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1 Università degli Studi di Milano Bicocca Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione Riccardo Massa Corso di laurea Magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche COTONE DI STATO Sfruttamento del lavoro e risorse naturali nella Repubblica dell’Uzbekistan Relatore: Dott. Antonio De Lauri Co-relatore: Prof.ssa Alice Bellagamba Tesi di Laurea Magistrale di: Sara Maniscalco Matricola 770827 Anno Accademico 2014-2015

COTONE DI STATO. Sfruttamento del lavoro e delle risorse naturali nella Repubblica dell'Uzbekistan

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Università degli Studi di Milano Bicocca

Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione Riccardo Massa

Corso di laurea Magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche

COTONE DI STATO

Sfruttamento del lavoro e risorse naturali nella Repubblica dell’Uzbekistan

Relatore: Dott. Antonio De Lauri

Co-relatore: Prof.ssa Alice Bellagamba

Tesi di Laurea Magistrale di:

Sara Maniscalco

Matricola 770827

Anno Accademico 2014-2015

2

RINGRAZIAMENTI

Desidero innanzitutto ringraziare il dott. Antonio De Lauri per i suoi preziosi

insegnamenti, per essere stato un importante punto di riferimento, un’ispirazione, un mentore,

anche al di là di questo preciso lavoro di tesi. Lo ringrazio per aver creduto in me, per avermi

seguita con estrema serietà e dedizione, dedicandomi tempo ed energie. Grazie alla sua

estrema preparazione e alla passione che riversa nel suo lavoro ha arricchito, non solo la mia

capacità analitica, ma anche la sensibilità con la quale approcciarsi a determinate tematiche

dell’antropologia contemporanea. Grazie, inoltre, alla mia correlatrice, la professoressa Alice

Bellagamba, ed al progetto Shadows of Slavery in West Africa and Beyond. A Historical

Anthropology (SWAB), ERC GA 313737, che ha finanziato il mio periodo in Uzbekistan. In

relazione a questa bellissima esperienza, non posso non ringraziare mio fratello Davide, per

aver condiviso con me quei giorni meravigliosi che, da sola, ammetto sarebbero risultati un

po’ più impegnativi. Sei stato un fratello maggiore esemplare, grazie. Ringrazio, ovviamente,

mio padre e mia madre, per non avermi mai fatto mancare l’appoggio ed il calore di una

famiglia. Supportandomi durante tutto il mio percorso formativo, sapendomi consigliare e

criticare positivamente nelle scelte prese sin ora. Ci sarebbero moltissime altre persone da

ringraziare, dagli interlocutori con cui ho potuto scambiare informazioni fondamentali durante

il mio viaggio, tra questi Дильшод Рафиев e la sua famiglia; alle persone che mi sono state

vicine durante i mesi della scrittura, tra loro un ringraziamento speciale va a Stefano

Malatesta per la disponibilità all’ascolto e l’amicizia di questo ultimo anno.

3

INDICE

Abstract ................................................................................................................................................................... 4

INTRODUZIONE ................................................................................................................................................... 5

1. CENNI STORICI .............................................................................................................................................. 9

1.1 GLI ZAR E LA SOTTOMISSIONE DEI GRANDI KHANATI: .................................................................. 9

1.2 IL CROLLO DELL’IMPERO E L’ASCESA BOLSCEVICA: ................................................................... 17

1.3 “RICONQUISTA” E DELIMITAZIONE NAZIONALE: ........................................................................... 22

1.4 L’EPOCA DELLE REPUBBLICHE SOCIALISTE E L’IMMINENTE CROLLO .................................... 29

1.5 L’UZBEKISTAN POST-SOVIETICO ........................................................................................................ 33

2. SFRUTTAMENTO DEL LAVORO E GESTIONE DELLE RISORSE NATURALI: ACQUA, TERRA,

COTONE NELLE TRASFORMAZIONI AGRARIE DELL’UZBEKISTAN POST-SOVIETICO ...... 36

2.1 LA QUESTIONE DEL LAGO ARAL ......................................................................................................... 36

2.2. WATER USERS ASSOCIATIONS (WUAs): PIANIFICAZIONE,............................................................... 47

2.3 COMUNITA’ RURALI IN TRANSIZIONE: RIFORME AGRARIE E NUOVI........................................ 49

2.3.1 Prima fase (1992-1998): Dal Sovkhoz al Kolkhoz ................................................................................... 53

2.3.2 Seconda fase (1998-2003): dal Kolkhoz al Shirkat ................................................................................. 56

2.3.3. Terza fase (2003-2008): Decollettivizzazione ....................................................................................... 62

2.3.4 Quarta fase (dal 2008 in poi): Ottimizzazione ........................................................................................ 73

2.4. POLITICHE DI PRODUZIONE DEL COTONE ....................................................................................... 74

2.4.1 Pianificazione: i fermer e la produzione del cotone ................................................................................ 77

2.4.2 L’organizzazione del lavoro ................................................................................................................... 80

2.4.3 Lavoratori sfruttati .................................................................................................................................. 81

3. STATO DI CONTROLLO ............................................................................................................................. 85

3.1 NEO-PATRIMONIALISMO ....................................................................................................................... 85

3.1.1 Presidenzialismo e autoritarismo ............................................................................................................ 88

3.1.2. La cultura della politica locale: i clan d’élite ....................................................................................... 100

3.2. IDEOLOGIA NAZIONALE E RETORICA DI STATO .......................................................................... 104

3.2.1 Mitologia e costruzione della storia nazionale ...................................................................................... 106

CONCLUSIONI .................................................................................................................................................. 124

BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 127

4

Abstract: Questo lavoro di tesi è orientato all’analisi storica e antropologica di cruciali

dinamiche legate alla produzione del cotone nella Repubblica dell’Uzbekistan. L’intento

ultimo è di riflettere su come lo sfruttamento del lavoro e, in particolare, dei “lavoratori della

terra”, di pari passo con lo sfruttamento delle risorse ambientali, sia fortemente intrecciato a

politiche di centralizzazione del potere nonché direttamente legittimato dall’autorità dello

Stato tanto da poter parlare di sfruttamento istituzionalizzato o sfruttamento produttivo (Viti

2007:256). L’industria cotoniera è il mezzo tramite cui precise dinamiche di “asservimento”

vengono attuate attraverso l’uso del diritto e del potere esecutivo, il controllo sulla terra e sui

prezzi di mercato, la costruzione di miti e ritualità di Stato, la limitazione e il controllo delle

libertà individuali.

(*) Tutte le citazioni riportate in questo lavoro, trascritte in italiano e non in lingua originale,

sono state tradotte da me.

5

INTRODUZIONE

Il Centro Asia è una regione notoriamente difficile da definire. Rispettando una

visione cartografica generale, essa comprende le terre incorniciate tra il Mar Caspio e alcune

grandi catene montuose: dalle sponde del mare si estende verso nord fino alla punta degli

Urali, da est verso il centro dove incontra i monti Altai e Tien Shan e a sud fino all’Hindu

Kush (Sahadeo & Zanca 2007). Le Repubbliche post-sovietiche presenti in questi territori

sono entità politiche relativamente giovani. I confini nazionali che le connotano, derivano in

linea diretta dal dominio bolscevico che, modellando la regione sulla base delle entità

amministrative zariste del Turkestan, “creò” Kazakhstan, Kyrguzstan, Tajikistan,

Turkmenistan e Uzbekistan. Per i suoi cittadini, il Centro Asia rappresentava e tutt’ora

rappresenta una regione di grandi promesse, ma anche profonde iniquità. Le promesse, dopo il

crollo dell’Unione Sovietica, presero forma in nove opportunità di mobilità sociale ed

espressione culturale. Le iniquità, invece, si legarono a dinamiche politiche ed economiche

autoritarie, con l’imposizione di severe restrizioni ad attività indipendenti concorrendo al

divario tra ricchi e poveri. Il mio lavoro di tesi è, almeno in una certa misura, legato proprio a

queste iniquità. Le pagine che seguono sono, infatti, finalizzate all’analisi storica ed

antropologica di cruciali dinamiche legate alla produzione del cotone nella Repubblica

dell’Uzbekistan. L’intento ultimo di questo lavoro è riflettere su come lo sfruttamento del

lavoro e, in particolare, dei “lavoratori della terra”, di pari passo con lo sfruttamento delle

risorse ambientali, sia fortemente intrecciato a politiche di centralizzazione del potere nonché

direttamente legittimato dall’autorità dello Stato tanto da poter parlare di sfruttamento

istituzionalizzato o sfruttamento produttivo (Viti 2007:256).

Le chiavi di lettura che ho utilizzato rimandano a diversi ambiti dell’analisi

antropologica. Nell’analizzare le problematiche relative allo sfruttamento delle risorse naturali

mi sono ispirata a particolari teorie elaborate dall’antropologia dell’ambiente, in particolar

modo a quelle relative alla New Ecological Anthropolgy (Kottak 1999). L’antropologia del

lavoro, comprendente il filone di ricerca sulle nuove forme di schiavitù e sugli asservimenti di

tipo produttivo, sono stati la mia lente interpretativa per guardare le relazioni di potere

riprodotte all’interno dell’industria cotoniera uzbeka. Dinamiche, queste, in cui lo Stato,

attraverso retoriche nazionaliste e politiche autoritarie, diviene la figura centrale di una catena

di sfruttamento particolarmente onerosa per i membri della classe contadina. Ho ritenuto,

inoltre, fondamentale collocare tale riflessione in una prospettiva storica per mostrare come,

nonostante ci si aspetti che le strutture sovietiche non condividano nulla col sistema di stampo

liberale contemporaneo, vi sia, invece, una continuità politico-economica che, a mio parere,

6

spiega molti aspetti dell’attualità dell’Uzbekistan. Il mio tentativo è quello di tenere insieme

la riflessione sullo sfruttamento delle risorse naturali con il fenomeno dello sfruttamento del

lavoro al fine di fornire un quadro utile per comprendere i profondi squilibri sociali e il

“logorio ambientale” che hanno contraddistinto la nascita e il consolidamento dello stato

uzbeko.

Pur avendo deciso sin dalle prime fasi di progettazione di questo scritto che la mia tesi

non sarebbe stata basata su un lavoro di ricerca etnografica vera e propria, ho comunque

voluto recarmi nel paese per un periodo compreso tra ottobre e novembre 20141. Il desiderio

di fare esperienza tangibile dei fenomeni raccontati da altri nella letteratura antropologica mi

ha spinto a viaggiare tra le più importanti città uzbeke. Ho seguito un itinerario abbastanza

tradizionale che dalla capitale, Tashkent, mi ha portato fino a Bukhara, passando per

Samarcanda e Urgut, un paesino agricolo limitrofo al “cuore pulsante della via della seta”.

Nonostante l’enorme scoglio comunicativo, dato dal fatto che nel paese la maggior

parte della popolazione parla solo russo o uzbeko, lingue che io sfortunatamente non pratico,

ho, comunque, intrattenuto alcune conversazioni informali molto interessanti ed utili con i

pochi che parlassero inglese: commercianti di spezie, proprietari di guesthouse, taxisti,

studenti e una studentessa italiana in Erasmus a Samarcanda. Nei primi giorni trascorsi a

Tashkent ho avuto modo di scontrarmi con la rigidità di una città fortemente politica2, in cui

edifici governativi tappezzati da marmo lucidissimo o ricoperti da pannelli di vetro scuro,

svettano sontuosi tra il reticolo di enormi vie cementificate. Una città il cui passato sovietico

si respira nell’aria e si concretizza in elementi architettonici come, ad esempio, la “tenebrosa”

metropolitana, ricoperta da immensi mosaici a tinte cupe e fievolmente illuminata da

lampadari in stile barocco. Altrettanto palpabile è, di contro, il tentativo messo in atto dal

neonato Stato indipendente di mistificare il suo vistoso passato. Gli enormi murales ispirati

alla tradizione persiana, arricchiti da particolari tipicamente uzbeki (fiori di cotone, frutti

stilizzati di melograno e mandorla), o l’invasiva e appariscente propaganda nazionalista

1 Il viaggio è stato finanziato dal progetto SWAB, GA 313737.

2 C’è chi sostiene, come il giornalista Fabio Belafatti, che percorrendola ci si renda conto che tutto, dalla

disposizione delle vie alle dimensioni degli edifici, segue una logica politica ferrea. A partire dalle strade, che a Tashkent sono larghissime ed incredibilmente inutili, per una popolazione di due milioni di abitanti. Si possono facilmente vedere viali a sei corsie, autentici monumenti allo spreco, dove al massimo si incrociano un paio di Daewoo e qualche vecchia Lada. Sempre secondo le informazioni del giornalista in realtà, questi nastri d’asfalto avrebbero una funzione d’ordine pubblico ben precisa. Sarebbero, infatti, funzionali all’esercizio del potere sulle masse: strade così larghe non possono essere occupate da folle inferocite. Non possono essere bloccate da rivoltosi, o chiuse da barricate durante proteste popolari. L’esercito, invece, può muovervisi rapidamente per schierare mezzi e divisioni antisommossa; e può reprimere eventuali rivolte simili a quelle che, nel vicino Kirghizistan, deposero due presidenti in soli cinque anni. (Belafatti 2010, disponibile al sito web http://www.erodoto108.com/tashkent-anatomia-di-unarchitettura/)

7

affissa nei luoghi più disparati, ne sono un’ottima riprova. Durante i miei spostamenti da una

città all’altra, attraverso la linea ferroviaria, mi sono imbattuta in vaste distese di campi

coltivati a cotone, alternati da piccoli villaggi rurali e solcati da una miriade di canali

d’irrigazione. Pur non essendo stata una vera e propria etnografia, l’esperienza in Uzbekistan

mi è stata d’enorme aiuto nella strutturazione del mio percorso d’analisi. Grazie a questo

viaggio ho arricchito i dati provenienti dallo studio della letteratura con esperienze personali

che mi hanno permesso di mettere in discussione alcuni preconcetti dati da una visione

ingenua e comprendere più profondamente il senso e l’intento del mio lavoro. Come scrive

Duilio Giammaria nell’incipit del suo libro Seta e Veleni

Ogni viaggio obbliga all’abbandono di qualche certezza. Si viaggia meglio se si lascia

dietro di sé una parte di quello che si conosce. Ogni viaggio infatti produce la percezione della propria

ignoranza e quasi mai conferma gli assunti o le idee di partenza. Viaggiare è un’esperienza che coinvolge

tutti i sensi e richiede ogni energia e capacità di cui si dispone (Giammaria 2009:5).

Ho strutturato la tesi in tre capitoli:

1) Il primo capitolo è orientato all’analisi storica dei più importanti avvenimenti che portarono

il cotone ad essere il protagonista indiscusso dell’economia dell’Uzbekistan contemporaneo.

Qui mostro come la coltura, già presente nell’epoca dei grandi Khanati, venne enormemente

potenziata durante il dominio zarista di fine ‘800, fino a raggiungere la sua massima

espressione con l’ascesa del potere sovietico. Affronto, inoltre, temi quali la capacità

coloniale di sfruttare meccanismi di dominio basati sul divide et impera, avvicinando la

riflessione sul colonialismo sovietico alla lente interpretativa foucaultina legata al biopotere e

alla biopolitica nell’ottica che Appadurai elabora in relazione al colonialismo britannico in

India. L’intento fondamentale di questo capitolo è mostrare come, già dai primi anni di

dominazione, iniziò a prendere forma una fitta rete di rapporti di potere legati alla produzione

dell’“oro bianco” riscontrabile anche nell’attualità.

2) Nel secondo capitolo mi concentro sull’interazione tra sfruttamento ambientale e

sfruttamento lavorativo. Nel primo paragrafo mi occupo della questione del prosciugamento

del Lago Aral mostrando, attraverso la chiave di lettura di alcune teorie d’antropologia

ambientale nonché della teoria del terzo paesaggio di Guillet Clément, la natura politico-

economica delle controversie ecologiche e le sue conseguenze sociali e culturali. Attraverso

un’analisi delle riforme agrarie dall’indipendenza ad oggi, cerco inoltre di delineare un profilo

delle comunità rurali in transizione e dei nuovi soggetti produttivi scaturiti da politiche

centralizzate statali. Essendo l’Uzbekistan una nazione in piena transizione politica ed

economica, ciò che mi interessa mostrare in questo capitolo è come, nonostante i cambiamenti

8

formali nell’organizzazione agricola, la sostanza alla base della produzione (del cotone in

particolar modo) e dei rapporti di sfruttamento del lavoro, sia rimasta molto simile al periodo

sovietico. Nei paragrafi specificatamente dedicati alla produzione del cotone mostro, infine,

come nel paese si possa parlare di una catena di relazioni di potere (e sfruttamento) basate su

clientelismo, quote di produzione, controllo del mercato e diseguale accesso alle risorse.

3) Nel terzo capitolo, infine, affronto la questione del controllo statale, della sua

composizione e delle retoriche nazionaliste che esso produce. Attraverso gli studi sul

neopatrimonialismo analizzo le dinamiche legate all’autoritarismo statale, mostrando come

esse si riproducano fortemente nell’industra cotoniera tanto da far si che essa divenga il

mezzo tramite cui precise dinamiche di “asservimento” vengono attuate attraverso l’uso del

diritto e del potere esecutivo, il controllo sulla terra e sui prezzi di mercato, la costruzione di

miti e ritualità di Stato nonché la limitazione e il controllo delle libertà individuali.

Grazie al supporto del progetto Shadows of Slavery in West Africa and Beyond. A

Historical Anthropology (SWAB), ERC GA 313737, ho potuto trascorre un periodo in

Uzbekistan e ho avuto modo di confrontarmi con tematiche di grande rilevanza oltre ce di

grande interesse. Il lavoro di tesi, infatti, è stato un percorso che mi ha permesso di allargare i

miei orizzonti d’interesse e, allo stesso tempo, di approfondire questioni che ritengo

particolarmente importanti per capire il mondo in cui viviamo: sfruttamento umano e

ambientale.

1. CENNI STORICI

1.1 GLI ZAR E LA SOTTOMISSIONE DEI GRANDI KHANATI:

9

L’AVVIO DELLA COLONIA DEL COTONE

Prima di articolare in maniera più approfondita i temi accennati sopra, è interessante

chiarire quali furono gli avvenimenti storici più rilevanti che portarono il cotone ad essere un

elemento fondamentale per la politica e l’economia dell’Asia centrale e in particolar modo

dell’ Uzbekistan.

