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Definizioni, problemi, mappature Lucia Quaquarelli «Quando io uso una parola», disse Humpty Dumpty in tono alquanto sprezzante, «essa significa esattamente quello che decido io ... né più né meno.» «Bisogna vedere», rispose Alice, «se lei può dare tanti significati diversi alle parole». «Bisogna vedere» replicò Humpty Dumpty, «chi è che comanda... ecco tutto». Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie. Prima di introdurmi nel terreno melmoso delle definizioni, vor- rei proporre una citazione provocatoria che tenterò di tenere a mente, a guisa di monito, nel corso del mio intervento. Si tratta di una dichiarazione di Dany Laferrière, scrittore francese nato a Port-au-Prince (Haiti), contenuta in una raccolta di saggi, su cui avrò modo di ritornare, intitolata Pour une littérature-monde. Dany Laferrière scrive: «J’ai perdu trop de temps à commen- ter le fait que j’écris en français. Et à debattre du fait que ce ne soit pas ma langue maternelle». 1 Uno degli scopi di queste giornate, ce lo ha ricordato Fulvio Pezzarossa nella sua introduzione, risiede proprio nel tentativo di 1 D. LAFERRIÈRE, Je voyage en français, in Pour une littérature-monde, sous la direction de M. LE BRIS, J. ROUAUD, Paris, Gallimard, 2007, pp. 87-101, a p. 87. 04Quaquarelli.qxp:Layout 15-11-2011 15:17 Pagina 53

Definizioni, problemi, mappature, in Fulvio Pezzarossa, Ilaria Rossini (a cura di), Leggere il testo e il mondo, Club, Bologna 2011

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Definizioni, problemi, mappature

Lucia Quaquarelli

«Quando io uso una parola», disse Humpty Dumpty intono alquanto sprezzante, «essa significa esattamentequello che decido io ... né più né meno.»«Bisogna vedere», rispose Alice, «se lei può dare tantisignificati diversi alle parole».«Bisogna vedere» replicò Humpty Dumpty, «chi è checomanda... ecco tutto».

Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie.

Prima di introdurmi nel terreno melmoso delle definizioni, vor-rei proporre una citazione provocatoria che tenterò di tenere amente, a guisa di monito, nel corso del mio intervento. Si tratta diuna dichiarazione di Dany Laferrière, scrittore francese nato aPort-au-Prince (Haiti), contenuta in una raccolta di saggi, su cuiavrò modo di ritornare, intitolata Pour une littérature-monde.

Dany Laferrière scrive: «J’ai perdu trop de temps à commen-ter le fait que j’écris en français. Et à debattre du fait que ce ne soitpas ma langue maternelle».1

Uno degli scopi di queste giornate, ce lo ha ricordato FulvioPezzarossa nella sua introduzione, risiede proprio nel tentativo di

1 D. LAFERRIÈRE, Je voyage en français, in Pour une littérature-monde, sousla direction deM. LE BRIS, J. ROUAUD, Paris, Gallimard, 2007, pp. 87-101, a p. 87.

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far uscire la critica letteraria italiana da un approccio esclusiva-mente sociologico, fenomenologico e anagrafico, che tende a im-prigionare un corpus letterario vario, eterogeneo per modi e for-me, oltre che mutevole nel tempo, in una casella che, forzando esemplificando la definizione di Deleuze e Guattari, potremmo an-zitutto, e provvisoriamente, chiamare letteratura minore.2 Mino-re perché scritta in una lingua “centrale e veicolare” – dunque oc-cidentale in senso largo – da autori provenienti da lingue e paesi“periferici”. Minore, poi, da un punto di vista commerciale, poi-ché ancora per lo più circoscritta a circuiti editoriali paralleli, cheintrecciano l’esperienza associazionistica, l’impegno politico ol’utilità pedagogica a discapito spesso di distribuzione, diffusionee visibilità. Minore infine, in termini di giudizio estetico-lettera-rio, nei suoi difficili rapporti con un sistema letterario italiano chetende ad emarginarla, rimuoverla, se non negarla. Valga per tuttil’esempio della Storia europea della letteratura italiana di Al-bertoAsor Rosa, pubblicata di recente, nella quale troviamo l’im-barazzante affermazione: «Fra pochi anni si formeranno in Italiacittadini dalle provenienze più disparate che dovranno […] stu-diare […] testi scolastici che descrivono la storia della letteraturaitaliana, leggere libri scritti in lingua italiana e, forse, scriverne».3

