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Sara Dallavalle FRIT-‐M505 Dalla novella alla pièce: metateatralità e contrasto autore/regista in Questa
sera si recita a soggetto di Pirandello
Questa sera si recita a soggetto, scritta tra il 1928 e il 1929 e rappresentata
nel gennaio del 1930 a Königsberg, rappresenta l’ultima pièce della trilogia del
‘teatro nel teatro’, insieme a Sei Personaggi in cerca d’autore (1921) e Ciascuno a suo
modo (1924). L’idea è quella di «dare un’attualizzazione performativa» 1 alla
problematica metateatrale, mettendo in scena i conflitti tra i vari attanti: personaggi,
attori, pubblico, direttore di scena, autore. Se in Sei personaggi l’opposizione si crea
con il triangolo personaggio/autore/attore e in Ciascuno a suo modo con la polarità
mondo della performance/mondo dell’audience, Questa sera affronta la dinamica
regista(capocomico)/autore/attori. La presenza dell’autore, però, avviene nel segno
negativo, volutamente espunto dall’equazione poiché il suo ruolo si esaurisce nel
momento stesso in cui termina di scrivere la sua opera. Il vero orchestratore diventa
allora il regista, colui che a partire da un «rotoletto di poche pagine», da «una
novelletta, o poco più, appena appena qua e là dialogata»2 costruisce la vera
rappresentazione teatrale3.
1 Renato BARILLI, Pirandello. Una rivoluzione culturale, Milano, Mursia, 1986, p. 191 2 Preambolo, in PIRANDELLO Luigi, Questa sera si recita a soggetto / Trovarsi / Bellavita, a cura di C. Simioni, Milano, Arnoldo Mondadori, 1970 («Gli Oscar», 271), da http://www.classicitaliani.it/pirandel/drammi/38_pira_recita_soggetto.htm 3 Ivi: «Sempre quello stesso, sì; incorreggibilmente! Però, se già l’ha fatta due volte a due miei colleghi, mandando all’uno una prima volta, sei personaggi sperduti, in cerca d’autore, che misero la rivoluzione sul palcoscenico e fecero perdere la testa a tutti; e presentando un’altra volta con inganno una commedia a chiave, per cui l’altro mio collega si vide mandare a monte lo spettacolo da tutto il pubblico sollevato; questa volta non c’è pericolo che la faccia anche a me. Stiano tranquilli.
2
Attraverso questo saggio cercherò di mettere in luce i rapporti che si
generano tra la lettura della novella e la stesura del testo teatrale, e il ruolo ultimo
del regista nei confronti dell’autore.
Come avviene spesso nel teatro di Pirandello, il soggetto della pièce è fornito
da una novella scritta in precedenza. In questo caso si tratta di Leonora, addio!,
pubblicata per il «Corriere della Sera» nel 1910 e due anni più tardi per Treves.
A venticinque anni ufficialetto di complemento, Rico Verri si piaceva della compagnia degli altri ufficiali del reggimento, tutti del Continente, i quali, non sapendo come passare il tempo in quella polverosa città dell’interno della Sicilia, s’erano messi attorno come tante mosche all’unica famiglia ospitale, la famiglia La Croce, composta dal padre, don Palmiro, ingegnere minerario (Sampognetta, come lo chiamavano tutti, perché, distratto, fischiava sempre), dalla madre, donna Ignazia, oriunda napoletana, intesa in paese La Generala e chiamata da loro, chi sa poi perché, donna Nicodema; e da quattro belle figliuole, pienotte e sentimentali; vivaci e appassionate: Mommina e Totina, Dorina e Memè.4
In incipit di novella, Pirandello fornisce le coordinate per comprendere lo sviluppo
della vicenda. I protagonisti saranno: Rico Verri, gli ufficiali suoi amici e la famiglia
La Croce, ovvero don Palmiro con la moglie Ignazia e le quattro figlie Mommina,
Totina, Dorina e Memè. Siamo in Sicilia, ma da subito si crea un contrasto tra l’isola e
il «continente», e «con la scusa che in Continente “si faceva così”, quegli ufficiali […]
erano riusciti a far commettere a quelle quattro figliuole le più audaci e ridicole
matterie»5. Tre quarti della novella sono però occupati dall’infelice storia del
matrimonio tra Mommina e Rico Verri, il quale si dimostrerà un uomo follemente
geloso, tanto da rinchiudere la moglie e le figlie in casa, lontano dalla famiglia di lei e
L’ho eliminato. Il suo nome non figura nemmeno sui manifesti, anche perché sarebbe stato ingiusto da parte mia farlo responsabile, sia pure per poco, dello spettacolo di questa sera. L’unico responsabile sono io». 4 PIRANDELLO Luigi, Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo , Milano, Arnoldo Mondadori, 1990 («I Meridiani, III»), da http://www.classicitaliani.it/pirandel/novelle/12_171.htm; (grassetto mio) 5 Ibidem
3
dalla vista di tutti. Mommina, da vivace e pienotta ragazza che era, diventa l’ombra
di se stessa, «le spalle non più sostenute dal busto erano quasi scivolate e, davanti, il
ventre salito enormemente, quasi a sorreggere il grosso petto floscio», e si aggira
«per casa, ansante, con lenti passi faticosi, spettinata, imbalordita dal dolore, ridotta
quasi materia inerte»6. Sulle note di Leonora, addio!, dall’atto VI del Trovatore,
Mommina cade a terra morta, di fronte agli increduli visini delle sue figlie.
