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A partire da Severino Sentieri aperti nella filosofia contemporanea a cura di Stefano Sangiorgio Marco Simionato Luigi Tarca Contributi di Dario Berti Laura Candiotto Andrea Dal Sasso Tiziana Mattiazzi Federico Perelda Attilio Pisarri Andrea Sangiacomo Stefano Sangiorgio Marco Simionato Luigi Vero Tarca

Geometrie del nulla e spazio di Dio. Sui presupposti teologici dell’ateismo scientifico

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A partire da Severino

Sentieri aperti nella filosofia contemporanea

a cura di

Stefano SangiorgioMarco Simionato

Luigi Tarca

Contributi diDario Berti

Laura CandiottoAndrea Dal SassoTiziana MattiazziFederico Perelda

Attilio PisarriAndrea SangiacomoStefano Sangiorgio

Marco SimionatoLuigi Vero Tarca

Copyright © MMXVIAracne editrice int.le S.r.l.

[email protected]

via Quarto Negroni, 15

00040 Ariccia (RM)(06) 93781065

isbn 978-88-548-8449-6

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,di riproduzione e di adattamento anche parziale,

con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

Non sono assolutamente consentite le fotocopiesenza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: marzo 2016

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Geometrie del nulla e spazio di Dio. Sulla storia dei presupposti teologici

dell’ateismo scientifico1

ANDREA SANGIACOMO Abstract

This paper takes issue with the onto-theological presuppositions of Ste-

phen Hawking’s cosmology. I argue that Hawking’s position exemplifies and confirms Emanuele Severino’s interpretation of modern science as the histori-cal process of “destruction of the immutables”. Nonetheless, I challenge Sev-erino’s claim according to which the emergence of modern science consists in the progressive dismissal of the traditional religious world-view. To support this claim, I present Robert Boyles’ voluntarist theology as a counterexample to Severino’s philosophy of history. I contend that not only the so-called “Sci-entific Revolution” but also contemporary physics presupposes precise theo-logical commitments. These committments ought to be seriously investigated if we want to deepen the philosophical relevance of the scientific discussion.

1. La solitudine della scienza Come possiamo comprendere il mondo in cui ci troviamo? Come si comporta l’universo? Qual è la natura della realtà? Che origine ha tut-to ciò? L’universo ha avuto bisogno di un creatore? […] Per secoli questi interrogativi sono stati di pertinenza della filosofia, ma la filo-sofia è morta, non avendo tenuto il passo degli sviluppi più recenti della scienza, e in particolare della fisica. Così sono stati gli scienziati a raccogliere la fiaccola nella nostra ricerca della conoscenza. (Hawk-ing, Mlodinow 2011, p. 5)2.

1 Questo articolo, inizialmente sviluppato nel 2011, è stato portato a ter-

mine nell’ambito del progetto “Naturalism and Teleology in Spinoza’s Philo-sophy”, finanziato dalla Fritz Thyssen Stiftung e supervisionato da Martin Lenz presso l’Università di Groningen.

2 Con ciò, l’autore risponde per altro a quella che nel suo precedente e no-tissimo libro lasciava come una questione aperta: cfr. Hawking (2000, pp. 196-197).

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Così scrive Stephen Hawking nel suo The Grand Design. La

risposta che intende offrire agli interrogativi enunciati consiste nella sua interpretazione cosmologica della generazione sponta-nea dal niente dell’universo, con la quale, come è facile imma-ginare, si verrebbe a far piazza pulita della principale attività per cui Dio è sempre stato invocato come principio necessario: la creazione3.

In quanto segue, vorrei decostruire i diversi livelli a cui si costituisce una simile proposta, mostrando come il suo principa-le interesse stia in ciò che può insegnarci sul rapporto tra la scienza contemporanea e i suoi presupposti storici. Se il livello più esterno della tesi di Hawking è la raggiunta emancipazione della scienza dalla filosofia, vorrei mostrare (§2) che questa tesi è precisamente una tesi filosofica e anzi confermerebbe l’interpretazione che della scienza ha dato uno dei più radicali e discussi filosofi italiani del secondo Novecento, Emanuele Se-verino. Tuttavia, a un livello più profondo questa immagine del rapporto di superamento tra scienza e religione (condivisa da Severino e Hawking) appare problematica da un punto di vista storico. Per evidenziare tale problematicità (§3) mi limiterò a richiamare un controesempio significativo, rappresentato dalla figura di Robert Boyle. Concluderò quindi queste brevi note (§4) tentando di mostrare che se le rivendicazioni scientifiche più radicalmente ateistiche – nel senso proprio del termine – si sono storicamente costituite presupponendo una precisa conce-zione teologica, che ha reso possibile l’istaurarsi e lo sviluppar-si di certi orizzonti concettuali di cui figure come Hawking so-no oggi gli epigoni, allora è solo da una più attenta riconsidera-zione proprio della storia della scienza che bisognerà partire per tentare eventualmente vie alternative.

Prima però di articolare in dettaglio questo percorso, è ne-cessario richiamare almeno i punti salienti del discorso di Haw-

3 Su questo dibattito, che il discorso cosmologico di Hawking riprende

trattando più in generale del principio antropico, cfr. l’acuta rassegna offerta da Piovani (2006).

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king. Al di là del repertorio abbastanza usuale di argomenti, esempi e teorie fisiche passate in rassegna – relatività e mecca-nica quantistica, espansione dell’universo, teoria delle stringhe –, e di una pretesa rassegna “storica” sui precedenti filosofici della scienza moderna4, sono due gli assi portanti dell’argomentazione.

Il primo riguarda il metodo o meglio lo statuto epistemologi-co della “scienza moderna”, che Hawking presenta fin da subito in termini di «realismo dipendente da modelli»5, il quale pare in realtà nient’altro che una riproposizione in termini aggiornati di quello che in buona sostanza poteva essere il fenomenismo del-lo stesso Kant. Ma al di là della genealogia filosofica di questa idea – per la quale Hawking non mostra alcun interesse –, il punto da tener ben presente è che essa esclude che la scienza dica o conosca la realtà in sé. Quella della scienza è sempre e solo un’interpretazione della realtà che risulta in accordo con le osservazioni – ossia con ciò che appare, con i fenomeni – e ri-sponde a criteri di coerenza interna ed efficienza pratica.

Anzitutto, dunque, quanto Hawking viene esponendo come la verità della scienza, dovrà essere inteso come l’interpretazione che la scienza offre della realtà in accordo con i fenomeni osservabili. Qual è la verità di questa interpretazio-ne? Si tratta forse di una certezza assoluta? La risposta è negati-va e non soltanto per lo statuto epistemico del ragionamento scientifico – per sua natura ipotetico, sostituibile da modelli al-ternativi o smentibile da nuove esperienze – ma anche e soprat-tutto per i contenuti che la fisica del Novecento è venuta pro-vando. Il richiamo è evidentemente all’abusato – perché troppo spesso richiamato nei dibattiti contemporanei ma forse ancora troppo poco compreso in tutte le sue implicazioni – principio di

4 Il testo di Hawking nel suo insieme si segnala per la scarsa attenzione all’esattezza storiografica (cfr. ad es. Hawking, Mlodinow 2011, p. 20), che per altro sembra una pecca comune di molta saggistica di divulgazione scien-tifica, interessata a servirsi della storia più per fini di legittimazione ideologica che non per produrre una migliore comprensione (cfr. ad es. Steinhardt, Turok 2010, p. 180).

