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Gregory O. Smith La comunità e lo Stato Antropologia e storia nella Marsica del Novecento Aleph editrice

Il passato nel presente

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Gregory O. Smith

La comunità e lo StatoAntropologia e storia nella Marsica del Novecento

Aleph editrice

Indice

Il passato nel presente (Francesco Della Costa)Bibliografia

IntroduzioneCapitolo I, Il contesto storicoCapitolo II, Rapporti di proprietàCapitolo III, Economie a livello localeCapitolo IV, La famiglia e la comunitàCapitolo V, Classi e stratificazione socialeCapitolo VI, La comunità e la NazioneCapitolo VII, Istituzioni religiose localiCapitolo VIII, La politicaCapitolo IX, ConclusioniPost scriptumBibliografiaNoteAppendice

TabelleMappeFigure

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Il passato nel presente

«La tradizione è opera della memoria e dell’oblio»J.L. BORGES

Antefatto (quasi) personaleQuando Gregory Smith arrivò a Celano, io non ero ancora nato. Sononato nel frattempo, mentre lui andava «sperso per tutte le vie» a chiederee a capire come vivesse quella gente, tra cui io sarei vissuto trent’anni. Equando ha discusso ad Oxford la sua tesi di dottorato in antropologia so-ciale raccontando quello che aveva visto e quello che aveva capito diquella gente, io avevo sí e no un anno. Poi Gregory è andato via, io sonorimasto, sono cresciuto, lui è tornato di tanto in tanto, non ci siamo in-contrati. Poi ho studiato antropologia come lui e ho incrociato il suonome, per caso, in una bibliografia, come lo avevo incrociato forse centovolte in piazza, in un bar, senza riconoscerlo. Il suo nome l’ho ricono-sciuto perché legato a quello del mio paese, di cui si parlava in uno stu-dio uscito in inglese, dentro una prestigiosa raccolta di saggi degli anniNovanta1. Quell’articolo non lo conosce nessuno a Celano, o quasi. Ionon lo conoscevo e ne rimasi colpito, tanto da cercarlo dovunque. Nontrascrivo l’epopea della ricerca, dei prestiti interbibliotecari, della ripro-duzione vietata (ma necessaria): quindi trovai Smith in persona, grazie ainternet, a Roma, a due passi da dove studiavo. Da allora sono passatiforse un paio d’anni, forse poco piú, e mi ritrovo a presentare la sua et-nografia. L’autore aveva, quando l’ha scritta, piú o meno la mia età diadesso e questo gioco di rifrazioni del tempo credo non sia estraneo allasua voglia di riproporre un lavoro mai pubblicato, nemmeno in inglese.E dunque non potevo non parlarne in questa prefazione che vuole ra-gionare sul tempo, sul rapporto complesso tra il passato e il presente. Ciòche mi si presenta davanti, e che si presenta davanti a chi tiene in manoquesto testo, è una rilettura prospettica di quella Celano, anzi dei mondiche quella Celano conteneva. Le cose sono cambiate, lo vedo io da ce-lanese e da apprendista studioso dei fatti sociali. Chi leggerà il testo dacelanese potrà accorgersene facilmente anche lui, come pure chi lo leg-

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gerà da studioso non faticherà a cogliere elementi di una realtà sociale,economica e culturale che è profondamente mutata anche nei piccolicentri dell’Italia meridionale. L’esperimento, forse la sfida latente in que-sta pubblicazione dopo trent’anni, sarà vedere quanto resti di attuale,quanto certi meccanismi delle relazioni interne ed esterne alla comunitàpossano trovare riscontro ancora oggi. L’intenzione primaria, però, checredo di aver colto nell’idea dell’autore, è quella di una restituzione. Ècome se Smith avesse preso qualcosa in prestito da questo paese eadesso si fosse voluto sdebitare, dopo tanti anni, perché non c’è altromodo di restare legati: dare, avere e ridare.

Un mondo inventatoPerò il suo lavoro era troppo anacronistico per essere letto, all’epoca, aCelano: metteva in luce, nella sua analisi sottile, dei meccanismi troppointerni alle strategie di costruzione e mantenimento di un certo orizzontesociale e politico. Avrebbe potuto dare fastidio o, quanto meno, non sa-rebbe stato capito. Cosí la restituzione ha dovuto aspettare trent’anni.Spero di riuscire a spiegare meglio la questione entrando nel vivo deltesto, intanto mi preme di provare ad illustrare, sinteticamente e senzache questa prefazione diventi uno stupido elogio, la specificità dell’et-nografia di Smith nel panorama degli studi britannici sull’Italia del Sud esul Mediterraneo in generale. Anche in questo ambito, in effetti, mi sem-bra di poter parlare di un certo anacronismo.

Ho già scritto che il lavoro di Smith su Celano è nato come la tesi per ilsuo dottorato di ricerca a Oxford, ma sarà il caso, adesso, di riflettere unminimo su ciò che questo volesse dire, specie alla fine degli anni Settanta;non si può non tener conto del contesto originario di questa etnografiase se ne vogliono cogliere le caratteristiche e le particolarità. Fin dal ti-tolo, Community and State in an Italian Hill Town, è riconoscibile unamatrice antropologico-sociale britannica. Innanzitutto il termine «comu-nità», assai ambiguo in effetti (Minicuci 2003: 150), è quello che gli stu-diosi anglosassoni avevano scelto per definire ciò che si trovavanodinanzi quando arrivavano nei villaggi dell’Europa del Sud. Essi veni-vano in Italia, come Maria Minicuci ha sostenuto con energia, «a ricercarele tribú cui erano abituati, a verificare la pertinenza dei loro strumentid’analisi» (ibidem: 151). La «lunga e paziente osservazione» che Lucy Mairindica come il metodo di ricerca specifico dell’antropologia sociale (Mair1980: 11), resta la regola da seguire a prescindere dal contesto etnogra-

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fico prescelto: Gregory Smith passa complessivamente piú di un anno aCelano, tra il 1977 e il 1979, vivendo tra la gente, «partecipando» della vitadelle persone. E la struttura stessa della sua monografia etnografica ri-sente fortemente del modello funzionalista, per il quale ogni aspetto diuna società risulta connesso profondamente a tutti gli altri, ed è funzionedella totalità. Se si scorre l’indice, infatti, si nota come la divisione in ca-pitoli ricalchi una certa partizione convenzionale dei temi di ricerca: lerelazioni sociali, l’economia, la famiglia, il rapporto tra le classi, la reli-gione, la politica. Si presupporrebbe di ritrovare anche qui quella «certaomogeneità di immagini» (Minicuci 2003: 152) rispetto al canone fissatodai maestri Banfield, Davis, Boissevain, che descrive «il Meridione» d’Ita-lia come:

un mondo essenzialmente rurale, fatto di piccoli villaggi, connesso con le cittàe con le campagne, stratificato e pervaso da una particolare visione del mondo,dominato da rapporti di patronage e clientelismo, in cui è forte il controllo so-ciale, dove sono presenti forme di individualismo accentuato, ma anche dirapporti di solidarietà e di conflittualità, accanto a rapporti di amicizia, di vi-cinato e di comparatico (ibidem: 154-155).