Siamo ancora ben lungi dalla ‘metateatralità’ pirandelliana delle ultime
opere, eppure già in questo racconto è possibile cogliere il teatro nel teatro, o per
meglio dire, il ‘melodramma nella novella‘. La vita di Mommina e le sue scelte sono,
per ammissione dell’autore, melodrammatiche: «ma Mommina, oltre alle tante cose
che capiva, aveva anche la passione dei melodrammi»7. Una passione talmente forte
da impedirle di vivere nella realtà, e di riconoscere dunque la vera natura del
promesso sposo. Mommina vive nella finzione teatrale e assimila Verri agli eroici
protagonisti delle sue opere preferite: «E scattò [Verri] di fatti una sera, e successe
un parapiglia: seggiole per aria, vetri rotti, urli, pianti, convulsioni; tre sfide, tre
duelli» 8 . Gli atti ‘eroici‘ di Rico sono solo in parte dettati dalla volontà di
salvaguardare l’onore dell’amata; si tratta, più che altro, di pura e semplice gelosia,
quella che lo spingerà a segregarla in casa come una prigioniera. Eppure, Mommina
non se ne vuole rendere conto, anche se «era buona, la più saggia tra le quattro
sorelle» e «capiva tante cose». La ragazza, in definitiva, sente il bisogno di una certa
drammaticità, che culminerà con la tragedia madre: la sua morte.
6 Ibidem 7 Ibidem 8 Ibidem
4
Ripercorrendo la storia di Mommina, vediamo che sono molteplici le opere
nelle quali si cimenta da attrice e Pirandello stesso ci svela i preparativi per le
recitazioni messe in atto dalla famiglia La Croce.
Se il teatro era chiuso, scuola di galanteria e danze e rappresentazioni ogni sera in casa La Croce: la madre sonava a tempesta sul pianoforte tutti i «pezzi d’opera» che avevano sentito nell’ultima stagione, e le quattro sorelle, dotate di discrete vocette, cantavano in costumi improvvisati, anche le parti da uomo, coi buffetti sul labbro fatti con tappi di sughero bruciati e certi cappellacci piumati e le giubbe e le sciabole degli ufficiali. 9
Mommina, in particolare, impersona Siebel nel Faust: «Le parlate d’amor[e]
– o cari fior» (atto III, scena I). Nel dramma di Charles Gounod (1859), Siebel è il
triste innamorato di Marguerite, a sua volta innamorata di Faust; si tratta di un
ruolo en travesti per il quale è necessario un mezzosoprano – e infatti è truccata e
vestita da uomo. Altro melodramma con esito drammatico è La forza del destino di
Giuseppe Verdi (1862), per il quale Mommina recita la parte di Leonora: «né
togliermi potrò /l’immagin sua dal cor...» (atto IV, scena VI). In questa scena la
protagonista, morente, riafferma il suo amore per Don Alvaro, mai sopito
nonostante la violenta opposizione del padre. Qui Leonora è «pallida, sfigurata»10, e
non è certo un caso che lo stesso destino tocchi poi alla protagonista della novella
pirandelliana. Lei, tuttavia, pare crogiolarsi nell’idea di un amante geloso: «Rico
Verri aveva fatto tre duelli per lei; Raul, Ernani, don Alvaro...». Ritroviamo, di nuovo,
i protagonisti dei melodrammi preferiti di Mommina, da quel Don Alvaro della Forza
del destino – che per amore di Leonora combatte il padre di lei, proprio come Verri
affronta l’opposizione di donna Ignazia e delle figlie per sposare Mommina, con esiti
9 Ibidem; (grassetto mio) 10 La forza del destino, Libretto n. 132, prima stesura per librettidopera.it (luglio 2007), http://www.librettidopera.it/zpdf/forzades.pdf
5
opposti ma altrettanto tragici –, a Ernani dell’omonima opera verdiana (1844) – che
per rispettare un giuramento, si uccide davanti all’amata Elvira trafiggendosi il petto
–, a Raul degli Ugonotti, grand-‐opéra di Giacomo Meyerbeer (1836) – Raoul,
ugonotto, muore sotto i colpi dei cattolici insieme Valentine e al suo servo Marcel,
uccisi dall’ignaro padre di lei.
Prendendo coraggio, dopo diversi anni di reclusione, Mommina decide di
insegnare alle figlie tutto quello che sa del teatro, fare loro vivere la stessa
esperienza che lei da giovane ha vissuto. E si mette così a:
descrivere affollatamente il teatro, gli spettacoli che vi si davano, la ribalta, l’orchestra, gli scenarii, poi a narrare l’argomento dell’opera e a dire dei varii personaggi, com’erano vestiti, e infine, tra lo stupore delle piccine che la guardavano, sedute sul letto, con tanto d’occhi e temevano che fosse impazzita, si mise a cantare con strani gesti questa e quell’aria e i duetti e i cori, a rappresentar la parte dei varii personaggi […].11
Mommina, a partire proprio dalla Forza del destino, riprende le vecchie
consuetudini, torna a essere personaggio prima che persona, torna a vivere,
paradossalmente, nell’immutabilità della forma d’arte. Addirittura diventa più
personaggi in una volta sola quando canta Gli Ugonotti, «sostenendo a volta a volta, e
anche a due e tre alla volta, tutte le parti»: «Pif, paf, pif, /Dispersa sen vada /La nera
masnada / Al rezzo placido / Dei verdi faggi / Correte, o giovani / Vaghe beltà...»
(atto I, scena III). Siamo di fronte alla canzone di Marcel, un’invettiva nei confronti
degli empi cattolici – «A torme struggiamoli. / Sterminiam!... / Uccidiam!!»12 è il
verso immediatamente precedente a quello menzionato nel racconto –, e non può
essere un caso che Pirandello abbia scelto proprio questo passo. Si può forse inferire
che Mommina, nel suo fittizio scagliarsi contro i cattolici, si stia allo stesso tempo 11 Leonora, addio!, da http://www.classicitaliani.it/pirandel/novelle/12_171.htm 12 Gli Ugonotti, Sesto San Giovanni, Edizioni A. Barion
6
scagliando contro il marito, in una sorta di sublimazione del suo avvilimento. Inoltre
l’aria è una delle più famose e celebrate dell’intera opéra.
Un pattern comune tra le opere scelte da Pirandello è evidente, caratterizzate
come sono da amori dall’destino infelice, o per meglio dire, tragico. Ma è anche
palese che i versi riportati hanno un intento intradiegetico, e diventano per
Mommina uno specchio dei suoi sentimenti e del suo dolore.