5 Cfr. Hawking, Mlodinow (2011, p. 7).

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indeterminazione che sta alla base della meccanica quantistica6. La scienza non è incerta solo perché in quanto ipotesi o modello non dice la realtà in sé, ma è intrinsecamente indeterminata per-ché nei suoi sviluppi novecenteschi giunge a pensare che gli oggetti stessi del suo sapere – o più esattamente tutto ciò che esiste a livello atomico e subatomico – siano in se stessi qualco-sa di indeterminato. Il nuovo determinismo cui accenna Haw-king è di fatto un probabilismo, ossia concepisce ogni stato rea-le come una mera probabilità.

Le implicazioni di questa interpretazione sono enormi e, in particolare, rendono possibili le conclusioni radicali che costi-tuiscono il secondo punto saliente del saggio. Se ogni stato fisi-co, almeno a livello dell’infinitamente piccolo, non è che uno stato probabile, naturalmente questo esclude che sia scientifi-camente sensato affermare di esso che sia in qualche modo ne-cessario. La necessità è la negazione della probabilità, in quanto indica ciò che è e non può non essere così, cioè, ancora, la cer-tezza. Ma la scienza contemporanea, in quanto fondamental-mente probabilistica, esclude metodologicamente e contenuti-sticamente l’idea di certezza.

Ci sono due corollari che Hawking connette a questa idea. Il primo consiste nel pensare – secondo l’intuizione di Richard Feynman – che in realtà gli stati quantistici non si realizzano uno a esclusione dell’altro, ma si realizzano tutti, e Hawking non fa che estendere questa idea non a singoli stati di particelle subatomiche, ma all’universo intero: «l’universo non ha un’unica storia, ma tutte le storie possibili, ciascuna con la pro-pria probabilità» (Hawking, Mlodinow 2011, p. 79).

Il secondo corollario riguarda invece la spiegazione di come sia possibile che un universo come il nostro esista. Questa volta, Hawking riprende ed espone il cosiddetto principio antropico7, sintetizzabile nelle due formulazioni seguenti. Versione debole: la vita e l’esistenza dell’uomo non sarebbero possibili in condi-

6 Cfr. Hawking, Mlodinow (2011, p. 68). 7 Per un’esposizione completa del quale, al di là dell’anonimato con cui

viene presentato da Hawking, cfr. Barrow, Tipler (2002).

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zioni ambientali differenti – per esempio se la distanza terra-sole fosse molto diversa da quella attuale –, sicché non in ogni sistema solare è possibile la vita e quella vita intelligente che è realizzata dall’uomo. Versione forte: la vita e l’esistenza dell’uomo non sarebbero possibili se le leggi della fisica e le costanti di natura fossero diverse da come sono – per esempio tali da non consentire la formazione di elementi chimici come il carbonio e la loro propagazione nell’universo –, sicché la vita e quella vita intelligente rappresentata dall’uomo è possibile solo in questo universo. Dal che si potrebbe inferire: dunque questo universo è disegnato affinché l’uomo possa esistere. È questo ciò che sta al fondo dell’argomento dell’intelligent design, uti-lizzato recentemente a favore del creazionismo, ma che in so-stanza ripropone il tradizionalissimo argomento teleologico al quale ancora lo stesso Kant riconosceva la maggior verisimi-glianza.

L’intento di Hawking è però quello di mettere fuori gioco una simile inferenza, basandosi sull’idea di multiverso, cioè sul-la realizzazione di tutti gli universi possibili, rispetto ai quali il nostro non sarebbe l’unico anche se è l’unico nel quale noi pos-siamo trovarci e abitare:

l’universo è comparso in modo spontaneo, iniziando in ogni modo possibile. La maggior parte di questi modi corrisponde ad altri univer-si. Sebbene alcuni di questi universi siano simili al nostro, gran parte di essi sono assai differenti. […] In effetti esistono molti universi con molti insiemi differenti di leggi fisiche. C’è chi considera assai miste-riosa questa idea, cui a volte ci si riferisce con il termine “multiverso”, ma si tratta semplicemente di un altro modo di parlare della somma sulle storie di Feynman. (Hawking e Mlodinow 2011, p. 130). Dal che Hawking ha buon gioco a inferire: come le coincidenze ambientali del sistema solare furono rese irrile-vanti dalla constatazione che esistono miliardi di sistemi analoghi, co-sì le regolazioni fini delle leggi di natura possono essere spiegate dall’esistenza di universi multipli. […] Il concetto di multiverso può spiegare la regolazione fine della legge fisica senza bisogno di un

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creatore benevolo che abbia fatto l’universo a nostro vantaggio. (Ha-wking e Mlodinow 2011, pp. 156-157)8. Oltre al rifiuto dell’argomento teistico tratto dal disegno in-

telligente, la vera tesi che diviene il centro dell’interpretazione di Hawking è quella della generazione spontanea dell’universo dal nulla. In quanto tale, si tratta di una conseguenza dell’applicazione dell’indeterminismo quantistico al problema dell’origine dell’universo, ma nella sua forma più estesa e ar-gomentata, viene presentata in conclusione come segue:�

un requisito necessario di qualsiasi legge di natura è che deve imporre che l’energia di un corpo isolato circondato dallo spazio vuoto sia po-sitiva, il che significa che si deve compiere lavoro per mettere insieme il corpo. Questo perché, se un corpo isolato avesse energia negativa, potrebbe essere creato in uno stato di moto tale che la sua energia ne-gativa sia esattamente controbilanciata dall’energia positiva dovuta al suo moto. Se fosse così, non ci sarebbe nessuna ragione per cui i corpi non possano comparire in qualsiasi luogo e dappertutto. Lo spazio vuoto sarebbe pertanto instabile. Ma se ci vuole energia per creare un corpo isolato, l’instabilità non può verificarsi, perché, come si è detto, l’energia dell’universo deve rimanere costante. Questo è ciò che oc-corre per rendere l’universo localmente stabile, per fare in modo che le cose non compaiano dovunque semplicemente dal nulla. Se l’energia totale dell’universo deve rimanere sempre uguale a zero, e occorre energia per creare un corpo, come può un intero universo ve-nire creato dal nulla? Questa è la ragione per cui deve esserci una leg-ge come quella di gravità. Poiché la gravità è attrattiva, l’energia gra-vitazionale è negativa: si deve compiere lavoro per separare un siste-ma gravitazionalmente legato. Questa energia negativa può bilanciare l’energia positiva necessaria per creare la materia. […] Un corpo co-me una stella avrà più energia gravitazionale negativa, e quanto più piccola è la stella […], tanto maggiore sarà l’energia gravitazionale negativa. Ma prima che possa diventare maggiore dell’energia positi-va della materia, la stella subirà il collasso in un buco nero, e i buchi neri hanno energia positiva. Questa è la ragione per cui lo spazio vuo-to è stabile. Corpi come le stelle o i buchi neri non possono emergere d’improvviso dal nulla. Ma un intero universo può farlo. Siccome pla-

8 Per una discussione più estesa di questo punto e della spiegazione stret-

tamente “scientifica” della regolazione fine dell’universo – che cioè non fac-cia ricorso all’intervento divino –, cfr. Susskind (2007).