Un Meridione genericamente definito, in cui la famiglia resta l’istituzionecentrale e al suo interno il potere del maschio è indiscusso e legato al va-lore dell’onore; un Meridione italiano stereotipico ed immobile che sem-bra piú rispondere al modello della narrativa neo-realista che non ad unaosservazione diretta della realtà, ridotta, in effetti, ad un esercizio for-male dato che «quello che è vero per un villaggio può essere vero pertutti gli altri» (ibidem: 142). Si tratta, sostanzialmente di un mondo in-ventato, costretto cioè nell’angustia di un’idea predefinita.Ma leggendo Smith si nota subito un accento eterodosso. Sicuramente

nelle tecniche di investigazione etnografica, che egli si diverte, altrove, adefinire «randomising»2, e nella scelta «strettamente personale» degli in-formatori (Smith 1992: 89) egli si discosta un poco dal rigore metodolo-gico che ha contraddistinto la scuola britannica nella storia degli studiantropologici. Ma soprattutto Smith è convinto che si possa «comprenderecome è organizzata una comunità soltanto se si comprende la sua inte-grazione nello Stato-nazione» (p. 31), il che, parafrasando, significa se sicoglie la sua specificità dentro un contesto storico generale. Il Fucinoche l’antropologo conosce dai libri e dai giornali è quello povero di Fon-tamara, quello agricolo delle patate, quello politicamente attivo delle

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lotte agrarie, ma ciò che gli interessa davvero è ricostruire il rapporto traquella zona (Smith 1992: 74) e il suo contesto nazionale e per farlo in-tende studiare la portata dall’evento piú importante nella storia locale: ilprosciugamento del lago. Capire il senso che quel cambiamento epocalenella storia delle comunità che circondavano il lago non significa sol-tanto mettere in luce i cambiamenti ambientali e culturali ad esso legati,ma significa essenzialmente indagare come quelle comunità abbiano rea-gito all’allargamento degli orizzonti locali in una sfera di interessi e diprocessi storici di fatto piú vasta. Sembra che Smith abbia messo in pra-tica la lezione, non molto ascoltata, di Evans-Pritchard (1962) che ri-chiama gli antropologi ad una maggiore attenzione all’aspetto diacronicodei processi sociali, al loro contesto storico. O forse è la lezione di An-tonio Gramsci che accende, nelle pagine di Community and State un’im-magine dinamica del mondo «subalterno», collocandolo in un dislivelloche è anche, in qualche modo, necessariamente, legame e relazione conquello «egemonico». Al centro del lavoro e della riflessione di Smith, perquel che mi sembra, c’è il problema del tempo e di come la società e gliindividui ad esso si relazionino. Sin dalle primissime battute dell’intro-duzione cogliamo il focus specifico dell’autore:

Nello sguardo critico del mondo locale quest’evento di cento anni fa è ancoravisto come il fatto storico di maggior peso per la propria esperienza. E fu unfatto piuttosto ambiguo, comunque, visto che il prosciugamento rappresentaun momento in cui l’autonomia e l’autorità delle comunità marsicane vennerochiaramente adombrate da una struttura politica all’interno della quale ilmondo locale giocava soltanto un ruolo marginale (p. 27).

È l’ambiguità interpretativa di un fatto storico quello da cui scaturisce ildiscorso di Smith, e comunque la relazione che il passato intrattiene conil presente dentro e fuori la comunità. Qui si trova, forse, la specificità diquesta etnografia rispetto all’orizzonte disciplinare ed accademico in cuiè stata prodotta: seppure dentro una cornice di ricerca piuttosto comuneper l’antropologia del Mediterraneo3, quella del rapporto tra il livello dellocale e quello del nazionale, essa ne mette a problema il modello stan-dardizzato che astrae i fatti sociali e li pone su un piano squisitamentesincronico e descrittivo, magari adagiati su uno sfondo storico desuntodalla storiografia «ufficiale». Come succede, ad esempio, in Padrini e ideo-logie di Caroline White (1996), che ha studiato le dinamiche politiche neipaesi di Luco dei Marsi e Trasacco e che ha scritto il suo lavoro giusto

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negli anni in cui Smith scriveva il proprio4; in quel caso, la descrizionedelle due comunità è piuttosto schiacciata sul presente e seppure i rife-rimenti alle cause storiche di quel presente siano costanti, essi non met-tono mai in discussione la versione canonica dei fatti storici, una versioneovviamente esterna (o solo tangenziale) alla cultura locale. Verrò piú oltrea ragionare sul problema delle fonti e delle (discordi) rappresentazioni,quello che qui mi premeva di sottolineare non potrebbe meglio essereriassunto che con questa frase, presa direttamente dal testo:

La storia è già abbastanza complicata nel suo scorrere, ma lo sono ancora dipiù le interpretazioni che di essa dà chi vi si muove dentro. In questi paesi ilpassato è parte del presente ed è nell’interazione tra il passato ed il presenteche noi dobbiamo cercare degli elementi durevoli per quanto riguarda l’orga-nizzazione della comunità (p. 31).

Una storia pluraleDentro e fuoriNon posso negare l’effetto di straniamento provato leggendo in inglese,io celanese, le storie celanesi che il libro di Smith raccoglie, conserva, tra-sfigura. Una sorta di «intimità culturale» mi ha immediatamente portato asovrapporre il mio mondo con quello di carta che leggevo nel libro e asnidare le incongruenze, a cercare una qualche aderenza imperfetta.Quello che ho studiato per anni, però, mi induceva, quasi in contempo-ranea con questo sentimento immediato, a riflettere su come ogni etno-grafia racconti «verità parziali» (Clifford e Marcus 1997: 29) di quello chedescrive, perché costruita e dunque mediata da filtri linguistici, retorici,disciplinari. Troppo ovvio, ormai. Magari la novità di quel testo vecchiodi trent’anni stava proprio nel suo essere costruito di costruzioni, nel suoumile voler testimoniare ciò che diceva a se stesso Jorge Luis Borges:«Forse le storie che ho narrato sono una sola storia. Il diritto e il rovesciodi questa medaglia sono, per Dio, uguali» (Borges 2001: 51). Provo aspiegarmi, sperando, però, di non riuscirci troppo. Di non perdere, cioè,la complessità di un discorso che altrimenti potrebbe finire per esserebanale.Partiamo da un difetto di quella che Clifford ha definito l’«autorità et-

nografica» degli antropologi: finché si scriveva per un lettore che nonaveva visto, né vissuto ciò che l’etnografo ha visto e vissuto, finché l’in-formatore era impossibilitato, per un incolmabile dislivello culturale, aleggere ciò che lo straniero aveva scritto di lui e della sua gente, l’im-

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palcatura formale e classica della verità oggettiva non veniva scalfita. Mada quando:

l’Occidente non può piú presentarsi come l’unico fornitore di sapere antro-pologico, è diventato necessario immaginare un mondo di etnografia genera-lizzata. Con l’espandersi della comunicazione e delle influenze interculturali,la gente interpreta gli altri e se stessa (Clifford 1999: 36).

