51
grandi classici tascabili marsilio

I limiti dell'amore. Il mito di Adone e la tradizione europea

  • Upload
    unipi

  • View
    0

  • Download
    0

Embed Size (px)

Citation preview

grandi classicitascabili marsilio

7HRFULWR��%LRQH��2YLGLR��5RQVDUG�6KDNHVSHDUH��/D�)RQWDLQH��6KHOOH\��<HDWV

ADONEVariazioni sul mito

a cura di Alessandro Grilli

GRANDI CLASSICI tascabili Marsilio

INDICE

7 I limiti dell’amore. Il mito di Adone e la tradizione europea di Alessandro Grilli

91 Teocrito canto per adone (idilli xv, 100-144)

95 Bione lamento funebre per adone

101 Ovidio storia di adone (metamorfosi x, 469-552; 708-739)

107 Pierre de Ronsard adone

121 William Shakespeare venere e adone

165 Jean de La Fontaine adone

185 Percy Bysshe Shelley adonais

205 William Butler Yeats la visione di lei nel bosco

209 Bibliografia

«Tascabili Marsilio» pe rio di co mensile n. 366/2014

Di ret to re re spon sa bi le Ce sa re De MichelisRe gi stra zio ne n. 1138 del 29.03.1994 del Tribunale di VeneziaRegistro degli operatori di comunicazione-roc n. 6388

Le traduzioni dal greco di Teocrito e Bione sono di Maria Grazia Ciani

La traduzione dal latino di Ovidio è di Clemente Pianezzola

Le traduzioni dal francese di Ronsard e La Fontaine sono di Maria Grazia Porcelli

La traduzione dall’inglese di Shakespeare è di Valter Malosti© 2007, traduzione Valter Malosti

La traduzione dall’inglese di Shelley è di Monica Pavani

La traduzione dall’inglese di Yeats è di Margherita Losacco

© 2014 by Marsilio Editori® spa in VeneziaPrima edizione: giugno 2014ISBN 978-88-317-1733-5www.marsilioeditori.it

Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633.Le fotocopie per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org

Stampato da Grafica Veneta S.p.A., Trebaseleghe (pd)

edizione10 9 8 7 6 5 4 3 2 1

2018 2017 2016 2015 2014

7

I LIMITI DELL’AMOREIL MITO DI ADONE E LA TRADIZIONE EUROPEA

Quell’ottuso oggetto del desiderio

A una persona di cultura non specialistica, il nome di Adone evoca oggi in prima battuta – forse anche senza altre associazioni – un modello canonico di bellezza ma-schile. Per l’uomo della strada, insomma, Adone è sempli-cemente... un adone: il personaggio del mito, giunto a noi attraverso così tante e varie incarnazioni poetiche e figura-tive, tende a sparire dietro la preziosa antonomasia, da lungo tempo lessicalizzata, con cui l’italiano e altre lingue europee designano ogni ragazzo molto bello 1. Se scaviamo appena oltre, vediamo che a questa bellezza si associano connotazioni disparate, se non contraddittorie: per alcuni, l’avvenenza di Adone è sinonimo di leggiadria effeminata e leziosa, e rimanda a un esausto repertorio classicistico o

1 A un’analisi della figura di Adone come canone di bellezza corporea è dedica-ta la prima parte di un importante studio generale sulla bellezza: W. Menninghaus, Das Versprechen der Schönheit, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 2003, pp. 13-65. Una discussione critica delle tesi tutt’altro che convincenti di Menninghaus si trova nella mia recente monografia sulla fortuna del mito di Venere e Adone nella cultura europea: A. Grilli, Storie di Venere e Adone. Bellezza, genere, desiderio, Milano-Udine, Mimesis, 2012, in particolare pp. 13-22.

8 9

ad altri spunti disparati, che vanno dal trattato mitografico al dialogo filosofico, dalla concreta prassi rituale al meta-discorso degli allegoristi. Questo fa di Adone una figura sospesa tra religione e poesia, tra mito e occasione festiva, e la tradizione adonia si configura di conseguenza come un percorso tra i più complessi e tortuosi dell’intera mitologia greco-latina, con precedenti mediorientali (a partire dal iii millennio a.C.) e propaggini che attraversano, dopo quella classica, tutte le culture dell’Occidente. Nel corso di una disseminazione così ampia e variegata Adone assume mol-ti aspetti, ma curiosamente, a ogni tappa, sembra spogliar-si di qualche tratto specifico, finché di tutta la sua com-plessità primitiva resta, nella tradizione più recente, solo la bellezza, una bellezza tanto perfetta quanto vuota. «Adone, Adone, Adone»: così culmina, in un poema drammatico di Marcello Macedonio pubblicato nel 1614, lo strazio di Ve-nere alla morte del ragazzo; ed è a mio parere proprio questo verso, un verso che siamo incerti fino in fondo se considerare pedestre o sublime, a esprimere nel modo più icastico la natura proiettiva, ecolalica, autoreferenziale del personaggio e della sua forma. L’Adone che la tradizione lascia giungere fino a noi è essenzialmente un vacuum, un’assenza, un silenzio («ma tu già taci Adone», lamentava appunto la Venere di Macedonio), un oggetto indetermi-nato del desiderio che ogni contesto culturale può riseman-tizzare di volta in volta a suo arbitrio.

Non è un caso che, nelle principali versioni antiche del mito, Adone non parli mai: di lui non ci giungono le pa-role, e non solo perché per un buon tratto della vicenda a lui tocca la parte del morto, ma perché anche nel resto del tempo lo sospinge ai margini della scena la presenza molto più ingombrante della dea. Nelle Metamorfosi, ad esempio, Venere lo travolge sotto un mare di racconti, affabulazioni, consigli, e le parole del ragazzo non vengono nemmeno registrate, compresse in un’unica domanda: alla menzione dell’odio che oppone la dea alle bestie feroci,

addirittura accosta il personaggio all’ideale pederotico 2; per altri, al contrario, Adone è invece l’emblema di una bel-lezza maschile muscolosa e compiaciuta, fatta di palestra e di unguenti, che si realizza in una costruzione statuaria tanto perfetta quanto inaccessibile 3.

Com’è possibile che da uno stesso personaggio del mito procedano associazioni di idee così diverse, così contrad-dittorie? Per capirlo, è necessario tener conto di alcuni aspetti peculiari della figura mitica di Adone e della sua frastagliata fortuna nelle culture antiche e moderne. Il dato senz’altro più importante è la frammentazione dei punti di irraggiamento: a differenza di quanto succede per alcuni miti, soprattutto tragici, che possono contare su archetipi letterari di grandezza incontrastata (si pensi a Edipo o a Medea e alla loro dipendenza dai capolavori di Sofocle e di Euripide), fin dall’antichità il mito di Adone non si cristallizza intorno a un modello poetico unico o comunque predominante. Questa peculiarità determina uno sviluppo disomogeneo della tradizione, che, pur muovendo da testi letterari anche importanti, lascia comunque ampio margine

2 Una tendenza piuttosto rara nei testi protomoderni (presente ad esempio nel-le Stanze nella Favola di Adone, di Lodovico Dolce, pubblicate nel 1545), ma più frequente a partire dall’immaginario del decadentismo: un esempio emblematico, tra i molti possibili, è una raccolta di liriche del conte Jacques d’Adelswärd-Fersen (L’Hymnaire d’Adonis: à la façon de M. le marquis de Sade, Paris, Vanier, 1902), che uno scandalo pederotico spinse a trasferirsi da Parigi a Capri pochi anni dopo la pubblicazione del volume. La valenza omoerotica di Adone prevale invece decisa-mente nel xx secolo, anche se non sempre in relazione a ideali pederastici (si veda-no ad esempio le liriche di M. Almond, The Angel of Death in the Adonis Lounge, London, Gay Men’s Press, 1988).

3 Questa visione del personaggio forza in modo lampante la documentazione antica, che attesta un Adone talora sì valoroso (ad esempio nelle Dionisiache di Nonno di Panopoli), ma pur sempre di bellezza efebica. Viceversa la cultura popo-lare novecentesca tende a immaginare Adone come amante di Venere, dunque bel-lo e desiderabile, senza desumere i tratti di questa bellezza dalle indicazioni pur esplicite nelle testimonianze classiche. Ecco perché quando gli psichiatri Harrison, Phillips e Olivardia si sforzano di introdurre una nuova etichetta per definire la dipendenza da anabolizzanti propria dei culturisti scelgono di chiamare il disturbo «complesso di Adone», ignari del rapporto semmai di antagonismo che sussiste tra la bellezza adonia e la corporatura erculea (sull’opposizione Adone/Eracle si veda in particolare P. Berrettoni, Il maschio al bivio, Torino, Bollati Boringhieri, 2007).

10 11

mente ancora in uso in epoca bizantina: «più stupido dell’Adone di Prassilla» 6. Insomma, per quanto si possano trovare giustificazioni simboliche per quella singolare affer-mazione, sembra proprio che Adone sia solo un antece-dente maschile di Jessica Rabbit, un corpo sommamente desiderabile senza (diciamo così...) una personalità troppo determinata.

Molta di questa indeterminatezza – lo si può agevolmen-te dimostrare – è un riflesso della natura ideale e univer-sale della bellezza adonia, e della sua posizione inerzial-mente ogget tua le, che la connota, di necessità, come uno spazio vuoto: la bellezza di Adone è quella che, di volta in volta, ogni epoca o ogni gruppo culturale sono disposti ad attribuirgli; meno tratti salienti marcano il personaggio, dunque, meglio è. Ma uno sguardo alla tradizione antica del mito – una tradizione che comunque si dispiega lungo un arco di molti secoli – permette forse di capire meglio quali rinunce abbia comportato cristallizzare la bellezza assoluta in un emblema, e soprattutto quali ampiezze di significato sottenda l’apparente stabilità semantica di quel-l’emblema.

Le origini orientali

Quando Adone arriva in Grecia ha già alle spalle una fortuna lunga e articolata: in Libano era già stato e sarebbe rimasto per secoli oggetto di venerazione, durante una festa annuale in onore di Astarte, un ragazzo senza nome amante della dea. I cittadini di Biblo lo designavano con l’epiteto «Adon», «Signore», che basta a farne intendere il carattere funzionale: Adon non è una persona, ma un mortale privi-legiato, il giovane paredro umano della dea – e la dea non lega la sua eterna forza generativa a un individuo, ma a un

6 Zenobio, Centurie iv, 21; i, 89, Leutsch-Schneidewin.

Adone «le chiede perché» («Quae causa roganti», v. 552), e quella richiesta, riportata per di più solo in forma indi-retta, rimane l’unico suo contributo discorsivo registrato dall’autore.

Anche quando i poeti moderni capovolgeranno la ver-sione ovidiana del mito facendo di Adone un ragazzo la cui vita si rinnova ciclicamente, come il Keats nel secondo libro dell’Endymion (vv. 387-587), la rappresentazione del giovinetto sarà comunque muta: lì Adone si sveglia tra i fiori, si stiracchia, sbadiglia, si mostra nella sua impareg-giabile bellezza, ma sta zitto – mentre un amorino e poi Venere esaudiranno con dettagliatissimi ragguagli ogni cu-riosità di Endimione, che ha appena assistito allo spetta-colo.

Del resto, che Adone non parli mai, o quasi, non è poi così incomprensibile, se si pensa che le uniche parole che la più antica tradizione letteraria gli attribuisce sono tre versi della poetessa Prassilla di Sicione 4, in cui si immagi-na che Adone risponda ai morti che lo accolgono nell’ol-tretomba chiedendogli cosa rimpianga di più del mondo di sopra:

La cosa più bella che lascio è la luce del sole, la seconda le stelle splendenti e il volto della lunae poi i meloni maturi, e le mele e le pere 5.

Non proprio una risposta memorabile... O meglio: me-morabile sì, ma per la sua spiazzante ingenuità (si ricordi che il ragazzo era appena uscito dal letto di Afrodite). E infatti queste parole ci sono tramandate non da un ammi-ratore di Prassilla, bensì da un raccoglitore di proverbi che cerca di spiegare l’origine di un modo di dire apparente-

4 Vissuta nel v sec. a.C.; i versi provengono da un Inno in onore di Adone, fr. 1 Page.

5 Ove non diversamente indicato, sono mie le traduzioni dei testi non compre-si nella presente antologia.

12 13

ancora una figura nitidamente memore delle proprie origi-ni orientali; nelle fonti a noi conservate, solo nel v secolo l’originaria localizzazione siriaca, libanese o panfilia della vicenda si sposta alla sede poi definitiva, quell’isola di Ci-pro che costituisce il punto di incontro privilegiato fra la civiltà greca e il Medio Oriente semitico 9. La prima ver-sione del mito che la tradizione greca ci tramandi con una certa ampiezza proviene da un poema dell’epico Paniassi di Alicarnasso (v sec. a.C.; fr. 25 Matthews). Tutta l’opera di Paniassi è perduta 10, e noi conosciamo il mito di Adone trattato da questo autore solo grazie alle informazioni ri-portate da un manuale mitografico di epoca imperiale, la Biblioteca del cosiddetto pseudo-Apollodoro (i-ii sec. d.C.):

A causa dell’ira di Artemide, Adone, ancora giovinetto, fu ferito a morte da un cinghiale durante una caccia. Esiodo dice che Adone era figlio di Fenice e di Alfesibea, Paniassi lo dice fi-glio di Teante, re degli Assiri. Teante aveva una figlia, Smirna. Afrodite, irata perché la fanciulla non la onorava, fece sì che si innamorasse del padre ed essa, con la complicità della nutrice, per dodici notti andò a letto con lui, ignaro della sua identità. Quando se ne accorse, Teante prese la spada e si diede a inse-guirla. Mentre stava per essere afferrata, Smirna pregò gli dei di renderla invisibile e questi ne ebbero pietà e la trasformarono nell’albero che si chiama «mirra». Dopo nove mesi l’albero si aprì e diede alla luce Adone, che Afrodite, a causa della sua bellezza, di nascosto dagli dei chiuse, ancora bambino, in una

9 La prima attestazione di Cipro in relazione ad Adone è nel fr. 3 K.-A. dal perduto Adone di Platone comico (il breve frammento è citato da Ateneo, I sofisti a banchetto x, 456a).

10 Per una discussione sui problemi posti dal frammento, a cominciare dall’en-tità della porzione attribuibile a Paniassi, si veda V.L. Matthews, Panyassis of Halikarnassos: Text and Commentary, Leiden, Brill, 1974, pp. 120-125. Secondo G.L. Huxley, Greek Epic Poetry from Eumelos to Panyassis, London, Faber & Faber, 1969, p. 186, il frammento col mito di Adone citato dallo pseudo-Apollodoro proviene dal poema Ionika, e non dalla sua opera principale (un poema sul mito di Eracle). Negli Ionika Paniassi cercava di ricostruire le origini dei culti preionici di Smirne, ed è verosimile che il mito dell’eroina eponima Smirna trovasse posto in un simile contesto.

ruolo. Lo dimostra il fatto che nelle religioni del Vicino Oriente antico la dea poliade è spesso concepita come la fonte del potere regale, e il Signore non è altri che il re della città, che ricava legittimazione e forza dalla sua sposa divina 7. Una conferma ulteriore viene dal confronto con analoghi binomi dea-ragazzo, piuttosto diffusi nelle religioni orientali: Adon, infatti, non è l’unico paredro di Astarte, né Astarte la sola dea associata a un amante mortale.

L’Adone fenicio era a sua volta erede di un’altra figura di ragazzo, Tammuz, amante della dea babilonese Ištar: anche qui la coppia era celebrata in festività dall’ambiguo carattere erotico e luttuoso, e un passo del profeta Eze-chiele (8, 14) allude scandalizzato alla compresenza di que-sto culto idolatra con quello dell’unico vero dio. Gli amo-ri di Ištar e Tammuz, del resto, non sono che la versione semitica più antica di amori mitici attestati da fonti sume-re in epoca ancora più remota (a partire dal xxiii sec. a.C. circa): in alcune di esse Inanna, dea della fertilità, dell’amo-re e della guerra, e sorella della dea degli inferi Ereškigala, è legata al dio-pastore Dumuzi in una relazione amorosa non coniugale ma felice e di relativa stabilità 8.

L’Adone che fa la sua comparsa in Grecia, a partire almeno dalle opere di Esiodo (viii-vii sec. a.C.), è dunque

7 Il tema è approfondito in una monografia di Sergio Ribichini (Adonis: aspetti “orientali” di un mito greco, Roma, Consiglio nazionale delle ricerche, 1981, in par-ticolar modo pp. 142 ss.), che mette in relazione la ierogamia adonia con il culto palestinese dei refaim, gli spiriti dei re defunti, divinizzati dalla dea.

8 Una felicità solo apparente, peraltro: in un poemetto narrativo noto col titolo La discesa di Inanna agli inferi (che si può leggere in traduzione inglese nell’utile antologia di letteratura sumerica a cura di J. Black et al., The Literature of Ancient Sumer, Oxford, Oxford University Press, 2004, pp. 65 ss.), è proprio Dumuzi che Inanna sceglie di offrire in ostaggio ai sovrani dell’oltretomba, Ereškigala e lo sposo di lei Nergal. Solo offrendo qualcuno in cambio, infatti, Inanna sarebbe potuta tornare sulla terra dall’oltretomba, dove si era recata con intenzioni misteriose ma presumibilmente non troppo amichevoli, e dove aveva finito per rimanere prigio-niera. Questo dato capovolge del tutto le ipotesi anteriori, che per analogia col mito greco ritenevano che Inanna scendesse agli inferi per riportare sulla terra Dumuzi. In realtà l’analogia più stringente è con l’azione di Afrodite che consegna Adone bambino a Persefone.

14 15

l’esperienza precoce della morte – entrambe cristallizzate nell’idea, comune alle sapienze antiche ed ereditata da tutte le culture posteriori, che non solo la condizione uma-na, ma soprattutto la condizione umana felice è votata all’impermanenza e alla volatilità.

I modelli e le varianti del mito

In realtà la semplificazione che riduce il mito di Adone a due soli momenti apicali (la contesa fra le dee e la caccia funesta) elimina un’ampia messe di dettagli mitologici e di spunti collaterali: già nel v sec. a.C. Adone compare come amante di Afrodite e amasio di Dioniso nel frammento già citato di Platone comico 12; un altro poeta ellenistico, Fa-nocle, narra il rapimento di Adone a opera di Dioniso, mentre il dio passava per l’isola di Cipro 13; altre fonti confermano la relazione con Dioniso, con cui Adone viene a volte addirittura confuso. Una fonte di epoca imperiale fa di Adone l’amasio anche di Eracle 14. Ma secondo Ser-vio 15, Adone seduce invece la ninfa Eronone, di cui era innamorato Zeus, e viene per questo punito. Secondo altre fonti 16, Zeus sarebbe invece non il rivale in amore ma il genitore unico del ragazzo, nato dal dio senza unione ses-suale. Nelle Dionisiache di Nonno, inoltre, Adone è padre della ninfa Beroe, di cui si innamorerà in seguito lo stesso Dioniso; e, secondo fonti ancora posteriori, tra i figli di Adone compare addirittura il fallico dio degli orti Priapo. Del resto anche gli episodi principali presentano varianti

12 Si veda sopra, n. 9.13 La notizia è trasmessa da Plutarco, Questioni conviviali iv, 3.14 Tolomeo Efestione, nel secondo libro della Storia novella, epitomato in Fo-

zio, Biblioteca cod. 190, 147b, 9-12.15 Nel suo commento alle Bucoliche di Virgilio (viii, 37 e x, 18).16 Riconducibili alle perdute Questioni letterarie di Filostefano di Cirene (iii

sec. a.C.): fr. 14 Müller, FHG 3, 31, citato da [Probo] In Verg. Ecl. x, 18.

cassa che affidò a Persefone. Quando lo vide, Persefone non volle più restituirlo. Allora Zeus decise che l’anno fosse diviso in tre parti e stabilì che Adone ne trascorresse una per conto suo, un’altra presso Persefone e la terza con Afrodite. Adone però dedicò anche la propria parte di anno ad Afrodite. Più tardi, durante una caccia, Adone fu ferito da un cinghiale e morì. (trad. di M.G. Ciani, leggermente adattata)

Come si vede, la vicenda di Adone è inquadrata in un mito familiare più ampio, che culmina con la nascita del bambino da un’unione incestuosa; la metamorfosi della madre nell’albero della mirra rimanda a una delle princi-pali valenze simboliche di questo mito, ben messa in valo-re da alcuni studiosi 11: Adone non è infatti altro che il “frutto” dell’albero di mirra, vale a dire una personifica-zione della preziosa resina ricavata dalla sua corteccia e usata in tutto il Mediterraneo antico come profumo e come unguento per imbalsamare i morti. La parte della vicenda che riguarda propriamente la figura di Adone è articolata in due momenti principali: da un lato, a ridosso della na-scita, l’episodio della rivalità amorosa tra Afrodite e la dea dell’oltretomba Persefone, rivalità che conduce all’arbitra-to di Zeus e alla ripartizione “stagionale” della vita del ragazzo; dall’altro la sfortunata caccia al cinghiale che met-te fine precocemente alla vita dell’adolescente e alla sua felicità amorosa con Afrodite. Nel mezzo, la vita di Adone scorre brevemente senza episodi salienti, e conferma a po-steriori la tendenziale “vuotezza” del personaggio. La so-stanza del mito, la sua cifra simbolica, sta proprio in que-sta sua polarizzazione fra due estremi esistenziali: da un lato la felicità amorosa, nella sua forma più intensa (una storia d’amore con la dea stessa dell’amore!); dall’altro

11 Per primo da W. Atallah, Adonis dans la littérature et l’art grecs, Paris, Klincksieck, 1966, pp. 325-327, seguito in questo da M. Detienne, Les Jardins d’Adonis. La mythologie des aromates en Grèce, Paris, Gallimard, 1972, che ne fa una delle tesi principali del suo studio.

16 17

dove il racconto degli amori infelici di Venere e Adone fa da cornice a una versione del mito di Atalanta e Ippome-ne. Di questi autori, peraltro, solo il più recente ha godu-to in Occidente di una fortuna cospicua e ininterrotta. La conoscenza degli altri due è stata oscurata nell’Europa latina dalla fine dell’età antica, ed è ripresa solo in epoca umanistica, quando furono di nuovo disponibili (e presto avidamente imitati) i testi del corpus bucolico che, più di quindici secoli prima, erano stati modelli fondamentali per poeti come Virgilio o Tibullo.

La limitata varietà dei modelli non vuol certo dire, tut-tavia, che la tradizione adonia si sia sviluppata entro l’oriz-zonte di una stessa forma poetica, in una sorta di ripeti-zione obbligata dei generi letterari in cui il mito è attesta-to per la prima volta. Certo, da un punto di vista storico il peso del modello ovidiano è preponderante, e in effetti la prima fase della fortuna mitica di Adone, quella medie-vale, si può in ultima analisi ricondurre a un capitolo di fortuna ovidiana 22.