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sma lo spazio e il tempo, la gravità consente che lo spaziotempo sia localmente stabile ma globalmente instabile. Sulla scala dell’intero universo, l’energia positiva della materia può essere controbilanciata dall’energia gravitazionale negativa, e quindi non ci sono restrizioni alla creazione di interi universi. Dal momento che c’è una legge come quella di gravità, l’universo può crearsi dal nulla […] e lo fa. La crea-zione spontanea è la ragione per cui c’è qualcosa invece di nulla, per cui esiste l’universo, per cui esistiamo noi. Non è necessario appellarsi a Dio per accendere la miccia e mettere in moto l’universo. (Hawking e Mlodinow 2011, pp. 169-171). La stabilità locale è solo un effetto secondario dell’instabilità

cosmica generale. Non ci potrebbe essere modo più radicale di affermare l’assoluta contingenza dell’esistenza dell’universo. L’idea di spontaneità qui impiegata non può infatti voler dire niente altro che questo: la ragione dell’esistenza dell’universo è la mera possibilità della sua esistenza, cioè una probabilità non nulla. Questa esistenza non ha tuttavia una ragione certa: l’esistenza dell’universo non è necessaria, ma può accadere e quindi accade – visto che accadono tutte le possibilità. In questa spontaneità, in definitiva, c’è nient’altro che una chiusura dell’universo su di sé: l’universo c’è perché c’è, non c’è invece una ragione ulteriore – Dio? – o almeno non è necessario farvi ricorso. Il nulla qui evocato è esattamente questa assenza di fondamento ulteriore, cioè l’assenza di ogni fondamento.

C’è però un’altra interessante conseguenza che Hawking non esplicita ma che è operante nella sua impostazione. Se l’universo nel suo insieme è intrinsecamente instabile, tanto che la sua esistenza non dipende da nient’altro che da una fluttua-zione quantistica probabilistica, cioè appunto non dipende da niente, ma accade a caso – cioè senza ragioni ulteriori –, questo va detto non soltanto della sua origine iniziale ma anche della sua sussistenza. L’instabilità non può infatti riguardare soltanto l’inizio: se l’universo è instabile nel suo complesso, allora deve essere instabile in ogni istante. Ciò significa che l’universo po-trebbe annichilirsi in ogni istante, spontaneamente, esattamente come si è generato. Questa è la vera conseguenza radicale e di enorme importanza di cui Hawking si fa portavoce e che costi-

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tuisce la risposta della scienza alle domande a cui la filosofia non avrebbe saputo dare risposta9.

Tuttavia, il caso vuole – con la sua consueta ironia –, che questa immagine così forte e così fortemente critica della filoso-fia, sia l’esatta e fedele trascrizione di quanto proprio un filoso-fo a tutt’oggi vivente, Emanuele Severino, ha teorizzato essere l’essenza della scienza contemporanea. Quella di Severino, chiaramente, è un’interpretazione della scienza, cioè, nei termi-ni di Hawking, un modello, o forse, più propriamente, un meta-modello, in quanto offre una visione per così dire “dall’alto” sulla direzione complessiva del discorso che abbiamo appena preso in esame. Ma proprio per questo sarà allora interessante richiamarla per sommi i capi, per individuare le linee di forza dell’interpretazione scientifica del mondo, le sue radici, le sue mete e, soprattutto, le sue presupposizioni implicite.

2. La fede della scienza Per Severino l’Occidente nasce lasciandosi alle spalle il sentiero del giorno e imboccando il sentiero della notte che Parmenide per primo aveva distinto: è la fede nell’essenziale nullità di tutte le cose a governare ogni grande svolta filosofica, sociale, politi-ca, culturale di cui la nostra storia è depositaria10. Che le cose siano niente, cioè che sorgano e tornino nel niente, è necessa-riamente una fede. Dal punto di vista ontologico, infatti, è asso-lutamente impossibile che un ente sia niente. È allora proprio per questa impossibilità che la fede nichilistica dell’Occidente non solo si costituisce come fede – quindi come credenza, isola-

9 Per una visione affine a quella di Hawking e un analogo uso del concetto

di “nulla” nella fisica contemporanea cfr. Close (2011). 10 Per i fondamenti ontologici e teoretici di questa interpretazione, cfr. Se-

verino (1980a, [1972] 1982, 1995, 2001, 2007, 2011). Sui fondamenti del di-scorso severiniano cfr. anche Sangiacomo (2007, 2008). Sta per altro a Visen-tin (2011) il merito – storiografico e teoretico – di aver restituito la cornice di quel pensiero italiano in cui si inscrive la proposta severiniana.

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ta rispetto alla Verità –, ma deve pure collocarsi a un livello in-conscio della nostra cultura11.

Ora, questa fede anima già le espressioni religiose della Gre-cia, là dove la figura del Dio è evocata per porre gli uomini al riparo dalla minaccia angosciosa del divenire e dell’annientamento12. È il dolore del mondo a spingere gli uo-mini a cercare rifugio in Dio. Tuttavia, secondo Severino, il Dio delle religioni serve in qualche modo a neutralizzare la potenza annientatrice del divenire, senza però riuscire a sconfiggere la fede di chi crede in questo divenire. Nelle parole che evocano il Dio è già inscritto il convincimento che il Dio debba salvarci dal diventar niente, sicché ogni preghiera a lui innalzata è un’affermazione che noi crediamo in questo supremo abisso.

È tale paradossalità che spinge la storia dell’Occidente a configurarsi, soprattutto a partire dalla modernità, come una storia della progressiva distruzione di tutti gli immutabili. Poi-ché la stessa credenza in Dio si fonda sulla fede nichilistica del-la nientità delle cose, nemmeno un Dio può veramente salvarci, perché in fondo la realtà non è quel dominio dell’immutabile in cui Dio abita, ma il mondo del divenire a cui noi siamo condan-nati. In tal senso, l’annuncio nietzschiano che Dio è morto è una necessaria presa di coscienza storica di quella che in fondo è una conseguenza logica: se tutto è niente, anche Dio non può che finire nel niente13.