L’ultima rappresentazione presente nella novella, e nella vita di Mommina
stessa, sarà Il Trovatore di Giuseppe Verdi (1853): «Miserere di un uomo che
s’avvia...», «Sconto col sangue mio / L’amor che posi in te! / Non ti scordar, non ti
scordar di me, / Leonora, addio!»13. La ragazza sta qui interpretando il quarto atto,
nel quale Manrico, imprigionato, si congeda dalla sua amata – la parte di Manrico
sarebbe affidata a un tenore, e infatti Mommina indossa «un cappellaccio piumato in
capo, i baffetti sul labbro fatti col sughero bruciato»14. I versi dell’opera che
Pirandello cita, forse volontariamente o forse per una svista, non corrispondono
esattamente al libretto verdiano, che prevede «Miserere d'un'alma già vicina»,
cantata dalle ‘voci interne’, e una sola ripetizione di «Non ti scordar di me»15. È
possibile che l’intento sia di mimetismo, e dopotutto la sua protagonista sta
recitando l’opera a memoria, in un momento di profonda crisi psicologica ed
emotiva. Attraverso quei versi Mommina muore melodrammaticamente, proprio
come i personaggi a cui è tanto affezionata, e allo stesso tempo alza un lamento che
va oltre la diegesi. Mommina si fa personaggio, e come personaggio chiede di non
13 Leonora, addio!, da http://www.classicitaliani.it/pirandel/novelle/12_171.htm 14 Ibidem 15 Il Trovatore, Libretto n. 120, prima stesura per librettidopera.it (gennaio 2007), http://www.librettidopera.it/zpdf/trovatore.pdf; (grassetto mio)
7
essere dimenticata. Devono passare undici anni prima della teorizzazione presente
nei Sei personaggi, ma è indubbio che questo finale anticipi, in un certo senso,
pensieri più strutturati: «tutto ciò che vive, per il fatto che vive, ha forma, e per ciò
stesso deve morire: tranne l'opera d'arte, che appunto vive per sempre, in quanto è
forma».16 Mommina, inconsciamente, affida a un’opera d’arte il suo lamento, e nel
diventare forma si eternizza, almeno per un attimo. Se la novella si fosse conclusa in
questo modo, l’avremmo a ragione potuta chiamare una tragedia. Ma poiché siamo
di fronte a una rappresentazione, a Mommina che ‘nel pensier si finge’, con il sipario
calato le cose tornano com’erano prima: «Rico Verri con un urlo di rabbia s’avventò
sopra il corpo caduto della moglie e lo rimosse con un piede. Era morta».17 Il gesto
di Verri, contemporaneamente umiliatore e dissacrante, impedisce il compiersi del
climax patetico, e riporta alla realtà fattuale della morte di una vita, e non di una
forma d’arte. Non si può parlare di comicità, poiché il dramma di Mommina è reso
ancora più acuto dalla mancanza di rispetto esibita da Verri, ma l’ironia intrinseca
nel congedo è evidente. Il ‘sentimento del contrario’ postulato nel saggio l’Umorismo
(1908) si rileva nella scelta di concludere la novella proprio con quel gesto
irrispettoso, che sottrae carica eroica alla fine di Mommina, e la consegna al nulla
della morte.
Come si è avuto modo di capire, Leonora, addio! è una novella che fa il verso
al melodramma, svelandone al tempo stesso i meccanismi e la finzione scenica.
16 Prefazione a Sei personaggi in cerca d’autore in Luigi PIRANDELLO, Maschere nude, a cura di A. D’Amico, Milano, Arnoldo Mondadori, 2004 («I Meridiani», II), da http://www.classicitaliani.it/pirandel/pira19_prefazione.htm 17 Leonora, addio!, da http://www.classicitaliani.it/pirandel/novelle/12_171.htm; (grassetto mio)
8
Siamo di fronte, dunque, a un racconto metaletterario che per sua natura si presta
bene a una trasposizione teatrale che voglia ragionare su se stessa.
Quando, tra il 1928 e il 1929, Pirandello mette mano alla novella per
trasformarla in pièce, ha quindi il compito facilitato. Essa funge da soggetto di Questa
sera, ma la metateatralità dell’opera fa sì che, in sostanza, essa occupi solamente il
terzo atto. L’opera in tre atti inizia, infatti, con alcuni rumori sul palcoscenico, come
se la compagnia di attori non fosse pronta per l’apertura del sipario. Dopo qualche
protesta del pubblico fittizio, esce il Dottor Hinkfuss, il direttore di scena (e notiamo
che non si parla di ‘capocomico‘, come avveniva in Sei personaggi), che si mette a
spiegare le novità di questa ‘commedia a soggetto’. Dopo il preambolo comincia il
primo atto, con Hinkfuss che presenta gli attori tramite il loro vero nome. Il Vecchio
Attore Brillante, colui che interpreterà il Sampognetta, sarà il primo dei personaggi a
esprimere il suo dissenso nei confronti del regista. La polemica nasce da una
sostanziale percezione di incoerenza che gli attori gli attribuiscono: egli chiede che
si reciti senza battute scritte, solo con un canovaccio, e quando loro si sono ormai
calati nelle parti, ecco che il Dottor Hinkfuss ne svela la finzione chiamandoli con il
loro nome. Tutto il primo, movimentato, atto è un susseguirsi di entrate e uscite dai
propri ruoli da parte degli attori, e di interventi extradiegetici (o presunti tali)18 da
18 Cfr: atto I, da http://www.classicitaliani.it/pirandel/drammi/38_pira_recita_soggetto.htm (grassetto mio): IL DOTTOR HINKFUSS: (con un lampo di malizia, trovando lì per lì la via di scampo per salvare il suo prestigio). Come il pubblico avrà capito, questa ribellione degli attori ai miei ordini è finta, concertata avanti tra me e loro, per far più spontanea e vivace la presentazione. A questa uscita mancina, gli attori restano di colpo come tanti fantocci atteggiati di sbalordimento. Il Dottor Hinkfuss lo avverte subito: si volta a guardarli e li mostra al pubblico: Finto anche questo sbalordimento. IL PRIMO ATTORE: (scrollandosi, indignato). Buffonate! Io prego il pubblico di credere che la mia protesta non è stata affatto una finzione.