Le cose cambiano drasticamente a partire dalla risco-perta dei bucolici greci, e da quel momento in Europa la narrazione della vicenda mitica viene spesso combinata con la tradizione del lamento. Non sorprende allora che l’esi-stenza di modelli indipendenti e alternativi per la figura di Adone determini una varietà formale ignota alla tradizione dei miti tragici maggiori: dal Cinquecento in poi il mito di Adone è trattato nella poesia narrativa in una varietà di forme che vanno dall’epillio all’epos monumentale, ma compare altresì in molte forme della poesia lirica, dall’ele-gia all’epi talamio, per non parlare degli adattamenti per la

22 A prescindere dalle vere e proprie parafrasi o dai trattati di elaborazione al-legorica del poema ovidiano (come l’Ovide moralisé, o le parafrasi di Petrus Berchorius o Giovanni da Milano), Adone mantiene anche nella poesia allegorica e narrativa del Medioevo, ad esempio nel Roman de la Rose (vv. 16323 ss.), la fisiono-mia di exemplum digressivo episodico propria della struttura delle Metamorfosi di Ovidio.

significative: l’arbitrato fra le dee è di norma affidato a Zeus, ma secondo una fonte isolata a dirimere la lite sa-rebbe addirittura la musa Calliope 17. Così come secondo Licofrone non sono Apollo, Ares o Artemide, ma le Muse a mandare il cinghiale funesto 18. Quando invece la respon-sabilità viene attribuita ad Apollo 19, a fornire il pretesto è la vendetta contro Afrodite per l’accecamento del figlio di Apollo Erimanto, che aveva visto la dea nuda mentre pren-deva un bagno dopo aver fatto l’amore con Adone. L’ira di Artemide, invece, di cui è traccia anche nella sintesi di Apollodoro, allude evidentemente alla vendetta della dea cacciatrice per la sventura del suo favorito Ippolito, ven-detta memorabilmente trattata da Euripide nella tragedia omonima.

Di questa ampia messe di varianti mitologiche, nella tradizione posteriore sopravvive ben poco: ancora nel i secolo a.C. il filosofo Filodemo poteva affermare che gli amori di Adone e Afrodite erano stati trattati da «molti poeti» 20, ma la lunga cesura che segna il passaggio dall’an-tichità all’età moderna sembra aver perso completamente di vista la frastagliata fisionomia dell’Adone più antico. Le poche eccezioni sembrano guidate da un consapevole de-siderio di recuperare la pregnanza di spunti secondari 21.

Di fatto, i testi letterari che esercitano un’influenza di rilievo sulle culture postclassiche sono solo tre, i primi di quest’antologia: le Siracusane di Teocrito, ove compare il Canto per Adone; il Lamento funebre per Adone di Bione e un episodio dal decimo libro delle Metamorfosi di Ovidio,

17 Igino, Astronomica ii, 7.18 Alessandra 832.19 Ad esempio in un altro passo di Tolomeo Efestione, citato sopra nella n. 14.20 Filodemo, La pietà religiosa, PHercul 243, col. iv/v 13 ss. (edizione critica in

D. Obbink, Philodemus. On Piety, Ox ford, Oxford University Press, 1996).21 Così accade ad esempio nella riscrittura del mito di Adone in The Bassarids

di W.H. Auden e Ch. Kall man: qui viene appunto valorizzata la notizia di Igino, Astronomica ii, 7, in cui l’arbitrato tra Afrodite e Persefone non è affidato a Zeus ma alla musa Calliope.

18 19

aveva una precisa collocazione nella festa, e di esso non si potrebbe escludere in astratto, nonostante la natura eviden-temente letteraria dei suoi intenti, la compatibilità con una celebrazione effettiva. Anche l’episodio ovidiano, infine, benché focalizzato principalmente sulla narrazione della vicenda mitica, non può fare a meno di riferirsi esplicita-mente ai riti in onore di Adone (x, 725-727) e presuppone nel lettore una competenza non soltanto mitologica, ma cultuale.

Questa festa, che nel mondo antico (semitico, greco, latino) tutti conoscevano per esperienza diretta, è sparita con la fine del politeismo classico – anche se, come in molti altri casi, alcuni aspetti del rito (il lamento sul gio-vane morto destinato alla resurrezione, come pure la pre-senza di vasetti con sementi appena germogliate) sono stati sincretisticamente assorbiti dai riti cristiani che hanno soppiantato i culti precedenti 24.

La festa antica di Adone non aveva una fisionomia e uno svolgimento unici in tutto il Mediterraneo: anche se le testimonianze si estendono per un arco cronologico am-plissimo, e vanno dal Medio Oriente all’Italia e alle regio-ni più occidentali dell’Africa e dell’Europa, i principali momenti che le fonti ci permettono di focalizzare sono tre: da un lato le feste di Adone celebrate a Biblo, sede del principale culto adonio in area semitica; dall’altro, nel mon-do di cultura greca, le Adonie dell’Atene classica (v-iv sec. a.C.) e quelle dell’Alessandria tolemaica.

Nelle Adonie di Biblo, che ci sono note anche grazie a fonti greche come il breve scritto di Luciano di Samosata

24 Una traccia di questo sincretismo si può riconoscere nel fatto che nelle zone geograficamente e culturalmente più isolate, come la Sardegna, i giardinetti di Ado-ne, cioè i vasetti con i germogli fatti crescere in casa per pochi giorni, si trovano ancora oggi attestati nel quadro dei riti solstiziali di san Giovanni (24 giugno), come solstiziale era lo svolgimento antico della festa, legata al sorgere della costel-lazione del Cane. Altrove i graziosi vasetti coi germogli sono invece stati assimilati ai riti primaverili della Pasqua, dove prevale l’aspetto orientale della “resurrezione” di Adone, chiaramente assimilata a quella di Gesù.

scena (dalla tragedia, al melodramma, al balletto); in modo ben diverso, come sappiamo, prima che le poetiche del Novecento imponessero di superare i confini formali dei modelli mitici, i grandi archetipi tragici come l’Edipo re di Sofocle generavano di norma solo altri testi drammatici 23.

La dimensione rituale e le Adonie di Teocrito

Oltre che per l’assenza di un unico archetipo letterario delle riscritture moderne, il mito di Adone si impone all’at-tenzione degli interpreti anche per un’ulteriore peculiarità. A differenza, infatti, di quanto avviene per quasi tutte le altre figure del mito rimaste familiari nelle culture moderne, l’immaginario adonio non procede primariamente dalla semplice elaborazione letteraria del racconto mitico. Esso prende piuttosto le mosse dall’esperienza condivisa di un rituale, ed è questo rituale, imperniato in primo luogo sul-la simulazione di un compianto funebre, a costituire il pun-to di riferimento privilegiato di ogni trattazione poetica. Se infatti si considerano le tre principali fonti letterarie men-zionate sopra (Teocrito, Bione e Ovidio), si nota che esse condividono una curiosa peculiarità prospettica, perché presuppongono nel lettore una familiarità non tanto con la vicenda mitica del personaggio, quanto con lo svolgimento delle feste in suo onore, che sappiamo attestate in contesti geografici e cronologici molto diversi in tutto il mondo antico: il mimo di Teocrito seleziona il momento apicale nel contesto delle Adonie alessandrine; il lamento di Bione è a sua volta una trasposizione letteraria di un lamento che

23 Nel Novecento si comincia a derogare al vincolo della modalità drammatica: solo allora, ad esempio, si scrivono, ispirandosi all’Edipo re, romanzi come Les gommes di Alain Robbe-Grillet o racconti come La morte della Pizia di F. Dürrenmatt. Sulla fortuna del capolavoro sofocleo si vedano gli studi di G. Padua-no, Lunga storia di Edipo re. Freud, Sofocle e il teatro occidentale, Torino, Einaudi, 1994 e Edipo: storia di un mito, Roma, Carocci, 2008.

20 21

ne. Si tratta di un mimo esametrico in cui due donne di origine siracusana residenti ad Alessandria d’Egitto si re-cano a palazzo ad assistere al momento apicale della festa. Nel vivace tessuto dialogico dell’idillio è incastonata la monodia che una cantante professionista intona al culmine della celebrazione (vv. 100-144: è il primo brano della nostra scelta antologica). Il gusto ellenistico per la mise en abyme, così spesso attestato anche nel Corpus Theocriteum, si risolve qui in un testo dallo statuto ambiguo, sospeso tra raffinata stilizzazione letteraria e riproduzione mimetica di un canto rituale. Analizzando la dimensione pragmatica del canto si vede come l’orizzonte performativo del rituale sia fortemente e consapevolmente richiamato in filigrana al di là dei tratti puramente letterari della simulazione: lungi dall’esplorare contenuti mitici narrativi e indipendenti dal contesto rituale, la monodia funziona piuttosto come una “conferma fàtica” di esperienze condivise. Il testo allude sì ad aspetti del mito di Adone («O amato Adone, fra i semidei tu solo – dicono così – tu solo dimori nell’Ade e poi risali sulla terra»), ma insiste soprattutto sulla sistema-tica evocazione del contesto rituale: nell’organizzare i topic del suo canto, infatti, la donna di Argo comincia col radi-care il momento presente in un calendario liturgico («le Ore dal passo leggero [...] nel dodicesimo mese dell’anno ti hanno riportato Adone»), ma soprattutto sovrappone alla ritualità periodica e seriale delle feste adonie il richiamo a un momento storico preciso, che fa della festa presente un unicum, e la risemantizza come un dono speciale con cui Arsinoe risponde a una grazia della dea: «la leggenda nar-ra che hai reso immortale la regina Berenice [...]: e ora [...] la figlia di Berenice [...] riconoscente verso di te colma di doni splendidi Adone».

La successiva evocazione ecfrastica del contesto rituale esplora sistematicamente oggetti e azioni della festa: dap-prima i «doni splendidi» accumulati in onore del semidio, e collocati «vicino a lui» o «sul tavolo»; poi gli spazi: i

La dea siria, la festa cominciava con il pianto per la morte di Adone, segnalata dal periodico arrossamento tardo-pri-maverile del fiume omonimo, e terminava con il tripudio per la resurrezione del ragazzo. Nel carattere ciclico della vita di Adone, che alterna periodi sulla terra a periodi nell’oltretomba come un vero e proprio dio della vegeta-zione, si può ravvisare il tratto specifico della versione orientale del mito, attestata ancora nell’opera di Paniassi. Al contrario, la vita dell’Adone greco è quella di un eroe umano, la cui morte viene pianta come una perdita defini-tiva. Non è un caso che l’ordine delle celebrazioni in area greca fosse opposto a quello semitico tradizionale: se a Biblo Adone muore, viene compianto e poi risorge, ad Atene o ad Alessandria Adone è al centro di una festa nuziale, che si conclude, nella seconda fase, con la morte prematura dello sposo e con il suo compianto.

Le Adonie classiche ateniesi ci sono note da testimonian-ze letterarie o iconografiche relativamente numerose, coeve (Aristofane) o posteriori ma tendenzialmente fededegne (Plutarco, Luciano). In alcuni casi (ad esempio nelle testi-monianze dell’epistolografo Alcifrone) la stilizzazione let-teraria atticistica non permette di storicizzare precisamen-te le informazioni. La festa non aveva carattere pubblico: un passo di Aristofane (Lisistrata, 387-396) presuppone che lo svolgimento del rito sia contemporaneo a un’assemblea civica – cosa impensabile per i culti ufficiali della polis. La celebrazione si svolgeva infatti in ambiente domestico, e prevedeva la partecipazione di donne e uomini di varia condizione. In casa si mangiava e si beveva allegramente. I vasetti con semi lasciati germogliare nei giorni preceden-ti erano esposti alla luce del sole, e il giorno seguente venivano portati in corteo, insieme alle statue di Adone morente o defunto, fino al mare o alle fontane, dove veni-vano gettati in acqua.

Le Adonie alessandrine ci sono note invece soprattutto grazie a un vivace componimento di Teocrito, Le Siracusa-

22 23

tologia, esibisce il rapporto di intima connessione dell’im-maginario adonio con l’esperienza del rito. Al posto della celebrazione festosa è però qui il momento del lutto a occupare l’orizzonte del carme. Fin dalle prime parole la voce poetica colloca il proprio intento espressivo nel solco di una precisa azione rituale, e si configura così, in termi-ni formali, come la voce del solista cui compete intonare il compianto sul morto. La sublimazione letteraria è peral-tro evidente nella realizzazione idealizzata dell’evento, im-maginato all’intersezione tra tempo del mito, unico ma sempre sotteso al presente della storia, e tempo del rito, ciclicamente ripercorso. Il coro che risponde alla voce del solista non è composto infatti da persone concrete, ma da amorini («Io piango Adone: “Il bell’Adone è morto!”. “È morto il bell’Adone”, ripetono gli Amori», vv. 1-2), cui di lì a poco farà eco addirittura il compianto simbolico della natura personificata (vv. 31-36) e poi il lamento straziato della stessa Afrodite (vv. 42-63). L’allusività mitologica maschera in parte il costante rimando a effettivi istituti rituali, ma la chiusa del carme è quasi brutale nel riporta-re l’evocazione mitologica alla prassi del rito (vv. 97-98):

Non piangere più, Afrodite, per oggi almeno cessa i tuoi la-menti. Dovrai piangere ancora, fra un anno ancora dovrai pian-gere.

Nonostante la chiara affinità tematica e formale, la resa letteraria del rituale da parte di Bione si configura in ter-mini piuttosto diversi dalla più antica attestazione greca del lamento adonio, nel fr. 140a Voigt di Saffo:

«Dea di Cipro, il tenero Adone muore: cosa dobbiamo fare?». «Battetevi il petto, fanciulle, e strappatevi i chitoni!».

zioni in prosa, si vedano le osservazioni di J.D. Reed, Bion of Smyrna. The Fragments and the “Adonis”, Cambridge, Cambridge University Press, 1997, p. 194.

«verdi pergolati» sotto cui «svolazzano [...] gli Amorini», e sotto di essi i simulacri nel loro apparato, suggeriti allu-sivamente dal richiamo ai materiali preziosi, l’«oro», l’«eba-no», l’«avorio», la «porpora». Sono i giacigli con le statue di Adone e di Afrodite, che vengono salutate prima della notte d’amore («ora, Afrodite, goditi il tuo sposo»). Pro-prio questo imperativo (v. 131: chairétō) rappresenta il punto culminante della narrazione e del canto, come di-mostra la coincidenza che solo qui si realizza tra tempo del rito (ciclico) e tempo della storia (lineare e irripetibile): quando l’Argiva dice «ora», si riferisce infatti proprio al momento presente dell’enunciazione – il suo invito alla dea non è più racconto ma azione diretta. Tutto ciò che pre-cede è invece riepilogo analettico (viene descritto quanto è appena accaduto, o è stato fatto e si vede nel cortile del palazzo come risultato della preparazione), mentre ciò che segue è accenno prolettico, che anticipa sinteticamente lo svolgimento della festa all’indomani («All’alba, con l’ultima rugiada, noi tutte insieme lo riporteremo sulla riva del mare [...]. E scioglieremo i capelli [...] e [...] intoneremo per lui un canto melodioso»).

Teocrito sovrappone qui dunque, mantenendoli costan-temente polivalenti, due livelli enunciativi: sul piano ritua-le infatti le parole dell’Argiva adempiono la condizione fondante della poesia d’occasione, che consiste nella di-scorsivizzazione di un’esperienza che si suppone condivisa; sul piano letterario, invece, la descrizione minuta funziona come un surrogato sensoriale, e supplisce con l’icasticità proprio alla mancata condivisione di quell’espe rienza.

Bione e il lamento su Adone

In modo solo apparentemente meno cospicuo anche il cosiddetto Epitafio di Adone 25, il secondo testo di quest’an-

25 Sull’anomalia del titolo, che usa un nome solitamente riservato alle celebra-

24 25

Alla base di questa necessità di elaborare l’emozione sublimandola in un diverso ordine di realtà (la condivisio-ne sociale o la poesia) c’è innanzitutto un dato antropolo-gico universale, ovvero l’opposizione tra il tempo lineare dell’esperienza individuale e quello ciclico della vita so-vraindividuale – in particolar modo della natura nelle sue varie manifestazioni. Questa contrapposizione (che nella cultura greca è attestata almeno fin dalla celebre assimila-zione omerica degli uomini alle foglie nel quinto libro dell’Iliade) si ritroverà puntualmente anche nell’Epitafio di Bione (vv. 99-104), dove essa allude al contrasto fra la fi-nitezza della vita individuale e la permanenza ciclica della natura.

Questa stessa contrapposizione, benché non esplicitata, è sottesa all’intero Epitafio di Adone, che contrasta una forma di temporalità ciclica e inesauribile (Afrodite) con il tempo lineare della vita di Adone. Lo strazio di una storia d’amo-re “impossibile” come quello tra una dea e un mortale si misura appunto nella disarmonia incommensurabile tra la vita eterna di lei e l’esistenza effimera di lui (vv. 51-53):

[...] te ne vai lontano, molto lontano da me, Adone, te ne vai lontano, giungi alle rive di Acheronte dove regna un sovrano perfido e crudele; e io invece, per mia sventura, non posso se-guirti perché sono una dea.

Si badi: questa non è l’eternità che compete a ogni es-sere divino: Afrodite è la dea della generazione naturale, e dunque la personificazione stessa della natura. L’equivalen-za è palmare nell’antichità, e anche nella tradizione, come mostra la caratterizzazione della Venere shakespeariana (Venus and Adonis, 139-142):

Guarda, non ho neppure una ruga sulla fronte,ho gli occhi blu, luminosi, pieni di vita,la mia bellezza rinasce come la primavera,ho carne piena e delicata, e dentro tutta un fuoco.

I due versi di Saffo provengono infatti con relativa sicu-rezza da un lamento funebre per Adone la cui concreta performance rituale, di cui non abbiamo motivo di dubita-re, si può intendere come l’occasione compositiva di un testo destinato solo successivamente a un’autonoma fruizio-ne letteraria; al contrario, l’opera di Bione parte dall’acqui-sizione della tematica adonia nel repertorio poetico per co-struire una dotta e allusiva “simulazione” di lamento rituale.

Da un punto di vista generale, il ruolo dell’Epitafio di Adone per la storia della fortuna letteraria del mito di Adone consiste essenzialmente nell’aver consegnato alla tradizione una stilizzazione letteraria raffinata e complessa di un lamento funebre, più o meno direttamente ricondu-cibile a un preciso contesto rituale. I suoi contenuti sim-bolici di maggior rilievo invitano a una lettura più accura-ta dell’insieme. Il carme organizza infatti il dato mitico (la morte di Adone e il compianto di Afrodite) in termini che insistono sulla progressiva estensione collettiva della soffe-renza, tramite i modi del lamento universale, a partire dal dolore privato della dea. La costellazione tematica di par-tenza (l’amore, la morte, la felicità interrotta, la memoria e il lamento) finisce così per inscriversi stabilmente nell’oriz-zonte della condivisione memoriale garantita dalla poesia. Fino a un certo punto questa condivisione memoriale – una sublimazione della sofferenza sul piano perpetuamente rin-novato della fruizione poetica – è, nell’Epitafio di Adone, un portato della stessa forma del lamento e della sua con-gruenza con la prassi rituale. Ma è particolarmente interes-sante che un emulo di Bione, l’anonimo autore del cosid-detto Epitafio di Bione per molto tempo erroneamente attribuito a Mosco di Siracusa, si appropri di questa con-catenazione di morte, sofferenza e memoria poetica per articolare un complesso discorso di ordine metaletterario capace di influenzare profondamente gran parte della tra-dizione successiva (ci torneremo sopra a proposito dell’Ado-nais di Shelley).

26 27

autodistruttive del lutto (che si manifestano in azioni che sono stilizzazioni simboliche della morte invocata dal su-perstite: cadere a terra, ferirsi, cospargersi di terra il capo ecc.) in una dimensione culturalizzata tale da permettere la condivisione socializzata dell’esperienza individuale e una gestione socialmente compatibile del dolore. Il dato essenziale in tal senso è l’opposizione tra una prima fase di «planctus irrelativo» (dove il dolore del congiunto si esprime appunto in modo individuale e disordinato) e una seconda fase di lamento ritualizzato vero e proprio, il cui tratto distintivo risiede nel riecheggiamento/corrisponden-za tra il dolore irriducibile del congiunto ferito e quello distribuito, condiviso e quindi disciplinato nella sua rela-zione con la comunità.

Ciò che De Martino riconosce nelle strutture sociali della Grecia antica, e poi nelle sue rare sopravvivenze mo-derne, emerge comunque in altra forma anche in diversi contesti culturali 28.

La scansione delineata da De Martino, desunta peraltro da un’ampia messe di testimonianze non solo letterarie, si attaglia perfettamente all’Epitafio di Adone: alla crisi della presenza innescata dall’incidente di Adone fa subito segui-to una fase di planctus irrelativo. In primo luogo Afrodite si dispera e si ferisce (vv. 19-24):

[...] e Afrodite, con le chiome sciolte, va errando per le selve, scalza e discinta. La feriscono i rami aguzzi mentre passa e si macchiano del suo sangue divino. Piangendo e singhiozzando lei percorre le ampie vallate, grida e chiama lo sposo venuto dalla Siria.

28 Protocolli di condivisione del lutto, segnati da un’espressione ritualizzata e pubblica del dolore, sono attestati ad esempio anche nella società di corte della Francia di Ronsard; sul tema si veda K. van Orden, Female “Complaintes”: Laments of Venus, Queens, and City Women in Late Sixteenth-Century France, in «Renaissance Quarterly», 54, 3, 2001, pp. 801-845, che osserva ad esempio come alla morte del re la regina sia tenuta a condividere con le sue dame una manifestazione del dolore ancora compatibile con le dinamiche antiche del lutto.

Da questa contrapposizione universale e metafisica la mor-te di Adone viene riconnotata in senso generale (è ciò che avviene appunto nell’Epitafio di Adone) come il conflitto tra le prerogative della natura e quelle dell’esperienza individua-le. In particolare, il carme può essere analizzato come la rappresentazione di un processo che genera una compensa-zione culturale (cioè socializzabile) a partire dall’irrimediabi-lità della perdita sul piano della soggettività individuale.

La dinamica di questa compensazione culturale può es-sere illustrata al meglio facendo riferimento alle teorie di Ernesto De Martino sul lamento funebre antico 26. Grazie ai filtri interpretativi che si ricavano dall’opera di questo importante storico delle religioni si può infatti capire la natura della riconfigurazione degli elementi adonii dell’Epi-tafio di Adone nella sua prima ripresa, cioè nell’Epitafio di Bione, e di lì la fisionomia del loro ulteriore irraggiamento. Il secondo carme mutua infatti dal primo non tanto detta-gli stilistici o allusioni di contenuto 27, quanto una strategia di riassorbimento socializzato dell’emotività individuale in cui possiamo leggere un ampliamento e una specializzazio-ne delle dinamiche sottese, secondo De Martino, ai rituali antichi del lamento nel loro complesso.