Non è un caso, allora, che tra le prime etichette che sono stateattribuite a questa nuova produzione vi sia quella di letteraturaitalofona. Etichetta che le è stata assegnata con buona probabilitàsul modello di altre esperienze letterarie, solo parzialmente vici-ne a quella italiana, quelle della letteratura anglofona o francofo-na per esempio, etichetta che significa, prima di ogni altra cosa,letteratura non italiana. Scritta in italiano, certo, ma non italiana.Una distinzione che esprime una forte resistenza di fronte alla de-

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2 G. DELEUZE, F. GUATTARI, What is a Minor Literature?, in «MississipiReview», XI, 1983, n. 3, pp. 11-33.

3 A. ASOR ROSA, Storia europea della letteratura italiana, III, La letteratu-ra della nazione, Torino, Einaudi, 2009, p. 596. Cfr. anche le osservazioni di U.FRACASSA, Strategie di affrancamento: scrivere oltre la migrazione, in Certiconfini. Sulla letteratura italiana dell’immigrazione, a cura di L. QUAQUAREL-LI, Milano, Morellini, 2010, pp. 179-199.

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territorializzazione linguistica di cui parlano Deleuze e Guattari,di fronte, cioè, a quell’atto di liberazione della lingua dal suo pat-to esclusivo con la nazione e la cultura di appartenenza dello scrit-tore, che potrebbe essere all’origine non solo della riscrittura –della “sovversione” dicono Deleuze e Guattari – degli equilibri diforza e di potere insiti nei rapporti tra lingue e paesi, ma che po-trebbe anche garantire una trasformazione interna della lingua let-teraria, portatrice di forti innovazioni negli stili, nei modi e nelleforme. Ma c’è di più. Tale distinzione sembra sancire una gerar-chia definitiva, una gerarchia entro la quale la letteratura italiana(quella prodotta da italiani “nativi”) occuperebbe una posizioneegemonica rispetto alla letteratura in lingua italiana prodotta dastranieri, letteratura questa subalterna e pertanto letterariamente ecommercialmente inferiore.

Si tratta insomma di un appellativo assai poco “neutro”, assaipoco “descrittivo”, e che, data la relativa giovane età della rifles-sione italiana sullo statuto e i rapporti tra le letterature omeoglot-te, dovrebbe beneficiare oggi, almeno trasversalmente, delle ac-cese discussioni che altrove, proprio in Francia e Inghilterra, so-no in atto da qualche anno. Ascoltando l’eco, per esempio, delleparole di Waberi quando scrive che il termine francofonia forma-lizza una subordinazione e una segregazione.4 O ancora l’eco iro-nicamente tagliente di Rusdhie quando parla, a proposito dellaproduzione anglofona, di «quell’insieme di scritture create, credo,in lingua inglese, da persone che non sono né inglesi bianchi, néirlandesi, né cittadini degli Stati Uniti d’America».5

Sul significato delle parole bisogna anzitutto intendersi, certo,ma ce ne sono alcune che si portano dietro, soprattutto nella rice-zione, il peso di una precisa storia linguistica, che è storia di po-tere, qui e altrove. Non perché altrove, è bene dirlo subito, la di-scussione sia davvero terminata con buona pace delle parti in cau-sa, ma perché altrove alcune ambiguità tendenziose, alcune peri-

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4 M. LE BRIS, Pour une littérature-monde en français, in Pour une littératu-re-monde, cit., pp. 23-53, a p. 45.