Nel corso del medioevo fino all’avvento dell’impero zarista i territori dell’Asia

centrale erano suddivisi principalmente in tre grandi Khanati3 musulmani: Khiva, Bukhara e

Kokand. Città stato feudali con confini non ben delineati, in cui convivevano popoli di etnie

differenti che, secondo la grossolana logica classificatoria derivata dalla futura potenza

coloniale4, potremmo identificare come uzbeki, turkmeni, kazaki ecc. Questi tre nuclei di

potere, oltre ad essere legati da precari rapporti commerciali, si caratterizzavano per i

frequenti conflitti tra élite dominanti volte ad ottenere la supremazia sui territori dell’antica

via della seta. Una delle debolezze maggiori all’arrivo degli invasori, infatti, fu proprio questa

mancanza di mutuo soccorso, tale che i khan di Kokand, Bukhara e Khiva , da tempo in

guerra tra loro, si resero disponibili a scendere a patti coi russi a scapito gli uni degli altri

(Filatov – Malašenko 2000).

Di fatto la Russia zarista iniziò ad avanzare pretese espansionistiche sui territori

dell’Asia centrale agli inizi del XIX sec.. In origine fu un espansione volta a limitare

l’avanzata inglese, che dall’India spinse i suoi confini verso l’Afghanistan e successivamente

verso le regioni centro asiatiche. Molti storici sono soliti parlare di “Grande gioco”5

3 Khanato ‹ka-› (meno com. canato) s. m. [der. di khan]. – Territorio soggetto alla giurisdizione di un khan; può

voler significare, anche, la giurisdizione stessa. Khan s.m. - dal turco kân, di orig. mongolica; propr. ‘signore’

(Dizionario Hoepli 2011). 4 Infatti, a partire dalla seconda metà dell’800 la potenza coloniale zarista diede vita alla regione del Turkestan,

un raggruppamento di vaste aree dell’asia centrale all’interno di un'unica colonia. Essa confinava a nord con la

Regione delle steppe, a occidente con il mar Caspio, a oriente con la Cina e a sud con la Persia e l’Afghanistan.

Col primo censimento si stimò che la popolazione fosse intorno ai 5 milioni di abitanti. Era divisa equamente tra

nomadi e sedentari. Il censimento dell’imperò catalogò la popolazione secondo appartenenze etniche. Vennero

identificati quali gruppi sedentari uzbechi, sarti e tajichi, e come gruppi nomadi i kazachi, kirgizi e i turkmeni.

Una divisione grossolana dettata da esigenze di catalogazione e controllo. Per un maggior approfondimento vedi

Buttino (2003). 5 David Fromkin (2002), pag. 29: “Sembra che il primo a usare l'espressione «il Grande Gioco» sia stato un

ufficiale britannico di nome Arthur Conolly. Pur essendosi battuto con coraggio e intelligenza lungo la frontiera

himalayana e tra i deserti e le oasi dell'Asia centrale, egli finì col perdere, e pagò, un prezzo terribile. Un emiro

uzbeko lo tenne prigioniero per due mesi in un pozzo in cui faceva gettare rettili e vermi; infine, ciò che restava

dell'ufficiale venne estratto dal pozzo e decapitato. L'espressione «il Grande Gioco» fu trovata in un suo

quaderno di appunti, e adoperata da uno storico della prima guerra afghana. [John W. Kaye, History of the War

in Afghanistan, 1851, London] In seguito, Rudyard Kipling le diede la celebrità servendosene in Kim, il romanzo

che narra le imprese di un ragazzo angloindiano e del suo mentore afghano, impegnati a sventare minacciose

trame russe lungo le vie di comunicazione con l'India.”

10

riferendosi a questa disputa coloniale, che culminò con la negoziazione della “Durand Line”6,

una convenzione anglo-russa con la quale vennero fissati i confini di dominio tra Russia e

Inghilterra.

Appurato il primo intento di arginare l’espansione anglosassone, come ogni imperialismo

dell’epoca, anche quello zarista non ebbe esclusivamente obiettivi di ordine politico-militare,

gli strumenti di dominio andarono al di là delle armi. Agli inizi degli anni Settanta

dell’Ottocento l’intento di riprendere la campagna militare in Turkestan, momentaneamente

sospesa per far fronte alla guerra in Crimea, fu caldamente sostenuta e spalleggiata da

importanti circoli industriali e commerciali di San Pietroburgo e Mosca. L’interessamento a

quelle terre di mezzo nasceva dal fatto che l’industria tessile russa stava attraversando una

crisi legata al taglio delle importazioni di cotone grezzo proveniente dagli Stati Uniti. Con

l’esplodere della guerra civile americana, infatti, i rapporti di import della materia prima

ebbero un brusco arresto. Industriali e mercanti russi chiesero dunque aiuti finanziari al

governo per importare il cotone grezzo dall’Asia centrale, soprattutto da Bukhara (Buttino

2003):

“Da queste parti il cotone si era sempre lavorato. Il tessuto di cotone è leggero, robusto e anche sano:

copre e tiene freschi. Da secoli manteneva un prezzo vantaggioso, dato che se ne fabbricava poco: limite

imposto allora (come oggi) dalla cronica mancanza d’acqua dei tropici, Per aumentarne la produzione si

sarebbe dovuto sottrarre acqua ai giardini, tagliare i boschi, sterminare il bestiame. Ma in tal caso di che

vivere, che cosa mangiare? Un dilemma millenario, noto in tutto il mondo, dall’India alla Cina, dall’

America all’Africa. E Mosca? Ovviamente era noto anche a Mosca” (Kapuściński 1994:250).

Le parole del documentarista polacco risuonano qui come un preludio all’invasivo

sfruttamento delle risorse avvenuto negli anni della dominazione, e oltre, di cui parlerò nei

paragrafi seguenti. Dunque, le élite industriali appoggiarono caldamente la conquista militare

sperando di ottenere un ritorno economico concretizzato in una maggior fruizione del cotone

grezzo (Buttino 2003:20).

Nel 1860 la Russia conquistò gran parte del khanato di Kokand. Tashkent7 cadde nel

1865, due anni dopo vi si stabilì il Governatorato generale. L’ultima a cadere fu Khiva,

Alessandro II “per lei” progettò una campagna di conquista in gran stile. Quattro spedizioni

6 Con la messa in atto di tale provvedimento nel 1893, Sir Montimer Durand, segretario degli Esteri del Raj

britannico, stabilì i margini del confine di separazione tra India e Afghanistan (che attualmente separano

Pakistan e Afghanistan). Una demarcazione che è rimasta motivo di contrasto per gli afghani, soprattutto per i

pashtun, etnia che venne suddivisa dal nuovo confine in due diversi stati (De Lauri 2012). 7 Città principale del Turkestan e la città russa dell’Asia Centrale per antonomasia. Capitale coloniale

dell’Impero ed attuale capitale dell’Uzbekistan. Per avere un quadro più approfondito della complessità di

dinamiche presenti in questa città e degli sviluppi nel corso della dominazione vedi Buttino (2003) cap. 2 pp. 23-

48.

11

giunte da diverse direzioni attraverso la steppa tra i fiumi Syr Daria e Amu Daria

circondarono il khanato, il signore della città stato si arrese dopo una sanguinosa difensiva, gli

yomut8 furono sterminati e nel 1873 gli Zar proclamarono la provincia autonoma del

Turkestan nominando protettorati russi i khanati di Khiva e Bukhara. L’espansione fu

accompagnata da una campagna stampa serrata, incoraggiata dall’allora ministro degli Esteri

M. Gorčakov, in nome della “missione civilizzatrice” della Russia, del contenimento del

“fanatismo islamico” e dell’apertura di nuove terre alla colonizzazione dei contadini russi

(Benvenuti 1999:42). Da subito l’impero zarista comprese che la ricchezza del Turkestan

risiedeva nel cotone, e nel giro di affari connesso alla sua produzione e al suo commercio. Col

continuo appoggio delle industrie tessili venne introdotto nella colonia il cotone americano,

considerato più pregiato di quello tradizionalmente prodotto nell’Asia centrale.

Le prime piantagioni videro la luce nei dintorni di Tashkent già all’indomani della conquista

della città (Galuzo 1929, cit. in Buttino 2003:50). L’obiettivo che si prefisse l’impero era

quello di estendere le terre coltivate per la produzione del cotone su vasta scala. Ciò che è

interessante notare, anche al fine di comprendere meglio tutta una serie di relazioni legate

oggi all’industria cotoniera in Uzbekistan, è come, già nei primi anni della dominazione,

iniziò a prendere forma un’intricata rete di interessi che avviluppava nelle sue maglie politici,

militari, esponenti delle élite locali, contadini russi e “mussulmani”9, accumunati dal desiderio

di lucro offerto dallo sviluppo di questo settore. Le nuove piantagioni erano considerate,

infatti, un’ottima occasione di guadagno. Vi fu una sorta di “corsa all’oro” che coinvolse

commercianti, funzionari, ufficiali dell’esercito e tutti coloro che avevano possibilità di

investire denaro o che in qualche modo erano in grado di ottenere crediti. Ma i primi tentativi

di gestione diretta della produzione fallirono, principalmente per l’incapacità di comunicare

con la popolazione indigena. Quest’insuccesso portò quindi a una nuova strategia di

avvicinamento. Al fine di sopperire alle difficoltà comunicative si creò un ceto di mediatori10

che fecero da ponte tra le imprese commerciali russe e i produttori locali. Le aziende

contadine indigene non riuscirono mai, negli anni, ad arricchirsi a tal punto da diventare

autonome nella gestione del commercio del cotone. In effetti si iniziò qui a delineare una certa

8 Un gruppo etnico nomade facente parte del khanato di khiva, scesero in battaglia contro le truppe sovietiche in

difesa del proprio “regno”. Per approfondimenti sulla vicenda della conquista di Khiva si veda l’articolo di Ron

Sela (2006) disponibile da http://dx.doi.org/10.5169/seals-147713. 9 Uso qui il termine “musulmani” nell’accezione che Marco Buttino ne fa in La rivolta capovolta, ossia con

riferimento agli autoctoni dell’Asia Centrale, in contrapposizione ai coloni russi, arrivati in queste terre in

seguito all’avanzata zarista. 10

Si trattava di membri dei villaggi che avevano familiarità con la lingua russa e che conoscevano

personalmente il produttore locale. La mediazione avveniva nel momento in cui il produttore acquistava la

materia grezza dal coltivatore, la raffinava in piccole fabbriche di proprietà, e la rivende a industrie commerciali

russe.

12

rete di rapporti di potere legati al credito molto significativa. I contadini musulmani, per far

fronte alla domanda di materia prima e agli investimenti necessari alla produzione, fecero un

costante ricorso al credito. Furono i mediatori a fornire denaro, spesso pagando in anticipo le

quote di cotone non ancora raccolto (Bartol’d 1963, cit. in Buttino 2003:51). Parallelamente a

ciò si sviluppò anche un sistema di credito che poggiava sulle banche e sulle imprese

commerciali russe che ebbe come primi fruitori i mediatori. Ne derivò così un circuito di

credito secondo cui il destinatario ultimo del denaro, ossia il contadino, si trovò spesso a

dover pagare tassi d’interesse altissimi. Gli ingenti interessi derivati dalla nascente industria

spinsero l’impero ad allargare rapidamente la quantità di aree coltivate.

“Nel 1902 le piantagioni avevano un’estensione di 195.000 desyatina11

; nel 1912 erano cresciute a

385.000 desyatina e nel 1915 a 524.000, pari circa al 16% della terra coltivata in Turkestan. Il cotone

prodotto, tranne una piccola parte destinata al consumo locale, viene mandato in Russia: si tratta di 6.000

migliaia di pud12

nel 1902 che sono salite a 14.000 nel 1912. Le coltivazioni del Turkestan hanno così

assunto un’importanza centrale nell’economia dell’impero: forniscono il 33% del cotone utilizzato

dall’industria tessile russa nel 1900 e ne forniscono il 43% nel 1910.” (Buttino 2003:52)

Ne conseguì la diminuzione delle aree coltivate a grano tanto che dagli inizi del XX secolo il

Turkestan ne divenne importatore dalla Russia.

Questo periodo storico è particolarmente interessante ai fini dell’analisi dei temi da me

trattati, perché mostra come i russi sin da subito siano riusciti a legare l’economia della

colonia a quella dell’impero, creando una nuova élite locale con ruoli di collaborazione. Per la

stabilità del regime coloniale, infatti, era fondamentale che i ceti di mediazione sopra citati si

mantenessero in grado di controllare i produttori collaborando regolarmente con il centro

(Mosca), e che la domanda di cotone fosse relativamente stabile e a prezzi accettabili.

Volendo analizzare i primi anni di dominazione russa sul territorio centrasiatico, è

senz’altro opportuno dedicare qualche pagina anche al fenomeno dell’immigrazione contadina

russa e al difficile rapporto tra questa e la popolazione locale. Scoppiarono molti conflitti per

la ridistribuzione delle terre, fomentati anche dalle ondate di carestia e povertà che colpirono

la provincia del Turkestan agli inizi del ‘900. E’ interessante riflettere su tali migrazioni anche

in considerazione del fatto che esse non furono un evento isolato di questo preciso periodo

storico: come vedremo, le ondate migratorie legate al lavoro avrebbero interessato le regioni

del Turkestan anche negli anni successivi al crollo dell’Unione Sovietica (Aslan 2008).

11

Desyatina (in russo Десятина) era un tipo di misurazione arcaica della terra in vigore nella Russia zarista.

Equivaleva approssimativamente a 2.702 acri o 10,925 metri quadrati. 12

Pud (in russo пуд) era un'antica unità di misura russa pari a 40 libbre, ossia 16,3805 kg. È stata abolita nel

1924 dall'Unione sovietica insieme ad altre unità di misura obsolete russe.

13

Originariamente l’immigrazione russa, perlopiù di contadini, fu una pratica volutamente

incoraggiata e sponsorizzata dal governo. E’ d'altronde noto che le ondate migratorie fecero

coda a quasi tutte le grandi colonizzazioni moderne dal XVI al XX sec., basti pensare alla

conquista dell’America o dell’America Latina, uno degli elementi che rese stabili queste

grandi colonizzazioni, di fatto, fu lo stabilirsi di coloni migranti dal centro verso i territori

occupati. In questi termini si può dunque definire l’immigrazione come un ulteriore strumento

di dominio che, nel corso della conquista, si affianca alle armi e al commercio.

In epoca zarista la motivazione principale che spingeva un contadino russo ad emigrare nei

territori dell’Asia Centrale era la possibilità di reperire terre fertili e non ancora coltivate. Più

della metà dei migranti si stabilì fuori dalle città. Ciò rese la presenza russa più capillare e,

non più, prerogativa esclusiva delle città, facendo in modo che l’impero fosse meno esposto a

possibili rivolte dei musulmani. Si crearono così zone abitate da una popolazione europea

fedele all’amministrazione centrale pronta a rifornire, attraverso la propria produzione

agricola, l’esercito e la popolazione civile immigrata nelle città. Inoltre destabilizzò il potere e

l’economia pastorale delle tribù nomadi, creando nuove vie d’accesso al regime coloniale.

A ben vedere le migrazioni iniziarono già dagli anni quaranta dell’Ottocento, ancor prima

della presenza militare zarista. A spostarsi furono prevalentemente cosacchi provenienti dalla

Siberia che, volontariamente, occuparono zone limitrofe al confine con la Cina. Qualche

centinaio di famiglie allettate dalla possibilità di reperire terre nuove e supportate dal governo

attraverso l’esenzione dal servizio militare e dall’esenzione provvisoria dal pagamento delle

tasse per qualche anno (Pierce 1960, cit. in Buttino 2003).

Dagli anni settanta e soprattutto in seguito ad una grave carestia di inizio anni novanta

dell’Ottocento, le migrazioni si fecero via via più consistenti. Nel 1906, con la Riforma

Stolypin13

il governo sovietico liberalizzò l’immigrazione in Asia Centrale aprendo le porte a

un flusso di contadini poveri in cerca di terre da coltivare (Zanca 2011). L’amministrazione

del Turkestan si trovò così a fronteggiare l’ingente insediamento dei coloni. Il numero dei

contadini immigrati era elevato: circa 30.000 uomini con le loro famiglie si insediarono alla

fine del 1908 (Palen 1910, cit. in Buttino 2003). Questi grandi flussi migratori furono, oltre

che un mezzo per perseguire il fine coloniale, il risultato di riforme agrarie del governo

13

Inizialmente le autorità centrali compresero le difficolta d’inserimento dei migranti che l’amministrazione

della provincia del Turkestan dovette affrontare e, nel 1896, misero un freno alle migrazioni nei territori

coloniali. Tuttavia nonostante il divieto essa continuò in modo spontaneo, senza aiuto o regole di Stato. La

decisione di liberalizzare l’immigrazione venne presa a causa della carenza di terre fertili nelle regioni europee e

a causa delle agitazioni contadine sempre più frequenti.

14

centrale14

. Tra il 1910 e il 1914 vi furono circa 20.000 nuovi arrivi all’anno; solo nelle

campagne del Semirech’e15

la popolazione russa passò da 67.000 persone nel 1897 a 255.000

nel 1914 (Galuzo 1965, cit. in Buttino 2003). Si capisce, dunque, come la migrazione russa fu

una migrazione di massa che avvenne relativamente in pochi anni e che interessò in maggior

misura la regione del Turkestan. Questo processo fortemente invasivo portò a forti tensioni tra

i coloni russi, e tra questi e le popolazioni locali, specialmente come detto prima con le

comunità nomadi. Ciò che maggiormente mi interessa sottolineare in relazione alla questione

migratoria è il sistema di spartizione delle terre dettato dall’amministrazione coloniale e la

conseguente sedentarizzazione della popolazione nomade indigena. Prendendo ad esempio

l’analisi storica che Buttino (2003) fa dell’insediamento dei coloni nei territori della provincia

del Semirech’e, delineerò i punti chiave di un sistema di relazioni subordinanti basato sulla

proprietà e sull’affitto della terra.