Non credo che la gente abbia iniziato ad interpretare se stessa e il mondosolo nel XX secolo, né si può dire che le influenze culturali dovute allacomunicazione, prima del suo «espandersi», fossero inesistenti. Quelloche è in questione, e qui arriviamo al centro del discorso di Clifford, è ilrapporto di potere che divideva il soggetto dall’oggetto, il mondo deglietnografi da quello degli «etnografati». L’«Io testimoniante» e letteraria-mente costruito di cui parla Geertz (1995: 81) rispetto a Malinowski, vienead essere ridimensionato dall’affermazione di un «io testimoniato» capacedi un esercizio di riflessività su se stesso e sulla propria cultura. Questoper dire che tra le mie mani (e tra le mani dei lettori «indigeni» di questotesto) il libro di Smith assume la dimensione di un punto di vista, rias-sume anzi l’incrocio di diversi punti di vista.Ma per lasciare il campo astratto della teoria, apriamo una delle sue pa-

gine piú vivide e poetiche.

Continuo verso il centro e dopo un’arrampicata un po’ ripida arrivo nellapiazza centrale, notevole e attraente. Qui trovo inaspettati ordine ed eleganzain palazzi con facciate ottocentesche su entrambi i fronti dello slargo. Solo ilMunicipio, in stile evidentemente fascista, rovina l’impressione di raffinata ri-spettabilità che dà la piazza. Ad un capo si trova una fontana che reca la scritta«Caput Marsorum», in memoria del tempo passato quando Celano era la ca-pitale della contea della Marsica. Sulla piazza c’è anche una delle due banchedel paese, mentre l’altra è a pochi metri, lungo una delle strade principali chead essa conduce, e tutti i negozi piú importanti si trovano nei paraggi. Diquelli che circolavano, una metà era in giro per affari e l’altra metà per svago.Alcuni andavano passeggiando a coppie per i cento metri circa della piazza,altri stavano fuori dai bar, o dentro, a chiacchierare e a giocare a carte. Altriancora erano evidentemente occupati, entravano ed uscivano dal Comune oda una delle banche, salutavano la gente quando se ne andavano. Le donnesi vedevano molto meno. La sensazione era quella di una urbanità provincialeche dava l’impressione di qualcosa di cui i locali vanno orgogliosi quando siriferiscono al paese col nome di «cittadina» (p. 34).

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Smith, appena arrivato a Celano, trova «inaspettati» l’ordine e l’eleganzadella piazza: tutto il brano è mosso da un ondivaga sensazione di mera-viglia; egli ha letto la descrizione che settant’anni prima aveva dato diquei luoghi una intellettuale inglese di passaggio per la Marsica: «c’è unmuretto basso nella Piazza, dove pezzenti e filosofi, o tutti e due in uno,sono soliti starsene in panciolle a meditare» (Mac Donnell 1992: 9). Unacerta eco, nella descrizione di quelli che a Celano si chiamano «i cani dipiazza», si ritrova anche tra le righe di Smith, ma ciò che qui salta agliocchi è l’attenzione curiosa per quel piccolo mondo in movimento. LaMac Donnell aveva descritto Celano come «una splendida rovina» che «sitiene da una parte e marcisce nel suo splendido disdegno» (ibidem): sullascorta di Augé potremmo immaginare che puntando gli occhi su quellarovina, ella percepisca «una sorta di tempo fuori dalla storia» (Augé 2004:41), faccia «esperienza del tempo, del tempo puro» (ibidem: 36). Ciò chesi agita davanti agli occhi di Smith, invece, è uno spazio abitato dalla sto-ria, dalle storie quotidiane degli uomini e delle donne, né pezzenti, néfilosofi immobili. La piazza è il luogo che polarizza la stratificazione so-ciale del paese e su cui si consuma molta parte della vita culturale dellacomunità, come l’antropologo avrebbe ben argomentato in un articolopubblicato qualche anno dopo in Italia (Smith 1985). È fin troppo ovvioche la Mac Donnell avesse in mente un modello romantico e decadentedei villaggi del Meridione d’Italia e che, in qualche modo, lo abbia ri-prodotto. Smith stesso arriva a Celano «pesantemente condizionato»(Smith 1992: 75)5 dalle letture che hanno preceduto il lavoro sul campo,ma in mezzo alla piazza di Celano sembra perdersi, si sente «chiaramenteun intruso», non riesce ad avere la cinica supponenza dell’intellettualeche «sa» quello che ha di fronte. È lui ad essere «esaminato»: uno stra-niero che guida una macchina targata «ROMA», doppiamente straniero,dunque, che suscita la curiosità dei paesani, i quali allo stesso temponon gli rivolgono la parola direttamente, ma si fanno domande tra loro.In un altro momento, e con una nuova confidenza, saprà, da quegli spet-tatori del suo primo arrivo a Celano, che lo avevano caratterizzato un’«an-datura esagerata» e «l’allungare il collo da turista» (p. 34). Solo poco dopo,appena fuori dall’ellisse ufficiale della piazza, quando Smith si addentraper le stradine del centro, inizia il dialogo con i celanesi, pur sempre,però, dentro una sensazione di spaesamento: «ero evidentemente fuoriposto». Gli uomini che incontra stanno a lavare le botti, perché è pocodopo la vendemmia, che non è andata troppo bene. Immediatamentequelli gli parlano del lago, che non c’è piú, e del lavoro nei campi, dei

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Santi Martiri e della grande festa di agosto, perché ad uno straniero Ce-lano la si raffigura cosí: cosí inizia il viaggio dell’antropologo dentro iracconti, dentro la memoria della comunità che si auto-rappresenta. Mache peso hanno quei racconti, che senso hanno quelle memorie se si di-scostano, e di molto, dal racconto ufficiale, dalla memoria storica delpaese? Il lavoro di ricerca di Smith è meticoloso, all’inizio: la mattina lapassa negli archivi di Comune e Provincia a scartabellare i documenti ele fonti ufficiali, il pomeriggio e la sera gironzola per il paese ad intervi-stare le persone, grazie all’introduzione di personaggi popolari a Celanocome Augusto Cantelmi o Ercole Di Renzo. Con l’andare avanti, però, sirende conto che c’è «un enorme divario» (ibidem: 90) tra quello che lepersone gli raccontano e quello che trova scritto nei libri. Questa di-screpanza delle fonti (p. 37) segnala di fatto quella «mancanza di ade-renza tra i due mondi» che sarà il focus di tutta la ricerca:

L’idea centrale del lavoro che state per leggere è che esistono due mondi con-tenuti nel singolo mondo della comunità locale. Stanno insieme il mondo lo-cale e quello nazionale, separatamente per molti aspetti, fusi per alcuni altri[…]. A volte la distanza è reale, come nel caso della regolazione della proprietàfondiaria, dove il sistema locale e quello ufficiale confliggono. A volte quelladistanza è invece ideologica, come nell’ambito della stratificazione sociale,dove possedere attributi associati alla cultura nazionale dà diritto a rivendicaremaggiori status e autorità (p. 38).

