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« Storiografia » · 13 · 2009 studi Guerriglia, guerra, prigioniero politico, stato di necessità Considerazioni sul corpus delle lettere di Aldo Moro dalla prigionia* Michele Napolitano 1 . “ In fatti come questi, che sono di autentica guerriglia (almeno cioè guerriglia) ”. Della funzione di alcuni incisi nelle lettere di Moro dalla prigionia T ra le annotazioni che riempiono i margini della mia copia della pregevole edi- zione delle lettere di Aldo Moro dalla prigionia recentemente pubblicata da Einaudi per le cure di Miguel Gotor (A. Moro, Lettere dalla prigionia, a cura di M. Gotor, Torino, Einaudi, 2008) ve n’è una che, per quanto certo relativa a un elemen- to di dettaglio, trascina però con sé, mi sembra, considerazioni di carattere più ge- nerale quanto alla natura dei problemi ermeneutici posti al lettore dal corpus delle * I passi delle lettere di Moro saranno citati secondo il testo stabilito nell’edizione Gotor e in base alla numerazione progressiva in essa assegnata ai documenti; per le citazioni dalle note di commento ap- poste da Gotor alle singole lettere e per quelle provenienti dalla seconda sezione del libro (Le possibilità dell’uso del discorso nel cuore del terrore: della scrittura come agonia, pp. 183-389) mi servirò invece dell’ab- breviazione ‘Gotor, Lettere’ seguita dal numero di pagina. Mai come in questo caso mi è stato prezioso il parere di coloro che hanno voluto leggere le mie pagine in dattiloscritto; mi sia allora consentito, intanto, ringraziare cordialmente Francesco M. Biscione, Silvana Casmirri, Federico Condello, Marco De Nicolò, Miguel Gotor, Massimo Mastrogregori, Antonio Menniti Ippolito, Enzo Morreale, Roberto Violi. A Francesco Biscione devo, d’altronde, assai più che una lettura: senza il suo cordiale, generoso sostegno questo lavoro sarebbe rimasto con ogni probabilità nel cassetto. Molto devo, ancora, alla cor- tese, competente disponibilità della dottoressa Michela Ghera, responsabile della biblioteca dell’Istituto Luigi Sturzo; a lei, e al personale della biblioteca, il mio grazie più cordiale. A Massimo Mastrogregori, inoltre, un ringraziamento particolare per aver deciso di accogliere il lavoro nella rivista da lui diretta. Quanto io debba, infine, a mia moglie, Annamaria Riezzo, e alle lunghe, intense discussioni con lei, su Moro e su molto altro, è cosa che si lascia a stento dichiarare; vorrei, dunque, che questo lavoro fosse dedicato a lei.

Guerriglia, guerra, prigioniero politico, stato di necessità. Considerazioni sul corpus delle lettere di Aldo Moro dalla prigionia

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« Storiografia » · 13 · 2009

studi

Guerriglia, guerra, prigioniero politico, stato di necessitàConsiderazioni sul corpus delle lettere di Aldo Moro

dalla prigionia*

Michele Napolitano

1. “In fatti come questi, che sono di autentica guerriglia (almeno cioè guerriglia)”. Della funzione di alcuni incisi

nelle lettere di Moro dalla prigionia

Tra le annotazioni che riempiono i margini della mia copia della pregevole edi-zione delle lettere di Aldo Moro dalla prigionia recentemente pubblicata da

Einaudi per le cure di Miguel Gotor (A. Moro, Lettere dalla prigionia, a cura di M. Gotor, Torino, Einaudi, 2008) ve n’è una che, per quanto certo relativa a un elemen-to di dettaglio, trascina però con sé, mi sembra, considerazioni di carattere più ge-nerale quanto alla natura dei problemi ermeneutici posti al lettore dal corpus delle

* I passi delle lettere di Moro saranno citati secondo il testo stabilito nell’edizione Gotor e in base alla numerazione progressiva in essa assegnata ai documenti; per le citazioni dalle note di commento ap-poste da Gotor alle singole lettere e per quelle provenienti dalla seconda sezione del libro (Le possibilità dell’uso del discorso nel cuore del terrore: della scrittura come agonia, pp. 183-389) mi servirò invece dell’ab-breviazione ‘Gotor, Lettere’ seguita dal numero di pagina. Mai come in questo caso mi è stato prezioso il parere di coloro che hanno voluto leggere le mie pagine in dattiloscritto; mi sia allora consentito, intanto, ringraziare cordialmente Francesco M. Biscione, Silvana Casmirri, Federico Condello, Marco De Nicolò, Miguel Gotor, Massimo Mastrogregori, Antonio Menniti Ippolito, Enzo Morreale, Roberto Violi. A Francesco Biscione devo, d’altronde, assai più che una lettura: senza il suo cordiale, generoso sostegno questo lavoro sarebbe rimasto con ogni probabilità nel cassetto. Molto devo, ancora, alla cor-tese, competente disponibilità della dottoressa Michela Ghera, responsabile della biblioteca dell’Istituto Luigi Sturzo; a lei, e al personale della biblioteca, il mio grazie più cordiale. A Massimo Mastrogregori, inoltre, un ringraziamento particolare per aver deciso di accogliere il lavoro nella rivista da lui diretta. quanto io debba, infine, a mia moglie, Annamaria Riezzo, e alle lunghe, intense discussioni con lei, su Moro e su molto altro, è cosa che si lascia a stento dichiarare; vorrei, dunque, che questo lavoro fosse dedicato a lei.

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lettere di Moro, specie per quanto attiene alle strategie di elaborazione del discorso da parte di Moro prigioniero. La convinzione che a tali considerazioni valesse la pe-na di dare forma di argomentazione compiuta è ciò che mi ha indotto a organizzare il mio breve appunto a margine in ragionamento articolato e disteso e a proporre le mie riflessioni alla pubblica attenzione, nella speranza (spero non troppo mal riposta) di non aver visto male quanto alla loro utilità e pertinenza.

Il passo dal quale vorrei prendere le mosse ricorre all’interno della cosiddetta « let-tera su Taviani » (doc. 21, pp. 40-43 Gotor), � nella quale Moro, di fronte alla smentita pubblicamente opposta dal collega di partito, rivendica con vigoroso, aspro pun-tiglio � la veridicità di quanto aveva affermato in una precedente lettera (quella a Zaccagnini, recapitata dai brigatisti il 4 aprile, ma scritta con ogni verosimiglianza qualche giorno prima) a proposito di un colloquio intrattenuto con lo stesso Tavia-ni « in materia di scambio di prigionieri (nelle circostanze delle quali ora si tratta) » (doc. 21, p. 40 Gotor) nel 1974, ai tempi del sequestro Sossi. All’idea, attribuita da Moro a Taviani e ai « tanti » che « anche oggi la pensano diversamente da me ed allo stesso modo di Taviani » (doc. 21, p. 41 Gotor), in base alla quale il rifiuto pregiudizia-le di ogni possibilità di trattativa avrebbe rappresentato « il solo modo per difendere l’autorità ed il potere dello Stato » in circostanze analoghe a quella determinata dal suo sequestro, Moro oppone un’opinione di segno opposto, sviluppando concetti affacciati con chiarezza già nella lettera a Cossiga del 29 marzo, e poi continuamen-te ribaditi nelle lettere successive : �

� Si tratta in realtà, come è ben noto, dell’« unica parte del cosiddetto ‘Memoriale’ che le Br divul-garono durante e dopo il sequestro Moro » (Gotor, Lettere, p. 43 n. 1). Sullo statuto ambiguo del docu-mento si vedano, p. es., le considerazioni svolte da V. Satta, Odissea nel caso Moro. Viaggio controcorrente attraverso la documentazione della Commissione Stragi, Roma, edup, 2003, p. 330. quanto al molto che si è scritto a proposito della « lettera su Taviani », segnalo, del tutto selettivamente, e a puro titolo orientati-vo, quanto segue : S. Flamigni, La tela del ragno. Il delitto Moro, Milano, Kaos Edizioni, 19933, pp. 180-182 ; L. Sciascia, L’affaire Moro. Con aggiunta la relazione parlamentare, Milano, Adelphi, 1994, pp. 70-79 ; A. C. Moro, Storia di un delitto annunciato. Le ombre del caso Moro, Roma, Editori Riuniti, 1998, p. 235 sg. ; F. M. Biscione, Il delitto Moro. Strategie di un assassinio politico, Roma, Editori Riuniti, 1998, pp. 71-75 ; Satta, Odissea nel caso Moro, cit., pp. 329-331 ; S. Flamigni, “Il mio sangue ricadrà su di loro”. Gli scritti di Aldo Moro prigioniero delle Br, Milano, Kaos Edizioni, 2003, pp. 87-91 ; A. Giovagnoli, Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, Bologna, il Mulino, 2005, p. 159 ; Gotor, Lettere, pp. 339-342. Le reazioni alla divul-gazione del documento sono efficacemente ricostruite da G. Bianconi, Eseguendo la sentenza. Roma, 1978. Dietro le quinte del sequestro Moro, Torino, Einaudi, 2008, p. 206 sg.

� Con l’evidente intento di gettare ulteriore discredito sulla smentita di Taviani, Moro tiene a preci-sare l’occasione in cui lo scambio di idee aveva avuto luogo (doc. 21, p. 40 Gotor) : « Intanto quello che ho detto è vero e posso precisare allo smemorato Taviani (smemorato non solo per questo) che io glie-ne ho parlato nel corso di una direzione abbastanza agitata tenuta nella sua sede dell’Eur proprio nei giorni nei quali avvenivano i fatti dai quali ho tratto spunto per il mio occasionale riferimento » (i fatti in questione sono, naturalmente, quelli relativi al sequestro Sossi). La circostanza è messa in risalto, non senza un sottile intento polemico, da Moro, Storia di un delitto annunciato, cit., p. 276 ; vd. anche M. Clementi, La pazzia di Aldo Moro, Milano, Rizzoli, 2006, p. 162.

� Si vedano la lettera a Zaccagnini del 4 aprile (doc. 6 Gotor), la seconda lettera a Cossiga (doc. 16 Gotor : non recapitata, ma scritta, secondo Gotor, « intorno al 4-5 aprile » [Gotor, Lettere, p. 30 n. 1], e comunque dopo il 3 aprile [vd. Gotor, Lettere, p. 30 n. 10]), le due lettere alla moglie Eleonora del 6 aprile (doc. 15 Gotor) e dell’8 aprile (doc. 17 Gotor), la lettera a don Virgilio Levi (doc. 18 Gotor : non recapitata, ma scritta, secondo Gotor, « tra il 7 e l’8 aprile » [Gotor, Lettere, p. 36 n. 1]), la prima delle due lettere indirizzate a papa Paolo VI (doc. 19 Gotor).

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Ed io invece ho detto sin d’allora riservatamente al Ministro ed ho ora ripetuto ed ampliato una valutazione per la quale in fatti come questi, che sono di autentica guerriglia (almeno cioè guerriglia), non ci si può comportare come ci si comporta con la delinquenza comune, per la quale del resto all’unanimità il Parlamento ha introdotto correttivi che riteneva indif-feribili per ragioni di umanità. Nel caso che ora ci occupa si trattava di immaginare, con op-portune garanzie, di porre il tema di uno scambio di prigionieri politici (terminologia ostica, ma corrispondente alla realtà) con l’effetto di salvare altre vite umane innocenti, di dare umanamente un respiro a dei combattenti, anche se sono al di là della barricata, di realizzare un minimo di sosta, di evitare che la tensione si accresca e lo Stato perda credito e forza, se è sempre impegnato in un duello processuale defatigante, pesante per chi lo subisce, ma anche non utile alla funzionalità dello Stato. �

Già Flamigni sosteneva l’idea che l’inciso « (almeno cioè guerriglia) » dovesse essere letto come « una specie di ‘rettifica’ fra parentesi ad attenuare il termine ‘autentica’ », ritenendo che Moro, proprio in virtù dell’azione attenuativa dell’inciso, avrebbe mirato a « sottilmente distinguere fra una vera azione di guerriglia e l’azione mili-tare di cui è rimasto vittima » ; � se le cose stessero davvero così, ci sarebbe però da domandarsi, intanto, che senso avrebbe avuto inserire una pericope tesa a sminuire la portata dell’azione messa in atto dai brigatisti nel contesto di un’argomentazione tutta mirata a sostenere, invece, l’opportunità di uno « scambio di prigionieri politi-ci ». un’obiezione, questa, che mi sentirei di rivolgere adesso anche a Gotor, il quale all’inciso in questione appone una nota che suona come segue (Gotor, Lettere, p. 44 n. 5) : « Sfugge il significato di questo inciso, che in ogni caso sembra avere un sottile valore attenuativo del concetto precedente ‘autentica guerriglia’, come una mano che si alzasse di scatto ad accompagnare un gesto di sarcasmo, scetticismo, forse di umiliato disprezzo, chiuso tra due parentesi ». Torna, come si vede, l’idea del valore attenuativo dell’inciso, e in un quadro che sembra suggerire (non senza efficacia, certo) l’idea di un Moro incapace, pur nella terribile condizione in cui si trova, di aderire fino in fondo al punto di vista dei suoi sequestratori (così leggo – e spero di leggere bene – il cenno, in Gotor, al « sarcasmo », allo « scetticismo », e soprattutto all’« umiliato disprezzo », che non vedo a chi altri riferire se non a un Moro vinto dal disgusto per aver dovuto gratificare appena prima i suoi aguzzini della patente di « autentici guerriglieri »).

A me sembra invece che l’inciso significhi l’esatto contrario : con la breve peri-cope tra parentesi Moro, non che attenuare il senso di quanto immediatamente precede, rincara la dose, come per suggerire al lettore, pur con riluttanza, l’idea che,

� Doc. 21, p. 41 Gotor. Da segnalare il fatto che l’inciso in questione compare anche nella seconda versione della « lettera su Taviani », rinvenuta dattiloscritta nell’ottobre 1990 in via Montenevoso, che pure contiene varianti di non secondaria importanza rispetto alla versione recapitata : « almeno [...] guerriglia » (doc. 22, p. 46 Gotor). I tre puntini di sospensione dipendono evidentemente dal fatto che il dattilografo non ha capito la parola intercorrente, nel manoscritto, tra « almeno » e « guerriglia », come capita anche altrove nel corpus (cfr., p. es., doc. 35 Gotor con Gotor, Lettere, p. 66 n. 4 ; doc. 55 Gotor con Gotor, Lettere, p. 97 n. 9 ; doc. 61 Gotor con Gotor, Lettere, p. 115 n. 12 ; vd. anche, più in generale, Gotor, Lettere, p. 297), e d’altronde, in almeno altri tre casi, nello stesso dattiloscritto della seconda versione della « lettera su Taviani ».

� Flamigni, Gli scritti di Aldo Moro prigioniero delle Br, cit., p. 88 n. 5.

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con il suo sequestro, la strategia del terrore abbia operato un deciso salto di qualità, trasformandosi da « autentica guerriglia » in guerra conclamata. Decisivo, al di là delle ragioni dell’italiano, � appare il confronto con un passo del « Memoriale » la cui stesura deve essere fatta risalire al medesimo torno di tempo al quale è da ascrivere la stesura della lettera alla moglie recapitata il 6 aprile (doc. 15 Gotor), � e dunque allo stesso contesto cronologico al quale è da attribuire la stesura della « lettera su Taviani » (recapitata il 10 aprile, ma scritta qualche giorno prima, probabilmente intorno all’8 aprile, e comunque dopo il 7, giorno in cui fu messa in circolazione dalla stampa la notizia della smentita di Taviani). � Dopo aver rivendicato con forza la lucidità e l’autenticità del suo pensiero a dispetto delle « circostanze eccezionali » determinate dal rapimento e dalla prigionia, � Moro inizia a sviluppare il tema dello scambio di prigionieri ; lo scambio, per Moro, è opportuno « per ragioni generali di umanità, perché così si pratica in molti Paesi civili, perché vale ben poco affermare un astratto principio di legalità e poi sacrificare vite umane innocenti, perché la stessa sicurezza dello Stato guadagna da un minimo di distensione, come quando gruppi irriducibilmente ostili si disperdono fuori del territorio nazionale, sia pure acquisendo un po’ di respiro che è loro altrimenti precluso » (Biscione, Memoriale, p. 99 sg.). Piuttosto che essere tenuti in galera e processati, i prigionieri avrebbero potuto più utilmente « essere dispersi fuori del territorio nazionale e resi pratica-mente innocui » (Biscione, Memoriale, p. 100). Segue il passo che ci interessa :

Così invece essi [scil. i prigionieri] concorrono ad alimentare una guerra che è, si voglia o no, una guerra, non riconducibile ad un’operazione di polizia, non riportabile a comune delinquenza, ma espressione di una sfida essenzialmente politica, per ragioni di fondo che una visione riduttiva delle cose non gioverebbe a cogliere (ibidem).

Chi metta a reagire il passo che ho appena riportato con la pericope della « lettera su Taviani » della quale è qui questione, sarà colpito, oltre che dalla stretta parentela tematica che lega i due passi, dal ricorrere, in entrambi i contesti, del sostantivo « delinquenza » in nesso con il qualificativo « comune » (« delinquenza comune » nella

� Per quanti sforzi faccia, devo confessare che, anche a stare alla sola evidenza del dettato del passo, proprio non vedo come la sequenza « autentica guerriglia (almeno cioè guerriglia) » possa ammettere un’esegesi diversa da quella che propongo qui ; per la situazione che si è venuta a determinare con il suo rapimento Moro adombra l’ipotesi che la categoria di « guerriglia » (sulla quale non è nemmeno il caso di discutere : così mi sembra sia da interpretare il qualificativo « autentica » associato da Moro al sostantivo « guerriglia ») sia ormai insufficiente a descrivere correttamente la realtà delle cose (« al-meno cioè guerriglia », e dunque « guerriglia, se basta », se non è già, dunque, qualcosa di più grave e pervasivo).

� La sezione del « Memoriale » in questione « è una delle poche che si può datare con certezza in quanto Moro affermò di essere prigioniero da una ventina di giorni e fece un riferimento esplicito al dibattito parlamentare svoltosi il 4 aprile, dei cui contenuti i brigatisti lo avevano evidentemente reso edotto » (Gotor, Lettere, p. 324). Per un confronto puntuale tra i contenuti sviluppati in questa sezione del « Memoriale » e la lettera alla moglie del 6 aprile rimando alle lucide considerazioni di Gotor, Lette-re, pp. 331-339. � Vd. Gotor, Lettere, pp. 43 n. 1 e 44 n. 3.

� « Innanzitutto io tengo, davanti a tante irrispettose insinuazioni, affermare che io, non fatto oggetto di alcuna coercizione personale, sono in pieno possesso delle mie facoltà intellettuali e volitive e che quel che dico, discutibile quanto si voglia, esprime il mio pensiero » (Il memoriale di Aldo Moro rinvenuto in via Monte Nevoso a Milano, a cura di F. M. Biscione, Roma, Coletti, 1993, p. 99 [d’ora in avanti Biscione, Memoriale]).

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« lettera su Taviani » ; « comune delinquenza », in ordine inverso, nel passo del « Me-moriale »). È evidente, insomma, che, nei due passi, Moro sta affermando il mede-simo concetto, e con parole che, nel caso dell’accenno alla delinquenza comune, si ripetono alla lettera (salvo il diverso ordo verborum) nei due distinti contesti. Il fatto che l’atteggiamento più cauto tenuto da Moro nella « lettera su Taviani » (quell’inci-so tra parentesi, che suggerisce, non senza riluttanza, una chiave di lettura, piuttosto che affermare apertis verbis un dato di fatto incontrovertibile) ceda il passo, nel corri-spondente contesto del « Memoriale », a un’affermazione lapidaria e inequivoca, � pur in qualche modo attenuata dall’inciso tra virgole (« una guerra che è, si voglia o no, una guerra »), non mi sembra possa essere letto in termini di contrasto irriducibile (da un lato, cioè, una posizione che, nel valutare le azioni dei terroristi, escludereb-be persino la categoria di « guerriglia », dall’altro un’affermazione, diametralmente opposta, che le qualifica positivamente come « azioni di guerra »), e va valutato in-vece, direi, nei medesimi termini in cui si valutano le formulazioni alternative di identici concetti nei documenti del corpus sopravvissuti in diverse redazioni (non, dunque, due distinte valutazioni reciprocamente escludentisi, ma una medesima idea declinata in due distinte formulazioni, una più cauta, l’altra più netta e decisa).

un caso di particolare interesse ai fini del discorso che sto svolgendo riguarda, appunto, un inciso. Della seconda lettera a Misasi (doc. 86 Gotor), forse recapitata (vd. Gotor, Lettere, pp. 232-235), ma non divulgata, e ritrovata solo nell’ottobre 1990 come fotocopia di manoscritto, possediamo il frammento di una seconda versione (doc. 87 Gotor), anch’essa ritrovata solo come fotocopia di manoscritto nell’ottobre 1990. Ora, il passo che nella prima versione della lettera suona « È per questo che ho ascoltato (dirò poco) con sommo rammarico la reazione dell’On. Zucconi alla nota proposta dell’On. Craxi » nel frammento della seconda versione corre come segue : « È per questo che ho ascoltato (mi dispiace di non avere altra parola da usare) con disgusto la reazione dell’On. Zucconi alla nota proposta dell’On. Craxi ». Più ancora che il carattere sensibilmente attenuato della formulazione contenuta nella prima versione (« con sommo rammarico ») rispetto a quella presente nella seconda (« con disgu-sto »), qui a essere interessante ai fini del nostro discorso è la funzione dell’inciso « dirò poco » che accompagna, tra parentesi, la formulazione attenuata. Anche qui, come nella « lettera su Taviani », l’inciso serve cioè a segnalare il fatto che quanto si è scelto di scrivere (« auten-tica guerriglia » nella « lettera su Taviani » ; « con sommo rammarico » in quella a Misasi) non corrisponde fino in fondo a quanto si pensa (la guerriglia è dunque ormai guerra aperta e conclamata negli stessi termini in cui il « sommo rammarico » cela in realtà un sentimento assai più netto e violento – il « disgusto » della seconda versione). una funzione in tutto simile è quella svolta da un inciso che ricorre nella versione della lettera alla Democrazia Cristiana recapitata dai brigatisti (doc. 82 Gotor), e più specificamente nel contesto del passo relativo a Piccoli (passo presente solo nella versione recapitata, il che esclude, in questo caso, la possibi-lità di un confronto con le versioni alternative della medesima missiva) : « E che dire dell’On. Piccoli, il quale ha dichiarato, secondo quanto leggo da qualche parte, che se io mi trovassi al suo posto (per così dire libero, comodo, a Piazza ad esempio del Gesù), direi le cose che egli dice e non quelle che dico stando qui. Se la situazione non fosse (e mi limito nel dire) così difficile, così drammatica quale essa è, vorrei ben vedere che cosa direbbe al mio posto

� Perfettamente in linea, d’altronde, con quanto Moro scrive dell’azione messa in atto dai brigatisti nelle righe iniziali della medesima sezione del « Memoriale » : « Certo non posso dimenticare di essere qui a causa di un’azione di guerra » (Biscione, Memoriale, p. 99).

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l’on. Piccoli » (doc. 82, p. 142 Gotor). « E mi limito nel dire » : come a voler significare che per descrivere adeguatamente i termini della situazione che si trova a vivere Moro avrebbe dovu-to fare ricorso ad aggettivi ben più drastici dei due qualificativi effettivamente utilizzati (« se la situazione non fosse [...] così difficile, così drammatica ») ; anche in questo caso, insomma, la parentesi serve a Moro per suggerire l’idea che quanto scrive non è sufficiente a rendere compiutamente la realtà delle cose.

2. ‘Guerra’ e ‘guerriglia’ nel corpus delle lettere di Moro dalla prigionia : strategie argomentative

e funzione attenuativa degli incisi nel discorso di Moro prigioniero

Se nutro pochi dubbi quanto alla bontà dell’esegesi di dettaglio che propongo qui a proposito del passo in questione della « lettera su Taviani », tutt’altro dilemma (me ne rendo ben conto) è quello posto dal senso e dal valore delle affermazioni di Moro. Proverò più avanti a dare più lucida espressione al problema ; intanto, però, mi sembra che valga la pena seguire lungo l’intero corpus delle lettere i percorsi del motivo rappresentato dall’inciso contenuto nella « lettera su Taviani », un motivo che, come si vedrà, quasi alla stregua di un sotterraneo filo rosso (uno dei tanti, a dire il vero, forse, però, meno evidente di altri nell’economia tematica complessiva del corpus), attraversa l’epistolario di Moro prigioniero da cima a fondo, periodica-mente affiorando alla superficie. Procederò, dunque, con l’elencare qui di seguito in ordine cronologico, secondo l’ordinamento proposto da Gotor nella sua edizione, i passi del corpus nei quali la valutazione affacciata nella « lettera su Taviani », e più incisivamente affermata nel passo corrispondente del « Memoriale », torna a pre-sentarsi ; più specificamente ancora, i passi nei quali ricorrano le parole « guerra » e « guerriglia ». �

Al ministro dell’Interno Francesco Cossiga (doc. 3, p. 8 Gotor) : Capisco come un fatto di questo genere [scil. lo scambio di prigionieri], quando si delinea, pesi, ma si deve anche guardare lucidamente al peggio che può venire. queste sono le alterne vicende di una guerriglia, che bisogna valutare con freddezza, bloccando l’emotività e riflettendo sui fatti politici.Alla moglie Eleonora (doc. 17, p. 31 Gotor) : quello che è stupefacente è che in pochi minuti il Governo abbia creduto di valutare il significato e le implicazioni di un fatto di tanto rilievo ed abbia elaborato in gran fretta e con superficialità una linea dura che non ha più scalfito : si trattava in fondo di uno scambio di prigionieri come si pratica in tutte le guerre (e questa in fondo lo è) con la esclusione dei prigionieri liberati dal territorio nazionale.Al papa Paolo VI (doc. 19, p. 37 Gotor) : Immagino le ansie del governo. Ma debbo dire che siffatta pratica umanitaria [scil. lo scambio di prigionieri politici] è in uso presso moltissimi Governi, i quali danno priorità alla salvezza delle vite umane e trovano accorgimenti di al-lontanamento dal territorio nazionale per i prigionieri politici dell’altra parte, soddisfacendo così esigenze di sicurezza. D’altra parte, trattandosi di atti di guerriglia, non si vede quale altra forma di efficace distensione ci sia in una situazione che altrimenti promette giorni terribili.

� L’unico ad aver dato il risalto che merita al ricorrere delle parole « guerra » e « guerriglia » all’interno del corpus delle lettere di Moro dalla prigionia è stato, almeno a mia scienza, il fratello dello statista, Alfredo Carlo Moro, in quello che resta uno dei libri più lucidi nel gran mare della bibliografia relativa al ‘caso Moro’ (Moro, Storia di un delitto annunciato, cit., p. 223 sg.).