Dagli inizi del ‘900 possiamo distinguere quattro tipologie di immigrati: i cosacchi, i

contadini di vecchia immigrazione, i coloni arrivati spontaneamente regolarizzati in un

secondo momento dall’amministrazione coloniale e i coloni che non hanno ancora

istituzionalmente ottenuto la terra. La distribuzione e l’estensione della terra data in cessione a

questi quattro gruppi era notevolmente ineguale. I cosacchi di fatto furono i più favoriti nella

spartizione terriera, al punto che furono in grado di affittare terre ad altri coloni russi o a

nomadi che decisero di diventare sedentari. Si formò cosi un sistema di proprietà e privilegi

piramidale che costrinse gli ultimi coloni arrivati, privi di denaro e possibilità di credito, a

lavorare come braccianti alle dipendenze di cosacchi o coloni di vecchia immigrazione. Vi fu,

inoltre, una categoria di contadini che svolse mansioni differenti nelle città, in attesa di

ottenere la regolamentazione. Di anno in anno le richieste per l’ottenimento di terre fertili da

parte dei contadini russi divennero sempre più pressanti, e l’intento iniziale di non influire

eccessivamente sulla vita delle comunità nomadi iniziò a vacillare (Ibid.).

A causa dell’aumento delle terre coltivate tali popolazioni incontrarono difficoltà via via più

consistenti a raggiungere col bestiame pascoli e torrenti secondo le abituali vie d’accesso.

Occorre ricordare che la popolazione nomade e seminomade dell’area in analisi si componeva

principalmente di gruppi kirgizi e kazachi, più una piccola percentuale di gruppi kalmyki

provenienti dalla Cina. I nomadi disponevano anche di insediamenti (zimovka) dove veniva

14

Per un maggior approfondimento sulle riforme agrarie attuate nell’impero sovietico, dalla metà dell’800 in poi,

si veda Benvenuti (1999), in particolar modo i capitoli secondo e terzo, pp. 41-110. 15

L’ oblast del Semirech’e (in russo Семиреченская область, letteralmente "Terra dei sette fiumi") era una

provincia dell’ impero coloniale russo. Corrisponde attualmente alla parte sud-est del Kazakhstan e nord del

Kyrgystan. Fu creata dai territori della parte nord del Khanato di Kokand, antecedentemente furono territori

appartenenti al Khanato Kazako.

15

tenuto il bestiame al riparo durante l’inverno, e in cui una parte dei nomadi stessi viveva tutto

l’anno occupandosi del foraggio dell’agricoltura16

. Con l’arrivo dei coloni russi questa pratica

di semi-stanziamento divenne sempre più frequente. Il progressivo abbandono del

nomadismo, indotto dalla nuova situazione coloniale, venne percepito rispettivamente come

segno di impoverimento e di crisi dalle comunità tribali, e come fatto positivo dalla comunità

russa. Già nel 1891 venne emanata una legge coloniale per cui le terre che tradizionalmente

appartenevano ai nomadi divennero proprietà dello Stato17

. Questa legge non venne mai

modificata, ciò che cambiò fu piuttosto la rigidità con cui l’amministrazione giudicava “in

eccesso” le terre nomadi. Al fine di requisire sempre più terra i russi si arrogarono diritti

inesistenti fino ad accusare le comunità kirgize e kazake di creare nuovi zimovka

esclusivamente per non perderne l’uso. Considerate sempre più occupazioni abusive la

maggior parte delle terre venne data in concessione ai coloni.

Vi furono poi compagne apertamente volte alla conversione dei nomadi in sedentari,

nel 1908 il consiglio dei ministri di Pietroburgo decise che le famiglie nomadi che si fossero

convertite alla vita sedentaria avrebbero avuto diritti eguali ai russi in fatto di terra. Ciò,

tuttavia, non creò grosse modificazioni, le comunità di fatto non erano interessate a rinunciare

al nomadismo. In sintesi, negli anni antecedenti alla prima guerra mondiale, le pressioni sulle

comunità nomadi si fecero più pesanti che in passato. L’impero zarista stava provocando una

crisi nell’economia pastorale senza offrire alternative effettivamente praticabili (Ibid.).

Riflettendo dunque sulla prima fase della colonizzazione a livello generale si può

affermare che, fin quando fu la monarchia a capo della regione, l’ordinamento istituzionale

preesistente non cambiò a livello formale; vi fu piuttosto la conversione del medesimo verso

un assetto politico centralizzato con a capo Mosca, in cui cariche chiave delle istituzioni locali

furono assegnate a esponenti dell’élite russa. L’indebolimento dell’élite tradizionale fu

ottenuta anzitutto con la forza delle armi, con la conquista del territorio ed escludendo da

qualsiasi posizione di potere il Khan e gli Emiri; vennero poi colpiti gli interessi materiali su

cui vertevano i gruppi di potere musulmani. I russi intervennero nei rapporti agrari, attraverso

16

L’organizzazione dei nomadi aveva quale elemento base la kibitka (“carro”) che indicava un nucleo familiare

ristretto; circa 200 kibitka formavano un aul ossia un gruppo di nomadismo; la stipula di un’alleanza tra più aul

vveniva sancita attraverso rapporti di consanguineità, o presunti tali, e formava una tribù (Palen 1910, cit. in

Buttino 2003: 62). 17

Legge “Vysochajshe utverzhdennoe polozhenie ob upravelenii oblastej Akmolinskoj, Semipalatinskoj,

Semirechenskoj, Ural’skoj i Turgajskoj i ob ismenenii nekotorykh statej Polozhenija ob upravlenii

Turkestansskogo Kraja” del 5 maggio 1891 (articoli 119, 120, 125) pubblicata in Polnoe sobranie zakonov

Rossiiskoj Imperii, vol. XI, San Pietroburgo, 1894, pp. 133-147. Prevedeva che tutte le terre usufruite dalle

comunità nomadi passassero in mano allo Stato, tuttavia essi poterono continuare a servirsene secondo le loro

necessità. Però con tale provvedimento le terre considerate dallo stato come eccedenti potevano essere confiscate

e date in concessione a coloni russi e a nomadi che si fossero sedentarizzati.

16

riforme dei regimi di proprietà della terra che sfavorivano la popolazione locale. Imposero che

le terre del mil’k18

venissero espropriate e date ai contadini che le lavoravano. In egual modo

operarono per indebolire la ricchezza del clero musulmano attraverso una nuova

regolamentazione delle terre del waqf19

(Filatov – Malašcenko 2000; Buttino 2003). In tal

modo l’impero limitò sia la ricchezza dell’aristocrazia e dei funzionari del khan, sia quella

delle istituzioni religiose musulmane.

Con l’imposizione di queste politiche di controllo, l’amministrazione russa si trovò a

fronteggiare resistenze e rivolte in tutto il paese. Solitamente le rivolte vennero capeggiate da

ishan di tariqua sufi20

e supportate da membri dell’aristocrazia ed esponenti militari dell’ex

amministrazione del khanato, da artigiani delle città impoveriti dalla concorrenza russa, da

contadini che versavano in condizioni precarie e da membri delle comunità nomadi

espropriati. Tuttavia, il merito, se così possiamo chiamarlo, del nuovo assetto coloniale

risiedette nel mascheramento formale del potere. Come detto prima l’Impero cercò di

mantenere pressoché intatto l’assetto istituzionale, affiancando alla rappresentanza locale

quella russa e cercando di coinvolgere tanto la popolazione immigrata quanto quella locale.

Come spiega lo storico:

“la nuova gerarchi si fondò su due principali criteri: la territorialità e l’elettività. Sia nelle regioni dei

nomadi, che in quelle dei sedentari, l’amministrazione fa capo a un funzionario russo, nominato dal

governatore generale. A questo funzionario, che in genere è un militare, fanno riferimento i rappresentanti

della popolazione locale; i livelli bassi dell’amministrazione sono dunque la sede principale della

mediazione politica tra regime coloniale e popolazione locale.” (Buttino 2003:61)

A consolidamento dell’annessione all’impero venne inoltre portata avanti la creazione

di reti di comunicazione nuove, prima fra tutte quella ferroviaria.

1.2 IL CROLLO DELL’IMPERO E L’ASCESA BOLSCEVICA:

IL POTENZIAMENTO DELLE MONOCOLTURE

La situazione coloniale appena descritta vide una rapida svolta a partire dal 1919,

all’indomani della Rivoluzione d’ottobre di San Pietroburgo. Fu infatti il mutare della politica

sovietica nel corso della prima guerra mondiale a innescare una situazione di crisi nella

colonia. E’ considerevole sottolineare però che già le violenze scoppiate nell’estate del 1916

18

Terre concesse dal Khan ai membri dell’aristocrazia e a funzionari del khanato. 19

Proprietà delle istituzioni caritatevoli musulmane, formate da donazioni personali al clero musulmano. Parte di

queste terre era gestita direttamente dall’istituzione religiosa, parte veniva gestita da privati che in cambio

versavano una tassa sul raccolto per pagarne l’uso. 20

Capi spirituali appartenenti a confraternite musulmane.

17

fecero presagire l’instabilità su cui poggiava il regime coloniale zarista, infatti, all’indomani

dell’esplosione della Guerra vennero a galla le conseguenze dell’eccessiva pressione che lo

Stato perpetrò a danno della colonia. Tutta l’Asia Centrale fu pervasa da rivolte che

interessarono trasversalmente l’intera popolazione; si ribellarono i musulmani nelle città, i

coloni, i contadini e, soprattutto, i nomadi. Notevoli furono anche le proteste delle donne, i

così detti bab’i bunty21

(Viola 2010). Tuttavia gli animi vennero velocemente smorzati dalla

sanguinosa repressione messa in atto dalla milizia sovietica.

Come suggerisce Buttino (2003) è necessario considerare la “paura” che tale rivolta

provocò nell’amministrazione coloniale per comprendere il successivo cambio di rotta nei

rapporti con la regione: ogni compromesso con la comunità musulmana venne abbandonato e

i russi reagirono con aggressioni a scapito delle comunità nomadi che portarono a massacri ed

espulsioni. Ciò che più mi interessa mettere in luce a questo punto è l’ingente sfruttamento

economico del Turkestan che caratterizzò gli anni della prima guerra mondiale. Prima di tutto

vennero aumentate le tasse, si chiese alla popolazione di versare contributi “volontari” in

denaro che ben presto persero il loro carattere spontaneo per divenire obbligatori, furono

inoltre attuate requisizioni a tappeto di beni utili all’esercito: yurte (tende nomadi), cavalli,

cammelli, carri ecc..

Agli albori della prima Guerra Mondiale il Turkestan sodisfaceva più della metà della

domanda russa di cotone, e divenne di cruciale importanza durante il suo svolgimento fino ad

arrivare a fornire l’intera quota cotoniera richiesta dall’impero. Tutto il cotone utilizzato

dall’industria tessile russa e da quella militare proveniva dalle piantagioni coloniali, in

particolar modo dalla regione del Fergana. Scrive Kapuściński:

“la tipica situazione coloniale: la colonia fornisce materia prima, la metropoli elabora il prodotto finito. Solo

un dieci per cento del cotone raccolto in Uzbekistan viene lavorato in loco. Il resto viene spedito alle

fabbriche tessili nelle zone centrali dell’Impero. Se l’Uzbekistan smette di coltivare cotone, i bacini tessili

russi si fermano.” (Kapuściński, 1994:252)

21

Il termine può essere letteralmente traducibile con “women’s riots”, delle rivolte portate avanti dalle donne,

scoppiate spontaneamente in molte città del Turkestan a partire dal febbraio 1916 (Viola 2010).

Significativo per il propagarsi delle proteste il gesto di una donna russa di Tashkent che un mattino al bazar,

sconvolta dal prezzo triplicato delle patate, si mise ad inveire per poi esser trascinata via. Fu allora che una folla

di donne si mise a saccheggiare i banchi della verdura sotto gli occhi della polizia. In poche ore i saccheggi si

allargarono a macchia d’olio fino a sei bazar cittadini. Al termine dei saccheggi molte donne furono arrestate. Si

mobilitarono allora in loro difesa gli uomini, perlopiù operai e dipendenti ferroviari. Questi atti di protesta non

furono limitati alla sola capitale, fatti analoghi accaddero anche nelle città di Charnaevo, Krivosheino e Perovsk.

Tali rivolte continuarono per più di un anno. (nota info. della polizia al governatore, 29 febbraio 1916:

TsGARUz I-461/1/1824/10-10ob., in Buttino 2003:67-70)

18

Uno sfruttamento massivo che, come vedremo tra poco, venne consolidato e portato

agli estremi durante gli anni di dominazione della nuova forza dominante, l’URSS.

Dal grafico sottostante si può notare che l’espansione delle aree coltivate a cotone continuò ad

aumentare nei primi due anni della guerra, spesso a scapito delle colture alimentari.

(cit. in Buttino 2003:100)

Tuttavia, come si evince dal secondo grafico, sia la terra coltivata a frumento sia

successivamente quella coltivata a cotone videro una brusca diminuzione. Ciò fu dovuto ad un

vero e proprio abbandono dei campi piuttosto che ad una conversione della produzione. La

popolazione stremata dalla carestia e abbandonata a se stessa dalla macchina coloniale non

riuscì, in questo lasso di tempo, a far fronte al lavoro contadino.

(Ibid:101)

I contadini della colonia si trovarono cosi ad avere meno cotone, a produrre meno

grano e con carenza di mezzi per acquistare grano da altre parti dell’impero. Fu in questo

contesto di economia bloccata e di indigenza che si verificò il crollo della monarchia e il

successivo disfacimento delle istituzioni coloniali sul territorio. Si aprì così una nuova fase

19

della storia centro asiatica, vista da molti storici22

come una seconda conquista: una

riconquista.

La rivoluzione di Febbraio portò al potere un Governo provvisorio. I discorsi di

rinnovamento politico arrivarono a Tashkent attraverso l’esercito, si iniziò a parlare di

patriottismo e democrazia. Il regime coloniale zarista venne messo in discussione da una

rivoluzione percepita come lontana, ma la notizia dell’abdicazione dello zar fece arrivare nel

Turkestan la sensazione che l’ordine presente era in bilico. L’amministrazione era

consapevole del fatto che nel panorama potenzialmente esplosivo della colonia la transizione

dovesse avvenire con continuità, evitando una crisi delle autorità dello Stato e salvando gli

interessi coloniali. Si volle puntare a un’alternativa che salvaguardasse una coesione di fondo

del mondo russo combinata a un’apertura collaborativa con le forze progressiste musulmane.

Il governo della regione venne così affidato provvisoriamente al generale Kuropatkin, che

divenne rappresentante ufficiale di Pietroburgo. A seguito di questa transizione di poteri

videro la luce nuove forme di rappresentanza: i soviet23

.

Agli inizi del 1917 il programma di governo della colonia si trovava a fronteggiare

questioni rilevanti quali la definizione dei diritti politici della maggioranza musulmana della

regione; il chiarimento del rapporto tra centro (Pietroburgo) e periferia; la possibilità di

sancire la fine di una dipendenza forzata attraverso la conquista militare e la nascita di un

rapporto che superasse i tratti coloniali tra Russia e Turkestan. Fondamentale fu dunque la

discussione riguardo agli spazi di autonomia auspicabili per l’Asia Centrale. Nella realtà dei

fatti, però, il cattivo funzionamento degli approvvigionamenti dalle campagne e la mancanza

di aiuti concreti dalla Russia col conseguente dilagare di fame e carestia, fomentarono

l’aggressività delle popolazione immigrata russa nei confronti di quella musulmana. Già nel

settembre 1917 il soviet di Tashkent divenne il mezzo di protesta della popolazione europea

ed iniziò ad arrogarsi poteri autonomamente. Un’iniziativa lodata dai bolscevichi, che di lì a

22

Si vedano Benvenuti (1999), Bianchini (2009), Buttino (2003), Levi (1999) 23

La parola russa soviet (pr. savièt) significa "consiglio": essa ha avuto una diffusione assai vasta anche fuori di

Russia attraverso il senso specificamente politico che è venuta assumendo nel corso degli avvenimenti russi del

1917, e, in parte, già durante la rivoluzione del 1905. Furono associazioni a rappresentanza del popolo. I Soviet

avrebbero dovuto costituire la struttura di base dell’ Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, nata a

seguito della presa di potere dei bolscevichi. Dal marzo 1917, col crollo dell’impero zarista, lo slogan coniato da

Lenin fu Tutto il potere ai soviet!. La concezione di una dittatura sovietica nell’ottica del partito bolscevico

prevedeva un sistema in cui tutti i “partiti sovietici” avrebbero dovuto convivere attraverso confronti democratici

all’interno di soviet operai, cittadini, militari ecc. Sarebbe dovuta essere una struttura piramidale elettiva al cui

vertice vi era il Congresso panrusso dei soviet dei deputati, degli operai, dei contadini e dei soldati costituiva il

massimo organo del potere statale; dopo la creazione dell’URSS, al vertice della piramide fu posto il Congresso

dei soviet dell’Unione (1924).

Con la Costituzione del 1936 il più alto organo del potere statale divenne il Soviet Supremo, formato dal Soviet

dell’Unione, eletto a suffragio universale, e dal Soviet delle Nazionalità, espressione delle repubbliche federate

(http://www.treccani.it/enciclopedia/tag/soviet/).

20

breve presero il potere a Pietroburgo. Fu una strana rivoluzione quella che avvenne nel

Turkestan: Buttino (2003:192) la definisce una rivoluzione capovolta o controrivoluzione, sia

perché i suoi protagonisti erano parte della minoranza dominante, sia perché andò a chiudere

la breccia democratica inizialmente aperta dal governo provvisorio. Si risprofondò così nel

modello di forte dipendenza coloniale.

In Russia, nel frattempo, con la Rivoluzione d’Ottobre, si misero le basi per la nascita

dello stato leninista e del movimento comunista. Vide gli albori l’Unione Sovietica, uno stato

totalitario, monopartitico, con un economia statalista predisposta ad utilizzare violenza e

terrore come strumenti di governo. Con essa nacque anche il movimento politico globale del

comunismo, che raccolse nel mondo una moltitudine di adesioni. Di fatto la nascente URSS

venne eletta come modello di una nuova forma di civiltà che prometteva di realizzare gloriosi

ideali di progresso e di eguaglianza, le cui radici si trovavano nella storia del pensiero

europeo, dall’illuminismo alle idee di democrazia e socialismo (Levi 1999). Non approfondirò

qui le dinamiche di tale movimento, ne la storia degli sviluppi politico-economici della

Russia24

, funzionale ai fini della mia ricerca è piuttosto creare una panoramica storica sui fatti

significativi che concorsero a plasmare le attuali repubbliche indipendenti del Centro Asia.