5 S. RUSHDIE, Non esiste una «letteratura del Commonwealth», in ID., Patrieimmaginarie, Milano, Mondadori, 1994, pp. 67-79, a p. 79.

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colose aporie terminologiche, sono emerse una volta per tutte im-ponendo cautela, distanza e, soprattutto, consapevolezza ai loroutilizzatori.

Da più parti sentiamo parlare di un processo, in atto, di “auto-nomizzazione della lingua”, un processo che garantirebbe allalingua uno statuto sempre più autonomo e transnazionale, chefarebbe della lingua uno dei luoghi di espressione della creolità.Una lingua autonoma, libera, nutrita da avventure culturali, so-ciali e letterarie diverse. Una lingua creola nel senso indicato daÉdouard Glissant, ovvero una lingua che nasce, di volta in voltanuova e imprevedibile, dall’incontro, reale o immaginario, con al-tre lingue, altre culture, altre avventure, tutte, dice Glissant, equi-valenti per valore.6

A tale proposito, c’è una considerazione abbastanza forte diMichel Le Bris raccolta nella miscellanea Pour une littérature-monde già citata. Le Bris sostiene che l’occidentalizzazione delmondo sia un processo a due sensi nel momento in cui l’Occi-dente si sparge sul mondo, dice Le Bris, il mondo lo assorbe, lo di-gerisce e, in ultima analisi, lo dissolve attraverso un processo con-tinuo di ibridazioni multiple.7 L’idea cioè che il trionfo dell’Occi-dente sul mondo coincida, anche, con la dissoluzione dell’Occi-dente nel mondo, con la sua diluizione in un mondo variamente eincessantemente polifonico.

Dal punto di vista linguistico, ciò corrisponderebbe allora aqualcosa di diverso dal fenomeno di “glottofagia” coloniale, dicannibalismo linguistico coloniale, descritto da Louis-Jean Cal-vet alla metà degli anni Settanta.8

Alla sparizione e marginalizzazione delle lingue subalterne eperiferiche di cui parla Calvet, letteralmente e letterariamentemangiate dalle lingue della colonizzazione, sembra corrisponde-

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6 É. GLISSANT, Introduction à une poétique du divers, Paris, Gallimard, 1996,p. 41.

7 M. LE BRIS, Pour une littérature-monde en français, in Pour une littératu-re-monde, cit., pp. 23-53, a p. 40.

8 L.-J. CALVET, Linguistique et colonialisme. Petit traité de glottophagie, Pa-ris, Payot, 1974.

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re anche un processo di ri-appropriazione linguistica da parte del-le popolazioni colonizzate che forza e trasforma, dall’interno, lalingua dei coloni fino a causarne la dissoluzione in un reticolo diforme linguistiche ibride e delocalizzate, e fino a ribaltarne gliequilibri di potere.

Si tratta di un’idea forte e fortemente positiva. Che corre tutta-via il rischio di rimuovere il sostrato di conflittualità, profonda,sul quale si fonda, spesso, la pratica anche linguistica degli scrit-tori migranti, oltre che quello di tenere in scarsa considerazione lecondizioni di produzione e commercializzazione della ormai no-ta Repubblica mondiale delle lettere. Che corre insomma lo stes-so rischio che taglia diagonalmente la posizione di Édouard Glis-sant, quello cioè di sostituire l’idea di relazione a quella di con-flitto in una dimensione, talvolta, di pericolosa apologia della creo-lità. Sulla portata di tale rischio hanno di recente scritto SandroMezzadra e Etienne Balibar e alle loro considerazioni rimando.9