L’onnivora fede nichilistica che definisce inconsciamente l’identità dell’Occidente – e oggi in buona parte l’identità del nostro pianeta –, non ha avuto difficoltà ad inglobare il messag-gio religioso semitico, estraneo alle categorie dell’ontologia greca: la lunga assimilazione che Atene ha fatto di Gerusalem-me14, per così dire, ha trasformato il cristianesimo stesso, prima ancora che in una filosofia – o una soluzione filosofica al pro-

11 Sul tema della fede e sul suo rapporto con la Verità, di particolare perti-

nenza con il discorso qui svolto è Severino (1978). 12 Cfr. Severino (1989). 13 Cfr. Severino (1980b, p. 20). 14 Su questo processo di assimilazione cfr. Girgenti (2011).

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blema dell’annientamento – nell’ennesimo strumento di difesa di cui l’Occidente aveva bisogno. Strumento inefficace, tutta-via.

Ma cosa nella modernità rende veramente possibile questa distruzione degli immutabili? La coscienza nichilistica dell’Occidente fa un passo avanti nell’ammissione della propria fede inconscia, e inizia a rivendicare la necessità di prendere se-riamente in conto il mondo del divenire. Questa necessità è quella che per Severino sta all’origine della scienza moderna. Certo, al suo sorgere la scienza stessa sembra porsi come uno degli immutabili della tradizione – ennesima riproposizione dell’episteme greca –, ma in breve tempo essa diventa la voce del divenire15.

La scienza sembra avere infatti due punti di forza rispetto al-la soluzione religiosa. Anzitutto, non si oppone al divenire, ma cerca di parlarne il linguaggio: la scienza non nasce per negare il divenire ma per comprenderlo, e il suo oggetto non è un mon-do immutabile separato da questo, ma esattamente questo nostro mondo sospeso sul niente.

In secondo luogo, la scienza mostra quasi subito e in modo esponenzialmente sempre più marcato, la propria efficacia tec-nica, cioè la propria capacità operativa non solo di comprendere il divenire ma anche di indirizzarlo al fine del potenziamento dell’azione umana. Per dirla in termini nietzschiani, la scienza, scoprendo la propria efficacia operativa, diventa la nuova solu-zione al dolore umano e il nuovo strumento della volontà di po-tenza.

L’efficacia tecnica non è casuale: proprio perché la scienza non nega il divenire ma cerca di comprenderlo, ha anche la ca-pacità di agire al suo interno e indicare i modi per intervenire nel processo universale di creazione e distruzione di tutte le co-se, per indirizzarlo a favore degli uomini e del loro desiderio di salvezza. Il paradiso della tecnica che oggi la scienza ci propone è la nuova soluzione al problema ancestrale del dolore che l’uomo avverte sapendosi destinato all’annientamento. In tal

15 Cfr. Severino (1980b, pp. 29-39).

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senso, la tecno-scienza è oggi il nuovo Dio, che può mantenere la sua promessa di salvezza perché non nega, ma asseconda e comprende la fede fondamentale dell’Occidente.

Insomma: l’episteme non riesce a dominare perché la novità imprevedibile di ciò che incomincia ad essere rompe le reti immutabili che la previsione dell’episteme getta sul divenire del mondo. La previsione scientifica ha successo, perché nella propria essenza nascosta essa è innanzitutto il riconoscimento dell’imprevedibilità e della novità di ciò che inco-mincia ad essere, ossia è il riconoscimento che l’evento viene da nien-te ed essendo niente è assolutamente imprevedibile. (Severino 1980b, pp. 35-36). Ma se questo era l’arco generale che l’interpretazione seve-

riniana descrive nel suo complesso, vale la pena soffermarsi un poco su alcuni punti fondamentali relativi alla formazione del sapere scientifico moderno e al suo rapporto con Dio.

Anzitutto, la scienza stessa attraversa il processo di distru-zione degli immutabili, assumendo la sua odierna fisionomia solo dopo che essa medesima ha rinunciato a porsi come forma di epistéme. In tal senso, se pure la scienza non nasce stretta-mente come sapere ipotetico-deduttivo e fondamentalmente probabilistico – cioè alieno da ogni pretesa immutabilità –, la sua evoluzione la porta ben presto in questa direzione.

In secondo luogo, lo smaltimento da parte della scienza della propria autocomprensione come sapere immutabile, fa tutt’uno con la sua emancipazione dal piano teologico-metafisico. Per dirla in uno slogan: Laplace segna l’atto di maturazione dell’autocoscienza scientifica come sapere autonomo dal piano teologico.

Ora, non è difficile vedere le ragioni che fanno del discorso di Hawking prima richiamato un emblema estremamente espli-cito di questo atteggiamento fondamentale. La proclamata mor-te della filosofia nonché l’inutilità del ricorso all’esistenza di Dio per spiegare l’esistenza del cosmo sono esattamente quella distruzione degli immutabili che il sapere scientifico opera ri-spetto alla tradizione. Sapere scientifico che, come Severino ben

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vede e come Hawking ammette senza remore, è un sapere ipote-tico e alieno da ogni forma di certezza, non solo per motivazio-ni metodologiche, ma anche perché arriva a pensare gli oggetti stessi del suo sapere come intrinsecamente incerti, cioè prove-nienti e destinati al niente, privi di fondazione necessaria, mere probabilità.

Anzi, Hawking si spinge ancora oltre affermando che l’universo nel suo insieme è intrinsecamente instabile nell’essere, cioè spontaneamente sorto dal niente, e pertanto co-stantemente pronto a farvi ritorno senza alcuna ragione incon-trovertibile. C’è una probabilità non nulla che il cosmo si an-nienti da un momento all’altro e quindi ciò avverrà. L’esistenza dell’universo in questo istante presente non garantisce in nessun modo l’esistenza dell’universo l’istante successivo. Se Descar-tes usò esattamente questo argomento per sostenere la tesi della creazione continua da parte di Dio e quindi la necessità della sua esistenza, Hawking non ha problemi a non scorgere più al-cuna contraddizione nell’assoluta infondatezza e contingenza del tutto e quindi può ritenere inutile tale ipotesi.

Pertanto, il discorso di Hawking pare non solo una verifica della validità dell’interpretazione severiniana della scienza co-me sapere del divenire, ossia realizzazione esplicita della fede dell’Occidente nella nullità di tutte le cose – e anzi del Tutto in quanto tale –, ma anche dell’idea che il sapere scientifico superi la visione teologica del mondo e si costituisca infine come uni-co e ultimo sapere disponibile per gli abitatori dell’Occidente.

È però esattamente su quest’ultimo punto – il superamento e quindi la contrapposizione netta tra scienza e religione – che occorrerebbe riflettere meglio. Fin qui abbiamo presentato nelle sue linee generalissime quella che può a buon diritto essere pre-sentata come la filosofia della storia proposta da Severino, ossia l’interpretazione che la sua filosofia fornisce dell’accadere sto-rico dell’Occidente16.