L’idea di fondo di De Martino è che la particolare or-ganizzazione del lamento funebre antico (che lo studioso indaga nelle fonti classiche e in alcune sopravvivenze ritua-li ancora presenti in Lucania negli anni cinquanta del No-vecento) serva innanzitutto a ricucire in senso culturale una ferita causata dalla cosiddetta «crisi della presenza». Il cordoglio collettivo ha lo scopo di sublimare le spinte

26 E. De Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria (1958), Torino, Bollati Boringhieri, 2008.

27 Ad esempio i vv. 68-69 dell’Epitafio di Bione (EB) sono chiaramente derivati dai vv. 13-14 dell’Epitafio di Adone (EA). Similmente, la notazione cromatica in EB�5 deriva da EA 66, come pure la proclamazione a tutti dell’evento e altri particolari espressivi; un esempio saliente è il vocativo «tripóthēte», «tre volte amato», che prima della letteratura tardoantica si trova in questa forma solo in EA 58 e in EB 51.

28 29

ne, che per l’ultima volta io ti abbracci e posi le mie labbra sulle tue. Svegliati, Adone, per un attimo e per l’ultima volta dammi un bacio; baciami fino all’ultimo respiro, sulla mia bocca esala il soffio della tua vita e questo soffio scorrerà dentro al mio cuore; io aspirerò la dolcezza del tuo fascino e mi berrò il tuo amore fino in fondo. Conserverò il tuo bacio come fosse Adone stesso, mentre tu, infelice, te ne vai lontano [...]».

Questo assorbimento prelude di norma alla seconda fase individuata da De Martino, ovvero l’elaborazione del lutto privato in un momento di più ampia condivisione cultura-le. Questa fase si può riconoscere anche nel nostro testo, che allude infatti alla composizione del morto sul feretro (coincidente con il letto degli amori: «sul tuo letto deve stare Adone, anche se è morto», v. 70), alle offerte funebri e alla preparazione del corpo con unguenti («Getta corone di fiori sul suo corpo; muoiano anche i fiori, tutti i fiori muoiano con Adone, poiché Adone è morto. E versa su di lui unguenti ed essenze di Siria: muoiano tutti i profumi della terra perché Adone era il tuo profumo e Adone è morto», vv. 75-78), e infine alla lamentazione vera e propria (vv. 80-85):

[...] intorno a lui piangono e gemono gli Amori. In suo onore hanno reciso i capelli e sul letto hanno posato chi le frecce o l’arco, chi una piuma della sua ala, o la faretra. Hanno slacciato il sandalo di Adone e portato dell’acqua in un bacile d’oro: uno di loro lava la ferita, l’altro, dietro al morto, muove l’aria con le ali.

La complessa articolazione enunciativa del carme per-mette dunque di riconoscere il suo obiettivo pragmatico più generale in un processo di trasformazione: quello che, per esprimerci in termini congruenti con la teoria di De Martino, permette il riassorbimento del dolore immedica-bile di Afrodite in un habitus culturale. Questa introiezio-ne del defunto coincide inoltre con una sublimazione

La sua proiezione ideale in un legame di solidarietà con il defunto è riconoscibile nell’immediato sfiorire della sua bellezza, che postula una corrispondenza “magico-simpati-ca” tra il defunto e il suo contesto affettivo (vv. 29-31) 29:

Ha perduto lo sposo bellissimo, ha smarrito con lui anche la sua divina bellezza, era così bella Afrodite quando Adone era vivo, ora la sua bellezza è morta con Adone.

Questa corrispondenza è un aspetto chiave della dina-mica del lutto, e si fonda su un desiderio proiettivo di identificazione/fusione col morto che porta a individuare e rafforzare sul piano espressivo ogni possibile affinità tra lui e i suoi cari, mettendo a frutto retoricamente ogni af-finità nominale. Un esempio molto chiaro è l’antanaclasi del sostantivo hélkos, «ferita», ripreso due volte a breve distanza con due significati leggermente diversi: la ferita materiale di Adone, è infatti “echeggiata” dalla ferita me-taforica del dolore di Afrodite («Crudele è la ferita che Adone porta sulla coscia, ma più crudele ancora quella che Afrodite porta in cuore», vv. 16-17); così le lacrime di lei, che “rispondono” al sangue della ferita di lui («Sono tan-te le lacrime versate dalla dea, tante quanto il sangue che scorre da Adone», vv. 64-65).

Questo desiderio di assimilazione/fusione, che come os-serva De Martino è in primo luogo espressione dell’urgen-za di morire insieme al morto, raggiunge il suo apice nell’Epitafio solo in forma rovesciata, ovvero nell’espressio-ne di un desiderio di assorbimento del defunto, di inclusio-ne della sua essenza identitaria (vv. 40-50):

Quando vide, quando capì che la ferita di Adone era morta-le, quando vide il sangue sulla coscia illividita, spalancò le brac-cia e gemendo gridò: «Aspetta, Adone, aspetta, sventurato Ado-

29 Sulla stessa linea anche il v. 60: «La magia della cintura è morta con Adone».

30 31

tafore coinvolte. Per fare solo un esempio, la trasformazio-ne del sangue di Adone in rosa (v. 66: «dal sangue sboccia la rosa») riprende il tema della rosa metaforica che lascia il labbro del ragazzo morente (v. 11): alla radice della trasformazione nell’oggetto naturale c’è dunque la designa-zione metaforica della bellezza di Adone, e il parallelismo illustra la convergenza – sistematicamente perseguita nei due Epitafii –  tra il mondo dei valori poetici e il sistema dei referenti naturali. Il riassorbimento di Adone avviene dunque in parallelo sia, tramite la metamorfosi, nell’oriz-zonte della natura (di cui Afrodite è rappresentante privi-legiata), sia in quello della poesia, che si concretizza nel lamento funebre e nel carme che di esso è poetica stilizza-zione. La ricomposizione del lutto tende insomma a collo-care questo riassorbimento all’insegna dei tratti comuni e intercambiabili di natura e poesia.

I riti di Adone e la poesia: da Frazer a Yeats

Nella tradizione successiva l’Epitafio di Adone godrà di grande fortuna, contribuendo in modo sostanziale a deter-minare la fisionomia di Adone nell’immaginario moderno. La rilevanza del carme di Bione si esplica a mio giudizio su due piani distinti, uno propriamente letterario, l’altro di portata più latamente culturale. Da un lato il carme viene infatti assimilato come modello poetico, e dà vita a una successione di testi che vanno dalle ecloghe di Luigi Ala-manni (incluse nel 1532 nella raccolta delle sue Opere to-scane) alla canzone Laissez la verte couleur di Mellin de Saint-Gelais (1545), dall’Astrophel di Spenser (1595) al Pianto d’Adone, un idillio di Marino pubblicato a Padova nel 1623, dall’Epitaphium Damonis di Milton (1639) all’Adonais di Shelley (1821) e oltre; dall’altro, però, l’im-portanza storico-culturale dell’Epitafio di Adone consiste nell’aver reso ineludibile, anche nella tradizione moderna,

dell’espe rien za (unica e finita come la vita mortale) in un orizzonte memoriale condiviso, stavolta non più lineare ma ciclico, come ciclico è il tempo della natura e del rito che della natura si sforza di essere il corrispettivo culturale più appropriato. È a questo “salto” temporale che rimandano gli ultimi due versi del carme, con l’improvviso richiamo alla ciclicità del lamento, che sancisce il definitivo riassor-bimento del dolore individuale per l’amante perduto nell’orizzonte sovraindividuale del rito e della sua evoca-zione poetica (vv. 97-98).

Questo è il punto concettualmente più delicato e rile-vante della mia lettura: l’evocazione poetica del lutto e la sua sublimazione letteraria corrispondono, nei termini sug-geriti da De Martino, alla fase di assorbimento del lutto nella prassi rituale del lamento comunitario. Come il grup-po sociale si fa carico della condivisione di un’emozione privata, e trasforma il sentimento privato potenzialmente distruttivo in un contenuto di ulteriore condivisione, final-mente gestibile e non più pericoloso, così il lutto presup-posto dal lamento poetico si pone come una sublimazione condivisa dell’evento originario del mito (o dell’evento oc-casionale che fornisce la materia del canto). Questo impli-ca in altre parole che la comunità sociale al cui interno ha luogo, secondo De Martino, l’elaborazione rituale del do-lore viene estesa, in queste stilizzazioni letterarie, all’intera comunità potenziale dei lettori. Nella civiltà letteraria di Alessandria, dove non si può più far riferimento a una precisa comunità sociale, le forme dell’elaborazione cultu-rale vengono così sublimate all’interno della comunità più astratta e impalpabile, ma certo non meno omogenea, dei fruitori di poesia.

Nella comunità ideale di lettori che viene ormai presup-posta come orizzonte di riferimento, l’assorbimento “cul-turale” del dolore si verifica in primo luogo in una pro-spettiva metalinguistica, che fa leva più di ogni altra cosa sulla connotazione metaletteraria dei sovrasensi e delle me-

32 33

Coerente con la visione del mondo sottesa all’intero movimento modernista, infatti, Yeats impernia questa sua poesia sull’intuizione (o sulla nostalgia) di un legame ne-cessario e pregnante che lega la realtà contemporanea a istituti rituali apparentemente obsoleti del mondo antico. Il rito di cui la visione presenta uno squarcio nella foresta è di fatto la cristallizzazione di un significato simbolico, e la rilevanza di quel simbolo è garantita dal carattere uni-versale ed eterno delle esperienze (biologiche ed esisten-ziali) cui esso si riferisce 32. La realtà opprimente e ingiu-stificabile del tempo che passa, dell’invecchiamento, della caducità emotiva, trova un sostegno e un sollievo nella corrispondenza simbolica con i significati del rito. Questa corrispondenza attenua il rischio sempre incombente della mancanza di senso, perché anche gli aspetti più desolanti della vita materiale dell’individuo – la sua stessa “pochez-za” storica – finiscono circoscritti e valorizzati dall’inseri-mento in una simile cornice metastorica.

Naturalmente, l’esistenza di un solido legame tradizio-nale con il sistema mitologico non impedisce a Yeats, come a ogni grande poeta, di risemantizzare in modo originale i dati del repertorio. Adone è dunque sì un simbolo della bellezza, ma non si riduce a significare il ben noto ideale di corpo maschile: in questo componimento Adone è, mol-to più in astratto, una metonimia dell’amore, della giovi-nezza e della possibilità stessa di essere felici. Più precisa-

of “The Golden Bough”, Princeton, Princeton University Press, 1973, pp. 221-226. Va menzionata peraltro l’opinione autorevole di N. Frye, che, in The Top of the Tower: The Study of the Imagery of Yeats, in Id., The Stubborn Structure. Essays in Criticism and Society (1970), London, Routledge, 2011, p. 269, osserva come Yeats avesse intuito alcuni dei contenuti centrali del pensiero frazeriano (ad esempio la congruenza di Cristo col profilo di «dying god»).

32 B. Arkins, Builders of My Soul: Greek and Roman Themes in Yeats, Savage (md), Barnes and Noble Books, 1990, p. 110, a proposito di questo componimento afferma: «Il mito qui non è tanto una vecchia storia o un rito annuale, ma si correla con la reale esperienza umana». Sul problema del simbolismo poetico in relazione a questo componimento si veda R. Snukal, High Talk: The Philosophical Poetry of W.B. Yeats, Cambridge, Cambridge University Press, 1973, pp. 76-80.

il confronto con la dimensione propriamente rituale del lamento, che proprio grazie a questo carme di Bione trova modo di confluire anche nei componimenti di fisionomia più squisitamente letteraria, e conferma così nella presenza latente del rito la cifra specifica della tradizione adonia moderna.

La rilevanza del sostrato rituale per la fortuna del mito di Adone è massimamente cospicua nell’Ottocento e nel primo Novecento, quando nuove ricerche di storia delle religioni e di antropologia del mondo antico portano in primo piano il culto di Adone. Alcuni studi specialistici, come il monumentale The Golden Bough di James Frazer, pubblicato a più riprese in due volumi nel 1890, poi in tre nel 1900, poi ancora in dodici dal 1906 al 1915, e infine in un’edizione ridotta nel 1922 30, raggiunsero anche il gran-de pubblico, e contribuirono in modo sostanziale al rinno-vamento dell’interesse di intellettuali e artisti per la figura di Adone. Non è un caso che dopo Frazer numerosi poeti, tra cui T.S. Eliot, Ezra Pound, Hilda Doolittle (meglio nota con il nom de plume H.D.), si siano lasciati ispirare, in modo più o meno profondo o sistematico, dal mito e dal rito di Adone. Un’opera come The Pot of Earth, di A. MacLeish (1925), scaturisce infatti da un’esplorazione si-stematica dei connotati antropologici e filosofici dei vasi di germogli che caratterizzavano le antiche feste di Adone; e anche Her Vision in the Woods di W.B. Yeats (l’ultimo testo compreso in questa antologia), come pure la sequen-za A Woman Young and Old da cui quella poesia provie-ne, si possono considerare un riflesso di tematiche adonie attualizzate dall’opera di Frazer, e in ultima analisi focaliz-zate sulla pregnanza simbolica degli istituti rituali cantati in Grecia da Saffo, Teocrito e Bione 31.

30 J. Frazer, The Golden Bough. A Study in Magic and Religion, London, Mac-millan, 1922; trad. it. Id., Il ramo d’oro, 2 voll., Torino, Bollati Boringhieri, 1973.

31 Sull’enorme rilevanza di Frazer per il pensiero e l’attività creativa di Yeats, in special modo per Her Vision in the Woods, si veda J.B. Vickery, The Literary Impact

34 35

tico – una mirabile riscoperta del ruolo originario del mito, che nasce dalla proiezione generalizzante di contenuti pro-blematici e potenzialmente distruttivi sul piano dell’esisten-za individuale. Il perno magico-simbolico dell’evocazione di Adone nel testo è il trascolorare del sangue delle ferite che la donna si infligge, nel sangue delle ferite delle donne in lutto per la morte del ragazzo: nuovamente un passaggio dalla valenza privata e solitaria dell’esperienza alla dimen-sione comunitaria del rito e all’eternità della vicenda mitica:

E, dopo, tenni alte le dita, fissai l’unghia scura come vino, o lo scuro che scorrevagiù lungo ogni dito vizzo. Ma trascolorò lo scuro in rosso, e torce fiammeggiarono, e una musica assordante agitò le foglie; una schieraconduceva sulle spalle una lettiga con uomo ferito, o colpiva la corda e cantavaal suono della bestia che inferse la ferita mortale.

Pastore e cacciatore

Torniamo a questo punto al mito antico e cerchiamo di sintetizzare i suoi contenuti essenziali; nella forma più com-pressa, li potremmo senz’altro ricondurre all’opposizione primitiva di amore e morte. Intendiamoci, però: la storia di Venere e Adone ha ben poco a che vedere con i para-digmi moderni di questo binomio (Romeo and Juliet, Tristan und Isolde, buona parte del melodramma ottocen-tesco...) e non si può in alcun modo considerare un loro antecedente antico; ciò che più precisamente caratterizza questa occorrenza del binomio amore/morte, e che ne de-termina la speciale pregnanza, sta piuttosto nel fatto che l’amore di Adone e della dea è un amore asimmetrico, anche se corrisposto, e che la morte di lui sembra corre-lata alla sua incapacità di conciliare le due vocazioni, quel-la del cacciatore valoroso e quella dell’amante felice. Ovi-

mente, anzi – con sottile paradosso –, Adone è qui un simbolo della bellezza della donna, che si scopre troppo vecchia per amare ancora (vv. 1-4):

Legna secca sotto il lussureggiante fogliame, alla mezzanotte nera come il vino nel bosco sacro, troppo anziana per l’amore di un uomo, folle mi ergevo figurandomi uomini.

In questa prospettiva, dunque, la morte di Adone che da lì a poco verrà rivelata dalla visione appare come evo-cata dalla consapevolezza del soggetto poetico, che reagisce al proprio decadimento fisico con un gesto autolesivo po-lisemico, perché oltre alla sua disperazione presente attua-lizza il dolore rituale per la morte del giovane cacciatore (vv. 4-8):

Figurandomi di poter lenire uno strazio maggiore con uno minore, o solo per scoprire se nelle vene avvizzite scorresse sangue, dilaniai il mio corpo affinché il suo vino coprissetutto ciò che poteva evocare il labbro di un amante. La correlazione tra la morte di Adone e l’avvizzimento

della bellezza femminile è un modulo tradizionale, memo-rabilmente inaugurato da Bione:

Ha perduto lo sposo bellissimo, ha smarrito con lui anche la sua divina bellezza, era così bella Afrodite quando Adone era vivo, ora la sua bellezza è morta con Adone.

Qui, semplicemente, il modulo appare rovesciato, e ca-povolge, simmetrico e reversibile, lo stesso rapporto origi-nario di causa-effetto: se nella tradizione Afrodite (o la Natura di cui la dea è emblema) avvizzisce al momento della morte di Adone, nel testo di Yeats la morte di Ado-ne viene invece evocata dall’avvizzimento del soggetto poe-

36 37

sostituisce la normale inclinazione per il matrimonio e la vita familiare e associata. Questo è vero per Ippolito come per Melanione, Perdicca, Atteone o altre figure del mito, ma riguarda anche personaggi femminili, come Callisto o Atalanta, che, nelle versioni greche del mito come in quel-la ovidiana 35, alla passione per la caccia contrapponevano un totale disinteresse per il ruolo di moglie e madre pre-visto dalla norma sociale. Non è un caso, dunque, che nel decimo libro delle Metamorfosi Ovidio intrecci il mito di Venere e Adone con quello di Atalanta e di Ippomene 36.

Benché legato alla dea dell’amore, dunque, Adone pre-senta forti tratti di somiglianza con Ippolito, o con l’Attis devoto di Cibele che finiva per evirare se stesso – vale a dire con figure di paredri umani che affiancavano dee del-la natura del tipo «Signora degli animali» in un rapporto di devozione esclusiva 37. Le implicazioni del parallelismo sono molto interessanti: se Adone e Ippolito corrispondo-no infatti a un medesimo profilo, anche nelle loro espe-rienze amorose andranno postulate forme magari poco

35 Due distinte figure di Atalanta, affini per i tratti venatori ma di pertinenza rispettivamente arcade e beota, vengono fuse da Ovidio nel personaggio che sfida e vince nella corsa i pretendenti alla sua mano.

36 Del resto, se anche nelle Metamorfosi i miti di Adone e Atalanta sono trattati in modo affatto originale, si deve altresì ricordare che la loro associazione non è un’innovazione ovidiana: in uno specchio etrusco di bronzo, databile al iv sec. a.C., la coppia Turan-Atunis (Venere-Adone) è giustapposta alla coppia Atlanta-Meliacr (Atalanta-Meleagro), mentre al centro campeggia la dea del destino Athrpa (la gre-ca Atropos, una delle Moire) dietro cui fa capolino il muso di un cinghiale. L’imma-gine è discussa sia da W. Atallah, Adonis, cit., pp. 64-66 che da M. Detienne, Dio-niso e la pantera profumata, cit., pp. 55 ss.

37 Sul tema si veda soprattutto W. Burkert, Structure and History in Greek Mythology and Ritual, Berkeley, University of California Press, 1979, trad. it. Id., Mito e rituale in Grecia, Roma-Bari, Laterza, 1987, pp. 157 ss. Di questa convergen-za mitologica, che lui non aveva modo di verificare nel dettaglio ma che appariva chiara al suo penetrante sguardo di poeta, si ricorderà lo Shakespeare del Venus and Adonis (1593), che per la prima volta dopo millenni di amore corrisposto sce-glie di capovolgere la versione del mito di Adone che gli offrivano le Metamorfosi per recuperare, con uno scarto imprevedibile, la fisionomia del cacciatore che rifiu-ta l’amore, e che fa di Adone un erede dell’Ippolito di Euripide e di Seneca più che dei suoi omonimi modelli antichi. Sul tema si veda oltre il paragrafo La rivoluzione shakespeariana.

dio o i suoi modelli diretti hanno bisogno ad esempio di esplicitare una raccomandazio ne/proibizione della dea, che chiede a Adone di cacciare solo prede inoffensive 33; questo contribuisce così a determinare un meccanismo di trasgressio ne/punizione che smussa la connotazione di in-cidente insensato che la vicenda acquisirebbe altrimenti.

Per capire meglio le radici di questa dinamica è utile senz’altro partire dall’identità di Adone come cacciatore fallito 34, e considerarne le caratteristiche in associazio ne e in oppo sizione rispetto al personaggio di Ippolito e di altri cacciatori-amanti più o meno convinti, ma immancabilmen-te problematici. Si può infatti agevolmente dimostrare che esiste una precisa costellazione tematica e connotativa che unisce aspetti apparentemente irrelati come l’identità del cacciatore e quella contigua del pastore con il tema dell’eros rifiutato o comunque vissuto in modo improprio e in ultima analisi trasgressivo.

Indipendentemente da Adone – e Ippolito è forse di ciò l’esempio più eclatante –, il cacciatore presenta un profilo di relativa irregolarità sociale, poiché si sottrae allo spazio e ai vincoli della convivenza civile privilegiando l’orizzonte extraculturale della foresta e della natura selvaggia. Sotto questo aspetto, l’affinità di Adone e Ippolito è ben chiara agli antichi, se Ovidio può accostare i due ragazzi in un distico dell’Arte di amare sottolineandone l’aspetto incolto e «adatto alle selve» (i, vv. 511-512). Per molti personaggi del mito, la caccia è presentata come una passione che

33 Ovidio, Metamorfosi x, 543-552; 705-707.34 Il tema è affrontato in una prospettiva storico-religiosa, che l’assenza di con-

siderazioni legate alle dinamiche tra i generi rende completamente diversa dalla mia e in esplicita polemica con Detienne, I giardini di Adone, cit., da G. Piccaluga, Adonis, i cacciatori falliti e l’avvento dell’agricoltura, in B. Gentili e G. Paione (a cura di), Il mito greco, Atti del convegno internazionale (Urbino, 7-12 maggio 1973), Roma, Ateneo & Bizzarri, 1977, pp. 33-48. La risposta di Detienne, eccessi-vamente sarcastica ma forte di diverse rettifiche puntuali, si trova in M. Detienne, Dionysos mis à mort, Paris, Gallimard, 1977, trad. it. Id., Dioniso e la pantera profu-mata, Roma-Bari, Laterza, 1981, pp. 43-53.

38 39

riori al v sec. a.C. 39, mentre la connotazione pastorale del ragazzo sembra testimoniata a partire da fonti ancora più tarde, Teocrito in primis 40, cui farà seguito, nel revival bucolico latino, l’orgogliosa rivendicazione della decima ecloga virgiliana, dove Adone viene menzionato addirittu-ra come prototipo di pastore amoroso (vv. 16-18). Coeren-temente col carattere ancipite testimoniato dalle fonti, an-che il protagonista dell’Adonis di Ronsard sarà, non a caso, «berger et chasseur tout ensemble» («pastore e cacciatore a un tempo», v. 9).