In effetti, per quello che qui mi interessa, la questione può essere ricon-dotta alla interazione di due modelli interpretativi del passato, e conse-guentemente del presente, ad una sorta di «memoria divisa» per utilizzarela celebre espressione, un po’ abusata, di Contini (1997): «l’interpreta-zione della storia è un processo continuo» (p. 39). E gli elementi di que-sto processo dinamico, per quanto abbiano matrici diverse, sonocomunque interni alla comunità, metabolizzati ed assunti dalla culturalocale: possono ricalcare fratture sociali, come quella tra l’élite, «la cuiprincipale peculiarità è l’accesso possibile alla cultura nazionale», e «ilpopolo», che considera «superiore» la visione del mondo, «dei fatti in ge-nerale» (p. 39), degli appartenenti all’élite rispetto alla propria. Smith de-finisce questo rapporto come la «asimmetria della conoscenza» (p. 157)su cui si fonda l’autorità, ma ci avverte pure che «in realtà la situazioneè molto piú complessa di cosí» (p. 39), non si possono infatti discernerein maniera netta e oppositiva due «discorsi» su Celano, due versioni dello

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stesso racconto: piuttosto dovremmo pensare ad una vertigine di storie,a dei rimbalzi di narrazioni da cogliere nella loro relazionalità e nei lorospecifici usi.La questione dei «braccianti», su cui l’autore ha molto insistito, è rive-

latrice di un gioco di posizionamenti politici e culturali che hanno avutoed hanno un significato particolare nel costruire il passato della Riformaagraria e il futuro della classe dirigente nella comunità. Per parte mia vo-glio rilevare una singolare risonanza trovata in un articolo di Pietro Cle-mente che riporta un caso analogo a quello studiato da Gregory Smith aCelano. Le lotte agrarie6 nel Fucino furono organizzate dai dirigenti delPartito comunista locale, molti dei quali studenti universitari (p. 139), eriuscirono a coinvolgere un gran numero di contadini, che avevano in-teresse, legittimamente, ad ottenere vantaggi dall’esproprio della terra allatifondista Torlonia, dalla fine del regime vessatorio in cui avevano vis-suto per decenni e dalla redistribuzione delle risorse fondiarie. Ma la re-torica politica del Partito e del Sindacato, della stampa di sinistra e deglistorici locali vicini al movimento, operò una ideologizzazione dei conta-dini che portò alla creazione di una classe sociale, consapevole e com-patta, del tutto assente nel panorama celanese e marsicano, quella dei«braccianti».

Il termine «bracciante» conferiva una nuova dignità ai cafoni, e conteneva sfu-mature di significato che sembra fossero finalizzate ad infondere nuova fidu-cia nella capacità delle masse di organizzarsi in azioni popolari. «Cafoni» è iltermine che i loro oppositori usavano per gli scioperanti, per definirli comepersone che «non capiscono niente» e cioè incapaci di percepire i propri inte-ressi collettivi e perseguirli in maniera efficace. I braccianti, invece, sono as-sociati con i momenti della storia italiana in cui le classi contadine furonocapaci di comprendere la loro posizione svantaggiata e mettere in atto strate-gie per trasformare quella condizione. Per questo sembra che i dirigenti localicercarono di sostenere e nobilitare la causa alterando l’etichetta linguistica daapplicare ai loro sostenitori (p. 208).

Etichetta a cui Smith, però, fa fatica a trovare riscontro nei racconti chele persone gli fanno di quegli anni:

Oggi i soli che usano ancora quella definizione sono quelli che, allora, l’ave-vano pensata, non quelli a cui era stata imposta, i quali, probabilmente, nonavevano potuto apprezzare le sottigliezze che quel nome esprimeva. Nell’usolocale, la parola ha implicazioni piuttosto diverse e alla fine un contadino,

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sebbene povero e svantaggiato, gode di una dignità morale che non è rico-nosciuta, invece, ad un bracciante. Perciò i reali sostenitori delle lotte agrarie,probabilmente, si vedevano come semplici contadini i cui vantaggi e svan-taggi erano leggermente diversi da quelli che i capi volevano affermare (p.208).

Eppure su l’Unità, che denuncia il drammatico e misterioso «eccidio diCelano» del 30 aprile 19507, si legge: «Due braccianti sono morti», assas-sinati dalla mano armata del «fascismo agrario protetto dal governo»8. Laricostruzione che ne fa il quotidiano comunista ha, ovviamente, una fortecoloritura politica, parla di una «cieca vendetta di classe» e non perdel’occasione per attaccare violentemente la maggioranza democristiana: ilgiorno dei funerali molti esponenti di spicco dell’opposizione erano pre-senti, stretti intorno al lutto del paese, ci fu persino un comizio di Giu-seppe Di Vittorio, segretario generale della Cgil. Celano, salita alla ribalta,sarebbe diventato il teatro di uno scontro politico nazionale, nel quale siaffrontavano due modelli ideologici opposti che interpretavano la Storiain modo coerente con i propri fini. Con questo non intendo certo dire,che non fosse giusto, eticamente, stare dalla parte delle vittime di unaviolenza insensata, ma che quella parte non coincideva necessariamentecon una posizione politica. I due uomini morti, Paris e Berardicurti, at-tendevano i risultati della Commissione per il collocamento, riunita nelpalazzo comunale: «Si stavano definendo i nomi di coloro che avrebberodovuto lavorare per turni, in seguito alla conquista di 250 mila giornatelavorative a carico di Torlonia»9. Probabilmente è vero che chi sparòaveva come bersaglio Giancarlo Cantelmi, giovane segretario del Partitocomunista celanese, ma di fatto i due caduti non avevano un ruolo attivonell’organizzazione politica delle lotte. Eppure sui loro corpi si combattéuna battaglia politica memorabile: la loro morte segnò una frattura, omeglio inserí il la realtà locale dentro la grande frattura che divideva ilmondo. Nelle sue memorie Luigi Pintor, che all’epoca dei fatti scrivevaper l’Unità e in quei giorni era stato inviato a Celano, ricorda l’avveni-mento come uno di quelli che avevano segnato la propria consapevo-lezza politica, la propria appartenenza:

Era semplice e giusto stare da una parte. Raggiunsi un giorno con mezzi di for-tuna una campagna dove due braccianti erano morti poche ore prima uccisidal fuoco della polizia, con brutalità frequente in quel tempo. In una stanzasimile a una grotta imbiancata i corpi erano vegliati da donne in pianto, av-volte in scialli neri come le mie zie e cugine sarde. Non ci fu per me alcuna

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differenza tra quello spettacolo e la memoria ancora viva della guerra, nessunadifferenza tra i colpevoli altolocati di quel delitto di paese e la filosofia del pri-vilegio che aveva incendiato il mondo. Non era quello un episodio ma unsimbolo. Ci sono due mondi, quei morti appartenevano al piú degno ed eranomiei fratelli (Pintor 2004: 71-72).