9
parte del regista. Nel secondo atto, invece, viene a precisarsi maggiormente
l’argomento del ‘soggetto’. Dopo l’introduzione dei personaggi fatta nel precedente,
in questo si colgono meglio le dinamiche interne della famiglia La Croce, proprio
come raccontato nella novella. Si assiste a una processione che sfila nella platea,
mentre sul palco viene recitata una scena di Cabaret. Protagonista è il Sampognetta,
ammaliato dalla chanteuse e per questo fatto oggetto di scherno dagli altri avventori.
Uscendo dal locale avviene un battibecco tra il signor (non più ‘don‘) Palmiro e
questi altri personaggi, a loro volta attaccati dagli ufficiali e da Rico Verri, nel
frattempo sopraggiunti sulla scena. Quando le acque si quietano, il Sampognetta
torna a casa mentre gli ufficiali, a braccetto con le quattro figlie, e la signora Ignazia,
si recano a teatro. L’atto si chiude con i soliti dialoghi extradiegetici del regista e
degli attori. A questo punto si ha un intermezzo, che prevede la recitazione di cinque
scenette «sparse e simultanee»19 nel ridotto del teatro, mentre sul palco il Dottor
Hinkfuss prepara una nuova scenografia. Il terzo atto si svolge all’interno di casa La
Croce. Prima la famiglia si unisce in una folkloristica preghiera alla Madonna perché
guarisca il mal di denti della Signora Ignazia, poi le figlie e gli ufficiali mettono in
scena Il Trovatore. Sul più bello arriva Rico Verri, furente e geloso di Mommina, e si
scatena il litigio. Poco dopo compare anche il Vecchio Attore Brillante e, indignato
dal fatto che nessuno gli avesse prestato attenzione, decide di non recitare la sua
scena. I piani si sovrappongono, e in un monologo in cui le volontà dell’attore e le
battute del personaggio si alternano, l’attore brillante finisce per interpretare la
propria morte. La Prima Attrice, troppo coinvolta emotivamente, sviene. Sul palco 19 Preambolo, da http://www.classicitaliani.it/pirandel/drammi/38_pira_recita_soggetto.htm
10
calano le luci, e mentre gli attori si vestono di nero per il momento successivo, il
regista dà conto del proprio operato e della propria creatività nell’aggiungere parti
non presenti nel soggetto. Nel frattempo la stizza della compagnia è andata
crescendo, e non sopportando oltre l’ingerenza del regista, decide di cacciarlo via.
Inizia così la parte più propriamente melodrammatica ed emotiva della pièce, la
segregazione di Mommina. La scenografia viene costruita a sipario aperto, e mentre
le altre attrici truccano il volto della Prima Attrice e la rendono credibile nella sua
parte di sventurata moglie di Verri, l’Attrice Caratterista spiega l’antefatto. Da
questo momento in poi il copione teatrale si discosta poco dalla novella originale, e
salvo qualche strano ma azzeccato movimento di luci – che gli attori non capiscono
da dove provenga – i dialoghi tra Verri e Mommina, e la sua interpretazione dei
melodrammi di fronte alle figlie, avvengono senza intromissioni di sorta. Alla morte
del personaggio, tutti gli altri rientrano in scena, e con essi anche il regista, che si
complimenta della riuscita dell’atto. Gli attori non sono comunque soddisfatti: lo
svenimento della Prima Attrice, nuovamente troppo coinvolta dal suo ruolo, li
spinge a domandare la presenza dell’autore, ovvero di battute prefissate. Con la
promessa di reintegrare il copione, ma non lo scrittore, il Dottor Hinkfuss si congeda
dal pubblico.
Questa sera è una pièce costruita su almeno cinque livelli: il primo è
rappresentato dal novella-‐spunto; il secondo dall’adattamento operato dal regista e
dalle sue aggiunte personali; il terzo dagli interventi metateatrali del Dottor
Hinkfuss (ad esempio il preambolo iniziale o l’intermezzo); il quarto dai rapporti
che si generano al di là della finzione, e che scardinano il meccanismo teatrale; il
11
quinto dalla voluta mutevolezza della pièce nel suo prevedere, in locandina e nel
corpo del testo, l’uso dei nomi degli attori reali.
Il ‘soggetto’ di per sé, dunque, altro non è che una scusa per parlare di altro,
ovvero dei rapporti paratestuali, e di come il testo scenico venga riadattato a uso e
consumo del regista e degli attori. È il regista stesso, nel preambolo, a specificare il
rapporto con la novella:
Ho in questo rotoletto di poche pagine tutto quello che mi serve. Quasi niente. Una novelletta, o poco più, appena appena qua e là dialogata da uno scrittore a voi non ignoto […] Ho preso una sua novella, come avrei potuto prendere quella d’un altro. Ho preferito una sua, perché tra tutti gli scrittori di teatro è forse il solo che abbia mostrato di comprendere che l’opera dello scrittore è finita nel punto stesso ch’egli ha finito di scriverne l’ultima parola.20
Come ha giustamente notato Renato Barilli, «si tratta di ampliare, anzi
meglio, di “gonfiare”, di diluire, di arricchire con opportuni “colpi di scena”»21 il
soggetto di partenza. Le aggiunte del direttore di scena sono quelle che egli definisce
«creazione scenica»22, attribuendosi il diritto, e il merito, di esserne autore egli
stesso.