Di fatto, la connotazione culturale del pastore nella tra-dizione greca sembra piuttosto compatibile (nei testi lette-rari a noi noti, almeno) con il profilo trasgressivo e asocia-le del cacciatore. Nella lirica legata all’ambiente pastorale, ad esempio, si mantiene traccia di una sorta di incompati-bilità strutturale che oppone la pastorizia o la caccia (ester-ne per definizione allo spazio urbano e al consorzio civile) alla possibilità di relazioni affettive stabili e istituzionaliz-zate 41. È interessante ad esempio che a monte della poesia pastorale di Teocrito si collochino testi frammentari ma illuminanti come il fr. 1 Page del carme detto Erifanide, dal nome della protagonista 42: l’erudizione peripatetica conserva memoria di questo che Clearco definisce «canto

39 Non si può non ricordare, tuttavia, che il sumero Dumuzi, il più antico ante-nato di Adone, era già un dio-pastore due millenni prima di Teocrito, anche se in un sistema dove la pastorizia non era tanto un’attività residuale extraurbana, espressione di una cultura alternativa, quanto la base materiale e simbolica della civiltà sumera nel suo complesso.

40 In particolare i vv. 109-110 del primo idillio, Tirsi, in cui il poeta-pastore morente invita sprezzante Afrodite a tornare dal suo Adone, che «bada alle man-drie, caccia le lepri e insegue ogni sorta di fiere». Cfr. anche i versi del Piccolo mandriano, un componimento apocrifo del Corpus Theocriteum, in cui Adone è associato a tutti i mandriani amorosi del mito (20, 35-36).

41 È utile rimandare a uno studio di C.M. Lucarini, L’origine della poesia buco-lica in Grecia, in «Giornale Italiano di Filologia», 59, 2, 2007, pp. 213-244, in cui si sostiene appunto la tesi che alla radice di quelle che poi sarebbero diventate le convenzioni di un orizzonte poetico va individuata la strutturale incompatibilità tra l’isolamento pastorale e l’esperienza di una piena realizzazione affettiva.

42 Trasmesso dal peripatetico Clearco (iv sec. a.C.), fr. 32 Wehrli, citato a sua volta da Ateneo, I sofisti a banchetto xiv, 11 (619c).

evidenti di affinità. Agli amori di Adone con Afrodite cor-risponde, nella vicenda di Ippolito, un binomio costituito da due aspetti dell’amore fortemente polarizzati: da un lato, un aspetto positivo, che si esplica nella devozione casta ed esclusiva per la dea degli animali, Artemide cac-ciatrice; dall’altro un aspetto negativo e pernicioso, ovvero la seduzione trasgressiva e adulterina a opera della matri-gna Fedra. Per quanto insolito possa sembrare il parallelo, l’amore di Afrodite per Adone presenta, a uno sguardo capace di valorizzare gli impliciti simbolici e connotativi, entrambi gli aspetti: Adone è infatti un devoto della dea, ma la stessa energia dell’investimento amoroso di lei, ben-ché in termini indiretti e simbolici, finisce per travolgerlo e portarlo alla distruzione 38: e questo non significa soltan-to che Adone viene trafitto dal cinghiale perché disobbe-disce alla raccomandazione di Venere, o perché suscita la gelosia del dio Marte o di altri, come tendono a farci cre-dere le versioni del mito evidentemente razionalizzate già da epoca classica; significa soprattutto che l’amore di Afro-dite, e l’amore con cui il ragazzo corrisponde a quello della dea, sono incompatibili con le sue aspirazioni esisten-ziali, con il profilo virile cui, almeno stando ai suoi tratti venatori, il ragazzo sembrerebbe volersi adeguare.

Oltre che al mondo della caccia, Adone è associato ben presto e con notevole continuità a un altro universo di erotismo anomalo e problematico, quello pastorale. Anche gli studiosi parlano senz’altro di Adone come di un pasto-re-cacciatore, sottovalutando forse l’originaria incompatibi-lità dei due profili, che sono espressione di fasi della civil-tà successive e per lungo tempo antagoniste (il nomadismo della cac cia/raccolta e l’inizio delle prime attività di alle-vamento del bestiame). Nelle fonti greche a noi note i ri-ferimenti al cinghiale e alla caccia funesta non sono ante-

38 Per un’analisi più dettagliata delle connessioni anche remote o simboliche tra Afrodite e la morte di Adone si veda A. Grilli, Storie di Venere e Adone, cit., pp. 142 ss.

40 41

sovraordinata 44. Nel primo caso Adone si potrà allineare a figure di cacciatore come quelle già menzionate sopra (Ip-polito, Atteone) 45. Ma anche i pastori sono esposti al ri-schio di relazioni proibite o comunque pericolose con sog-getti femminili sovraordinati: e infatti Adone ha su questo versante una serie di paralleli nelle figure di giovinetti-pastori, guarda caso tutti bellissimi: Dafni, Endimione, Titono, Paride, Anchise. Simili giovani finiscono immanca-bilmente 46, per effetto del loro amore “irregolare”, cioè dove il maschile è subordinato al femminile, per ritrovarsi in una situazione di depotenziamento definitivo (Dafni, Titono, Endimione) o di disordine devastante (Paride). Il punto è che cacciatori e pastori sono soggetti sociali “mar-ginali” (talora, come Paride, l’attività pastorale è conse-guenza della loro esclusione dalla città), e in essi è pertan-to più facile che vengano infranti tabù, come il legame amoroso in posizione subordinata.

Da questi accenni dovrebbe risultare con chiarezza che gli amori apparentemente ingenui e innocui di pastori e di cacciatori per le belle sconosciute che si trovano a passare per i loro boschi sono una delle emergenze residue di si-tuazioni di pericolosa dominanza femminile, ovvero di un contenuto rimosso cruciale per la cultura patriarcale, e che solo i travestimenti di miti più antichi hanno spostato fuo-ri dal confine della civiltà urbana. Non è un caso che i pastori del mito non appartengano a classi sociali inferiori,

44 Ipergamico-ipogamico sono termini del linguaggio tecnico della sociologia, con cui si definiscono abitudini a contrarre nozze con partner di condizione sociale rispettivamente superiore o inferiore.

45 Un articolo di G. Ballaira, Perdica e Mirra, in «Rivista di cultura classica e medievale», 10, 1968, pp. 219-240, attira l’attenzione sulle analogie tra il mito di Adone e quello di Perdica, oggetto del breve epillio tardoantico Aegritudo Perdicae. Anche Perdica è un cacciatore che rifiuta l’eros, e Venere lo punisce facendolo in-namorare della madre e morire di consunzione per il desiderio inappagato.

46 Con l’eccezione di Anchise, che peraltro esprime perplessità angosciose di fronte alla preferenza che la dea gli ha accordato, a conferma della regola che gli amori di una dea sono rovina per il mortale che da essa viene scelto (cfr. Inno ad Afrodite, vv. 185-190).

pastorale» in cui una donna infelicemente innamorata in-segue l’amato pastore Menalca, che rifiuta implacabile ogni profferta amorosa. Anche altri testi lasciano intendere che alla radice del mito che fonda la poesia pastorale, ovvero quello del pastore Dafni, la cui morte è cantata nel primo idillio di Teocrito (e in altri luoghi, fino alla quinta ecloga di Virgilio), sia da collocare un atteggiamento di rifiuto dell’amore (Dafni è nemico di Eros, come ricordano i vv. 97-98 e 103 di Teocrito i) o comunque un’esperienza di esso complessivamente problematica e tormentosa 43.

Nell’essere cacciatore e pastore, dunque, Adone si pone non solo sulla linea di Ippolito e di Atteone, ma su quella di Dafni e del Menalca di Erifanide – vale a dire di una serie di giovani che, per necessità o per scelta, si astengo-no dall’eros o ne vengono comunque colpiti in modo in-desiderato e in ultima analisi pernicioso. L’amore di cui gode Adone da parte della dea Afrodite è dunque un amore sostanzialmente “irregolare”, vale a dire in qualche misura incompatibile con caratteristiche immanenti al pro-filo del ragazzo.

In cosa consiste questa irregolarità? Mi sembra che, a un livello generale, la risposta vada ricercata nell’orizzonte di schemi normativi con cui le culture, quella greca antica, e le altre che a essa sono succedute, definiscono gli equi-libri tra i generi; nel mito di Adone confluiscono infatti due orizzonti di interdetto: da un lato quello della relazio-ne ex tra sociale, vissuta nei boschi da una figura ancora incapace, per immaturità o per scelta, di assumere una posizione definita all’interno di una compagine sociale; dall’altro quello che vieta al soggetto maschile di intratte-nere un rapporto ipergamico con una partner femminile

43 Nel fr. 2 Powell di Licofronide, ad esempio, un capraio dedica ad Afrodite gli strumenti del suo canto pastorale, perché ha deciso di seguire l’amore per una ra-gazza: come a sancire una volta di più l’incompatibilità tra la vita pastorale (nonché la lirica che la contraddistingue) e l’esperienza amorosa.

42 43

psicologicamente più complesso da Virgilio nel quarto li-bro dell’Eneide, di Enea che rinuncia alla felicità privata con Didone (che lo avrebbe inevitabilmente costretto nel ruolo del principe consorte) per assumere il ruolo virile del fondatore di città e di civiltà.

Nella debolezza di Adone e nella sua morte, quindi, si può leggere il monito contro i rischi di una gestione im-propria e carente del corretto profilo virile: la scelta amo-rosa ipergamica, vale a dire passiva, di fronte a una partner dominante, è incompatibile con la gestione del normale ruolo egemonico che la cultura patriarcale riserva a ogni maschio. La connotazione del mito di Adone privilegiata nelle sue rappresentazioni letterarie contribuisce dunque a costruire socialmente l’opposizione tra l’erotismo venato-rio/pastorale (extraurbano e anti-istituzionale) e l’eros ci-vico, cui compete la gestione del matrimonio e la produ-zione di prole legittima per il rinnovamento della città 49.

L’Adone delle «Metamorfosi»

La prospettiva di genere è senz’altro il filtro più produt-tivo per la lettura dell’episodio di Adone nelle Metamorfosi di Ovidio (x, 469-739) 50. Nella versione del mito cui Ovi-dio si attiene, non sappiamo fino a che punto per effetto della mediazione di sue fonti oggi perdute, la vicenda di Adone è amputata di una parte molto significativa, che costituisce invece il nucleo della trattazione di Paniassi. Il mito trattato è grosso modo lo stesso (la dea, l’amore, la

49 L’idea della contrapposizione fra l’eros adonio e quello “regolare” della polis è sviluppata in modo convincente da Detienne, I giardini di Adone, cit. Sulla stessa linea, ma in una prospettiva completamente diversa, improntata alla teoria junghia-na, si colloca il saggio di R. Segal, Adonis: A Greek Eternal Child, in D.C. Pozzi e J.M. Wickersham (a cura di), Myth and the Polis. Myth and poetics, Ithaca, Cornell University Press, 1991, pp. 64-85.

50 Riprendo in questo paragrafo le considerazioni che ho già articolato in A. Grilli, Storie di Venere e Adone, cit., pp. 101 ss.

ma a un’élite dominante, anche se espressione di una fase così remota della civiltà che le distinzioni tra re e pastore non sono poi così nette; infatti, prima che «pastore di popoli» diventasse un mero epiteto onorifico, come per l’Agamennone omerico, i re erano pastori-allevatori in sen-so proprio, come l’Odissea stessa non trascura di farci pre-sente; e non è un caso se dei giovinetti elencati poco sopra ben tre sono membri della casa reale troiana (Titono, figlio di Laomedonte; Paride, figlio di Priamo; Anchise, figlio di Capi e discendente di Dardano, al pari dei re di Troia).

Nell’accettare l’amore della dea, Adone si espone dun-que alle sanzioni simboliche che colpiscono la trasgressio-ne di una norma culturale talmente radicata da non essere mai nemmeno formulata in modo esplicito, ma la cui os-servanza viene ripetutamente postulata dalla cultura attra-verso tanti miti paralleli che si intrecciano e si sovrappon-gono fornendo il loro ammaestramento: un soggetto fem-minile – fosse pure la dea Venere o qualsiasi altra dea – non può mai porsi come soggetto di desiderio, e quando lo fa condanna alla distruzione l’uomo che accetta un simile patto anticulturale 47. Già Calipso nell’Odissea recrimina contro quest’ordine patriarcale, che colpisce (uccidendo il partner maschile, beninteso) tutte le dee che osano sceglier-si da sole un amante meno potente (Odissea v, 118-130).

La risposta corretta di fronte a un’amante di rango su-periore e pertanto culturalmente pericolosa è quella che fornisce appunto l’eroismo concreto, realistico e «borghe-se» di Odisseo nel rifiutare l’amore di Calipso e la sua profferta di eternità segregata 48; è quella, riscritta in modo

47 Il tema è ben messo a fuoco, in relazione all’orizzonte mitologico di Saffo, da E. Stehle, Sappho’s Gaze: Fantasies of a Goddess and a Young Man, in «differences: A Journal of Feminist Cultural Studies», 2, 1, 1990, pp. 88-125.

48 Mi riferisco ovviamente all’analisi memorabile dell’Odissea che Horkheimer e Adorno includono come Excursus i tra i saggi di Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente (1944), trad. it. Eid., Dialettica dell’illuminismo (1966), Torino, Einaudi, 2010, pp. 51-86.

44 45

Quasi tutti gli studi moderni su Adone marginalizzano lo strano dettaglio di una scelta amorosa che ha per ogget-to un partner ancora bambino. La cosa è quanto meno insolita, e disturbava evidentemente già Ovidio, che nella sua versione del mito, pur risalendo nella sua dettagliata trattazione fino agli amori incestuosi di Mirra e Cìnira, elide totalmente non solo l’episodio della contesa fra le dee, ma la stessa presenza di Venere nell’infanzia dell’eroe. A presenziare alla nascita, secondo un copione del tutto conformistico, è la ben più pertinente Lucìna (v. 510), che la facilita pronunciando le parole di rito (verba puerpera, «la formula del parto», v. 511):

L’albero si fendee dalla rotta corteccia esce un essere vivo:vagisce un bimbo che le Nàiadi depongonosu morbide erbe e ungono con le lacrime materne. L’invidia stessa ne avrebbe lodato la bellezza: il suo corpo è simile a quello degli Amorini nudi dipinti sui quadri; ma perché l’abbigliamento non li renda diversi,togli a loro o aggiungi al bambino una leggera faretra.Scivola via il tempo e non ne avverti il volo che t’inganna: niente è più rapido degli anni. Il bimbo, figlio di sua sorella e di suo nonno, che poco prima era racchiuso in un tronco, che poco prima aveva visto la luce, ora è già un bellissimo bambino, poi un giovane, un uomo, più bello ancora della sua bellezza, che piace perfino a Venere e vendica la passione materna.

La bellezza del bambino, essenziale per gli sviluppi suc-cessivi della sua storia personale, viene equiparata a quella di Amore figlio di Venere (vv. 515-518): viene così riassor-bita su un piano puramente metaforico la perturbante con-notazione materna del primo incontro fra i due futuri amanti. Gli anni intermedi vengono esplicitamente ricac-ciati nell’ápeiron dell’ellissi narrativa («Scivola via il tempo e non ne avverti il volo che t’inganna»); e il bisogno di

caccia al cinghiale, la morte), ma a uno sguardo più atten-to esso rivela divergenze tutt’altro che marginali. La prin-cipale è senz’altro il diverso trattamento riservato alle pri-me fasi della vita di Adone: Paniassi le esplora in dettaglio, dalla nascita del bambino all’esito dell’arbitrato di Zeus, mentre Ovidio preferisce rimuoverle in toto. Questo ha importanti conseguenze: da un lato, infatti, nella linea ovi-diana sparisce il tema della contesa fra le dee, e con esso si attenua il carattere ambivalente di un Adone sospeso fra mondo terreno e oltretomba; dal l’al tro vengono a configu-rarsi in modo radicalmente diverso le circostanze dell’in-namo ra mento della dea. Ricordiamo cosa si legge nel rias-sunto di Paniassi (pseudo-Apollodoro, Biblioteca iii, 14, 4 [184-185]):

Dopo nove mesi l’albero si aprì e diede alla luce Adone, che Afrodite, a causa della sua bellezza, di nascosto dagli dei chiuse, ancora bambino, in una cassa che affidò a Persefone. Quando lo vide, Persefone non volle più restituirlo. Allora Zeus decise che l’anno fosse diviso in tre parti e stabilì che Adone ne trascorres-se una per conto suo, un’altra presso Persefone, la terza con Afrodite. Adone però dedicò anche la propria parte di anno ad Afrodite. (trad. di M.G. Ciani, corsivo mio)

Questa versione del mito (attestata frammentariamente ma in un’area molto vasta, dalle colonie ioniche dell’Egeo all’Etruria, per non parlare degli antecedenti mesopotami-ci) colloca il cruciale incontro fra la dea e Adone in un momento imprecisato di poco successivo alla nascita dell’eroe dalla corteccia dell’albero della mirra. In questa versione, seguita anche da Paniassi, la grande dea della natura e dell’amore si lascia sedurre dalla bellezza di un bambino ancora piccolo (eti nēpion, come precisa lo pseudo-Apollodoro), quando lo splendido, amabile adolescente è ancora di là da venire. La forma più comune della vicenda, a partire dalle Metamorfosi, si focalizza invece sugli amori effimeri ma appagati di una coppia adulta.

46 47

dell’irrag giamento tradizionale del mito di Adone si collo-cano così due versioni non solo diegeticamente comple-mentari, ma connotativamente antagonistiche.

È interessante osservare che l’opposizione rilevata grazie a questa lettura gender-oriented di Ovidio e Paniassi non costituisce un dato isolato. Al contrario: se si esamina il complesso della tradizione adonia, si riscontra la curiosa persistenza di questa polarizzazione anche nei testi moder-ni 51. Su una stessa linea “matriarcale” si collocano infatti opere disparate come il poemetto di Shakespeare Venus and Adonis (1593), il romanzo “scandaloso” di Rachilde Monsieur Vénus (1884) o la piccola allegoria drammatica The Judgment of Calliope, incastonata in The Bassarids, l’adattamento delle Baccanti di Euripide che Auden e Kallman proposero come libretto a Hans Werner Henze nel 1966 (e il cerchio si potrebbe chiudere ricordando l’opera che Henze scrisse nel 1997, su un libretto di Hans-Ulrich Trei-chel tratto proprio dal Venus and Adonis di Shakespeare). Dall’altro lato, invece, la tradizione inaugurata da Ovidio contro Paniassi propugna una caratterizzazione più “virile” di Adone: questa linea comprende poeti grandi, come il Ronsard o il La Fontaine dei rispettivi Adonis (1564 e 1658), o meno grandi, come il Giulio Antonio Ridolfi di La corona di Adone (1633) – e insieme a lui la messe di emuli mariniani, che propongono in genere un Adone “adulto” e regale, anche se incongruamente dipendente per la sua “maturità” sociale dal favore onnipotente della dea o da qualità non virili come la bellezza. Marino stesso, da parte sua, sembra oscillare nella caratterizzazione del suo protagonista tra una versione virile e una più infantile e passiva, e forse anche quest’incertezza strutturale è tra i fattori che rendono il suo Adone, benché superlativo per qualità poetiche, una congerie narrativa improbabile e tra-

51 Per una trattazione più approfondita di questo importante aspetto si veda ancora A. Grilli, Storie di Venere e Adone, cit., pp. 107 ss.

bruciare le tappe, di appianare la disarmonia della situa-zione di partenza tradizionale è così urgente che nel giro di tre versi (vv. 521-523) il feto frutto dell’incesto è non solo neonato (genitus), bimbo (infans) e giovane uomo (iuvenis), ma addirittura uomo fatto (vir), con una clamo-rosa contraddizione del principale tratto distintivo di Ado-ne, e cioè la sua incompleta parabola esistenziale, conclusa prima del perfetto fiorire della virilità. In Adone, decisa-mente, Ovidio non vede l’adolescente sempre acerbo, ma l’uomo già formato. Ed è chiaro che l’espressione iam placet («e piace») esclude (come mostra poi la narrazione del repentino e casuale innamoramento della dea ai vv. 525-528) anche solo l’ipotesi di uno sguardo erotico della dea all’eroe nella sua prima infanzia. Quello che piace alla Venere di Ovidio è la viri forma (v. 529), la bellezza di un maschio già adulto.

La scelta ovidiana di non narrare l’infanzia di Adone potrebbe sembrare frutto di una selezione arbitraria, stan-te il carattere spesso allusivo e brachilogico delle Metamor-fosi. Ma l’episodio di Mirra, di cui la vicenda di Adone è la parte conclusiva, viene trattato invece con grandissimo dettaglio; l’ellissi narrativa si rivela dunque funzionale a un’accen tua zione della centralità del rapporto amoroso fra Venere e Adone, nell’ottica di una maggiore omogeneità tematica della sezione (non si dimentichi infatti che il de-cimo libro del poema raccoglie, come finzione di secondo grado all’interno del canto di Orfeo, racconti di amori aberranti o infelici). La convergenza tematica non è però il solo effetto della selezione: con la sua scelta espressiva, Ovidio configura il rapporto affettivo fra la dea e il ragaz-zo in modo sostanzialmente “orizzontale”, cioè paritario e simmetrico – se non per la dignità dei partner, per l’inten-sità del coinvolgimento emotivo; invece la versione di Pa-niassi presenta ancora un legame dai forti connotati mater-ni, un regime affettivo “verticale”, segnato dall’asimmetria di una relazione fra un’adul ta e un bambino. Alla radice

48 49

getto consapevole di seduzione, in vistoso contrasto con la natura oggettuale e passiva del ragazzo testimoniata dalle fonti. La trasgressività di Adone, su cui Detienne tanto insiste, non dipende infatti dalla sua ricca attività sessuale, perché quasi tutti gli eroi del mito ne hanno una non meno esuberante (per non parlare di certi dei intemperanti come Zeus, Apollo, Ermes e via dicendo). Se consideriamo ad esempio Eracle, Giasone, Teseo, lo stesso Achille, vediamo che tutti costoro si innamorano allegramente, seducono, conquistano, violentano, e, quando sono stanchi o hanno altri progetti, abbandonano senza troppi problemi fidanza-te, mogli o compagne di letto (a meno di non avere a che fare con Medea). Adone, e come lui gli altri ragazzini che finiscono sbudellati, accecati, evirati, avvizziti, imbalsamati o distrutti dagli amori di dee potenti (Titono, Endimione, Iasione, Attis ecc.) non sono dunque trasgressivi per la loro attività erotica in sé, ma per il carattere predominante di quell’erotismo rispetto alle attività definitorie dell’identità maschile, e soprattutto per la dimensione subordinata entro cui viene costretto il ruolo virile in simili accoppiamenti.