Due considerazioni a margine mi paiono tuttavia importanti.La prima riguarda un’idea che è a lungo circolata nella riflessio-ne di critici e scrittori, quella cioè che la lingua italiana sia unalingua “neutra”, o ancora una lingua consapevolmente e libera-mente “scelta” dagli scrittori. Una lingua “gentile”, insomma, chea differenza dell’inglese, del francese o del portoghese, non è sta-ta imposta una volta per tutte sullo sfondo di una precisa e diabo-lica strategia colonizzatrice, ma che si è data allo straniero, percosì dire, senza violenza, come via possibile per l’espressione el’affermazione letteraria. Ora, anche lasciando da parte il fatto chealcuni scrittori immigrati l’italiano lo hanno studiato a forza nel lo-ro paese di origine, esattamente come Rushdie e Waberi hannostudiato inglese e francese, è bene non dimenticare che l’italianoè una lingua doppiamente imposta: imposta dalla migrazione, cheè il capitolo più recente della colonizzazione, perché i migranti, celo ricorda ancora Mezzadra, sono i nuovi soggetti coloniali, per-

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9 E. BALIBAR, Nous citoyens d’Europe?Les frontières, l’État, le peuple, Pa-ris, La Découverte, 2001; S. MEZZADRA, La condizione postcoloniale. Storia epolitica nel presente globale, Verona, Ombre corte, 2008.

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ché cioè le politiche migratorie occidentali, politiche di inclusio-ne selettiva e differenziale, ripropongono su scala interna vecchiedinamiche di imperialismo, sfruttamento e segregazione. E impo-sta, in secondo luogo, dal “sistema mondiale delle lettere”, orga-nizzazione eurocentrica e imperialista, stando alla descrizione chene fa Casanova,10 che fa dell’italiano una lingua ancora, inspiega-bilmente, maggiore e veicolare, a differenza del wolof, del soma-lo, dell’albanese, o dell’hindi (tanto per citare alcune delle lingueparlate dagli scrittori immigrati). Una lingua, cioè, che permetteuna diffusione non solo interna e nazionale, ma l’inserimento, po-tenziale, in un circuito di diffusione mondiale.

La seconda considerazione riguarda la nostra posizione di stu-diosi. Se tentiamo di uscire dalla dimensione eurocentrica ancoraoggi fortemente maggioritaria nell’organizzazione, nella produ-zione e nella ricezione della cultura, dovremmo senza esitazionericonoscere alla letteratura in lingua italiana prodotta dagli immi-grati lo statuto di letteratura italiana, alla stregua di qualsiasi altraproduzione letteraria in lingua italiana pubblicata e diffusa nel no-stro paese, e questo sullo sfondo di una dimensione transcultura-le delle lettere che non coinvolge in modo esclusivo i testi degliimmigrati, ma informa di sé la letteratura contemporanea tutta e dapiù parti, e a più livelli, richiede una trasformazione in chiavemondialista, dunque anche transnazionale, delle prospettive del-l’analisi letteraria. Bisognerebbe insomma riuscire, e questo è ilcompito più difficile, ad evitare quelli che Spivak ha indicato es-sere i due vizi maggiori dell’eurocentrismo, la tendenza a legge-re l’altro come marginale e quella, ugualmente insidiosa, a rico-noscere l’altro per semplice assimilazione.11

Stabilito ciò, rimane tuttavia da trovare una via definitoria per-corribile, capace cioè di non appiattire le differenze e riconosce-re le specificità, non solo linguistiche, ma letterarie in senso lar-go, della produzione degli immigrati.

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10 P. CASANOVA, La république mondiale des lettres, Paris, Seuil, 2008.11 G. C. SPIVAK, Les subalternes peuvent-elles parler?, Paris, Editions Am-

sterdam, 2009, p. 67.

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In questo senso mi pare vadano, almeno nelle intenzioni, tuttele definizioni che prendono in conto, ed esplicitano, l’esperienzamigratoria degli scrittori, diretta o indiretta (mi riferisco qui, na-turalmente, alla produzione delle seconde generazioni): letteratu-ra italiana migrante, della migrazione, della diaspora, dell’im-migrazione.