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Sul senatore Paolo Emilio Taviani (doc. 21, p. 41 Gotor) : Ed io invece ho detto sin d’allora riser-vatamente al Ministro ed ho ora ripetuto ed ampliato una valutazione per la quale in fatti come questi, che sono di autentica guerriglia (almeno cioè guerriglia), non ci si può compor-tare come ci si comporta con la delinquenza comune, per la quale del resto all’unanimità il Parlamento ha introdotto correttivi che riteneva indifferibili per ragioni di umanità. Nel caso che ora ci occupa si trattava di immaginare, con opportune garanzie, di porre il tema di uno scambio di prigionieri politici (terminologia ostica, ma corrispondente alla realtà) con l’effet-to di salvare altre vite umane innocenti, di dare umanamente un respiro a dei combattenti, anche se sono al di là della barricata, di realizzare un minimo di sosta, di evitare che la ten-sione si accresca e lo Stato perda credito e forza, se è sempre impegnato in un duello proces-suale defatigante, pesante per chi lo subisce, ma anche non utile alla funzionalità dello Stato.« Memoriale » (Biscione, Memoriale, p. 99) : Certo non posso dimenticare di essere qui a causa di un’azione di guerra.« Memoriale » (Biscione, Memoriale, p. 100) : Mi si dimostri a che giovano le tensioni e le vittime come quelle dei vari processi di Torino, quando, con minor dispendio di vite umane e con il riconoscimento di ragioni di equità, i prigionieri potevano essere dispersi fuori del territorio nazionale e resi praticamente innocui. Così invece essi concorrono ad alimentare una guerra che è, si voglia o no, una guerra, non riconducibile ad un’operazione di polizia, non riportabile a comune delinquenza, ma espressione di una sfida essenzialmente politica, per ragioni di fondo che una visione riduttiva delle cose non gioverebbe a cogliere.Al segretario della Dc Benigno Zaccagnini (doc. 57, p. 99 Gotor) : È dunque alla D.C. che biso-gna guardare. Ed invece, dicevo, niente. Sedute notturne, angosce, insofferenze, richiami alle ragioni del Partito e dello Stato. Viene una proposta unitaria nobilissima, ma che elude purtroppo il problema politico reale. Invece dev’essere chiaro che politicamente il tema non è quello della pietà umana, pur così suggestiva, ma dello scambio di alcuni prigionieri di guerra (guerra o guerriglia come si vuole), come si pratica là dove si fa la guerra, come si pratica in paesi altamente civili (quasi la universalità), dove si scambia non solo per obiettive ragioni umanitarie, ma per la salvezza della vita umana innocente.Al Presidente del Comitato parlamentare per il controllo sui servizi di informazione e di sicurezza e sul segreto di Stato Erminio Pennacchini (doc. 59, p. 108 Gotor) : Di fronte alla situazione di oggi non si può dire perciò che essa sia del tutto nuova. Ha precedenti numerosi in Italia e fuori d’Italia ed ha, del resto, evidenti ragioni che sono insite nell’ordinamento giuridico e nella coscienza nazionale del Paese. Del resto è chiaro che ai prigionieri politici dell’altra parte viene assegnato un soggiorno obbligato in Stato Terzo. Ecco, la tua obiettiva ed informata testimonianza, data ampiamente e con la massima urgenza, dovrebbe togliere alla soluzione prospettata quel certo carattere di anomalia che taluno tende ad attribuire ad essa. È un intermezzo di guerra o guerriglia che sia, da valutare nel suo significato. Lascio alla tua pru-denza di stabilire quali altri protagonisti evocare.Al sottosegretario del ministero di Grazia e giustizia Renato Dell’Andro (doc. 60, p. 111 Gotor) : La prima [scil. considerazione] riguarda quella che può sembrare una stranezza e non è e cioè lo scambio dei prigionieri politici. Invece essa è avvenuta ripetutamente all’estero, ma anche in Italia. Tu forse già conosci direttamente le vicende dei palestinesi all’epoca più oscura della guerra. Lo Stato italiano, in vari modi, dispose la liberazione di detenuti, allo scopo di stornare grave danno minacciato alle persone, ove essa fosse perdurata. Nello spirito si fece ricorso allo Stato di necessità. Il caso è analogo al nostro, anche se la minaccia, in quel caso, pur serissima, era meno definita. Non si può parlare di novità né di anomalia. La situazione era quella che è oggi e conviene saperlo per non stupirsi.

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Alla Democrazia cristiana (doc. 82, p. 141 Gotor ; cfr. doc. 84, p. 148 Gotor e doc. 85, p. 151 Gotor) : Perché questo avallo alla pretesa mia non autenticità ? Ma tra le Brigate Rosse e me non c’è la minima comunanza di vedute. E non fa certo identità di vedute la circostanza che io abbia sostenuto sin dall’inizio (e, come ho dimostrato, molti anni fa) che ritenevo accettabile, come avviene in guerra, uno scambio di prigionieri politici. E tanto più quando, non scambiando, taluno resta in grave sofferenza, ma vivo, l’altro viene ucciso. In concreto lo scambio giova (ed è un punto che umilmente mi permetto sottoporre al S. Padre) non solo a chi è dall’altra parte, ma anche a chi rischia l’uccisione, alla parte non combattente, in sostanza all’uomo comune come me. Da che cosa si può dedurre che lo Stato va in rovina, se, una volta tanto, un innocente sopravvive e, a compenso, altra persona va, invece che in prigione, in esilio ? Il discorso è tutto qui.Scritto per il presidente della Commissione giustizia della Camera dei deputati Riccardo Misasi (doc. 86, p. 158 s. Gotor) : Del resto, senza soffermarsi troppo su casi assai delicati e bisognosi di ap-profondimento, non si può negare che taluni fenomeni, a differenza di altri, hanno carattere di guerriglia con una propria fisionomia politica e giuridica, ponendo problemi che proprio le attuali circostanze mettono in evidenza ed alla cui soluzione (e ci si muove in questa dire-zione) non può essere estraneo il Comitato per la Croce Rossa internazionale ed il così detto diritto umanitario che è in elaborazione. E quanto alla natura dei fatti basterà ricordare le vicende dell’Alto Adige. E nella casistica cui accennavo si aggiunga il caso Lorenz nella stessa Germania.

La lettura in sequenza dei passi che ho raccolto impone alcune considerazioni pre-liminari.

a) Intanto, colpisce la continua oscillazione tra i due termini : � nel configurare le coordinate della situazione determinatasi a seguito del suo sequestro, Moro, per così dire, non prende partito, e usa indifferentemente ora « guerra » ora « guerriglia » senza che sia riconoscibile alcun apparente criterio di scelta.

b) I termini « guerra » e « guerriglia » compaiono regolarmente, e senza eccezioni, nel contesto di passi nei quali Moro affronta la questione dell’opportunità di una trattativa funzionale allo scambio di prigionieri : Moro sostiene cioè l’eccezionalità

� Di « guerriglia » Moro parla nella prima lettera a Cossiga (doc. 3, p. 8 Gotor : « le alterne vicende di una guerriglia »), nella prima lettera a Paolo VI (doc. 19, p. 37 Gotor : « trattandosi di atti di guerriglia »), e nella prima versione dello scritto per Misasi (doc. 86, p. 158 s. Gotor : « taluni fenomeni, a differenza di altri, hanno carattere di guerriglia ») ; di « guerra » parla, invece, nella lettera alla moglie recapitata l’8 aprile (doc. 17, p. 31 Gotor : « in tutte le guerre (e questa in fondo lo è) »), nei due passi del « Memoriale » (p. 99 s. Biscione : « Certo non posso dimenticare di essere qui a causa di un’azione di guerra [...] una guerra che è, si voglia o no, una guerra »), e nella lettera alla DC (doc. 82, p. 141 Gotor : « come avviene in guerra »). In due casi, i termini « guerra » e « guerriglia » appaiono giustapposti : nella lettera a Zaccagnini recapitata il 24 aprile (doc. 57, p. 99 Gotor : « guerra o guerriglia come si vuole »), e nella lettera a Pennac-chini (doc. 59, p. 108 Gotor : « È un intermezzo di guerra o guerriglia che sia »). Nella lettera a Dell’Andro recapitata il 29 aprile (doc. 60, p. 111 Gotor) Moro evoca prima « le vicende dei palestinesi all’epoca più oscura della guerra », per poi soggiungere : « La situazione era quella che è oggi e conviene saperlo per non stupirsi », implicitamente suggerendo l’idea che le circostanze determinate dal rapimento siano equivalenti a quelle proprie di uno stato di guerra. C’è, infine, il passo della « lettera su Taviani » dal quale siamo partiti (doc. 21, p. 41 Gotor) : « in fatti come questi, che sono di autentica guerriglia (almeno cioè guerriglia) » con quel che segue ; per quanto, come ho detto, l’inciso non sia affatto attenuativo, e rincari invece sensibilmente la dose, non si può non vedere come, in questo caso, Moro affacci l’idea dello stato di guerra in modo ancor più indiretto che nella lettera a Dell’Andro, e senza fare diretto ricorso alla parola « guerra ».

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delle circostanze determinate dal rapimento � per tentare di persuadere i suoi inter-locutori a intavolare una trattativa che, attraverso uno scambio di prigionieri, possa portare alla sua liberazione da parte dei brigatisti.

c) Ciononostante (e cioè, nonostante il fatto che, stando così le cose, Moro avreb-be avuto tutto l’interesse a spingere con decisione sul pedale dell’eccezionalità delle circostanze, e a rendere così il più possibile plausibile l’idea, in sé certo non ovvia, dell’opportunità di una trattativa con i suoi prigionieri), Moro non calca la mano in nessuno dei passi nei quali ricorrono le parole « guerra » e « guerriglia ». Direi anzi, al contrario, che il motivo precipuo di interesse dei passi in questione è costituito dall’insistito ricorrere, specie nei casi in cui Moro si spinge a parlare espressamente di « guerra », di strategie argomentative (spesso in forma di inciso) di natura attenua-tiva rispetto alla natura e alla sostanza di quanto si sta contemporaneamente affer-mando. Più in generale, però, direi che a colpire, nella totalità dei passi in esame, è il tono di lucido, freddo distacco che li caratterizza : proprio dove ci si potrebbe attendere il più alto grado di coinvolgimento emotivo, insomma, Moro argomenta con pacatezza, imbastendo ragionamenti che filano davvero, per dirla con lo stesso Moro, « come filavano i [...] ragionamenti di un tempo » (doc. 82, p. 141 Gotor) ; con l’ovvia conseguenza, certo, che a dominare è un effetto di generale straniamento che, per quanto non uniformemente distribuito, e dunque ora più ora meno perva-sivo, appare comunque del tutto inappropriato ad argomentazioni che dovrebbero essere invece mirate a persuadere.

Credo che sia opportuno, a questo punto, mettere alla prova la validità di quanto ho appena scritto analizzando i passi nel dettaglio. un caso esemplare di inciso for-temente attenuativo ricorre nella lettera alla moglie dell’8 aprile (doc. 17, p. 31 Go-tor) : « quello che è stupefacente è che in pochi minuti il Governo abbia creduto di valutare il significato e le implicazioni di un fatto di tanto rilievo ed abbia elaborato in gran fretta e con superficialità una linea dura che non ha più scalfito : si trattava in fondo di uno scambio di prigionieri come si pratica in tutte le guerre (e questa in fondo lo è) con la esclusione dei prigionieri liberati dal territorio nazionale ». � Al-trettanto attenuative sono le formulazioni, praticamente coincidenti, che ricorrono nella lettera a Zaccagnini del 24 aprile e in quella a Pennacchini. Conviene rileggere il passo della lettera a Zaccagnini (doc. 57, p. 99 Gotor) : « È dunque alla D.C. che bi-sogna guardare. Ed invece, dicevo, niente. Sedute notturne, angosce, insofferenze, richiami alle ragioni del Partito e dello Stato. Viene una proposta unitaria � nobilis-

� Di « circostanze eccezionali » Moro parla espressamente in un passo della lettera a Don Virgilio Levi, all’epoca vicedirettore dell’Osservatore Romano (doc. 18, p. 35 Gotor : « Ma il fatto è che vi sono circostanze eccezionali, nelle quali il raggiungimento degli obiettivi normali risulta altamente costoso e va in particolare a detrimento di altri beni e valori, che, di per sé, meritano di essere tutelati »), ancora una volta in relazione alla situazione nella quale si trova, e, ancora una volta, contro la linea della fer-mezza (i « fautori della linea dura », ibidem).

� La strategia attenuativa veicolata da « in fondo » coinvolge, peraltro, e negli stessi identici termini, anche l’idea dello scambio, evocata appena prima (« si trattava in fondo di uno scambio di prigionieri »). Se non vedo male, il duplice « in fondo » conferisce all’argomentazione di Moro un tono familiare, con-fidenziale, che altrove sarebbe difficile cogliere, e che certo è al suo posto in una missiva indirizzata alla moglie.

� Per quanto Moro abbia scritto senz’ombra di dubbio « unitaria », ho il forte sospetto che si tratti di un errore di copiatura, e che il nesso « proposta unitaria » sia da emendare in « proposta umanitaria »

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sima, ma che elude purtroppo il problema politico reale. Invece dev’essere chiaro che politicamente il tema non è quello della pietà umana, pur così suggestiva, ma dello scambio di alcuni prigionieri di guerra (guerra o guerriglia come si vuole), come si pratica là dove si fa la guerra, come si pratica in paesi altamente civili (qua-si la universalità), dove si scambia non solo per obiettive ragioni umanitarie, ma per la salvezza della vita umana innocente ». Se è vero che qui Moro, nel perorare, per l’ennesima volta, l’opportunità di una trattativa funzionale allo scambio di pri-gionieri, invece di evocare, come così spesso altrove, la categoria di « prigioniero politico », ricorre invece (ed è l’unica volta, se vedo bene, che ciò accade nel corpus) a quella, certo più impegnativa, di « prigioniero di guerra », è altrettanto vero che l’inciso immediatamente successivo (« guerra o guerriglia come si vuole ») limita sensibilmente il peso e la portata di quanto immediatamente precede ; d’altronde, anche la pericope subito successiva (« come si pratica là dove si fa la guerra ») sembra quasi suggerire il contrario di ciò che vorrebbe affermare, e cioè che la situazione italiana non è affatto integralmente sovrapponibile a quella in cui si trovano i paesi

(come nota Gotor, Lettere, p. 102 n. 14, « il riferimento è alla disponibilità della Caritas a farsi da tramite per un contatto con le Br ») ; quanto alle modalità materiali del processo di scrittura delle lettere, e al ruolo della ricopiatura in bella da brutte copie, vd. Gotor, Lettere, pp. 27 n. 7 ; 30 n. 4 ; 139 n. 2 ; 159 n. 5 ; 172 n. 1 ; 302 ; 346 ; 361. Nelle lettere di Moro l’opposizione tra piano umanitario e piano politico (oppo-sizione che sarebbe all’opera anche in questo passo della lettera a Zaccagnini, qualora si accetti l’idea che Moro qui sia incorso in errore, vergando « unitaria » per « umanitaria », e si accolga, di conseguenza, la proposta di leggere « umanitaria » al posto di « unitaria » : « Viene una proposta umanitaria nobilissima, ma che elude purtroppo il problema politico reale » ; e del resto, subito dopo : « Invece dev’essere chiaro che politicamente il tema non è quello della pietà umana, pur così suggestiva » con quel che segue), l’op-posizione tra piano umanitario e piano politico, dicevo, è, nel corpus delle lettere di Moro, una costante, specie in relazione ai tentativi che, a partire dalla sera del 15 aprile, la Dc mise in atto in funzione del coinvolgimento, a fini di mediazione, di organizzazioni internazionali quali Amnesty International e la Caritas (vd. almeno Giovagnoli, Il caso Moro, cit., pp. 171-174 e 193-195, e le testimonianze di C. Belci, G. Bodrato, 1978. Moro, la Dc, il terrorismo, Brescia, Morcelliana, 2006, pp. 179-184, e di G. Galloni, 30 anni con Moro, Roma, Editori Riuniti, 2008, pp. 256-258) : il problema, ripete instancabilmente Moro, è politico, e le soluzioni di natura umanitaria, comunque declinate, non bastano a risolvere positivamen-te la situazione. Cfr., p. es., doc. 43, p. 80 Gotor (All’ambasciatore Luigi Cottafavi) : « un fervido appello a Waldheim, il quale, pur restando nei limiti umanitari che non sono sufficienti a sbloccare la situazione, ha usato un tono più caldo [...] E bisogna aggiungere che non avrà [scil. Waldheim] un compito facile per le resistenze del governo che vorrebbe risolvere in termini umanitari (e cioè non pagando niente) la questione [...] Aggiungo che, trattandosi di un fatto politico, trattandosi di una mediazione, c’è un ter-mine ragionevole di trattativa » ; doc. 44, p. 82 Gotor (All’ambasciatore Francesco Malfatti di Montetretto) : « nella disperata situazione in cui mi trovo, sono nella necessità di rivolgermi a Lei, per trasmettere un appropriato messaggio al vecchio collega ed amico Waldheim [...], messaggio che è richiesta di urgente aiuto, ma, come Ella ben sa, non è di contenuto semplicemente umanitario » ; doc. 48, p. 86 Gotor (Al presidente del gruppo parlamentare della Dc Flaminio Piccoli) : « Andare avanti ... nel concreto, senza illudersi che invocazioni umanitarie possano avere il minimo effetto » ; doc. 49, p. 87 Gotor (Al presidente della Commisione giustizia della Camera dei deputati Riccardo Misasi) : « Tu sai che gli argomenti del rigore, in certe situazioni politiche, non servono a nulla. Si tratta di ben altro che dovremmo sforzarci di capire ... <Non illudetevi d’invocazion[i] umanitarie> » ; doc. 52, p. 91 Gotor (Al segretario del Psi Bettino Craxi) : « È da mettere in chiaro che non si tratta d’inviti rivolti agli altri a compiere atti di umanità, inviti del tutto inutili, ma di dar luogo con la dovuta urgenza ad una seria ed equilibrata trattativa per lo scambio di prigionieri politici » ; doc. 61, p. 113 Gotor (Al sacerdote Antonio Mennini) : « Se possibile, S. Em. Poletti potrebbe far osservare a S.S. che il Suo bellissimo messaggio, equivocandosi tra restituzione umanitaria e scambio dei prigionieri, si presta purtroppo ad essere utilizzato contro di me ».

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in cui sia in atto una situazione di guerra conclamata. � quanto al passo della lettera a Pennacchini (doc. 59, p. 108 Gotor : « È un intermezzo di guerra o guerriglia che sia, da valutare nel suo significato »), l’affermazione di Moro sembra quasi tingersi di una sfumatura, pur ben controllata, di disprezzo : non soltanto non importa, in fondo, stabilire se si tratti di guerriglia o di guerra vera e propria, come nel passo della lettera a Zaccagnini che ho appena discusso, ma la situazione che si è venuta a determinare, pur grave (Moro esordisce qualificando come « drammatico » il mo-mento che si trova a vivere : doc. 59, p. 107 Gotor), non è in realtà molto più che un « intermezzo [...] da valutare nel suo significato ». � Direi lo stesso della pericope « trattandosi di atti di guerriglia » contenuta nella prima missiva a Paolo VI (doc. 19, p. 37 Gotor), che, implicando (se non vedo male) l’idea della episodicità e disorganicità delle azioni messe in opera dai terroristi (compreso, con tutta evidenza, il sequestro del quale è stato oggetto lo stesso Moro), e suggerendo, a un tempo, l’assenza di un consapevole e coerente progetto politico retrostante, finisce per circoscrivere sensi-bilmente la portata complessiva del fenomeno (« atti di guerriglia », appunto, e dun-que, in fondo, terrorismo, � o, al più, fenomeni disarticolati che possono ammettere di essere rubricati sotto la voce « guerriglia », ma certo nulla che abbia a che fare con una situazione di guerra aperta e conclamata). � Del passo della « lettera a Taviani » basti quanto ho detto sopra. � qualche riflessione meritano, invece, i due passi che non ho ancora affrontato nel dettaglio, quello contenuto nella lettera a Dell’Andro

� Considerazioni analoghe mi sembra siano da svolgere a proposito dell’inciso « come avviene in guerra » contenuto nella lettera alla Dc (doc. 82, p. 141 Gotor) : « come avviene in guerra » non suggerisce forse, ancora una volta, l’idea che la situazione italiana non sia assimilabile in realtà a una situazione di guerra conclamata ?

� una formulazione, mi viene da notare en passant, molto simile, anche nel tono, a quella adoperata da Moro nella prima lettera a Cossiga (doc. 3, p. 8 Gotor) : « queste sono le alterne vicende di una guer-riglia, che bisogna valutare con freddezza, bloccando l’emotività e riflettendo sui fatti politici » ; ove a colpire sono la freddezza e il distacco con cui si guarda in faccia al problema, la lucidità e la pacatezza di chi è convinto di poter risolvere riflettendo e ragionando (« con freddezza, bloccando l’emotività ») an-che le situazioni più difficili e complesse (e poi « le alterne vicende di una guerriglia », una pericope che sarebbe stata forse al suo posto nel contesto delle argomentazioni di un osservatore esterno, ma che certo colpisce incastonata com’è, invece, nel ragionamento di un sequestrato). Altrettanto distaccata appare la considerazione contenuta nello scritto a Misasi (doc. 86, p. 158 s. Gotor) : « non si può negare che taluni fenomeni, a differenza di altri, hanno carattere di guerriglia con una propria fisionomia politica e giuridica » con quel che segue ; anche in questo caso, il ragionamento ha più la compassata lucidità del giurista di lungo corso che non il trasporto emotivo che ci si aspetterebbe in un prigioniero che dispera della propria salvezza.

� Vorrei far notare il fatto che, nella già citata lettera a don Virgilio Levi, scritta contemporaneamen-te a quella a Paolo VI, Moro, che pure scrive per difendere la linea della trattativa contro i « fautori della linea dura » (doc. 18, p. 35 Gotor), ivi compreso lo stesso Levi (vd. Gotor, Lettere, p. 34 n. 7), non parla né di « guerriglia » né tantomeno di « guerra », ma di « terrorismo » (ibidem : « E non si spiega così il fatto che Stati di diversa cultura, di fronte al fenomeno crescente del terrorismo, il più delle volte si siano fermati attoniti e poi abbiano deciso non in favore della regola astratta, ma della ragione di vita concreta ? »).

� Per quanto vi si parli di « guerra » e non di « guerriglia », considerazioni analoghe valgono anche per il primo dei due passi del « Memoriale » (p. 99 Biscione : « Certo non posso dimenticare di essere qui a causa di un’azione di guerra ») : fatta salva la diversa gradazione delle valutazioni espresse nei due distinti enunciati (« guerra » e « guerriglia » non sono la stessa cosa), mi sembra che per il resto (e cioè, per quanto attiene alla valutazione dell’episodicità e della disorganicità dei fenomeni presi in esame) « un’azione di guerra » equivalga in tutto e per tutto a « atti di guerriglia ».

� Cfr. supra p. 108 n. 1.

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(doc. 60, p. 111 Gotor : « Tu forse già conosci direttamente le vicende dei palestinesi all’epoca più oscura della guerra [...] La situazione era quella che è oggi e conviene saperlo per non stupirsi ») e il passo del « Memoriale » (Biscione, Memoriale, p. 100 : « una guerra che è, si voglia o no, una guerra, non riconducibile ad un’operazione di polizia, non riportabile a comune delinquenza, ma espressione di una sfida es-senzialmente politica ») che, tra tutti, è quello nel quale Moro sembra più netto e reciso nell’affermare la natura di guerra conclamata assunta dal fenomeno terrori-stico. Nel primo dei due passi, che procede (si badi) per via di analogia, � ad attrarre l’attenzione è la pericope « conviene saperlo per non stupirsi ». Moro non si limita a dire (come pure avrebbe ben potuto) « la situazione di oggi è una situazione di crisi in tutto simile a quella che si era determinata ai tempi della guerra del Kippur, e va risolta adottando misure analoghe a quelle che si decise di prendere allora » ; appena dopo averlo detto (« la situazione era quella che è oggi »), aggiunge la sibillina pre-cisazione in esame, come a prevenire una reazione di incredulità che, considerata l’arditezza dell’analogia appena argomentata, immagina inevitabile e considera, in fondo, perfettamente giustificata. quanto al passo del « Memoriale », è ancora una volta un inciso a rivelarsi decisivo : « una guerra che è, si voglia o no, una guerra » ; inciso che viene certo naturale leggere rivolto al prevedibile scetticismo dei lettori ai quali Moro virtualmente si rivolge, e che invece è forse da mettere in relazione (anticipo qui, per un momento, idee che troveranno più ampio sviluppo più avanti) con la riluttanza di Moro stesso a accedere a un punto di vista che non sarebbe mai stato il suo in condizioni diverse da quelle che si trovava a vivere da prigioniero delle Br (« si voglia o no » ; e io – sembra suggerire Moro – se fossi nella condizione di articolare liberamente il mio pensiero, non mi sognerei mai di definire « guerra » un fenomeno che della guerra non ha nulla).

3. Di Moro ‘personaggio’, del sequestro come ‘recita’, e del ricorrere, nel corpus, della iunctura ‘prigioniero politico’ :

scrittura perseguitata e strategie di resistenza alla manipolazione nel discorso di Moro prigioniero

Moro per primo sarà stato certo perfettamente consapevole del fatto che descrivere la situazione determinata in Italia dal fenomeno terroristico come equivalente a un vero e proprio « stato di guerra » significava, intanto, legittimare politicamente l’operato di coloro i quali avevano organizzato e messo a segno con tanta lucida, efficiente ferocia l’eccidio della scorta e il rapimento. � Anche senza voler tornare,

� Il mio caso, argomenta Moro, è analogo a quello dei detenuti palestinesi che, « all’epoca più oscura della guerra », si decise di liberare « allo scopo di stornare grave danno minacciato alle persone, ove essa [scil. la guerra ?] fosse perdurata », e va dunque trattato allo stesso modo, pensando a soluzioni analoghe, tanto più perché « la minaccia, in quel caso, pur serissima, era meno definita ». Il medesimo procedimento analogico è all’opera anche altrove : cfr., p. es., le lettere a Piccoli (doc. 58 Gotor) e a Pen-nacchini (doc. 59 Gotor), vergate contemporaneamente alla lettera a Dell’Andro, e recapitate, insieme a quest’ultima, il 29 aprile.

� Vd., p. es., A. Giovagnoli, Il partito italiano. La Democrazia Cristiana dal 1942 al 1994, Roma - Bari, Laterza, 1996, p. 188 sg. ; sul dibattito che, intorno al problema del riconoscimento politico delle Br, si aprì a sequestro in corso, soprattutto a partire dalla diffusione, il 24 aprile, del comunicato numero 8 e di una nuova lettera a Zaccagnini (doc. 57 Gotor), vd. Idem, Il caso Moro, cit., pp. 204-210.

Considerazioni sul corpus delle lettere di Aldo Moro dalla prigionia 115

qui, sulla molto dibattuta questione del variegato retroterra ideologico che faceva da sfondo alle strategie operative del partito armato nelle sue diverse declinazioni, � è sufficiente rileggere alcuni passi della risoluzione della direzione strategica delle Br del febbraio 1978 (di particolare significato, ai nostri fini, anche perché messa in circolazione a ridosso del rapimento di Moro) per rendersi conto non soltanto del fatto che le Brigate Rosse leggevano ormai gli sviluppi del conflitto che le opponeva alla « borghesia imperialistica » e allo « Stato imperialista delle multinazionali » in ter-mini di guerra aperta e conclamata, � ma anche della sensibilità acuta dei brigatisti

� Segnalo qui, a puro titolo orientativo, A. Silj, “Mai più senza fucile !”. Alle origini dei NAP e delle BR, Firenze, Vallecchi, 1977, pp. 161-199 ; S. S. Acquaviva, Guerriglia e guerra rivoluzionaria in Italia, Milano, Rizzoli, 1979, pp. 79-87 ; V. Dini, L. Manconi, Il discorso delle armi. L’ideologia terroristica nel linguaggio delle Brigate Rosse e di Prima Linea, Milano, Savelli, 1981 ; L. Manconi, Il nemico assoluto. Antifascismo e contropotere nella fase aurorale del terrorismo di sinistra, in La politica della violenza, a cura di R. Catanzaro, Bologna, il Mulino, 1990, pp. 47-91 ; D. della Porta, Il terrorismo di sinistra, Bologna, il Mulino, 1990, spec. pp. 219-225 e 250-256 ; S. Tarrow, Violenza e istituzionalizzazione dopo il ciclo di protesta, in Ideologie, movimenti, terrorismi, a cura di R. Catanzaro, Bologna, il Mulino, 1990, pp. 47-83 ; M. Mastrogregori, I due prigionieri. Gramsci, Moro e la storia del Novecento italiano, Genova - Milano, Marietti, 2008, pp. 135-152 ; con particolare riguardo alle br vd. adesso A. Orsini, Anatomia delle Brigate Rosse. Le radici ideologiche del terrorismo rivoluzionario, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2009 ; sulla violenza politica (non solo a sinistra) vd. inoltre A. Ventrone, L’assalto al cielo. Le radici della violenza politica, in L’Italia repubblicana nella crisi degli anni settanta. iv : Sistema politico e istituzioni, a cura di G. De Rosa, G. Monina, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, pp. 181-201 ; sulla portata politica del terrorismo nell’Italia (e nella Germania) degli anni settanta vd. infine M. Tolomelli, Terrorismo e società. Il pubblico dibattito in Italia e in Germania negli anni Settanta, Bologna, il Mulino, 2006, pp. 209-233.