Come in molte altre regioni dell’ex impero russo, come per esempio il Caucaso, la

rivoluzione si diffuse dall’alto, dalla città verso le campagne, divulgando un nuovo ordine

istituzionale centralizzato e gerarchico. L’autorità massima venne rappresentata dal Centro

(Pietroburgo); il Sovnarkom25

del Turkestan rappresentava questo potere a livello di Kraj26

, le

amministrazioni delle regioni, delle città e dei villaggi gli erano poi subordinate. Più che un

sistema gerarchico poteva essere definito come un “sistema di legittimazione fornito dai

livelli più alti a quelli inferiori” (Buttino 2003:233), il governo centrale riconobbe il potere dei

rivoluzionari in Turkestan e diede loro il mandato di governare in rappresentanza della Russia

sovietica. All’indomani dell’Ottobre, il centro proclamò la dittatura del proletariato, dichiarò

che la terra apparteneva ai contadini che la lavoravano e promulgò, con firma di Lenin e

Stalin, la “Dichiarazione dei diritti dei popoli della Russia”. Come visto prima la situazione

24

Per approfondimenti si vedano Thompson J.M. (1990), Levi A. (1999), Riasanovsky N.V. (2001). 25

Il Sovnarkom (dal russo Совнрком) si traduce con Consiglio dei commissari del popolo, nome

dell’amministrazione delle legislature sovietiche fino al 1946, anno in cui venne riformato. Un organo istituito

nel secondo congresso dei soviet russi (1917) presieduto da Lenin e che avrebbe dovuto gestire il potere

esecutivo del Paese. La costituzione sovietica del 1918 rendeva il Sovnarkom della RSFS Russa responsabile di

fronte al Congresso dei Soviet per “l’amministrazione generale degli affari di stato”. I commissari del popolo

erano coloro che hanno espletato le funzioni dei ministri del governo nell’Unione Sovietica, l’organismo politico

a cui facevano riferimento era appunto il Sovnarkom. (http://www.encyclopedia.com/doc/1G2-

3404101275.html) 26

In Russia Kraj (dal russo край) è un termine utilizzato per riferirsi ad entità federali, divisioni amministrative,

provincie o regioni.

21

della colonia vedeva Tashkent completamente in linea con la politica di Pietroburgo; gli

esponenti della rivoluzione capovolta, rifacendosi a Lenin, sostenevano che si dovesse

concepire l’autodeterminazione dei popoli solo subordinandola al socialismo, ossia,

intendendola come autodeterminazione delle classi lavoratrici. Da quel momento la dittatura

dei russi in Turkestan si inscrisse nel nuovo panorama della rivoluzione proletaria

internazionale. L’antropologo Russell Zanca (2011:34), riflettendo sul significato e sulle

implicazioni che la categoria dei “contadini” ha assolto in Centro Asia, nota come i

bolscevichi si servirono di un processo di “proletarizzazione” di tale categoria, al fine di

trasformarla in una vera e propria classe accettata dall’ideologia sovietica, equiparandone le

condizioni di lavoro alla controparte russa del proletariato industriale.

Nel 1918 il soviet di Tashkent prese pieni poteri, dalla capitale fu inviato l’esercito

contro un governo autonomo musulmano formatosi a Kokand27

, come alternativa Sovnarkom.

Uno dei primi decreti emanati da quest’ultimo andò a toccare la proprietà terriera, da quel

momento in poi venne abolita la proprietà privata, la creazione di comitati non ufficiali e

venne vietata la compravendita della terra. Considerando il corso degli eventi finora trattati è

facile intuire che tale decreto andò pienamente a sfavore della componente musulmana della

regione; oltre allo svantaggio sulla proprietà terriera venne emanato un decreto che stabiliva

l’abolizione dei tribunali islamici e vennero prese iniziative lesive nei confronti della

popolazione musulmana in relazione agli interessi economici legati al cotone. A febbraio un

altro decreto del Sovnarkom stabilì che:

“tutto il cotone che si trova nel Kraj del Turkestan, in qualsiasi forma sia e ovunque si trovi, sia

immediatamente confiscato e divenga proprietà del governo operaio-contadino del kraj […]. Nel caso di

opposizione da parte dei proprietari, si prenderanno provvedimenti fino alla fucilazione sul posto” (Prikaz

686 all’esercito: RGVIA 1396/2/2071/413, in Buttino 2003:249).

Un decreto, questo, fondamentale per comprendere come il cotone possa essere oggi il

monopolio di Stato più redditizio della Repubblica Uzbeka. I russi, guidati dal commissario

per il cotone Shmidt, entusiasti del proclama, iniziarono da subito a confiscare ai contadini

musulmani l’unico bene che permettesse loro, attraverso scambi, di procurarsi beni alimentari.

In un secondo momento vennero poi nazionalizzate le ditte commerciali e le imprese di

lavorazione della materia grezza (atte alla sgranatura, pressatura e imballaggio). La dittatura

del proletariato, che continuò di fatto ad essere identificata con la dittatura russa di stampo

27

Per approfondire gli sviluppi dell’alternativa politica musulmana costituita dalla popolazione locale si veda

Buttino (2003) pp. 269-283, pp. 350-352. Inoltre, per una panoramica sulla storia dell’Islam nei territori centro

asiatici in periodo post-sovietico, si veda Filatov S. e Malasenko A. (2000).

22

coloniale, intervenne inoltre sull’organizzazione del credito e sulla vendita delle sementi ai

contadini musulmani. Prese a questo punto avvio una forma di controllo diretto sull’economia

(Zanca 2011).

Incuranti del dilagare della crisi alimentare i vertici centrali si preoccuparono

esclusivamente di ricevere cotone dalla colonia. In questi primi anni Mosca stabilì un

finanziamento per il potenziamento dell’irrigazione nelle zone del cotone e una politica di

difesa e incremento della produzione che non sarebbe stata più abbandonata. Attraverso la

lente interpretativa dell’approccio antropologico definito da Kottak (1999) New Ecological

Anthropology, spiegherò in seguito come tale potenziamento produttivo, legato

principalmente all’opera colossale di espansione del sistema idrico, abbia portato con se danni

sociali, economici ed ambientali, giungendo a causare uno dei più grandi disastri ecologici

del XX secolo.

1.3 “RICONQUISTA” E DELIMITAZIONE NAZIONALE:

UN ATTO DI BIOPOLITICA

La strategia posta in atto in questa “seconda colonizzazione” dal nuovo potere

sovietico si concretizzò nella repressione delle rivolte dei coloni e dei cosacchi;

nell’allontanamento dei comunisti nazionali emarginando in primis il loro leader Turar

Ryskulov; nella creazione di politiche sfavorevoli per la componente musulmana e infine

nella violenta lotta armata ai ribelli basmachi28

all’interno dei kishlak29

. Nel 1920 l’Armata

Rossa, sotto la guida del comandante Frunze, invase la Repubblica Autonoma del Turkestan.

Nell’aprile venne attaccato il protettorato di Khiva che, al pari della già soverchiata Bukara,

godeva ancora di una semi-autonomia.

Durante questa fase di “riconquista” del Turkestan è interessante notare come i

sovietici impararono a sfruttare le divisioni interne già esistenti tra la comunità musulmana,

infiammando una fazione contro l’altra e creando flebili alleanze. Vide la luce un vero e

proprio reparto incaricato di indagare e fare rapporto su tali rivalità. Fu un chiaro esempio di

politica di conquista basata sul Divide et Impera30

. Strategia palesemente manifesta nella

28

Il termine basmachi significa letteralmente “bandito” e fu utilizzato dai sovietici per etichettare chi contrastava

il potere sovietico con le armi. Interessante notare come in Uzbekistan si usi un altro termine per denotare queste

forze armate ribelli, un termine che tradotto significa “combattente per la libertà”. Per approfondire il tema della

l’alternativa armata basmachi in Asia centrale si veda: Buttino (2003), Broxup M. (1983), Olcott M.B. (1981). 29

I Kishlaki (dal turco Kişlak, letteralmente “accampamento invernale”) erano accampamenti rurali, nei quali le

comunità semi-nomadi dell’Asia centrale si raggruppavano durante l’inverno. 30

A livello comparativo si prenda in considerazione, tra i molti, il lavoro di Lindisfarne (2008) sulla situazione

mediorientale.

23

suddivisione territoriale calata dall’alto che diede vita alle Repubbliche Sovietiche del Centro

Asia. Come racconta lo scrittore Dulio Giammaria (2007), la lezione di geopolitica dei romani

era stata ben applicata da Stalin, dando un’occhiata alla carta geografica (fig.1) si comprende

immediatamente che l’intento di frammentazione etnica elaborato da quest’ultimo riuscì a

tutti gli effetti.

(Fig. 1) http://www.nobordersmagazine.org Copyright © 2014 No Borders Magazine. Powered by Wordpress, Enhanced with OCMX-Live

In linea con il federalismo sovietico basato sulla delimitazione nazionale delle sue

parti costitutive, il progetto di suddivisione nazionale in Asia Centrale (“national delimitation

of Central Asia”) ridisegnò i confini seguendo un fine ben definito, un chiaro esempio della

“fantasiosa realizzazione imperialistico-burocratica dell’era di Stalin” che impose concetti

alieni alla regione e alla sua popolazione creando coscientemente un clima di potenziale

conflitto (Fedtke 2007). Nel 1924 il Turkestan venne frammentato e fu ufficialmente

proclamata la Repubblica Socialista Sovietica dell’Uzbekistan (RSS) e con essa anche le altre

quattro: Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Turkmenistan.

Le frontiere così artificialmente frastagliate separarono le comunità locali e alzarono il

livello di tensione tra le parti (la valle del Fergana ne è senz’altro la sintesi più emblematica).

Come auspicato tale assetto fece in modo che una qualsiasi spinta rivoluzionaria di

autodeterminazione contro le istituzioni centralizzate fosse difficilmente attuabile. Secondo

quella che venne chiamata dagli storici “teoria della nazionalità”, il vasto territorio della

24

colonia russa venne ripartito in Repubbliche dell’unione, Repubbliche autonome all’interno di

Repubbliche dell’unione e territori autonomi. Questi tre livelli di sovranità territoriale

configurarono un grado decrescente di autonomia che fu attribuito sulla base di un

compromesso stabilito dal centro con le forze bolsceviche locali, il meccanismo fece leva su

una valutazione arbitraria del grado di autoconsapevolezza nazionale raggiunto dalle varie

etnie. Attraverso i grandi censimenti del 1920 e del 1926 si considerò per lo scopo prestabilito

la prevalenza etno-linguistica (Benvenuti 1999).

Il risultato in realtà fu però una scarsa considerazione della composizione etnica,

culturale e geografica, dei cinque paesi in questione. Infatti, ad oggi ritroviamo minoranze

tagike presenti in Uzbekistan, che peraltro in Afghanistan costituiscono il secondo gruppo per

consistenza numerica (25%); minoranze uzbeke, in Tagikistan e Kirghizistan e minoranze

kirghize in Uzbekistan, in particolare nella Valle di Fergana. Una condizione che diede vita ad

un costante clima di ostilità tra le parti. Taluni conflitti di frontiera si protrassero a lungo nel

tempo, come quello uzbeko-kazako conclusosi solo nel 2003 (Ce.S.I. 2006). Nella valle del

Fergana, invece, i conflitti perdurano tutt’oggi, costituendo un forte elemento d’ostacolo al

regolare sviluppo del commercio tra i tre Paesi (Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan). Il

Ce.S.I. (Centro studi internazionali), in un dossier intitolato “L'Asia Centrale ex sovietica”,

sostiene che una caratteristica dei paesi in esame sia l’identità sub-nazionale o regionale, dal

momento che le identità nazionali dei singoli stati non hanno mai costituito un forte

riferimento per le popolazioni o quantomeno per la maggioranza di ciascuna popolazione

(Ce.S.I. 2006).

Alla luce di quanto esposto sopra ritengo interessante avvicinare tali circostanze

all’analisi che Appadurai sviluppa in relazione all’essenza della biopolitica coloniale inglese

in ambito indiano (Appadurai, 2012)31

. Egli afferma che la peculiarità di tale potere confluisce

nella capacità di creare comunità enumerate:

“Detto in modo semplice, altri regimi possono aver avuto interessi numerici e anche classificatori, ma

queste due sfere rimasero in gran parte separate. Fu solo nella complessa congiuntura di variabili che

diede vita al progetto dello stato coloniale maturo, invece, che queste due forme di nominalismo dinamico

si unirono per creare una politica che ruotava intorno a comunità enumerate auto-consapevolmente”

(Appadurai, 2012:170).

E’ da ciò che secondo l’antropologo deriverebbe una sostanziale forma di controllo

basata sul tentativo di classificare secondo logiche orientaliste il soggetto coloniale.

31

La sua riflessione in merito alla biopolitica coloniale si sviluppa a partire dal pensiero di Foucault che analizza

l’essenza e gli sviluppi di biopolitica e biopotere in opere quali La volontà di sapere (1976), Microfisica del

potere (1977), Nascita della biopolitica (1978-1979).

25

Proseguendo nella riflessione si evince che, il moderno stato coloniale, a mio avviso dunque

anche quello russo in centro Asia, unificò la visione esotizzante dell’orientalismo e il

discorso familiarizzante della classificazione, attraverso ad esempio i grandi censimenti, al

fine di lasciare il corpo del soggetto coloniale intrinsecamente estraneo, ma tentando di

renderlo disciplinato (Ibid.). Dice Edward Said nella sua opera più celebre, Orientalismo

(1978): “dal punto di vista retorico, l’orientalismo è anatomico ed enumerativo: avvalersi

della sua terminologia significa frammentare e classificare l’Oriente in parti concettualmente

maneggevoli” (Said 1978:78).

Oltre all’approccio “per comunità” (Appadurai 2012:168) alla base della riorganizzazione

geopolitica del ’24, considero un chiaro esempio di biopolitica coloniale anche il rapporto che

venne a instaurarsi tra URSS e islam già dai primi decenni del ‘900. A partire da questi anni,

infatti, l’atteggiamento verso l’islam venne caratterizzato da una sostanziale ondata

repressiva. Si rafforzò la propaganda ateistica, l’islam fu considerato un antagonista

dell’ideologia ufficiale e unitamente una “dannosa tradizione, destinata a scomparire”, di

ostacolo al naturale sviluppo della nuova società (Fedke 2007:22). Nella sua tesi sulla

questione nazionale esposta al decimo congresso del partito di VKP(b)32

, Stalin dichiarò che,

negli interessi dell’ideologia socialista, l’idea di un senso di appartenenza “pan-turco” sarebbe

dovuta essere considerata come profondamente nociva e dannosa (Ibid.). Venne dunque

osteggiata l’élite intellettuale mussulmana, vennero chiuse e distrutte moltissime moschee, e

quelle rimaste furono riconvertite per lo svolgimento di attività di altro genere (Filatov -

Malašcenko 2000). L’irradiarsi del controllo sovietico si fece via via più capillare arrivando

alla regolamentazione del quotidiano, tramite l’eliminazione di qualsiasi festività religiosa.

Inoltre, come per il caso indiano analizzato da Appadurai (2012) in cui l’impero britannico si

impegnò nella riscrittura della politica del corpo, soprattutto per pratiche di manipolazione

quali il sati o il charak-puja, così anche quello sovietico si operò in tal senso, fu per esempio

messo al bando l’uso del Paranji per le donne mussulmane (fig.2).

32

Vsesojuznaja Kommunistcheskaja Partja Bolshevikov (Partito Comunista dei Bolscevichi dell’URSS)

disponibile da www.treccani.it.

26

A proposito di quest’ultima riflessione le idee di Foucault sul biopotere sono senz’altro

essenziali. Arguisce l’autore che, tale forma di assoggettamento, si verifica quando lo stato

comincia ad occuparsi non più solo di territorio da difendere in nome della sovranità e da cui

estrarre tasse e tributi, ma anche della popolazione, della vita degli individui come singoli e

della popolazione come insieme. Un potere, biopotere appunto, che guarda alla vita, la regola,

la dirige e la indirizza verso scopi precisi, un potere che non ha in sé solo il germe repressivo

ma anche quello produttivo, ciò che lo caratterizza è la capacità di “produrre individui”

(Chignola 2007) .

“Non chiedersi dunque perché certi vogliono dominare, che cosa cercano, qual è la loro strategia

d’insieme, ma come funzionano le cose al livello del processo dell’assoggettamento o in quei processi

continui e ininterrotti che assoggettano i corpi, dirigono i gesti, reggono i comportamenti ecc. In altri

termini, cercar di sapere come si sono progressivamente, realmente, materialmente costituiti i soggetti.”

(Foucault, 1977:183)

Come sostiene Chiara de Santi (2007:51), nel suo lavoro sulla rivoluzione culturale in

Uzbekistan durante gli anni ’20, Mosca cercò di forgiare l’homo sovieticus a partire dall’homo

islamicus.

Indubbiamente la questione islamica è una componente fondamentale degli sviluppi

politici che caratterizzarono la formazione degli stati centroasiatici e delle dinamiche che ad

oggi ritroviamo in essi, in particolar modo in un paese come l’ Uzbekistan vittima recente di

feroci scontri tra governo e frange islamiste che hanno portato a fatti di cronaca quali l’eccidio

di Andijan33

nel 2005, meriterebbe un approfondimento denso e problematico che in tale sede

non è possibile affrontare34

.

33

L’eccidio di Andijan fu un caso di visibilità mediatica internazionale avvenuto tra il 12 ed il 13 maggio 2005

nella città omonima. In quei giorni una folla di dimostranti attaccò la locale prigione per liberare 23 detenuti,

(fig.2) Donne uzbeke agli inizi del XX sec.

Due di loro indossano il burqa tradizionale

(Paranji). Foto acquistata durante il mio

soggiorno a Samarcanda in un piccolo

ufficio postale.

27

Alla fine degli anni trenta l’Asia Centrale si ritrovò ufficialmente suddivisa in cinque

repubbliche dell’Unione, ciascuna delle quali considerata formalmente sovrana con pieni

diritti decisionali in merito a se aderire o meno all’URSS; di fatto però esse erano pienamente

parte dell’impero sovietico; con le loro economie incomplete, frutto delle politiche coloniali,

non avrebbero mai potuto prendere decisioni autonome in relazione ai propri diritti (Filatov –

Malašcenko 2000).