Mi sono sempre schierata per la quarta delle accezioni, che misembrava, più delle altre, mettere l’accento sul carattere internodella produzione italiana, nata fin da subito in seno ai confini na-zionali, oltre che distinguerla dalla produzione, che attraversa tut-to il secolo scorso, degli scrittori italiani emigrati. Mi sembrava in-somma che l’aggiunta del prefisso im- garantisse ai testi una po-sizione specifica, interna alla letteratura italiana, e un’età specifi-ca, quella delle recenti ondate migratorie, oltre che indicare unmio preciso punto di vista.12

Oggi non sono più così ferma sulla mia posizione. Molte ri-flessioni diverse mi hanno di volta in volta convinto. Penso, peresempio, alla posizione di Franca Sinopoli, propensa all’uso diletteratura della migrazione poiché, le esperienze di emigrazionee immigrazione degli autori «sono ricomprensibili – a un livellonon descrittivo ma critico e interpretativo – sotto il tema generaledella “migrazione”».13

Oggi soprattutto, mi pare che la questione su cui valga la penadi dibattere risieda altrove. Il problema, credo, sta nell’accettare,o meno, che l’esperienza migratoria dello scrittore sia di per sé uncriterio letterariamente accettabile, letterariamente caratterizzan-te e discriminante. Che il nodo letteratura/migrazione abbia dav-vero un senso e un’utilità interpretativa. Che sia capace, insomma,non solo di raccogliere un certo numero di testi sotto una comuneetichetta, con buona pace di chi compila antologie o storie dellaletteratura, ma che sia anche in grado di aprire quei testi, di farli

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12 L. QUAQUARELLI, Introduzione a Certi confini, cit., pp. 7-22, a pp. 11-12.13 F. SINOPOLI, La critica sulla letteratura della migrazione italiana, in Nuo-

vo Planetario Italiano, a cura di A. GNISCI, Troina, Città aperta, 2006, pp. 87-110, a p. 98.

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parlare di più, diversamente, che sia insomma anche uno stru-mento di lettura e non si sia trasformato nel tempo, come ha scrit-to Ugo Fracassa in un interessante saggio intitolato Strategie diaffrancamento,14 in “pregiudizio”, perdendo così di potenzialitàermeneutica e ordinatrice.

Certo è che negli ultimi decenni, in rapporto alla letteraturadella migrazione, e a quella postcoloniale in senso più largo, ab-biamo assistito a un ambiguo, e talvolta tendenzioso, fenomenodi riscoperta dell’autore. Quell’autore che sopiva, dimenticato,sotto le ceneri di un approccio testuale e interno, è ricomparso sul-la scena; nel nostro orizzonte analitico e, in genere, ricettivo. Ora,questa emersione della voce, ma della sola voce dello straniero, sibadi, certo variamente declinata nella trama del discorso narrati-vo, mi sembra correre parallela a un altro “vizio” dell’approccioeurocentrico, quello, ancora una volta evocato da Spivak nella suaCritica della ragione postcoloniale,15 che fa dell’autore stranieroun “informante nativo”, ovvero uno spazio vuoto (a blank), capa-ce di generare un testo che solo il lettore occidentale può “incide-re” (inscribe), a cui solo l’Occidente sa e può dare un senso: gli al-tri, gli stranieri, forniscono informazioni, a noi è dato invece co-noscere il mondo. L’Occidente chiede insomma al Terzo Mondo,scriveAmbra Pirri, di raccontarci la propria esperienza e la propriacondizione (meglio se di vittima), di fornirci notizie e informa-zioni sufficienti per poter elaborare le nostre teorie e, spesso, con-fermare le nostre convinzioni.16 Tali riflessioni, che incrociano al-tri campi del sapere, quello degli studi di genere e degli studi cul-turali per esempio, costituiscono tuttavia una traccia critica es-senziale per un’analisi anche letteraria, di fronte al fiorire di ap-parati paratestuali e disamine critiche che, ancora oggi, schiac-ciano i testi degli immigrati su una posizione definitivamente, e

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14 Cfr. U. FRACASSA, Strategie di affrancamento: scrivere oltre la migrazio-ne, in Certi confini, cit., pp. 179-199.