� Emblematico l’attacco del § 9 della risoluzione, che reca il titolo « Violenza proletaria e contro-rivoluzione imperialista » (cito per comodità da M. Castronuovo, Vuoto a perdere. Le Brigate Rosse, il rapimento, il processo e l’uccisione di Aldo Moro. Pref. di G. Pellegrino, Nardò, besa Editrice, 2007, p. 354 s.) : « In questa fase storica, a questo punto della crisi, la pratica della violenza rivoluzionaria è l’unica poli-tica che abbia una possibilità reale di affrontare e risolvere la contraddizione antagonistica che oppone proletariato metropolitano e borghesia imperialistica. In questa fase la lotta di classe assume, per inizia-tiva delle avanguardie rivoluzionarie, la forma della guerra » ; e poco più avanti si parla di « pratica della guerriglia » e di « guerra di classe rivoluzionaria nella metropoli ». Vd. però anche almeno §§ 16-17 (Ca-stronuovo, Vuoto a perdere, cit., pp. 380-382) e inoltre, tra i documenti divulgati nel corso del sequestro, il passo che segue, tratto dal comunicato n. 4 del 4 aprile ’78 : « La congiuntura attuale è caratterizzata dal passaggio dalla fase della ‘pace armata’ a quella della ‘guerra’ [...] non è comunque un processo pa-cifico, ma, nel suo divenire, assume progressivamente la forma della guerra » (cito, ancora una volta, da Castronuovo, Vuoto a perdere, cit., p. 318 sg.). Vedeva dunque bene Calvino, il quale, recensendo la pri-ma edizione del libro di Sciascia sull’« Ora » del 4 novembre 1978, scriveva : « in nessun momento questo dramma [scil. il dramma di Moro] può essere considerato come un fatto isolato, senza un prima ed un poi. Il solo modo di vederlo è come tappa di un tentativo di creare le condizioni di una guerra civile, e in funzione di ciò che si può e si potrà fare perché questo tentativo non riesca » (I. Calvino, Moro ovvero una tragedia del potere, in Id., Saggi. 1945-1985, a cura di M. Barenghi, II, Milano, Mondadori, 1995, p. 2351). Già a ridosso dei tragici eventi del ’78, gli elementi di debolezza propri del partito armato apparivano comunque ben chiari, tra gli osservatori del fenomeno terroristico, anche a coloro i quali tendevano a immaginare ancora possibile, dopo i fatti di Moro, il passaggio dalla fase della guerriglia a una fase di vera e propria guerra rivoluzionaria : esemplari in questo senso, tra altre, le analisi di Acquaviva, Guerriglia e guerra rivoluzionaria in Italia, cit., pp. 137-152, e Idem [a c. di], Terrorismo e guerriglia in Italia. La cultura della violenza. Scelta antologica a c. di G. M. Pozzobon, Roma, Città Nuova, 1979, spec. pp. 15-19 e 23 s. ; sul carattere critico, di svolta, della situazione determinata dal rapimento e dall’uccisione di Moro, e sui rischi di involuzione della violenza politica in « pratica separata, popolar-giustizialista, con forme, tempi ed obiettivi quasi privati » vd. anche F. Piperno, Dal terrorismo alla guerriglia, « Pre-print » 1/4, dicembre 1978 (ma l’intervento di Piperno risale al maggio ’78), p. 20 (§ 15). Per un’analisi dei con-tenuti teorici affermati nella risoluzione del febbraio ’78 vd. invece, tra molto altro, Biscione, Il delitto Moro, cit., pp. 130-133, e Clementi, La pazzia di Aldo Moro, cit., pp. 76-88.

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per le strategie di ridimensionamento messe in atto dal « nemico », e tese, appunto, a degradare al rango di fatti di criminalità comune quelle che, nelle intenzioni dei terroristi, erano invece da considerare azioni rivoluzionarie strategicamente orga-nizzate e politicamente consapevoli.

A proposito di matrici ideologiche, sarà il caso di notare come tutto questo sia in linea, da un lato, con le coordinate messe a punto, a suo tempo, dalla retorica militante della « guerra partigiana », � così pervasivamente (e in massima parte abusivamente) sfruttata, nell’Italia degli anni Settanta, dai movimenti della sinistra extraparlamentare e, fin dalle prime origini del partito armato, dagli stessi terroristi. � La retorica resistenziale � reagiva anch’essa con ovvio sdegno all’assimilazione del partigiano al criminale comune, al brigante, al bandito, reiteratamente affermata dal nemico (fascisti repubblichini e tedeschi della Wehrmacht e delle SS) ora a scopo denigratorio, ora con intenti dichiaratamente intimidatori nei con-fronti della popolazione civile, � e non di rado restituita negli stessi termini al mittente. � Inevitabile corollario, l’affermazione del carattere di « guerra », continuamente ripetuta dai resistenti nelle più diverse sedi (pagine di diario ; lettere ; fogli clandestini ; documenti di propaganda), in relazione al conflitto che li vedeva opposti a fascisti repubblichini e tedeschi (« guerra civile », « guerra patriottica », « guerra di classe » e così via, a seconda della di volta

� Il riferimento, non casuale, è al titolo della vecchia raccolta einaudiana degli scritti resistenziali di Dante Livio Bianco (Torino, Einaudi, 1955) ; a scanso di sgradevoli equivoci, sarà peraltro il caso di chiarire che mi servo qui della parola « retorica » nella sua accezione più elementare e neutra, e cioè nel senso di « forma e organizzazione del discorso » (qui, appunto, il discorso resistenziale). Come è noto, l’idea che l’estremismo di sinistra fosse il « frutto di una ribellione dei figli che, contro il grigiore dei loro padri, riscoprivano il romanticismo rivoluzionario dei nonni impegnati nella Resistenza » (mi servo, per comodità, della parafrasi di Giovagnoli, Il caso Moro, cit., p. 103) era affermata a chiare lettere da Pasolini già nel ’73 (P. P. Pasolini, Prologo : E. M., « Nuovi argomenti » n. s. 31, gennaio-febbraio 1973, p. 5 sg., ora in Id., Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori, 1999, pp. 242-256).

� Vd., p. es., R. E. Wagner-Pacifici, The Moro Morality Play. Terrorism as Social Drama, Chicago - London, The university of Chicago Press, 1986, p. 172 (ma per usi e abusi del modello resistenziale nel-l’Italia degli anni Settanta, e non solo da parte dei terroristi, si vedano, più ampiamente, le pp. 169-175), e, da ultimo, L. Manconi, Terroristi italiani. Le Brigate Rosse e la guerra totale. 1970-2008, Milano, Rizzoli, 2008, pp. 59-66, ove si mettono opportunamente in rilievo le sopravvivenze di quella che Manconi chia-ma « epica della Resistenza » nei contenuti e persino nel lessico dei comunicati dei terroristi (vd. spec. p. 326 n. 52 : « Nei volantini di rivendicazione e nei documenti programmatici si possono agevolmente ritrovare frequenti richiami a gappismo, guerra di liberazione, azione partigiana, Resistenza, guerriglia, sabotaggio ; e per quel che riguarda i simboli, lo Sten, la stella rossa, le foto di brigate partigiane ; e an-cora l’uso di espressioni quali “giustizia è fatta”, “niente resterà impunito”, “mordi e fuggi” » ; il ruolo predominante giocato, nella configurazione del retroterra ideologico delle prime Br, dalla componente antifascista e resistenziale rispetto a quella marxista-leninista era d’altronde già messo in rilievo dallo stesso Manconi nel citato articolo del 1990, Il nemico assoluto. Antifascismo e contropotere nella fase aurorale del terrorismo di sinistra, pp. 54-69, e spec. p. 64 sg.).

� Per la quale resta utile, specie per quanto attiene alla stampa clandestina, il vecchio studio di D. Tarizzo, Come scriveva la Resistenza. Filologia della stampa clandestina 1943-1945, Firenze, La Nuova Italia, 1969 ; un’ottima raccolta di testi è offerta adesso in Generazione ribelle. Diari e lettere dal 1943 al 1945, a cura di M. Avagliano, intr. di A. Portelli, Torino, Einaudi, 2006.

� Vd. L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia. 1943-1945, Torino, Bollati Boringhieri, 1993, pp. 358-360.

� Due esempi su mille : « I banditi della cosiddetta “Repubblica sociale” vogliono piegare il popolo italiano con la fame, vogliono dare piombo invece del pane. Ma il piano nemico non si realizzerà » (L. Longo, Continuità della Resistenza, Torino, Einaudi, 1977, p. 64) ; « Tutti qui ci sentiamo uniti dal me-desimo ideale da raggiungere che è la libertà e la liberazione dall’oppressione tedesca e dal brigante fascista » (dal diario di don Aurelio Giussani, in Generazione ribelle, cit., p. 94).

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in volta diversa ispirazione politica degli scriventi). � D’altronde, chi legga i già citati §§ 9-10 della risoluzione non farà fatica a individuarvi, riformulate e applicate alle strategie messe in atto dalla « controrivoluzione imperialista » (e proprio in relazione alla studiata contrap-posizione, che vi predomina, tra espressioni quali « somma di comportamenti individuali », « singole unità criminali, senza storia né spessore politico », « singolo militante, individualiz-zato e separato », da un lato, e, dall’altro, formulazioni come « azione collettiva di Partito », « antagonismo proletario organizzato », « Partito come coscienza collettiva, di classe »), le po-sizioni del leninismo tradizionale in fatto di terrorismo, a partire, ovviamente, dalla critica, formulata a più riprese dallo stesso Lenin, al terrorismo di stampo populistico (Narodnaja volja in testa) e dalla delineazione del « terrorismo di massa » come alternativa matura e produttiva agli schemi del terrorismo solipsistico e spontaneistico « di vecchio tipo ». � Non è un caso, d’altronde, che il Pci, soprattutto a partire dal 1977, avvertendo in modo sempre più urgente l’esigenza di prendere le distanze dall’estremismo di sinistra e dal « partito ar-mato », abbia sentito come improcrastinabile l’avvio di una sofferta riflessione sull’identità, sulle radici, sulla tradizione, sul bagaglio ideologico del partito ; corollario inevitabile fu la messa in atto a più riprese, e nelle più diverse sedi, di strategie di ridimensionamento, e poi di definitiva svalutazione, dei contenuti ideologici che facevano da sfondo alla violenza terroristica, a partire proprio dal patrimonio teorico marxista-leninista e dalla tradizione resistenziale. �

Di recente, Massimo Mastrogregori ha proposto di leggere la vicenda del seque-stro Moro, o almeno il suo iter pubblico, in chiave di « recita » : � Moro, da un lato, e i suoi interlocutori, dall’altro, avrebbero, per Mastrogregori, agito specularmente su una sorta di « doppio palcoscenico », � gli uni recitando, all’esterno, la linea della fermezza, pronti, però, a trattare dietro le quinte, fuori della scena mediatica, � l’al-

� Per tutto questo, inevitabile il rimando al fondamentale studio di C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, spec. pp. 169-220 (« guerra patriottica ») ; 221-312 (« guerra civile ») ; 313-412 (« guerra di classe »).

� utile sintesi in L. Bonanate, Alcuni aspetti del problema del terrorismo nella teoria politica, in Acqua-viva, Terrorismo e guerriglia, cit., pp. 76-81 ; vd. anche W. Laqueur, Storia del terrorismo, trad. it. Milano, Rizzoli, 1978 (ed. or. London 1977), pp. 89-93, e M. Fossati, Terrorismo e terroristi, Milano, Bruno Mon-dadori, 2003, p. 40 sg. ; per la Narodnaja volja resta imprescindibile il rimando a F. Venturi, Il populismo russo. iii. Dall’andata nel popolo al terrorismo, Torino, Einaudi, 1972, pp. 284-411.

� Per questo rimando all’importante saggio di E. Taviani, Pci, estremismo di sinistra e terrorismo, in L’Italia repubblicana nella crisi degli anni settanta. iv : Sistema politico e istituzioni, cit., pp. 235-275, e spec. 265 sg. una tappa importante della riflessione elaborata nell’area a sinistra del Pci fu, ovviamente, la pubbli-cazione, sul « manifesto » del 2 aprile ’78, del famoso articolo della Rossanda (« L’album di famiglia » ne era, come è ben noto, il titolo) ; vd. per questo Giovagnoli, Il caso Moro, cit., pp. 98-102

� M. Mastrogregori, Sul corpus delle lettere di Aldo Moro dalla prigionia, « quaderni di storia » 32 (63), 2006, pp. 221-247 (da qui le citazioni nel seguito) ; l’articolo è diventato nel frattempo un capitolo del bel libro che Mastrogregori ha dedicato al confronto tra Moro e Gramsci (Mastrogregori, I due prigionieri, cit., pp. 235-257, con le note critico-bibliografiche di pp. 309-318). Anche se in termini sostan-zialmente diversi, il carattere di « recita » del dramma Moro nelle sue diverse componenti era, peraltro, già a fondamento del citato studio della Wagner-Pacifici (cfr. supra, p. 114 n. 2).

� Di « doppio palcoscenico » e di « recita speculare » Mastrogregori parla a p. 229 (per « recita specula-re » vd. anche p. 232).

� « Alla fermezza in pubblico corrispondeva, nella stessa persona, un atteggiamento riservato molto più pragmatico sul piano delle cose » (Mastrogregori, Sul corpus, cit., p. 229, a proposito dell’atteg-giamento di Taviani) ; « sulla scena mediatica, l’altra parte della tragedia, si svolge un tentativo opposto. Anche lì, evidentemente, come si è detto per l’esibita fermezza di Taviani, sono messi in scena dei per-sonaggi » (Mastrogregori, Sul corpus, cit., p. 231) ; e ancora : « così come Moro accetta per necessità di

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tro accettando, nel chiuso della « prigione del popolo », di entrare nei panni di un « personaggio » pronto ad assecondare, entro certi limiti, i suoi sequestratori pur di trovare spazio per una trattativa che potesse portare alla sua liberazione. � Il pe-gno che Moro accetta di pagare è quello del riconoscimento politico dei brigatisti, che passa attraverso la qualifica di « prigioniero politico » che Moro, nelle lettere, attribuisce reiteratamente a se stesso, oltre che a coloro che avrebbero dovuto es-sere coinvolti nello scambio. La spia del fatto che Moro, nel perorare a favore della trattativa e dello scambio, e nel riconoscere politicamente i suoi sequestratori, stia in realtà recitando una parte, si cela, per Mastrogregori, proprio nei termini in cui Moro attribuisce a se stesso la qualifica di « prigioniero politico ». Per fare solo un esempio : quando, nello scritto a Misasi del 30 aprile (doc. 86, p. 156 Gotor), scrive « Io sono, sia ben chiaro, un prigioniero politico ed accetto senza la minima riserva, sen-za né un pensiero né un gesto di impazienza la mia condizione », � Moro, secondo Mastrogregori, sta cercando di attirare l’attenzione del lettore sulla natura in certo modo fittizia (perché imposta dalle circostanze) dello status che Moro ha deciso di attribuirsi : « quale condizione ? » – scrive Mastrogregori – « Al di fuori di questa ipotesi, che chi parla sia un personaggio, questa osservazione, fatta da un ostaggio condannato a morte, non ha senso [...] Chi è, dunque, che parla ? Il “sia ben chiaro” cerca di farlo capire : leggete con attenzione, io sono un prigioniero politico, conce-do il riconoscimento politico ai rivoluzionari che mi tengono in ostaggio, ma sono un personaggio ». � E ancora : come spiegare il fatto che nei documenti di carattere privato, nei quali, come nota Mastrogregori, « il riconoscimento politico non è più strettamente necessario », � Moro avverta l’esigenza di qualificarsi diversamente, se non tenendo conto, appunto, della natura, per così dire, strumentale della qualifica di « prigioniero politico » ?

A questo proposito, Mastrogregori � cita la prima lettera a Cossiga, che nelle in-tenzioni di Moro avrebbe dovuto rimanere riservata (doc. 3, p. 7 Gotor : « è fuori discussione – mi è stato detto con tutta chiarezza – che sono considerato un prigio-niero politico »), e ancora il testamento del 5 aprile (doc. 10, p. 21 Gotor : « essendo detenuto come prigioniero politico delle Brigate Rosse ») e la lettera alla moglie del 6 aprile (doc. 15, p. 26 Gotor : « un qualche inizio di discorso su scambi di prigionie-ri politici, tra i quali sono anch’io »), dove a colpire è quel « sono », che qui equivale a qualcosa come « mi trovo per accidente », a marcare l’eccezionalità, ma anche – al-

impersonare se stesso che fa il mediatore, anche fuori la partita si gioca su due piani, quello pubblico in cui si dice che assolutamente non è lui, che non si può fare niente, non si può trattare, e un piano retro-stante in cui, probabilmente, qualcosa stava accadendo » (Mastrogregori, Sul corpus, cit., p. 232).

� Vd., p. es., Mastrogregori, Sul corpus, cit., p. 228 s. : « Che spiegazione si può dare, allora, del fatto che i messaggi di Moro somiglino a quelli di Sossi ? Ho l’impressione che lo stile, la struttura, i contenuti di questi messaggi si somiglino, perché la situazione di interazione tra prigioniero e carcerieri produce lo stesso personaggio : un personaggio rancoroso, che si sente abbandonato, che non vuole pagare per tutti, che vuole tornare in famiglia [...] Moro insomma, pur di aprire una trattativa e far giungere qualche messaggio ai suoi familiari, accetta di entrare nei panni del personaggio cedevole e rancoroso di cui si è detto ».

� Segnalo, en passant, che nell’edizione Gotor prima della parola « pensiero » è omesso erroneamente l’articolo indeterminativo, presente invece nella fotocopia del manoscritto.

� Mastrogregori, Sul corpus, cit., p. 230. � Ibidem ; vd. anche Gotor, Lettere, p. 199.� Sul corpus, cit., p. 229 sg.

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meno nei voti – la transitorietà, il carattere parentetico, e della situazione e dello status. Altrettanto significative (e nella medesima direzione, a ulteriore conferma della bontà dell’intuizione di Mastrogregori) mi sembrano però anche la prima versione del testamento (doc. 9, p. 19 Gotor : « Essendo io attualmente prigioniero delle Brigate Rosse », dove a essere importante è non soltanto l’assenza dell’agget-tivo « politico » a qualificare il sostantivo « prigioniero », ma anche l’avverbio « attual-mente », che tradisce la medesima disposizione d’animo della quale ho appena par-lato a proposito della pericope contenuta nella lettera alla moglie del 6 aprile), il testamento del 6 aprile (doc. 14, p. 25 Gotor : « Essendo in questo momento prigio-niero politico delle Brigate Rosse », una pericope per la quale vale, ovviamente, quanto ho appena detto della pericope del tutto analoga contenuta in doc. 9 Go-tor), � la lettera a Waldheim (doc. 42, p. 78 Gotor : « ora io mi trovo nella condizione di prigioniero politico ed intorno a questa mia posizione è aperta una vertenza tra il governo italiano e le BR intorno a qualche scambio di prigionieri delle due parti » : « ora io mi trovo », scrive Moro, a sottolineare, ancora una volta, il carattere acci-dentale e parentetico della situazione). C’è poi un passo della « lettera su Taviani » nel quale ricorre un inciso che a me sembra funzionare in termini del tutto analo-ghi al già citato passo della lettera a Dell’Andro (doc. 60, p. 111 Gotor : « Tu forse già conosci direttamente le vicende dei palestinesi all’epoca più oscura della guerra [...] La situazione era quella che è oggi e conviene saperlo per non stupirsi ») : « Nel caso che ora ci occupa si trattava di immaginare, con opportune garanzie, di porre il tema di una scambio di prigionieri politici (terminologia ostica, ma corrispon-dente alla realtà) con l’effetto di salvare altre vite umane innocenti » (doc. 21, p. 41 Gotor). Come nella lettera a Dell’Andro l’invito a non stupirsi sembra tradire, co-me ho detto, l’intenzione di comunicare al destinatario un fondo di perplessità e di scetticismo quanto all’analogia appena argomentata, così nel passo in esame della « lettera su Taviani » l’inciso « terminologia ostica, ma corrispondente alla realtà », del tutto superfluo, e anzi controproducente nel contesto di un’argomentazione volta a persuadere l’interlocutore quanto all’opportunità di uno « scambio di pri-gionieri », sembra quasi assecondare la reazione di rigetto che Moro immagina pro-vocata, nei suoi lettori, dall’equiparazione della sua situazione di sequestrato nelle mani delle Br a quella di prigioniero politico. E ancora : nella lettera ai Presidenti delle Camere (doc. 68, p. 124 sg. Gotor) Moro scrive : « Sono prigioniero politico delle Brigate Rosse » ; ma appena oltre, a sfumare e a ridimensionare la portata del-l’enunciato appena precedente : « A questo punto ritengo <d’> invocare la umani-taria comprensione delle due Assemblee e dei loro Presidenti per una soluzione che, a mio avviso, non pregiudicherebbe in nessun modo né i diritti dello Stato, né i legittimi interessi dei prigionieri politici, tra i quali io mi trovo » (« io mi trovo »,

� Nella scia di Mastrogregori, Gotor (il quale però, per una svista, attribuisce il passo alla quarta versione del medesimo testamento [doc. 24 Gotor]), a proposito del post scriptum nel quale Moro si dichiara nell’impossibilità di accertare se il nipote Luca recasse o meno all’anagrafe « il secondo nome di Maria », nota a ragione quanto segue : « una pignoleria apparentemente insensata dal momento che quello era il suo unico nipote [...] e non poteva sussistere alcun tipo di equivoco al riguardo della sua identità. un’irragionevolezza che implicitamente serviva a dissociarsi [...] da quella formula « prigionie-ro politico », costretto a usare nelle lettere ufficiali distribuite dai brigatisti » (Gotor, Lettere, p. 322).

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ancora una volta). L’assurdità della proposta formulata in questa lettera (ove, come è noto, Moro chiedeva l’approvazione di una « legge straordinaria ed urgente del Parlamento » atta a conferirgli « lo status di detenuto in condizioni del tutto analo-ghe, anche come modalità di vita, a quelle proprie dei prigionieri politici delle Brigate Rosse » [doc. 68, p. 125 Gotor]), è stata notata, con la consueta lucidità, da Alfredo Carlo Moro, il quale, dopo aver definito la proposta « del tutto stravagante e anomala », argomenta quanto segue : « una simile proposta era chiaramente as-surda, e Moro ne è pienamente cosciente. Potrebbe essere la proposta di chi, nel-l’angoscia, ha perso il lume della ragione : ma la lettera, a parte il contenuto della proposta, non è affatto sconclusionata ed anzi finemente argomentata [...] E allora è una proposta volutamente provocatoria ? Ovvero è anche questo un segnale, che in forma velata viene mandato all’esterno, di una condizione di vita impossibile e della mancanza, nella detenzione clandestina, di quel minimo di elementi di cono-scenza [...] indispensabili per esprimere compiuti giudizi ? ». � Per quanto sia molto difficile prendere una posizione netta quanto alla possibilità che Moro abbia davve-ro giudicato praticabile la proposta avanzata nella lettera, � sembra plausibile anche a me, come già al fratello dello statista, che la missiva celi invece un intento sottil-mente provocatorio, possa essere letta, cioè, come un « segnale, che in forma velata viene mandato all’esterno » (così Alfredo Carlo Moro). Più che in questa direzione, direi però che, se si vuole provare a identificare un messaggio celato nelle pieghe dell’anomala proposta formulata da Moro, esso sia semmai da immaginare ancora una volta relativo all’impegnativa categoria di « prigioniero politico ». Che vuol di-re, infatti, chiedere l’approvazione di una legge che conferisca « lo status di detenu-to in condizioni del tutto analoghe [...] a quelle proprie dei prigionieri politici delle Brigate Rosse » ? Non sarà che Moro abbia inteso suggerire ai suoi lettori l’idea che il suo status era ben diverso, a suo autentico modo di vedere, da quello di « prigio-niero politico » che pure più volte egli stesso si era visto costretto a attribuirsi nelle lettere ? � una conferma può forse venire da quanto Moro scrive appena oltre : « So bene che si possono fare contro questa [legge] tutte le possibili obiezioni. Sta di fatto però che è questo l’unico modo per salvare la vita ed ottenere condizioni di detenzione accettabili, e che io accetto, fino a che non maturino le condizioni di un migliore assetto della materia ». Anche qui : che vuol dire « fino a che non maturino

� Moro, Storia di un delitto annunciato, cit., p. 241 sg.� Ma certo il fatto che la lettera, per quanto non divulgata, sia stata con ogni verosimiglianza reca-

pitata ai destinatari costringe a pensare che praticabile, la proposta, sia apparsa almeno ai brigatisti : vd. Gotor, Lettere, pp. 232 e 355, ove si avanza l’idea che la « collaborazione nella strategia censoria fra i se-questratori e l’esterno della prigione, volta a tutelare l’assoluta riservatezza di questa missiva » autorizzi a pensare alla possibilità che la lettera « facesse riferimento agli effettivi contenuti di una trattativa in corso di cui non conosciamo i termini, ma che doveva stare molto a cuore sia ai brigatisti, sia a quanti erano impegnati nella liberazione del prigioniero ».

� Direi lo stesso di un passo della lettera a Pennacchini, nel quale Moro, dopo aver avanzato la pro-posta di scambio sulla base dell’analogia con « la nota vicenda dei palestinesi », soggiunge : « Del resto è chiaro che ai prigionieri politici dell’altra parte viene assegnato un soggiorno obbligato in Stato Terzo » (doc. 59, p. 108 Gotor). Se è vero che parlare di « prigionieri politici dell’altra parte » significa pur sempre riconoscere lo status di prigioniero politico alla controparte, è anche vero che, scrivendo come scrive, qui Moro sembra appunto suggerire, come altrove, l’idea che il suo status sia cosa ben diversa rispetto alla qualifica che i brigatisti lo costringono a cucirsi addosso.

