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Rubbettino Peccati di lingua Le 100 parole italiane del Gusto

I mostaccioli. Un dolce antico dal gusto “nuovo”

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Rubbettino

Peccati di linguaLe 100 parole italiane del Gusto

Peccati di linguaLe 100 parole del gusto italiano

a cura di Massimo Arcangeli

Rubbettino

© 2015 - Rubbettino Editore88049 Soveria Mannelli - Viale Rosario Rubbettino, 10 - tel (0968) 6664201www.rubbettino.it

direzioneMassimo ArcangelivicedirezioneAlessandro Aresticoordinamento editorialeGiovanni Battista Boccardo, Sara Fabrizi, Vera Gheno, Rocco Luigi Nichil, Claudio Nobili, Fabio RuggianocaporedattoreAndrea Ciarlariellocoordinamento redazionaleEmanuele BucciredazioneAndrea Canetto, Matteo Guenci, Giulio Muscederegolose incursioniMassimiliana Vincini Catena

Indice

Premessa 9

Gli agnolotti. Il piacere della carne 15Un’amatriciana “alla (a)matriciana” 17Arancino. Fast food in salsa sicula 19L’arrosticino, una specialità transumante 24Il babà. Un successo che arriva da lontano 27La bagna cauda. Tutti insieme gustosamente 29I bigoli. Gustosi vermicelli 34Un cibo prezioso: la bottarga 36Il brasato. Da rurale a sofisticato 39La bresaola. La principessa della Valtellina 41Brigidini. I dolcetti delle feste dal convento alla piazza 44C’era una volta la cucina povera. Il brodetto 46La burrata. Un prodotto made in Puglia 49“Cacciucco”, e non “caciucco” 51Caciocavallo. “Geografia” ed etimologia 53Canederli. Pane (raffermo), latte e fantasia 55Il cannolo. Un intrigante viaggio dalla Sicilia all’Europa 61I cantucci. Storia di un equivoco 64Un simbolo della colazione all’italiana: il cappuccino 68La caponata. Dalle galee ai social network 70La caprese. Dall’“isola azzurra” un capolavoro tricolore 74La pasta alla carbonara. Una squisitezza targata (forse) USA 75La cassata. In fondo è pane e formaggio 79Nulla si perde, tutto si trasforma. La cassœula 82I cavatelli. Dai banchetti di Federico II alle nostre tavole 86Paese che vai, chiacchiere che trovi 89Il ciaùscolo: la nutella delle Marche 91Confetto fa rima con affetto 94Il cotechino. Una questione di pelle 97Il re degli insaccati. Sua Maestà il Culatello 102

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Il cuscus. Tutto il Mediterraneo è paese 103Se non è espresso, non è caffè! 106La farinata: un finger food medievale? 112Un salume “furbo”: la finocchiona 115Toccare il cielo con un dito (e mezzo). La fiorentina 118La fonduta. Alla “periferia” della cucina

(e della lingua) italiana 122La fontina. La tradizione dal cuore delle Alpi 125Friggitelli. Storia e preistoria del peperone di fiume 128Fresca, friabile, fragrante: la frisella 132Il gelato. Il dolce freddo che ha conquistato tutti i palati 136Il gianduiotto. Storia di un cioccolatino 141Granita. Una squisita reazione chimica 144Il grissino. Un bastoncino tutto piemontese 150La lasagna. Il successo di una forma 152I maccheroni fra lingua e palato 158Marzapane: cibo in (e fuor di) scatola 163Mascarpone. Storia di un orgoglio lombardo 169I mostaccioli. Un dolce antico dal gusto “nuovo” 172La mortadella. La nostra “povera” grassezza 177Mostarda. Un francesismo linguistico e gastronomico 179La mozzarella, bianca regina della tavola 182La ’nduja. Lasciate ogni speranza voi ch’assaggiate 185Orecchiette. La concavità in cui si rifugiano i sapori 188Il pandoro, da Verona con furore 191Pane carasau. “Musica” per le papille 193Le panelle. Lo street food alla palermitana 196Il panettone, ovvero Milano alla conquista del Natale 198Quella ghiottoneria del panforte 200Il panzerotto. Dal Meridione con sapore 203La (frittura di) paranza. Dalla barca alla padella 208Parmigiana di melanzane. Un piatto che unisce l’Italia 210La pastiera. Il dolce della primavera 215Pecorino. Genealogia di un formaggio 217La piadina. Gusto di Romagna 222I pici: una parola “nuova” per una ricetta antica 226Che pizza! 227I pizzoccheri. Una pasta non ortodossa 235La polenta. Questione di sopravvivenze 238Porchetta, ovvero Roma e dintorni 243Il provolone. Un emblema del tricolore nel mondo 248