Mi sembra un elemento emblematico di quello che Smith sostiene in tuttoil libro: qui la scena ha i tratti tipici del locale, del folclorico quasi. Èfuori-tempo, anacronistica, eppure si inscrive, sulla pagina, dentro i mec-canismi piú attuali della grande Storia nazionale e mondiale. Le vittime,ma piú in generale i contadini, diventano il simbolo eroico di un’idea, iprotagonisti di una «grande narrazione» che li rende, dall’esterno, qual-cosa che non sono, soggetti di un canovaccio che non hanno scritto.È un po’ ciò che succede, in quello stesso periodo, nelle campagne se-

nesi. Pietro Clemente ha sintetizzato il fenomeno cosí: «la dimensionescritta tende a nascondere la specificità contadina per privilegiare unadimensione rivendicativa plasmata sul modello operaio» (Clemente 1986:113). È ovvio, comunque, che una parte dei contadini che avevano presoparte alle lotte per la terra si riconosceva all’epoca nel modello «operaio»e ideologico che gli veniva proposto, il che aveva anche un significatopreciso nel posizionamento sociale all’interno della comunità e politiconella rivendicazione delle risorse. D’altro canto la Riforma democristianaparlò di «coltivatori diretti», inventando una nuova categoria economicache ricalcava, in termini sostanziali, esattamente la situazione mezzadrileprecedente, nella quale ogni coltivatore si considerava già proprietariodella terra che coltivava, tanto che poteva venderla o lasciarla in ereditàai propri figli (Smith 1992: 80). Non per questo però i contadini non ac-cettarono la nuova veste di «coltivatori diretti» che assicurava loro i dirittiformali sulla terra che già possedevano di fatto. Qual era la realtà? Pos-siamo dire, ancora con Clemente, che:

sono possibili tre livelli di «realtà» storiografica: la dimensione mezzadrile «iuxtapropria principia»; la dimensione in cui i contadini sindacalizzati si «pensano»secondo concetti della tradizione operaia; quella in cui gli storici che seguonouna tradizione storiografica «operaia» pensano i contadini secondo modellioperai (Clemente 1986: 114).

In effetti i tre livelli si articolano mostrando l’articolazione continua e di-namica che esiste tra quelli che Smith chiama «l’unità nazionale» e «il

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mondo locale», al punto che la percezione di quest’ultimo viene «pro-fondamente influenzata da quella struttura di potere nella quale giocaun ruolo marginale, ma assai importante» (p. 64). Non è una questionedi discernere ciò che è dentro e ciò che è fuori la comunità, ma di ca-pire in che modo le due dimensioni si combinino nella cultura locale.

Altre finzioniMa voglio portare un altro esempio di quanto sia complesso l’intrecciodi storie che disegna il volto di un paese come Celano. Un altro fattostorico, che portò il paese nelle pagina di cronaca dei giornali nazionalialla fine del 1923 e che ha continuato per anni ad essere rilavorato dallamemoria pubblica: si tratta del linciaggio di un ladro, tale FrancescoTomei soprannominato «i Pelus»10, che aveva osato rubare le urne checonservano le reliquie dei Santi Martiri, i santi patroni. Ovviamente Smithse ne occupa come di un fatto importante per comprendere il rapportotra la religiosità celanese e la coesione sociale della comunità, ma indi-rettamente ne riporta la stratificazione retorica e narrativa di cui è la base.L’omicidio di folla, «il caso Tomei», fece scandalo e destò scalpore nelcircondario e in tutta Italia, tanto che nel 1938 il resoconto del fatto edegli sviluppi giudiziari che ne seguirono fu pubblicato nella collana«Processi celebri» dell’editore Corbaccio di Milano, e riscosse un certosuccesso editoriale. Il titolo del volume, il cui autore era un avvocato diAvezzano11, sintetizzava la narrazione dell’evento storico e cristallizzaval’immagine della collettività celanese: «La folla criminale». Ovviamenteuna simile immagine non poteva essere accettata passivamente dai cela-nesi. Una memoria pubblicata come corredo alla ristampa12 di quel li-bretto, racchiude il senso di offesa che quel titolo suscitò in molti aCelano:

Ricordo che il libro apparve nell’edicola della stazione ferroviaria di Avezzanonel novembre 1938. Frequentavo io, allora, la seconda classe ginnasiale delLiceo «A.Torlonia» di Avezzano. Il libro fu per tutti noi studenti una sorpresapoiché tutti conoscevamo la vicenda in esso rievocata: la storia di Tomei Fran-cesco detto «I Peluse». Ma il titolo ci irritò e suscitò la reazione dei piú grandiin mezzo a noi, i quali ci organizzarono (io avevo dodici anni) e ci portarono,una sera, all’uscita da scuola, a protestare sotto lo studio dell’Avv. Falcone alcanto di una canzone che ne parodiava una del regime fascista, allora impe-rante: «Se non ci conoscete, guardateci dall’alto. Noi siamo i componenti dellafolla criminale». Volevamo cosí dire a tutti che non era giusto criminalizzareun’intera popolazione. I celanesi avevano sofferto abbastanza per quel tristo

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misfatto, nel lasso di tempo che va dalla fine di dicembre del 1923 sino a quelmomento. Il delitto Tomei, gravissimo sotto il profilo del movente e per le sueaberranti modalità, aveva creato una pessima nomea per i celanesi. Ovunquec’era un atteggiamento di ripulsa verso di loro, come se fossero degli appe-stati (Cantelmi 2005).