Terminata la fase di “invenzione” del nuovo assetto geopolitico, e consolidato il

controllo sulla regione, i sovietici iniziarono nuovamente a reinserire esponenti musulmani

nella politica locale. Di fatto il potere sovietico finì con l’affermarsi grazie ad una miscela di

concessioni ai movimenti popolari locali e simultaneamente di repressione di essi35

. Le

principali concessioni furono la ridistribuzione della terra, la federalizzazione dell’ex Impero,

l’uscita dalla guerra e l’introduzione della “nuova politica economica” (Nep)36

tesa alla

scapparono poi in 200, la popolazione si riversò quindi nelle strade chiedendo le dimissioni del presidente

Karimov e l’attuazione di riforme sia politiche che economiche. Quella che ne seguì fu una vera e propria

mattanza condotta dalle forze speciali uzbeke; il conto delle vittime non è mai stato fatto ed il numero viene

stimato secondo alcuni analisti addirittura nell’ordine delle migliaia. I 23 detenuti erano uomini d’affari locali

accusati dalle autorità di essere membri del movimento Akramia, ritenuto una costola del partito panislamico

Hizb ut Tahrir (partito della liberazione islamica), a sua volta accusato di legami con Al Qaeda. Andijan, capitale

della provincia omonima, si trova nella Valle di Fergana, la regione più densamente popolata dell’Asia Centrale

nonché una delle zone dove è più forte il radicamento religioso islamico, grazie anche alla presenza del già citato

Hizb ut Tahrir (organizzazione dichiarata fuorilegge dalle autorità uzbeke) che professa il rovesciamento dei

regimi esistenti e la costituzione di un califfato islamico centroasiatico. Ciò che accadde veramente quel giorno,

e nei giorni successivi, nella popolosa città uzbeka non si saprà mai. I media occidentali furono allontanati e

confinati a Tashkent, e la repressione che seguì, spesso colpendo la popolazione indiscriminatamente senza

risparmiare nemmeno i bambini, portò ad una fuga massiccia verso i paesi vicini, in particolar modo verso il

Kirghizistan, con la conseguente chiusura delle frontiere, creando così una vera e propria emergenza umanitaria

(Acquistapace 2012, UZBEKISTAN: Eccidio di Andijan, un anniversario interessatamente dimenticato, in East

Journal, disponibile da http://www.eastjournal.net/). 34

Per un maggior approfondimento del tema si vedano Filatov - Malašcenko (2000), Sartori (2007), Zanca

(2011). 35

Si consideri che con diversi gradi d’intensità dalla metà degli anni venti alla fine degli anni ottanta la questione

islamica passò attraverso fasi di aperto conflitto, con continue oscillazioni tra autorizzazione e repressione.

Tuttavia la popolazione non rinunciò mai alla propria tradizione religiosa continuando a seguirla nella sfera

privata. Sull’ondata della democratizzazione di fine anni ottanta inizi anni novanta poi, scomparso il controllo

ateistico da parte dello stato, si assistette a un intenso processo di rinascita religiosa (chiamato “la luna di miele”

dell’islam in Uzbekistan), in cui la religione ritornò ad essere un importante fattore della vita politica e sociale

(Filatov – Malašcenko 2000). La profonda penetrazione di quest’ultima nel paese è riscontrabile anche a livello

di struttura sociale nell’esistenza dei mahalla (makhallia), un termine adottato attualmente dallo stato uzbeko per

identificare le comunità locali. Il mahalla è definibile come una particolare forma di stato nello stato, una sotto

unità urbana o contadina, organizzata secondo specifiche leggi e costumi riconducibili allo spirito delle tradizioni

islamiche. Tutt’oggi l’appartenenza a tali comunità è determinata dal quartiere di residenza (Z. Arifkhanova

2000; Filatov - Malašcenko 2000; Trevisani 2007). Durante il mio soggiorno a Samarcanda, girando per le vie

della città vecchia mi sono spesso imbattuta in cartelli di ogni forma e colore che, posti in punti strategici di

inizio o fine quartiere, ne segnalavano la presenza. 36

Sigla del russo Novaja ekonomičeskaja politika (“nuova politica economica”), fu un insieme di misure di

carattere economico adottate dal governo sovietico, sotto la guida di Lenin, nel corso del 1921. Avviata il 21

marzo con l’introduzione di un’imposta in natura sui raccolti (in sostituzione alle requisizioni forzate delle

eccedenze applicate dal 1917 al 1921 durante il comunismo di guerra), la NEP liberalizzò il commercio dei

prodotti agricoli. Il ripristino del commercio privato coinvolse anche i settori artigianali e industriali; venne

abbandonata la precedente politica di nazionalizzazione (processo di “denazionalizzazione”) reinserendo forme

28

modernizzazione dello stato, personificata in quegli anni nel modello industriale (Benvenuti

1999). Le tendenze del centro in materia d’intervento economico, tuttavia, furono eterogenee:

da un lato quella che veniva definita la “destra” del partito bolscevico (riconducibile a

personalità quali Buharin, Šanir e Sokol’nikov) si mosse a sostegno di un’economia mista

tipica della nuova politica adottata, in cui il controllo statale sull’industria, sul commercio

estero e sul commercio all’ingrosso doveva essere ricondotto a un contesto di mercato. Essa si

espresse inoltre in favore di un processo di graduale industrializzazione dell’URSS da attuare

attraverso investimenti in agricoltura, sostegno all’industria leggera e rafforzamento delle reti

di comunicazione. In altre parole la destra sosteneva che l’agevolazione dell’agricoltura e

l’esportazione dei suoi prodotti avrebbero consentito lo sviluppo urbano e il reperimento dei

capitali necessari al rafforzamento dell’industria pesante e alla macchina militare; la logica

della “sinistra” invece (rappresentata da Preobraženskij e Trockij) pose l’accento

sull’”arretratezza” dell’URSS e sulla necessità impellente di un’industrializzazione accelerata.

Fondamentale, in quest’ottica, il concetto di modernizzazione del paese, una trasformazione

alla quale solo la classe operaia avrebbe potuto far fronte, ancorata al desiderio di una

rivoluzione mondiale che portasse all’espansione dell’ideologia comunista, soprattutto

quest’ultima idea si trovava in netto contrasto con la dottrina della “costruzione del socialismo

in un Paese solo” elaborata da Stalin nel 1924 (Bianchini 2009). Se in un primo momento

vennero abbracciate le idee di “destra”, in seguito al diffondersi della convinzione secondo

cui il processo di graduale industrializzazione avviato con la nuova politica economica fosse

troppo lento rispetto all’esigenze dettate sia dall’ideologia che dal contesto internazionale,

facendo leva sulla crisi economica e sociale, Stalin ribaltò gli equilibri di partito spianando la

strada alla “svolta del 1929”, quando la collettivizzazione fu imposta nelle campagne, vennero

avviati i piani quinquennali e si passò a una rapida militarizzazione dell’economia. Scrive

Bianchini: “ebbe così termine la condizione di un rapporto consensuale tra agricoltura e

industria, fra città e campagna… Contro i contadini fu allora condotta una sorta di guerra

civile, in aperto contrasto con la preoccupazione buhariniana di salvaguardare l’alleanza con

la classe operaia” (Ibid:162). Le riforme di Lenin con la parola d’ordine “la terra a chi la

lavora”, non aumentarono la produttività del terreno, ecco perché Stalin scelse la soluzione

più radicale: l’espropriazione della classe contadina (Westerman 2002).

di gestione privata (affitto, concessioni…). Tale politica fu poi abbandonata nel 1928 in favore di un’economia

socialista pianificata. (Lo Gatto, n.d., disponibile da www.treccani.it)

29

1.4 L’EPOCA DELLE REPUBBLICHE SOCIALISTE E L’IMMINENTE CROLLO

DELL’UNIONE SOVIETICA

Questa rapida panoramica sulle diatribe di Mosca è utile alla comprensione di ciò che

avvenne in campo economico-industriale in centro Asia durante l’epoca delle Repubbliche

socialiste.

In precedenza ho accennato al fatto che in periodo imperiale gli zar intervennero sugli

equilibri agricoli locali portando una coltivazione definibile cash-crop37

(Spoor 1993),

praticata nelle aree limitrofe i fiumi Syr Darya38

e Amu Darya39

, connessa ad un sistema

feudale fortemente legato al controllo dell’acqua e bilanciata con un’agricoltura di grano e

frutteti, ad una coltivazione largamente praticata che fece del cotone il “white gold” dell’Asia

Centrale. Tuttavia tale incremento fu solo un pallido risultato se paragonato a ciò che venne

messo in atto dopo la Rivoluzione d’ottobre. In un articolo sulla transizione ad un economia

di mercato dell’ Asia post sovietica il ricercatore Max Spoor (Ibid:6) afferma che l’ordine

propagandato da Mosca agli inizi del secolo: “prima di tutto il cotone” (“cotton first”), renda

conto dell’enorme rilievo che si diede all’accrescimento produttivo in quegli anni, più

efficacemente di qualsivoglia tabella ufficiale sui dati del raccolto e sull’andamento dei

prezzi. Ciò anche in ragione del fatto che tali dati vennero spesso gonfiati dalle élite politiche

locali al fine di ricevere da Mosca maggiori finanziamenti, una pratica impregnata di

corruzione e clientelismo che lo stato federale cercò di arginare durante gli anni della

perestroika (argomento ripreso a pp.37-38). Al fine di limitare le importazioni di cotone

estero, Stalin attuò in Uzbekistan, ancor prima della messa in atto dei piani quinquennali

(1929-1932), un’ingente politica di collettivizzazione agricola. Dalla fine del 1932, infatti,

circa il 77,5 per cento di tutte le famiglie rurali furono incorporate in 9734 kolchoz (fattorie

collettive) e 94 sovkhoz (grandi aziende agricole statali) (Kandiyoti 2002), una

37

Ossia una produzione aggiuntiva all’agricoltura tradizionale, caratterizzata per lo più da piante da frutto e

grano, finalizzata al guadagno tramite un commercio ristretto che ne apprezzava l’altra qualità. 38

Il Syr Darja è un fiume che nasce dalla confluenza del Kara Darya e Naryn presso Namangan, dove i due corsi

d'acqua si uniscono dopo essere scesi dalle montagne del Tien Shan, in cui si trovano le sorgenti. Il fiume

attraversa il Kirghizistan, l'Uzbekistan, parte del Tagikistan e il sud del Kazakistan fino al Lago d'Aral per un

totale di circa 2.212 km (disponibile al sito web http://it.wikipedia.org/Syr_Darya). 39

L’Amu Darya è un fiume dell'Asia, tributario del lago d'Aral, uno dei maggiori dell'intero continente, e il più

importante del Turkestān Occidentale. La lunghezza dell’ Amu è di 2512 km.; la larghezza media di alcune

centinaia di metri Le sue sorgenti rimasero a lungo ignorate, o per lo meno non vennero individuate con

sufficiente esattezza. Soltanto dopo i rilevamenti topografici, eseguiti nel 1885 e nel 1895 dalle commissioni

incaricate di delimitare le frontiere fra i possedimenti russi e l'Afghanistan, si sono fissate le sorgenti dei vari

rami, che concorrono a formare l'Amu. Quasi tutti derivano le loro acque dai numerosi ghiacciai e nevai, sparsi

sui versanti delle catene montuose, che sormontano l'altipiano del Pamir (Pullè n.d. Enciclopedia Treccani,

disponibile al sito web http://www.treccani.it/enciclopedia/amu-dary).

30

trasformazione nella struttura di produzione locale che, come esplicherò in dettaglio nel cap.

II, caratterizzò fortemente anche la nuova Repubblica dell’Uzbekistan.

Per avere un’idea dell’incremento e della specializzazione attorno alla monocoltura cotoniera

si veda la tabella qui sotto (fig. 4); la rapidità con cui si passò dai 441,600 ettari destinati al

cotone nel 1913 ai 1.022,600 del 1940 rende conto dell’impatto sul paese (Ibid:9).

(Fig. 4) Spoor M. (1993), Transition to Market Economies in Former Soviet Central Asia: Dependency, Cotton

and Water, in European Journal of Development Research, 5, pag. 19

All’interno di quest’ottica di produzione smisurata, volta ad arricchire le tasche di

industrie tessili russe e politici corrotti locali e non, le ricadute a livello economico, sociale ed

ecologico sulla popolazione delle regioni centrasiatiche furono devastanti. Il disastro

ecologico verso cui i russi traghettarono le fertili terre limitrofe al maestoso lago d’Aral,

diviso tra Uzbekistan e Kazakhstan, influì pesantemente sul futuro delle genti che in

quell’area prosperavano vivendo di pesca e agricoltura. Nel paragrafo seguente (vedi pp. 35-

45) analizzerò in dettaglio tappe, cause ed effetti di questa smisurata catastrofe.

Per volgere al termine di questa panoramica storica analizzerò di seguito i fattori

principali che portarono al collasso dell’Unione Sovietica e alla conseguente dichiarazione di

indipendenza della cinque Repubbliche Socialiste Sovietiche del centro Asia.

31

Alla morte di Stalin e con l’audacia riformatrice degli anni ’50-’60 la penetrazione del

mondo esterno nelle società europee del “socialismo reale”, o “realizzato”, fu inevitabile. Di

fatto ciò si concretizzo grazie all’aumento del commercio estero e dei crediti internazionali;

tale confluenza del mondo esterno fu un fatto politicamente e culturalmente nuovo, poiché

andava a ridimensionare l’approccio dominante di “chiusura, separazione e impenetrabilità”,

proprio dell’ideologia socialista, nei confronti del capitalismo occidentale (Bianchini 2009).

In altre parole , l’industria pesante e le infrastrutture interne vennero potenziate facendo

ricorso a istituzioni finanziarie internazionali, nella convinzione che ciò sarebbe bastato a

rilanciare il modello di produzione russo. Le previsioni, tuttavia, vennero ampiamente

disattese, non si verificò mai il passaggio ad un’economia flessibile di mercato e

conseguentemente non vi furono spinte innovative sufficienti a generare quell’avanzata

tecnologica che, nei paesi capitalisti, sfociò nella “rivoluzione informatica” degli anni ’80

(Bianchini 2009; Höbel 2004). Inoltre non si tenne conto dei vincoli ambientali e dei rischi

d’inquinamento derivati dalla corsa alla modernizzazione. Quest’ultima considerazione non

va sottovalutata, infatti, a causa del degrado provocato dalle industrie chimiche della

Sassonia, della distruzione di un terzo del patrimonio forestale di Boemia e Moravia per le

piogge acide, dell’inquinamento di quasi il 21% delle acque pubbliche in Slovacchia, nonché

di gran parte del litorale del Mar Baltico, dell’abuso di fertilizzanti in Ungheria, arrivando

fino “al più grave disastro ecologico della storia dell’umanità“, definito così da Al Gore, nel

suo libro Earth in the balance (1992), discusso nelle pagine precedenti (si veda la questione

del lago d’Aral p.24), si innescò una seria di processi di interdipendenza internazionale che

sfociarono in mobilitazioni di massa. Soprattutto fra le giovani generazioni, si affermarono

vari gruppi ambientalisti la cui azione assunse ben presto caratteri transnazionali. Di li a

qualche anno, questi gruppi strutturati concorsero al rafforzamento dei successivi moti per

l’indipendenza che diedero vita al panorama delle nazioni post-sovietiche (Bianchini 2009),

L’apertura e interdipendenza col mondo internazionale, dunque, portò con sé una catena di

ripercussioni inimmaginabili, che, attraverso un susseguirsi di eventi nefasti, portarono alla

caduta dell’Unione nel 1991, come chiaramente espresso dalle parole di Hobsbawm (1994,

cit. in Höbel 2004:3), “fu l’interazione dell’economia di tipo sovietico con l’economia

mondiale capitalista [...] che rese vulnerabile il socialismo. [...] Ciò che sconfisse e alla fine

distrusse l’URSS non fu lo scontro ma la distensione”.

In accordo con quanto sostenuto da Alexander Höbel (2004) si può affermare che

l’esperienza sovietica fu costantemente segnata sia da una arretratezza relativa (rispetto ai

paesi occidentali), sia da un modello di sviluppo estensivo (ossia basato sull’uso di grandi

32

quantità di materie prime e forza lavoro, più che sul loro sviluppo qualitativo). All’inizio degli

anni ’80, l’URSS costituiva una società industriale di tipo “fordista”, in cui gli operai erano il

61.5% della popolazione attiva, con 12.5% di contadini colcosiani e il rimanente 26% di

impiegati, funzionari e intellettuali.

Peraltro, da anni procedeva una graduale sottrazione di poteri al centro, con l’emergere

di particolarismi e localismi. Sotto Brezhnev si consolidò il ruolo delle relazioni personali,

delle reti informali e spesso illegali intessute dalla nomenklatura, di cui prima accennato in

relazione all’industria cotoniera Uzbeca (vedi p.35). I dirigenti delle grandi organizzazioni

territoriali del Partito, divennero “veri e propri ‘feudatari’”, basandosi sulle realtà locali “per

contrattare meglio col centro” . In particolare nelle repubbliche asiatiche, dove il Partito aveva

promosso la nascita di élites politiche locali, erano sorti “meccanismi di patronato”, di clan e

clientelari. Nel caso dell’Uzbekistan la produzione del cotone mediava i legami tra: Mosca, le

élite repubblicane, le élite regionali e le loro circoscrizioni locali. Il potere centrale

conversava, dunque, con leader repubblicani, che si basavano su dirigenti regionali che, a loro

volta, facevano affidamento a dirigenti distrettuali o ad amministratori delle grandi aziende

agricole, al fine di garantire che il piano di cotone fosse soddisfatto. Fu su questa base

piramidale ce si svilupparono i meccanismi di corruzione e clientelismo sopra citati, perché

tramite esso i leader repubblicani in Uzbekistan avevano accesso a ingenti trasferimenti

finanziari (Kandiyoti 2002; Spoor 1993; Trevisani 2007). Il caso più eclatante che bene

dimostra questo sistema fu quello della stretta relazione tra Sharaf Rashidov, primo segretario

del Partito comunista dell’ Uzbekistan, in carica dal 1959 al 1982, e Brezniev, ricordato con il

nome di “scandalo del cotone” (o “Uzbek affair”)40

(Kandiyoti 2002). Ne derivò un sistema di

relazioni una sorta di “compromesso instabile” tra centro e periferia, aggravato durante gli

anni della Perestrojka, quando le risorse iniziarono a scarseggiare e la debolezza dello Stato

iniziò a farsi strutturale. La nomenklatura economica locale rimase allora l’unica ad avere

poteri reali, e con la disgregazione del potere centrale esso venne suddiviso tra le migliaia di

direttori delle fabbriche, delle aziende agricole, delle miniere ecc. che mirarono ad ottenere la

proprietà dei mezzi di produzione (Höbel 2004). Il caso uzbeko si scostò dalla traiettoria della

40

Si trattò di un caso in cui, un sistema strutturato di falsificazione delle statistiche ufficiali sul raccolto del

cotone, depauperò ingenti somme di denaro stanziate dal Cremlino per le piantagioni dell’Uzbekistan. Con

l’aiuto di una rete di corrotti, per quasi vent’anni vennero consegnate in Russia enormi partite di cotone fittizio.