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I ravioli. Una tradizione interregionale 252Il calore della ribollita 257La ricotta. Sapida vivanda dalle mille forme 259Dal riso al risotto: una storia centenaria 263La robiola. Fra la Pianura Padana e la Toscana 266La “monumentale” salama da sugo 269Saltimbocca. Così buoni che saltano in bocca 272Quando la lingua si colora di rosso. Il sanguinaccio 274Savoiardi. I biscottini del re 280Scamorza. Pasta filata millenaria 284La sfogliatella. Quando l’apparenza inganna 287Del maiale non si butta via niente. La soppressata 291Lo speck. Un cibo di frontiera 294Dai pascoli lombardi alle tavole di tutta Italia.

L’irresistibile ascesa dello stracchino 296Gli strozzapreti: buoni da morirne soffocati 300Strudel. Un vortice di bontà 303Gli struffoli. Le dolci palline di Natale 308Il supplì. Una questione di forma 310Il taleggio. Storia e preistoria di un formaggio

dal cuore morbido 313I taralli. Quando i capolavori riescono col buco 316Tartufo. Il diamante della cucina 319Il tiramisù. Un incantesimo per troppi stregoni 328Torrone. Non solo a Natale 331Il tortellino. La perfezione dell’ombelico di Venere 336Dalla Liguria con bollore. Le trenette 341A ognuno la sua trippa 345Le trofie. Dalla Liguria all’Italia intera 349Zabaione. Delizioso, corroborante, misterioso 351Lo zampone. Fantasia e ingegnosità contadine 355A carnevale (e a San Giuseppe) ogni zeppola vale 357

Bibliografia 361

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I mostaccioli. Un dolce antico dal gusto “nuovo”

Dal contenuto alla forma

I mostaccioli sono biscotti fatti di farina impastata con miele o mosto cotto, e arricchita di vari ingredienti (cioccolato, uva passa, fichi secchi, mandorle tritate, ecc.) a seconda delle diverse tradizioni locali. All’origine del nome vi è una focaccia nuziale latina, il mustāCeus o mustāCeum (a sua volta da [vīnum] mŭstu(m), propriamente ‘[vino] nuovo’), confezionata impa-stando la farina con mosto, lardo, cacio, anice e cuocendo il tutto sopra foglie di lauro. Era un piatto ben presente nella cultura romana di tutte le epoche, e familiare a molti autori: da Catone, che con il suo stile asciutto e diretto tramanda un’antica ricetta dei mustacei (De agri cultura, CXXX), ad Apicio, che ne propone l’impiego in contesti più ricercati («Petasonem ex musteis» ‘prosciutto con mostaccioli’: De re coquinaria, VII, x, 292), da Cicerone (che lo utilizza perfino in senso figurato, in un passo destinato a divenire proverbiale: «laureolam in mustaceo quaerere» [‘cercare l’alloro nella torta’, cioè ‘cercare la gloria in facili imprese’], Epistulae ad Atticum, 5, 20, 4), a Giovenale, che ci ricorda come il dolce fosse distribuito ai con-vitati che avevano mangiato troppo e facevano fatica a digerire (Satirae, VI, 203). Ciò malgrado, nella moderna cucina italiana non è quasi rimasta traccia di questa pietanza, sebbene il mosto di vino cotto sia ancor oggi alla base della preparazione di molti biscotti della nostra tradizione regionale che prendono il nome di mostaccioli. Linguisticamente il passaggio dal lat. mustāCeu(m) alla forma italiana con il suffisso valutativo in -olo, diffuso in tutti i dialetti della penisola (Prati 1937: 103-104), potrebbe essere dovuto sia al fatto che da una focaccia si è passati ovunque a un dolcetto di modeste dimensioni, sia all’eventualità di una collisione semantica con una voce (mostaccio ‘viso, faccia’) di ben altra derivazione etimologica, e di ampia fortuna a partire dal XVI secolo.