L’«Adonis» di Ronsard

Mostrando una versatile assimilazione anche delle fonti greche, le riscritture ovidiane del Rinascimento superano la prevalenza narrativa sollecitata dall’imitazione delle Me-tamorfosi per lasciare spazio più ampio all’esplorazione lirica di emozioni amorose e luttuose, in particolar modo nel compianto su Adone morente. Il ricorso al carme di Bione come falsariga per un “ampliamento” del modello ovidiano conferma e rafforza così la tendenza alla “pasto-ralizzazione” di Adone, che fin dall’antichità ellenistica si era rivelata una delle più significative trasformazioni tra-dizionali del personaggio. Un esempio illustre di questo riuso composito e “pastoralizzato” è nell’epillio di Ronsard

ballante. Ma sulla stessa linea dell’Adone “virile” sono da collocare anche tutti i testi che in Adone non vedono altro che l’epitome di una virilità smaliziata e immorale, capace di seduzione attiva e priva di scrupoli – dal racconto Ado-nis di A. Wilbrandt (1911) al romanzo Adone di S. Zanot-to (1984).

A dimostrare come le esegesi siano in fondo parte inte-grante della tradizione di un mito, la stessa polarità tra i due modelli di Adone attraversa anche il panorama degli studi sul personaggio: a un estremo, la linea ovidiana è proseguita da un approccio che ha il suo principale rap-presentante in Marcel Detienne, e che vede in Adone l’espressione di una soggettività segnata da un’irrefrenabi-le vocazione seduttiva. All’estremo opposto, gli studi di J.J. Winkler e di R. Segal 52 insistono invece sull’asimmetria della relazione amorosa: per loro, anche se da diverse pro-spettive, Adone è essenzialmente un ragazzo passivo e su-bordinato, un bambino da amare e proteggere in una si-tuazione di evidente dominanza femminile. Per Detienne invece Adone è dotato, nonostante la disparità oggettiva che oppone un mortale a una dea, di una soggettività au-tonoma, che compensa con la forza della capacità sedutti-va l’evidente squilibrio di forze rispetto all’amante immor-tale.

Di questo schieramento bipartito fa parte anche la mia interpretazione, vicina a quella di Robert Segal e nettamen-te contrapposta alla fortunata lettura di Adone come se-duttore 53. Il punto debole della lettura di Detienne, a mio giudizio, sta infatti nell’aver trasformato Adone in un sog-

52 J.J. Winkler, The Constraints of Desire. The Anthropology of Sex and Gender in Ancient Greece, New York-London, Routledge, 1989 (su Adone il capitolo 7, pp. 188 ss.); R. Segal, Adonis: A Greek Eternal Child, cit.

53 Un’analisi dei fraintendimenti legati alla ricezione del saggio adonio di De-tienne si trova in A. Grilli, Storie di Venere e Adone, cit., pp. 91-98; la tesi generale sulla dinamica degli amori tra la dea e il ragazzo è articolata invece in dettaglio nei capitoli 3 e 4 del saggio, pp. 99-197.

50 51

cospicue invece le derivazioni da Bione, a cominciare dal-la struttura: l’Epitafio è scandito infatti da versi ripetuti identici o leggermente variati 55, che evocano o mimano la dimensione ripetitiva e responsoriale propria del lamento funebre; un verso ripetuto di Bione (v. 6 = 16: «Io piango Adone; con me lo piangono gli Amori») viene trasformato da Ronsard in un vero e proprio refrain, e dilatato in una coppia di versi con l’inizio del secondo variato a ogni ri-presa (vv. 225-226: «Povero Adone, tutti gli amori ti pian-gono: / Per la tua morte tutte le delizie muoiono!»). Anche la successione dei topic di Adonis è chiaramente mutuata dall’Epitafio, benché la struttura sia modificata in modo da rafforzare il più possibile il punto di vista della dea, nel cui discorso diretto confluiscono spunti che nell’originale erano affidati alla voce narrante 56.

Ma la ricognizione degli echi testuali è solo l’aspetto più vistoso, non certo il più illuminante, per comprendere il senso della trasformazione dei modelli antichi nell’Adonis di Ronsard. La variazione più importante consiste senz’al-tro nella dislocazione della vicenda in un’atmosfera espli-citamente pastorale, che risponde ad alcuni suggerimenti dei modelli ellenistici, ma contribuisce di fatto a disegnare per l’Adone moderno un nuovo percorso preferenziale, lirico più che narrativo. Come abbiamo visto, in Ronsard Adone non è solo cacciatore, come in Ovidio e in Bione, ma pastore 57, sulla scorta illustre dell’Adone virgiliano (Bu-coliche x, 18): questo significa non tanto che il suo tempo sia scandito dai rustici mestieri della pastorizia, quanto che

le esortazioni della dea alla prudenza nella caccia (vv. 65-114, ripresi in modo più o meno diretto da Metamorfosi x, 542-552).

55 Cfr. vv. 1-2; 6; 15; 28; 62-63.56 Pertanto il primo accenno al bacio (Ronsard vv. 213-224 ~ Bione vv. 12-14),

l’osservazione che la bellezza di Venere muore col ragazzo (Ronsard vv. 239-242 ~ Bione vv. 30-31), ma anche l’accenno alla simpatia degli elementi naturali (Ronsard vv. 251-253 ~ Bione vv. 32-39) sono in Bione osservazioni esterne della voce poe-tica, mentre la Venere di Ronsard le fa sue in una lunga rassegna autoriflessiva.

57 Come esplicitamente sottolineato nel testo ai vv. 9; 23; 39; 70; 151; 154; 162.

(il quarto testo della nostra raccolta), la cui prima parte, squisitamente narrativa, ricalca nelle grandi linee e nel dettaglio l’episodio ovidiano di Adone, mentre il lamento di Venere su Adone morente ha in Bione il suo principa-le modello. Il carattere felicemente complementare dei testi di Bione e di Ovidio è chiaro a tutti: in Ovidio in-fatti il vero e proprio lamento della dea sul corpo del giovane morente è compresso in un brachilogico accenno, che permette di concentrare l’attenzione sulla metamorfosi di Adone in anemone e sull’istituzione del rito (vv. 722-731):

[Venere] strappandosi insieme veste e capelli, si percosse [il petto

con le incolpevoli mani. Poi si lamenta col Fato e dice: «No, non tutto sarà in tuo potere! Eterno resterà il ricordo del mio lutto, Adone, e la scena della tua morte,ripetuta ogni anno, rappresenterà per sempre il mio dolore.Ma il tuo sangue si muterà in un fiore. Se a te fu concesso, Persèfone, di mutare il corpo di una donna in una pianta di menta profumata,perché dovrebbe essermi impedito di trasformare l’eroe figlio di Cìnira?».

Quest’ellissi è del tutto funzionale all’economia narrativa del poema ovidiano, dove gli esiti metamorfici ed eziolo-gici delle narrazioni prevalgono sull’esplorazione psicolo-gica del lutto e delle sue manifestazioni espressive. Agli epigoni ovidiani viene dunque lasciato ampio gioco per ampliare l’effusione sentimentale del lamento, cui il carme di Bione offre un modello di straordinario prestigio.

Da Ovidio Ronsard deriva l’impianto complessivo dell’episodio, oltre a vari elementi di dettaglio 54. Molto più

54 Ad esempio la bellezza di Adone (v. 10, paragonato a un dipinto: cfr. Ovidio, Metamorfosi x, 515-516), l’innamoramento di Venere (vv. 29-34, che recupera le iperboli ovidiane sull’amore esclusivo per il ragazzo: cfr. Metamorfosi x, 529-532) o

52 53

suona la zampogna, e per accontentarla,quei piacevoli abbandoni non smette di cantare.

Come si vede, le attività dell’amore e del canto vengono sovrapposte icasticamente nella descrizione speculare degli amanti. Con l’importante differenza che all’uomo, alter ego del soggetto poetante, spetta non solo l’abbandono amo-roso ma la sua ruminazione letteraria: mentre la dea «ab-braccia e bacia» il ragazzo, manifestandogli il suo desiderio, lui (con un’asimmetria che agli occhi dei lettori moderni sembra quasi un tocco di comicità involontaria) «suona la zampogna» per ricambiarla, e trasforma così la comune esperienza di felicità in “materia di canto”.

La trasformazione di Adone in pastore è dunque da intendersi non tanto come un omaggio a coordinate cano-niche del modo elegiaco, quanto come segno della volontà di connotare il più possibile lo sfortunato cacciatore del mito come un giovane poeta – come un individuo, cioè, la cui esistenza è totalmente imperniata sull’esperienza amo-rosa e sulla sua sublimazione metadiscorsiva. Questo ispes-sisce il tessuto simbolico della materia adonia, poiché fa del ragazzo amoroso un pendant oltremodo pregnante del poeta, impegnato a ribadire con ogni sua professione di-scorsiva la purezza della propria vocazione amorosa e l’in-trinseca fragilità di ogni suo appagamento (il lirico petrar-chista è per definizione cantore di amori a vario titolo in-felici): non a caso negli ultimi versi del carme (vv. 359-368) Ronsard inserisce una nota di amara ironia del tutto assen-te nella tradizione, che sposta nuovamente l’attenzione sulla volubilità femminile e contribuisce a caratterizzare la voce narrante come quella di ogni poeta innamorato, de-stinato alla frustrazione o al tradimento e dunque struttu-ralmente votato all’infelicità.

la sua esistenza sia pensata all’insegna dell’amore e del canto, connotando così il pastore come un perfetto corre-lato metaforico del poeta. Il pastore è infatti concepito come un essere più vicino alla natura, e in quanto tale estraneo a quella “civiltà” che raffrena o doma gli istinti amorosi. Ronsard adombra questo tema nel parallelismo tra la licenza degli amori animali e quelli della dea con il ragazzo (vv. 83-88, corsivo mio):

pur di restare fra le tue braccia, non rinuncia,di notte, sulla nuda terra, a riposare accanto a te,sul morbido tappeto di erba verdeggiante,abbracciandoti in mezzo al gregge belante,e tra i tuoi grandi armenti che fino al far del giornofanno (come tu con lei) l’amore con le giovenche.

Soprattutto, il pastore è il giovane la cui giornata è scan-dita dall’ozio meditativo e dalla fantasticheria sentimentale, che si traducono in una vena poetica sempre viva e in un’inesauribile disponibilità al canto. Benché, come abbia-mo visto nel paragrafo Pastore e cacciatore, alle origini della poesia pastorale si possano riconoscere i segni della difficoltà di conciliare segregazione sociale ed esperienza amorosa, già in Teocrito, come poi anche più esplicitamen-te in Virgilio, il pastore è in primo luogo lo specchio del poeta, colui che esiste di fatto solo per amare e cantare l’amore.

La convergenza tra i due aspetti di questa identità, che rendono l’Adone di Ronsard un pastore-poeta a tutti gli effetti, in barba alla tradizione greca più antica e allo stes-so Adone di Ovidio, emerge in tutta chiarezza dai vv. 56-60, non a caso una sezione dell’epillio di invenzione ronsardiana:

la madre degli Amori esercita il suo amore.In mille modi lo abbraccia e lo bacia:lui che nell’anima sente lo stesso ardore,

54 55

Sarà avaro, e anche debosciato,farà ballare come idioti i vecchi decrepiti;ammansirà i peggiori delinquenti e papponi,farà pezzenti i ricchi, arricchirà di tesori i poveri;sarà furiosamente folle, e dolcemente scemo,i giovani si faranno vecchi, e i vecchi bambini.

A questa complessiva risemantizzazione del mito è stret-tamente connessa la principale novità del poemetto shakespeariano, vero e proprio subarchetipo di una schie-ra di adoni casti e ritrosi 60: l’Adone di Shakespeare, infat-ti, non è innamorato di Venere, ma «frigido come ghiaccio» (v. 36). Una sostanziale inversione degli stereotipi di gene-re (dietro cui si riconosce il modello mitico di Ippolito più che di Adone) attribuisce al ragazzo «cuore di pietra» (v. 95) la ritrosia verginale con cui topicamente le ragazze sdegnano il corteggiamento (stanza 60). Di fronte a lui Venere assume quindi il ruolo del «seduttore sfacciato» (v. 6), configurando così un rapporto di violento eros unilate-

60 Per una variegata serie di esempi in ordine cronologico, a cominciare dagli anni immediatamente successivi alla pubblicazione del Venus and Adonis, cfr. R. Barnfield, Sonnet 17, in Id., Cynthia. With Certaine Sonnets, and the Legend of Cas-sandra, London, Lownes, 1595, s.n.p., vv. 14-15: «O how can such a body sin-procuring / Be slow to love and quick to hate, enduring?» («Come può un corpo che tanto induce al peccato, persistere nel suo essere lento ad amare e lesto a odia-re?»); B. Griffin, Fidessa, More Chaste than Kind, London, Orwin, 1596, citato da G. Miles (a cura di), Classical Mythology in English Literature. A Critical Anthology, London, Routledge, 1999, p. 263: «But he [Adonis], a wayward boy, refused her offer, / And ran away, the beauteous queen neglecting» («Ma lui, ragazzo cattivo, rifiutò l’offerta di lei e fuggì via, ignorando la bella regina»), p. 263, vv. 9-10; T. Hey wood, The Fayre Mayde of the Exchange with the Pleasaunt Humours of the Cripple of Fanchurch, London, Rockit, 1607, s.n.p., ma f. 5r, marcato B3 nelle note di fascicolazione; W. Bosworth, The Chast and Lost Lovers, Lively Shadowed in the Persons of Arcadius and Sepha, London, Blaiklock, 1651, p. 6: «There lay Adonis by his silver hook / Courted by Venus, Venus by him scorn’d» («Là giaceva Adone, accanto al suo uncino d’argento, corteggiato da Venere, e lei da lui sdegnata»); C. Cibber, Venus and Adonis [per la musica di Samuel Pepusch, London, Walsh & Hare, 1716], citato da C. Cibber, The Dramatic Works, 5 voll., vol. v, London, Ri-vington et al., 1777; J.R. Planché, The Paphian Bower [1832], in Id., The Extrava-ganzas [...] 1825-1871, a cura di T.F.D. Croker e S. Tucker, 5 voll., «Testimonial Edition», London, French, 1879, vol. i, pp. 89-113; la lista si potrebbe estendere, naturalmente, fino al xx secolo...

La rivoluzione shakespeariana

La tappa più importante nel percorso di Adone attra-verso le culture moderne è senz’altro l’opera prima di William Shakespeare 58, pubblicata nel 1593 59. Si tratta di un epillio di 1194 versi articolati in 199 strofe esastiche con schema ababcc – uno schema che il giovane poeta trovava già nel Glaucus and Scilla di Thomas Lodge (1590). L’opera, di cui Shakespeare seguì molto probabilmente la pubblicazione, limandone il testo con una cura senza pa-ralleli nella sua produzione successiva, conobbe subito un grande successo, come prova il considerevole numero di ristampe fra il 1594 e il 1610, nonché l’influsso evidente sulle versioni successive del mito. Si tratta indubbiamente di un’opera ambiziosa, non solo per la qualità stilistica e retorica dei versi, ma per la straordinaria originalità con-cettuale del l’im pianto: recuperando il modulo ellenistico dell’eziologia, cioè della spiegazione causale di oggetti na-turali o usanze, Shakespeare risemantizza genialmente la morte di Adone (vv. 1135 ss.) come causa ultima di un’ubi-qua condizione psicologica, la sofferenza amorosa: «“Since thou art dead, lo, here I prophesy: / Sorrow on love hereafter shall attend”» («“Qui, davanti al tuo corpo sen-za vita, io profetizzo / che l’amore si accompagnerà al dolore”», vv. 1135-1136). Le particolari vicende della cop-pia del mito divengono così il fondamento di una passione di cui viene esibito in dettaglio il carattere antifrastico, paradossale e in ultima analisi aporetico – il perfetto cor-relato di un mondo quale appare a una mente in grado di coglierne le inconciliabili tensioni (vv. 1147-1152):

58 Questa analisi del Venus and Adonis di Shakespeare riprende quella che ho articolato in A. Grilli, Storie di Venere e Adone, cit., pp. 188-197.

59 A Londra, da Richard Field.

56 57

al dio Apollo); nella stessa direzione punta la caratterizza-zione dell’eroe come acutamente consapevole della propria fragile maschilità. Dell’eroismo virile la bellezza è infatti uno scomodo indizio e contrario; a Venere che cerca di trattenerlo dalla caccia, Adone obietta infatti: «“Se il mio volto e i miei capelli hanno sembianze femminili, sappi che un uomo, se è bello, ha anche un obbligo maggiore”. venus “Di che?” adonis “Di non sembrarlo”» (f. 36r-36v). La conferma più chiara di questa tendenza del testo è nella scena clou degli amori, che Lope sceglie di risolvere addi-rittura in una ninna nanna (f. 37r): Venere, che il testo ha altrove descritto in toni lucreziani come la grande madre della natura (f. 31v), ha in grembo il corpo di Adone che si è addormentato al racconto del mito di Atalanta (si noti che la posizione degli amanti è invertita rispetto al dato ovidiano, Metamorfosi x, 557-558). Questo profilo di Ado-ne come non-più-Ippolito, col suo passare dal seguito di Diana a quello di Venere, replica poligeneticamente il mo-tivo della rivalità delle due “madri” presente nello pseudo-Apollodoro e resta in auge anche dopo Shakespeare 63.

Benché dunque riconducibile in parte alla riconfigura-zione pastorale del mito (all’insegna dell’Aminta di Tasso o del Pastor fido di Guarini), la ritrosia irriducibile di Ado-ne è specifica del testo di Shakespeare, che non ha model-li se non nel lontano precedente della figura classica di Ippolito; è chiaro che in essa si rivela piuttosto lo straor-dinario talento letterario del giovane Shakespeare, che in-tuisce le potenzialità, ma anche i limiti, della materia ado-nia. Dal punto di vista letterario, infatti, il principale svan-

63 Lo incontriamo ad esempio nell’opéra-ballet di P.J.J. Bernard per le musiche di J.-Ph. Rameau, Les surprises de l’amour (1748-1757), dove Cupidon si propone di “convertire” il ragazzo dal culto della caccia alle gioie dell’amore facendo leva sulla noia della prima occupazione («Eccolo!... Come mi piace vedere la noia che lo divora!», p. 6). Inutile dire che la ritrosia dell’Adone francese è poco più di un accenno: in lui la metamorfosi si è operata prima ancora che Cupidon abbia prova-to a convincerlo: «Se si conosce il proprio cuore da ciò ch’esso desidera, il mio, lo confesso, si fa già conoscere» (p. 9).

rale, in termini sia pratici che discorsivi: «“Lasciami la mano”, fa lui, “che ti prende?”. / “Lasciami il cuore”, fa lei, “e la libererò”» (vv. 373-374).

In termini generali, la ritrosia di Adone si può ricondur-re allo sconfinamento di questo mito nell’universo pasto-rale, uno sconfinamento già antico (Teocrito xx, 34-39; Virgilio, Bucoliche x, 18): in quanto cacciatore, o cacciato-re-pastore, Adone non ha, in questo codice letterario, alcun interesse per l’amore – finché appunto l’incontro con Ve-nere non farà emergere in modo ancor più dirompente il suo coinvolgimento. Benché più raro, il pattern «enfant-des-bois» 61 è diffuso nella tradizione moderna del mito 62. L’esempio di maggior rilievo è il dramma di Lope de Vega, che, quasi contemporaneamente al poemetto shakespea-riano (la datazione ipotetica più accreditata lo colloca in-torno al 1597), metterà in scena un Adone ritroso (al pun-to, come afferma entrando in scena, di «avere in odio le donne», atto i, f. 27v) ma presto convertito alla passione. Di certo non sussistono legami diretti fra le opere dei due grandi drammaturghi (la «tragedia» di Lope viene pubbli-cata del resto solo nel 1621) – colpisce però il comune intento di accentuare, contro la tendenza dominante nella tradizione ovidiana, la componente “verticale” del mito, che fa di questi due testi esempi eminenti della filiera “matriarcale” cui abbiamo accennato in precedenza. Nel dramma spagnolo, ad esempio, la soggettività affermativa di Adone viene ridimensionata in più modi: Lope rinuncia al motivo poi pressoché obbligato della gelosia di Marte come causa della morte (attribuendo il ruolo del “cattivo”

61 Su cui si veda H. Tuzet, Mort et résurrection d’Adonis. Étude de l’évolution d’un mythe, Paris, Corti, 1987, pp. 97-98.

62 Una diffusione che riguarda tutte le tradizioni letterarie non esclusa quella elisabettiana. Si consideri, ad esempio nell’anonimo componimento The Contented Lovers, dove peraltro Adone ha un cuore di pietra al v. 7 («Non si curava di nessu-na ninfa, per quanto bella fosse»), ed è però già intenerito al v. 12 («Non sapeva cosa lo facesse soffrire, ma temeva fosse amore»).

58 59

ghiale che ferisce Adone nel tentativo di baciarlo (per altre considerazioni sul tema, si veda oltre). A mio giudizio è molto probabile che Shakespeare avesse presente il Corpus Theocriteum e la bucolica latina, come prova ad esempio il superlativo «“Thrice-fairer than myself”», «“Tre volte più bello di me”» (v. 7), che riecheggia un tipico superla-tivo adonio 66; ma è altrettanto vero che l’originalità della rifunzionalizzazione delle fonti è tale da lasciar pensare talora a una vera e propria coincidenza poligenetica. Il solo caso in cui l’influsso della tradizione ha un ruolo sostanziale è a mio giudizio l’assimilazione di Adone a Ippolito, evi-dente fin dalla prima menzione del ragazzo che «amava cacciare e l’amore lo disprezzava» (v. 4). L’affinità tra Ado-ne e Ippolito è presupposta da Euripide (che nell’Ippolito allude alla vendetta di Artemide su Afrodite nella persona del suo favorito Adone), e Ovidio la riconduce all’analoga natura “selvatica” dei due ragazzi 67. In tal modo, Shakespeare recupera dalla tradizione un’analogia tra le due figure acclarata poi dagli studi di storia delle religioni, e riesce così ad articolare la vicenda amorosa in modo da enfatizzare al massimo grado la componente materna e dominatrice della dea.

Non c’è alcun dubbio, infatti, che il Venus and Adonis di Shakespeare rappresenti una potente sterzata, dopo nu-merose versioni cinquecentesche di ligia osservanza ovidia-na, verso la filiera “matriarcale”. Se ciò sia stato favorito anche da fattori biografici (Shakespeare era sposato dal novembre 1582 ad Anne Hathaway, una donna di otto anni maggiore di lui) non è dato sapere. Certo è che la prota-

66 L’aggettivo triphílētos, «tre volte amato», in Teocrito 15, 86; tripóthētos, «tre volte desiderato», in Bione, Epitafio di Adone 58, ripreso da [Mosco], Epitafio di Bione 51; sulla connotazione adonia di simili superlativi si vedano le osservazioni di M. Fantuzzi, Bionis Smyrnaei “Adonidis Epitaphium”. Testo critico e commento, Liverpool, Cairns, 1985, pp. 94-95.