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le condizioni di un migliore assetto della materia » ? Evidentemente, anche in que-sto caso Moro sta cercando di suggerire ai suoi interlocutori di « indovinare qualche strada per la trattativa o la liberazione » : � « sono un prigioniero politico », scrive, e anzi, « dovete fare approvare urgentemente in Parlamento una legge che me ne conferisca formalmente lo status » ; poi aggiunge : « intanto, però, fate in modo che maturi al più presto un migliore assetto della materia » (cercate, cioè, una soluzione per farmi uscire vivo da qui). quanto infine alla prima lettera a Zaccagnini, an-ch’essa chiamata in causa da Mastrogregori, direi, a necessaria integrazione di quanto notato da Mastrogregori, che a essere illuminante, e anzi decisiva, è, ancora una volta, la discrepanza tra la versione recapitata e quella non recapitata : il passo che nella lettera recapitata suona « Sono un prigioniero politico che la vostra bru-sca decisione di chiudere un qualsiasi discorso relativo ad altre persone parimenti detenute pone in una situazione insostenibile » (doc. 6, p. 13 Gotor), nella versione non recapitata suona invece (e davvero non è differenza di poco conto !) « Sono un ostaggio che la vostra brusca decisione di chiudere un qualsiasi discorso di scambio di prigionieri rende inutile ed ingombrante » (doc. 7, p. 16 s. Gotor). Considerata la profonda differenza di sostanza che passa, anche sul piano giuridico, tra « ostaggio » e « prigioniero politico », è del tutto verosimile immaginare che la discrepanza tra le due versioni sia da riportare, in questo come in altri casi simili, all’intervento censorio dei brigatisti ; per riprendere le categorie messe a punto da Mastrogregori, lo slittamento da « ostaggio » a « prigioniero politico » (uno slittamento frutto, be-ninteso, di quella « interazione tra prigioniero e carcerieri » della quale parla, effica-cemente, lo stesso Mastrogregori) � dimostra dunque in modo lampante come Mo-ro fosse effettivamente pronto a calarsi nel « personaggio » del mediatore, ad accettare le regole della « recita » impostagli dai suoi sequestratori, e a pagar pegno in termini di riconoscimento politico pur di lasciare la strada aperta a ipotesi di trattativa. Direi però che, in casi come questo, dove siano confrontabili, cioè, ver-sioni diverse del medesimo testo, ciò che si rivela ancora più prezioso è la possibi-lità di verificare direttamente quanto Moro pensava davvero della situazione che si trovava a vivere e dei suoi sequestratori : qui, in particolare, a tradire un atteggia-mento molto lontano da quello impostogli dai brigatisti è proprio l’uso della paro-la « ostaggio », con tutta evidenza inadatta a veicolare il riconoscimento politico che stava loro a cuore, e assai più appropriata, invece, a descrivere lo status di una vitti-ma qualunque di una qualunque banda di rapitori comuni. La qualifica di « prigio-niero politico » implica peraltro non soltanto legittimazione politica, ma anche ri-conoscimento giuridico : � attribuirla, oltre che a se stesso, ai suoi sequestratori (e si

� Così Mastrogregori, Sul corpus, cit., p. 228 ; vd. anche p. 231 : « Evidentemente [Moro] voleva prendere tempo e favorire una soluzione coperta, o comunque creativa ». Sul ‘prendere tempo’ vd. anche Gotor, Lettere, p. 203.

� Sul corpus, cit., p. 228. Osservazioni analoghe, adesso, in Gotor, Lettere, p. 360 sg. : « Siamo davanti a una storia torbida e questi testi sono il risultato di un’inevitabile interazione continua, che a tratti ha assunto la forma di una vera e propria contrattazione tra la vittima che li ha prodotti e il carnefice che prima li ha controllati all’interno della prigione e poi li ha gestiti nella loro rappresentazione esterna come se fossero delle armi, tanti micidiali proiettili ».

� Vd. Wagner-Pacifici, The Moro Morality Play, cit., pp. 154-161, e, più in generale, R. Barberini, Il giudice e il terrorista. Il diritto e le sfide del terrorismo globale, Torino, Einaudi, 2008, pp. 59-75.

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ricorderà, d’altronde, che la qualifica di ‘prigioniero politico’ i brigatisti erano soli-ti attribuirsela autonomamente, in caso di arresto) significava, da parte di Moro, sottrarre i brigatisti non solo all’ambito della delinquenza comune, ma anche a quello del terrorismo, e inscriverli invece, a un tempo, alla categoria dei legittimi combattenti, con tutte le conseguenze (anche giuridiche) del caso. Che però Moro credesse davvero alla plausibilità giuridica di un quadro così delineato è ipotesi smentita già soltanto dalla consapevolezza (ben chiara, in Moro, fin dalle prime lettere a Cossiga e a Zaccagnini) � del fatto che ben difficilmente la vicenda del se-questro avrebbe potuto risolversi diversamente che con la propria morte, e questo nonostante Moro sapesse bene, da fine giurista qual era, che il diritto internaziona-le dei conflitti armati, a cominciare dal diritto di Ginevra, esclude, come è ben noto, rappresaglie contro i prigionieri di guerra, e più in generale tutela la salva-guardia dei loro diritti, persino in caso di fuga. �

� Nella lettera a Cossiga del 29 marzo, dopo aver affermato che i brigatisti lo considerano un « prigio-niero politico » sottoposto a processo, Moro scrive : « In tali circostanze ti scrivo in modo molto riserva-to, perché tu e gli amici con alla testa il Presidente del Consiglio [...] possiate riflettere opportunamente sul da farsi, per evitare guai peggiori » (doc. 3, p. 7 Gotor). D’altronde, anche tutto il discorso immedia-tamente successivo sulla ragione di Stato che, nel caso specifico, dovrebbe orientare in direzione della trattativa piuttosto che in quella della fermezza, a me è sempre sembrato mosso dall’esigenza, in Moro, di far riflettere l’interlocutore sul fatto che, a rendere eccezionali le circostanze determinate dal suo prelevamento, non è lo status dei rapitori, ma quello, certamente non comune, del rapito. « La dottrina per la quale il rapimento non deve recare vantaggi, discutibile già nei casi comuni, dove il danno del rapito è estremamente probabile, non regge in circostanze politiche, dove si provocano danni sicuri e incalcolabili non solo alla persona, ma allo Stato » ; « in circostanze politiche », scrive Moro, che non vuol dire, credo, « quando a rapire siano soggetti politicamente e giuridicamente legittimati », o almeno legittimabili, ma piuttosto « quando la vittima del rapimento sia un uomo politico ai vertici dello Stato e delle istituzioni » (« e non si dica che lo Stato perde la faccia, perché non ha saputo o potuto impedire il rapimento di un’alta personalità che significa qualcosa nella vita dello Stato » : così Moro scrive poco oltre), e atto, per questo, a sollecitare un approccio alla questione diverso da quello che si adotterebbe in circostanze « normali ». Cenni inequivoci alle intenzioni dei brigatisti sono del resto contenuti nella versione censurata della prima lettera a Zaccagnini (ancora una volta, il confronto tra le due versioni di questa missiva si rivela di importanza fondamentale) ; i brigatisti, evidentemente, non erano meno consapevoli del problema, e decisero di inoltrare una versione della lettera dalla quale fosse stato eli-minato ogni riferimento esplicito all’esito di morte che attendeva il loro ostaggio. Così, la pericope « Parlo innanzitutto della Democrazia Cristiana alla quale si rivolgono accuse che io devo pagare con la condanna a morte » (doc. 7, p. 16 Gotor) nella versione recapitata della lettera diventa : « Parlo innanzi-tutto della D. C. alla quale si rivolgono accuse che riguardano tutti, ma che io sono chiamato a pagare con conseguenze che non è difficile immaginare » (doc. 6, p. 13 Gotor) ; il passo che nella versione cen-surata suona « Il presente è che io sono sottoposto ad un difficile processo politico nel quale sono già condannato » (doc. 7, p. 16 Gotor), nella versione recapitata corre invece come segue : « Il presente è che io sono sottoposto ad un difficile processo politico del quale sono prevedibili sviluppi e conseguenze » (doc. 6, p. 13 Gotor). E ancora : la pericope « Se così non sarà, l’avrete voluto e, lo dico senza animosità, questo sangue cadrà sul partito e sulle persone » (doc. 7, p. 17 Gotor) nella versione recapitata diventa : « Se così non sarà, l’avrete voluto e, lo dico senza animosità, le inevitabili conseguenze ricadranno sul partito e sulle persone » (doc. 6, p. 14 Gotor). Più avanti, quando la situazione volge ormai al peggio, le cose mutano radicalmente di segno : Moro continuerà a parlare espressamente di « condanna a morte », di « bagno di sangue » e così via, senza però che i brigatisti si preoccupino più di attivare al proposito i meccanismi censori che avevano messo in atto al tempo delle prime missive (si vedano, ad esempio, la lettera a Zaccagnini del 20 aprile [doc. 40 Gotor] e la versione recapitata della lettera alla Democrazia cristiana [doc. 82 Gotor]).

� utile orientamento di base in E. Greco, F. Pavone, Le guerre del xxi secolo. Guerra, guerra asimme-trica, guerriglia e terrorismo, Roma, Edizioni Kappa, 2006, p. 133 sg. ; vd. anche, più ampiamente, Barberi-

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Detto questo, a me sembra che il modello interpretativo elaborato da Mastrogre-gori in relazione alla categoria di « prigioniero politico » possa utilmente estendersi anche ai passi del corpus in cui Moro si serve della parola « guerra » : � il Moro « per-sonaggio » che, in funzione della trattativa, accetta la « recita » impostagli dalle cir-costanze, concedendo legittimazione politica ai suoi carcerieri in virtù dell’attribu-zione a se stesso della qualifica di « prigioniero politico », è insomma lo stesso Moro « personaggio » che concede riconoscimento politico all’operato delle Br accettando di qualificare la situazione configuratasi in Italia in termini di « guerra ». Come è stato recentemente ribadito da Gotor, « Moro scriveva non per rendere accettabile a se stesso e ai propri cari una morte probabile, ma al contrario, per provare ad avere salva la vita, per esercitare cioè un sommo e inalienabile diritto di ogni essere uma-no ». � L’« esigenza strumentale » della quale parla Gotor � è, appunto, l’esigenza di tenere aperta a ogni costo la strada per una trattativa : Moro, almeno fino a quando non si rende conto che la situazione volge inesorabilmente al peggio, considera la trattativa l’unica concreta possibilità di salvezza, ed è in primo luogo per questo, per aver salva la vita, che cerca di persuadere in ogni modo i suoi interlocutori all’ester-no dell’opportunità di trattare, di accedere a uno « scambio di prigionieri politici », a un’« equa trattativa umanitaria », e così via, � spendendosi fino in fondo sul piano delle argomentazioni e del ragionamento. �

ni, Il giudice e il terrorista, cit., pp. 64-75. I termini della questione erano ben chiari anche a Craxi, il quale, in un editoriale comparso sull’« Avanti » del 26 aprile (« Speranza, iniziativa, fermezza » ne era il titolo), ad ammonire i brigatisti nel contesto di un’argomentazione che, pur volta a invocare una soluzione ragionevole della vicenda, partiva però dalla convinzione che i brigatisti avessero ormai deciso di elimi-nare il loro ostaggio, scriveva appunto : « i prigionieri di guerra non si uccidono » (cito da Giovagnoli, Il caso Moro, cit., p. 213).

� Per quanto attiene a « guerriglia » il discorso è forse più sfumato : cfr. infra, p. 131 n. 1.� Gotor, Lettere, p. 190. � Ibidem.� Solo qualche esempio (ma il tema è all’ordine del giorno già nelle prime lettere a Cossiga e a

Zaccagnini) : doc. 38, p. 69 Gotor (a Paolo VI) : « un’equa soluzione del problema dello scambio dei prigionieri politici » ; doc. 39, p. 70 Gotor (a Zaccagnini) : « un’equa trattativa umanitaria, che abbia ad oggetto, con garanzie di sicurezza, scambio di prigionieri politici et consenta mia restituzione alla famiglia » ; doc. 40, p. 71 sg. Gotor (a Zaccagnini) : « una soluzione equilibrata anche in termini di sicurezza, rispettando però quella ispirazione umanitaria, cristiana e democratica, alla quale si sono dimostrati sensibili Stati civilissimi in circostanze analoghe, di fronte al problema della salvaguardia della vita umana innocente » ; doc. 52, p. 91 Gotor (a Craxi) : « una seria ed equilibrata trattativa per lo scambio di prigionieri politici » ; doc. 62, p. 115 Gotor (a Leone) : « un’equa e umanitaria trattativa per scambio di prigionieri politici » ; doc. 63, p. 117 Gotor (a Ingrao) : « un’equa trattativa umanitaria, che consenta di procedere ad uno scambio di prigionieri politici » (identica pericope in doc. 64, p. 118 sg. Gotor [a Fanfani]).

� Come nota, a ragione, Gotor, Lettere, p. 353, « Moro in quella prigione ha fatto politica fino all’ulti-mo, nelle condizioni date, nei limiti di conoscenza di cui era perfettamente consapevole e muovendosi nel quadro dei nuovi rapporti di forza imposti da quella situazione di sopraffazione. Perché non era un pauroso, non temeva quell’inferiorità e ha incominciato a ragionare, comprendere, promuovere, suggerire, indirizzare, cercando di trasformare quella minorità in un punto di forza per uscire da quel gorgo ». Mastrogregori ha opportunamente insistito sugli aspetti di continuità che legano, sotto questo specifico punto di vista, la strategia di Moro prigioniero delle Br e le strategie di trattativa messe a punto in più occasioni da Moro nel corso della sua carriera politica, evocando, in particolare, la con-sultazione dei vescovi organizzata da Moro nella primavera del 1962, a sondare gli umori dell’episco-pato italiano a proposito dell’apertura a sinistra (vd. A. D’Angelo, Moro, i vescovi e l’apertura a sinistra, Roma, Edizioni Studium, 2005), e le trattative del ’78 per il governo : « Ora, quello che [Moro] tenta di

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D’altronde, se le lettere del corpus rappresentano (per dirla, ancora una volta, con Gotor) un « modello esemplare di scrittura perseguitata », � se « il potere di decidere la forma, i modi e i tempi del discorso era saldamente in mano ai brigatisti », � allora il coinvolgimento delle categorie di « prigioniero politico » e di « guerra » potrà essere considerato plausibilmente come il frutto dell’attività condizionatrice e manipola-toria esercitata dai terroristi a carico del discorso di Moro. � Lavorando per sé, Moro

fare da prigioniero, anche in condizioni disperate, tremende, è qualcosa di simile e questo suo aprire una trattativa dà vita, leggendo le lettere, ricostruendo i momenti, a una sequenza ciclica, a tentativi reiterati, allargando progressivamente la schiera delle persone coinvolte [...] Tale sequenza ciclica, in teoria, implica proprio una strategia di lungo periodo : Moro sapeva che in una trattativa non è che ci si incontra e si risolve la cosa ; la trattativa è un discorso che si fa, si ripete, si ripropone ancora, si va avanti » (Mastrogregori, Sul corpus, cit., p. 226 sg.). D’altronde, non soltanto sul piano del metodo, ma anche su quello dei contenuti, il reiterato perorare a favore dello scambio, respingendo ciò che già nella prima lettera a Cossiga Moro definiva « un astratto principio di legalità » (doc. 3, p. 8 Gotor ; cfr. anche, appena oltre nella medesima missiva : « un atteggiamento di ostilità sarebbe un’astrattezza ed un errore », e inoltre doc. 6, p. 14 Gotor : « Si discute qui, non in astratto diritto [...], ma sul piano dell’op-portunità umana e politica » ; doc. 15, p. 27 Gotor : « Che giova tenerli qui [scil. i prigionieri scambiati] se non per un’astratta ragione di giustizia, con seguiti penosi per tutti e senza che la sicurezza dello Stato sia migliorata ? » ; doc. 18, p. 35 Gotor : « E non si spiega così il fatto che Stati di diversa cultura, di fronte al fenomeno crescente del terrorismo, il più delle volte si siano fermati attoniti e poi abbiano deciso non in favore della regola astratta, ma della ragione di vita concreta ? »), è un modo di ragionare che trova le sue radici nel pensiero del giovane Moro (vd. p. es. Giovagnoli, Il caso Moro, cit., p. 304 n. 9, ove si rimanda al fondamentale R. Moro, La formazione giovanile di Aldo Moro, « Storia contemporanea » 14, 1983, pp. 803-968 ; vd. anche G. Moro, Anni Settanta, Torino, Einaudi, 2007, pp. 103-105), e che è dunque del tutto fuori luogo ricondurre integralmente alla pur certo eccezionale situazione che Moro si trova-va a vivere nella « prigione del popolo ». In chiave di continuità è stato letto, a ragione, anche il costante richiamo, nelle lettere del corpus, al « tema della difesa della persona umana e della vita come valore a cui lo Stato deve dare priorità nella gerarchia dei valori dell’ordinamento giuridico », il che vale anche per le idee di Stato e di ragion di Stato, che Moro prigioniero delinea, a partire dalla lettera a Cossiga del 29 marzo, in termini in tutto simili a quelli adoperati dall’uomo politico e dal giurista prima del sequestro : vd. Moro, Storia di un delitto annunciato, cit., pp. 277-280 (la citazione proviene da p. 277), e inoltre R. Basso, La presunta inattendibilità delle lettere, in M. F. Moro (a c. di), La nebulosa del caso Moro, Milano, Selene Edizioni, 2004, p. 80.

� Gotor, Lettere, p. 313 ; altrove, a proposito della penultima lettera a Zaccagnini (doc. 93, pp. 169-172 Gotor), Gotor scrive : « una parola soggettiva e contrattata, autonoma e pattuita, perché quelle e non altre erano le condizioni materiali di produzione di quel discorso, l’ordine di interdizione che lo abitava, la situazione di prigionia da cui scaturiva e l’universo totalitario in cui si iscriveva » (Gotor, Lettere, p. 275). Sul segno dell’interazione tra Moro e i suoi sequestratori trovo acute osservazioni in I. Calvino, Le cose mai uscite da quella prigione, in Id., Saggi, ii, cit., p. 2339 (si tratta, in realtà, di un articolo apparso sul « Corriere della Sera » il 18 maggio 1978) : « Comincia allora la fase più perversa del lavoro dei carcerie-ri : usare Moro contro se stesso, contro il suo partito, contro la linea portata avanti fin là. qui possiamo immaginare che le difficoltà che i sequestratori si sono trovati ad affrontare siano derivate proprio dalla fluidità dell’atteggiamento di Moro, che certo ha adottato subito la via della non-resistenza, e non è escluso sia riuscito a scombinare qualche loro gioco, secondandoli in alcune direzioni per escludere altri sviluppi, forse in qualche caso sopravanzando le loro intenzioni [...] ».

� Gotor, Lettere, p. 353.� Di « intervento manipolatorio dei brigatisti » Gotor (Lettere, p. 321) scrive espressamente a propo-

sito della pericope « senza avere subito alcuna coercizione della persona », che compare nella versione recapitata della lettera a Zaccagnini del 4 aprile (doc. 6, p. 14 Gotor), e che è assente invece in quella non recapitata (doc. 7, p. 17 Gotor) ; vd. anche Gotor, Lettere, p. 324 (a proposito del già citato passo del « Memoriale » in cui Moro delinea la situazione configuratasi a seguito del suo rapimento : vd. Biscione, Memoriale, pp. 99-107 [§ 32]) ; come ho cercato di argomentare sopra, considerazioni analoghe possono essere svolte, d’altronde, anche a proposito di un’ulteriore discrepanza tra le due versioni (« sono un

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finisce per lavorare anche per i brigatisti, porta avanti una strategia che coincide con quella dei suoi sequestratori, e che i suoi sequestratori preferiscono però far passare per sua. � C’è da fare a questo proposito un rilievo, che riguarda il fatto (forse mai adeguatamente messo in luce come invece merita) che le lettere nelle quali Moro parla di « guerra », di « prigionieri politici » e così via sono state regolarmente reca-pitate dai brigatisti, � a eloquente riprova del fatto, già argomentato per altre vie, che questi ultimi dovevano comprensibilmente annettere alle categorie in questio-ne un’importanza del tutto particolare ; d’altronde, non sarà un caso se i brigatisti decisero, al contrario, di non recapitare affatto la già ricordata lettera a don Virgilio Levi, � nella quale Moro, pur sviluppando, ancora una volta, il tema dell’opportu-nità di una trattativa, non si serviva, però, di alcuna delle suddette categorie, pre-ferendo parlare, invece, di « circostanze eccezionali » e di « fenomeno crescente del terrorismo » (un lessico che, evidentemente, dovette essere sentito, e con ragione, assai poco funzionale al riconoscimento che stava a cuore ai brigatisti, e sul quale, nel caso di specie, e diversamente che in altre circostanze, si decise di non interveni-re, optando per una soluzione più drastica, ovvero il mancato recapito). Il fatto che Moro si sia dimostrato pronto a entrare nel « personaggio », a accettare la « recita », e a pagar pegno, in termini di riconoscimento politico e giuridico, pur di lasciare aperta la strada alla trattativa, sarà dunque stato accolto dai brigatisti come la più straordinaria delle vittorie : da un lato, il quadro delineato da Moro legittimava le

prigioniero politico » [doc. 6, p. 13 Gotor] / « sono un ostaggio » [doc. 7, p. 16 sg. Gotor]). Altri probabili interventi manipolatori sono da scorgere in due passi delle due ultime lettere a Zaccagnini : vd. Gotor, Lettere, pp. 173 n. 20 e 176 n. 4.

� Vd. Gotor, Lettere, p. 329 sg., a proposito della lettera alla moglie del 6 aprile, nella quale Moro torna a perorare in favore della trattativa e dello scambio di prigionieri (doc. 15 Gotor). Due giorni pri-ma i brigatisti avevano fatto ritrovare il loro comunicato numero 4, nel quale prendevano apertamente le distanze dalla linea percorsa da Moro fin dalla lettera a Cossiga del 29 marzo : « La manovra messa in atto dalla stampa di regime, attribuendo alla nostra Organizzazione quanto Moro ha scritto di suo pu-gno nella lettera a Cossiga, è stata subdola quanto maldestra. Lo scritto rivela invece, con una chiarezza che sembra non gradita alla cosca democristiana, il suo punto di vista e il nostro [...] questa è la sua posizione che, se non manca di realismo politico nel vedere le contraddizioni di classe oggi in Italia, è utile chiarire che non è la nostra » (cito, ancora una volta, da Castronuovo, Vuoto a perdere, cit., p. 317). Il punto è che della diffusione del comunicato Moro era stato tenuto all’oscuro : « da questa omissione scaturiva la drammatica condizione esistenziale che faceva di lui un ragno tessitore e allo stesso tempo una mosca imbottigliata : nelle medesime ore in cui i brigatisti fingevano di recapitare segretamente questa lettera [scil. la lettera alla moglie del 6 aprile], in realtà avvertendo la polizia, pubblicamente si incaricavano di smentirla, scaricando sulla sua persona l’onore [sic ; si tratta ovviamente di un refuso per ‘onere’] di un’umiliante trattativa che loro – rivoluzionari incorruttibili – negavano di volere intrapren-dere, contribuendo così a distruggerne la moralità pubblica e la statura politica » (Gotor, Lettere, p. 330).

� un’eccezione solo apparente è quella rappresentata dai due passi del « Memoriale » nei quali la parola « guerra » compare in relazione alla situazione italiana (apparente perché, come è ben noto, il « Memoriale » – se si eccettua la « lettera a Taviani » – non venne reso pubblico dai brigatisti nel corso del sequestro, né venne divulgato clandestinamente in un secondo momento, come pure i brigatisti avevano dichiarato di essere intenzionati a fare : vd., p. es., Biscione, Memoriale, pp. 10-13). Altrettanto apparenti sono le eccezioni costituite dalle tre versioni del testamento nel quale Moro si attribuisce la qualifica di « prigioniero politico », dal momento che nel caso del complesso dei sette testamenti, come anche in quello delle lettere ai familiari (escluse, ovviamente, le otto lettere alla moglie recapitate nel corso del sequestro), i brigatisti ritennero di non dover correre il rischio del recapito, facendo peraltro credere al loro prigioniero che i documenti in questione fossero stati sequestrati dalle forze dell’ordine : vd. per questo, da ultimo, Gotor, Lettere, p. 320 sg. � Doc. 18, pp. 34-36 Gotor.

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Br, attribuendo loro un ruolo di controparte armata con la quale lo Stato avrebbe potuto (e anzi addirittura dovuto) trattare come trattano gli stati in guerra tra loro ; dall’altro, l’insistenza di Moro a favore della trattativa contribuiva a quel processo di delegittimazione e di progressivo sgretolamento della sua immagine pubblica che, perseguito certo dai terroristi, non mancò però di essere largamente assecondato (assai spesso in perfetta malafede) anche da molti settori della classe politica, della stampa e della cosiddetta società civile. �

Della dialettica tra piano pubblico e piano riservato (i « due livelli di comunicazione » di cui parla Gotor, Lettere, p. 109 n. 4, e vd. anche pp. 86 n. 4 e 88 n. 2) si è discusso a lungo, anche recentemente, in relazione alle caratteristiche dei documenti e ai termini della trattativa proposta da Moro (vd. p. es. Gotor, Lettere, pp. 197 e 200 sg., a proposito della prima lettera a Cossiga, che nelle intenzioni di Moro avrebbe dovuto rimanere riservata, e che invece i bri-gatisti decisero di divulgare ; vd. anche pp. 30 n. 3, 115 n. 11, e passim). Ai fini del discorso che ho cercato di sviluppare in questa sede, direi che può essere di qualche importanza sottoli-neare, intanto, come la gran parte dei documenti che recano cenni espliciti alle categorie delle quali mi sono occupato (« guerriglia », « guerra », « prigioniero politico » ; ma la cosa vale anche per la nozione di « stato di necessità », della quale mi occuperò più avanti) sono docu-menti che, nelle intenzioni di Moro, avrebbero dovuto rimanere riservati ; segno, forse, del fatto che Moro, pur ben consapevole del fatto che la decisione di divulgare o meno le missive era totalmente nelle mani dei suoi sequestratori, o almeno che tale decisione non dipendeva in alcun modo dalla sua volontà, � possa avere avvertito comunque l’esigenza di non cedere alle richieste di legittimazione avanzate dai terroristi, dipingendo la situazione italiana in termini di guerra aperta, e attribuendo a se stesso la qualifica di prigioniero politico, se non nel contesto di documenti destinati, almeno nelle sue intenzioni, a una fruizione non lata-mente pubblica, o privi del carattere inevitabilmente più formale che distingue, invece, quel-li indirizzati a destinatari di alto ruolo istituzionale (il presidente della Repubblica, i presiden-ti delle Camere, il presidente del Consiglio, e così via). Se vedo bene, le uniche vere eccezioni (se si escludono i passi del « Memoriale », compresa, forse, la « lettera su Taviani ») � sono rappresentate dalla versione recapitata della prima lettera a Zaccagnini (doc. 6 Gotor)

� utile rassegna delle reazioni, politiche e giornalistiche, alla lettera a Cossiga del 29 marzo in Gio-vagnoli, Il caso Moro, cit., pp. 118-121. Sulle strategie di « antiguerriglia psicologica » messe in atto dal governo nei giorni del sequestro si veda, adesso, la puntuale ricostruzione fornita da Gotor, Lettere, pp. 205-214. Della « pazzia » di Moro prigioniero si è troppo dibattuto perché io possa sentirmi in grado di entrare in argomento con considerazioni mie ; mi sia allora consentito di limitarmi a segnalare, tra tante altre, le pagine, di altri, nelle quali più mi riconosco : A. Sofri, L’ombra di Moro, Palermo, Sellerio, 1991, pp. 41-48 ; Sciascia, L’affaire Moro, cit., passim (ma spec. pp. 58-64 ; 70-79 ; 105-108) ; Moro, Storia di un delitto annunciato, cit., pp. 217-244 ; C. Guerzoni, Aldo Moro, Palermo, Sellerio, 2008, pp. 13-20 ; a questo sono poi da aggiungere molte pagine del già citato Clementi, La pazzia di Aldo Moro, che fin dal titolo svela il punto di vista dell’autore (o sarebbe meglio dire svelava, dal momento che la pazzia del titolo, nel passaggio dai tipi di Odradek a quelli, certo più impegnativi e esposti, di Rizzoli, ha perso – sarà certo un caso – le virgolette).