Per quanto riguarda le prime attestazioni di mostacciolo, nel lessico ita-liano o nei dialetti italo-romanzi, il TLIO registra già in epoca tardo-me-dievale la forma mostazoli (‘biscotto a base di mosto cotto’), traendola da un noto testo anonimo di cucina (sec. XIV-XV) di area meridionale («et plu vale ad carne de porco et ad tenche salate at ad fare mostazoli et ad multe altre vivande», Anonimo Meridionale 1985: 14; cfr. Martellotti 2005: 279). A qualche decennio più tardi risale invece la variante mostaciueli (sec. XV, Antonio Lotieri de Pisano), ricordata dal DELI2, s. v. mosto, assieme ai regio-nalismi mostazzoli (ante 1548, Cristoforo di Messisbugo) e mostazzuoli (1561, Alessandro Citolini), che precedono di poco mostacciuoli (Caro 1574: II, 169)

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e mostaccioli: nel 1557 Girolamo Ruscelli, sotto lo pseudonimo di Alessio Piemontese, propone la ricetta dei «mostaccioli Napolitani, nobilissimi per ogni gran principe, che sono soavissimi al gusto, confortano lo stomaco et fanno ottimo fiato» (Ruscelli 1557: 116); fra i tanti ingredienti dell’impasto compaiono zuccaro, «fior di farina», cannella, «noci muscate», zenzuere, «[m]ele bianco crudo», peppe; non però il mosto, particolare assai significativo, come anche nel ms. Western 211 (Wellcome Institute for the History of Medicine, London), testo di cucina di area meridionale databile tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo, in cui si consiglia di mescolare la farina con una mistura di pepe, cannella, chiodi di garofano, noce moscata e ambra grigia, impastandola poi con lievito e un liquido non ben precisato (cfr. Carnevale Schianca 2011, s. v. mostaciolo). Tali attestazioni, che si moltiplicano nel corso degli anni, da un lato paiono confermare l’origine medievale del biscotto, che presto va diffondendosi, pur con varianti significative, nelle diverse tra-dizioni regionali, dall’altro sembrerebbero slegare definitivamente il dolce dal composto originario, il mosto, appunto, cui pure deve il nome. Del resto alcune ricette di mostaccioli sono presenti già nei trattati cinquecenteschi di Bartolomeo Scappi e dello stesso Messisbugo, laddove però indicano dolci che in comune hanno soltanto la forma romboidale.

Il Messisbugo, che lavorò alla corte degli Estensi e fu nominato conte pala-tino da Carlo V, suggerisce per i «mostazzoli di zuccaro» i seguenti ingredienti (Messisbugo 1557: 40v-41r):

Piglia di cedro confetto tagliato minutamente libre tre, di Mele collato libre cin-que, di Pevere cinque ottavi, di Zaffarano scrupulo uno, di Cinnamomo tre quarti d’oncia, di muschio tre grani, di Farina tanto che basti ad impastare dette robbe. Poi farai i Mostazzoli grandi, et piccioli, come a te piacerà.

Lo Scappi, che fu fra l’altro cuoco delle cucine vaticane durante i pontificati di Pio IV e Pio V, propone due ricette con i mostaccioli (o morselletti). La prima sono i «mostaccioli alla Milanese»:

Piglisi quindeci uove fresche, et battanosi in una cazzuola, et passinosi per lo setaccio con due libre et mezza di zuccaro fino fatto in polvere, et mezza oncia di anici crudi, overo pitartamo pesto, et un grano o due di muschio fino, et met-tanosi con esse libre due et mezza di farina, et battasi ogni cosa per tre quarti d’ora, di modo che venga la pasta come quella delle frittelle, et lascisi riposare per un quarto d’hora, et ribbattasi un’altra volta, poi si habbiano apparecchiati fogli di carta fatti a lucerne onti, overo tortiere alte di sponde con cialde sotto senza essere bagnate di cosa alcuna, et dapoi mettasi essa pasta dentro le lucerne, o tortiere, et non sia d’altezza più che la grossezza d’un dito, et subito si spolveriz-

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zino di zuccaro, et ponganosi nel forno che sia caldo, overo quelle delle tortiere, cuocanosi come le torte, et come tal pasta sarà sgonfiata, et haverà in tutto persa l’humidità, et sarà alquanto sodetta, cioè sia come una focaccia intera, cavisi dalla tortiera o lucerna, et subito si taglino con un coltello largo e sottile a fette larghe due dita, et lunghe a beneplacito, et rimettanosi nel forno con fogli di carta sotto a biscottarsi, rivoltandoli spesso, però il forno non sia tanto caldo come di sopra, et come saranno bene asciutte, cavinosi, et conservinosi perch[é] sono sempre migliori il secondo giorno che il primo, et durano un mese nella lor perfettione (Scappi 1570: 357r e sg.).