16 È importante insistere sul fatto che si tratti di un’interpretazione giacché

questo atto dell’interpretare si costituisce fuori da quella dimensione dell’incontraddittorietà che il cuore del discorso severiniano guarda e richia-

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Il limite di questa interpretazione consiste proprio nell’eccessiva semplificazione che opera circa il rapporto tra religione e scienza, quantomeno in età moderna. Non è storica-mente vero, infatti, che Dio abbia rappresentato sempre e solo la dimensione dell’eterno, immutabile, luogo sicuro ove metter-si in salvo dal divenire. Al contrario, diverse e cospicue tradi-zioni teologiche hanno rivendicato a Dio un ruolo completa-mente diverso e oggi la ricerca storiografica ha acquisito consi-stenti prove che proprio tali tradizioni sono state alla base della formazione di quell’idea di scienza – cioè di un sapere ipoteti-co-deduttivo di per sé non incontraddicibile ma volto alla modi-ficazione tecnico-pratica della realtà – che ha segnato la nostra modernità e di cui figure come Hawking sono gli eredi. L’Occidente ha pensato il niente anche nel cuore di Dio, e la cosiddetta “rivoluzione scientifica” segna un naturale sviluppo e non una rottura rispetto a tale pensiero. Ma non c’è modo mi-gliore per presentare concretamente questo nesso che mostran-done una sua incarnazione emblematica: Robert Boyle.

3. Volontarismo, contingentismo e nichilismo Robert Boyle è una figura di primissimo piano nel panorama di quella “nuova filosofia della natura” che si è spesso soliti ridur-re sotto la categoria storiografica di “rivoluzione scientifica”. Nato nel 1627 e morto nel 1691, fu contemporaneo di Galileo, Descartes, Spinoza, Hobbes, Leibniz, Huygens, nonché di New-ton e amico del giovane Locke. Fu pure tra i membri fondatori

ma. L’interpretazione è anzi contraddicibile proprio nella misura in cui essa medesima è una struttura ipotetico-deduttiva. Contraddire un’interpretazione non significa contraddire il Destino della Verità, quindi è possibile – logica-mente, ontologicamente e storicamente – contraddire anche l’interpretazione severiniana senza essere tacciati dall’interno stesso del suo discorso di assur-dità. Cfr. Severino (2006, p. 193): «l’interpretazione che porta alla luce la “storia dell’Occidente” dal pensiero greco al paradiso dell’Apparato, non ap-partiene al destino. Come ogni interpretazione è smentibile». Sul tema cfr. in particolare pp. 193-212.

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della Royal Society di Londra, ma quel che più conta, la sua ri-flessione insieme scientifica, filosofica e teologica, fu una tra le più importanti nel quarantennio che separa la fase “cartesiana” della scienza moderna – con la pubblicazione dei Principi della filosofia nel 1644 – e l’affermazione della versione “newtonia-na” che diverrà poi canonica – con la pubblicazione dei Principi matematici della filosofia naturale nel 168617.

All’interno della produzione boyliana si possono distinguere almeno due filoni strettamente intrecciati. Il primo è quello più segnatamente scientifico: si tratta delle opere dove viene pre-sentata l’ipotesi corpuscolare o meccanicistica, cioè la conce-zione boyliana della materia e delle qualità che fa da sfondo alle sue numerose e variegate ricerche empiriche18. Il secondo è quello invece più filosofico e teologico: è costituito dalle opere esplicitamente dedicate a mostrare perché la ricerca scientifica non solo non sia in contraddizione con la pratica tradizionale della religione cristiana ma possa esserne al contrario un ele-mento di supporto19. Come è facile immaginare, questi due filo-ni non restano separati ma vivono di una costante osmosi. �

Uno degli argomenti apologetici più comuni invocati da Boyle a favore dell’utilità teologica del meccanicismo è la sua intrinseca insufficienza a rendere ragione del mondo. Si tratta di un argomento che era in parte già proprio di Descartes, ma di cui Boyle si serve spesso per mostrare come, partendo unica-mente dal concetto di materia, da un lato sia necessario ricorrere a Dio per spiegare la presenza in essa del movimento, e dall’altro per spiegare lo stato attuale del mondo e l’ordine che vi si riscontra. Su questo punto, per altro, s’innesta la rivendica-zione del tutto anti-cartesiana dell’utilità e della necessità del

17 Per un aggiornato profilo biografico di Boyle, cfr. Hunter (2009). 18 Le opere più importanti in questo senso sono i Certain Physiological

Essays (1661: in Boyle 1999-2000, vol. 2), il Chimico scettico (1661), e l’Origine delle forme e delle qualità (1666), questi ultimi tradotti in Boyle (1977).

19 In particolare, cfr. The excellency of Theology (1674: in Boyle (1999-2000), vol. 8), il Virtuoso Cristiano (1690, in Boyle 1977) e soprattutto Boyle (2002).

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ricorso alle cause finali per spiegare in modo intelligibile i fe-nomeni naturali.

È questa in fondo la formulazione secentesca di quello che abbiamo visto esporre da Hawking come principio antropico: non una qualunque conformazione del mondo rende possibile lo stato attuale e in particolare l’esistenza dell’uomo, quindi è ne-cessario che vi sia un disegno (divino) che sopraintenda e stabi-lisca ad hoc le leggi di natura. A questo argomento, tuttavia, Hawking risponde al modo in cui rispondeva già Descartes: po-co importa quale sia lo stato iniziale dell’universo, giacché esso dovrà comunque realizzare tutte le forme possibili20. E oggi gli strumenti matematici messi in gioco dalla meccanica quantistica permettono, come s’è visto, di dare una forma e una cogenza argomentative supplementari a una simile risposta.

Boyle offre però anche un argomento più generale e più inte-ressante che mostra in parte la sua persistenza anche nel discor-so di Hawking e della scienza contemporanea. Si tratta della concezione propriamente teologica difesa dal filosofo inglese, la quale consiste in una forma rigorosa di volontarismo21. Per darne una definizione sommaria, il volontarismo teologico ten-de a valorizzare in Dio l’attributo della volontà rispetto a quello dell’intelletto. Ne segue una marcata sottolineatura della poten-

20 Cfr. Principi della filosofia, III, 47, in Descartes (2009), p. 1871: «sa-

rebbe difficile supporre qualcosa da cui non possa dedursi attraverso medesi-me leggi della natura un medesimo effetto (anche se forse in modo più labo-rioso): infatti poiché per opera di esse la materia assume successivamente tutte le forme di cui è capace, ebbene, se considereremo queste forme con ordine, potremo infine giungere a quella che appartiene a questo mondo».

21 Lo studio più approfondito e documentato sulla teologia di Boyle e il suo rapporto con l’epistemologia e la pratica sperimentale resta quello di Wo-jcik (1997). In esso si mette per altro ben in luce la differenza fondamentale del volontarismo di Boyle rispetto a quello di Descartes: mentre per quest’ultimo l’assoluta libertà di Dio si combina comunque con l’immutabilità e la costanza dei suoi decreti, facendo della stessa libera creazione delle verità eterne di fatto una possibilità controfattuale, Boyle non pone alcun accento particolare su tale immutabilità, ammettendo anzi la possibilità reale di un in-tervento divino che muti il corso ordinario della natura, come avviene nei fe-nomeni miracolosi.