67 Ovidio, Ars amatoria i, 511-512: «Hippolytum Phaedra, nec erat bene cultus, amavit; / Cura deae silvis aptus Adonis erat», «Fedra amò Ippolito, e lui non era raffinato; / Adone, amore della dea, stava bene nei boschi».

taggio del mito di Venere e Adone è che esso, in quanto storia di amore corrisposto e appagato, non si lascia facil-mente tradurre in una viva dinamica drammatica. Già in Ovidio, mentre la vicenda di Mirra viene trattata con l’ar-ticolazione di una vera e propria tragedia in miniatura 64, gli amori di Venere e Adone finiscono quasi completamen-te obliterati dalla digressione sul mito di Atalanta e Ippo-mene. Alla felicità amorosa vera e propria vengono dedi-cati pochissimi accenni (x, 530-535), quasi niente, rispetto alla narrazione dell’incidente e del successivo compianto. Anche Ovidio, come Shakespeare, sapeva quello che solo molti secoli dopo avrebbe esplicitato Tolstoj, scegliendo di narrare, all’inizio di Anna Karenina (1877), una deriva pa-tologica piuttosto che una situazione di armonia: «Tutte le famiglie felici si somigliano tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo». Gli svantaggi poetici di una simile armonia non potevano sfuggire all’intuito di un grande autore di teatro come Shakespeare, che infatti opera una vera e propria drammatizzazione della vicenda sostituendo al dato tradizionale della volontà una e concorde degli amanti una dialettica fra due desideri contrari, articolata poi nel testo come lotta di due opposte visioni del mondo.

I possibili modelli shakespeariani vanno cercati dunque ben al di là dell’episodio di Adone nelle Metamorfosi, che pure fornisce la base per l’organizzazione della materia narrata 65. È un fatto ad esempio che nelle strofe 185-186 (vv. 1105 ss.) ricompare il tema dell’anacreontica tardoan-tica Sul corpo morto di Adone, in cui si immagina un cin-

64 La scansione di un dramma tragico è messa in evidenza da una convincente analisi di F. Dupont, Le furor de Myrrha (Ovide, “Metamorphoses”, X, 311-502), in Journées Ovidiennes de Parménie, Actes du Colloque sur Ovide (24-26 juin 1983), a cura di J.-M. Frécaut e D. Porte, Bruxelles 1985 (Collection Latomus 189), pp. 83-92.

65 Shakespeare lo conosceva nel testo originale, ma soprattutto nell’influente traduzione di Arthur Golding, apparsa a Londra nel 1565 limitatamente ai primi quattro libri, e completata due anni dopo (The XV bookes of P. Ouidius Naso, entytuled Metamorphosis [...], London, Seres, 1567).

60 61

niale risemantizzazione del dato tradizionale, la dea che proietta sul cinghiale il proprio desiderio, e ammette luci-damente che lei stessa, al posto del cinghiale, non avrebbe esitato a straziare Adone di baci (vv. 1117-1118):

Lo confesso, se anch’io avessi avuto zanne aguzze,baciandolo, avrei potuto ucciderlo per prima.

L’intuizione di Shakespeare è addirittura potenziata in uno dei suoi epigoni e studiosi più importanti, il laureate poet Ted Hughes, che nella sua importante monografia Shakespeare and the Goddess of Complete Being (1992) vede proprio nel cinghiale un simbolo originario di femminilità distruttrice, una sorta di temibile “utero che cammina”:

Più inquietante di tutto è quella bocca immensa che pende sotto i grandi alettoni delle orecchie, come una vagina da incubo uscita da un quadro di Brueghel, sformata dall’iperproduzione, famosa per divorare i propri cuccioli, magnifica e impudente, onnivora e insaziabile all’eccesso, straripante sui sensi. Questa scrofa ha soppiantato ogni altra bestia come figura di madre archetipale 68.

L’isotopia venatoria delineata dai riferimenti alle fiere, alla rapina, all’energia soverchiante del cinghiale, costitui-sce uno dei piani cruciali per la decifrazione del testo: la caccia rappresenta infatti non solo il terreno in cui si di-spiega la volontà di Adone, e la sua conseguente disgrazia, ma soprattutto l’ambito metaforico più opportuno per il-lustrare alcuni aspetti salienti della dinamica amorosa. È evidente infatti che Adone, benché presentato come cac-ciatore (v. 4), sul piano delle relazioni amorose non è altro che una preda: il testo lo assimila ad esempio a un «uccel-lo» che resta «preso in una rete» (v. 67) o a un «capriolo spossato dall’inseguimento dei cacciatori» (v. 561), quello

68 T. Hughes, Shakespeare and the Goddess of Complete Being, London-New York, Faber & Faber-Farrar Straus Giroux, 1992, p. 11.

gonista femminile dell’epillio appare connotata da una po-sizione di soverchiante superiorità, non solo per ragioni oggettive (lei è «dea» e «regina», vv. 175 e 251), ma so-prattutto per il carattere attivo e dominante del suo desi-derio, la cui stessa prossemica colloca Adone in stato di subordinazione (le braccia di lei «aggiog[ano]», v. 592; «“Mi schiacci”», si lamenta lui, v. 611); non a caso per Adone le conseguenze del contatto sono di immediato de-potenziamento: già il primo abbraccio di lei lo disarciona (v. 30), ma in generale ogni contatto col ragazzo sembra implicarne la caduta a terra (ad esempio nella stanza 121: «“E se cadi, pensa che è la terra, / innamorata di te, che ti fa lo sgambetto / solo per rubarti un bacio”»). Agli occhi di Adone, Venere è esplicitamente assimilata a una «sirena» (v. 777), cioè a uno degli archetipi classici della femminilità distruttiva; solidale con questo, anche la voce narrante ne rivela tramite similitudini animali la tendenza alla rapina e all’ingestione («come un’aquila affamata, lu-cida per il digiuno», v. 55; «rapace avidità», v. 551). Ma lo stesso personaggio di Venere sembra aver introiettato la consapevolezza che il desiderio amoroso è una forza in ultima analisi distruttiva, e non differisce in sostanza dalla forza ferina con cui il cinghiale causa la morte del ragazzo. La convergenza tra la morte di Adone e il desiderio di Afrodite è attestata ben prima di Shakespeare, a comincia-re dall’anacreontica tardoantica citata sopra (Sul corpo mor-to di Adone), in cui si immagina appunto che il cinghiale sia innamorato di Adone, e che l’incidente di caccia sia causato soltanto dal desiderio provato dalla belva di «ba-ciare» l’inguine del ragazzo. Marino svilupperà ad usura il motivo del cinghiale innamorato, ma prima di lui sarà Shakespeare a intuirne l’aspetto più pregnante, ovvero l’equivalenza simbolica fra l’amore della dea e l’intervento devastante della belva. Dopo aver rappresentato Venere disperata all’idea che Adone possa essere stato ferito o ucciso da un cinghiale, Shakespeare mostra, con una ge-

62 63

stanza vitale, che è poi una modellizzazione assai pregnan-te della felicità relazionale: io vivifico te, che vivifichi me, in un rapporto di perfetta fusionalità (e infatti l’amante dice all’amato da cui si auspica di essere ricambiata: «“The kiss shall be thine own as well as mine”», «“Guarda che non posso baciare solo io, dai, forza!”», v. 117). Parlo di felicità “relazionale” e non di felicità amorosa perché quest’ultima è solo un caso più specifico di un affetto fu-sionale che comincia col rapporto madre/figlio (e Adone per Venere è appunto in primo luogo un “son”, un figlio, v. 863) – e che configura dunque la Venere shakespeariana come un caso totalmente paradigmatico di madre-amante.

La verticalità “materna” del rapporto si può naturalmen-te intendere in due sensi: da un lato come richiamo, sul piano ontogenetico, alle radici dell’eros nell’appagamento fusionale con la madre; dall’altro, molto più pregnante a mio giudizio, come un’estensione allegorica della dinamica adonia più generale e basilare, di cui abbiamo visto il co-stante riaffiorare negli archetipi dell’immaginario: in questi termini la fisionomia materna di una dea assimilata alle forze naturali si contrappone alla vicenda di un individuo esemplare colto nello sforzo di autodeterminarsi. L’oppo-sizione rimanda in sostanza a quella archetipica fra Natura e Uomo: è chiaro infatti che la divinità di Venere si asso-cia in primo luogo alla dimensione ciclica della sua esisten-za («“la mia bellezza rinasce come la primavera”», v. 141), mentre la vicenda di Adone è inscritta in una temporalità solo lineare (come mostra la sua morte irreversibile). In questo senso per Venere la consumazione, cui rimandano con insistenza i suoi discorsi e le immagini che il testo le associa, non è altro che un’accettazione necessaria della vicenda inarrestabile della natura: «“non devi sprecare la tua bellezza”» (v. 130), altrimenti «marcisc[e] [...] in bre-ve tempo» (v. 132); «“le bontà si mangiano, una giovane bellezza si possiede”» (v. 164). Consumarsi nell’amore, lasciandosi delibare dal desiderio della donna, è dunque

stesso capriolo che Venere gli raccomanda di cacciare in-vece di altre prede più pericolose (v. 676).

Proprio la similitudine del capriolo permette però di andare oltre la semplice contrapposizione Venere-cacciatri-ce/Adone-preda: il testo articola infatti la metafora in una rete che integra la connotazione passiva di Adone come preda con una sorta di reciprocità fusionale e ciclica del rapporto col “cacciatore”: come la preda viene cacciata e mangiata, così essa stessa riceve nutrimento dal carnefice. Questo è evidente in una battuta in cui Venere invita Ado-ne a godere delle delizie del suo corpo utilizzando la me-tafora del parco e del cerbiatto: «“visto che t’ho rinchiuso / nel recinto d’avorio delle mie braccia, / io sarò il parco e tu sarai il mio cervo: / pascola dove ti pare, su monti, su valli”» (vv. 229-232). Ogni identificazione di lei con un giardino (ad esempio la topica associazione del proprio volto con «giardini» pieni di fiori, v. 65) va dunque intesa sulla linea del «parco» da cui il cacciatore-cerbiatto ricava nutrimento. Proprio la metafora del “cibarsi di”, del resto, contribuisce a precisare la connotazione materna del rap-porto che in tal modo si profila: se Venere è, nel suo cercar di raggiungere Adone mentre caccia, «come una cerva con le mammelle gonfie di latte, / che corre a sfa-mare il suo cerbiatto nella macchia» (vv. 875-876), allora Adone è sia l’oggetto della caccia (in quanto «capriolo», v. 561), sia il lattonzolo della madre cerva 69; egli viene sì presentato come vivanda ideale in un banchetto dei sensi («“Ma che banchetto saresti mai per il palato, / nutrimen-to, cura per gli altri quattro sensi”», vv. 445-446), ma resta pur sempre il «cervo» libero di pascersi in un parco iden-tificato con la dea (v. 231). Il rapporto con la dea si con-figura così come un paradossale scambio reciproco di so-

69 E non dimentichiamo che il capriolo, in inglese, è una specificazione del cer-biatto, giacché il nome «roe» è abbreviazione di «roe deer»: la lingua conferma l’identità simbolica e funzionale dei due animali nel testo.

64 65

si posson mutilare, / appassiscono presto e non valgon più niente”», vv. 417-418): per questo, quando Adone obietta a Venere: «“Voglio conoscere me stesso prima che mi co-nosca tu”» ( v. 525), le due occorrenze di «conoscere» ri-mandano a opposte gnoseologie: epicurea e sensualistica per Venere, platonica e intellettualistica per Adone.

Questo spiega i termini in cui viene descritta l’insensi-bilità erotica del ragazzo (vv. 601-606):

Come gli uccelli vedendo uva dipinta si illudono,ma, riempiti gli occhi, rimangono a becco asciutto,così anche lei languiva per le sue sventure,come quei poveri uccellini ingannati.Cerca in lui calda passione, ma non la trova,allora tenta di riattizzarla con continui baci.

Adone non è un corpo vivo, ma una “forma”, una bel-lezza puramente intellettuale. Se ne rende benissimo conto la dea, che infatti proprio di questo lo accusa (vv. 211-214):

Forza, fredda statua senza vita, sei insensibile,sembri dipinto, un’immagine smorta e inerte,e le statue soddisfano solo gli occhi,tu sei una cosa che sembra un uomo.

Lungi dall’essere, come lei stessa vorrebbe credere, prin-cipio ontologico di ordine cosmico («“Perché se lui fosse morto, e la sua bellezza con lui, / la bellezza sparirebbe dal mondo e tornerebbe il caos”», vv. 1019-1020), Adone è in primo luogo un concetto, una forma astratta, un segno. Accuse pesanti e di grande rilievo, perché da esse sembra procedere in misura significativa la caratterizzazione suc-cessiva del personaggio, che in misura crescente finirà per essere collegato non tanto alla pienezza dell’esperienza amorosa, quanto alla dimensione intellettuale, e in ultima analisi non vitale, della fruizione estetica 70.

70 Il tema è approfondito in A. Grilli, Storie di Venere e Adone, cit., pp. 199 ss.

un dovere per Adone, il cui corpo altrimenti, nei rimpro-veri della dea, «“inghiotte e seppellisce, / come una tomba, quei figli / che la legge del tempo ti impone di generare”» (vv. 757-759; il tema, come si sa, è uno dei principali nei Sonetti). Per Adone, al contrario, la Storia si misura nei termini di un progresso lineare secondo cui esiste un solo momento giusto, che non va anticipato. La consuma-zione è devastazione, non creazione, e l’amore di Venere solo lussuria, un «“tiranno”» (v. 796), che la bellezza «“pri-ma la corrompe e poi la getta via, / come fa il bruco con le foglie più tenere”» (vv. 797-798).

Proprio il diverso significato e l’opposto valore attribuiti alla consumazione permettono di chiarire la linea di scontro delle due visioni del mondo: per Venere la bellezza è amo-re e vita, cioè vicenda incessante di distruzione e rigenera-zione; l’amore, che viene direttamente identificato con la dea (stanza 136), è la forza stessa che anima il processo, e in quanto tale si pone come principale antidoto del tempo (questo secondo me il senso da attribuire alla definizione di amore come «time-beguiling sport», un’attività che, let-teralmente, incanta e inganna il tempo (v. 24). Da questa visione è esclusa a priori ogni forma di sublimazione, ovve-ro qualunque diversivo aspiri a spostare il discorso, tramite un’astrazione semiotica, su un piano diverso dal coinvolgi-mento diretto della materia e dell’energia. Adone vede in-vece l’Amore dal punto di vista dell’individuo, non da quel-lo sovraindividuale della dea: per lui l’Amore è in primo luogo un processo intellettuale – con un’idea che colloca il personaggio nell’alveo di un’erotologia latamente neo-platonica. La sua opinione «“Amore è tutto verità, Lussuria tutta falsità”» (v. 804) rivela già nei termini più generali la natura astratta e semiotizzata della sua visione dell’eros. Il fine dell’esistenza, pertanto, non è immergersi con tutto il corpo nel circolo delle forme, bensì approdare a una supe-riore (e definitiva) conoscenza di sé che si raggiunge solo con una lenta maturazione («“Le cose che sbocciano non

66 67

lottare per l’affermazione pubblica in un’arena molto più vasta e temibile, quella di Parigi e della corte. A distanza di anni, nel 1669, La Fontaine decise infine di pubblicare Adonis collocandolo in appendice a un romanzo prosimetro di maggiore consistenza, Les amours de Psyché et de Cupidon, rispetto al quale il poemetto costituisce una sorta di complemento narrativo: come l’autore stesso sottolinea nell’Avvertenza, l’abbinamento gli consentiva di congiun-gere «gli amori del figlio a quelli della madre», disegnando così un’unità tematica e simbolica che gli studiosi non tar-deranno a riconoscere come una delle principali chiavi di lettura dei due testi. Del resto anche il magistero marinia-no aveva suggerito le potenzialità della narrazione specula-re delle vicende di Venere e di Amore: alla storia di Amo-re e Psiche è infatti consacrato l’intero libro quarto dell’Ado-ne (1623), in cui il rispecchiamento di Adone con Psiche (i due amanti mortali delle divinità preposte al piacere e al desiderio) contribuisce a connotare il giovinetto, in paral-lelo a Psiche (l’anima), come un simbolo complessivo della vita e della condizione umana nel suo percorso attraverso i piaceri verso il compimento di un destino ultraterreno.

Tuttavia l’influenza di Marino, benché cruciale nella for-mazione di La Fontaine, ha già cessato, a quest’altezza cronologica, di esercitare un ruolo esclusivo. Ora i model-li dell’autore, antichi e moderni, sono altri e assai nume-rosi, e il discorso articolato in Adonis presuppone una sorta di presa di posizione non solo rispetto ai pilastri della tradizione adonia (Ovidio, Ronsard e Marino in pri-mis), ma a tutti i predecessori illustri delle letterature clas-siche, e delle due principali poesie volgari del Rinascimen-to, l’italiana e la francese. In effetti la struttura generale del poemetto nasconde appena le ambizioni letterarie dell’autore, che all’età di trentasette anni sembra ancora cercare, per assimilazione o per contrasto, una sua specifi-ca voce di poeta. Facendo forza sia alla narrazione ovidia-na che alla dimensione connotativa implicita in buona

Il dilemma fra integrazione e felicità privata: l’«Adonis» di La Fontaine

Il poemetto in cui Jean de La Fontaine fornisce la sua interpretazione del mito di Venere e Adone permette di cogliere con straordinaria chiarezza come la tradizione dell’antico si configuri in primo luogo come una progres-siva stratificazione di significati, che, lungi dal sostituirsi l’uno all’altro, si precisano e si integrano in enunciati di sempre maggiore complessità. Questo permette e impone anzi di leggere le opere su più livelli, da un lato in rela-zione sincronica con specifici fattori circostanziali; dall’al-tro, in diacronia, come variazioni più o meno accentuate di schemi profondi ereditati dalla tradizione. La procedu-ra non è affatto peculiare di questo testo, e anzi definisce in qualche modo l’essenza di tutte le riscritture letterarie; tuttavia nell’Adonis di La Fontaine è particolarmente per-spicua, fin quasi a rappresentare un vero e proprio caso emblematico del fenomeno, la sovrapposizione dei princi-pali piani di lettura possibili: da un lato quelli evidente-mente correlati a fattori specifici (il contesto storico-bio-grafico; gli orizzonti poetici dell’autore), dall’altro i livelli di significato mutuati dalla tradizione come inscritti nel codice (inteso sia come sistema mitologico sia come reper-torio delle forme poetiche).

Adonis, un epillio in distici di versi alessandrini, fu com-posto da La Fontaine nel 1658 come omaggio a un protet-tore d’eccezione, il ricchissimo e colto Nicolas Fouquet, intendente generale delle finanze di Luigi xiv. L’autore non aveva destinato l’opera alla pubblicazione: il testo fu inve-ce copiato da un celebre calligrafo in un esemplare unico e, ornato da una preziosa rilegatura, offerto in dono all’il-lustre mecenate. Fouquet cadde in disgrazia nel 1661. I suoi beni vennero confiscati. Il mondo elitario e raffinato cui aveva dato vita la sua splendida munificenza si disperse, e gli intellettuali che ne avevano fatto parte si trovarono a

68 69

molti sforzi sono stati dedicati alla ricognizione dei temi e delle strategie espressive di Adonis, che sembrano additare nel piano dello stile e delle strategie connotative i suoi massimi punti di forza 72.

La mia posizione punta invece a una comprensione glo-bale delle strategie di significazione di Adonis, nell’intento di rivalutarne nel complesso i meriti come costruzione let-teraria di grande coerenza, oltre che di notevole spessore simbolico. Nella mia lettura, il limite costituito dalla diso-mogeneità tra le due principali componenti del testo è al contrario apprezzato come il segnale di una contrapposi-zione intenzionale, il cui significato si lascia cogliere trami-te una ricognizione analitica dell’embricamento di tre prin-cipali piani di lettura. In ciascun livello la polarità si può intendere, in modo affatto pregnante, come tensione dia-lettica tra alternative sostanziali, e la solidarietà di questi tre piani costituisce infine la prova migliore della conce-zione necessitante di Adonis. Con la sua stessa struttura il testo rende conto infatti della dimensione in ultima analisi aporetica di alcuni conflitti cruciali nella visione del mon-do di La Fontaine.

Il primo livello è evidentemente il piano della riflessio-ne metaletteraria: già nell’Avver tenza l’autore presenta il poemetto come un ripensamento, rispetto a una pregres-sa inclinazione per la poesia epica («Per tutta la vita mi ero esercitato in questo genere di poesia che chiamiamo eroica: è sicuramente il più bello di tutti, il più fiorito, il più suscettibile di ornamenti e di quelle nobili e ardite figure che hanno una lingua particolare, tanto bella da meritare di essere chiamata la lingua degli dei»). Adonis nasce dunque come adattamento di una vocazione inizia-le per l’epos, che viene compressa entro i confini (con-venzionalmente ritenuti “minori”) dell’ispirazione elegiaco-pastorale. La precisazione dell’Avvertenza si fa ancora

72 Si vedano in proposito gli studi segnalati nella bibliografia a fine volume.

parte delle fonti antiche su Adone, La Fontaine sposta il baricentro poetico della sua versione al di là dell’orizzonte elegiaco e pastorale. Il risultato è una lunga narrazione in cui gli amori di Adone e della dea occupano solo il primo terzo del poemetto; viene così ampliato fino a uno spazio inusitato – persino rispetto all’Adone di Marino, in pro-porzione – il racconto della caccia al cinghiale.

Non sorprende che l’Adonis di La Fontaine sia stato per lo più negletto o bistrattato dalla critica, che lo ha condan-nato come un’opera imperfetta, goffa e disomogenea. I suoi meriti stilistici sono stati in genere contrapposti allo scarso controllo della struttura e dell’armonia tra le varie compo-nenti narrative. A questa polarità di giudizi ha contribuito non poco una lettura d’eccezione del poemetto, quella di Paul Valéry, che, nello studio premesso nel 1921 a un’edi-zione del componimento, prende spunto da Adonis per argomentare, alla luce di un esempio concreto, alcune sue convinzioni generali in materia di poesia. Valéry ribadisce con particolare chiarezza l’importanza delle “regole”, esal-tando il fecondo contributo delle restrizioni formali per la scrittura poetica – una posizione decisamente controcor-rente nella temperie del modernismo europeo. A suo giu-dizio il poemetto di La Fontaine, pur povero di interesse quanto alla materia narrata, deriva grande forza espressiva proprio dalle costrizioni stilistiche e formali con cui l’au-tore ha dovuto a priori confrontarsi. Implicitamente, senz’altro involontariamente, questa tesi di Valéry determi-na la sostanziale svalutazione novecentesca del poemetto, che viene inteso come manifestazione di virtuosistico arti-ficio ma privo di meriti sostanziali. Solo più di recente, nel quadro di una complessiva rivalutazione delle opere “ga-lanti” di La Fontaine (Adonis, appunto, Les amours de Psyché et de Cupidon e i frammenti di Le songe de Vaux) 71,

71 Con un movente occasionale quanto meno estrinseco: l’inserimento delle opere galanti di La Fontaine nel programma dell’agrégation di francese nel 1997.