La prendo [l’opera dello scrittore] a materia della mia creazione scenica e me ne servo, come mi servo della bravura degli attori scelti a rappresentar le parti secondo l’interpretazione che io n’avrò fatta; e degli scenografi a cui ordino di dipingere o architettar le scene; e degli apparatori che le mettono su; e degli elettricisti che le illuminano; tutti, secondo gli insegnamenti, i suggerimenti, le indicazioni che avrò dato io. […] E confido d’avervi creato uno spettacolo gradevole, se quadri e scene procederanno con l’attenta cura con cui io li ho preparati, così nel loro complesso come in ogni particolare; e se i miei attori risponderanno in tutto alla fiducia che ho riposto in loro. Del resto, sarò, io qua tra voi, pronto a intervenire a un bisogno, o per ravviare a un minimo intoppo la rappresentazione, o per supplire a qualche manchevolezza del lavoro con chiarimenti e
20 Preambolo, http://www.classicitaliani.it/pirandel/drammi/38_pira_recita_soggetto.htm 21 Renato BARILLI, op. cit., p. 207 22 Preambolo, http://www.classicitaliani.it/pirandel/drammi/38_pira_recita_soggetto.htm
12
spiegazioni; il che (mi lusingo) vi renderà più piacevole la novità di questo tentativo di recita a soggetto.23
Il signor Hinkfuss è regista nel senso che regge, governa gli elementi che
compongono una rappresentazione teatrale, è – con un termine noto alla critica – un
vero e proprio demiurgo. Il suo rapporto con il testo avviene, quindi, nel segno
dell’interpretazione e della consapevolezza che «se un’opera d’arte sopravvive è
solo perché noi possiamo ancora rimuoverla dalla fissità della sua forma […]e la vita
glie la diamo allora noi; di tempo in tempo diversa, e varia dall’uno all’altro di noi;
sicché quella che do io non è affatto possibile che sia uguale a quella di un altro».24
Con queste premesse il Dottor Hinkfuss riesce a giustificare con logicità la sua
ingerenza sul testo, in nome di un’interpretazione che gli è propria e che non può
essere di nessun altro, nemmeno dell’autore. A conti fatti, si tratta di un’idea molto
moderna di regista, non più semplice coordinatore, bensì creatore. È bene, tuttavia,
far notare che i termini regia/regista non vengono mai utilizzati da Pirandello, che
parla invece di ‘direttore di scena’, dal francese messeur en scène – i lessemi vennero
proposti e poi adottati su larga scala solo a partire dal 1932.25
Proviamo a vedere ora nel dettaglio le aggiunte originali e le libertà che il
Dottor Hinkfuss s’è preso nei confronti della novella/canovaccio.
Si inizia nell’atto II, che all’interno della finzione teatrale rappresenta il vero
e proprio inizio della commedia a soggetto. Quella che in Leonora, addio! era una
23 Preambolo, http://www.classicitaliani.it/pirandel/drammi/38_pira_recita_soggetto.htm, (grassetto mio) 24 Ibidem 25 Silvio D’AMICO, Gianluigi RONDI, Regia, Enciclopedia Italiana Treccani, 1949 (appendice II), da http://www.treccani.it/enciclopedia/regia_res-‐bb92f42b-‐87e6-‐11dc-‐8e9d-‐0016357eee51_%28Enciclopedia-‐Italiana%29/
13
«polverosa città dell’interno della Sicilia»26, diventa sul palcoscenico (o meglio, nella
platea), «una processioncina religiosa», per fare «colore».27 Contraddittoriamente
con quanto appena affermato, nelle idee del regista la processione non è affatto un
evento di piccole proporzioni. Vi parteciperebbero: «quattro chierichetti», «quattro
giovinette, dette “Verginelle”», «sotto il baldacchino, la “Sacra Famiglia”», «un
pastore […] e un altro più giovane pastore», «un codazzo di popolani e popolane»;
infine, «al levarsi del sipario e all’entrata della processione, si vedranno sul
palcoscenico inginocchiarsi, lungo il muro e a destra, uomini e donne (non più di
otto o nove) che si troveranno a passare per la strada».28 Si capisce che il Dottor
Hinkfuss è un amante delle messe in scene spettacolari, forse anche un po’
stereotipate («ancor oggi si possano vedere in Sicilia, per Natale, in certe rozze
rappresentazioni sacre con accompagnamento di musiche e cori»29), proprio come
avviene più chiaramente alla morte del Sampognetta (atto III).
Scena capitale, signori, per le conseguenze che porta. L'ho trovata io; nella novella non c'è; e son certo anzi che l'autore non l'avrebbe mai messa, anche per uno scrupolo ch'io non avevo motivo di rispettare: di non ribadire, cioè, la credenza, molto diffusa, che in Sicilia si faccia tant'uso del coltello. Se l'idea di far morire il personaggio gli fosse venuta, l'avrebbe forse fatto morire d'una sincope o d'altro accidente. Ma voi vedete che altro effetto teatrale consegue una morte come io l'ho immaginata, col vino e il sangue e un braccio al collo di quella chanteuse. Il personaggio deve morire; la famiglia piombare per questa morte nella miseria.30
Nelle intenzioni del regista, questa scena è «capitale» poiché è quella che
spinge l’azione verso il dramma. Egli si complimenta con se stesso per la propria
26 Leonora, addio!, da http://www.classicitaliani.it/pirandel/novelle/12_171.htm 27 Secondo atto, da http://www.classicitaliani.it/pirandel/drammi/38_pira_recita_soggetto.htm 28 Ibidem 29 Ibidem, didascalia 30 Terzo atto, da http://www.classicitaliani.it/pirandel/drammi/38_pira_recita_soggetto.htm (grassetto mio)
14
creatività, ponendosi sullo stesso gradino dell’autore, e anzi superandolo. Da
régisseur capisce quelle che sono le necessità della scena, e è disposto a
soprassedere sui cliché – come l’uso del coltello in Sicilia – al fine di accentuarne la
vena drammatica. Ferito ma ancora vivo, il signor Palmiro avrebbe potuto
esprimere il proprio amore per la chanteuse, appeso al collo di lei, prima di
accasciarsi al suolo, morto. Una scena simile sarebbe risultata decisamente in linea