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za assoluta di Dio di fare assolutamente tutto ciò che vuole, senza trovarsi vincolato a criteri di giustizia, bontà o saggezza che gli siano estranei: ciò che è buono, giusto o saggio lo è solo perché Dio ha voluto che fosse così. Ne segue che Dio opera soltanto per libera volontà, ossia i suoi decreti vanno intesi co-me una sua suprema e ineffabile decisione. Essendo tale libertà assoluta, non c’è alcuna norma o alcun principio – nemmeno il principio di non contraddizione – a cui Dio sia sottomesso o dal quale si possano dedurre a priori le sue azioni.

Essendo il mondo opera di un Dio così concepito, il mondo è dunque una realtà assolutamente contingente e contingenti sono parimenti le sue leggi e i suoi fenomeni. Dio ha voluto che esi-stessero ad esempio certe leggi che regolano il moto dei corpi. Ma avrebbe tranquillamente potuto volerne delle altre, o po-trebbe smettere di volerle, o potrebbe volerle modificare. In tal senso, il volontarismo teologico non solo pensa il mondo come il luogo stesso dell’infondatezza radicale, ma fa di Dio medesi-mo un ente in sé svincolato da qualsiasi necessità e quindi, in questo senso, infondato. Tutto ciò che possiamo sapere di Dio – compreso in parte il fatto che esiste non in senso generico ma come Dio Padre Onnipotente – è ciò che lui stesso ha libera-mente scelto di rivelarci, affidandoci la Sacra Scrittura.

Con ciò, il volontarismo non è riducibile a una semplice tap-pa – magari ancora soltanto teologica – del processo di distru-zione degli immutabili. Ben più radicalmente, il volontarismo mostra un’implicazione profonda e originaria tra l’esistenza dell’immutabile e la contingenza assoluta dei suoi effetti. Preso al suo fondamento, il volontarismo è anzi una forma di quel pensiero dell’immutabile secondo cui l’assoluto e l’infinito non possono essere tali se non rendendo del tutto contingente ogni effetto e ogni espressione che ne possa seguire.

Da diversi anni gli storici della scienza si sono resi conto che simili concezioni non sono fatte per restare confinate ai dibattiti teologici ma hanno condizionato alcuni dei caratteri peculiari della scienza moderna e in particolare della tradizione inglese. In estrema sintesi, è proprio questo contingentismo radicale che rende impossibile ogni deduzione a priori dei fenomeni naturali

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e delle leggi della fisica – secondo la via cartesiana della scien-za moderna –, costringendo per contro alla pratica e allo svilup-po di un metodo sperimentale. D’altro canto, l’imperscrutabilità di Dio e quindi dell’origine delle cose, fa sì che il nostro intel-letto non disponga affatto di un accesso immediato alla realtà naturale, ma possa approssimarla solo costruendo ipotesi e mo-delli da sottoporre poi a verifica empirica22.

Entrambi i punti sono ben rappresentati dal discorso di Boyle e costituiscono anzi due prerogative della sua riflessione teologica. Per darne un’esemplificazione ci limiteremo al Di-scorso sulle cose soprarazionali (1681), una delle sintesi più efficaci del pensiero boyliano su questi temi:

in realtà non siamo che degli esseri creati e finiti (e probabilmente neppure appartenenti a uno degli ordini più alti di creature intellettua-li) e veniamo al mondo solo come piace farci all’onnipotente e assolu-tamente libero autore della nostra natura. Da questa dipendenza e limi-tatezza delle nostre nature segue non solo che il fatto che siamo nati con certe nozioni e impressioni congenite e appetiti o tendenze della mente, è possibile […], ma anche che i mezzi o misure di cui siamo dotati perché li impieghiamo nel ricercare la verità o nel giudicare di essa, sono solo rapportabili ai disegni di Dio nel crearci. Pertanto si può probabilmente supporre che non siamo capaci di arrivare a tutte le specie o, se preferite, non siamo capaci di verità, molte delle quali può non essere necessario che noi le si conosca qui […]. Sembra pertanto non irragionevole pensare sia che Dio abbia fatto le nostre facoltà così limitate, affinché nella nostra attuale condizione mortale ci siano alcu-ni oggetti al di là della comprensione dei nostri intelletti […], sia, nondimeno, che egli ci abbia dato abbastanza luce da percepire che di esse non possiamo raggiungere una conoscenza chiara e piena. (Boyle 2002, pp. 80-81). L’autore onnipotente e assolutamente libero è chiaramente

svincolato dalla soggezione a ogni principio a lui superiore. Il senso del discorso di Boyle sta proprio nel dire che non è lecito a noi esseri finiti dire che Dio non potrebbe fare qualcosa per-ché a noi pare ad esempio contraddittorio e quindi inintelligibi-

22 Per una panoramica generale sulla scienza inglese, cfr. Henry (1986);

sul contingentismo di Boyle, cfr. invece Anstey (2000, pp. 158-186).

264 Andrea Sangiacomo

le. Questo è infatti ciò che appare al nostro intelletto finito, il quale non è stato però creato per conoscere adeguatamente l’essenza della realtà e penetrare nei piani imperscrutabili di Dio. Ciò significa che Dio può creare il mondo dal nulla, anche se noi non possiamo comprendere come. Più in generale, Dio non è sottomesso a nessun vincolo di coerenza o al rispetto di alcun principio, ma siamo noi che, dati i nostri limiti, dobbiamo riconoscere l’esistenza di cose soprarazionali, cioè percepibili ma non comprensibili. Non solo quindi Dio può fare cose – per noi – assurde, ma noi stessi non abbiamo alcuna certezza asso-luta in merito alla realtà e alla natura né delle cose né di Dio.

Da sottolineare in questo discorso è appunto l’implicazione tra la nostra finitudine e la necessità di pensare una natura divi-na che per essere realmente tale non può pensarsi soggetta ai nostri stessi limiti. In tal senso, la contingenza del mondo af-fermata dall’approccio volontarista di cui Boyle è qui interprete, non è una semplice estensione progressiva di una più o meno mal celata fede nella nullità di tutte le cose, ma l’esito ritenuto necessario di un pensiero che voglia affrontare fino in fondo l’istanza di definire le condizioni di pensabilità ancor prima che di possibilità per un ente realmente e autenticamente assoluto.