70 71

quotidianità d’eccezione, che col suo stesso splendore au-toreferenziale impedisce ogni progetto maggiore, ogni di-scorso poetico che ne travalichi i confini. Naturalmente le ambizioni trattenute non sono per questo meno cospicue: l’universalità della materia epica, intesa come riflessione poetica su una condizione storico-politica generale, viene in Adonis surrogata da una pretesa di universalità che va ben oltre le ambizioni espresse talora dagli elegiaci antichi (Ovidio, più che Properzio e Tibullo). Si leggano ad esem-pio i vv. 115-125:

Voi, le cui voci salirono fino agli astri,quando dai vostri canti l’Universo incantatovi ascoltò celebrare questa coppia tanto amata,grandi e nobili spiriti, cantori incomparabili,mescolate a questi suoni i vostri accordi mirabili.Eco, che nulla tace, vi narrò questi amori; li vedeste incisi nel fondo di cupi antri:fate che io ritrovi nel tempio della Memoriai sacri monumenti, fonti della vostra gloria,e plasmato dalle vostre sapienti mani,possa io far giunger questi versi agli ultimi degli umani.

Davvero una curiosa aspettativa per un carme con un destinatario individuale e “pubblicato” in un unico esem-plare! Di fatto, le reali ambizioni enunciative di Adonis sono virgiliane più che ovidiane, sono epiche più che ele-giaco-pastorali, o meglio invitano a scavare il testo alla ricerca di un suo fondamento poetico che vada al di là degli ovvi richiami al genere dell’epillio mitologico e alla poesia ovidiana. A chiarire il mio discorso basta la fitta rete di spunti ripresi dall’Eneide, che contribuiscono a configu-rare l’eroe di Adonis come il modello di un eroismo “di-versamente” epico – un eroismo che include Enea tra i suoi riferimenti, anche se più l’Enea amoroso della sosta cartaginese che l’eroe senza macchia alla conquista fatidica del Lazio. Qui non possiamo ripercorrere le numerose e

più esplicita nella recusatio che apre il componimento (vv. 1-11):

Non intesi celebrare in questi versiné Roma né i suoi figli, eroi dell’Universo,né le famose torri che Ettore non poté salvarené le guerre degli dei in riva allo Scamandro.Sono cose troppo alte, e la voce mi manca:sempre cantai l’ombra dei boschi,Flora, Eco, gli Zefiri e i loro dolci fiati,l’argento delle fonti e il verde tappeto dei prati.Nelle foreste ha vissuto il mio eroe;la sua pace nei boschi ha turbato l’Amore.La mia Musa si è ornata di mirto in suo favore.

La figura retorica della preterizione si presta qui, molto più facilmente che altrove, a essere interpretata come una negazione freudiana: tanto squillante e “spontanea” è la dichiarazione di non ambire all’epica, che essa produce nel lettore, al contrario, l’impressione di un’ambizione frustra-ta. Come se i confini dell’elegia e della poesia pastorale risultassero in partenza troppo angusti per l’ispirazione dell’autore. Ma la sua collocazione storica non gli permet-te di agire altrimenti: l’epos è per i poeti dei monarchi (magari recalcitranti, come il Ronsard dell’incompiuta Franciade), mentre La Fontaine vive all’interno di una cor-te delle favole, nel microcosmo squisito che ruota intorno a un cittadino privato, per quanto eccezionale – un pro-tettore magnifico ma pressante. In un componimento d’oc-casione, La Fontaine si rivolge umoristicamente a Fouquet come a un suo protetto: rovesciando la relazione esistente nella realtà, il banchiere è rappresentato come dipendente da una pensione in natura consistente in un certo numero di versi che il poeta si industria a corrispondergli con puntualità. Nel mondo dorato di Vaux, evidentemente, la poesia non si può permettere gestazioni troppo lunghe, perché a essa compete riflettere le occasioni minute di una

72 73

adattamenti specifici di questo mito e del suo protagonista. Per La Fontaine, Adone non è il ragazzo inerte in balia dell’amore dominatore di una dea, ma un giovane la cui bellezza non inibisce le potenzialità dell’eroismo («già alle bestie più fiere Adone mostra il suo ardimento», v. 36). Sul piano mitologico, Adone viene assimilato infatti a Me-leagro, in modo da potenziare al massimo (fatto salvo il diverso esito previsto dai due miti) la connotazione valo-rosa del cacciatore. La caccia al cinghiale è infatti un evi-dente innesto mitologico, che rimpiazza l’operazione soli-taria e fallimentare che il mito attribuisce ad Adone con l’impresa collettiva di una folta squadra («La gioventù del luogo si raccoglie intorno al bosco: / mai tanti eroi tutti insieme si diedero concorso», vv. 266-267). Che Meleagro sia il modello implicito per il giovane eroe cacciatore è evidente da diversi segnali: il catalogo degli eroi di La Fontaine, ad esempio, presuppone chiaramente il mito di Meleagro e della caccia al cinghiale calidonio narrato nel-le Metamorfosi ovidiane (viii, 299 ss.); anche nella versione greca del mito, attestata ad esempio nella Biblioteca dello pseudo-Apollodoro (i, 8, 2), la grande caccia al cinghiale è preceduta dall’assembramento di un gran numero di eroi. Soprattutto, tra i cacciatori di La Fontaine è presente una virago, la bellissima Aretusa (vv. 299 ss.), caratterizzata appunto come una fanciulla dai modi e dalle passioni ma-schili («Non le è stato insegnato a filare la lana; / correre nelle foreste, seguire un cervo nella piana, / sono questi i suoi piaceri», vv. 302-304). Al di là dell’aggiornamento onomastico, la presenza di Aretusa tra i cacciatori aderisce fedelmente a entrambi gli ipotesti: tra i cacciatori elencati da Ovidio c’è la ninfa Callisto (viii, 317-327), la cui bel-lezza colpisce lo stesso Meleagro, come lo colpisce la bel-lezza di Atalanta nella versione greca del mito (pseudo-Apollodoro, Biblioteca i, 8, 3) – si noti en passant che alla caccia calidonia Ovidio fa partecipare Callisto invece di Atalanta perché preferisce trattare il mito di Atalanta in

talora sorprendenti riprese del poema virgiliano, ma un esempio potrà chiarire la portata della dipendenza interte-stuale di Adonis da Virgilio: per esaltare la bellezza del suo eroe, La Fontaine adatta, spogliandolo dei suoi tratti più tremendi, il celebre passo dell’Eneide (iv, 173 ss.) in cui la Fama è descritta come un mostro temibile, che «cammina sulla terra, e nasconde la testa tra le nubi»:

Già la Fama, che nasce senza nome,ninfa che nasconde la sua testa in una nube,intrattenendo l’universo con racconti galanti,va parlando di Adone a cento diverse genti,a quelli che sono sotto l’Orsa, ai vicini dell’Aurora,alle figlie del Sarmata, alle pulzelle del Moro.Pafo lo vede quasi sollevare sui suoi altari,e il cuore di Venere non sa dove trovar ripari.

Nel contesto originario, la Fama diffonde la notizia de-gli amori di Enea e Didone; in Adonis, essa determina, (raf)forzandolo con il peso del discorso sociale, il sentimen-to stesso di Venere (in seguito ai «racconti galanti» diffu-si dalla Fama «il cuore di Venere non sa dove trovar ripa-ri»). La presenza di un massiccio intertesto virgiliano per-mette dunque di capire che la dialettica fra le scene di passione e la caccia-combattimento rappresenta non solo il ben noto conflitto tra due percorsi poetici tradizional-mente opposti (l’epos guerriero vs l’elegia amorosa e pa-storale), ma una riformulazione del carattere “ancipite” dell’epica virgiliana, che già a monte aveva risolto il con-flitto tra le vene antagonistiche di eros ed epos nella ten-sione tra l’erranza amorosa di Enea e il suo generoso adem-pimento del fato. Il risultato della “rinuncia” di La Fon-taine a una poesia coerentemente epica è insomma l’epi-cizzazione della materia adonia sulla scia dell’epica già “sentimentale” di Virgilio.

L’epicizzazione di Adonis è dunque una chiave di lettu-ra importante, che permette di capire anche i principali

74 75

È chiaro dunque come nell’Adonis di La Fontaine l’epi-cizzazione dei modi sia sempre attenta a non risolvere la tensione che oppone le due componenti psicologiche del protagonista (l’amore e il valore), e con esse le due pro-spettive poetiche coinvolte, l’epica e l’elegiaca.

Il piano metaletterario non è peraltro il solo a dar con-to della struttura polarizzata di Adonis. Ancor più pregnan-te è l’analisi che riconduce le tensioni immanenti al testo alle aporie umane ed esistenziali dell’autore. La frizione tra la rappresentazione elegiaca dell’a mo re e quella epica del-la caccia si può infatti leggere come un riflesso di una contrapposizione cruciale per La Fontaine, tra l’appaga-mento emotivo ed esistenziale di un buen retiro privilegia-to e l’inserimento vincente in un contesto sociale. Molto studiato è infatti un tema ricorrente delle prime opere di La Fontaine, quello del retrait, appunto, secondo cui la perfetta felicità viene raggiunta solo sfuggendo ai vincoli letali del rapporto con una società ostile e competitiva. Il mondo di Vaux si configura intenzionalmente come una sorta di microcosmo che permette, tra l’altro, di ridurre l’attrito col mondo fornendone una versione ridotta, distil-lata e squisita entro cui dispiegarsi e gioire senza timori. La tematica del retrait costituisce a mio giudizio la chiave di lettura più produttiva per Adonis, di cui permette di spiegare, tra l’altro, la caratterizzazione polarizzata. Gli amori di Adone con la dea, infatti, vengono presentati come un’esperienza alternativa al contatto sociale, che al contrario si configurerà a più riprese come la radice della prematura interruzione della felicità. Non solo i boschi dove vive Adone sono caratterizzati in primo luogo come solitari (già nei versi che dopo il proemio aprono la nar-razione vera e propria: «Presso il monte Ida un bosco delizioso / sembra sfiorare il cielo con i suoi alberi canuti; / sotto le sue fresche ombre abita la solitudine», vv. 29-31, corsivo mio), ma l’intera esperienza amorosa ha nell’autar-chia reclusa degli amanti il suo principale tratto distintivo.

parallelo al mito di Adone, nel decimo libro del poema: un segnale insomma di come il profilo ambiguo di Adone, cacciatore ma bellissimo e amoroso, si trovasse a conver-gere con i miti di fanciulle cacciatrici, virili nei modi ma destinate all’amore dal loro stesso aspetto delicato.

L’epicizzazione di Adone è inoltre sostanziata di segna-li connotativi che associano il giovane eroe addirittura ad Achille, che invece nel sistema mitologico antico è di fatto un antitipo dell’amante di Afrodite. Così va letto ad esem-pio in Adonis il dettaglio che i cavalli di Adone, come quelli dell’eroe iliadico, sono figli dei venti (v. 344). Tut-tavia l’Adone di La Fontaine è in primo luogo un nuovo Enea, perché con Enea condivide i tratti distintivi di un profilo eroico molto peculiare, in cui si combinano abne-gazione e vocazione amorosa, e in cui al valore guerriero sono associate, in momenti cruciali, componenti in ultima analisi “affettive”. Come infatti Enea non si risolve a ucci-dere Turno in duello se non dopo aver riconosciuto il balteo di Pallante sul corpo del nemico abbattuto, così Adone rinuncia alla sicurezza di una pausa di riposo e va incontro alla morte solo dopo aver visto il corpo di un amico ferito (vv. 450-462):

dopo mille peripezie Adone cerca il suo riposo.Le Ninfe, i cui occhi vedono le cose future,l’avevano fatto smarrire in quelle selve oscure.Il suono dei corni si disperde per un ignoto incanto;invano la loro eco i suoi sensi ha raggiunto.Non sapendo dove portare la sua corsa vagabonda,si ferma passando presso il cristallo di quell’onda.Le Ninfe non possono opporsi al destino,contro l’ordine del fato il loro incanto è vano.Adone in quel luogo vede portare Palmiro;lo spettacolo lo commuove, e raddoppia la sua ira:nessuno può obbligarlo ad aspettare ancora;non vede il pericolo, ma la gloria.

76 77

Si noti in particolare come l’interiorizzazione impalpa-bile della norma sociale trasformi quello che è inizialmen-te un obbligo estrinseco («deve lasciare») in un’espressione della “volontà” («vuol lasciare»), che oppone comunque il riguardo per la collettività dei fedeli alla felicità privata.

Analogamente, la caccia che conduce alla morte l’eroe è coerentemente e sistematicamente caratterizzata come il prodotto di un’attività condivisa, riferita a un orizzonte collettivo nelle motivazioni e negli esiti. Benché Adone sia un cacciatore anche prima della sua avventura con Venere, infatti, egli sembra aver dimenticato le abitudini di un tempo. La caccia gli viene prospettata dall’esterno, cioè da un discorso sociale, come il migliore rimedio per la malin-conia della separazione amorosa (vv. 234-239):

Infine, per placare l’angoscia che lo possiede,gli vien detto che la caccia è un rimedio eccellente.In quei luoghi pieni di pace, oltre agli amori,quel solo piacere occupava gli eroi.Adone li chiama a raccolta, e si lamenta dell’oltraggioche i campi hanno subito dal cinghiale selvaggio.

Anche qui, adattamenti anche minimi della materia mi-tica si fanno veicolo indiziario di una visione del mondo affatto specifica di La Fontaine. Nello spazio di pochi ver-si ne compaiono diversi, a partire dal consiglio di cacciare, del tutto assente dalla tradizione antica e moderna ma utile a connotare la caccia come espressione di un sistema di valori condivisi. A conferma di ciò, il testo insiste lun-gamente, dopo questo primo accenno, sulla dimensione pratica dell’obiettivo: il cinghiale è gravemente nocivo alle colture, e lo sport dei giovani cacciatori si configura così come un’attività di palese utilità sociale. Non è un caso, infine, che la caccia solitaria che il mito attribuisce a Ado-ne sia sostituita qui da una caccia collettiva, che oltre a una maggiore aderenza ai costumi dell’aristocrazia ancien régime permette di inquadrare le virtù venatorie di Adone

E infatti la transizione dal racconto degli amori alla caccia funesta («Ma non solleveremo noi lo scuro velo / da que-sti piaceri amici del buio e del silenzio», vv. 162-163) ri-semantizza in modo specifico il topos dell’amore furtivo e notturno portando in primo piano i caratteri specifici che oppongono la felicità amorosa al contatto sociale (vv. 135-145):

A volte sceglievano di stare nella fitta ombra:là, sotto vecchie querce dove i loro nomisono fioriti insieme ai tronchi e si sono tramandati,mollemente distesi trascorrevano le ore,avendo per testimoni in quelle ombrose dimoresolo i cantori dei boschi, per confidente Amore, che guidava i loro passi nel felice soggiorno.Altre volte, sui tappeti d’erba soffice e sacraAdone si addormentava accanto a Venere,i cui occhi, inebriati da piaceri possenti,fissavano sull’eroe sguardi languenti.

Non è un caso, pertanto, che gli opposti negativi della separazione e della morte siano inscritti da La Fontaine all’insegna del discorso sociale: la separazione degli aman-ti ha luogo infatti come richiamo ai doveri inerenti alla propria posizione. Anche una dea come Venere non è arbitra delle proprie azioni se non nella rinuncia a un ruolo sociale; altrimenti le sue azioni vengono determinate inevitabilmente dal rispetto delle bienséances e della pro-pria immagine pubblica (vv. 164-171, corsivi miei):

È tempo di passare al funesto momentoin cui la triste Venere deve lasciare il suo amante.Dalle voci dei suoi amori Pafo è allarmata.Si dice che nel fondo di un bosco la dea sedotta,indifferente ai mortali, e incurante dei loro voti,rinuncia al vano culto dei suoi templi famosi.Per far tacere il clamore, la regina di Citeravuol lasciare per qualche tempo il ritiro solitario.

78 79

in una sorta di impresa calidonia, emblema mitico del trionfo dell’umanità e della cultura sul caos della ferinità primordiale. Ma il trionfo dell’umanità e la felicità privata sono strutturalmente in opposizione, come ben sa La Fon-taine, che puntualmente riconduce l’aporia entro le strut-ture simboliche del testo. E infatti come la separazione e la caccia, ovvero il ritorno ai doveri civili e alle responsa-bilità sociali, mettono fine alla vita di Adone e alla felicità amorosa della coppia, così gli amori stessi si connotano sin dall’inizio come un’esperienza totalmente alternativa al contatto sociale e strutturalmente incompatibili con esso. Ma la dimensione aporetica dello scontro non sta tanto nella radicalità dell’opposizione: la vera aporia consiste nel fatto che ciascuna delle due alternative, come il simbolo del Tao, non è mai pura, e include strutturalmente una traccia della componente opposta e incompatibile. Questo elemento è ciò che rende il discorso di Adonis particolar-mente sottile e profondo, e il suo significato ultimo così pregnante anche come meditazione filosofica. Della dimen-sione affettiva riconoscibile nell’eroismo venatorio abbiamo già detto; ma anche la “purezza” dell’emozione amorosa non è mai esente dai contraccolpi dell’opposto sistema di valori, che finisce spesso per ricondurre nell’alveo del sen-timento “assoluto” i moventi impuri e indiretti propri del-le dinamiche sociali. Quello che René Girard ha additato come il principio diabolico del desiderio triangolare 73 è infatti inscritto ab ovo anche nella storia di Venere e Ado-ne, dove l’amore della dea è innescato non solo dall’espe-rienza della bellezza di Adone, ma dal discorso sociale (la «Fama») che la circonda. Analogamente, le dinamiche in-terne al rapporto amoroso lasciano sempre spazio, seppur limitato, al fattore allotrio, ma non per questo meno so-

73 Nella sua fondamentale monografia sulle dinamiche del desiderio mimetico: R. Girard, Mensonge romantique et vérité romanesque, Paris, Grasset, 1961; trad. it. Id., Menzogna romantica e verità romanzesca, Milano, Bompiani, 1965.

stanziale, dei valori socialmente condivisi. Ad esempio, la “dichiarazione” di Venere al ragazzo insiste sul divario verticale che li separa, e nella sua risposta Adone fonde l’entusiasmo erotico per la bellezza della dea con quello che gli causa la lusinghiera “promozione” implicita in una simile preferenza (vv. 84-94) 74:

«Troppo amabile mortale, non temere il mio aspetto;da parte di Amore nulla ti sia sospetto:in questi luoghi appartati è lui a condurmi.Il cielo è la mia patria, e la mia terra Pafo:li lascio per te; dimmi se vuoi amarmi».Non si può esprimere il trasporto di Adone.«O dei! – esclamò – ma è forse questo un sogno? Posso abbracciare l’inganno nel quale mi perdo?Incantevole dea, devo proprio credervi?Abbandonate il cielo, e lo abbandonate per me!È dunque concesso a me di amare un’Immortale!».

Soprattutto – e questo mi sembra davvero il dato più pregnante, oltre l’apparenza di incongrua frivolezza –, il discorso sociale si mantiene inscritto nell’esperienza della felicità privata sotto forma di artificio galante. La dichia-razione della dea, e la pronta risposta di Adone, dovreb-bero infatti, a rigore, sfociare in un’esperienza di serenità senza nubi. Ma così non è (vv. 104-113):

la bellezza sovrana, i dardi dell’Amoreindussero Marte ad amare: che può fare Adone?Ama. Sente il fuoco che gli scorre nelle vene;i piaceri che prova sono acuiti dalle pene:desidera, spera, teme, sente un malein confronto al quale il bene più grande non ha uguale.Venere lo capisce, e finge d’ignorarlo:

74 Si contrasti questo «trasporto di Adone» con la paura e la diffidenza di An-chise nella prima fonte antica sugli amori di Afrodite (per i riferimenti cfr. sopra n. 46).

80 81

entrambi del loro amore sembrano dubitare;e, per rassicurarsi, ognuno degli amantimille volte al giorno rinnova i giuramenti.

Come si vede, le schermaglie amorose complicano con ostacoli pretestuosi un rapporto nato all’insegna della mas-sima linearità. Le speranze e i timori di Adone, che ha ricevuto una dichiarazione così diretta, non sembrano ali-mentati tanto da un dubbio fondato, quanto dall’esigenza di conformarsi ai dettami del galateo amoroso, che di fat-to non contempla gli amori senza ostacoli. Altrettanto con-formistico è poi l’atteggiamento di simulazione dei due amanti, che assimila incongruamente questa relazione di perfetta simmetria alle frustrazioni inconcludenti e sospi-rose prescritte, nella cultura della Francia secentesca, dalle norme della Carte du Tendre.

Come si vede, dunque, il sistema dei significati specifici di Adonis sovrappone alle tensioni metaletterarie tra i con-trapposti orizzonti dell’epos e dell’elegia il ben più radica-le conflitto tra l’esperienza privata di un eros assoluto e la realizzazione dell’identità sociale in un contesto di più am-pia condivisione. A monte dei due piani di lettura è rico-noscibile infatti un terzo livello di codificazione, legato alle costanti diacroniche del mito. Fin dalle sue prime attesta-zioni, infatti, il mito di Adone si presta a un’analisi “jun-ghiana” delle strutture profonde: la felicità amorosa del ragazzo con Venere/Afrodite si può infatti leggere (ed è stata letta 75) come la condizione di fusionalità autoreferen-ziale che precede il distacco dell’indivi duo dalla madre e l’inizio del suo percorso nel divenire storico e sociale. Con

75 Già implicita o cursoriamente menzionata in diversi scritti di C.G. Jung e del suo allievo E. Neumann (soprattutto in E. Neumann, Die große Mutter, Zürich, Rhein, 1956, trad. it. Id., La grande madre: fenomenologia delle configurazioni fem-minili dell’inconscio, Roma, Astrolabio, 1981), la prospettiva junghiana sul mito di Adone è approfondita principalmente da R. Segal, Adonis: A Greek Eternal Child, cit. e ripresa in Id., Myth. A Very Short Introduction, Oxford, Oxford University Press, 2004.

la sua fragile, effimera maschilità, il mito di Adone segna-la ai membri di un gruppo culturale (dalla Grecia antica fino al presente) i rischi di un indugio regressivo nelle maglie di un eros antisociale. La felicità amorosa immobi-lizzerebbe infatti l’individuo nell’ucronia di un eterno pre-sente, rendendolo restio ad affrontare le prove e i doveri di un ruolo sociale compiutamente sviluppato. Rispetto a questa matrice simbolica profonda, La Fontaine cerca di attutire i termini del contrasto: Adone non è il bambino passivo che una parte consistente delle fonti consegna alla tradizione, perché dà prova di iniziative e di coraggio com-piutamente virili; al tempo stesso, il peso dei vincoli cul-turali e i doveri nei confronti della società risultano anche nella sua riscrittura il limite ultimo contro cui si scontra, pur nella massima felicità delle premesse, la realizzazione di ogni amore ideale.

Shelley e la tradizione del lamento sul giovane poeta

La selezione dei testi presentati in questa antologia per-mette di seguire per sommi capi anche un altro importan-te percorso nella ricca e complessa tradizione adonia. Esso si sviluppa, per tappe che non possiamo seguire qui in dettaglio, lungo una linea che congiunge, a poco meno di due millenni di distanza, l’Epitafio di Adone di Bione e l’Adonais di Shelley. Alla base di questo itinerario si col-loca la convergenza connotativa tra la figura di Adone e il profilo del poeta amoroso.