con il tono melodrammatico della vicenda legata a Mommina, che nel finale avrebbe
potuto rivivere questi momenti tragici, confondendoli con le sue opere preferite:
I fatti dell'opera, che è Il Trovatore, il più fosco e allucinato dramma di Verdi, si confondono con quelli della vita. Altri personaggi si affacciano alla sua mente. Tre eroi, Raul, Ernani, Don Alvaro, hanno duellato per conquistarla. Una notte il padre fu riportato a casa tutto sanguinante e aveva accanto una specie di zingara. Quella notte si compì il suo destino.31 32
Ma nell’episodio del padre moribondo vengono anche a coincidere i diversi
piani della diegesi pirandelliana: si ha un esempio di creazione scenica del regista, il
dialogo (preventivato) tra il regista e il suo attore, la polemica (non preventivata)
della compagnia. Dal canto suo il Vecchio Attore Brillante entra ed esce dalla sua
31 MACCHIA Giovanni, Il personaggio sequestrato, in Pirandello o la stanza della tortura, Milano, Mondadori, 1992; si riferisce all’atto III: «Voi non sapete che cosa è per me questa sera, figliuole mie... Proprio Il Trovatore... questa canzone della zingara... mentr'io, una notte, la cantavo con tutti attorno... Canta tra le lagrime: «Chi del gitano la vita abbella? La zingarella!» mio padre, quella notte, mio padre... il vostro nonno... ci fu riportato a casa tutto insanguinato... e aveva accanto una specie di zingara... e quella notte, quella notte, figliuole mie, si compì, si compì il mio destino... il mio destino...» 32 Non molto diversamente dalla novella, anche nel testo teatrale Mommina si congeda dalla vita recitando le ultime battute di Manrico, nel Trovatore, ma curiosamente non le stesse di Leonora, addio!. La scelta ricade qui sulla battuta immediatamente precedente: «Ah! che la morte ognora / è tarda nel venir / a chi desia / a chi desia morir! / Addio, addio, Leonora, addio...». Nessun riferimento, qui, al bisogno di essere ricordati oltre la morte, ma il cambiamento può essere dovuto al fatto che Mommina nella pièce ha coscienza di essere un personaggio, mentre nella novella questa metaletterarietà andava integrata.
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parte con grande disinvoltura, imponendo agli altri, di volta in volta, di reggergli il
gioco. A sipario abbassato il Dottor Hinkfuss riprende il suo dialogo con il pubblico:
L'effetto è in parte mancato; ma prometto che s'otterrà domani sera, potentissimo. Capita, anche nella vita, signori, che un effetto preparato con diligenza, e su cui contavamo, venga sul meglio a mancare e seguano naturalmente i rimproveri alla moglie, alle figliuole: «Tu dovevi far questo» e «Tu dovevi dire così!». È vero che qui era un caso di morte. Peccato, che il mio bravo...
dirà il nome dell'Attore Brillante
si sia così impuntato sulla sua entrata! Ma l'attore è valente; saprà certo domani sera disimpegnarsi di questa scena a maraviglia.33
L’implosione dei mondi reale e fittizio è totale, e si comprende qui a chiare
lettere: il Dottor Hinkfuss e il Vecchio Attore Brillante apparterrebbero allo stesso
livello diegetico, alla cornice diciamo, ma nel momento in cui Pirandello fa uso del
nome reale, la continuity si squarcia. L’attore in sé (chiunque egli sia) diventa
personaggio, e il personaggio Hinkfuss diventa reale, generando un cortocircuito
metateatrale.
A questo punto risulta piuttosto evidente come il Dottor Hinkfuss sia
l’elemento più importante, quello che paradossalmente reca nell’opera le istanze
dell’autore Pirandello. È tuttavia arduo stabilire in che misura il regista sia alter ego
dell’autore, e in che misura sia invece una caricatura. Su questo punto la critica ha
discusso molto, mostrano l’intrinseca ambiguità di Questa sera, in parte dovuta al
fatto che Pirandello è egli stesso sia autore sia capocomico, in parte perché la pièce è
stata pensata prima di tutto per un pubblico e una compagnia tedeschi, e solo dopo
33 Terzo atto, da http://www.classicitaliani.it/pirandel/drammi/38_pira_recita_soggetto.htm
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‘tradotta’ a uso italiano.34 Già i commenti della stampa all’indomani della prima a
Torino (14 aprile 1930) risultano contradditori. Roberto Alonge raccoglie, in
particolare, le testimonianze di Francesco Bernardelli e Silvio D’Amico.
La recensione su «La Stampa» di Francesco Bernardelli [15 aprile 1930] coglie bene l’essenza dell’opera in quanto «dramma della realizzazione teatrale e insieme la satira delle smanie attuali per la messa in scena». […] È così poco importante, il testo teatrale, che esso può anche non esserci […]. Ciò che conta è la rielaborazione che farà il metteur en scène, utilizzando gli attori come marionette. […] Ancora Bernardelli: «I comici diventano per istinto vitale creatori dei propri personaggi; ma […] essi vogliono ora, e invocano, la suprema coercizione, che è la bellezza dell’opera compiuta. Vogliono insomma il poeta tiranno».35
Dunque, prosegue Alonge, per Bernardelli «c’è poesia malgrado la dimensione
metateatrale della pièce»36, e così dicendo il recensore dimostra di preferire il
melodramma alla riflessione, o comunque che l’intento metateatrale non da tutti è
percepito come istanza principale. Di tutt’altro parere è Silvio D’Amico (18 giugno
1930):
Avevamo letto che, buttandosi decisamente dalla parte di quegli autori i quali oggi si ribellano all'invadenza (ahimè, anche economica) del metteur en scène, Pirandello avrebbe fatto, nel suo lavoro, la satira di cotesta invadenza. Ma l'asserzione ci pare tutt'altro che esatta […]. Il motivo fondamentale di Questa sera si recita a soggetto è che, in fondo, tutte le sere si recita a soggetto. […] perché, insomma, l'opera del poeta si conosce nel libro, a teatro si conosce l'opera degli artisti che, rappresentandola, la ricreano a modo loro.37