� Sarà bene ricordare che in più di un’occasione (penso, p. es., alla prima lettera a Cossiga, o ai testamenti e alle lettere ai familiari) i brigatisti fecero credere a Moro che la responsabilità della non desiderata divulgazione (nel primo caso), o del mancato recapitato (è il caso dei testamenti), fosse da ascrivere alla volontà del destinatario (è il caso della prima lettera a Cossiga), oppure all’intervento censorio delle forze dell’ordine.

� Il cui carattere pubblico è stato più volte ribadito : vd. p. es. Biscione, Il delitto Moro, cit., p. 74 ; Moro, Storia di un delitto annunciato, cit., p. 219 ; Satta, Odissea nel caso Moro, cit., p. 330 ; in una direzione lievemente diversa, mi sembra, Gotor, Lettere, p. 342.

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e dalla versione recapitata della lettera alla Democrazia cristiana (doc. 82 Gotor), che sono però, tra le lettere del corpus, quelle che (grazie anche alla possibilità di raffronto con le ver-sioni non recapitate dei medesimi documenti) si lasciano catalogare tra le più pervasivamen-te condizionate dall’intervento manipolatorio dei brigatisti. � Colpisce, d’altra parte, il fatto che, nella seconda lettera indirizzata a Cossiga pochi giorni dopo quella del 29 marzo, e mai recapitata, � Moro, pur tornando sui temi affrontati nella prima missiva, li argomenti in mo-do, per così dire, più prudente e sorvegliato, rinunciando a fare ricorso alla categoria di « guerriglia », alla qualifica di « prigioniero politico » e alla nozione di « stato di necessità », tut-te presenti, invece, nella lettera del 29 marzo. Moro, che pure torna a esprimere, anche in questa seconda missiva, la medesima esigenza di riservatezza che aveva già espresso nella prima, sapeva, però, che la lettera del 29 marzo era stata divulgata contro le sue intenzioni, il che dovette determinare un atteggiamento nel complesso più cauto, almeno quanto alla valutazione complessiva della situazione. Il fatto che questo atteggiamento di cautela convi-va, nel corpus, con atteggiamenti di segno diverso (intendo riferirmi, ovviamente, ai docu-menti di natura riservata, come la seconda lettera a Cossiga, nei quali si parla, però, espres-samente di « guerra », si fa ricorso alla qualifica di « prigioniero politico », e così via) sarà allora da spiegare immaginando che Moro abbia consapevolmente optato, a un certo punto, per una linea di segno diverso, decidendo di correre fino in fondo il rischio di accreditarsi come cassa di risonanza delle categorie ideologiche dei brigatisti pur di lasciare aperta la strada alla trattativa ; di entrare, insomma, fino in fondo nel « personaggio » del quale parla Mastro-gregori. quanto alle missive di carattere istituzionale, rimando qui alle opportune osserva-zioni di Gotor � a proposito del ben diverso tono che distingue le lettere a Piccoli, Pennacchi-ni e Dell’Andro, documenti riservati, � da quelle, recapitate insieme a queste ultime, indirizzate alle più alte cariche dello Stato (Leone, Fanfani, Ingrao, Andreotti). Se non vado errato, e a conferma ulteriore del diverso statuto dei documenti riservati rispetto a quelli pubblici, o di carattere istituzionale, l’evocazione della delicata vicenda relativa alla libera-zione dei militanti palestinesi arrestati su suolo italiano ai tempi della guerra del Kippur, alla quale Moro allude per la prima volta nella lettera a Cottafavi del 22-23 aprile (doc. 43 Gotor), è rigorosamente circoscritta da Moro a documenti di carattere riservato (ad esempio, le ap-pena ricordate lettere a Piccoli, Pennacchini e Dell’Andro). L’unica eccezione è rappresenta-ta dalla lettera alla Dc, che però, come ho già detto, è per molti versi una lettera « a statuto speciale » : « Bisogna pur ridire a questi ostinati immobilisti della D. C. che in moltissimi casi scambi sono stati fatti in passato, ovunque, per salvaguardare ostaggi, per salvare vittime innocenti. Ma è tempo di aggiungere che, senza che almeno la D. C. lo ignorasse, anche la libertà (con l’espatrio) in un numero discreto di casi è stata concessa a palestinesi, per parare la grave minaccia di ritorsioni e rappresaglie capaci di arrecare danno rilevante alla comuni-tà » (doc. 82, p. 141 sg. Gotor). Per quanto non ci siano dubbi quanto al peso dell’intervento manipolatorio e condizionante dei brigatisti in relazione alla stesura della versione recapita-ta, nel caso di questo specifico passo (che ricorre, peraltro, tale e quale nella terza versione della missiva e, con qualche variante di nessun peso dal punto di vista del contenuto, anche nella seconda versione) ho la netta sensazione che l’accenno ai palestinesi non dipenda (o almeno non dipenda integralmente) dalla volontà dei sequestratori. A farmelo pensare è la pericope « è tempo di aggiungere », che, presa a valore facciale, non ha gran senso : come ho

� Per la lettera a Zaccagnini basti quanto ho detto sopra (cfr. supra, p. 119 e p. 120 n. 1) ; quanto alle diverse versioni della lettera alla Democrazia cristiana, vd. l’ampia discussione di Gotor, Lettere, pp. 349-359 (e ora, in questo fascicolo di « Storiografia », il saggio di Mastrogregori, pp. 9-68.

� Vd. Gotor, Lettere, p. 30 n. 11. � Gotor, Lettere, p. 307 sg. (e vd. anche p. 115 n. 7).� Vd. doc. 61, p. 113 Gotor (a don Mennini) : « ci sarebbe da consegnare tre lettere importanti di per-

sona e con molta urgenza ».

Michele Napolitano128

appena ricordato, infatti, Moro aveva alluso per la prima volta ai palestinesi già nella lettera a Cottafavi, scritta quattro o cinque giorni prima di quella alla Dc, e poi nelle lettere a Picco-li, Pennacchini e Dell’Andro, che, per quanto recapitate solo il 29 aprile, erano state vergate nello stesso torno di tempo in cui era stata scritta quella a Cottafavi. Solo che le lettere a Cottafavi, Piccoli, Pennacchini e Dell’Andro sono tutti documenti che Moro intendeva cir-coscrivere a una dimensione riservata, mentre nel caso della lettera alla Dc non possono es-serci dubbi sul fatto che Moro fosse in partenza pienamente consapevole delle intenzioni ‘divulgative’ dei brigatisti. « È tempo di aggiungere », allora, sembra quasi voler dire : « è ora che tutti sappiano » (e dunque non solo la Dc, che già lo sa ; e in un documento pubblico, pensato per la più ampia divulgazione) « che in passato, in circostanze analoghe a quelle pre-senti, si arrivò a mettere in libertà un certo numero di pericolosi terroristi pur di evitare guai peggiori », come a voler sottrarre alla dimensione di riservatezza, per non dire di segretezza, alla quale era rimasta circoscritta fino a quel momento (comprese le quattro lettere riservate scritte in precedenza da Moro) una vicenda certo delicata e degna di essere tenuta nascosta alla pubblica opinione. Se è vero che la lettera alla Democrazia cristiana testimonia un so-stanziale « mutamento di prospettiva » nell’atteggiamento di Moro ; se è vero che Moro era ormai pervenuto alla consapevolezza del fatto che « qualcosa di profondo e significativo [...] era già avvenuto nel quadro politico » ; se la conclusione politica da trarre consisteva nella presa d’atto del fatto che « la solidarietà nazionale [...] era ormai simile a un guscio vuoto, senza idee né nerbo né forza né difese che la riparassero da ben più sperimentate e pervasive pratiche del potere » ; se, infine, tutto questo doveva aver reso improcrastinabile, in Moro, la necessità di « convincere gli interlocutori che avevano a che fare non con il leader della soli-darietà nazionale, ma con un cittadino che si trovava in una situazione difficile e chiedeva pertanto una tutela efficace », � il cenno, per una volta pubblico e aperto, alla vicenda dei pa-lestinesi andrà inteso, allora, come una spia significativa del mutamento di traiettoria in questione ; come spia, cioè, della ormai definitivamente acquisita consapevolezza del fatto che non c’era più spazio per atteggiamenti mossi da senso di responsabilità istituzionale, per troppo sottili distinguo tra piano pubblico e piano riservato.

C’è però un terzo elemento che collega il discorso di Mastrogregori a quello che ho cercato di portare avanti io, e riguarda le strategie argomentative utilizzate da Moro prigioniero. Le strategie messe in luce da Mastrogregori in relazione ai passi in cui Moro si attribuisce la qualifica di « prigioniero politico », infatti, mi sembrano corrispondere perfettamente alle strategie attenuative messe in atto da Moro nei passi in cui descrive la situazione italiana in termini di guerra aperta e conclamata. Per quanto teso in prima istanza a cercare una soluzione che gli consentisse di uscire vivo dalla prigione nella quale era stato rinchiuso, Moro, pur accondiscendendo al volere dei suoi sequestratori, trova cioè il modo di opporre resistenza, e non tanto tra le righe, quanto piuttosto nelle pieghe del discorso, e sia pure entro certi limiti (i limiti, sarà bene ribadirlo, impostigli dalla situazione estrema nella quale si trovava) ; � come è stato efficacemente scritto di recente da

� Così Biscione, Il delitto Moro, cit., pp. 98 sg. e 106. � Andrebbe dunque dosata meglio, e forse riformulata, almeno a mio modo di vedere, l’affermazio-

ne di Gotor (Lettere, p. 33 n. 4) a proposito del ricorrere della parola « guerra » nella lettera alla moglie dell’8 aprile (doc. 17 Gotor) : « Moro, che amava misurare le parole, nella lettera a Cossiga non aveva parlato di “guerra”, ma di “guerriglia” e sempre più tendeva ad adottare i riferimenti ideologici dei brigatisti » ; dove a lasciare perplessi è, appunto, l’uso della parola « adottare », che sembra prefigurare uno scenario (del resto ben diverso – giova sottolinearlo – da quello disegnato dallo stesso Gotor) in cui Moro, complice consapevole della strategia messa in atto dai suoi sequestratori, o, forse, inconsapevole

Considerazioni sul corpus delle lettere di Aldo Moro dalla prigionia 129

Gotor, nella scia dello Strauss di Scrittura e persecuzione, « Moro è un pensatore col-to e raffinato che continua a essere interiormente libero, ma vive una condizione di feroce repressione che lo obbliga a coartare la sua espressione, a occultarla adot-tando tecniche di scrittura “coperte”, una “ermeneutica della reticenza” ». � Tra le tecniche di scrittura delle quali parla Gotor inserirei dunque senza indugio anche le strategie attenuative delle quali ho detto a lungo più sopra : � la « scrittura dispe-rata, sospesa tra la vita e la morte » � delle lettere di Moro prigioniero, insomma, non è disperata a tal punto da non saper trovare il modo di relativizzare (annullan-done così, almeno in parte, il potenziale dirompente) la portata delle formulazioni imposte dalla situazione e dal condizionamento esercitato dai sequestratori. � Per

vittima delle tecniche di condizionamento da loro esercitate su di lui, farebbe sue categorie ideologiche a lui del tutto estranee.

� Gotor, Lettere, p. 314. Le pagine più belle che siano mai state scritte a proposito delle strategie di resistenza opposte da Moro ai suoi sequestratori sono però, almeno per quanto mi riguarda, quelle scritte a suo tempo da Sofri, L’ombra di Moro, cit., pp. 41-45 (il capitolo reca il titolo « Da dove viene il rispetto » ; vale la pena di citarne, almeno in parte, il capoverso conclusivo [p. 44 sg.] : « Moro, probabilmente, non scelse un modo di comportarsi : si comportò nel modo che gli era proprio, adattato a una condizione così estrema. Il tempo che passava, le nuove lettere, il contrappunto fra documenti brigatisti e messaggi del recluso mostrarono che quel Moro così poco eroe – non lo era mai stato, del resto, neanche da giovane, neanche in contingenze battagliere – non era affatto pavido né disposto alla sottomissione. Che stava a suo modo, con una mitezza inquietante e strenua, battendosi. Anche per questa via Moro si guadagnò il rispetto delle persone, il diritto a essere ascoltato per quello che diceva e per come lo diceva, il diritto a es-sere immaginato, dietro l’inchiostro simpatico di quelle lettere, come una persona lucida e degna. Il cosid-detto partito della trattativa [...] si irrobustì poi e trasse calore e passione da questa scoperta della difesa di Moro. Dalla scoperta che in quel suo ridurre a un problema “normale”, e sia pur gravissimo, una catastro-fe morale e simbolica c’era una inaspettata, inusuale ma fortissima resistenza alla manomissione altrui »).

� Tra le spie di scrittura ‘coperta’ individuate da Gotor (ibidem) compaiono la « ricerca insistita di una “logografia” formalmente perfetta, in modo da far risaltare meglio un errore improvviso » ; l’« esibizione di una memoria prodigiosa, così da far brillare un imprevisto sfasamento nel ricordo » ; una « consequen-zialità ferrea [...] in cui irrompe senza preavviso un’affermazione all’apparenza slegata dal contesto narrativo » ; l’« alternarsi di registri stilistici e di toni diversi » ; non però le strategie attenuative che abbia-mo visto all’opera nei passi in cui Moro si serve delle categorie di « prigioniero politico » e di « guerra ». Naturalmente, dal momento che la più urgente preoccupazione di Moro prigioniero era, come si è già detto, quella di trovare il modo di uscire vivo dalla prigione nella quale era stato rinchiuso, non si può escludere che l’esigenza di resistere, di non accondiscendere oltre misura alla volontà dei sequestratori, convivesse, in Moro, con un’esigenza di segno diverso, un’esigenza, cioè, di credibilità : come è noto, « tutte le tecniche d’attenuazione danno un’impressione favorevole di ponderatezza, di sincerità, e con-corrono a distogliere dall’idea che l’argomentazione sia un espediente, un artificio » (C. Perelman, L. Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, trad. it. Torino, Einaudi, 1966 [ed. or. Paris 1958], p. 488). In fondo, le strategie attenuative e relativizzanti messe in atto da Moro servivano bene a entrambi gli scopi : da un lato, a non dare l’impressione di « spararle troppo grosse », e a evitare dunque il più possibile il rischio, che Moro sapeva fatale, di non essere ascoltato ; dall’altro, a opporre l’unica forma di resistenza possibile, nelle circostanze date, rispetto alle pressanti esigenze di legittima-zione rappresentate dai brigatisti. [A lavoro ormai ultimato, Massimo Mastrogregori, che ringrazio, mi ha segnalato un articolo dedicato alle strategie attenuative nel discorso politico di Moro che avrei voluto utilizzare più a fondo, e che mi piace comunque citare qui di seguito : P. Desideri, Metalinguaggio e retorica dell’attenuazione nel discorso politico di Aldo Moro, in G. Alfieri - A. Cassola (a c. di), La « lingua d’Italia » : usi pubblici e istituzionali. Atti del xxix congresso della Società di linguistica italiana, Malta, 3-5 novembre 1995, Roma, Bulzoni 1998, pp. 212-225]. � Gotor, Lettere, p. 315.

� Fino a qual punto si spinga, in Moro, l’abilità nell’approfittare delle pieghe del discorso per lasciar trapelare il proprio genuino punto di vista sulla situazione che si trova a vivere è cosa che si valuta al meglio proprio dove il cedimento alle pretese dei terroristi sembra più pieno e incondizionato. un buon

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tornare, a questo punto, al passo della « lettera su Taviani » dal quale ho preso le mosse, lo straordinario valore dell’inciso « almeno cioè guerriglia » non risiede, allora, in ciò che esso affaccia, per via di reticente circonlocuzione, alla consape-volezza dei destinatari (« questa non è più una guerriglia : è, invece, guerra aperta e conclamata »), ma in ciò che, al di là dell’inequivoco significato delle parole, rie-sce miracolosamente a tacere ; nel fatto, cioè, che, per quanto Moro sia indotto a parlare di « guerra », riesca pur sempre a evitare di parlarne in termini diretti. E per provare a essere ancora più chiari : se da un punto di vista meramente retorico l’in-ciso della « lettera a Taviani » è da leggere come una « tipica attenuazione di garbo, che in realtà intensifica » � (e questo, ancora una volta, contro l’esegesi attenuativa sostenuta a suo tempo da Flamigni e ora ripresa da Gotor), ancora più importante è il fatto che Moro, nel momento in cui gli si presentava la possibilità di parlare di « guerra » senza fare ricorso a giri di parole e a espedienti retorici, abbia scelto lucidamente di non farlo. È proprio sulla base di questi frequenti scarti tra ciò che Moro ritiene di dover dire, accondiscendendo alla volontà dei suoi carcerieri, e ciò che invece, di volta in volta, riesce a tacere, in modo sottilmente reticente (è il caso della « lettera su Taviani »), o ridimensiona (è il caso dei tanti interventi atte-nuativi, relativizzanti, che ho cercato di segnalare sopra : « in fondo », « che si voglia o no », « come si vuole » ; e ancora : « attualmente », « in questo momento », « ora »), � che si misura fino in fondo il carattere estremo della situazione nella quale Moro era venuto a trovarsi, � e, a un tempo, il coraggio, mite e paziente, che egli seppe mostrare di fronte al ricatto del quale era vittima.

esempio è offerto dalla lettera alla moglie del 6 aprile (doc. 15, pp. 25-27 Gotor), nella quale, dopo aver fatto presente l’opportunità di « un qualche inizio di discorso su scambi di prigionieri politici » (soggiun-gendo però : « tra i quali sono anch’io », un inciso per il quale rimando a quanto ho detto sopra [p. 116 sg.]), Moro scrive : « Tieni presente che nella maggior parte degli Stati, quando vi sono ostaggi, si cede alla ne-cessità e si adottano criteri umanitari. questi prigionieri scambiati vanno all’estero e quindi si realizza una certa distensione ». Moro è dunque un « ostaggio », mentre coloro i quali andrebbero scambiati e in-viati all’estero per consentire di giungere a un esito positivo della vicenda sono « prigionieri » ; a decidere per quella che Moro definisce « una certa distensione », in nome di « criteri umanitari » (e dunque non in forza di considerazioni di ordine politico !), e lasciando da parte quell’« astratta ragione di giustizia » che farebbe propendere per una soluzione di segno diverso, sono, legittimamente, gli Stati, e così via.

� Così, certo a ragione, Federico Condello in una e-mail datata 8 agosto 2008.� Ho cercato anch’io, per dirla con Gotor, di « setacciare tra le righe la pepita di un’informazione

preziosa », consapevole, certo, del fatto che la pepita « rischia di rivelarsi a ogni giro di frase una scheg-gia di pirite, “l’oro degli sciocchi” » (Gotor, Lettere, p. 333 ; già Sofri, con identica efficacia, e proprio a proposito di un inciso, aveva parlato di « pietruzza brillante in un pavimento di ghiaia » [L’ombra di Moro, cit., p. 46]). Gli inserti dei quali mi sono occupato mi sono parsi, appunto, altrettante pepite ; e spero bene di non aver scambiato per oro scheggie di pirite.

� Carattere estremo, al limite dell’incomprensibilità, del quale Moro era, ovviamente, il primo a essere co-sciente. Varrebbe la pena di raccogliere tutti i passi dell’epistolario e del « Memoriale » nei quali Moro defini-sce la situazione che sta vivendo ; qui mi limiterò a pochi esempi. « Nella mia tragedia » (doc. 35, p. 65 Gotor) ; « la mia allucinante vicenda » (doc. 36, p. 66 Gotor ; cfr. doc. 70, p. 127 Gotor e doc. 78, p. 136 Gotor) ; « questa vicenda, la più grande e gravida di conseguenze che abbia investito da anni la D. C. » (doc. 57, p. 99 Gotor) ; « nella babele di questi giorni, nella quale non so orientarmi, tanto mi è incomprensibile » (doc. 71, p. 128 Go-tor) ; e poi un passo particolarmente impressionante dell’ultima lettera a Maria Luisa Familiari (doc. 77, p. 135 Gotor) : « Che disegno misterioso è mai quello che prima crea il bene e poi lo distrugge. Io m’inchino a que-sto mistero che avrà certo una ragione profonda. Ecco tutto. Accetto con stupore, con amarezza, con ango-scia quello che accade. Ma non posso che accettare » (« accettare » è un verbo-chiave nel corpus : cfr., pur senza pretesa di completezza, doc. 35, p. 65 Gotor ; doc. 36, p. 66 Gotor ; doc. 68, p. 125 Gotor ; doc. 86, p. 156 Gotor).

Considerazioni sul corpus delle lettere di Aldo Moro dalla prigionia 131

4. Qualche osservazione sulla valutazione del fenomeno terroristico da parte di Moro libero

Credo possa essere di qualche utilità osservare, di passata, come da libero, nelle oc-casioni in cui si era trovato a parlare di fenomeni di terrorismo e di eversione, Moro, come è facile immaginare, aveva sempre trovato il modo di pesare con estrema attenzione le parole, e, per quanto immancabilmente attento a sgombrare il campo da possibili equivoci quanto alla necessità di risposte ferme e decise da parte dello Stato, non si era però mai spinto (se vedo bene) a parlare apertamente di « guerra ». � Già a proposito del terrorismo altoatesino, e più in particolare all’indomani dei tra-gici fatti di Malga Sasso del 9 settembre 1966, Moro, intervenendo alla Camera nella seduta del 12 settembre, parla, oltre che, reiteratamente, di « terrorismo », « fenome-no terroristico », « atti di terrorismo » e simili, di « odio cieco », di « spirito di violenza e di sopraffazione », di « folle disegno politico », e ancora di « fanatica intransigenza », di « criminali assetati di sangue », di « minoranza di violenti e di fanatici », di « cieco odio distruttore » ; mai, però, di « guerriglia », e men che meno di « guerra ». � Il qua-dro muta però sensibilmente quando si passi al terrorismo degli anni settanta. Nel discorso tenuto alla Camera il 28 aprile 1976, commentando la tragica spirale di atti di violenza che si erano susseguiti quasi giornalmente per tutto il mese di aprile, � Moro, che pure parla, di volta in volta, e piuttosto genericamente, di « forme di violenza particolarmente gravi », di « criminosi gesti di teppismo », di « attentati », di « eversione », di « disordine » e così via, arriva però a parlare di « folle disegno eversi-vo » e, quanto alle modalità degli attentati, di « vere e proprie strategie di guerriglia

� Che io sappia, l’unico caso in cui Moro, nel valutare il fenomeno terroristico, si spinge a parlare di « guerra » al di fuori degli scritti dalla prigionia (lettere e « Memoriale ») è quello rappresentato da un passo di un importante articolo pubblicato sulla « Stampa » del 28 dicembre 1976 con il titolo « Pausa, riflessione, ma non inerzia » (lo si veda riprodotto in A. Moro, L’intelligenza e gli avvenimenti. Testi 1959-1978, a cura della Fondazione Aldo Moro, Milano, Garzanti, 1979, pp. 347-349 ; vd. anche A. Di Mario, L’attualità di Aldo Moro negli scritti giornalistici (1937-1978). Pref. di N. Mancino, Napoli, Tullio Pironti Editore, 2007, pp. 115-118) : « Io sono del tutto consapevole e partecipe della gravità di questo dramma nazionale che continua a svolgersi con misteriose scadenze e mantiene intatta la sua allarmante carat-teristica di difficile prevedibilità e dominabilità. Sulla natura del fenomeno vi sono da dire molte cose. Mi limiterò a qualche rilievo. Si può riconoscere, in taluni casi, senza peraltro alcuna indulgenza, una tensione, erompente e devastante, verso una società più giusta. In altri si ha di mira invece una società più costrittiva e chiusa. Non tutti i fatti, pare, hanno lo stesso segno. Ma anche ritenendo che esistano appunto segni diversi, che non si tratti di una strategia concepita nella stessa mente e guidata dalla stessa mano, si può almeno dire con coscienza tranquilla che in ogni caso è ugualmente inammissibile la violazione dell’ordine democratico, la contestazione del valore del consenso, l’atto di guerra in una società in libera evoluzione » (Moro, L’intelligenza e gli avvenimenti, cit., p. 347 sg.). « Atto di guerra », scrive Moro, in modo non dissimile da come scriverà, più avanti, dalla « prigione del popolo », nelle lettere e nel « Memoriale » (« atti di guerriglia » ; « fatti [...] di guerriglia » ; « azione di guerra »). La prospet-tiva, caratterizzata dal rifiuto di attribuire a una strategia politicamente consapevole, e di più ampio e omogeneo respiro, atti di violenza giudicati, invece, alla stregua di fatti disarticolati e episodici (e questo pur nel quadro di una valutazione generale del fenomeno che appare tutt’altro che irresponsabilmente riduttiva), è in fondo la stessa nel Moro libero e nel Moro prigioniero delle Br.

� Vd. A. Moro, Discorsi parlamentari, ii : 1963-1977, a cura di E. Lamaro, Roma, Camera dei deputati, 1996, pp. 1206-1210.

� Se ne veda il triste elenco in F. Gennaccari, L’Italia del terrorismo. 1969-2008, Roma, Armando Curcio Editore, 2008, p. 80 sg.

Michele Napolitano132

urbana », pur aggiungendo subito dopo : « Gli episodi di violenza e comunque di intolleranza non hanno nulla a che vedere con l’esercizio, finora così responsabile, delle libertà sindacali e neppure con l’esercizio di altri diritti costituzionali. E quindi non sono possibili né coperture politiche, né indulgenze ». � Ancora più significativo un passo dell’intervento che Moro tenne alla Camera due giorni dopo, nel corso della seduta del 30 aprile 1976, in sede di replica, a conclusione del dibattito sulle comunicazioni rese il 28, e che aprì di fatto la crisi di governo : � « Sta prendendo cor-po un torbido disegno eversivo fondato sul terrore. Il Governo non lascerà nulla di intentato, usando con ferma determinazione tutti i mezzi appropriati per chiudere ogni possibile sbocco a tali sciagurate e criminose imprese [...] Non crediamo affatto che sia necessaria – come è stato detto – una diversa filosofia del potere per scioglie-re l’oscuro groviglio che alimenta la tensione e per stroncare i disegni eversivi. La nostra coscienza democratica è limpida e salda e da essa parte un nuovo e pressante appello ai cittadini perché non cedano psicologicamente alla strategia del terrore e dell’eversione ». � Se è vero, cioè, che Moro da libero non si era mai spinto a legge-

� Moro, Discorsi parlamentari, ii, cit., p. 1598 sg.� Vd. P. Calandra, I governi della Repubblica. Vicende, formule, regole, Bologna, il Mulino, 1996, p.