La teologia boyliana pone evidentemente l’esigenza di con-siderare un quadro più complesso di quello avanzato dall’interpretazione severiniana del processo di distruzione de-gli immutabili. Il costituirsi della scienza moderna, infatti, non si limita a sostituire un rimedio al dolore del divenire – il Dio tradizionale – con un altro – le applicazioni tecnico-pratiche della scienza stessa. Per di più, non c’è affatto una tradizione teologica uniforme e coerente o che possa anche solo dirsi rap-presentativa dell’orientazione di fondo del sentire occidentale. Concentrandosi sulla rilevanza che il volontarismo assume nell’Europa moderna – pur nelle sue molteplici sfumature che qui è impossibile richiamare –, si vede poi come la concezione del divino che viene proposta non costituisca affatto quel domi-nio immutabile, erede dell’episteme greca, di contro al mondo della contingenza. Proprio perché la New Natural Philosophy si reclama nuova rispetto alla tradizione aristotelica, anche la sua

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concezione del divino tende a rigettare quel grande compromes-so che ad esempio il tomismo aveva realizzato coniugando cri-stianesimo e aristotelismo.

Il risultato è un’immagine di Dio nient’affatto ieratica. Il Dio di Boyle è, come in parte quello di Descartes e, sotto diversi aspetti, quello di Newton, un Dio imperscrutabile e onnipotente, capace in ogni momento di interrompere il regolare corso della natura e soprattutto nient’affatto disposto a rendere accessibile alla ragione o all’intelletto umani la realtà delle cose. In tal sen-so, quell’attenzione per la contingenza – cioè la radicale infon-datezza – del mondo che Severino vede a ragione come uno dei tratti fondamentali della scienza moderna, non nasce contrappo-nendosi o anche solo allontanandosi dall’immagine religiosa di Dio, ma proprio portandola alle sue estreme conseguenze e svi-luppandone le implicazioni in campo fisico-scientifico23.

Severino ha dunque ragione a vedere nella scienza contem-poranea un’affermazione della radicale contingenza del mondo e quindi un’espressione conscia della fede fondamentalmente nichilistica dell’Occidente. Ma la sua interpretazione risulta li-mitante nella misura in cui non valorizza il rapporto di diretta implicazione che sussiste tra l’affermazione di tale scienza e lo sfondo teologico su cui essa si radica, rispetto al quale non co-stituisce un superamento o una negazione, quanto piuttosto una naturale conseguenza. In tal senso, la distruzione degli immuta-bili non avviene contro la religione, ma è una conseguenza in-terna e implicita di una certa immagine di Dio stesso. Il Dio vo-

23 La crescente consapevolezza del legame tra pratica scientifica e rifles-

sioni teologiche, nonché la rivalutazione dei contesti culturali in cui la scienza moderna si sviluppò, ha portato a rimettere radicalmente in discussione il con-cetto stesso di “rivoluzione scientifica” formulato da diversi storici a metà del Novecento. Tra gli studi inaugurali di questo rinnovato approccio resta Fun-kenstein (1986). In merito, un accesso privilegiato al dibattito è offerto dai saggi raccolti da Osler (2000). Per una prospettiva ancora più ampia sul lega-me costitutivo scienza-religione si veda ora Gaugroker (2006). Sul rapporto tra Boyle e i movimenti socio-politici del suo tempo, resta un classico, per quanto valutato con sempre maggior distacco critico, il saggio di Shapin, Schaffer (1985).

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lontaristico è una pura libertà, un abisso infondato, lui per pri-mo radicalmente estraneo a quel senso dell’immutabile aperto dall’episteme greca.

Questo risultato, sebbene circoscritto e ottenuto proponendo un semplice controesempio alla filosofia della storia proposta da Severino, ci apre un orizzonte di indagine su cui vale la pena concentrare in conclusione l’attenzione.

4. Il problema della storia La lettura severiniana del costituirsi del fenomeno scientifico come distruzione degli immutabili pecca per la stessa ragione per cui pecca ogni lettura totalizzante e onnicomprensiva dell’accadere storico. Volendo trovare una chiave di lettura che possa valere per l’intera storia dell’Occidente, è impossibile sot-trarsi a una lettura potentemente teleologica dello stesso accade-re storico, assumendo che il passato debba in qualche modo es-sere preparazione del presente. Ciò non è falso in sé ma per quello che nasconde. Per proporre una simile lettura, infatti, bi-sogna anzitutto supporre di ben conoscere la condizione con-temporanea e poterne esprimere qualcosa come l’essenza – e per Severino l’essenza del contemporaneo è il manifestarsi pie-no del nichilismo. Occorre dunque, rintracciare nel passato solo gli elementi che hanno preparato il presente, scartando come al più marginale tutto ciò che invece non è affatto stato una prepa-razione di quanto si assume essere l’essenza del nostro oggi.

Se questa concezione teleologica della storia ha trovato il suo momento più alto nella lettura idealistica e soprattutto hege-liana, essa resta ben radicata anche in forme apparentemente as-sai critiche verso l’idealismo, come il pensiero marxista e, a suo modo, anche quello severiniano24. Se però si rinuncia a tale pre-supposto, ci si accorge subito che quanto appariva come margi-nale ed effimero può il più delle volte rivelare un’immagine completamente diversa del corso storico.

24 Circa la diffusione di questo approccio in Italia, si veda Rossi (2002).

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Invece delle “sorti magnifiche e progressive”, appare ben presto che il corso del tempo non procede lungo un sentiero tracciato, che non ci sono linee principali dell’accadere e che il tempo è piuttosto una mappa di sentieri, una rete di opzioni teo-riche, dove il divenire umano ha piuttosto il carattere dell’esplorazione che non quella dell’attraversamento25. Ciò che appare marginale, può apparire così solo perché confrontato con una linea che si presuppone più fondamentale. Ma caduto que-sto presupposto, resta solo la constatazione che a un certo bivio, prendere una delle alternative conduce a certi esiti. Ma cosa sa-rebbe successo se si fosse proseguiti nell’altra via? Se la storia è una mappa di sentieri, le opzioni del passato non sono affatto passate ma restano sempre valide o quantomeno valide indica-zioni di possibili sviluppi alternativi, che possono presto tornare dei punti di riferimento qualora ci si renda conto che una certa linea intrapresa è senza sbocco.

Nel nostro caso, abbiamo mostrato che l’interpretazione se-veriniana della scienza come forma più lucida del convincimen-to della nullità di tutte le cose trova buone esemplificazioni in proposte come quella di Hawking. Tuttavia, abbiamo pure ri-marcato che la filosofia della storia con cui Severino legittima questa lettura di lungo raggio può – e quindi deve – essere mes-sa in discussione26. Ciò che pare storicamente discutibile, infat-ti, è proprio l’interpretazione della modernità come processo di distruzione degli immutabili grazie allo sviluppo della nuova tecno-scienza. Il controesempio rappresentato da Boyle mostra che proprio la scienza moderna può pensarsi come sapere della contingenza non già in quanto si oppone ma anzi in quanto si fa del tutto dipendente da una precisa impostazione teologica.