A questa «testimonianza pro veritate» si può accostare il giudizio di unoscrittore e storico locale, Ercole Di Renzo, che scrisse, tempo fa, una cro-naca dell’avvenimento e del suo seguito giudiziario proprio volta a «sfa-tare l’assurda leggenda d’una Celano popolata da una folla criminale,accecata da sacri furori degni del medioevo piú oscurantista»13:

tanta storia, falsata e negativa, [quell’avvenimento] ha fatto rimbalzare, peroltre mezzo secolo, e che continua ad imperversare, su Celano e sui celanesi,nel nostro centro, nella Marsica, nella provincia e, si può ben dire, in ogniparte d’Italia. Un episodio raccapricciante, un atto di condannabilissima cri-minalità che, però, costituisce errore ed ingiustizia quando, ad ogni costo (enon soltanto per mero gusto campanilistico) lo si vuole generalizzare, impri-mendo ad una intera popolazione un marchio permanente di infamia, unanomèa poco edificante, una forma di delinquenza collettiva che davvero nonle competono. Per questo abbiamo voluto riportare la realtà storica e i detta-gli dell’avvenimento di quella lontana sera del dicembre del 1923 (Di Renzo1987: 41).

Entrambe le fonti hanno come scopo la verità, intesa, però, come rimo-dellamento di una memoria negativa, come riabilitazione di una identitàdistorta. Ma è possibile risalire alla «realtà storica»? Qualcosa del generedovrebbe essere stato il compito delle forze dell’ordine e della magistra-tura, che ricostruirono l’accaduto nei verbali: Smith li ha letti e ne dàconto nel testo, ma, poi, nel raccontare la vicenda, segue la leggendapopolare. Anzi riesce ad avviluppare entrambe le versioni nello stessoracconto.Secondo i verbali ufficiali, i Carabinieri ricevettero una lettera anonima

che, il mattino dopo il furto, svelava il suo nascondiglio, e semplicementeprocedettero a fermarlo e ad arrestarlo. La versione popolare è piú ela-borata. Secondo quest’ultima, il crimine venne scoperto la mattina pre-sto da un sacrestano, che iniziò a suonare le campane e a dare l’allarmegenerale. I paesani accorsero subito e vennero informati del sacrilegio.Anche secondo questa versione ci fu un soffiata anonima riguardo al na-scondiglio del ladro, e i celanesi oltraggiati scesero tutti insieme a cer-

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carlo. Quello si svegliò giusto in tempo per sentirli arrivare, e scappòdalla stalla [dove aveva passato la notte]: lo videro buttarsi a ovest e glicorsero dietro, ma era già troppo lontano, tanto da sembrare ormai ir-raggiungibile. Quando raggiunse la fonte miracolosa che era sgorgata nelluogo dell’uccisione dei Martiri, però, dovette attraversare un ruscellettoche arriva fino al Fucino e che, come il ladro si avvicinò, prese a gon-fiarsi sempre piú, tanto che gli fu impossibile attraversarlo. Così la suafuga venne bloccata e la folla riuscì a catturarlo. Secondo entrambi i rac-conti, Tomei fu arrestato e imprigionato nel carcere del paese. Le urnevennero riportate in chiesa, e i resti dei santi risistemati. La folla volevacelebrare la restituzione e così la banda si riunì in piazza per suonare unatrionfante Marcia Reale, ma per molti questo non bastava: volevano ven-detta immediata. Così la banda marciò giú14 per le strade dalla piazza allagalera seguita da gente inferocita, che chiedevano che il ladro fosse con-segnato a loro. I carabinieri si rifiutarono, e così quelli assalirono la pri-gione, disarmarono i carabinieri e si impadronirono del prigioniero. Lotrascinarono fuori dalla cella, nella strada, e gli spaccarono la testa conun’ascia. Poi venne trascinato per i piedi in piazza, appeso a testa in giúad una ringhiera di metallo, cosparso di petrolio ed incendiato15.Nella narrazione visionaria che Smith ha raccolto dalle voci dei celanesi,

quella che i celanesi si sono tramandati per anni, la giustizia celeste in-terviene miracolosamente per punire il reo: la mano dell’uomo non puòfare altro che mettere in atto, con solerzia e solennità, il rituale riparatore.E l’antropologo non può far altro che registrare anche questo livello in-terpretativo: quello che Tomei aveva fatto era «il piú grave insulto im-maginabile contro la comunità», di cui i Santi sono, in un certo senso,l’ipostasi trascendente, per questo, nel giudizio vivo dei paesani offesi «lareazione era prevedibile e secondo la maggioranza persino giustificabile»(p. 171). D’altra parte l’accaduto si può spiegare anche su un altro piano,piú materiale: «I Pelus era un famoso brigante, e la sua azione culminanteaveva dato alla gente l’occasione di vendicarsi delle angherie a lungo su-bite» (p. 171). Quali che siano le giustificazioni che i celanesi si diedero,quali che sia la loro verità, l’intento assolutorio di queste, in un certosenso ha avuto un qualche effetto in termini di memoria collettiva: oggiquel fatto viene ancora in qualche modo connesso, come si è visto, conun attentato all’identità celanese. La nomea che la comunità si è guada-gnata con quel crimine, è sempre stata avvicinata ad una accusa ingiustadi chi non riusciva a comprendere davvero la profonda devozione dei ce-lanesi verso i propri patroni, di chi non può condividere il loro indiscu-

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tibile prepotente orgoglio. Un’immagine di tutto questo la ritroviamo poe-ticamente raffigurata nel romanzo di Renzo Paris, Ultimi dispacci dellanotte (1999). Lo scrittore, di origini celanesi, per il suo romanzo ha in-trecciato, come egli stesso ammette («sono entrato nelle biblioteche ro-mane per leggere gli articoli sul caso Tomei», Paris 1999: 12), le fontiscritte con la testimonianza orale di sua madre, con la memoria delle zie(«mia zia Genoveffa seppe indicarmi l’anno e, facendo una gran fatica ri-costruí il mese. Si era sposata proprio in quell’inverno, perciò il ricordonon si era cancellato», ibidem), preso dalla volontà di «collocare storica-mente l’accaduto». E infatti il suo è anche un «romanzo storico», in cui lecircostanze sembrano mantenere una certa coerenza cronologica e i per-sonaggi ricalcare quelli «reali». Ma al centro dello scritto, in ogni sua pa-gina, c’è la memoria del racconto materno:

me lo raccontava controvoglia, davanti al camino acceso di un borgo del Fu-cino, nei primi anni Cinquanta. Le avevo chiesto che cosa volesse dire: «Ti fa-remo come al Peluso», una minaccia che tra noi ragazzi provocava un silenzioagghiacciante. Mia madre allora riassumeva l’accaduto in poche parole e su-bito correva a raccontarmi un’altra favola, quella dell’Uccellin Belverde oquella dove un bambino era finito dentro un panno che una gru trasportavain un cielo nuvoloso. Solo piú tardi, quando pensava che fossi cresciuto, ar-ricchiva la storia del Peluso con piú personaggi. Sudavo, bevevo le parole dimia madre come una verità assoluta (Paris 1999: 11-12).