Si trattava di milioni di tonnellate di fibre inesistenti che andavano a gravare sui conti dell’ufficio di stato per gli

acquisti. Mentre i campi di cotone in centro Asia si ricoprivano di sale e si inaridivano, nei rapporti forniti

dall’Uzbekistan si rilevava il raggiungimento degli obiettivi al 100%. Fu successivamente Michail Gorbačëv a

smascherare e rivelare lo scandalo. Con l’attuazione della Perestroika alla fine degli anni ’80 vennero arrestati

circa 2.600 funzionari, e circa 50.000vennero allontanati dall’amministrazione, tra cui anche il genero di

Breznev. (Kandiyoti 2002; Westerman 2006)

33

maggior parte degli stati post-sovietici, esso, infatti, sotto la guida dell’allora segretario di

Partito Comunista Islam Karimov divenuto presidente, non diede mai avvio a ingenti riforme

di privatizzazione e apertura liberale, costringendo la neonata Repubblica uzbeka a muovere i

primi passi in compagnia di gran parte delle strutture obsolete di epoca sovietica.

Possiamo, dunque, affermare che un elemento determinante nel crollo dell’URSS fu

l’esplosione di moti nazionalisti, che resero il processo di disgregazione capillare e

incontrollabile. Per quanto riguarda le repubbliche del centro Asia le prime agitazioni

nazionalistiche che interessarono le cinque Repubbliche si verificarono già alla fine degli

anni’60. Ufficialmente la dichiarazione d’indipendenza di Kazakistan, Kirghizistan,

Uzbekistan, Tagikistan e Turkmenistan, avvenne simultaneamente nell’ottobre del 1991.

1.5 L’UZBEKISTAN POST-SOVIETICO

Oggi l’allevamento, e in misura maggiore l’agricoltura, sono le attività economiche

predominanti nell’Uzbekistan post-sovietico (Ilkhamov 1998). In seguito alla dissoluzione

dell’URSS e al seguente crollo del settore industriale e del commercio interno, da qualche

anno a questa parte si è verificata, nel paese, una forte ri-agrarizzazione dell’economia. Ciò al

fine di valorizzare produzioni locali e garantire il pieno sostentamento al Paese, divenuto

ormai orfano delle importazioni garantite sotto il dominio sovietico (Ibid.). La superficie

agricolo-pastorale uzbeka è ancora saldamente di proprietà dello Stato (Buttino 2008:11-12).

Il governo, fortemente autoritario, riesce a mantenere un forte controllo sulle superfici

agricole e la relativa produzione. Per motivazioni economiche, e per avvicinarsi all’auto-

sufficienza alimentare nazionale, nei primi anni post-indipendenza le scelte maturate dallo

Stato si sono orientate verso la conversione delle colture industriali, dalla monocoltura

cotoniera alla policoltura, e verso l’aumento di superficie degli appezzamenti privati, i

tomorka. (Buttino 2008; Zinzani 2011; Kandiyoti 2002). In base agli studi svolti a riguardo

dalla ricercatrice Deniz Kandiyoti (2002), risulta evidente che nel Paese non si è verificato

mai un vero e proprio processo di privatizzazione della terra e delle risorse idriche, ciò che

avvenne fu piuttosto un processo di decentralizzazione dei poteri. Come esaminerò in

dettaglio nel capitolo seguente, il decentramento politico-economico è il fattore chiave per

comprendere il quadro attuale relativo alla gestione delle superfici agricolo-pastorali del

paese: dopo la chiusura dei sovkhoz e la conversione dei kolchoz in shirkat, cooperative di

produzione, verso la fine degli anni novanta, e precisamente nel 1998, si è verificato lo

scioglimento anche di queste strutture e la liberalizzazione dell’attività agricolo-pastorale

34

attraverso l’affitto delle terre ai privati. Lo scopo fu quello di aumentare la produttività

attraverso lo stimolo dell’iniziativa individuale41

. Inoltre, una significativa decentralizzazione

dei poteri dallo Stato alle regioni comportò l’ascesa degli hokim, forti governatori regionali

politicamente influenti, che oggi godono del pieno controllo delle superfici e delle relative

produzioni attraverso un’apposita registrazione dei nuovi soggetti privati in un fascicolo

regionale (Zinzani 2011). Una liberalizzazione nella gestione delle superfici agricole

contraddistinta quindi da un ridotto grado di libertà. I nuovi “soggetti agricoli”, ufficializzati

con la legge del 1998, furono i fermer (dal russo, agricoltore) e i dekhon (dall’uzbeko,

agricoltore). I fermer hanno la possibilità di ricevere in affitto un appezza-mento di terra

compreso in media tra i 10 e i 15 ettari; il contratto ha una durata minima di dieci anni e può

essere revocato dall’hokimyat nel caso in cui l’agricoltore non riesca a rispettare gli accordi

riguardanti la produttività stipulati con il Governo regionale. Questo fatto spiega quanto sia

forte il controllo che le autorità regionali esercitano sugli agricoltori. La superficie

dell’appezzamento agricolo dato in affitto è invece strettamente correlata alla scelta delle

coltivazioni, che viene concordata tra il neo affittuario e l’hokimyat al momento della stipula

del contratto e non può più subire variazioni. Tra le clausure integrate nel contratto d’affitto vi

sono obblighi quali: i terreni destinati a colture industriali quali cotone e grano, non possono

essere inferiori a 10 ettari; parallelamente, le superfici agricole volte alla coltivazione di

prodotti ortofrutticoli devono essere superiori a 1 ettaro. Nelle terre aride inadatte alla pratica

agricola è possibile stipulare il contratto sull’allevamento pastorale: il capo privilegiato è la

pecora Karakul e il numero degli esemplari deve essere superiore ai 30 (ibid:14-15). I fermer

produttori di colture industriali hanno l’obbligo di vendita dell’intera produzione

all’hokimyat, che a sua volta si fa carico della fornitura di macchinari e sementi; gli agricoltori

orientati al settore ortofrutticolo versano invece solo parte della produzione alle autorità

pubbliche. Differentemente dai fermer, i dekhon sono contraddistinti da un grado di libertà

notevolmente maggiore: il contratto d’affitto stipulato con l’hokimyat non ha una scadenza

precisa e può essere prolungato a vita. La produzione viene consumata in famiglia e per il

resto venduta nei bazar rurali ed urbani (Ibid.).

La situazione attuale della Repubblica dell’Uzbekistan, pur essendo notevolmente

cambiata rispetto alla situazione sovietica, è ancora fortemente legata alla produzione

cotoniera, uno dei monopoli più redditizi dello Stato. Nel paese, infatti, permane ancora una

condizione di asservimento della classe contadina portata avanti grazie a politiche agricole e

41

La chiusura dei sovchoz è avvenuta a partire dal 1991; la conversione dei kolchoz in shirkat a partire dal 1993.

La chiusura dei shirkat e il procedimento di affitto delle terre ai privati è risultato lento e disomogeneo (Zinzani

2011).

35

di concessione terriera fortemente coercitive, all’impiego di manodopera a basso costo

durante i mesi di raccolta, ciclicamente reperita per mezzo di leggi governative che impongo

ai cittadini selezionati di lasciare il proprio impiego, o la propria istruzione per quanto

riguarda gli studenti, e riversarsi nelle immense distese bianche a riempire sacchi di cotone a

mano. Inoltre, nelle aree maggiormente colpite dal disastro ecologico, permangono grandi

sacche di povertà ed ingenti problemi di carattere sanitario legati all’inquinamento.

36

2. SFRUTTAMENTO DEL LAVORO E GESTIONE DELLE RISORSE

NATURALI: ACQUA, TERRA, COTONE NELLE TRASFORMAZIONI

AGRARIE DELL’UZBEKISTAN POST-SOVIETICO

2.1 LA QUESTIONE DEL LAGO ARAL

Ciò che la politica stalinista ebbe a cuore negli anni della “modernizzazione” fu

essenzialmente il raggiungimento di obbiettivi economici e di mercato. Non venne preso

alcun provvedimento a tutela delle economie e delle identità locali e tantomeno del fragile

ecosistema semi-desertico delle cinque Repubbliche. Ed è proprio in nome della

modernizzazione che spesso le risorse naturali sono diventate oggetto di tecniche di governo

con cui, oltre a controllare il territorio e le sue materie prime, si è giunti alla dominazione

della popolazione controllandone numerosità, distribuzione e comportamenti socio-

economici. In molti casi, come ci dimostra la letteratura antropologica sul tema, e in particolar

modo nel nostro caso, quanto detto sopra avviene privando le popolazioni locali del diritto di

sfruttamento, talvolta anche d’accesso, alle proprie risorse naturali (Foucault 2005; Agrawal

2005, cit. in Rossi 2012). Un processo che sfocia in fenomeni quali l’abbandono delle

campagne, lo sfollamento urbano o la scomparsa di economie di sussistenza locali col

conseguente annichilimento del sistema sociale ad esse connesso: ciò che avvenne, appunto,

nei territori dell’Aral. Nell’Unione Sovietica erano gli anni del cosiddetto “socialismo

scientifico”, quando la tecnologia e la scienza furono gli strumenti con i quali trasformare la

realtà naturale, biologica e sociale, modellandola sui principi dell’ideologia (Giammaria

2009). Nel caso in questione il piano di sfruttamento delle acque dei fiumi a scopo agricolo, di

cui parlerò nelle pagine successive, fu supervisionato dal responsabile sovietico Grigory

Voropaev. Quest’ultimo, durante una conferenza sui lavori in corso d’opera, dichiarò

consapevolmente che le conseguenze per il lago sarebbero state nefaste e che il suo scopo era

proprio quello di “far morire serenamente il lago d'Aral” (Westerman 2006). Talmente

abbondante era la necessità di acqua che i pianificatori arrivarono a dichiarare, coerentemente

all’ideologia del “socialismo scientifico”, che l'enorme lago era ritenuto uno spreco di risorse

idriche meglio utilizzabili in agricoltura, “un errore della natura” che aveva necessità d’essere

corretto (Ibid.).

37

Servendomi qui dei principi concettuali alla base degli studi antropologici che si

occupano dell’impatto antropico sull’ambiente42

, in riferimento alla New Ecological

Anthropology (Kottak 1999), analizzerò come gli interventi ingegneristici sovietici, in

particolar modo di ingegneria idraulica legati al sistema d’irrigazione, portarono ad un

disastro ecologico su larga scala i cui danni (economici, sociali, ambientali…) sono

abbondantemente osservabili in Uzbekistan. Prima di entrare nel merito della vicenda vera e

propria, ritengo necessario spendere alcune parole sulle le linee teoriche che hanno guidato il

mio approccio relativo all’uso delle risorse naturali. Nadia Breda (2012) sostiene che una

lettura antropologica della natura e dell’ambiente oggi si avvicini e spesso si sovrapponga ad

un’antropologia della crisi. Le grandi o piccole crisi della natura si dimostrano essere sempre

più associabili a crisi di civiltà, di società, di culture (Arran E. Gare 1995, cit. in Breda 2012),

basti pensare a temi quali deforestazione, alluvioni, cambiamenti climatici, consumo del

suolo, inquinamento, sfruttamento dell’acqua ecc. Ecco che l’antropologia dell’ambiente si

inserisce così in contesti di estrema conflittualità. Comune a questo tipo di studi è porre

l’attenzione sulla natura politica delle controversie ecologiche; tale antropologia, infatti,

ripoliticizza i conflitti riguardanti l’ambiente soffermandosi in particolar modo sulle

conseguenze sociali e culturali da essi derivanti e sulle asimmetrie in relazione alle quali essi

si generano (Rossi 2012). Interessante notare, inoltre, pensando al caso in esame, come la

tendenza contemporanea sia propensa a considerare le odierne incongruenze nella

distribuzione del potere sulla natura (intendendo con ciò la “libertà” di sfruttamento delle

risorse naturali) come il frutto di processi storici relativamente recenti quali colonizzazione,

de-colonizzazione politica, ricolonizzazione economica di paesi extraeuropei. Tali riflessioni

sono il frutto di un profondo ripensamento, in seno alla disciplina, della categoria “Natura”

all’interno della vita produttiva umana. Si è arrivati, infatti, alla valutazione dei suoi elementi

costitutivi, non più come oggetti passivi, ma piuttosto come soggetti pienamente attivi e

autorevoli:

“L’ambiente non è solo il contenitore fragile e vulnerato della pressione antropica, né l’inerte fondale su

cui campeggiano le magnifiche azioni degli uomini. Esso costituisce al contrario un soggetto

indispensabile e protagonista, la controparte imprescindibile dell’agire sociale nel processo di produzione

della ricchezza” (Bevilacqua cit. in Breda 2012)

42

Si vedano, tra tanti, i lavori di Breda (2000, 2001, 2009, 2010), Ferguson (2005), Latour (1991, 1999),

Kopnina and Shoreman-Ouimet (2013), Kottak (1999), Micklin (1988, 2007), Pye (2010, 2011), Robbins (2004),

Rossi e D’Angelo (2012), Tassan (2011), Van Aken (2012, 1015), Veldwisch (2008), Zimmerer (2006, 2007)

38

L’acquisita consapevolezza critica antropologico-ambientale attuale consiste nella

certezza del carattere fondamentalmente culturale-sociale-storico della categoria di “Natura”

(Ibid.). Facendo uno passo avanti nell’analisi, trovo interessante sottolineare come uno dei fini

auspicabili che questo filone di studi si prefigge di raggiungere sia lo svincolarsi da una

conoscenza tecnocratica affidata al sapere in apparenza “politicamente neutrale” di tecnici ed

esperti in campo ambientale (Rossi 2012). Proprio per questo l’antropologia dell’ambiente,

suggerisce Breda (2012) riprendendo le riflessioni di Piermattei (2007), pone all’antropologo

una questione etica e deontologica: non ci si dovrebbe limitare più a svolgere un lavoro

prettamente d’analisi ma intervenire direttamente in quegli stessi processi che ci si propone di

studiare mettendo in rilievo il nodo etico del posizionamento politico della ricerca etnografica,

soprattutto se essa è in grado di creare un concreto impatto materiale, economico o politico

sul campo.

A livello metodologico ciò che risulta fondamentale è focalizzarsi sull’analisi delle

relazioni tra locale, nazionale ed internazionale (Kottak 1999); di fatto i mondi locali in cui le

risorse naturali e le materie prime vengono estratte, entrano quotidianamente a far parte di

altri mondi locali grazie alle molteplici implicazioni su larga scala di scambio tra

infrastrutture, mercati, media, interessi nazionali ecc. (Rossi 2012): “nella nuova antropologia

ecologica tutto è su larga scala” (Kottak 1999:25). Sono microcosmi che partecipano così ad

un sistema planetario, globale, di scambio economico e relazioni di potere talvolta, come nel

nostro caso, in funzione di “articolazioni” di carattere ideologico che ne modellano la gestione

a livello di sfruttamento agricolo e non solo (Hall 1996; Li 2000 cit. in Rossi 2012). A tal

proposito Colson e lo stesso Kottak (Colson 1994, cit. in Kottak 1999:30) propongono di

definire il metodo utilizzato linkages methodology (“metodologia delle connessioni”), stando

a significare con esso la possibilità di lavorare interagendo su una molteplicità di livelli, tanto

spaziali quanto temporali.

Tornando alla vicenda del mare d’Aral e alle relazioni di subalternità, possiamo

pertanto affermare che essa può essere ricondotta a una categoria di casi in cui i conflitti

ruotano attorno a beni comuni minacciati dalla presenza di enti estrattivi, o di sfruttamento

delle risorse, governativi o di gruppi dominanti, divenuti in molti casi endemici (Rossi 2012).

Molto spesso tali controversie riguardano la gestione delle acque e, in contesti come quello

centrasiatico caratterizzato da un clima semi-desertico, l’acqua, essendo una risorsa scarsa, è

stata da sempre il fulcro di relazioni di potere e il nodo centrale della conflittualità sociale.

Relativo a quanto appena esposto ritengo interessante il punto di vista esposto da Frank

Westerman, ingegnere, giornalista e scrittore olandese, autore del libro Ingenieurs van de ziel

39

(2002), tradotto in italiano col titolo Ingegneri di anime (2006). L’opera prende spunto da

alcune riflessioni avanzate da un giovane ingegnere che, trovatosi per lavoro a Mosca,

dichiarò, con tono dal sapore prettamente spengleriano: “Più sono colossali i progetti idraulici

intrapresi da un potere statale, più sono dispotici i suoi governatori”. L’autore, tramite il suo

personaggio, analizza l’opera Dispotismo orientale di Karl August Wittfogel, sinologo fuggito

dalla Germania nazista negli anni trenta, il cui titolo deriva da un articolo di Marx del giugno

1853 in cui affermava che i regimi tirannici il più delle volte si sviluppano laddove il clima e

il suolo invitano alla costruzione di grandiose opere d’irrigazione, aggiungendo che

l’irrigazione artificiale per mezzo di canali e di altre opere idrauliche è la base dell’agricoltura

orientale. Wittfogel, facendo un passo avanti rispetto all’anali di Marx, sostenne che la storia

ha mostrato una volta per tutte che l’irrigazione determina coercizione e controllo: gli stati

comunisti a partito unico rappresentano un caso storico di grande rilievo in tal senso. Alla

caduta dello zar, Lenin e i bolscevichi iniziarono ad operare la ricostruzione delle società

asiatiche sotto altre sembianze. In seguito Stalin perfezionò il processo, ponendo le

fondamenta delle realizzazioni idrauliche, conferendo così all’Unione Sovietica la struttura

arcaica del dispotismo orientale (Westerman 2006:96-97).