317 sg.� Moro, Discorsi parlamentari, ii, cit., p. 1609. Proprio sulla base di passi come questi appena citati, di-

rei, en passant, che, almeno nel caso di Moro, la prudenza nella scelta delle parole davvero non ammette di essere letta come spia di una sottovalutazione, o addirittura di un’incomprensione di fondo, del feno-meno terroristico. Ripensando a un vecchio saggio di Pasquino (G. Pasquino, I soliti ignoti : gli opposti terrorismi nelle analisi dei Presidenti del Consiglio (1969-1985), in Catanzaro (a c. di), La politica della violenza, cit., pp. 93-115), volto a sostenere (e sulla base di argomentazioni nel complesso perfettamente condivi-sibili) « l’assenza di un’immagine chiara del fenomeno terroristico, delle sue componenti, del suo grado effettivo di pericolosità per le istituzioni democratiche » nell’atteggiamento dei governi e dei Presidenti del Consiglio succedutisi negli anni a partire dal 1969 (mi servo della parafrasi di R. Catanzaro, Il qua-dro teorico, in Catanzaro (a c. di), Ideologie, movimenti, terrorismi, cit., p. 22), mi sembra che i brani qui citati (ma sarebbero da chiamare in causa anche alcuni degli articoli giornalistici scritti da Moro, principal-mente per il « Giorno », ma anche per altre testate, a partire dalla fine del 1976 : vd. Di Mario, L’attualità di Aldo Moro negli scritti giornalistici, cit., p. 112 sg., e spec. pp. 115-118, 125-130) servano a dimostrare l’esatto contrario, e cioè il fatto che, almeno a partire dalla primavera del 1976, Moro fosse pervenuto a un grado di consapevolezza piena e definitiva quanto alla gravità del fenomeno terroristico ; in questo, come in molto altro, direi anzi che Moro si segnala per una lucidità di sguardo del tutto eccezionale rispetto al circostante contesto politico. Pasquino, che è di avviso opposto, fonda però le sue valutazioni su passi dei due distinti discorsi programmatici tenuti da Moro al Senato nella seduta del 2 dicembre 1974 e alla Ca-mera nella seduta del 19 febbraio 1976 (i passi citati da Pasquino, I soliti ignoti, cit., p. 102 sg., sono ora in Moro, Discorsi parlamentari, ii, cit., rispettivamente pp. 1489 sg. e 1565), tralasciando però singolarmente proprio gli interventi del 28 e del 30 aprile 1976, che, pur non essendolo tecnicamente e in senso stretto, del discorso programmatico posseggono tutti i tratti essenziali (si veda, per questo, la nota introdutti-va della Lamaro in Moro, Discorsi parlamentari, ii, cit., p. 1593), e che, nella valutazione del fenomeno terroristico da parte di Moro, segnano invece, a mio parere, un decisivo cambio di rotta. « Nei discorsi programmatici dei presidenti del Consiglio non appare mai l’espressione terrorismo [...] Nel migliore dei casi si preferisce l’espressione eversione. Se il linguaggio utilizzato è un’indicazione della consapevolezza del fenomeno, allora questa scelta semantica non potrebbe essere più rivelatrice non della colpevole sot-tovalutazione, ma della reale, drammatica incomprensione di quanto si andava agitando furiosamente ai confini fra società e politica nei cruciali anni dell’insorgenza terroristica » (Pasquino, I soliti ignoti, cit., p. 103 sg.). Se questo è vero, è altrettanto vero, credo, che espressioni quali « un torbido disegno eversivo fondato sul terrore » e « strategia del terrore e dell’eversione » (così, come abbiamo visto, nel discorso di replica del 30 aprile 1976) impongono cautela, e suggeriscono, nello specifico caso di Moro, l’opportunità di un approccio meno drasticamente svalutativo rispetto a quello proposto da Pasquino.

Considerazioni sul corpus delle lettere di Aldo Moro dalla prigionia 133

re in chiave di guerra aperta � (come fa invece, ripetutamente, dalla « prigione del popolo ») l’attacco portato dai terroristi allo Stato e ai suoi rappresentanti, è anche vero che gli interventi del 28 e 30 aprile 1976 (e soprattutto la replica) si spingono ben oltre a ciò che Moro scrisse più tardi da prigioniero. La spia, mi sembra, è nel-l’uso reiterato delle parole « disegno » e « strategia » (« folle disegno eversivo » ; « torbi-do disegno eversivo fondato sul terrore » ; « strategie di guerriglia urbana » ; « strategia del terrore e dell’eversione ») : ciò che Moro prigioniero negherà sempre, come si è visto, ai suoi sequestratori (il riconoscimento di un disegno politico, di una strategia eversiva politicamente consapevole dietro la sempre più spaventosa scia di sangue lasciata dai singoli episodi di violenza armata) era invece affermato a chiare lettere da Moro libero e nel pieno delle sue prerogative di presidente del Consiglio, nel con-testo, politicamente certo assai critico, di un discorso volto a verificare la sussistenza della maggioranza che aveva sostenuto fino allora il governo da Moro presieduto (un contesto, dunque, che Moro avrà sentito particolarmente appropriato a una disamina il più possibile matura e consapevole del fenomeno terroristico e della sua sempre più preoccupante escalation).

5. ‘Necessità’ e ‘stato di necessità’ nelle lettere del corpus : un tentativo di elaborazione di un fondamento giuridico

funzionale alla proposta di trattativa

A guisa di pur articolata postilla, vorrei aggiungere alcune considerazioni relative alla nozione di « stato di necessità », della quale Moro si serve ripetutamente nel con-testo dei passi in cui argomenta a favore della trattativa e dello scambio di prigionie-

� In chiave di guerriglia, però, sì, a ribadire, ancora una volta, la presenza, in Moro, di una consa-pevolezza matura della gravità del fenomeno, della sua natura politica, ma anche della sua configu-razione sempre più propriamente militare, già almeno a partire dal ’76. Estremamente interessante, per la sua natura di testimonianza diretta, quanto ha registrato di recente Bianconi a proposito delle valutazioni espresse da Giovanni Moro, il figlio dello statista, a proposito di ciò che il padre aveva scritto nella lettera a Cossiga del 29 marzo : « Giovanni riconosce nello scritto del padre la posizione sul “partito armato” di cui aveva in più occasioni, anche di recente, discusso con lui [...] Papà parla di “guerriglia” perché considera il terrorismo un fenomeno di carattere politico. Non a caso nei col-loqui con Giovanni definiva le organizzazioni come le Br il “partito armato”, cioè una forza attiva e “incidente” nella vita del Paese, che non andava sottovalutata. I terroristi erano e sono per Moro un problema politico [...] In quei delitti [scil. i delitti Casalegno e Palma] il presidente della Dc ha visto un salto di qualità, perché trasmettevano dei messaggi politici da valutare e interpretare » (Bianconi, Eseguendo la sentenza, cit., p. 148). Vd. anche Giovagnoli, Il caso Moro, cit., pp. 113 e 158, e si ricordi, d’altronde, quanto Moro aveva scritto, quanto alla natura politica del fenomeno terroristico, nell’arti-colo pubblicato sul « Giorno » del 27 maggio 1977 con il titolo « Per vincere la violenza – Azione politica che non divida » (cito da Di Mario, L’attualità di Aldo Moro, cit., p. 129) : « una risposta amministrativa, per quanto indispensabile e urgente, non è dunque tutto quello che il nostro Paese è chiamato a fare. una strategia contro la violenza, che non potrà mai prescindere da un discorso politico, è senza dub-bio più articolata e complessa di quanto non appaia in termini di facile ottimismo e di fretta superfi-ciale ». un passo, sia detto per inciso, che già da solo avrebbe dovuto mettere in guardia i sostenitori della « pazzia » del Moro che, neanche un anno dopo, dal fondo della « prigione del popolo », non si stanca di ripetere le stesse cose che diceva e scriveva da libero, di affermare, cioè, la natura politica del fenomeno (e non solo nelle lettere, ma anche in un passo del « Memoriale » : vd. Biscione, Memoriale, p. 100 [§ 32]), e, per inevitabile conseguenza, la necessità di tenere ben distinti, in sede di trattativa, piano umanitario e piano politico.

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ri. Sarà bene prendere le mosse, ancora una volta, da un elenco dei passi in ordine cronologico, secondo l’ordinamento proposto da Gotor nella sua edizione :

Al ministro dell’Interno Francesco Cossiga (doc. 3, p. 8 Gotor) : Il sacrificio degli innocenti in nome di un astratto principio di legalità, mentre un indiscutibile stato di necessità dovrebbe indurre a salvarli, è inammissibile.Al segretario della Dc Benigno Zaccagnini (doc. 6, p. 14 Gotor) : Si discute qui, non in astratto di-ritto (benché vi siano le norme sullo stato di necessità), ma sul piano dell’opportunità umana e politica, se non sia possibile dare con realismo alla mia questione l’unica soluzione positiva possibile, prospettando la liberazione di prigionieri di ambo le parti, attenuando la tensione nel contesto proprio di un fenomeno politico.Alla moglie Eleonora (doc. 15, p. 26 sg. Gotor) : Tieni presente che nella maggior parte degli Stati, quando vi sono ostaggi, si cede alla necessità e si adottano criteri umanitari. questi prigionieri scambiati vanno all’estero e quindi si realizza una certa distensione. Che giova tenerli qui se non per un’astratta ragione di giustizia, con seguiti penosi per tutti e senza che la sicurezza dello Stato sia migliorata ?Sul senatore Paolo Emilio Taviani (doc. 21, p. 42 Gotor) : Nei miei rilievi non c’è niente di perso-nale, ma sono sospinto dallo stato di necessità.Al presidente del gruppo parlamentare della Dc Flaminio Piccoli (doc. 58, p. 104 Gotor) : La prima osservazione da fare è che si tratta di una cosa che si ripete come si ripetono nella vita gli stati di necessità [...] Dunque, non una, ma più volte, furono liberati con meccanismi vari palesti-nesi detenuti ed anche condannati, allo scopo di stornare gravi rappresaglie che sarebbero sta-te poste in essere, se fosse continuata la detenzione. La minaccia era seria, credibile, anche se meno pienamente apprestata che nel caso nostro. Lo stato di necessità è in entrambi evidente.Al presidente del Comitato parlamentare per il controllo sui servizi di informazione e di sicurezza e sul segreto di Stato Erminio Pennacchini (doc. 59, p. 107 sg. Gotor) : Si tratta della nota vicenda dei palestinesi che ci angustiò per tanti anni e che tu, con il mio modesto concorso, riuscisti a di-sinnescare. L’analogia, anzi l’eguaglianza con il mio doloroso caso, sono evidenti. Semmai in quelle circostanze la minaccia alla vita dei terzi estranei era meno evidente, meno avanzata. Ma il fatto c’era e ad esso si è provveduto secondo le norme dello Stato di necessità, gestite con somma delicatezza. Di fronte alla situazione di oggi non si può dire perciò che essa sia del tutto nuova. Ha precedenti numerosi in Italia e fuori d’Italia ed ha, del resto, evidenti ragioni che sono insite nell’ordinamento giuridico e nella coscienza sociale del Paese.Al sottosegretario del ministero di Grazia e giustizia Renato Dell’Andro (doc. 60, p. 111 Gotor) : Tu forse già conosci direttamente le vicende dei palestinesi all’epoca più oscura della guerra. Lo Stato italiano, in vari modi, dispose la liberazione di detenuti, allo scopo di stornare grave danno minacciato alle persone, ove essa fosse perdurata. Nello spirito si fece ricorso allo Sta-to di necessità. Il caso è analogo al nostro, anche se la minaccia, in quel caso, pur serissima, era meno definita. Non si può parlare di novità né di anomalia. La situazione era quella che è oggi e conviene saperlo per non stupirsi.Alla Democrazia cristiana (doc. 82, p. 142 Gotor) : Ma è tempo di aggiungere che, senza che almeno la D.C. lo ignorasse, anche la libertà (con l’espatrio) in un numero discreto di casi è stata concessa a palestinesi, per parare la grave minaccia di ritorsioni e rappresaglie capaci di arrecare danno rilevante alla comunità. E, si noti, si trattava di minacce serie, temibili, ma non aventi il grado di immanenza di quelle che oggi ci occupano. Ma allora il principio era stato accettato. La necessità di fare uno strappo alla regola della legalità formale (in cambio c’era l’esilio) era stata riconosciuta. Ci sono testimonianze ineccepibili, che permetterebbero di dire una parola chiarificatrice. E sia ben chiaro che, provvedendo in tal modo, come la

Considerazioni sul corpus delle lettere di Aldo Moro dalla prigionia 135

necessità comportava, non s’intendeva certo mancare di riguardo ai paesi amici interessati, i quali infatti continuarono sempre nei loro amichevoli e fiduciosi rapporti. �Scritto per il presidente della Commissione giustizia della Camera dei deputati Riccardo Misasi (doc. 86, p. 158 Gotor) : Nella sostanza, nel merito delle cose cioè sono le circostanze che debbono indurre a valutare che cosa sia conveniente fare nel rispetto della vita, nel rapporto tra de-tenzione ed uccisione, nella tutela dei giusti interessi dello Stato, nel riconoscimento delle ragioni umanitarie. Ecco perché queste cose sono e non possono essere disciplinate � nel segno dello Stato di necessità.

Direi, intanto, che, se si eccettua il passo della versione recapitata della « lettera su Taviani », � il reiterato coinvolgimento della nozione di « stato di necessità » � serve con tutta chiarezza a fornire un quadro giuridicamente fondato alle argomentazio-ni incentrate sull’opportunità della trattativa e dello scambio di prigionieri. � Se ne

� Il passo corre praticamente identico nella terza versione della lettera alla Dc (doc. 85, p. 152 sg. Gotor), se si eccettua la pericope « Ci sono testimonianze ineccepibili, che permetterebbero di dire una parola chiarificatrice », che nella terza versione suona come segue : « Ci sono testimoni ineccepibili i quali potrebbero avvertire il dovere di dire una parola chiarificatrice » (ibidem). Nella seconda versione della medesima lettera, invece, la pericope « La necessità di fare uno strappo alla regola della legalità formale (in cambio c’era l’esilio) era stata riconosciuta » non compare. Sui rapporti tra le tre versioni superstiti della lettera alla Dc vd. Gotor, Lettere, pp. 349-363 e ora Mastrogregori, La lettera al Partito della Democrazia cristiana, in questo numero di « Storiografia », alle pp. 9-68..

� Anche in questo caso (cfr. supra, p. 109 n. 3), ho la netta impressione che Moro, nel copiare, sia incorso in un errore di trascrizione ; la pericope « ecco perché queste cose sono e non possono essere disciplinate nel segno dello Stato di necessità » acquista senso, infatti, solo se si integri un « non » prima della parola « disciplinate » (« ecco perché queste cose sono e non possono <non> essere disciplinate nel segno dello Stato di necessità »).

� Flamigni, Gli scritti di Aldo Moro prigioniero delle Br, cit., p. 89 n. 9 (e vd. anche il più cursorio cenno contenuto, già prima, in Id., La tela del ragno, cit., p. 181), sosteneva che con la pericope « nei miei rilievi non c’è niente di personale, ma sono sospinto dallo stato di necessità » Moro volesse alludere alla « dif-ficile condizione » nella quale si trovava, negando quindi alla nozione di « stato di necessità », almeno in questo caso, qualsivoglia coloritura tecnico-giuridica ; anche Gotor, Lettere, p. 44 n. 6, glossa ora lo « stato di necessità » qui evocato da Moro con « difficile situazione ». A ulteriore conferma dello ‘statuto speciale’ del passo, e a sostegno di un utilizzo generico e non tecnico della formula, Alfredo Carlo Moro ha notato, con il consueto acume, come, in questo specifico caso, lo « stato di necessità » sia chiamato in causa da Moro non in relazione alla questione della trattativa e dello scambio, come dappertutto altrove nel corpus, bensì a giustificazione dell’attacco sferrato contro il collega di partito (Moro, Storia di un delitto annunciato, cit., p. 235). Ha probabilmente ragione Gotor, allora, a vedere nella pericope in questione (assente, peraltro, nella versione non recapitata del medesimo documento : cfr. doc. 22, p. 47 Gotor) « una strizzatina d’occhio che il prigioniero riusciva a far arrivare al suo bersaglio di turno aggi-rando l’interdetto brigatista e avvertendolo di come stavano davvero le cose » (Gotor, Lettere, p. 342) ; vd. però anche, già prima, Mastrogregori, Sul corpus, cit., p. 234 (« In un caso, quello del messaggio su Taviani, Moro riesce a far passare un avvertimento esplicito su come stanno le cose [...] : tale è l’utilità del ritratto di Taviani che vien fuori dal negoziato col prigioniero, che i brigatisti fanno passare anche l’avviso al lettore che si tratta di una stesura a quattro mani, che nasce da un’imposizione »).

� Per puro amore di precisione (e per quanto la cosa non influisca in alcun modo sull’esegesi com-plessiva dei passi in questione), vale la pena di notare che, in due casi, Moro si limita a parlare di « neces-sità » : nella lettera alla moglie del 6 aprile (doc. 15, p. 26 Gotor : « Tieni presente che nella maggior parte degli Stati, quando vi sono ostaggi, si cede alla necessità e si adottano criteri umanitari ») e in quella alla Democrazia cristiana (doc. 82, p. 142 Gotor : « La necessità di fare uno strappo alla regola della legalità formale [...] era stata riconosciuta [...] E sia ben chiaro che, provvedendo in tal modo, come la necessità comportava », con quel che segue).

� Il che è poi particolarmente evidente nei casi in cui Moro parla di « norme sullo stato di necessità » (doc. 6, p. 14 Gotor), o di « norme dello stato di necessità » (doc. 59, p. 108 Gotor), o ancora quando si

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era accorto Alfredo Carlo Moro, � il quale, pur riconoscendo diritto di cittadinanza e plausibilità all’opinione di chi ritenne che lo scambio proposto dal fratello prigio-niero fosse da considerare impraticabile, come fu nei fatti considerato, rifiutava però con decisione l’idea (avanzata, come è noto, da molti, nei giorni del sequestro, e frequentemente ribadita più avanti) che tale impraticabilità potesse avere a fon-damento la pretesa ignobiltà morale della proposta in quanto tale. � Per il fratello di Moro, ciò che avrebbe potuto e dovuto fondare il rifiuto della trattativa, e motivare, dunque, l’idea dell’impraticabilità dello scambio, era, semmai, l’incertezza su quan-to i brigatisti avrebbero deciso di fare nel caso in cui si fosse deciso di dare corso con-creto alla proposta avanzata da Moro, e, dunque, la consapevolezza del fatto che la trattativa e lo scambio avrebbero potuto rivelarsi, a cose fatte, ben poco funzionali allo scopo, che era quello di risolvere positivamente la situazione determinatasi con il sequestro. � La tesi proposta da Moro attraverso il ricorso alla nozione di « stato di necessità », e argomentata, a dispetto della situazione, da fine giurista, � non che

serve della maiuscola per l’iniziale della parola « stato » (così in doc. 59, p. 108 Gotor ; doc. 60, p. 111 Go-tor ; doc. 86, p. 158 Gotor). Segnalo (anche in questo caso per puro amore di completezza) che di « stato di necessità », e di « legge di necessità », Moro parla anche in due diversi passi del « Memoriale », che però con la questione della trattativa e dello scambio non hanno nulla a che fare : cfr. Biscione, Memoriale, pp. 69 e 135.

� Moro, Storia di un delitto annunciato, cit., pp. 275-277.� Moro, Storia di un delitto annunciato, cit., p. 273. � Moro, Storia di un delitto annunciato, cit., p. 275.� E dunque ponendo, ad esempio, ripetutamente il problema della proporzionalità tra i beni giuridici

in gioco, criterio che il diritto penale italiano, a partire dall’art. 54 del codice penale Rocco (che sotto questo specifico aspetto aggiornava l’art. 49 n. 3 del codice penale Zanardelli), e lo stesso diritto penale internazionale, pur nel riconoscimento delle prerogative dei diversi ordinamenti penali nazionali, rico-noscono tra le condizioni di applicabilità dell’esimente rappresentata dallo « stato di necessità », e cioè tra i requisiti fondamentali perché possa essere considerata operativa quella causa di esclusione della responsabilità che lo « stato di necessità » rappresenta : si veda la voce « Necessità » – e in particolare le sezioni e) (Diritto penale), di C. F. Grosso, e f ) (Diritto internazionale), di P. Lamberti Zanardi –, in Enciclopedia del diritto, xxvii : Morale - Negozio, Varese, Giuffrè Editore, 1977, rispettivamente pp. 882-898 e 898-906. Vd. anche G. Agamben, Stato di eccezione, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, ove trovo, tra molto altro, preziose considerazioni sul rapporto tra stato di eccezione e stato di necessità (pp. 34-43). quanto alle lettere del corpus, oltre ai passi già ricordati in precedenza (cfr. supra, p. 121 n. 4), pertinenti per il costante ricorrervi dei qualificativi « equa » e « equilibrata » in nesso ora con il sostantivo « soluzio-ne », ora con il sostantivo « trattativa », si vedano, ad esempio, doc. 18, p. 35 Gotor (« Ma il fatto è che vi sono circostanze eccezionali, nelle quali il raggiungimento degli obiettivi normali risulta altamente costoso e va in particolare a detrimento di altri beni e valori, che, di per sé, meritano di essere tutelati. Sapendo con certezza che, per giungere ad un certo risultato, devono essere compiuti sacrifici gravi o gravissimi e travolte cose che hanno un pregio in sé, sapendo che, per raggiungere un fine di giustizia, vite innocenti devono essere sacrificate, io credo che sia doveroso fermarsi un momento a valutare e comparare ») ; doc. 57, p. 99 sg. Gotor (« Vorrei ora fermarmi un momento sulla comparazione dei beni di cui si tratta : uno recuperabile, sia pure a caro prezzo, la libertà ; l’altro, in nessun modo recuperabile, la vita » ; il passo è ricordato da Moro, Storia di un delitto annunciato, cit., p. 276) ; doc. 88, p. 163 Gotor (« Poiché si tratta di problemi di coscienza [...], desidero dirti, per così dire, solennemente che la pro-posta di scambio od altro simile, specie se attuata immediatamente, sarebbe stata la meno onerosa per la D. C. Aggiungo che tutte le altre saranno forzatamente più onerose e sarebbero perciò da evitare, se prevalesse, come dovrebbe prevalere, il buon senso »). D’altronde, anche il ragionare sul suo caso, e sulla possibili soluzioni, in termini analogici (e dunque, in fondo, in termini di precedenti), accostando la situazione nella quale si è venuto a trovare a situazioni verificatesi in precedenza, e analogamente drammatiche (Moro evoca, di volta in volta, il caso Lorenz, gli « scambi tra Breznev e Pinochet », il

Considerazioni sul corpus delle lettere di Aldo Moro dalla prigionia 137

essere « moralmente e politicamente ripugnante », appare invece, per il fratello dello statista, tutt’altro che « priva di valide motivazioni giuridiche, etiche e politiche » ; per questo – prosegue Moro – « l’averla recepita come tesi che poteva essere svolta solo o da un folle o da un plagiato o da un debole piagnucolosamente preoccupato della sua integrità fisica, o da uno terrorizzato di perdere con la vita il potere, da un uomo comunque totalmente privo del senso dello Stato, costituisce il più ignobile dei tradimenti della verità ». �

Da parte mia, aggiungerei che mi sembra particolarmente significativo il fatto che le strategie argomentative di tipo attenuativo e relativizzante che ho cercato di mostrare all’opera nei passi in cui Moro evoca la categoria di « guerra » e si serve della qualifica di « prigioniero politico » non sembrano avere alcun ruolo in quelli nei quali Moro coinvolge, invece, la nozione di « stato di necessità » ; direi anzi, al contrario, che lo « stato di necessità » è chiamato in causa nel contesto di passi il cui tono generale appare regolarmente lucido e risoluto, a tratti persino perentorio (« il sacrificio degli innocenti in nome di un astratto principio di legalità, mentre un indiscutibile stato di necessità dovrebbe indurre a salvarli, è inammissibile » ; « tieni presente che nella maggior parte degli Stati, quando vi sono ostaggi, si cede alla ne-cessità e si adottano criteri umanitari » ; « la prima osservazione da fare è che si tratta di una cosa che si ripete come si ripetono nella vita gli stati di necessità » ; « lo stato di necessità è [...] evidente » ; « ecco perché queste cose sono e non possono <non> essere disciplinate nel segno dello Stato di necessità »). L’impressione, allora, è che il fatto che le esigenze di attenuazione e di ridimensionamento avvertite da Moro nei casi in cui si trovava a coinvolgere le categorie di « guerra » e di « prigioniero po-litico » non siano state avvertite, invece, nei casi in cui a essere chiamata in causa era la nozione di « stato di necessità » sia da ricondurre alle ben diverse prerogative delle categorie in gioco. Dipingere la situazione italiana in termini di guerra aperta e con-clamata ; attribuire a se stesso la qualifica di prigioniero politico, equiparando il pro-prio status a quello dei brigatisti detenuti, significava non soltanto legittimazione e riconoscimento politico-giuridico dei terroristi ; significava anche (e si tratta di un elemento che deve aver giocato un ruolo importante nel determinare le strategie di autocensura messe in campo da Moro a carico della sua stessa scrittura) delineare un quadro che avrebbe potuto legittimamente seminare il panico, sprofondare il paese in una condizione di totale disorientamento. �

Il ricorso alla nozione di « stato di necessità », nozione tecnica, e in certo modo esoterica, deve invece essere sembrato a Moro (oltre che del tutto inadeguato a sod-disfare l’ansia di legittimazione che animava i suoi sequestratori) fondamentalmen-te esente dai rischi dei quali ho appena detto, e funzionale, a un tempo, all’esigenza,

sequestro Sossi, il terrorismo altoatesino, la vicenda dei prigionieri palestinesi ai tempi della guerra del Kippur, e così via), e perorando, a un tempo, a favore di un atteggiamento ugualmente flessibile in rela-zione alla questione della trattativa, è, da parte di Moro, un ragionare di natura squisitamente giuridica (vd. Moro, Storia di un delitto annunciato, cit., p. 276 sg.).

� Moro, Storia di un delitto annunciato, cit., p. 277.� Rimando, per questo, a quanto ho osservato in precedenza a proposito della dialettica tra piano

pubblico e piano riservato, e dei diversi criteri che Moro sembra aver seguito, nella scelta dei contenuti, delle argomentazioni e, ancora a monte, delle parole, a seconda del carattere (pubblico o riservato, appunto) delle missive che si trovava di volta in volta a stendere (cfr. supra, pp. 124-126).

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vitale, di dare concreto fondamento giuridico alla proposta di scambio (e dunque, e prima ancora, a quella, forse ancora più impellente, di conferire il massimo pos-sibile di coerenza e di credibilità a quanto egli andava argomentando dal fondo del-la « prigione del popolo »). � Così, quando evoca lo « stato di necessità » a motivare l’opportunità della trattativa, libero, per una volta, dal condizionamento esercitato dai suoi sequestratori, e svincolato, insieme, dal senso di responsabilità che lo in-duceva a misurare il più possibile le parole nei casi in cui a essere chiamate in causa erano categorie troppo cariche di implicazioni, per così dire, impegnative, oltre che estranee al suo modo di valutare le cose, si ha la netta sensazione che Moro si senta finalmente nella condizione di rivolgersi con un certo agio, e con la ragionevole speranza di vedersi prestare ascolto, alla circoscritta cerchia di coloro che erano in grado di cogliere fino in fondo il senso delle sue argomentazioni ; di ragionare quan-to più lucidamente possibile sulla situazione nella quale si era venuto a trovare, e sulle strade da percorrere in funzione di una soluzione positiva.