Lo scrittore aggiunge un nuovo punto di vista sulla vicenda: è evidenteche Paris ha raccolto da sua madre la storia, senza i giudizi politici delDi Renzo, la fonte da cui trae la maggior parte delle informazioni, o sto-rici di Cantelmi, ha ricevuto un racconto (una «verità») che, di fatto, nonproblematizza moralmente l’accaduto, ma lo ammette entro un orizzonteculturale che sfugge a molti che hanno scritto su quella fine di dicembredel ‘23. Eppure leggendo il romanzo si può cogliere ancora un’altra sfu-matura, si ascolta una voce da una posizione diversa. L’intento di Paris,che ha lasciato Celano adolescente, nel ri-raccontare quella storia antica,non è certo quello di stabilire la verità; non gli basta nemmeno licen-ziare la questione con la scusa del fanatismo religioso, come invece bastaall’avvocato Falcone16. Ciò che interessa Paris è l’aspetto antropologicodell’accaduto, seppure su un piano diverso da quello su cui si posizionaSmith: lo scrittore in realtà accentua i risvolti piú oscuri di un delitto cheha il sapore del rituale pagano, che porta alla luce del giorno «gli ultimi

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dispacci della notte» dei tempi. Celano è per lui il luogo in cui «soprav-vivono» le culture ancestrali di antiche etnie, filtrate attraverso il cristia-nesimo e la modernità. Essere di Celano significa per Paris «far parte diuna tribú, di un’antica etnia» (Paris 1999: 44); i celanesi, di fronte al sa-crilegio di un forestiero hanno il terrore superstizioso di una punizionedei santi patroni: «Quei cannibali erano collegati ai culti pagani che ri-guardavano l’acqua e la luce. Che cosa sarebbe diventata Celano sen-z’acqua? Ecco perché volevano sgozzare i ladri come si sgozza un maiale»(ibidem: 20). Alla fine «Il popolo di Celano ha sacrificato ai suoi tre totem,i Santi Martiri, il Peluso, che ha rubato le urne dorate» (ibidem: 44). Trai personaggi che spiccano nella vicenda romanzesca, tutti estranei spet-tatori del linciaggio e i suoi materiali esecutori c’è l’abisso dei millenni,un salto temporale e culturale incolmabile, un vuoto di comunicabilità.Se nell’etnografia di Smith il passato dialoga con il presente, in modoche l’uno modelli l’altro, nel romanzo di Paris le due dimensioni restanoirrimediabilmente altre, come a dire che il nucleo forte di un’identità nonpuò essere contaminato dal tempo, può essere solo mascherato: il suoracconto serve a raccoglierlo e a farlo riaffiorare. Si tratta, ovviamente, diun’altra verità.

È interessante, comunque, segnalare, a conclusione, che nessuno pagòper quel delitto efferato: nella loro verità i magistrati stettero bene attentia non inimicarsi nessuno dei potenti, a sottolineare l’impegno investiga-tivo (benché vano) dei Carabinieri e della Milizia, a rilevare la tempesti-vità del Segretario del Fascio nel consegnare la lettera anonima a luirecapitata nelle mani delle autorità di polizia, a scagionare il parroco e inotabili (i cittadini piú «tranquilli») da una possibile contaminazione conla bestialità di quella folla. Vennero processati una ventina di uomini traquelli piú attivi nella rivolta, accusati di «violenza e minaccia con armaverso i RR.CC.» prima ancora che di omicidio, sevizie e vilipendio al ca-davere. Ma il 9 giugno del 1925 tutti gli imputati furono prosciolti, pernon aver commesso il fatto: riuscirono tutti a far credere di avere un alibi.E la Giustizia fu stranamente celere a propendere per una vaga colpe-volezza collettiva. Fu quella la versione dei fatti utilizzata in concreto.

Rappresentazioni e fatti socialiPer dirla con Paul Rabinow, che segue, in questo, Michel Foucault, «lerappresentazioni […] servono come mezzi per dare un senso ai mondi

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della vita (che esse contribuiscono a costituire), di conseguenza hannofunzioni differenti» (Rabinow 1997: 320). Non conta, cioè, tanto la veritào la falsità di una storia, ma l’«effetto» che essa produce sul piano sociale,quello a cui essa serve dentro l’orizzonte culturale in coerenza col qualeviene prodotta. Insomma «le rappresentazioni sono fatti sociali». Leggendol’etnografia di Smith ci appare evidente che le parti in causa, i gruppi so-ciali, le fazioni politiche, le comunità degli intellettuali, le classi, gli indi-vidui, lavorino quotidianamente sul proprio passato e su quellodell’insieme a cui appartengono per definire se stessi, per legittimare lapropria esistenza sociale nel presente, magari in opposizione ad altri pas-sati. Dunque tutti siamo impegnati a fare i conti, in qualche modo e perscopi diversi, con la memoria, la «capacità di risalire il tempo» (Ricœur2004: 53), che non si muove, però, liberamente, ma dentro precisi con-testi culturali. Clemente considera la memoria come la «dimensione cul-turale del ricordare» (inteso dal punto di vista neurologico) (Clemente1986: 116), mentre Fabietti e Matera ci ricordano che essa è un «ingre-diente basilare dell’identità» (1999: 16):

l’identità ha origine da processi di selezione e rimozione della storia; quindisi perpetua riproducendo o riformulando se stessa, per via di meccanismi chesi possono individuare a partire dalle rappresentazioni culturali tramandate (lamemoria collettiva) che entrano in rapporto dialettico con la realtà (ibidem:17).

Che rapporto hanno quelle rappresentazioni con «la realtà»? Questo è unproblema filosofico assai complesso, che qui non proverò nemmeno adaccennare nei suoi aspetti piú teorici: quello che mi interessa, per restareall’immagine di Celano che viene fuori dalle pagine di Smith, è soltantoprovare a riflettere su come essa sia il frutto di molte altre immagini, al-trettanto costruite, finzionali. Seguendo Ricœur è necessario sostituire al-l’idea di una memoria come traccia, come impronta che il passatorestituisce in qualche modo al presente, un’idea di memoria come «testi-monianza», o come «rappresentanza», perché venga introdotta nel di-scorso la dimensione narrativa del linguaggio (Ricœur 2004: 14), perchési esprima «la miscela opaca di ricordo e finzione nella ricostruzione delpassato» (ibidem: 17). È difficile, se non impossibile, decidere per «lo sta-tuto della verità-fedeltà della memoria e, di conseguenza, della storia»(ibidem: 18-19): di fronte alla testimonianza, «la questione della verità, in-fatti, è diventata quella della veracità; al limite, si può sempre opporre