Affronterò ora in dettaglio le vicende che interessarono il lago d’Aral e l’intervento

sovietico dei primi decenni del ‘900. Se si osserva una carta geografica del mondo,

procedendo da occidente a oriente, a sud del continente euroasiatico appare una catena di

quattro mari: il Mediterraneo, il Mar Nero, oltre i monti del Caucaso vi è il Mar Caspio e

infine, più a est di tutti, si trova il Mare d’Aral (o almeno ciò che ormai ne rimane)

(Kapuściński 1994). Il suo bacino si situa sul confine tra Kazakhstan (la parte nord) e

Uzbekistan (la parte sud) e attinge l’acqua dai fiumi già sopra citati Syr Daria e Amu Darja i

quali, con la loro impressionante lunghezza (2212 km uno e 2600 km l’altro), attraversano

l’intera l’Asia Centrale. Fu a lungo considerato il quarto lago salato al mondo. Prima del 1960

ricopriva una superfice di circa 68.000 km2, con un livello d’acqua di 53.4 m e una capienza

di 1.090 km3

(Szöke n.d:135). La brama sovietica di diventare il principale produttore di

cotone al mondo portò al concretizzarsi, sotto la guida di Stalin, dei piani quinquennali e,

successivamente, del progetto “Terra Vergine”43

(“Virgin Land”) degli anni ‘50 promosso da

Khrushchev. La prima mossa messa in atto dai sovietici fu quella di appropriarsi della

gestione delle riserve idriche; una volta sottratta alle istituzioni locali, questa venne posta

43

Nel 1956 Mosca intraprese un progetto di irrigazione e appropriazione delle terre vergini delle steppe

Golodnaya nella R.S.S. Uzbeka e in quella Kazaka per l’implemento della produzione di cotone, un progetto che

originariamente fu elaborato per l’accrescimento delle colture di grano in Russia (Matley 1970, cit. in Szöke

n.d).

40

sotto il controllo di una leadership centralizzata (Ibid.). L’acqua, essendo una risorsa scarsa in

queste regioni, si poneva, da sempre, al centro di un fragile equilibrio fatto di lotte e

collaborazioni che investiva le relazioni tra uomini, tra uomini e animali e tra uomini e piante

(Kapuściński 1994). Nel decennio tra il 1930 e il 1940 la sostenibilità dell’irrigazione emica

fu spazzata via quando le piccole aziende agricole locali, quasi sempre a conduzione

familiare, vennero riorganizzate (accorpate) in grandi aziende collettive (Kolchoz - Sovchoz)

che, a causa dell’enorme richiesta d’acqua, necessitarono di un nuovo sistema d’irrigazione.

In risposta alla “sete” di un’agricoltura così strutturata, il governo iniziò a deviare il corso dei

due maggior affluenti dell’Aral in un’intricata ragnatela di fossati a cielo aperto, il tutto per

far confluire l’acqua nelle steppe e nelle zone desertiche al fine di renderle fertili (Micklin

2007; Spoor 1993). Questo sistema di canali è ancora oggi visibile viaggiando per

l’Uzbekistan: durante i miei spostamenti in treno il panorama incorniciato dal finestrino era

per lo più costituito da una continua alternanza di aree aride solcate da canali, piccoli villaggi

contadini e piantagioni di cotone (fig.5-6).

Ma un suolo per costituzione desertico è di per sé povero di sostanze nutritive,

essenziali ad una buona coltivazione, cosicché al fine di potenziarne il rendimento vennero

utilizzati potenti concimi chimici, fertilizzanti e pesticidi sparsi da aerei ed elicotteri in

quantità scellerate attraverso piogge nebulizzate (Kapuściński 1994; Micklin 2007; Strickman

& Porkka 2008). La maggior parte dei finanziamenti stanziati da Mosca vennero spesi per la

realizzazione del sistema di canalizzazione. Non si fecero mai, infatti, progetti alternativi che

a fronte del clima desertico, prevedessero l’uso di drenaggi, tubazioni, condotti o altri

espedienti del genere. Si prese semplicemente l’acqua dai fiumi e la si fece scorrere nei

campi, col risultato che prima di arrivare alle zone del cotone, un terzo si perdeva per strada,

(fig.5) foto del 25/10/14, canale d’irrigazione, scattata

lungo la strada tra Samarcanda e Bukhara

(fig.6) foto del 25/10/14, campo di cotone già raccolto, scattata lungo la strada tra

Samarcanda e Bukhara

41

evaporata o prosciugata dalla sabbia (Kapuściński 1994). A differenza di altri grandi

produttori di cotone quali USA e Egitto, in Asia Centrale il miglioramento del sistema

d’irrigazione non fu mai una priorità governativa. Gli effetti di ciò si videro in merito alla

comparazione della quantità d’acqua necessaria per la coltivazione di 100kg di prodotto

grezzo: 6-10m3 d’acqua in Asia Centrale contro i 1.5m

3 utilizzati per esempio da Israele

(Khazamov 1990:30; Rumer 1987:81, cit. in Spoor 1993).

“Per prima cosa vennero fatti venire i bulldozer da tutto il paese. Poi i grossi scarafaggi di metallo rovente

si sparpagliarono sulle distese sabbiose. Partendo dalle rive del Syr Darja e dell’Amu Darja, gli arieti

d’acciaio cominciarono a scavare nella sabbia canali e fossati, dove poi venne fatta scorrere l’acqua dei

fiumi. Ne dovettero scavare un numero infinito […] Lungo quei canali i kolchoziani dovevano ora

coltivare il cotone.” (Kapuściński 1994:250)

La tabella che segue in fig.7 mostra i risultati conseguiti con tale intervento; si può vedere

come la produzione di cotone abbia avuto un’impennata rapida e massiva (si veda anche

fig.4).

Nell’arco di 75 anni la produzione di cotone in Asia Centrale è aumentata di circa 12

volte (Szöke n.d). Inoltre i territori interessati dal sistema d’irrigazione passarono da 3 milioni

di ettari (1900), a 5 milioni (1960) fino a 6,5 milioni (1980). L’impatto che tale cambiamento

ebbe sull’ecosistema della regione non fu tuttavia visibile fino agli anni ’60, quando il bacino

del lago Aral iniziò a ritirarsi rapidamente e fu allora chiaro che un sistema di sfruttamento

delle risorse di quell’entità era totalmente insostenibile a livello ecologico (Micklin 2007). A

(fig. 7) Szőke, A. (n.d.), Environment, sustainability and economic performance–the case of the northern aral

sea region, disponibile al sito web http://www.cisproject.hu/docs/EE-4-kotet_ch6.pdf

42

causa delle innumerevoli deviazioni la quantità d’acqua che dai due fiumi riusciva via via ad

arrivare al lago si ridusse drasticamente, arrivando in alcuni periodi dell’anno ad azzerarsi

totalmente. L’immensa distesa d’acqua originaria (68.000 km2) si ridusse in pochi anni ad

appena un quarto del suo volume iniziale. Nel 1987-89 l’Aral si divise in due corpi separati: il

“piccolo Aral” a nord, situato in Kazakhstan, e il “grande Aral” a sud, situato in Uzbekistan

(fig. 8).

Ma l’evaporazione del lago fu solo la più visibile conseguenza derivata dal mercato dell’oro

bianco. Gli effetti di tale abuso, infatti, furono presto visibili anche in termini di:

- salinizzazione del suolo: oltre al sale, che col ritirarsi delle acque del lago si depositò

sugli ex fondali del bacino, è risaputo che a dieci, venti metri di profondità sotto ogni

deserto si trovano giacimenti di sale sodio. Con l’umidità dell’acqua proveniente dai

canali d’irrigazione il sale cominciò a risalire in superfice trasformando vaste aree della

dorata terra uzbeka in lucida crosta salina del tutto inservibile (Kapuściński 1994;

Micklin 2007; Strickman & Porkka 2008);

- inquinamento delle falde acquifere e del terreno: laddove l’Aral si è ritirato, l’antico

fondale, caratterizzato da depositi salini e da sostanze inquinanti raccolte dai fiumi

lungo il loro corso (metalli pesanti, fertilizzanti, pesticidi, ecc.), venne esposto ai venti

e ciò ebbe gravi ripercussioni sull’ecosistema e sulla salute della popolazione locale.

Nel cosiddetto Priaralye, la regione che si affaccia sull’Aral, la falda acquifera,

pesantemente contaminata e non più utilizzabile a fini potabili, iniziò ad abbassarsi,

contribuendo alla salinizzazione dei suoli ed al procedere della desertificazione (Piastra

n.d.). Da dati UNEP del 2005 si stima che circa il 66% delle acque in Uzbekistan sia

(fig.8) Immagine satellitare del Lago

d’Aral, scattata con sistema MODIS dalla

NASA il 14 agosto 2014. Delineato in

nero si vede il perimetro originale del

bacino. (www.earthobservatory.nasa)

43

contaminato. Di fatto la scarsità e l’inquinamento delle acque sono attualmente le cause

principali dell’incremento di malattie che interessano sistema nervoso, tiroide, sistema

immunitario, apparato cardiovascolare, sangue, così come l’aumento dell’incidenza di

cancro e malattie infettive delle popolazioni che risiedono nelle zone dell’ex Aral.

Inoltre, grazie ad un vento che spira costantemente verso est/sud-est, si verifica il

fenomeno delle grandi tempeste di sabbia; tale fenomeno trasporta ogni anno quasi 43

milioni di tonnellate di polveri tossiche, a causa dell’inquinamento del suolo desertico,

che influiscono sulla genesi di malattie quali: anemia, cancro, problemi circolatori e

tiroidei oltre a malformazione prenatale e incremento delle malattie pediatriche

(Strickman & Porkka 2008);

- cambiamenti climatici: venuta meno l’azione mitigatrice della massa idrica, il clima ha

visto negli anni un accentuarsi del suo carattere continentale, sperimentando estati più

calde e secche ed inverni più freddi con temperature che possono raggiungere anche i -

20° (Piastra n.d.);

- rapida progressione della desertificazione;

- perdita della varietà di fauna e flora;

- ripercussioni sanitarie e socio-economico sulla popolazione che in quelle zone ci

viveva e ci vive, in percentuale molto ridotta, in condizione di elevata precarietà

(Micklin 1988, 2004, 2007; Spoor 1993; Strickman & Porkka 2008). Come scrive

Kapuściński (1994:251), “la terra cambiò rapidamente faccia”. Agli inizi degli anni ’80

si verificò il definitivo collasso dell’economia ittica che da sempre rappresentava il

sostentamento principale della popolazione stanziata sulle sponde del lago. L'impatto

ambientale sulla fauna lacustre fu devastante poiché dapprima i pesci iniziarono a

morire per l’inquinamento dei reflussi tossici provenienti dai campi fertilizzati, mentre

quelli rimasti in vita erano comunque inservibili perché fortemente contaminati da

sostanze chimiche nocive, infine molte specie scomparvero per sempre dalle ormai

esigue acque del lago, tra qui il salmone dell’Aral, dichiarato ora ufficialmente estinto

(Micklin 2007; Strickman & Porkka 2008). A seguito del disfacimento dell’ecosistema

ittico si stimò che, nel Karakalpakstan - regione maggiormente colpita - circa 60.000

persone persero i propri mezzi di sussistenza; molte di loro, circa 10.000, furono

costrette a migrare in cerca di lavoro, molte altre vennero assorbite dall’industria

cotoniera come manodopera a basso costo (UNEP 2005 cit. in Strickman & Porkka

2008:111). Col ritiro delle acque, poi, i villaggi che un tempo sorgevano sulle rive del

bacino si trovarono a decine di km di distanza dai punti di accesso all’acqua, in alcuni

44

casi lontani anche 150 km, rendendo la navigazione niente più che un nostalgico

ricordo (Ibid.).

Ciò che rimane oggi a testimonianza di quanto detto sopra sono le innumerevoli carcasse

arrugginite dei pescherecci che un tempo solcavano le acque dell’Aral, tristemente arenati

tra le dune dell’arida terra desertica (fig. 9-10). Oltre all’economia ittica venne smantellata

in gran parte anche la coltivazione di grano e frutteti, da sempre base consistente

dell’economia locale:

“Dapprima lo fecero sui terreni desertici sterili; ma poiché il tessuto bianco non bastava mai, le

autorità imposero di coltivare a cotone anche i campi fertili, i giardini, i frutteti. Si può immaginare la

disperazione e lo spavento dei contadini privati degli unici beni che possedevano: un cespuglio di

ribes, qualche albicocca, un angolo d’ombra […] Al posto di pomodori e cipolle, di olive e cocomeri,

si coltivava cotone.” (Kapuściński 1994:250)

Il cotone è una pianta a produzione stagionale, dunque finito il periodo di semina e raccolta

moltissimi contadini si trovavano sprovvisti di lavoro, versando in condizioni di povertà ed

indigenza fino alla produzione successiva.

Per quanto affermato sopra si può dunque concludere che il potenziamento e

l’imposizione della monocoltura cotoniera venne pagato, e tutt’ora è pagato, a caro prezzo

dalla popolazione locale. Sulla scia della pubblicazione francese del libro di Gilles Clèment

Menifeste du Tiers paysage (2004), tradotto in italiano col titolo di Manifesto del Terzo

paesaggio (2005), si creò un dibattito in campo interdisciplinare in relazione alle pratiche di

scrittura e riscrittura del paesaggio (Breda 2012). Personalmente ritengo alcune delle

riflessione che derivano da tale dibattito particolarmente stimolanti se affrontate in relazione

(fig.9-10) Photograph Courtesy Philip Micklin , for National Geographic magazine http://news.nationalgeographic.com/

45

alle vicende del lago d’Aral. Secondo l’autore il Terzo paesaggio appare per sottrazione dal

territorio antropizzato, per abbandono, per sospensione o assenza di decisioni umane, per

dimenticanza o marginalità (Ibid.). Sostiene Clèment:

“Se si smette di guardare il paesaggio come l’oggetto di un’attività umana subito si scopre una quantità di

spazi indecisi, privi di funzione sui quali è difficile posare un nome. Quest’insieme non appartiene né al

territorio dell’ombra né a quello della luce. Si situa ai margini. Dove i boschi si sfrangiano, lungo le

strade e i fiumi, nei recessi dimenticati dalle coltivazioni, là dove le macchine non passano. Copre

superfici di dimensioni modeste, disperse, come gli angoli perduti di un campo: vaste e unitarie, come le

torbiere, le lande e certe aree abbandonate in seguito a una dismissione recente” (Clèment 2005:10).

Terzo paesaggio non rinvia in quest’analisi a Terzo mondo, ma piuttosto a Terzo stato

con riferimento al pamphlet di Seyès del 1789: “Cos’è il Terzo stato? - Tutto. Cosa ha fatto

finora? – Niente. Cosa aspira a diventare? – Qualcosa” (Ibid:11). Sono dunque luoghi in cui

l’intervento umano c’è stato, ma dove nell’ordine delle cose attuali è sospeso. Tale concetto

ha interessato l’antropologia nella misura in cui l’ha avvicinata a dimensioni in cui l’agire

umano cessa quasi d’esistere, ai confini con il dismesso, con il non agire (Breda 2012).

L’implicazione affascinante dell’avvicinare la riflessione antropologica a quella del Terzo

paesaggio è la concezione secondo cui proprio dove si creano interstizi sociali, culturali,

frontiere, limiti, lì l’antropologia riesce a leggere e descrivere il mondo contemporaneo, un

mondo fuoriuscito dal discorso ufficiale in cui le persone sperimentano pratiche meno

codificate e in continuo adattamento (Ibid.) Credo che tale concetto e le sfumature che ne

derivano siano particolarmente utili per osservare i territori un tempo culla delle acque

dell’Aral. Ciò che rimane oggi di quel paesaggio un tempo florido e popoloso non è altro che

un “residuo” (Clèment 2005), un luogo marginale dove l’uomo ha sospeso il suo agire.

Volendo affiancare ulteriormente la situazione dell’Aral al concetto di Clèment (2005) è

interessante considerare le molte declinazioni che egli ne fa: esistono, infatti, Terzi paesaggi

vegetali, animali, urbani-architettonici e anche politico-amministrativi. Quest’ultima versione

è a mio avviso particolarmente interessante in relazione al caso in esame: essa riguarda tutti

quegli elementi che fanno vergognare la classe politica, ciò che turba, dis-turba e inquieta,

come ad esempio sacche di povertà di un paese, manifestanti, disoccupati, zone marginali

inquinate frutto di sfruttamento massivo, discariche ecc. (Breda 2012). Spesso, inoltre, il

disinteresse delle istituzioni per il Terzo paesaggio coincide con un punto di vista svalutante:

aree dismesse, incolte, residue, vuote (Clèmente 2005:54). Vi è poi anche il Terzo paesaggio

sociale e culturale, e ricordando le precarie condizioni di vita in cui versano gli abitanti dei

villaggi semidisabitati che spuntano come isole dal deserto, mi viene da chiedermi se sia

possibile estendere la categoria di “residuo” (Ibid:13) anche a loro, nella misura in cui essi

46

sarebbero divenuti parte di comunità residuali, scomode e difficilmente raggiungibili44

. Scrive

Kapuściński (1994), che ha visitato quelle cittadine all’indomani della caduta dell’Impero

sovietico:

“Il paese di Mujnak fino a qualche anno fa era un porto di pesca marittima. Ora si trova nel bel mezzo del

deserto, a sessanta, ottanta chilometri dal mare. […] Mujnak è un luogo triste. Un tempo si trovava nel

luogo dove lo splendido Amu Daria, sfociava nel Mare d’Aral […] Nel paese ogni vegetazione è seccata,

tutti i cani sono morti. Metà della gente è partita e chi è rimasto non sa che fare. Lavorare no: si tratta di

pescatori, e ora non c’è più pesce. […] Se non tira troppo vento la gente si siede su panchine poggiate

contro le pareti scrostate e fatiscenti delle loro casupole.” (Kapuściński 1994:254)

E’ chiaro, dunque, come, durante il periodo sovietico, la vita di un’abitante delle

cinque repubbliche (ma soprattutto uzbeko e kazako) fosse impregnata da tutta una serie di

relazioni che la legavano al cotone: iniziando dall’imposizione di semina e raccolta fino ad

arrivare alla questione politica. Ciò che Spoor (1993) ha chiamato la nomenklatura del cotone

consisteva in un sistema fatto a) di “baroni del cotone” spesso appartenenti all’élite politica

locale, b) di corruzione e falsificazione dei dati sul raccolto e c) della perpetrazione di

pratiche di lavoro forzato, soprattutto a fronte della raccolta in autunno. “In Asia Centrale

durante la raccolta del cotone tutto si ferma. Scuole, istituti, uffici pubblici, tutto viene chiuso

per due o tre mesi. Nessuno può venire esentato dall’obbligo.[…] Giornali, televisioni, radio,

tutto si mette al servizio del dio cotone” (Kapuściński 1994:251). In una annotazione di

Rumer (1987:82) ripresa da Spoor (1993:12) si legge: “L’Uzbekistan ha intrapreso un lungo e

tragico esperimento – che ha messo in luce la capacità della monocultura di corrodere non

solo l’agricoltura, ma anche l’industria, l’educazione, la salute e infine anche la moralità

pubblica”.