Non sarebbe difficile generalizzare tale risultato. Per usare ancora una volta uno slogan, se c’era una cosa su cui i teologi, i

25 Il che non intacca affatto la necessità con cui gli eventi si concatenano, rivendicando semmai la pluralità di dimensioni su cui il divenire necessaria-mente si articola e si spazializza. Circa questa prospettiva ermeneutica, si veda Sangiacomo (2013a, pp. 17-25).

26 Con ciò, riprendiamo una linea di discussione critica del pensiero seve-riniano già avviata con Sangiacomo (2011).

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filosofi e gli scienziati della fine del XVII e dell’inizi del XVIII secolo potevano trovarsi d’accordo, era il rifiuto di quella fatale necessità che legando troppo strettamente il mondo a Dio sem-brava portare dritto al pensiero più scandaloso, ateo e blasfemo dell’epoca: lo spinozismo27.

Il tratto volontaristico che resta un punto acquisito e condivi-so del dibattito, sarà che è impossibile applicare a Dio una qual-siasi forma di necessitarismo. Dio è e deve restare un ente libe-ro che si rapporta liberamente al mondo. Parimenti, dunque, il mondo non può che essere e restare una creazione intrinseca-mente contingente. Ma se il senso ontologico radicale della con-tingenza significa venire dal e tornare nel niente, perché il mon-do non dovrebbe esattamente venire dal niente e avere in quest’atto spontaneo la sua unica ragione? Ciò che può venire dal niente, non ha bisogno di nessuna ragione: devono essere niente anche le ragioni che lo evocano dal nulla. A ben guarda-re, la conclusione di Hawking non è nient’affatto bizzarra ma essa stessa, a sua volta, non fa che pensare in tutta coerenza i presupposti teologico-metafisici che hanno dato vita alla scien-za moderna e che costituiscono il suo fondamento.

27 Dal punto di vista storiografico in realtà resta ancora molto da fare. In

particolare gli storici della scienza non sembrano ancora aver pienamente ap-prezzato l’impatto dell’occasionalismo sulla formazione di concetti fonda-mentali come quello di causa. Né d’altro canto gli storici della filosofia sem-brano aver indagato fino in fondo le complesse sfumature, articolazioni e dis-seminazioni degli argomenti occasionalisti sull’inefficacia causale dei corpi. Resta fermo che, considerando non solo gli autori ma anche la loro ricezione e influenza, la storia dell’occasionalismo copre lo stesso arco temporale della scienza moderna, dagli anni ’60 del Seicento, con Geulincx, La Forge, Cor-demoy, al Settecento inoltrato con Malebranche, Berkeley e le conseguenze di questi dibattiti su Hume, Wolf, Baumgarten. L’impatto decisivo dell’occasionalismo sarebbe in tal senso da vedere proprio come l’archiviazione del presupposto ancora cartesiano per cui la causa deve impli-care la natura dell’effetto, cioè il rapporto causale deve essere analitico in senso kantiano. L’occasionalismo è proprio la dimostrazione che non c’è con-nessione necessaria tra causa ed effetto finito, ossia la costruzione e canoniz-zazione dell’essenziale contingenza dei fenomeni fisici. Su questa linea, si veda Sangiacomo (2013c, 2014).

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Il Dio volontaristico definisce lo sfondo di possibilità e pen-sabilità del contingentismo radicale di cui Hawking è l’epigono. Questo non significa che il cammino della scienza sia necessa-riamente lineare. Ancor meno significa che ci sia un solo sfondo teologico a supportare tale cammino28. Eppure, ciò implica che l’Occidente non attende la scienza per pensare la radicale con-tingenza di tutte le cose, ma ben prima – se si considerano le radici medievali del volontarismo teologico – arriva a fare del niente il cuore stesso di Dio e a inginocchiarsi tra speranza e paura davanti la trono della sua imperscrutabile libertà assoluta. Il problema della verità della scienza posto da Severino, fa dun-que tutt’uno anche con il problema della verità della teologia che costituisce la precondizione della scienza stessa29. E il pro-blema consiste proprio nel fatto che, quando viene portata alla sua coerenza estrema, questa immagine teologica dissolve nel niente Dio medesimo. Alla fine, anche di Dio non è più niente. Resta uno spazio vuoto30.

28 Per esempio, Harrison (2007) ha mostrato l’impatto di altri presupposti

teologici sulla scienza moderna, indagando il rapporto tra il mito della caduta di Adamo e l’elaborazione dello sperimentalismo inglese, letto come recupero di un sapere autentico delle cose nonostante i limiti conoscitivi acquisiti con il peccato originale.

29 Cfr. Severino (1992, p. 73): «la scienza non può comprendere la propria essenza indipendentemente dal nulla che il pensiero filosofico ha evocato fin dalle sue origini. E non solo non può comprendere la propria essenza, ma, non comprendendola, non può nemmeno dispiegare da essa tutte le possibilità pra-tiche che determinano il dominio della scienza sul mondo. Al di sopra di que-sto problema se ne apre uno ancora più radicale: il problema della verità del modo in cui l’Occidente ha inteso il rapporto tra il nulla e le cose. Dalla solu-zione di questo problema dipende che cosa in ultima analisi possiamo pensare della verità della scienza».

30 Alberto Caracciolo è stato forse il filosofo che ha dedicato i maggiori sforzi a comprendere la natura di un simile spazio e rivalutarne la funzione trascendentale, chiamando nulla tale vuoto e distinguendolo da un niente inte-so in senso ontico. Tra le opere più rilevanti in merito cfr. Caracciolo (1999, 2000, 2010). Per una presentazione generale del pensiero caraccioliano si veda Venturelli (2011). Sul possibile uso della riflessione caraccioliana per una reinterrogazione del paradigma scientifico cfr. Sangiacomo (2013b).

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Severino ha ragione nel vedere nella scienza contemporanea la forma più radicale di nichilismo e la scienza contemporanea conferma tale lettura. Severino ha però torto nel pensare l’imporsi di questo risultato come un semplice superamento del-la paradigma teologico, in quanto è un preciso orizzonte teolo-gico che prepara e rendere possibile tale risultato. Da tutto ciò, ne consegue che l’alternativa al nichilismo scientifico può veni-re soltanto da quella regione da cui tale nichilismo trae origine e viene formandosi. Tra i bivi e le opzioni aperte dai dibattiti teo-logici, si diparte il sentiero che conduce agli esiti che oggi vi-viamo. Ma ciò implica che tra quelle alternative si celavano an-che altre opzioni possibili che se paiono semplici divagazioni a una lettura teleologica della storia, possono invece rivelarsi co-me fondamentali nuovi inizi. Non è una pretesa pura e nuova forma di speculazione ma la fatica di ripensare il pensato – cioè di esplorare la storia del pensiero – il dominio da cui ci si pos-sono attendere autentiche risposte. Muovendosi in tal senso, non è azzardato supporre di poter infine ritrovare proprio quell’atteggiamento a cui ci chiamava fin dalle origini Parme-nide, distinguendo le sue due vie e cercando di disegnare la mappa delle conseguenze che si sarebbero incontrate lungo l’una o l’altra.

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