WIDMARK, Varför ristade Varin runor? Tankar kring Rökstenen, in «Saga och sed», 1992, p. 25-44.

WIDMARK, 1997: G. WIDMARK, Tolkningen som social konstruktion. Rökstenens ins-krift, in «Runor or ABC. Elva föreläsningar från ett symposium i Stockholm våren 1995», cur. S. Nyström, Stockholm, Sällskapet Runica et Mediaevalia, 1997, p. 165-175.

WILLETS, 1967: R.F. WILLETS, The Law Code of Gortyn, Berlin, de Gruyter, 1967.

WOODBINE, 1910: «Four Thirteen Century Laws Tracts», cur. G.E. Woodbine, New Haven, Yale University Press, 1910.

YANO, 2006: M. YANO, Oral and Written Transmission of the Exact Sciences in San-skrit, in «Journal of Indian Philosophy», XXXIV, 2006, p. 143-160.

YUNIS, 2003: «Written Texts and the Rise of Literate Culture in Ancient Greece», cur. H. Yunis, Cambridge, Cambridge University Press, 2003.

ZACHRISSON, 2003: T. ZACHRISSON, The Queen of the Mist and the Lord of the Moun-tain. Oral Traditions of the Landscape and Monuments in the Omberg Area of Western Östergötland, in «Current Swedish Archaeology», XI, 2003, p. 19-138.

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R EDREVIEW OF HELLENIC LAW

ARTICLES

182 Gabriele Costa

The Law-Speaker in Greek, German, Roman, Iranic and ancient Indian Law: “to remember, to hand down, perchance to write”

Abstract

The purpose of this paper is to reassess what is already known, in studies on the Greek law and history of the ancient Germanic law, about the figure of law-speaker, then outline the existence of a functionary with such social and cogni-tive role in the imperial Rome, and to identify his traces also in the Iranic and Indian ancient societies.

Keywords: Indo-European languages and cultures, orality and literacy, origins and establishment of right, Law-speaker.

Il rammentatore di leggi nel diritto greco, germanico, romano, iranico e indiano antico: ricordare, tramandare, forse scrivere

Riassunto

Scopo del presente lavoro è quello di riassestare quanto già noto, negli studi sul diritto greco e nella storia del di-ritto germanico antico, sulla figura del rammentatore di leggi, di prospettare poi l’esistenza di tale personaggio nel-la Roma imperiale e di identificarne le tracce anche nel mondo iranico e in-diano antico.

Parole chiave: lingue e culture indeuropee, oralità e scrittura, origini e fissazione del diritto, rammentatore di leggi.

Gabriele Costa

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COMITATO SCIENTIFICO / EDITORIAL BOARD

Victor Alonso Troncoso (La Coruña), Pierre Carlier (†),

Silvio Cataldi (Torino), Feliciantonio Costabile (Reggio Calabria),

Giovanna Daverio Rocchi (Milano), Luigi Gallo (Napoli),

Edward Monroe Harris (Durham), Edmond Lévy (Strasbourg),

Remo Martini (Siena), Gianfranco Purpura (Palermo), Nicolas Richer (Lyon),

Guido Schepens (Louvain), Wolfgang Schuller (Konstanz), Peter Siewert (Wien)

DIREZIONE / EDITED BY

Pietro Cobetto Ghiggia (Isernia)Ferdinando Zuccotti (Torino)

REDAZIONE / EDITORIAL STAFF

Mirko Canevaro (Edinburgh)Valentina Casella (Torino)

Gianluca Cuniberti (Torino)Barbara Maduli (Torino)Carlo Pelloso (Verona)

Federica Pennacchio (Isernia)Marcello Valente (Torino)

Rivista di Diritto Ellenico / Review of Hellenic Law

Università degli Studi del Molise Università degli Studi di Torino V. Mazzini 8 Dipartimento di Giurisprudenza 86170 Isernia (Italia) Lungo Dora Siena 100 A 10153 Torino (Italia) e-mail: [email protected]

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In copertina e frontespizio: Athena Areia

(Elaborazione grafica di Federica Pennacchio)

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