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una testimonianza ad un’altra» (ibidem: 19). In effetti, «l’opposizione vero-falso è al tempo stesso anche un’opposizione fiducia-sospetto», crederea qualcosa significa credere a qualcuno, dunque, posizionarsi in una re-lazione. E questa relazione, di solito, è funzionale ad uno scopo: le sto-rie che ci raccontiamo, quelle che ci raccontano e a cui crediamo,l’esistenza dei braccianti nel Fucino o la volontà, miracolisticamente ma-nifestata, dei Santi Martiri di punire l’empio sacrilego, vengono accettatee credute «vere» dentro un preciso orizzonte che può essere, ideologico,religioso, culturale. Non importa se nel primo caso sia un’élite a raccon-tarla e nel secondo siano gli strati piú bassi della comunità. Quello checi interessa è l’uso politico ed identitario che sia l’élite che il popolo fannodel passato, della memoria. Per questo Smith ha messo al centro dellapropria ricerca etnografica il prosciugamento del Fucino, «evento di me-moria» che catalizza molte interpretazioni ambivalenti (Smith 1992: 76),molte diverse storie (sia scritte che orali) e che, in questo modo, mani-festa anche le diverse appartenenze, le diverse posizioni con i relativi in-teressi (è quello il momento in cui interessi diversi da quelli dellacomunità locale, e afferenti alla sfera nazionale, vengono ad introdursinella zona). Come ci ha insegnato la storia orale, si deve dare grandeimportanza alle serie di

eventi locali che sono stati utilizzati [a vari livelli] come riferimento sia realeche simbolico, intorno ai quali è stata ripensata la storia passata e dei quali cisi è serviti per costruire quella futura. Comprendere e svelare i criteri di sele-zione e di ricomposizione degli eventi consente, pertanto, di capire l’uso chedel passato viene fatto sia a livello individuale che collettivo (Contini e Mar-tini 1993: 66).

Le identità collettive sono «il frutto della capacità di determinati gruppi so-ciali di aggregare consenso intorno a un’interpretazione del passato cheviene a costituire un paradigma comune per la maggior parte della po-polazione» (ibidem: 70) e a me sembra sia proprio quello che ha foto-grafato il lavoro di Smith: il presente, anche a Celano, emerge dallatensione continua tra modelli opposti che lottano per «egemonizzare» ilpassato.Per questo è necessario mantenere alta la vigilanza critica quando si ha

a che fare con i fatti sociali e con le loro rappresentazioni: per Rabinowsi tratta di «mantenere una posizione oppositiva, sospettosa verso i po-teri sovrani, le verità universali, l’eccessiva relativizzazione, l’autenticità

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locale, i vari moralismi»; il suo modello è quello di una comprensione «so-spettosa verso le proprie tendenze imperiali» (Rabinow 1997: 321). Sitratta di un sospetto che Clifford ha definito «ermeneutico» (Clifford 1999:72).Personalmente preferisco adottare un profilo meno «oppositivo», che

poi mi sembra sia quello di Gregory Smith. Come dice Clemente, ancorarispetto ai mezzadri senesi, sembra che essi stessi «a livello delle struttureorganizzate si pensassero dentro categorie operaie e che gli storici ab-biano seguito e riprodotto questo modello» (Clemente 1986: 113), ma «glielementi locali non sono soltanto dell’ordine delle strutture sociali e il si-gnificato che gli attori sociali attribuiscono alle loro azioni è assai im-portante» (Smith 1992: 80). L’«inchiesta orale» e piú in generale la«dimensione antropologica» possono tornare utili, in questo ambito, perprovare a risolvere le contraddizioni, o quanto meno a guardarle in mododiverso. Combinare le fonti storiografiche ufficiali, con le osservazioni dicampo può essere, secondo Smith, un «critico complemento», anzi puòfornire «non solo una estensione dell’analisi storica, ma anche le basi perriscrivere capitoli importanti della storia locale» (Smith 1992: 88). L’an-tropologo si fa storico critico, non giudice super partes, ma impegnato an-ch’egli nel processo di costruzione di una delle storie possibili su Celano,di uno dei risvolti della medaglia di Borges. Nel rapporto dialogico tra luie l’informatore circolano narrazioni e memorie che confluiscono poi nel-l’etnografia, la quale risulta non dalla somma, ma dalla moltiplicazionedei punti di vista. E quello di arrivo non è che il punto di una nuova po-tenziale partenza interpretativa: io sono qui a scrivere una storia di Smithche ha scritto una storia di quelle che ha letto e ascoltato. «Ma Celanoqual è veramente?» qualcuno si potrebbe chiedere. «Ci sarà pure una Ce-lano reale, fuori da queste pagine!». Certo, sarebbe sciocco continuare afar finta che manchi un referente reale a tutta questa vertigine di discorsie di narrazioni. Gli scettici e i relativisti radicali, a riguardo, hanno fattouna gran confusione: per cogliere la molteplicità delle rappresentazionihanno frammentato il contesto, fino a perderlo di vista (cfr. Ginzburg2006: 266). Nel quadro sinottico e sintetico di tutti i racconti su Celano,la comunità resta, e resta come «comunità narrativa», per utilizzareun’espressione di Jedlowski che mi piace molto: sono proprio «le prati-che narrative [che] creano la comunità di coloro fra cui circolano gli stessiracconti, che condividono le medesime storie» e che, d’altra parte, rifiu-tano «i racconti che non collimano con il [loro] patrimonio codificato» (Je-dlowski 2009: 34-35). Si tratta, a legger l’etnografia di Smith, di una

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comunità narrativa che al suo interno ne ha delle altre, portatrici di nar-razioni diverse che però afferiscono allo stesso contesto, anche quandoconfliggono.La complessità non può coincidere con una eccessiva segmentazione

del reale, che significa eccessiva astrazione: «una maggiore consapevo-lezza della dimensione narrativa non implica un’attenuazione delle pos-sibilità conoscitive della storiografia [il che può valere senz’altro ancheper l’etnografia] ma, al contrario, una loro intensificazione» (Ginzburg2006: 308). Invece che cercare la convergenza tra i diversi tipi di narra-zione sul piano della fiction, vuol dire Carlo Ginzburg, lo si dovrebbe faresul piano della conoscenza. La pluralità delle verità deve tradursi in pos-sibilità, se si vuole comprendere meglio quello che gli uomini fanno o di-cono di fare. Forse cosí, alla fine, davvero le molteplici storie potrebberoessere ricomprese come varianti di un’unica storia.

Utilizzare questi paradossi non è un gioco retorico, ma, contro le interpreta-zioni totalizzanti, sottolinea la riproposizione di un punto di vista, della con-sapevole relativizzazione [quella eccessiva è altrettanto totalizzante], dellapossibilità di variare e moltiplicare euristicamente i punti di vista per arric-chire una conoscenza che non si pretenda vera, ma sempre solo un po’ piúvera (Clemente 1986: 114).

E forse quando avremo letto, dopo trent’anni, quest’antropologo ameri-cano, formatosi ad Oxford, la storia di Celano sarà un po’ piú vera.

Ringrazio Monica Fazzolari, che ha collaborato con me alla traduzionedell’originale dall’inglese.

FRANCESCO DELLA COSTA

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