� Che la preoccupazione di poter risultare credibile ai suoi interlocutori, a dispetto della situazione estrema nella quale si trovava, fosse avvertita da Moro con particolare acutezza è cosa provata da molti passi delle lettere ; tra i tanti, ne ricorderò uno solo, contenuto nella lettera alla Dc, che colpisce più di altri per la lucidità estrema (e ormai disperata) dell’argomentazione : « Perché questo avallo alla pretesa mia non autenticità ? Ma tra le Brigate Rosse e me non c’è la minima comunanza di vedute. E non fa cer-to identità di vedute la circostanza che io abbia sostenuto sin dall’inizio (e, come ho dimostrato, molti anni fa) che ritenevo accettabile, come avviene in guerra, uno scambio di prigionieri politici », con quel che segue (doc. 82, p. 141 Gotor). L’insensibilità dei brigatisti alla nozione di « stato di necessità » sembra invece dimostrata dal già ricordato passo della versione recapitata della « lettera su Taviani », nel quale, come si è detto (cfr. supra, p. 133 n. 3), il coinvolgimento dello « stato di necessità » (assente nella versione che i brigatisti ritennero di non recapitare) serve a attenuare la portata dell’attacco rivolto subito dopo a Taviani, come una sorta di cenno di intesa, o di « strizzatina d’occhio » (così Gotor), della quale evi-dentemente i brigatisti non si resero conto. Mi sembra che un altro caso di discrepanza tra due versioni del medesimo documento serva invece a dimostrare come per Moro il coinvolgimento della nozione di « stato di necessità » rivestisse un ruolo di primaria importanza. Si tratta di un passo della versione reca-pitata della prima lettera a Zaccagnini (doc. 6, p. 14 Gotor) : « Si discute qui, non in astratto diritto (ben-ché vi siano le norme sullo stato di necessità), ma sul piano dell’opportunità umana e politica, se non sia possibile dare con realismo alla mia questione l’unica soluzione positiva possibile, prospettando la liberazione di prigionieri di ambo le parti, attenuando la tensione nel contesto proprio di un fenomeno politico », che nella versione censurata suona come segue (doc. 7, p. 17 Gotor) : « Si discute qui se, non in astratto diritto, ma sul piano della opportunità umana e politica, non sia ammissibile uno scambio che salvi vite innocenti e, allontanando alcune persone dal territorio nazionale, allenti la tensione <nel> contesto proprio di un fenomeno politico ». Mentre la contrapposizione tra il piano astratto del diritto e il piano « dell’opportunità umana e politica » (contrapposizione tutta morotea, come si è già avuto modo di dire : cfr. supra, p. 121 n. 5) è presente in entrambe le versioni, di « stato di necessità » si parla solo in quella recapitata ; il che fa pensare che Moro, proprio nel momento in cui (come nella lettera a Zac-cagnini in questione) il condizionamento esercitato dai brigatisti si manifestava in forme quanto mai pe-santi e pervasive, abbia avvertito più che mai pressante l’esigenza di rendere il suo ragionamento il più possibile credibile e fondato, e abbia considerato l’aggiunta in questione (ancora una volta non più che un inciso) adeguata allo scopo che si prefiggeva. un inciso, dicevo ; che in questo caso assomiglia a una sorta di ben dissimulato timbro di autenticità, sfuggito al controllo (occhiuto, certo, ma evidentemente non abbastanza attrezzato quanto a competenze di natura tecnico-giuridica) dei brigatisti. E sfuggito purtroppo (mi sia consentito osservarlo en passant) anche all’attenzione di chi avrebbe invece dovuto e potuto coglierne le riposte implicazioni ; di chi avrebbe dovuto e potuto rendersi conto di come in queste lettere lucide e disperate ogni parola pesi come un macigno ; e preferì, invece, volgere lo sguardo da un’altra parte, far finta di non capire (« ho l’impressione che questo o non si sia capito o si abbia l’aria di non capirlo » : così corre un passo della lettera a Craxi [doc. 52, p. 91 Gotor]).

Considerazioni sul corpus delle lettere di Aldo Moro dalla prigionia 139

Il ragionamento che Moro non si stanca di articolare e di sviluppare, nelle lettere del corpus, in relazione al nesso tra « stato di necessità » e opportunità dello scambio è davvero un « ragionamento che fila come filavano i ragionamenti di un tempo », per riprendere un passo spesso citato della lettera alla Democrazia cristiana. La prospettiva « continuistica » argomentata, a ragione, da Alfredo Carlo Moro aiuta a distinguere con ulteriore nettezza il ragionamento incentrato sulla nozione di « stato di necessità » da quelli incentrati sulle categorie di « guerra » e di « prigioniero politico », per i quali sarebbe fatica vana cercare precedenti nel pensiero e nelle opi-nioni di Moro ; è in questo serrato ragionare, allora (un ragionare che si intreccia, peraltro, con quello relativo alle nozioni di Stato e di ragion di Stato, di persona e di valore della vita umana, per il quale, come si è detto, � è stata proposta, e con altrettanta ragione, la medesima lettura ‘continuistica’ avanzata per le argomenta-zioni che fondano, nelle lettere, l’opportunità della trattativa e dello scambio sulla base del ricorso alla nozione di « stato di necessità »), è in questo serrato ragionare, dicevo, che si dovrà riconoscere il nucleo più autentico e meno condizionato della riflessione di Moro prigioniero, stupendo, a un tempo (sia detto, ancora una volta, per i sostenitori, passati e presenti, della « pazzia » di Moro ostaggio delle Br), di fron-te al grado di autonomia di giudizio e di lucidità che egli seppe invece conservare, nonostante tutto, « nella babele di quei giorni ». �

6. “Anche nella necessità si può essere liberi”. Il rapporto tra necessità e libertà

nella riflessione politica di Aldo Moro

Come è stato ben messo in rilievo da Agnese Moro, � il rapporto tra necessità e liber-tà rappresenta uno degli elementi cardine della riflessione politica di Moro a partire almeno dai tempi dell’elaborazione del primo centrosinistra. � Per quanto mi renda ben conto del fatto che le tappe di tale riflessione meriterebbero di essere indagate, per così dire, a tappeto, come non mi pare che sia mai stato fatto, qui non posso che limitarmi a indicare una selezione di passi rappresentativi, prendendo le mosse,

� Cfr. supra, p. 121 n. 5.� Adatto qui al diverso contesto un passo di una delle lettere a Nicola Rana (doc. 71, p. 128 Gotor ;

il passo, nel suo contesto originale, suona come segue : « Nella babele di questi giorni, nella quale non so orientarmi, tanto mi è incomprensibile, desidero ridirle tutto il bene che le voglio e la gratitudine infinita per quanto lei ha fatto per me e per noi in tanti anni »).

� A. Moro, Moro, come articolare libertà e necessità, « Formiche » 3/9, maggio-giugno 2006, pp. 27-30 ; vd. anche Di Mario, L’attualità di Aldo Moro, cit., pp. 149-151.

� Alla nozione di « stato di necessità », o a nozioni in tutto simili, Moro, a dire il vero, fa ricorso, occasionalmente, anche prima ; ricorderò qui, p. es., il discorso tenuto da Moro in qualità di segreta-rio politico della Dc il 24 ottobre del 1959, in seno al vii Congresso nazionale del partito, tenutosi a Firenze tra il 23 e il 26 ottobre del 1959, nel quale la « situazione di necessità » era chiamata in causa in relazione al quadro politico che aveva portato alla definizione del secondo gabinetto Segni, e, più in particolare, al « dovere della D.C., come partito di maggioranza relativa, a dare un governo al Paese, assumendone la esclusiva responsabilità politica » : vd. Atti del vii Congresso Nazionale della Democrazia Cristiana, Firenze, 23-26 ottobre 1959, Roma, DC-Spes, 1961, p. 63 sg. (= A. Moro, Scritti e discorsi. ii : 1951-1963, a cura di G. Rossini, Roma, Edizioni Cinque Lune, 1982, p. 662 sg.), nonché Gianni Baget Bozzo in Moro, L’intelligenza e gli avvenimenti, cit., p. 29, e Calandra, I governi della Repubblica, cit., p. 161 sg.

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appunto, dall’inizio degli anni sessanta. Già nella relazione tenuta al Consiglio na-zionale della Dc, svoltosi fra il 20 e il 22 febbraio 1961, Moro, nel valutare risultati e prospettive del governo allora in carica (siamo ai tempi del terzo governo Fanfani, il monocolore delle ‘convergenze’), dopo aver insistito sul ruolo insostituibile della Dc nel garantire responsabilmente un’« area di sicurezza democratica » in grado di mettere al riparo dai rischi rappresentati, « in due direzioni », dagli estremismi di destra e di sinistra (il comunismo da un lato, le forze di destra dall’altro), e di resi-stere alla « doppia soffocante pressione » da essi esercitata a detrimento « delle basi umane ordinate e civili della società », compone in un quadro attentamente bilan-ciato i condizionamenti posti dalla « indiscutibile necessità politica » insita nella si-tuazione e le prerogative di un impegno che, « per forza, coerenza, e fiducia », sia in grado di corrispondere « senza residui alla necessità che lo determina ». � Ancor più significativo quanto Moro ebbe a dire nel contesto del discorso tenuto il 19 novem-bre 1961 al xvi Congresso provinciale della Dc di Bari, a difesa, ancora una volta, della formula della convergenza, e, a un tempo, dell’operato del governo Fanfani : « Non abbiamo del resto fatto appello inutilmente anche questa volta al senso di responsabilità dei partiti, ad essi indicando rispettosamente varie prospettive le qua-li escludevano una sola ipotesi, mortificante per il partito, allarmante per l’opinione pubblica, pericolosa per un sereno svolgimento della vita democratica, l’ipotesi cioè di un partito che agisse in istato di necessità, che operasse cioè non solo in una si-tuazione data (e tali sono le situazioni politiche più spesso che non appaia e non si voglia ammettere), ma anche senza possibilità di raccoglimento, di attenta valuta-zione della realtà, di autonoma decisione ». � Nel cuore di una difficile situazione di crisi, � e nell’imminenza, ormai, del congresso nazionale del partito, previsto per il gennaio dell’anno successivo, Moro, pur non negando il peso condizionante della necessità imposta dalla situazione politica (e anzi affermandolo a chiare lettere, non senza un elemento di rassegnazione : la parentetica svela, ancora una volta, il fondo più autentico e riposto del pensiero di Moro), avverte però nel contempo l’esigenza di rivendicare l’autonomia delle scelte che avevano portato alla definizione della formula delle ‘convergenze’ ; necessità e autonomia si compongono, ancora una volta, all’interno di un quadro che le disegna dialetticamente interagenti, e su un piano di sostanziale parità. La relazione tenuta da Moro a Napoli il 27 gennaio 1962 in seno ai lavori dell’viii Congresso nazionale della Dc, vero atto di nascita politico del centrosinistra ‘organico’, e « summa del suo pensiero politico, momento culmi-nante della sua esperienza di segretario e, dunque, di guida non solo formale ma sostanziale della DC », � compone in un quadro finalmente unitario e organico un complesso di argomenti che Moro aveva cominciato a elaborare almeno a partire dalla fine degli anni cinquanta. Alla consapevolezza della « missione storica della

� Moro, Scritti e discorsi, ii, cit., pp. 915-918. � Moro, Scritti e discorsi, ii, cit., p. 989.� Per la situazione di crisi determinatasi a carico della formula delle ‘convergenze’ a partire dal luglio

’61, con il ritiro dell’astensione socialista, e inaspritasi poi, nel mese di novembre, con le dichiarazioni relative all’esaurimento della formula da parte di pri e psdi, vd. p. es. G. Tamburrano, Storia e cronaca del centro-sinistra, Milano, Rizzoli, 1990, p. 72 sg. ; Calandra, I governi della Repubblica, cit., p. 187 sg.

� Guerzoni, Aldo Moro, cit., p. 81.

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Dc », � del « dovere di governare » che le era proprio, � e alle argomentazioni relative alle « insuperabili ed acquisite preclusioni a sinistra ed a destra dello schieramento politico italiano », � si aggiungeva, a Napoli, la definitiva presa di coscienza della crisi irreversibile della formula centrista, ivi compresa la formula delle ‘convergenze’ : per pervenire nel modo più compiuto e coerente possibile a quell’« allargamento dell’area democratica » nel quale Moro vedeva la strada da percorrere per favorire « l’assunzione di sempre maggiori responsabilità politiche di vasti e qualificati setto-ri del corpo sociale » � era ormai inevitabile aprire all’incontro con i socialisti, pur con tutte le cautele del caso. Per quanto Moro presenti reiteratamente la linea pro-posta a Napoli come frutto di una situazione pesantemente condizionata dalle cir-costanze (Moro parla a più riprese di « pressione di una situazione politica per tanti

� Atti dell’viii Congresso Nazionale della Democrazia Cristiana, Napoli, 27-31 gennaio 1962, Roma, Edi-zioni Cinque Lune, 1963, pp. 131-134 (= Moro, Scritti e discorsi, ii, cit., pp. 1095-1098).

� Atti dell’viii Congresso, cit., pp. 123-125 (= Moro, Scritti e discorsi, ii, cit., p. 1087 sg.). È, questo del ruolo e della funzione della Dc nella vita politica italiana, un tema che, come è ben noto, Moro non si stanca di elaborare : buone raccolte di passi in Moro, L’intelligenza e gli avvenimenti, cit., pp. 149-180, e Id., La democrazia incompiuta. Attori e questioni della politica italiana 1943-1978, a cura di A. Ambrogetti, intr. di G. Moro, Roma, Editori Riuniti, 1999, pp. 186-206. Nell’ultimo Moro, peraltro, la riflessione sul « dovere di governare » proprio della Democrazia cristiana si intreccia in modo sempre più fitto (e in un quadro di crescente pessimismo quanto al ruolo dei partiti, a cominciare dalla Dc : vd. P. Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico 1945-1996, Bologna 19972, p. 395 sg.) con quella relativa alla perdurante, e patologica, assenza, in Italia, di una reale e concreta « prospettiva di una vera alternanza al potere delle forze implicate nel gioco politico » (così nel discorso tenuto al Senato nella seduta del 2 dicembre 1974 in sede di presentazione delle linee programmatiche del nuovo governo : vd. A. Moro, Scritti e discorsi. vi : 1974-1978, a cura di G. Rossini, Roma, Edizioni Cinque Lune, 1990, p. 3185 = Moro, Discorsi parlamentari, ii, cit., p. 1491 ; il passo ritorna, lievemente variato, in un discorso pronunciato in più sedi nel corso della campagna elettorale per le elezioni regionali del giugno 1975 : vd. Moro, L’intelligenza e gli avvenimenti, cit., p. 275, e Id., La democrazia incompiuta, cit., p. 136), fino al delinearsi, a partire, dal luglio ’75, della prospettiva condensata nella discussa formula della « terza fase ». Se accenno qui a questo, è perché la riflessione di Moro intorno al complesso nodo costituito dal rapporto tra la missione di governo della Dc e le ragioni dell’alternanza trova estrema, e quasi dolente, espressione nella ben nota intervista pubblicata postuma da Eugenio Scalfari sulla « Repubblica » del 14 ottobre 1978, intervista nel corso della quale Moro parla a più riprese di « stato di necessità » : « Molti si chiedono [...] se dall’incontro [con il Pci] la Democrazia cristiana non rischi di uscire snaturata e stre-mata e insomma inservibile a svolgere quel ruolo di pilastro essenziale di sostegno della democrazia ita-liana quale abbiamo contribuito a costruirla in tutti questi anni. Ho molto riflettuto su tutte [...] queste questioni. E sono partito da una convinzione che ho maturato in me da molto tempo : non è affatto un bene che il mio partito sia il pilastro essenziale di sostegno della democrazia italiana. Noi governiamo da trent’anni questo Paese. Lo governiamo in stato di necessità, perché non c’è mai stata la possibilità reale d’un ricambio che non sconvolgesse gli assetti istituzionali e internazionali. quando noi parliamo di « spirito di servizio » so bene che molti dei nostri avversari non ci prendono sul serio. Pensano che sia una scusa comoda per non cedere neppure un grammo del potere che abbiamo. So anche che per molti del mio partito questo stato di necessità è diventato un alibi alla pigrizia e qualche volta all’uso perso-nale del potere. Sono fenomeni gravi, ma marginali. Resta il fatto che la nostra democrazia è zoppa fino a quando lo stato di necessità durerà. Fino a quando la Democrazia cristiana sarà inchiodata al suo ruolo di unico partito di governo. questo è il mio punto di partenza : dobbiamo operare in modo che ci siano alternative reali di governo alla Dc » (cito da E. Scalfari, Articoli, 1 : “la Repubblica” dal 1976 al 1984, Roma, Gruppo editoriale L’Espresso, 2004, p. 443 sg. ; sull’intervista si vedano, da ultimo, le pagine ad essa dedicate in Guerzoni, Aldo Moro, cit., pp. 190-198).

� Atti dell’viii Congresso, cit., p. 127 (= Moro, Scritti e discorsi, ii, cit., p. 1091).� Atti dell’viii Congresso, cit., p. 116 (= Moro, Scritti e discorsi, ii, cit., p. 1079).

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versi difficile e chiusa », � di « strettezze della nostra vita politica », � e così via), nel suo discorso l’accento cade, almeno altrettanto spesso, sul ruolo centrale dell’iniziativa, sul carattere politicamente attivo dell’« esperimento » proposto, sul « coraggio » ne-cessario a percorrere la strada della difficile « prova » delineata, e ad accettarne, pur responsabilmente, i rischi : � « In queste condizioni [...] non si può dire che una larga scelta sia data a coloro che hanno la responsabilità della vita politica italiana. Ed in-fatti anche coloro che rifiutano più o meno drasticamente quella esperienza che noi pensiamo sia da ritenere possibile e da tentare, non hanno poi molto di più che ar-gomenti e motivi di preoccupazione da proporre. Argomenti certo seri, motivi di preoccupazione certo condivisi, ma non sino al punto di farne scaturire la paralisi ed una sorta di rassegnazione ad un tempo cieca ed impotente. Ora certo un partito che si trovasse privo di ogni possibilità di iniziativa, condotto per forza di cose a tradire se stesso ed i suoi elettori, non ha altra via che quella della testimonianza [...] Ma noi non siamo a questo punto e non siamo chiamati alla rassegnazione, all’ina-zione, alla mera testimonianza. La D.C. ha ancora delle possibilità, delle prospetti-ve, delle iniziative, nelle quali è il rischio che è in tutte le cose umane ; ma è un ri-schio che può essere affrontato, che può essere, comunque vadano le cose, superato da un Partito unito, consapevole, coraggioso, che rifiuti anche solo di considerare l’ipotesi della sua rinunzia e della sua sconfitta ». � Ancora più significativo, quanto al pensiero di Moro sul rapporto tra i condizionamenti posti dalla necessità e l’auto-nomia di iniziativa che deve comunque orientare le scelte politiche, e sia pure entro i limiti di volta in volta imposti dalle contingenze, è però un altro passo del discorso di Napoli, nel quale, giudicando retrospettivamente l’operato e le scelte del suo partito alla vigilia di una prova forse ancora più impegnativa, Moro afferma quanto segue (il carattere dell’argomentazione sfiora, ancora una volta, i toni propri della riflessione filosofica) : « La verità è che [...] ci siamo trovati [...] e possiamo trovarci anche in avvenire in situazioni nelle quali, una volta salve le cose essenziali, si sia costretti a prendere non l’ottimo, che in quella situazione è inattingibile, ma il buo-no o anche il mediocre, per cercare di migliorarlo, valorizzarlo, per così dire ravvi-varlo con la nostra iniziativa e la nostra fede. La verità è che non siamo tutto, che dipendiamo in qualche misura dalla volontà altrui che ci condiziona, che non sem-pre la volontà di collaborare risponde alla obiettiva idoneità in tal senso e che una siffatta obiettiva idoneità incontra limiti e riserve di carattere soggettivo che appaio-no talvolta insuperabili ». � Che una riflessione di tale respiro abbia finito per essere ridotta entro gli angusti limiti della formula dello « stato di necessita » è (sia detto di passata) cosa perfettamente fisiologica fino a che si resti all’ambito della polemica politica, interna e esterna al partito ; � meno fisiologico è invece il fatto che la mede-

� Atti dell’viii Congresso, cit., p. 130 (= Moro, Scritti e discorsi, ii, cit., p. 1094). � Atti dell’viii Congresso, cit., p. 131 (= Moro, Scritti e discorsi, ii, cit., p. 1095).� Vd., p. es., Atti dell’viii Congresso, cit., p. 130 sg. (= Moro, Scritti e discorsi, ii, cit., pp. 1093-1095). � Atti dell’viii Congresso, cit., p. 128 (= Moro, Scritti e discorsi, ii, cit., p. 1092).� Atti dell’viii Congresso, cit., p. 124 sg. (= Moro, Scritti e discorsi, ii, cit., p. 1088).� Si veda per questo, già in seno ai lavori del congresso napoletano, l’intervento tenuto da Scelba il 30

gennaio 1962 nell’ambito dell’ampia discussione seguita alla relazione di Moro (Atti dell’viii Congresso, cit., spec. p. 525). Il richiamo, più o meno polemico, alla formula dello « stato di necessità » tornerà poi, in sede di dibattito parlamentare, in molte e diverse occasioni, fino alla metà degli anni settanta, per

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sima formula sia diventata presto, e rimanga, in fondo, tuttora, uno dei topoi più reiteratamente ribaditi nella storiografia sul centrosinistra, anche se con accenti e sensibilità di volta in volta diversi. � Moro, dal canto suo, non perderà occasione,

addensarsi, come si può facilmente immaginare, nel corso delle discussioni seguite ai discorsi per la fiducia tenuti da Moro, lungo l’arco di un decennio, in occasione della presentazione alle Camere dei governi da lui di volta in volta presieduti. Per limitare l’esemplificazione agli atti relativi alla Camera dei deputati, e senza pretesa di completezza, cfr. Atti Camera, iv legislatura, seduta del 16 dicembre 1963, p. 4190 (Lauro) ; seduta pomeridiana del 17 dicembre 1963, p. 4317 (Basso) ; seduta antimeridiana del 4 ago-sto 1964, pp. 8782-8785 (Almirante ; l’intervento è ora ristampato in G. Almirante, Discorsi parlamentari. iii : 1963-1969, Roma, Camera dei deputati, 2008, pp. 1685-1690 ; vd. anche Calandra, I governi della Re-pubblica, cit., p. 207) ; seduta del 6 agosto 1964, p. 8972 sg. (Michelini) ; seduta del 14 gennaio 1966, p. 20110 (Galdo) ; seduta del 14 marzo 1966, p. 20936 (De Mita) ; seduta del 15 marzo 1966, p. 21013 (Michelini) ; seduta del 31 gennaio 1968, p. 42930 (Almirante ; vd. Almirante, Discorsi parlamentari, iii, cit., p. 2211) ; seduta del primo febbraio 1968, p. 42994 (Amendola) ; vi legislatura, seduta del 7 dicembre 1974, p. 18335 (Masullo) ; p. 18350 (De Marzio) ; p. 18356 (Mariotti).

� Vd., p. es., G. Baget Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra. La Dc di Fanfani e di Moro 1954-1962, Firenze, Vallecchi, 1977, pp. 340-354, e spec. 351-353, ove, a proposito della relazione di Napoli, la dialettica tra « registro della necessità » e « registro della assoluta libertà della Dc » è messa in risalto con salutare equilibrio ; vd. anche, in modo analogo, G. Baget Bozzo, G. Tassani, Aldo Moro. Il politico nella crisi 1962/1973, Firenze, Sansoni, 1983, pp. 25-27. Per il resto, si vedano, tra molto altro, E. d’Auria, Gli anni della “difficile alternativa”. Storia della politica italiana 1956-1976, Napoli, Edizioni Scientifiche Ita-liane, 1983, pp. 122 e 186 (« irreversibilità » della formula) ; F. Malgeri, Gli anni di transizione : da Fanfani a Moro (1954-1962), in Id., Storia della Democrazia cristiana, iii, Roma, Edizioni Cinque Lune, 1988, p. 260 ; Tamburrano, Storia e cronaca del centro-sinistra, cit., pp. 132-137 ; G. Mammarella, L’Italia contemporanea 1943-1989, Bologna, il Mulino, 1990, p. 268 ; P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992, Torino, utet, 1995, pp. 106 e 164 (ove, a proposito del programma del primo governo Moro, si parla di « “enciclopedia” del necessario e del possibile ») ; Scoppola, La repubblica dei partiti, cit., p. 371 sg. ; l’introduzione di Tam-burrano a Pietro Nenni - Aldo Moro. Carteggio 1960-1978, Roma - Scandicci, Fondazione Pietro Nenni - La Nuova Italia, 1998, p. xvi ; Y. Voulgaris, L’Italia del centro-sinistra. 1960-1968, Roma, Carocci, 1998, pp. 107-116 (e spec. 107 e 113 sg.). un caso a parte è rappresentato dal recente articolo di G. Orsina, Il sistema politico : lineamenti di un’interpretazione revisionistica, in P. L. Ballini, S. Guerrieri, A. Varsori (a c. di), Le istituzioni repubblicane dal centrismo al centro-sinistra (1953-1968), Roma, Carocci, 2006, pp. 309-333, ove si sostiene l’idea per cui il ruolo indebitamente centrale giocato, nella storiografia sul centrosinistra, dalla categoria di ‘necessità’ sarebbe da spiegare non come conseguenza di una lettura frettolosa e superficia-le (ove non più o meno apertamente ostile) delle parole di Moro, ma come risultato dell’assunzione di un punto di vista politicamente strumentale (quello di Moro, si intende), acriticamente fatto proprio, e anzi elevato a vera e propria parola d’ordine, in sede di riflessione storiografica. Il tutto poi, si badi, nel contesto di un discorso interamente volto a dimostrare la tesi (difesa, a tratti, con lieve eccesso di bal-danza) per cui il centrosinistra, nonostante le argomentazioni dei suoi « avvocati » (Moro, ovviamente, in testa), non era « in alcun modo necessario », dal momento che non soltanto la sopravvivenza della formula centrista, ma persino l’eventuale configurazione di una maggioranza di centro-destra, « anche allargata fino ai missini », non si sarebbero necessariamente qualificate in termini antidemocratici e reazionari, e avrebbero anzi potuto garantire al paese la gestione dell’opposizione e della piazza « ri-manendo all’interno del quadro costituzionale » (p. 328) ; a inevitabile corollario, la crisi della formula centrista è da leggere, da un lato (p. 322), come conseguenza di « scelte fondate su una logica storica e politica », e non di « opzioni obbligate da circostanze imprescindibili » (il che, se è forse argomentabile per quanto attiene alle scelte di Saragat e di La Malfa, è assai difficile da sostenere, mi sembra, in rela-zione a quelle di Moro), mentre i fatti del luglio ’60 saranno, dall’altro, da considerare come non molto più che un pur spiacevole incidente di percorso, e si qualificano comunque, quanto alle conseguenze politiche da essi determinate, come un fatto di « cedimento del palazzo alla piazza » (p. 324). Al di là del suo carattere (e fin dal titolo) schiettamente militante, che ne fa per larghi tratti qualcosa di simile a un pamphlet (per cui se l’Italia avesse « scelto una via alternativa » al centrosinistra, e se, più in particolare, al posto del « pessimismo sostanziale » di Moro si fosse imposto l’« ottimismo sostanziale » di Malagodi, « la democrazia italiana si sarebbe rafforzata, non indebolita » [p. 332 sg.], e così via fantasticando), ciò

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negli anni a seguire, � per respingere con fermezza l’idea che la scelta compiuta con il centrosinistra potesse essere letta come conseguenza obbligata, e anzi inevitabile, della necessità configurata dalle contingenze politiche e parlamentari, e rivendicare, con altrettanto vigore, la natura di scelta autonoma e responsabile dell’iniziativa ; segnalo, qui di seguito, una serie di passi, elencati in ordine cronologico, scegliendo, ancora una volta, tra quelli che mi sono parsi maggiormente rappresentativi.