Il secondo modo di preparare i morselletti, non meglio specificato, è il seguente:

Piglisi biscotto fino fatto di pan bianco, pestisi nel mortaro, et habbianosi dapoi dodeci uove fresche, et battanosi bene con due oncie di greco, o di malvagia, et due oncie di lievido fresco, e due libre di zuccaro fino, fatto in polvere, et diece oncie del sopradetto biscotto pesto, et passato, et per un’hora battasi ogni cosa insieme con due grani di muschio, et poi tengasi l’ordine di fare, et cuocere che si tiene nel capitolo sopradetto, et habbiasi avvertenza che non vogliono il foco tanto gagliardetto, et verranno del colore delli mostaccioli, et tali biscotti si usano a mangiare il Verno con buon vino (ibid., c. 357r).

La forma del dolce è alla base del significato estensivo di indicare come «a mostacciolo» una disposizione a rombi; Pellegrino Artusi, che nella sua guida non riporta nessuna ricetta sui mostaccioli (e ricorda, fra le altre cose, i mostaccini aretini d’un tempo trascorso: Artusi 1970: 539 n. 2) raccomanda di tagliare «a mattoncini o a mostaccioli della grossezza di uno scudo e della larghezza di un centimetro o due» l’impasto per una «minestra di semolino» (ibid., p. 57) e ricorda che i «cavallucci di Siena» sono «pastine in forma di mostacciuoli» (ibid., p. 539).

Molti nomi per un solo oggetto (o quasi)

Estrapolando i tratti comuni a tutti i significati italiani che rispondono al si-gnificante mostacciolo, si può dire che questo è un biscotto dolce e speziato, di forma quadrangolare o rotonda e di dimensioni variabili dai cinque ai quindici centimetri per lato. L’impasto è sempre abbastanza duro, compatto, e perciò particolarmente indicato per una media o lunga conservazione. Le differenze principali, invece, riguardano il tipo di dolcificante adoperato (gli sciroppi mostosi possono essere sostituiti dal miele e, in tempi più recenti, dallo zuc-chero), se siano ripieni o meno, se siano ricoperti di glassa di zucchero o di cioccolato fuso. Elencarne le singole varianti regionali appare praticamente

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impossibile; si proverà qui a dar conto delle più significative, proponendo un (dolce) elenco che parte dal Nord e arriva fino alla Sardegna e alla Sicilia, at-traversando quasi per intero la penisola (altri esempi localizzati di mostacciolo in Prati 1937: 103-104).

In Piemonte si possono gustare i mustaccioli di Revello (CN), biscotti romboidali a lunga conservazione che non vengono impastati con il mosto (e nemmeno con la sapa, il mosto cotto) ma con il barbera in purezza (Touring Club 1931: 23, 32). Il mostacin (o mostaccino) lombardo – rinomato soprattutto quello cremasco – è un biscotto a losanghe molto duro e sottile preparato con farina, zucchero, uova e molte spezie, fra cui pepe, cannella, chiodi di garofano, anice, ecc. (Touring Club 1931: 96). Il mustazzol ferrarese è simile al più celebre pampepato di cioccolato; anziché da mandorle e pinoli, però, è arricchito dalla frutta candita (ibid., p. 216).

A Piancastagnaio (SI) i mostaccioli sono impastati con farina, miele, uova, noci ed olio d’oliva, mentre a Cascia (PG) si possono gustare preparati a base di miele e frutta secca (sono detti anche mostaccioli umbri) oppure impastati con il mosto cotto (un curioso aneddoto vuole che i primi siano stati prepa-rati in realtà dalla nobildonna romana Jacopa de’ Settesoli, che li offrì a San Francesco quando, nel 1219, questi arrivò a Roma: secondo la leggenda, i dolci piacquero talmente tanto al “poverello di Assisi” che egli ne richiese altri in punto di morte; cfr. http://www.50epiu.it/Home/Notizie/tabid/63/ID/1145/language/it-IT/Il-MIELE-e-le-rose-di-Cascia.aspx). Nel Lazio i mostaccioli diventano murzitti (noti quelli di Subiaco), dolci tipici del periodo natalizio, che presentano una forma rotonda, un colore dorato scuro e un sa-pore dolce, frutto della connubio fra noci e miele (http://www.parchilazio.it/prodotti-1782-murzitti).