15 C. G. SPIVAK, Critica della ragione postcoloniale, Roma, Meltemi, 2004.16 A. PIRRI, Introduzione a M. DEVI, Invisibili, Napoli, Filema Edizioni, 2007,

pp. IX-LXX, a pp. LIV-LV.

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spesso esclusivamente, testimoniale e informativa. Posizione cheal più prende il profilo di “ponte tra culture”, entro il quale il va-lore e lo statuto letterario dei testi si perdono in un reticolo di in-teressi e preoccupazioni politico-sociali sino quasi a diventare nonpertinenti. Posizione, anche, che ha probabilmente cristallizzato,in buona parte, i generi a cui gli scrittori immigrati sembrano ave-re accesso privilegiato: biografia, diario, docu-fiction, romanzocollettivo o romanzo storico.

Nel tentativo di uscire dal circolo tendenzioso dell’informantenativo, si potrebbe allora leggere il nodo migrazione/letteratura subase esclusivamente tematico-formale, a prescindere cioè dallacongruità della vicenda biografica e dunque in seno anche a certaproduzione autoctona; è ciò che ha fatto Ugo Fracassa nel saggiocitato. La proposta è interessante e ci mette al riparo da un altro vi-zio maggiore della critica (non solo italiana), quello cioè di attri-buire un’identità letteraria indifferenziata, un’identità letterariamigrante, a un corpus viceversa letterariamente assai eterogeneoper modi, forme, generi e temi, e di farlo nel tentativo di ricono-scerne e salvaguardarne specificità e differenza, per paura certodi incorrere in pericolose pratiche assimilazioniste. Una specificitàe una differenza che sarebbero, invece, da indagare e stabilire, divolta in volta, nei testi e sulla sola base dei testi.

La questione, tuttavia, non mi pare archiviata. Perché nella no-stra esperienza di lettori continuiamo a distinguere tra L’ottava vi-brazione di Carlo Lucarelli e L’abbandono di Erminia dell’Oro,17

ovvero a presumere e fondare il nostro apparato critico, e il nostroorizzonte d’attesa, su uno specifico dato esperenziale dell’autore,e questo al di là di qualsiasi coincidenza tematica. L’io c’ero dicui garantisce il nome proprio dell’autore ha un inevitabile effet-to sulla ricezione, guida la nostra lettura e intrattiene, ai nostri oc-chi, un rapporto privilegiato, in qualche modo più legittimo e au-torevole, con la realtà che mette in scena. E questo è un fatto, perquanto discutibile e pericoloso.

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17 C. LUCARELLI, L’ottava vibrazione, Torino, Einaudi, 2008; E. DELL’ORO,L’abbandono, Torino, Einaudi, 2006.

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Prima però di tentare di tirare le fila delle mie considerazioni,vorrei rapidamente attraversare un’altra definizione spinosa, quel-la di letteratura italiana postcoloniale.

In senso proprio, “storico” per così dire, i testi postcolonialiitaliani dovrebbero essere quei testi scritti da autori provenientidalle ex-colonie italiane, Etiopia, Eritrea, Somalia, Libia. A que-sto gruppo ristretto di testi, Daniele Comberiati propone di ag-giungere, a ragione mi pare, quelli scritti da autori provenienti dapaesi variamente entrati nell’orbita coloniale italiana – Albania,Tunisia, Dodecaneso – poiché, sostiene, «il concetto stesso di co-lonialismo non può essere riferito esclusivamente alla conquistapolitica e militare, ma deve fare i conti con le influenze sulla cul-tura dominata e con i retaggi causati».18 Allargamento che Com-beriati estende anche, e ancora a ragione, al piano generazionale,includendo le seconde generazioni, e scrive, «comprendere auto-ri provenienti da famiglie italiane stanziate nelle colonie […], ori-ginari di famiglie miste […], nati e cresciuti nelle colonie in se-guito emigrati […], nati in Italia da genitori provenienti dalle ex-colonie».19