È la Democrazia cristiana di sempre che affronta con strumenti nuovi i problemi posti dal potente sviluppo della realtà economica e sociale. E nel fare questo non abbiamo obbedito ad una situazione di necessità. Se il senso della nostra doverosa responsabilità ci ha indotto a

che soprattutto indispone, nel lavoro di Orsina (in relazione, sia chiaro, alle prerogative del discorso di Moro, e del tutto indipendentemente, dunque, da considerazioni di natura valutativa e quanto ai termi-ni ‘effettivi’ della situazione politica del tempo, e quanto ai risultati concretamente raggiunti dai gover-ni di centrosinistra), è la sistematica degradazione della complessa e articolata riflessione di Moro sul rapporto tra necessità e libertà a puro e semplice espediente retorico (p. 322 : « in linea molto generale è una strategia di legittimazione assai comune, per i sostenitori di una determinata iniziativa, quella di presentarla come necessaria ... E certamente questa strategia fu attivata negli anni dell’incubazione del centro-sinistra per le stesse ragioni per le quali è stata attivata infinite altre volte in contesti storici e geo-grafici differenti ») ; con il risultato che l’operazione delineata da Moro in termini di difficile, rischioso, e, a un tempo, coraggioso ‘esperimento’ (‘difficoltà’, ‘rischio’, ‘coraggio’ sono parole-chiave nel discorso di Napoli), frutto della sofferta ricerca di un punto di equilibrio tra i condizionamenti imposti dalle contingenze e l’esigenza di scelte politiche autonome, si riduce, nell’ottica di Orsina, a conseguenza « di decisioni politiche senz’altro fondate e perciò storicamente comprensibili, ma del tutto libere – ossia, di decisioni che avrebbero potuto essere diverse, perché al centro-sinistra non mancavano le alternative » (p. 328). Ben diverso respiro anima le pur poche pagine dedicate alla relazione di Napoli da Franco De Felice, che è l’unico, per quanto mi riguarda, ad aver messo in luce in modo adeguato il senso politico profondo del nodo affrontato da Moro, e ad aver reso onore, aggiungerei, alla complessità del suo ragionamento : il « modello metapolitico » proposto a Napoli è, per De Felice, uno schema all’interno del quale « la politica non si sostituisce all’economia e al mercato, non disegna una struttura sociale, ma è un continuo faticoso processo di ricomposizione e di equilibrio tra le ragioni dell’individuo e quelle della società. Sta qui l’autonomia specifica della politica e il suo fondamento nella libertà, che è riconoscimento e rispetto dell’autonomia di determinazione del singolo ed è anche responsabilità. questo è il nucleo di valore non rinunciabile : il resto è legato alla contingenza, all’opzione necessitata » (F. De Felice, L’Italia repubblicana. Nazione e sviluppo Nazione e crisi, Torino, Einaudi, 2003, pp. 17-21 ; la citazione proviene da p. 20).

� Che però il tema fosse all’ordine del giorno già prima del congresso di Napoli è cosa che emerge con tutta chiarezza da alcuni interventi precongressuali, a cominciare dalla spesso citata intervista con-cessa da Moro al settimanale « L’Europeo » e riprodotta integralmente nel «Popolo » del 2 gennaio 1962, a p. 3. A precisa domanda dell’intervistatore, Moro risponde come segue : « I dati della situazione sono molto seri e non è perciò lecito liberarsi di essi con un’alzata di spalle, con semplicismo o con le polemi-che sul carattere precostituito o fittizio del cosiddetto stato di necessità. È fuori di luogo parlare di una sorta di costrizione, di un intrigo nel quale la DC sia avviluppata e da cui non possa uscire se non con una mortificata soggezione ... Proprio quest’ultima prospettiva [scil. il ricorso alle elezioni] ... richiede che la DC non si precluda l’attenta e responsabile considerazione delle possibilità implicite in questa situazione ; nella quale, quindi, per difficile e stringente che sia, essa serba la sua libertà di giudizio e di decisione, nonché la sua iniziativa politica ». È interessante notare che la linea sostenuta da Moro a Napoli trovò immediato e convinto apprezzamento in Nenni : « In una relazione di più di sei ore [Moro] ha motivato la svolta non come uno stato di necessità nato da contingenze parlamentari ma come uno stato di condizionamento della evoluzione della società. È una impostazione giusta » (P. Nenni, Gli anni del centrosinistra. Diari 1957-1966. A c. di G. Nenni e D. Zucàro. Pref. di G. Tamburrano, Milano, SugarCo, 1982, p. 205 [l’appunto è datato 29 gennaio 1962]) ; il tema, però, aveva trovato sviluppo, in Nenni, già prima, e in particolare nella relazione da lui tenuta in occasione del Congresso di Milano, nel marzo del 1961 (vd. Tamburrano, Storia e cronaca del centro-sinistra, cit., p. 67 sg.).

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utilizzare fino all’estremo limite le forme di solidarietà democratica, quando però abbiamo visto che era il momento di prendere una decisione, non l’abbiamo presa sotto il peso della necessità. Ciò non sarebbe stato degno di un grande partito come il nostro. �A Napoli parve si accentuasse la indicazione di questa politica come frutto di uno stato di necessità. Più volte però ho detto a Napoli e dopo Napoli : certamente ci troviamo di fronte ad uno stato di necessità. A coloro che guardano i fenomeni politici più negli aspetti appa-riscenti che non nel fondo delle cose abbiamo ricordato che non vi erano in quel momento alternative democratiche alla politica che noi andavamo inaugurando : ma io non ho mai limitato questa politica nell’ambito di uno stato di necessità, nell’ambito di un opaco e supe-rabile stato di necessità. �Si è parlato, con diversi accenti, di necessità. Ne ho parlato io stesso, � per indicare la esigenza di fronteggiare, con un forte impegno democratico, i problemi di un compiuto ed armoni-co sviluppo del nostro Paese. È questa necessità che piega forze diverse e le muove verso l’accordo, che le spinge a compiere un dovere verso la democrazia ed il Paese, a colmare un vuoto che un attestarsi caparbio sulle proprie diversità, malgrado l’ottimismo di tanti, potrebbe rendere incolmabile e pauroso. Non c’è qui, dunque, il soggiacere ad una fatalità e tanto meno, come pure si è detto, una cinica giustificazione per una operazione di puro potere. Si tratta invece di una consapevole scelta politica e dell’adempimento di un dovere. Non è una necessità artificialmente creata. È una situazione piena di significato che si coglie e alla quale si aderisce. �Se dunque partiti di grandi tradizioni, attraverso un ricco e tormentato dialogo interno ed esterno, hanno preso a battere una strada innegabilmente più difficile, è perché essi l’hanno ritenuta più valida, più costruttiva, più capace di condurre alla meta di una vita democratica vasta, profonda e meglio garantita. Ci hanno mal compreso ed hanno immeschinito la nostra posizione quanti al nostro accenno ad una ‘necessità’ alla quale occorre, per dovere, piegarsi, al nostro riferimento alla mancanza di alternative, hanno dato un significato meccanico e di rinuncia, mentre il nostro ragionamento è stato sempre fatto in termini storici e politici con riguardo ad una grande opportunità offerta per il consolidamento della democrazia italiana, opportunità che segnala chiaramente la strada migliore da battere, senza affatto nascondere le difficoltà ed i pericoli dell’opera alla quale ci si accinge. �Il primo Governo da me presieduto, dimettendosi, oltre che avere di mira il conseguimento se possibile di una solidarietà più intensa ..., ha inteso offrire la possibilità di riscontrare, su di un terreno assolutamente sgombro, se esistessero e fossero praticabili altre strade in vista della salvaguardia delle istituzioni democratiche, del necessario equilibrio politico, dell’ordi-

� Si tratta di un passo di un discorso non compreso, se vedo bene, nel già più volte citato secondo volume degli Scritti e discorsi di Moro ; la citazione proviene da A. Rossano, L’altro Moro, Milano, Sugar-Co, 1985, p. 85, a stare alle indicazioni del quale il discorso sarebbe stato pronunciato al Teatro Nuovo di Bergamo « nove mesi più tardi » rispetto alla relazione tenuta al congresso di Napoli.

� Dal discorso di replica alla relazione tenuta al Consiglio nazionale della Dc del 29 luglio 1963 (cito da Moro, Scritti e discorsi, ii, cit., p. 1309).

� Si veda, p. es., proprio in apertura del discorso programmatico tenuto alla Camera solo pochi gior-ni prima, il 12 dicembre ’63 : « Invero solo la imperiosa necessità, alla quale ci siamo piegati per senso del dovere, di un contatto costruttivo tra partiti democratici e popolari per la difesa e lo sviluppo della vita democratica in Italia, poteva condurre all’accordo che ha dato vita a questo Governo » (Moro, Discorsi parlamentari, ii, cit., p. 769).

� Dal discorso di replica tenuto al Senato nella seduta del 21 dicembre 1963, al termine della discussio-ne sulle dichiarazioni del governo (cito da Moro, Discorsi parlamentari, ii, cit., p. 826 sg.).

� Da un’intervista pubblicata sul « Popolo » del 2 gennaio 1964 (cito da A. Moro, Scritti e discorsi. iii : 1964-1965, a cura di G. Rossini, Roma, Edizioni Cinque Lune, 1986, p. 1394).

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nato sviluppo economico e sociale della Nazione ; se esistessero, almeno in prospettiva, di-verse e più vantaggiose coalizioni. E ciò non per riposare su di uno, del resto scomodissimo, stato di necessità, ma per sollecitare una nuova, consapevole e libera scelta, che consentisse, se effettuata, di riprendere il cammino più vigorosamente per adempiere un dovere al di fuori della ingiusta accusa di avere in qualche modo fatto violenza alla realtà politica per una ingiusta volontà di potere. �Io resto convinto che, dando avvio alla politica di centrosinistra, fosse soprattutto necessario definirne la piattaforma, rendere il più possibile omogenee le forze impegnate ed accredita-re, mano a mano, la coalizione di fronte al Paese. Il centrosinistra doveva cessare di essere, come dire, una forzatura, una stranezza, una risposta contingente ad uno stato di necessità, per diventare espressione di una evoluzione che coinvolgeva i partiti disponibili, per realizza-re la massima possibile corrispondenza tra società e Stato. �In realtà la Democrazia Cristiana, pur mantenendo integra la sua capacità di scelta, ha sem-pre accettato di qualificarsi, oltre che sui contenuti, sugli schieramenti, da essa di volta in volta proposti e ritenuti conformi alla sua natura e funzione, come del resto sul rapporto, significativamente polemico, instaurato con le forze destinate a restare all’opposizione. È la Democrazia Cristiana che, assolvendo ai suoi compiti nella vita nazionale, ha scelto. Cer-to deve promuovere e meritare le necessarie convergenze, le risposte appropriate alle sue proposte politiche. Ma non è schiava della formula (stato di necessità), ma nella formula accettata si chiarisce ulteriormente al Paese e definisce, insieme con quella della coalizione, la sua propria linea politica. �E questo è il dato di fatto fondamentale, che noi dobbiamo ricordare, perché la politica – cari amici – è fatta di situazioni e di scelte. Molte sono le situazioni, un po’ meno sono le scelte in senso stretto, anche se ho detto di recente che anche nella necessità si può essere liberi, cioè si può essere convinti di fare qualche cosa di utile ; e non si sta lì, forzati, ma si cerca, poiché si è là, di ritrarre qualche cosa di utile per il Paese, e di capire e di farsi capire, perché anche nella necessità qualche cosa di utile può emergere. �

7. Il problema della scelta tra alternative non equivalenti in stato di necessità nel Moro libero e in Moro prigioniero

Per Moro, come credo sia a questo punto ben chiaro, lo stato di necessità non pre-determina percorsi obbligati ; impone, piuttosto, scelte tra alternative non equiva-lenti. In stato di necessità bisogna preventivamente isolare le alternative possibili e

� Dal discorso tenuto da Moro al Senato nella seduta del 30 luglio 1964 in sede di presentazione delle linee programmatiche del nuovo governo (cito da Moro, Discorsi parlamentari, ii, cit., p. 902 sg.). Moro torna sulla questione nel discorso di replica tenuto alla Camera nella seduta del 6 agosto, al termine della discussione sulle dichiarazioni programmatiche del governo, facendo espresso riferimento al già ricordato intervento tenuto da Almirante il 4 agosto in sede di discussione (cfr. supra, p. 140 n. 6) : vd. Moro, Discorsi parlamentari, ii, cit., p. 940.

� Dall’articolo pubblicato sul « Giorno » del 29 aprile 1973 con il titolo « un programma preciso nelle cifre e nei tempi » (cito da A. Moro, Scritti e discorsi. v : 1969-1973, a cura di G. Rossini, Roma, Edizioni Cinque Lune, 1988, p. 3035 ; vd. anche Di Mario, L’attualità di Aldo Moro, cit., p. 107).

� Dalla relazione tenuta il 9 giugno 1973 al xii Congresso nazionale della Dc (vd. Atti del xii Congresso nazionale della Democrazia Cristiana. Roma, 6-10 giugno 1973, Roma, DC-Spes, 1976, p. 215 = Moro, Scritti e discorsi, v, cit., p. 3078).

� Il passo, capitale, proviene dal discorso pronunciato a Benevento il 18 novembre 1977 : Moro, Scritti e discorsi, vi, cit., p. 3736 ; vd. anche Moro, L’intelligenza e gli avvenimenti, cit., p. 366 ; Id., La democrazia incompiuta, cit., p. 39.

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soppesarne le prerogative, riservandosi la libertà di scegliere, tra le alternative (e in un quadro pur certo condizionato dalla necessità, e tale, dunque, da consentire una solo relativa, e limitata, libertà di movimento), quella comparativamente più utile in funzione dell’interesse generale. Certo, nel sottolineare il peso condizionante della necessità Moro, come si è visto, non cerca mai di nascondere i dati posti dalla realtà delle cose, e trova anzi, a tratti, accenti carichi di lucida rassegnazione : « l’ipo-tesi [...] di un partito che agisse in istato di necessità, che operasse cioè non solo in una situazione data (e tali sono le situazioni politiche più spesso che non appaia e non si voglia ammettere) », con quel che segue ; « la politica – cari amici – è fatta di situazioni e di scelte. Molte sono le situazioni, un po’ meno sono le scelte in senso stretto » ; e poi, naturalmente, l’intervista pubblicata postuma da Scalfari, nella qua-le, come si è visto, � la nozione di « stato di necessità » è evocata a più riprese nel con-testo di un quadro argomentativo che sembra palesare una certa dose di disillusa sfiducia, se non di stanchezza. Alla consapevolezza delle strettezze di volta in volta imposte dagli eventi si affianca però regolarmente, in Moro, una rivendicazione di segno opposto, che si condensa nella decisa, e a tratti orgogliosa, affermazione della libertà di scelta che, pur nei limiti configurati dalla necessità, deve guidare l’agire politico : � lo stato di necessità, ora « opaco e superabile », ora « scomodissimo », non può arrivare a impedire di « prendere decisioni », di optare per scelte « libere e con-sapevoli » ; l’essenza della politica non è certo nel « soggiacere ad una fatalità », e consiste invece nell’essere in grado di sottrarsi alla schiavitù delle formule, nel saper cogliere, di volta in volta, l’« opportunità che segnala chiaramente la strada migliore da battere », le « possibilità implicite nelle situazioni » ; nel saper serbare, per « difficile e stringente » che sia la situazione, la propria « libertà di giudizio e di decisione », di salvaguardare il ruolo dell’« iniziativa politica », di saper scegliere l’alternativa mi-gliore tra quelle possibili. E infine, le parole pronunciate a Benevento, a pochi mesi ormai dal rapimento : « Anche nella necessità si può essere liberi [...] anche nella necessità qualche cosa di utile può emergere ».

È, quello della comparazione tra alternative ugualmente possibili, ma non equi-valenti, in funzione di una scelta che sia in grado di indirizzarsi in direzione di quella più utile e valida, un tratto tipico del ragionare di Moro. � Moro non dice mai : « è necessario andare nella direzione indicata perché non esistono alternative » ; ripete, invece, instancabilmente che la direzione indicata è necessaria perché « non ci sono alternative che abbiano portata storica », che siano « risolutive », che si presentino come « alternative veramente valide e di ampio respiro » ; perché le alternative pro-poste dagli altri sono « espedienti », « sortite temporanee », « prospettive [...] velleita-rie ed illusorie », « alternative, le quali [...] si rivelano subito inconsistenti e vane », proposte che altro non sono che « pericolose e futili evasioni », e così via. « Non basta

� Cfr. supra, p. 139 n. 2.� Persino nell’intervista a Scalfari, che pure, come si è detto, appare segnata da un pessimismo assai

più cupo che altrove, Moro non rinuncia affatto a delineare prospettive, a configurare sviluppi che siano in grado di porre fine alla situazione di emergenza nella quale egli vede sprofondato il paese : « quanto durerà non lo so. So che durerà parecchio tempo. Ma non all’infinito. una democrazia senza opposizio-ne non vive. L’emergenza è un tempo circoscritto [...] Dopo la fase dell’emergenza si aprirà finalmente quella dell’alternanza, e la Dc sarà liberata dalla necessità di governare a tutti i costi [...] » (Scalfari, Articoli, 1, cit., p. 444 sg.). � Vd. Moro, Moro, come articolare libertà e necessità, cit., p. 27.

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enunciare alternative, bisogna che esse siano serie ed abbiano riscontro in una reale volontà politica » ; � e ancora : « Avere alternative significa appunto scegliere e sceglie-re ragionevolmente ». � L’esemplificazione potrebbe andare avanti ancora a lungo ; credo, d’altronde, che i passi citati siano più che sufficienti a mostrare come que-sto modo di porre il problema della scelta (comparando le alternative praticabili, e poi valutando « ragionevolmente » quale sia l’alternativa migliore tra quelle messe a confronto e soppesate) sia in tutto identico al modo in cui Moro pone il medesimo problema ai suoi interlocutori dal fondo della « prigione del popolo », fatta salva l’inedita drammaticità della situazione : « vorrei ora fermarmi un momento sulla comparazione dei beni di cui si tratta : uno recuperabile, sia pure a caro prezzo, la libertà ; l’altro, in nessun modo recuperabile, la vita » ; � « se fossi nella tua condizione non accetterei mai di dire di sì all’uccisione, di pagare con la vita la prigionia che non si crede di poter interrompere. Ma stai bene attento alla scala dei valori » ; � « poiché si tratta di problemi di coscienza [...], desidero dirti, per così dire, solennemente che la proposta di scambio od altro simile, specie se attuata immediatamente, sarebbe stata la meno onerosa per la D.C. Aggiungo che tutte le altre saranno forzatamente più onerose e sarebbero perciò da evitare, se prevalesse, come dovrebbe prevalere, il buon senso » ; � « certo, è in questione un principio : ma anche i principi devono fare i conti con la realtà » ; � « essi non si rendono conto quanti guai verranno dopo e che questo è il meglio, il minor male almeno » ; � « nella sostanza, nel merito delle cose cioè sono le circostanze che debbono indurre a valutare che cosa sia conveniente fare nel rispetto della vita, nel rapporto tra detenzione ed uccisione, nella tutela dei giusti interessi dello Stato, nel riconoscimento delle ragioni umanitarie » ; � « il fatto è che vi sono circostanze eccezionali, nelle quali il raggiungimento degli obiettivi normali risulta altamente costoso e va in particolare a detrimento di altri beni e valori, che, di per sé, meritano di essere tutelati. Sapendo con certezza che, per giungere ad un certo risultato, devono essere compiuti sacrifici gravi o gravissimi e travolte cose che hanno un pregio in sé, sapendo che, per raggiungere un fine di giustizia, vite innocenti devono essere sacrificate, io credo che sia doveroso fermarsi un momento a valutare e comparare », � e così via.

Non so se, in relazione alla tragica vicenda del sequestro e dell’uccisione, qualcu-no abbia mai chiamato in causa le parole pronunciate da Moro in veste di segretario del partito al Consiglio nazionale della Dc, il 29 luglio del 1963. Si tratta di un discor-so importante : �0 siamo, come è noto, ai tempi del primo governo Leone, per il quale sono state coniate etichette che, pur nella loro singolare varietà, �� servono tutte a

� Moro, Discorsi parlamentari, ii, cit., p. 827. � Moro, Scritti e discorsi, v, cit., p. 2920.� Doc. 57, p. 99 sg. Gotor. � Doc. 47, p. 85 Gotor.� Doc. 88, p. 163 Gotor. � Doc. 16, p. 29 Gotor.� Doc. 17, p. 32 Gotor. � Doc. 86, p. 158 Gotor.� Doc. 18, p. 35 Gotor. �0 Sul Consiglio nazionale Dc del luglio ’63 vd. spec. Baget Bozzo, Tassani, Aldo Moro, cit., pp.

80-86.�� Per il primo gabinetto Leone si è parlato, di volta in volta, di governo-ponte, di governo « balnea-

re », di monocolore « di tregua », di monocolore d’affari, di monocolore « d’attesa », e di altro ancora ; vd., p. es., Baget Bozzo, Tassani, Aldo Moro, cit., pp. 77 e 82 ; d’Auria, Gli anni della “difficile alternativa”, cit., pp. 177-180 ; Tamburrano, Storia e cronaca del centro-sinistra, cit., p. 249 ; Calandra, I governi della Re-pubblica, cit., pp. 201-203 ; P. Pombeni, I partiti e la politica dal 1948 al 1963, in Storia d’Italia, 5 : La Repubblica

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mettere in risalto la natura transitoria del governo entrato in carica il 21 giugno ; dopo un primo tentativo fallito, già nell’estate del ’63 Moro si preparava, in realtà, a guidare con successo il partito all’accordo che, di lì a pochi mesi, avrebbe portato alla ‘svolta storica’ e al primo governo di centrosinistra ‘organico’, da lui presieduto ; il discorso tenuto in occasione del Consiglio nazionale prepara il terreno alla defini-tiva affermazione del progetto, così lungamente incubato, e finalmente sul punto di realizzarsi. Nel discorso di replica, nel corso del quale Moro riflette a lungo, come si è già visto, sul rapporto tra necessità e libera iniziativa politica, cade la seguente, im-pressionante affermazione : � « Credetemi che io sono nello stato d’animo del prigio-niero, prigioniero di alcune esigenze e di alcune situazioni [...] Credo che nessuno quanto me vorrebbe essere libero da questa prigione anche se è una prigione fatta di cordialità e di comprensione ». � Anche se i brigatisti che lo avevano sequestrato e lo tenevano prigioniero non gli saranno apparsi altrettanto cordiali e comprensivi, il ricorso a una similitudine del genere resta pur sempre sintomatico della dramma-ticità con la quale Moro deve aver vissuto, da libero, l’obbligo di scegliere responsa-bilmente e per il meglio in situazioni ‘necessitate’. C’è dunque da chiedersi se, una volta prigioniero non più di « esigenze e situazioni », ma di terroristi pronti a tutto, nel momento in cui la responsabilità di scelte ‘necessitate’, e per questo difficili e coraggiose, � cadeva non più sulle sue spalle, ma, per una volta, su quelle di coloro i quali dall’esterno avrebbero dovuto fare qualcosa per liberarlo, Moro non si sia ricordato delle parole pronunciate tanti anni prima, con l’amarezza di chi scopre, a un tratto, l’inanità di ogni sforzo. �

1943-1963, a cura di G. Sabbatucci, V. Vidotto, Roma-Bari, Laterza, 1997, p. 240 sg. ; Scoppola, La repub-blica dei partiti, cit., p. 373.

� Opportunamente isolata e messa in risalto (anche se, come è ovvio, non in relazione alla vicenda del sequestro) in Baget Bozzo, Tassani, Aldo Moro, cit., p. 85.

� Moro, Scritti e discorsi, ii, cit., p. 1305.� Oltre che nei suoi discorsi e nei suoi scritti da libero, di ‘coraggio’ Moro parla spesso anche nelle

lettere dalla prigionia : vd., p. es., la lettera a Zaccagnini del 24 aprile (doc. 57, p. 100 Gotor : « Ci vuole un atto di coraggio senza condizionamento di alcuno. Zaccagnini, sei eletto dal Congresso. Nessuno ti può sindacare. La tua parola è decisiva. Non essere incerto, pencolante, acquiescente. Sii coraggioso e puro come nella tua giovinezza ») e la versione recapitata della lettera alla Democrazia cristiana (doc. 82, pp. 140-143 Gotor : « Non che non ci fosse materia da discutere. Ce n’era tanta. Mancava invece al Partito, al suo segretario, ai suoi esponenti il coraggio civile di aprire un dibattito sul tema proposto che è quello della salvezza della mia vita e delle condizioni per conseguirla in un quadro equilibrato [...] Tutte queste cose dove e da chi sono state dette in seno alla D.C. ? È nella D.C. dove non si affrontano con coraggio i problemi [...] È possibile che non vi sia una riunione statutaria e formale, quale che ne sia l’esito ? Possibile che non vi siano dei coraggiosi che la chiedano, come io la chiedo con piena lucidità di mente ? »).

� « Pensa ai sessanta giorni cruciali di crisi [...] Dio sa come mi son dato da fare, per venirne fuori bene. Non ho pensato no, come del resto mai ho fatto, né alla mia sicurezza né al mio riposo. Il Gover-no è in piedi e questa è la riconoscenza che mi viene tributata per questa come per tante altre imprese » : così recita un passo della lettera a Zaccagnini del 20 aprile (doc. 40, p. 73 sg. Gotor). E quanto all’ama-rezza, basti un passo della lettera alla moglie dell’8 aprile : « È incredibile a quale punto sia giunta la confusione delle lingue. Naturalmente non posso non sottolineare la cattiveria di tutti i democristiani che mi hanno voluto nolente ad una carica che, se necessaria al Partito, doveva essermi salvata accet-tando anche lo scambio dei prigionieri. Sono convinto che sarebbe stata la cosa più saggia. Resta, pur in questo momento supremo, la mia profonda amarezza personale. Non si è trovato nessuno che si dissociasse ? » (doc. 17, p. 32 Gotor). Meritano di essere ricordate qui, per altro verso, le lucide, durissime

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Ecco : al di là di ogni più o meno sensata tentazione dietrologica, sono sempre più convinto del fatto che il vero mistero del caso Moro stia in fondo tutto, assai più che nella pur singolarmente � caparbia, ostinata sordità opposta al tema dello scambio, nella circostanza che, per affermare la linea della fermezza, che era tranquillamente affermabile sulla base di ben altri argomenti, si sia invece deciso da subito di proce-dere al sistematico sgretolamento del rapito, alla sua più radicale delegittimazione umana e politica. A leggere le lettere di Moro con l’attenzione che avrebbero me-ritato, cercando di distinguere, cioè, tra ciò che esse contenevano di spurio (non molto, in fondo, a considerare le circostanze) e il moltissimo che era invece, in esse, di autenticamente riconducibile alle coordinate che avevano caratterizzato, lungo l’arco di un’intera esistenza, la riflessione politica di chi le veniva vergando, sarebbe certo stato più difficile (già nei giorni del sequestro, e a maggior ragione più tardi, man mano che il corpus si arricchiva di nuovo materiale) disconoscerne l’autenticità « morale », attribuirle a un « povero diavolo » preoccupato soltanto « di salvarsi la pel-le e di tornare a tutti i costi a ciò a cui unicamente teneva, ossia la sua famiglia », � o a un ostaggio seviziato e drogato dai suoi sequestratori ; è dunque sperabile che l’edizione Gotor permetta finalmente, a trent’anni dai tragici fatti del marzo ’78, di recuperare in fretta il tempo perduto.

pagine recentemente scritte da Corrado Guerzoni a proposito del modo fallimentare in cui Stato e istituzioni gestirono lo « stato d’eccezione » determinato dal rapimento Moro : Guerzoni, Aldo Moro, cit., p. 202 sg.

� « quello che è stupefacente è che in pochi minuti il Governo abbia creduto di valutare il significato e le implicazioni di un fatto di tanto rilievo ed abbia elaborato in gran fretta e con superficialità una linea dura che non ha più scalfito [...] E poi questo rigore proprio in un paese scombinato come l’Italia » : così scrive Moro, tra sgomento e incredulità, nella lettera alla moglie dell’8 aprile (doc. 17, p. 31 Gotor).

� Moro, Anni Settanta, cit., p. 103 (ma è da leggere l’intero capitolo quarto [pp. 81-113], che reca il titolo « Fantasmi »).