Quindi il dispotismo di Hinkfuss è, non solo giustificato, ma addirittura
necessario per la messa in scena stessa. A supporto della sua tesi, D’Amico ribadisce
34 A Marta Abba, Pirandello scrive: «[…] ho scritto il lavoro in vista dei teatri di qua e degli attori e attrici di qua» (Germania, 7 aprile 1929) in Luigi PIRANDELLO, Lettere a Marta Abba, a cura di B. Ortolani, Milano, Mondadori, 1995 35 Roberto ALONGE, Teoria e tecnica della messinscena nella trilogia del teatro nel teatro, in Pirandello e il linguaggio della scena, a cura di E. Lauretta, Agrigento, Centro Nazionale Studi Pirandelliani, 2002, pp. 16-‐17 36 Ivi, p. 17 37 Silvio D’AMICO, Apologia del regista, in Cronache del teatro, a cura di E. Palmieri e A. D'Amico, Bari, Laterza, 1963, da http://www.pirandelloweb.com/intorno/sicilia_teatro_questa_sera_si_recita_a_soggetto.htm#damico
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come «il terz'atto, quello della reclusione, svolge senza interventi del régisseur le sue
tinte cupe, affidate alla libera improvvisazione degli attori: e forse appunto per la
sua scura monotonia, non più variata dai brillanti incidenti a cui il pubblico aveva
preso gusto, non è quello che lo stesso pubblico goda di più».38 In sostanza il critico
ritiene che sotto le spoglie del direttore di scena si celi veramente Pirandello autore,
e che la pièce non sia una satira, bensì «nonostante alcune ironie di dettaglio,
sostanziale apologia del metteur in scéne, creatore e signore dello spettacolo».39
Ancora. Artioli, sulla base della traduzione dal tedesco di Hinkfuss, ovvero «pie’
zoppo»40, afferma che «alludendo alle friabili basi del regno registico, la simbolica
zoppia di Hinkfuss rafforza i distinguo pirandelliani nei confronti della figura
emergente».41 E aggiunge, tirando in causa Edipo:
Hinkfuss che, nel discorso della Corona, arroga a se stesso ogni responsabilità, è contemporaneamente il garante dell'Ordine e la causa di Disordine, la salvaguardia dell'Istituzione e colui che può condurla in rovina. […] Va da sé che Pirandello, profilando dietro la figura di Hinkfuss il mito d'Edipo, non fa che proiettare sul tema una sua convinzione di sempre: il padre del teatro, l'unico ad avere contatto con l'imago originaria, è il drammaturgo. Se il regista misconosce questa paternità e, smanioso d'affermare il suo io, inonda la scena di risibili icone, l'arte teatrale, a partire dal suo prezioso supporto -‐ l'attore , conosce un inesorabile declino.42
Se accettassimo questa interpretazione, e ritenessimo il regista tanto preso nella sua
«hỳbris» da non rendersi conto del «gesto sacrilego»43 compiuto nell’eliminare
l’autore dall’equazione, come si spiegherebbe l’insistenza di Pirandello sul conflitto
38 Ibidem 39 Ibidem 40 Umberto ARTIOLI, Il nome e il nume: alla ricerca della scrittura seconda, in L’officina segreta di Pirandello, Roma-‐Bari, Laterza, 1989 da http://www.pirandelloweb.com/intorno/sicilia_teatro_questa_sera_si_recita_a_soggetto.htm#artioli 41 Ibidem 42 Ibidem 43 Ibidem
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Vita-‐Forma? Possiamo davvero credere che non ci sia l’autore dietro ad affermazioni
insistite e convincenti sulla finitezza dell’opera d’arte?
[…] v’invito a considerare che un’opera d’arte è fissata per sempre in una forma immutabile che rappresenta la liberazione del poeta dal suo travaglio creativo: la perfetta quiete raggiunta dopo tutte le agitazioni di questo travaglio. […] Se la vita si movesse sempre, non consisterebbe mai: se consistesse per sempre, non si moverebbe più. E la vita bisogna che consista e si muova. Il poeta s’illude quando crede d’aver trovato la liberazione e raggiunto la quiete fissando per sempre in una forma immutabile la sua opera d’arte. Ha soltanto finito di vivere questa sua opera. La liberazione e la quiete non si hanno se non a costo di finire di vivere. […] Se un’opera d’arte sopravvive è solo perché noi possiamo ancora rimuoverla dalla fissità della sua forma; sciogliere questa sua forma dentro di noi in movimento vitale; e la vita glie la diamo allora noi; di tempo in tempo diversa, e varia dall’uno all’altro di noi; tante vite, e non una; come si può desumere dalle continue discussioni che se ne fanno e che nascono dal non voler credere appunto questo: che siamo noi a dar questa vita; sicché quella che do io non è affatto possibile che sia uguale a quella di un altro.44 E, inoltre, come spieghiamo la scena finale della pièce, quando il Dottor Hinkfuss si
ripalesa sul palcoscenico? Dopotutto sono gli attori stessi a riconoscerne
l’importanza, dopo aver sperimentato cosa significhi lavorare senza regia.
IL DOTTOR HINKFUSS: Magnifico! Magnifico quadro! Avete fatto come dicevo io! Questo, nella novella, non c'è! L’ATTRICE CARATTERISTA: Eccolo qua di nuovo! L’ATTORE BRILLANTE: (sopravvenendo da sinistra) Ma è stato sempre qua, con gli elettricisti, a governar di nascosto tutti gli effetti di luce! NENÈ: Ah, per questo, così belli... TOTINA: L'ho sospettato, quando siamo apparse là in gruppo... Indica, dall'altra parte, a destra, dietro la parete: ... chi sa che bell'effetto da giù! DORINA: (indicando l'Attore Brillante) Mi pareva assai che l'avesse ottenuto lui! L’ATTRICE CARATTERISTA: (mostrando la Prima Attrice ancora a terra) Ma perché non s'alza la signorina? Se ne sta ancora lí... L’ATTORE BRILLANTE: Ohè, non sarà morta per davvero? Tutti si chinano premurosi su la Prima Attrice. IL PRIMO ATTORE: (chiamandola e scotendola) Signorina... signorina... L’ATTRICE CARATTERISTA: Si sente male davvero? NENÈ: Oh Dio, è svenuta! Solleviamola!