Tuttavia, se da un lato è importante mantenere, come sostieneSandra Ponzanesi,

la specificità politica e culturale del discorso postcoloniale, in mo-do da non perdere sia l’elemento cronologico del comune passa-to coloniale, sia l’aspetto epistemologico della reinterpretazionedelle categorie di pensiero occidentale e della decostruzione del-la relazione di potere tra periferia e centro;20

dall’altro, l’assenza di una vera e propria migrazione verso l’Ita-lia al momento della decolonizzazione e il successivo “ritardo” ita-liano nell’emergenza delle scritture postcoloniali – oltre che la qua-si totale mancanza di quello che altrove è stato chiamato “periodo

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18 D. COMBERIATI, La letteratura postcoloniale italiana: definizioni, proble-mi, mappatura, in Certi confini, cit., pp. 161-178, a p. 168.

19 Ivi, p. 169.20 S. PONZANESI, Il postcolonialismo italiano, in «Quaderni del ’900», IV,

2004, La letteratura postcoloniale italiana, pp. 25-34, a pp. 29-30.

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dell’assimilazione” (quello cioè in cui scrittori residenti nelle co-lonie prendono la parola nella lingua dei coloni) – fanno della pro-duzione postcoloniale italiana un insieme dai confini sottili, conampie zone di sovrapposizione, condivisione e contaminazionecon la produzione tutta degli scrittori immigrati. Non solo nei tem-pi, nei modi e nei temi, ma anche quanto alla posizione che que-ste scritture ricoprono all’interno dello spazio letterario nazionale,una posizione che si fonda su una transizione storico-epistemolo-gica (non solo nazionale) tra storia coloniale e discorso postcolo-niale, inteso questa volta in senso largo, come discorso che tagliadiagonalmente paesi, storie e letterature, imponendo la revisione dicategorie e metodi sulla base di una critica definitiva all’imperia-lismo coloniale, vecchio e nuovo, e nell’urgenza di restituire la pa-rola all’altro (e all’altra), al diverso, al subalterno.

Ora, è forse proprio in questo senso, ovvero da questa pro-spettiva, che potremmo tentare di porre la questione definitoria.Se non ci è dato uscire dall’emergenza della voce, dall’urgenza diriconoscere una specificità letteraria basata, anche, sul dato ana-grafico-esperenziale, tanto vale allora provare ad assumerne la for-za e l’evidenza, tentando tuttavia di combattere il pericolo della“messa al margine” e la trappola dell’“informante nativo”. Duepiste sono forse percorribili. La prima riconoscere, ma questa vol-ta sulla base dei testi, che ciò che spesso contraddistingue questescritture non è tanto, o non è solo, il fatto di informarci su mondilontani, quanto quello di dirci il nostro mondo, l’Italia che ci cam-bia sotto gli occhi, e di farlo da un punto di vista, da una prospet-tiva “straniata”, “altra”, insieme interna ed esterna, risultato e “pri-vilegio” di una precisa esperienza esistenziale. Riconoscere in-somma la voce degli immigrati, ascoltarla e permetterle di parla-re anche a nome nostro, anche a nome della nostra Italia.

La seconda, non dimenticare che queste voci si inseriscono inun coro più ampio, che attraversa confini e letterature, definendouna zona letteraria sempre più netta, di natura transnazionale etransculturale: quella degli scrittori della diaspora, degli scrittori“in situazione”, che scrivono nel e dal cuore delle asimmetrie –politiche, geografiche, sociali, culturali, identitarie, letterarie – delmondo tutto.

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Scritture e scrittori che ci chiedono di svecchiare apparati ana-litici costruiti su base linguistica o nazionale (e tengo qui a men-te il monito di Dany Laferrière) per ricomporli, al di là e al di so-pra del semplice, e tendenzioso, riconoscimento della funzionefecondatrice e rivitalizzante delle loro opere e della loro lingua;oltre e al di là di un preciso e presunto bacino tematico o forma-le comune e, probabilmente, oltre e al di là, di ogni urgenza de-finitoria.

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