Come abbiamo visto, già nella tradizione pastorale antica la vicenda di Adone offre ai poeti l’opportunità di ispessire progressivamente la caratterizzazione del ragazzo in modo da accentuare la sua consonanza con la figura e la situazio-ne del pastore-poeta. La convergenza fa leva sull’affinità di tratti essenziali, e sviluppa così una parentela connotativa che accompagnerà come uno degli elementi più produttivi

82 83

tutta la tradizione di questo mito: come Adone, infatti, è un giovane amoroso infelice per l’improvviso destino di morte, ma sempre presente nella mesta memoria poetica dei sentimenti suscitati, così il pastore-poeta è un giovane amoroso che fa della propria infelicità la principale materia del suo canto, e la destina per questo alla permanenza sempre rinnovata della poesia. Benché in origine lontano dal mondo della pastorizia e della lirica, Adone finisce così ben presto per ritrovarsi trapiantato a pieno titolo, e per tutto il tempo a venire, nel genere bucolico, e per divenire figura del poeta giovane e precocemente scomparso.

La prima tappa documentabile di questa convergenza 76 consiste nell’associa zione/con trapposizione di Adone a Dafni, il poeta-pastore la cui morte è cantata nel primo idillio di Teocrito. Il mito di Dafni, del resto, presenta tratti connotativi che lo rendono per alcuni aspetti affine a o in concorrenza con quello di Adone: Dafni è infatti un bellissimo pastore di armenti, nonché poeta amoroso, che le fonti più antiche presentano come figlio o amasio di Ermes, ovvero di una pianta d’alloro 77; in seguito, amante fedele di una ninfa, che lo punisce con la cecità per aver-la tradita in un momento di ebbrezza 78. Nella struttura base della storia riconosciamo agevolmente lo schema mitico del

76 Almeno in Grecia; ma la connessione con la musica e il canto è forse già un retaggio semitico, come mostrano alcune tracce onomastiche (una testimonianza di Democlide conservata da Ateneo iv, 174f ci informa che in Fenicia Adone era so-prannominato anche Gingras, dal nome di un tipo di flauto impiegato nel lamento rituale) e il parallelismo di Adone con suo padre Cinira, un altro paredro “musica-le” della Grande Dea (il nome sembra da connettere alla radice semitica knr, che indica l’arpa a dieci corde; lo stesso verbo greco kinyromai, «lamentarsi», sembra compatibile con un’origine semitica). Su questi aspetti cfr. W. Atallah, Adonis, cit., pp. 312-314.

77 Timeo di Tauromenio fr. 83 Jacoby, da cui deriva con ogni probabilità Dio-doro Siculo iv, 84; Eliano, Storia varia x, 18. Al di là di quest’ultima fonte non ci sono conferme che Dafni fosse stato cantato anche in un componimento del lirico arcaico Stesicoro di Imera; non è da escludere peraltro la confusione con un poeta omonimo del iv sec. a.C.

78 I riferimenti in C. Zimmerman, The Pastoral Narcissus: A Study of the First Idyll of Theocritus, Lanham (md), Rowman & Littlefield, 1994, pp. 27 ss., in parti-colare p. 34, n. 8.

giovane annientato dall’amore di una partner dominante: lo stesso accecamento può senz’altro essere considerato un equivalente della castrazione reale o simbolica che colpisce simili amanti di ninfe o di dee, come l’evirato Attis o i giovani del tipo Adone-Titono-Endimione (né va dimenti-cata l’analoga origine vegetale di Adone dall’albero della mirra e di Dafni dall’alloro).

La trasformazione di Adone in poeta, tuttavia, precipita finalmente grazie a un anonimo seguace di Bione, cui si deve un compianto esametrico sulla morte prematura del suo modello e maestro, il cosiddetto Epitafio di Bione 79. Il serrato gioco intertestuale articolato nel carme rispetto all’Epitafio di Adone porta facilmente alla sovrapposizione dei giovani oggetto del lamento – da una parte Adone, mitico poeta-pastore; dall’altra Bione stesso, figura storica di poeta pastorale. Attraverso riprese virgiliane (nelle Bu-coliche v e x, soprattutto) e poi ovidiane (nell’elegia com-posta per la morte prematura di Tibullo, Amori iii, 9) l’associazione subliminale tra Adone e il poeta prematura-mente scomparso si rafforza e diviene, nella poesia del Rinascimento, un vero e proprio topos architestuale, quel-lo che definisce il sottogenere elegiaco della cosiddetta «elegia pastorale», ovvero un componimento pastorale di tenera mestizia, ispirato principalmente al rimpianto per affetti perduti 80. Queste riprese, che la tradizione inglese

79 Noto altresì come [Mosco] 3. L’attribuzione a Mosco di Siracusa, comune nella tradizione manoscritta e ancora corrente nel xix secolo, è stata messa definiti-vamente in discussione da un importante contributo di F. Buecheler, De bucolico-rum Graecorum aliquot carminibus, in «Rheinisches Museum», 30, 1875, pp. 33-61.

80 Il termine «architestuale» è inteso nel senso che gli attribuisce G. Genette, Introduction à l’architexte, Paris, Seuil, 1979, trad. it. Id., Introduzione all’archite-sto, Parma, Pratiche, 1981, p. 69: esso è una forma di «trascendenza testuale, cioè tutto ciò che mette il testo in relazione, manifesta o segreta, con altri testi». In questa rete di relazioni sono compresi i rapporti di intertestualità, ma anche quelli di metatestualità (che uniscono i testi a quei metatesti che sono i loro commenti); soprattutto, l’architestualità può indicare per Genette quella «relazione di inclusio-ne che unisce ogni testo ai diversi tipi di discorso ai quali appartiene. Qui vengono i generi e le loro determinazioni già intraviste: tematiche, modali, formali e altre» (ivi, p. 70).

84 85

distilla in un vasto repertorio su cui spiccano le elegie pastorali di Spenser e Milton, costituiscono appunto il sostrato letterario da cui emerge il testo senz’altro più si-gnificativo di questa lunga tradizione del compianto poe-tico, l’Adonais che Percy Bysshe Shelley dedicò nel 1821 alla memoria dell’amico e collega John Keats, morto pochi mesi prima a Roma.

Nei 495 versi del poemetto, Shelley orchestra un com-plesso discorso a due con il predecessore defunto, triango-lato peraltro con la tradizione letteraria di cui la sua elegia pastorale è solo il risultato più recente. Grazie alla sua formazione, infatti, Shelley aveva accesso diretto alle prin-cipali fonti greche, che negli anni precedenti si era in par-te dedicato a tradurre in versi. Ma Adonais esprime in sintesi anche il suo posizionamento rispetto all’intera tra-dizione della lirica inglese, una tradizione che va indietro fino a Spenser (di cui Shelley deplorava un’eccessiva in-fluenza su Keats, senza potersi però esimere dall’adottare come metro la strofa spenseriana della Faerie Queene), e comprende soprattutto la poesia metafisica di John Milton (cui alludono i vv. 29 ss. di Adonais), nonché quella degli interlocutori più recenti di Keats, e di Shelley stesso.

L’impianto complessivo del poemetto aggiorna con ori-ginalità i modelli dell’Epitafio di Adone e dell’Epitafio di Bione, di cui adotta appieno il mood emozionale: benché Keats non fosse in rapporti di amicizia stretta con Shelley, il testo insiste sul rispecchiamento affettivo, sovrapponendo la voce del poeta in lutto a quella di Urania, madre di Adonais, che prende il posto di Afrodite amante di Adone, e che intona a sua volta nel testo un compianto personale e amoroso sul defunto (vv. 226-261). Di nuovo, il soggetto poetante deriva dalla sua posizione di exarchon del lamen-to funebre una legittimità che gli consente di esprimersi come rappresentante dell’arte poetica nel suo complesso. In tal modo alla poesia viene confermata la connotazione di correlato simbolico e funzionale della natura, che avvol-

ge l’esistenza del poeta con la sua disponibilità a fungere da risonanza, e al tempo stesso con la sua implicita pro-messa di eternità sovraindividuale. L’equivalenza, che ab-biamo ricavato dall’analisi dei testi antichi, è un dato ac-quisito per Shelley, che non a caso fa dell’Afrodite di Bio-ne, dea e simbolo della natura, proprio una personificazio-ne allegorica della poesia 81. Quest’ultima viene quindi a confermarsi, come e più della natura, nella posizione di una realtà universale e condivisa cui compete dar risonan-za emozionale al lutto e garantire la memoria e l’immorta-lità simbolica del defunto.

Questa caratterizzazione della poesia e della natura come strettamente connesse deriva senz’altro dall’elaborazione del modello offerto dall’Epitafio di Bione, che insieme all’Epitafio di Adone permette senz’altro la più corretta lettura complessiva del poemetto di Shelley: anche in Shelley, infatti, come nell’Epitafio di Bione, Eco è veicolo del riverbero della poesia di Adonais (vv. 14-18), e, proprio come nell’Epitafio di Bione, essa subisce la crisi radicale innescata dalla scomparsa del poeta (vv. 127-135):

Eco, smarrita, siede fra montagne silenziose,e alimenta il dolore con il ricordo delle sue melodie, e non risponderà mai più a venti o sorgenti, o agli uccelli premurosi sui teneri virgulti verdi, al corno dei pastori o alla campana sul far della sera; non potendo imitare le labbra di Adone, ben più care di quellesdegnose che la fecero svanire nell’ombra di ogni suono,nulla più di un cupo sussurro in mezzo ai cantigiunge ora all’orecchio dei taglialegna.

81 Il dato, scotomizzato nella redazione finale del carme, è però ancora esplicito nelle varianti scartate del manoscritto bodleiano: in ben due casi il nome Urania prende il posto di «Great Poesy», una personificazione della poesia: sul tema cfr. K. Everest, Shelley’s “Adonais” and John Keats, in «Essays in Criticism», 57, 3, 2007, pp. 237-264, in particolare p. 239, n. 6; secondo lo studioso Urania «is in Shelley’s conception the presiding goddess of the English poetic tradition».

86 87

L’assimilazione della poesia alla natura è però in Shelley molto più completa, perché riposa su un’identificazione del poeta stesso con il suo canto, e di quest’ultimo con i suo-ni e le essenze del mondo (vv. 370-378):

Ora lui è diventato Natura: la sua voce si sente in tutta la sua musica, dal brontolio del tuono al dolce canto dell’usignolo; nel buio e nella luce, nell’erba e nella pietra, si sente e si riconosce la sua presenza; si spande ovunque muova quel Potere che ha tratto a sé il suo essere, e governa il mondo con inesauribile amore,sostenendolo di sotto, e irradiandolo dall’alto.

In quest’assimilazione Shelley rende però più evidente l’aggiornamento della costellazione adonia posta a fonda-mento di Adonais: staccato in parte dai modelli della tradi-zione bucolica, ora il suo Adone s’inserisce anche nella linea platonizzante, che si esprime in modo più compiuto nella seconda parte del testo. In questa prospettiva gli elementi che in [Mosco] 3 sono ancora funzionali all’articolazione di una dialettica tra il poeta scomparso e il suo successore si estendono a una rappresentazione complessiva del mondo dove il poeta che intona il lamento occupa una posizione privilegiata e intermedia tra il livello della realtà caduca e l’ambito delle entità noumeniche eterne (vv. 478-495):

La Luce col sorriso che accende l’Universo,la Bellezza in cui tutte le cose agiscono e si muovono,la Benedizione che il buio anatema del nascerenon può smorzare, quell’Amore potente che attraverso la rete dell’essere, ciecamente intessuta da uomini e bestie e terre e aria e mare,brucia vivida o fioca, poiché ciascuno è specchiodel fuoco che tutti agognano; ora splende su di me,consumando le ultime nubi della fredda mortalità.

Il respiro potente che ho invocato nel cantoscende su di me; la barca del mio spirito, le cui vele mai conobbero tempesta, è spintavia dalla spiaggia, via dalla folla tremante.La massa della terra e le sfere celesti sono spaccate!Una forza oscura, e spaventosa, mi porta lontano:l’anima di Adone, bruciando dietro il più recondito velo dei Cieli, come una stella irradia lucedalla dimora dove gli Eterni stanno.

Come si vede, in un sincretismo platonico-cristiano di cui forse Shelley non controllava nemmeno completamen-te l’estensione 82, la bellezza è equiparata all’amore, anche se entrambi sono ormai intesi solo in senso metafisico (vv. 479-481): di nuovo, il nucleo profondo dell’identità adonia, con il minimo aggiornamento neoplatonico, viene posto alla radice della realtà stessa, di quella «rete dell’essere» che comprende tutte le forme naturali in cui l’essere si manifesta. È chiaro quindi come la bellezza di Adone, che gli compete nel mito come tratto definitorio, divenga altre-sì qualità essenziale del poeta. Questa risemantizzazione della bellezza come forza poetica, e in quanto tale come forza generativa ontologica, non è altro che una prosecu-zione di un’equivalenza già presente nei modelli: anche nell’Epitafio di Bione, infatti – certo non con le stesse im-plicazioni neoplatoniche –, il poeta Bione è kalós, «bello», esattamente come Adone, perché è bella e amabile la sua vena poetica. Un corto circuito che accosta un aspetto tutto sommato marginale della poesia alessandrina a un nucleo concettuale importantissimo per l’estetica romanti-ca. Non solo in Shelley, infatti, ma anche in Keats, ad esempio, il poeta è bello perché la sua forza immaginativa vede la bellezza, e la verità delle sue emozioni è specchio di verità essenziale; come Keats stesso esplicita in una let-

82 Come appunto sostiene anche K. Everest, Shelley’s “Adonais” and John Keats, cit., pp. 240-242.

88 89

tera a Benjamin Bailey del 22 novembre 1817, «Ciò che l’immaginazione coglie come Bello, deve essere vero – un vero già esistente prima oppure no – perché io penso dell’Amore lo stesso che di tutte le nostre passioni: nella loro forma sublime, esse sono tutte capaci di creare bel-lezza essenziale». È il concetto espresso nella celebre con-clusione dell’Ode on a Grecian Urn, dove il messaggio dell’immagine antica (interessante per noi il fatto che essa sia definita tra l’altro «Frigida pastorale!») emerge come segnale di permanenza nell’alternarsi delle generazioni: «“Bellezza è verità, verità è bellezza – in ciò è tutto quan-to conoscete, e che avete bisogno di conoscere”». La bel-lezza inerente al soggetto poetico per la sua capacità di riconoscerla nel creato lo costituisce dunque gestore privi-legiato di una bellezza che investe parimenti la materia dove essa emerge e la soggettività in grado di isolarla. In Hyperion (ii, 228-229) la conclusione di Ocean è sulla stessa linea: «For ’tis the eternal law / That first in beauty should be first in might» (“Poiché è una legge eterna che il primo in bellezza sia anche il primo in potere”). Questa bellezza, in cui Keats riconosce il parametro per un ordi-namento gerarchico dell’essere, viene da Shelley attribuita proprio allo spirito di Keats defunto, in quanto soggetto capace di visione estetica e dunque di creazione metafisica (Adonais, stanza 43):

Lui è parte della bellezza che un temporese ancora più bella: fa ciò che gli compete,mentre l’impeto creatore dello Spiritosi propaga per lo smorto mondo compatto,imponendo mutazioni di nuove forme;costringendo le scorie riluttanti che frenanoil suo volo a conformarsi a sé, e parteciparealla sua opera; e del suo stesso potere e bellezzaprorompe in luce celeste da alberi e bestie e umani.

Ancora molto più tardi di Adonais l’elegia pastorale con-

tinua a essere praticata nella letteratura angloamericana e a mantenere viva la tradizione adonia del compianto fune-bre, in testi che possono essere molto vicini ai modelli antichi (come il Thyrsis di Matthew Arnold) o riproporne l’essenza a prescindere da espliciti richiami intertestuali (come avviene ad esempio per l’elegia dedicata da Walt Whitman alla memoria del presidente Lincoln, When Lilacs Last in the Dooryard Bloom’d). Un’analisi delle principali tappe antiche e moderne di questo aspetto della tradizione adonia potrebbe mostrare facilmente come la dinamica del lamento per la morte di Adone sia stata considerata, a partire dalla poesia ellenistica, particolarmente adatta a esprimere alcuni contenuti distintivi del modo pastorale, in particolare quella costellazione di emozioni e di affetti che presuppone lo scambio all’interno di gruppi di riferi-mento chiusi e paritari (situazioni topiche che includono emulazione, competizione, investitura e quant’altro). In questa prospettiva l’amore della dea per Adone finisce per costituire il pendant mitico dell’affetto poetico che ciascun soggetto poetante intrattiene con i suoi interlocutori, ami-ci e predecessori, e che il destino funesto può interrompe-re determinandone la sublimazione memoriale nel canto. A partire dal binomio [Mosco]-Bione, perciò, il lamento in morte di Adone si presenta come l’ipotesto privilegiato per l’espressione non tanto del lutto amoroso, quanto del-la sublimazione di un affetto poetico in memoria condivi-sa 83. A partire da questo binomio letterario di epitafi in stretta relazione intertestuale la morte di Adone finirà così per inscriversi, come un topos ineludibile che ne determi-na i connotati, nella struttura profonda dell’elegia pastora-

83 La linea che parte da [Mosco]-Bione prosegue con il lamento solidale di Virgilio per il poeta Cornelio Gallo abbandonato dall’amata (Bucolica x); con il compianto ovidiano in morte di Tibullo (Amores iii, 9); con l’Elégie di Ronsard per la morte del giovane poeta-guerriero Antoine Chasteigner; con l’Astrophel di Spenser in memoria di Sir Philip Sidney – per citare solo le tappe più importanti del percorso che culminerà nell’Adonais.

90

le, e farà sì che ogni poeta impegnato a cantare la morte di un predecessore, di un alter ego poetico, si ritrovi ob-bligato in futuro, come Shelley in Adonais, ad assorbire e a rinnovare il dolore di Afrodite per la morte del suo bel-lissimo ragazzo.

alessandro grilli

Teocrito

CANTO PER ADONE

(idilli xv, 100-144)

93

O dea che ami l’isola di Cipro e l’alta città di Erice, o Afrodite che giochi con l’oro, guarda: dall’Acheronte che scorre eterno, le Ore dal passo leggero, le amabili Ore – le più lente fra gli dei –, nel dodicesimo mese dell’anno ti han-no riportato Adone, il bellissimo Adone. Ma le amabili Ore desiderabili giungono per tutti i mortali, e sempre portano doni.

O Afrodite figlia di Dione, la leggenda narra che hai reso immortale la regina Berenice versando sul suo petto l’ambro-sia divina: e ora, o dea dai molti nomi e dai molti templi, ora la figlia di Berenice, Arsinoe che ad Elena assomiglia, ricono-scente verso di te colma di doni splendidi Adone.

Vicino a lui ogni frutto di stagione, noci e castagne, cane-stri d’argento colmi di fiori delicati, unguento di Siria in alabastri d’oro. E sul tavolo i cibi preparati dalle donne, fiori di ogni sorta e bianca farina, mescolati insieme a miele dolce e ad olio liquido. Tutto è accanto a lui, in forma di uccelli e di animali. Verdi pergolati hanno disposto, carichi di tenero aneto. Svolazzano al di sopra gli Amorini come giovani usignoli sull’albero, che vanno riprovando le ali an-cora acerbe volando di ramo in ramo.

Oh, la bellezza dell’ebano e dell’oro, aquile di avorio can-dido che portate a Zeus, figlio di Crono, un fanciullo – il

94

teocrito

coppiere Ganimede –, e tappeti di Samo e Mileto, color di porpora, più morbidi del sonno!

Hanno preparato il giaciglio per Adone il bello. Uno per Afrodite, l’altro per Adone dalle bianche braccia. Diciotto anni ha lo sposo, o diciannove: non cresce la barba intorno alle sue labbra, non pungono i suoi baci.

Ora, Afrodite, goditi il tuo sposo.All’alba, con l’ultima rugiada, noi tutte insieme lo riporte-

remo sulla riva del mare, dove si frange la schiuma delle onde. E scioglieremo i capelli, le tuniche cadranno fino a terra e con il seno nudo intoneremo per lui un canto melodioso:

«O amato Adone, fra i semidei tu solo – dicono così – tu solo dimori nell’Ade e poi risali sulla terra. Non ebbero la tua sorte Agamennone, e neppure Aiace, il grande, il folle Aiace, o Ettore, il maggiore dei venti figli di Ecuba. Non l’ebbe Patroclo e neppure Pirro, il figlio di Achille, che tornò da Troia, e gli antichi Lapiti e i Deucalioni, i Pelopidi e i Pelasgi, signori di Argo».

Sii a noi propizio, Adone, ora e nell’anno che verrà. Ti abbiamo accolto con gioia e con gioia ti accoglieremo quando tornerai.

Bione

LAMENTO FUNEBRE PER ADONE

grandi classicitascabili marsilioVariazioni sul mito

a cura di Maria Grazia Cianie Margherita Losacco

Da Porto, Shakespeare, Keller, Romeo e Giulietta, a cura di A.R. Azzone Zwei - fel, pp. 280

Eschilo, Goethe, Shelley, Gide, Pavese, Prometeo, a cura di F. Condello, pp. 240Euripide, Hofmannsthal, Ritsos, Elena, a cura di F. Donadi, pp. 224Euripide, Racine, Goethe, Ritsos, Ifigenia, a cura di C. Barone, pp. 352Euripide, Seneca, Grillparzer, Alvaro, Medea, a cura di M.G. Ciani, pp. 256Euripide, Seneca, Racine, d’Annunzio, Fedra, a cura di M.G. Ciani, pp. 328Euripide, Wieland, Rilke, Yourcenar, Raboni, Alcesti, a cura di M.P. Pattoni,

pp. 288Omero, Ovidio, Claudiano, Marino, Goethe, Swinburne, Tennyson, Ritsos,

Persefone, a cura di R. Deidier, pp. 208Omero, Ovidio, Plutarco, Machiavelli, Webster, Atwood, Circe, a cura di C. Fran-

co, pp. 216Plauto, Molière, Kleist, Giraudoux, Anfitrione, a cura di L. Pasetti, pp. 408Sofocle, Anouilh, Brecht, Antigone, a cura di M.G. Ciani, pp. 192Sofocle, Euripide, Hofmannsthal, Yourcenar, Elettra, a cura di G. Avezzù,

pp. 256Sofocle, Fénelon, Gide, Müller, Filottete, a cura di A. Alessandri, introduzione

di M. Massenzio, pp. 208Sofocle, Seneca, Dryden e Lee, Cocteau, Edipo, a cura di G. Avezzù, pp. 376Teocrito, Bione, Ovidio, Ronsard, Shakespeare, La Fontaine, Shelly, Keats, Adone,

a cura di A. Grilli, pp. 256Tirso de Molina, Molière, Da Ponte, Horváth, Don Giovanni, a cura di U. Curi,

pp. 344Virgilio, Ovidio, Poliziano, Rilke, Cocteau, Pavese, Bufalino, Orfeo, a cura di

M.G. Ciani e A. Rodighiero, pp. 160