44 Preambolo, da http://www.classicitaliani.it/pirandel/drammi/38_pira_recita_soggetto.htm
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LA PRIMA ATTRICE: (sollevandosi da sé col solo busto). No... grazie... È il cuore, davvero... Mi lascino, mi lascino respirare... L’ATTORE BRILLANTE: Eh, sfido! Se vuole che si viva... Ecco le conseguenze! Ma noi non siamo qua per questo, sa! Noi siamo qua per recitare, parti scritte, imparate a memoria. Non pretenderà mica che ogni sera uno di noi ci lasci la pelle! IL PRIMO ATTORE: Ci vuole l’autore! IL DOTTOR HINKFUSS: No, l’autore no! Le parti scritte, sì, se mai, perché riabbiano vita da noi, per un momento, e... rivolto al pubblico senza più le impertinenze di questa sera, che il pubblico.45
In queste ultime battute si assiste a un compromesso tra attori e regista, che porta a
bilanciare le inconciliabili premesse iniziali. Gli attori accettano il lavoro del
direttore, perché è attraverso il suo coordinamento che la loro bravura risalta (con
l’uso delle luci al momento giusto, per esempio), e d’altro canto il regista modifica le
sue convinzioni sul recitare a soggetto, poiché non è comunque la mancanza di testo
scritto a rendere una commedia più viva. Ogni recitazione, anche quella legata ad un
testo e a battute fissate, è comunque interpretazione, proprio in virtù del fatto che
«può tradursi in vita e tornare a muoversi ciò che l’arte fissò nell’immutabilità d’una
forma; a patto che questa forma riabbia movimento da noi, una vita varia e diversa e
momentanea: quella che ciascuno di noi sarà capace di darle»46. Scrive Barilli al
riguardo:
[…] ciò è quanto basta a Pirandello, che non ha mai difeso la concezione di un autore forte, abbarbicato all’esibizione narcisistica del proprio Ego; egli ha difeso tutt’al più un autore-‐funzione, che si esplichi appunto nel dotare il dramma di un testo scritto.47
Concluderei citando anche Alonge, poiché le sue posizioni riassumono bene
l’equilibrio tra autore/regista/attori che alla fine questa pièce mostra.
45 Ivi, Atto III (grassetto mio) 46 Ivi, Preambolo 47 BARILLI, op. cit., p. 213
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In definitiva un Pirandello fautore di un’idea più misurata, capace di tener conto del peso della tradizione attorica, assai forte in Italia. […] [Scrive Pirandello (22 aprile 1930)] «La sua [di Hartung] régie m’importa fino a un certo punto; voglio vedere gli attori». […] [Ma allo stesso tempo], ribadisce più volte che è necessario piegare l’individualismo degli attori.48
In conclusione: Pirandello teorizza insomma, sì, il regista servo d’autore, ma va scoprendo per intanto, forse senza nemmeno rendersene troppo conto, tutta l’importanza capitale del lavoro del metteur en scène, tutta l’autonoma creatività dello spettacolo.49
Questa sera, più ancora delle precedenti, è un’opera complessa, ambigua nel
suo affrontare un tema tanto spinoso come il rapporto tra lo scrittore e il direttore
di scena, tra il soggetto e la regia teatrale. Quello che resta della riflessione
Pirandelliana è la consapevolezza dell’autore che maneggia testi non suoi per
integrarli nella sua creazione. Come Pirandello adopera versi tratti dai libretti di
opere famose, riadattandoli o storpiandoli affinché siano coerenti con la storia che
vuole raccontare, così il regista si approccia a una materia preesistente e le dà nuova
vita, la interiorizza fino a farla propria. L’autore ‘originale’, quindi, diventa una fonte
di ispirazione, ma non necessariamente un comprimario, poiché una volta fissato, il
testo diventa patrimonio di chiunque ne voglia usufruire. Questa sera è l’ultima pièce
di ‘teatro nel teatro’ perché con essa si esaurisce il discorso metateatrale e,
soprattutto, si apre la nuova stagione della regia contemporanea.
48 Roberto ALONGE, Luigi Pirandello, Roma-‐Bari, Laterza, 1997, pp. 100-‐101 49 Ivi, p. 102
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Bibliografia
ALONGE Roberto, Luigi Pirandello, Roma-‐Bari, Laterza, 1997
, Teoria e tecnica della messinscena nella trilogia del teatro nel teatro, in
Pirandello e il linguaggio della scena, a cura di E. Lauretta, Agrigento, Centro
Nazionale Studi Pirandelliani, 2002, pp. 13-‐26
D’AMICO Silvio, Apologia del regista, in Cronache del teatro, a cura di E. Palmieri e A.
D'Amico, Bari, Laterza, 1963
ARTIOLI Umberto, Questa sera si recita a soggetto in cinquant’anni di creazioni
registiche, in Pirandello e il linguaggio della scena, a cura di E. Lauretta, Agrigento,
Centro Nazionale Studi Pirandelliani, 2002, pp. 85-‐118
, Il nome e il nume: alla ricerca della scrittura seconda, in L’officina segreta di
Pirandello, Roma-‐Bari, Laterza, 1989
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MACCHIA Giovanni, Il personaggio sequestrato, in Pirandello o la stanza della tortura,
Milano, Mondadori, 1992
PIRANDELLO Luigi, Questa sera si recita a soggetto / Trovarsi / Bellavita, a cura di C.
Simioni, Milano, Arnoldo Mondadori, 1970 («Gli Oscar», 271), da
http://www.classicitaliani.it/pirandel/drammi/38_pira_recita_soggetto.htm
, Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo , Milano, Arnoldo Mondadori,
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http://www.classicitaliani.it/pirandel/novelle/12_171.htm
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http://www.classicitaliani.it/pirandel/pira19_prefazione.htm
, Lettere a Marta Abba, a cura di B. Ortolani, Milano, Mondadori, 1995
TINTERRI Alessandro, Le prime messinscene di Questa sera si recita a soggetto, in
Testo e messinscena, a cura di R. Alonge et alii, Roma, La Nuova Italia Scientifica,
1986, pp. 133-‐146