La Campania, e nello specifico Napoli, sembra essere centro di irradia-mento per il tipo diffuso in un’ampia fascia centro-meridionale, che interessa Abruzzo, Molise, Basilicata e Puglia: la forma è quella classica a losanga, più di rado rotonda, l’impasto è a base di farina, zucchero, mandorle e cacao e il biscotto è ricoperto di cioccolato fuso (ma ve ne sono anche versioni ‘mbuttite, ripiene di frutta candita e cioccolata oppure di mosto rappreso); nella sostanziale uniformità del referente l’impasto può essere o meno rin-forzato con l’aggiunta di mosto o vino cotto e può cambiare anche il venta-glio di spezie da inserire. Il tipo lessicale prevede alcune varianti fonetiche importanti: mustacciuolo a Napoli, mestacciolë in Abruzzo (dove il ripieno è di marmellata di uva nera), muštacciulë in Molise, mistazzere a Bisceglie (BT), mustazzuèlo nell’area di Taranto, mustazzuelu o mustazzolu nel Salento (dove compare anche la variante scajozzu, forse da scaglia nel senso di ‘pez-zo tagliato grossolanamente’; la voce è registrata da VDS, s. v. scajòzzu, a Gallipoli (LE), ma diffusa anche in alcuni paesi del Salento meridionale). In Calabria i mustazz(u)oli si distinguono innanzitutto per la forma, che è assai

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varia e può essere romboidale o prendere l’aspetto di un santo, un animale, un fiore o qualsiasi altra cosa suggerisca la fantasia (cfr. Artusi 1970: 539 n. 2); l’impasto è preparato con farina e miele o mosto cotto speziato (vi si rileva talvolta, come in Sicilia, anche la variante fonetica mustrazzolu, con -r- epentetico di origine paretimologica). I mustazzolos campidanesi, diffusi soprattutto nell’Oristanese, sono costituiti da un impasto di acqua, farina, lievito, zucchero, cannella e scorza di limone; dalla classica forma romboidale, sono parzialmente ricoperti di glassa.

I diversi significati siciliani di “mustazzolu” (una decina le varianti fonetiche), che meriterebbero un trattamento a parte – come mostrano le ricerche condotte per l’Atlante Linguistico della Sicilia (ALS) –, rendono conto di un panorama onomasiologico e semasiologico molto frastagliato (sul tema cfr. Burgio 2012). Al nostro tipo lessicale rispondono nell’isola perlomeno sette diversi referenti: il più diffuso ha forma prevalentemente romboidale e prevede un impasto assai duro di farina e vino cotto di mosto, ottenuto riducendo almeno di un terzo il mosto d’uva tramite ebollizione; quello diffuso in area ennese e catanese è in tutto simile al precedente, a parte il fatto che il vino cotto è ottenuto riducendo il sugo dei fichi d’India (talvolta è possibile trovare anche mustazzola dolcificati con miele fuso, con lo stesso referente di quel che altrove nell’isola è chiamato «ramu di meli»; ramu è un iperonimo siciliano per indicare i biscotti duri); in un’area agrigentina interna il mustazzolu è a base di succo di carrube, cotto sino a raggiungere la consistenza del miele e poi adoperato per legare l’impasto; in alcuni centri nisseni e madoniti per mustazzolu si intende una gelatina dolce, altrove nell’isola chiamata mustarda, a base di mosto fresco rappreso con farina che si ripone in stampi smaltati; nel palermitano il mustazzolu è in pastaforte, un impasto durissimo di parti uguali di farina speziata e zuc-chero (se nel capoluogo la forma è romboidale, in area bagherese l’impasto viene foggiato in grossi biscotti antropomorfi o zoomorfi); nel catanese settentrionale e nel messinese orientale si prevede un impasto ricco di mandorle, intere e trite, ingentilito con uova e, talvolta, agenti lievitanti (come nella Calabria meridionale questi biscotti vengono chiamati indif-ferentemente mustazzoli o nzuddi); in alcuni centri disposti a macchia di leopardo il mustazzolu è anche un biscotto natalizio ripieno di vino cotto o, più frequentemente fichi secchi.

Michele Burgio Rocco Luigi Nichil