Come si vedrà nel corso del capitolo la situazione attuale della Repubblica dell’Uzbekistan,

pur essendo notevolmente cambiata rispetto alla situazione sovietica, è ancora fortemente

legata a questa coltura, uno dei monopoli più redditizi dello Stato.

44

Dico difficilmente raggiungibili perché, durante il mio soggiorno in Uzbekistan (tra ottobre e novembre 2014),

spinta dalla letteratura riguardante il disastro ecologico dell’Aral, ho cercato di organizzarmi per raggiungere

alcune delle comunità stanziate nel nord della regione autonoma del Karakalpakistan. Essendo la regione orai

caratterizzata da una vastissima area desertica, scarsamente collegata alle città principali del paese quali Bukhara

o Samarcanda, il raggiungimento della più vicina comunità di ex pescatori (Muynaq) necessitava di una guida

esperta e un viaggio di circa quattro giorni andata e ritorno, a bordo di un pick-up equipaggiato di viveri e

attrezzatura per passare la notte nel deserto. L’ingente spesa in termini di denaro e il difficile reperimento della

guida, essendo ottobre-novembre bassa stagione turistica, mi hanno infine indotta a rinunciare a tale visita.

47

2.2. WATER USERS ASSOCIATIONS (WUAs): PIANIFICAZIONE,

DISTRIBUZIONE E GESTIONE DELLE RISORSE IDRICHE

La transizione economica che interessò il paese all’indomani dell’indipendenza colpì,

in parte, anche la gestione delle risorse idriche. La decentralizzazione del potere fu uno, se

non l’unico, dei meccanismi di riorganizzazione delle acque messi in atto dal governo

indipendente (Veldwisch 2008; Veldwisch et al. 2012; Zinzani 2011). Come descritto nel

paragrafo precedente, con il crollo dell’Unione Sovietica, l’Uzbekistan ereditò un sistema

d’irrigazione su larga scala distribuito in svariati milioni di ettari.

Le riforme agrarie avviate dallo Stato nei primi anni di transizione economica

andarono ad influire, anche, sulla gestione delle risorse idriche. Come mostrerò nei paragrafi

successivi, l’introduzione di processi di decollettivizzazione e privatizzazione portarono alla

suddivisione delle grandi aziende agricole collettive45

in numerose aziende private, basate su

accordi di produzione individuali. Con la riorganizzazione del sistema agrario, dunque, il

vecchio modello di distribuzione dell’acqua, basato sul tipo di coltura e sugli assetti

ambientali annotati accuratamente nei registi collettivi, divenne fortemente obsoleto

(Abdullayev, Nurmetova, Abdullaeva & Lamers 2008).

Il cambiamento nella gestione delle risorse idriche avvenne col trasferimento dei pieni

poteri dello Stato46

alle Water Users Associations47

(WUAs), che iniziarono ad occuparsi

della pianificazione, distribuzione e gestione dell’acqua in campo agricolo e domestico

(Ibid.). Nel 2003 venne approvato un decreto governativo indirizzato alla suddivisione del

territorio nazionale in differenti bacini d’irrigazione48

. Le 13 sedi regionali e le 163 sedi

distrettuali d’amministrazione dei servizi idrici, più le 40 organizzazioni distrettuali di

gestione dei canali e svariate altre organizzazioni del settore facenti capo al Ministero

45

Durante il periodo collettivista i membri di sovkhoz, kolkhoz o shirkat (le principali organizzazioni agricole

collettive) non erano interessati a come avvenisse la distribuzione dell’acqua. Questo perché

l’approvvigionamento dei materiali utili all’agricoltura, tra cui appunto l’irrigazione, veniva interamente fornito

dallo Stato (Abdullayev, Nurmetova, Abdullaeva & Lamers 2008). 46

Il decreto legge n. 419 del 26 novembre 1996, approvato dal consiglio dei ministri, abolì definitivamente il

Ministero dell’Agricoltura ed il Ministero del Miglioramento della Gestione delle Acque (Ministry of

Agriculture and Ministry of Melioration and Water Management), fondati nel 1927-28. In sostituzione venne

creato un unico nuovo organo istituzionale centralizzato: il Ministero dell’Agricoltura e delle Risorse Idriche

(Ministry of Agriculture and Water Resources - MAWR) (Veldwisch et al. 2012:129). 47

La creazione di questa nuova organizzazione in campo idrico fu favorita da tre circostanze principali: il

collasso dell’Unione Sovietica e le successive riforme agrarie che cambiarono l’assetto del settore primario; la

pressione esercitata da organi internazionali quali Banca Mondiale, Asian Development Bank, United States

Agency for International Development (USAID) e l’International Water Management Institute (IWMI), a favore

della creazione delle Water Users Associations; il volere del Ministero dell’Agricoltura e delle Risorse Idriche

(Veldwisch et al. 2012:133). 48

Decreto presidenziale n. UP-3226 del 24 marzo 2003, seguito dal decreto legislativo n. 320 del 21 luglio 2003,

approvato dal consiglio dei ministri (Veldwisch et al. 2012:129).

48

dell’Agricoltura e delle Risorse Idriche, furono abolite. Vennero sostituiti con 10 enti per la

gestione dell’acqua e 1 ente per la gestione dei canali, con circa 52 sedi sparse nei differenti

bacini d’irrigazione49

(Veldwisch et al. 2012:129). Le nuove Associazioni iniziarono ad

occuparsi di controllo e manutenzione dei canali e dei bacini artificiali, della distribuzione

delle acque nelle terre agricole e dei contributi versati dai cittadini sia per uso domestico sia

per l’irrigazione delle terre private (Zinzani 2011). Attualmente, gli uomini a capo di questo

sistema manageriale delle risorse idriche vengono selezionati e garantiti direttamente dal

Ministero, divenendo, di fatto, personaggi chiave anche della pianificazione agricola

(Veldwisch 2008). Nella sua definizione formale una Water Users Association (WUA) risulta

essere un’associazione non-governativa, esente da fini di lucro e amministrata dai

rappresentati degli utenti che ne usufruiscono. In realtà, però, essa è strettamente vincolata al

controllo statale, entrando a far parte di una rigida struttura gerarchica fortemente subordinata

al volere governativo (Abdullayev, Nurmetova, Abdullaeva & Lamers 2008; Veldwisch et al.

2012). Uno degli indicatori forse più evidenti della coercizione statale è, come accennato

sopra, la nomina da parte dello Stato dell’apparato amministrativo. Attualmente, dunque,

nonostante il processo di decentralizzazione del potere, i maggiori provvedimenti in campo

idrico sono approvati sotto una stretta supervisione statale. Ciò è principalmente dovuto al

fatto che i nuovi enti che gestisco i differenti bacini d’irrigazione sono, ancora,

economicamente dipendenti dal Ministero dell’Agricoltura (Zinzani 2011). Molti di loro,

inoltre, sono affetti da una consistente inefficienza che compromette il funzionamento e la

manutenzione della rete di irrigazione e di drenaggio (Abdullayev, Nurmetova, Abdullaeva &

Lamers 2008; Veldwisch et al. 2012; Veldwisch 2008). Tale inefficienza è spesso dovuta

all’intromissione degli organi di governo a diversi livelli. Per esempio, lo statuto legislativo

definisce che le Water Users Associations (WUAs) siano associazioni finanziate dai canoni

d’utenza, i cui organi decisionali massimi sono le Assemblee Generali, uniche responsabili

dell’elezione del proprio presidente. I membri consistono in persone legali o fisiche in

possesso di immobili o terreni nelle aree territoriali di competenza di una delle Associazioni e

che, quindi, usufruiscono dei servizi pagando il canone d’utenza (Veldwisch et al. 2012).

Contrariamente a quanto scritto nelle carte ufficiali, tuttavia, lo Stato non ha mai dato pieni

poteri a questi enti. Inoltre, i governatori regionali (hokims) hanno sempre esercitato notevole

influenza sui programmi di gestione delle acque, specialmente nei periodi di maggiore siccità,

gravati del raggiungimento delle quote di produzione statali. Dal canto loro, gli agricoltori

49

A differenza delle organizzazioni abolite, questi nuovi enti, amministrativamente parlando, non dipendono più

dai governatori locali (hokims), né dagli uffici regionali e distrettuali, ma, direttamente dal dipartimento per le

risorse idriche del Ministero, a Tashkent (Veldwisch et al. 2012:129).

49

delle aziende agricole private (fermer), schiacciati anch’essi dall’onere delle quote di

produzione, conoscendo l’influenza degli hokims sulle risorse idriche, hanno continuato a

coltivare le proprie relazioni di fedeltà, raggirando la Water Users Association del bacino

d’irrigazione (Ibid.).

Analizzando le dinamiche di potere che ad oggi governano il sistema di distribuzione

dell’acqua si può notare che, le Water Users Associations (WUAs) non sono, come

propagandato dai documenti ufficiali, enti portatrici di principi democratici e di autogestione

ma, piuttosto, strutture che implementano il controllo statale sulla produzione agricola.

Come mostrerò nei paragrafi successivi, la produzione agricola dell’Uzbekistan

contemporaneo è fortemente regolamentata dallo Stato, soprattutto in merito alla coltivazione

di cotone e grano. Parallelamente, anche la distribuzione dell’acqua per l’irrigazione, per

quanto detto sopra, risulta essere parte del sistema autoritario governativo. Il controllo sulla

distribuzione delle risorse idriche viene utilizzato, dallo Stato, per controllare la produzione

agricola in generale, nonché il rispetto delle quote di produzione su cotone e grano in

particolare.

In merito allo sfruttamento delle risorse, e in particolare con riferimento alle

condizioni del sistema idrico e ambientale attuale, occorre considerare che

“Dal 1991 non è stato compiuto alcun intervento per la pianificazione di nuove opere; la mancanza di

fondi e competenze tecnico-idrauliche, hanno costretto le autorità alla sola salvaguardia delle strutture

idrauliche esistenti. Inoltre, di primaria rilevanza, è far fronte alle problematiche legate alla

desertificazione e salinizzazione dei suoli, fenomeno molto frequente e in crescita a causa dell’iper

sfruttamento delle superfici agricole; circa il 50% delle pianure irrigue uzbeke soffre di questo problema,

di difficile risoluzione per le autorità e gli enti competenti (Jozan, 2004, p. 279)” (cit. in Zinzani

2011:467).

2.3 COMUNITA’ RURALI IN TRANSIZIONE: RIFORME AGRARIE E NUOVI

SOGGETTI PRODUTTIVI

Dall’indipendenza (1991) ad oggi il sistema di organizzazione rurale uzbeco è sempre

stato in continua trasformazione. Le riforme agrarie, infatti, sono una componente

fondamentale del pacchetto di misure politiche volte al passaggio da un’economia di comando

ad un’economia di mercato adottate nelle transizioni economiche delle ex-repubbliche

sovietiche. Questo assume particolare rilevanza nel Centro Asia, regione composta da paesi

scarsamente industrializzati che hanno sempre basato il sistema produttivo sull’agricoltura

(Kandiyoti 2002). In particolar modo in Uzbekistan il 64% della popolazione vive in aree

50

rurali ed il 32% della forza lavoro è impiegata nel settore primario che genera circa il 25% del

prodotto interno lordo del paese (dati Governativi dell’Uzbekistan 2007, cit. in Djanibekov,

Bobojonov & Lamers 2012). Dopo il disfacimento dell’URSS, il nuovo apparato governativo

cercò di elaborare una forma di organizzazione della produzione agricola che si adattasse alle

necessità della Repubblica indipendente (Ilkhamov 2007; Veldwisch & Bock 2006). In epoca

sovietica kolkhoz50

(aziende agricole collettive) e sovkhoz (aziende agricole statali)

rappresentarono la forma dominante di gestione della produttività, dando vita ad un

complesso sistema manageriale basato su grandi aziende collettive assoggettate al volere

statale. L’allontanamento da questa politica collettivista, tuttavia, per l’Uzbekistan fu un

processo lento e problematico e la gradualità di tale processo fu una scelta politica

volutamente sponsorizzata dal governo. Se nella maggior parte dei paesi post-sovietici, infatti,

il rovesciamento del sistema politico ed economico fu accompagnato dal fenomeno di

decollettivizzazione dell’agricoltura, attuato con modalità di privatizzazione e ridistribuzione

delle terre differenti, in Uzbekistan ciò avvenne solo in parte. Le terre non furono mai

totalmente privatizzate, ed il controllo statale sulla produzione e sul commercio rimane, ad

oggi, una componente viva del sistema agrario (Veldwisch & Bock 2006). Molti autori sono

concordi nell’affermare che le riforme agrarie promosse nel corso degli anni non mirarono

mai ad una liberalizzazione del mercato, bensì ad una ri-regolarizzazione, che mantenne

integri molti di quegli elementi della gerarchia di controllo propri del periodo sovietico

(Kandiyoti 2002; Trevisani 2007; Spoor 2010; Veldwisch & Bock 2006). Secondo Deniz

Kandiyoti (2004), infatti, nel paese non si verificò mai un processo di privatizzazione delle

risorse, ma, piuttosto, un processo di decentralizzazione dei poteri. La superficie agro-

pastorale uzbeka è ancora saldamente di proprietà dello Stato ed il governo, fortemente

autoritario, riesce a mantenere un forte controllo su di essa e sulla sua produzione (Zinzani

2011).

In questo paragrafo analizzerò i principali stadi di sviluppo della transizione

economica. Al fine di comprendere al meglio tale processo ho ritenuto efficace avvicinarmi al

modello esplicativo costruito da Djanibekov, Bobojonov e Lamers (2012) nel libro Cotton,

50

Azienda agraria collettiva, considerata da Lenin uno strumento indispensabile del passaggio dalla coltivazione

privata della terra alla socializzazione. Invece che sul possesso della terra, il kolkhoz si fondava sull’accordo di

persone fisiche ed era disciplinato da un regolamento interno, concordato in armonia con i principi generali del

codice agrario sovietico. Operava all’interno degli schemi produttivi generali fissati dallo Stato per mezzo dei

piani quinquennali nazionali, godendo però, di una certa autonomia relativa ad alcune scelte economiche interne.

La terra era ceduta in uso perpetuo dallo Stato al kolkhoz, assieme ai mezzi impiegati per la produzione. Con la

riforma agraria iniziata nel 1990, nel quadro generale del processo di privatizzazione del terreno agricolo, queste

aziende collettive vennero da prima modificate e successivamente soppresse, dopo un periodo di transizione di

differente durata che vide protagoniste le 5 repubbliche post sovietiche (Enciclopedia Treccani 2012, disponibile

al link www.treccani.it/enciclopedia/kolkhoz).

51

Water, Salts and Soums. In tale studio gli autori propendono per una suddivisione in quattro

fasi critiche (vedi tabella in fig.11) dell’azione riformista che, dall’indipendenza, traghettò il

paese nella situazione attuale. Ogni fase si caratterizza per diversi livelli di regolamentazione

che portarono all’emergere di nuovi soggetti produttivi. Dalle grandi aziende statali (sovkhoz)

si passò a quelle collettive (kovhkoz e shirkat) ed infine ad aziende agricole private (fermer),

spesso associate in cooperative e fondate su di una produzione a base familiare (dekhon)

(Djanibekov, Bobojonov & Lamers 2012; Ilkhamov 1998).

52

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53

Il decentramento politico-economico, inoltre, è uno dei fattori chiave per comprendere

il quadro attuale della gestione delle risorse. Una significativa decentralizzazione dei poteri

dallo Stato alle regioni comportò, negli anni, l’ascesa degli hokim, governatori regionali forti

e politicamente influenti. Ancora oggi essi godono del pieno controllo delle superfici

coltivabili e delle relative produzioni agrarie, grazie ad un’apposita registrazione dei nuovi

soggetti privati in fascicoli regionali, veicolo primo di una ferrea supervisione (Zinzani 2011).

Si tratta di “una liberalizzazione nella gestione delle superfici agricole contraddistinta, quindi,

da un ridotto grado di libertà” (Ibid:5).

2.3.1 Prima fase (1992-1998): Dal Sovkhoz al Kolkhoz

Negli anni successivi all’indipendenza, il monopolio della produzione agricola passo

dal diretto controllo statale a quello collettivo. Molti sovkhoz vennero smantellati e

riorganizzati in aziende agricole collettive di minore entità: i kolkhoz51

(Djanibekov,

Bobojonov & Lamers 2012; Kandiyoti 2002; Trevisani 2007). Fu una manovra che si prefisse

l’obiettivo di ridurre i finanziamenti statali alle aziende, in favore di un sistema di auto-

finanziamento volto a risollevare il bilancio statale. Furono, inoltre, rimossi i vincoli di

produzione dalla maggior parte delle coltivazioni, ad eccezione di cotone, grano e riso

(Djanibekov, Bobojonov & Lamers 2012). Teoricamente, con tali presupposti, il nuovo

assetto produttivo sarebbe dovuto essere in grado di auto supportarsi e di decidere

autonomamente del destino della propria produzione. Ma, nella realtà delle cose, quanto in

profondità andò ad operare la conversione dei sovkhoz in kolkhoz? Secondo Alisher Ilkhamov

(2007), sebbene i nuovi soggetti produttivi fossero per definizione aziende agricole non

governative, essi di fatto continuarono ed essere un prodotto del sistema di comando

sovietico, avviato nel 1930. I kolkhoz, infatti, rimasero fortemente dipendenti dallo Stato,

unico proprietario della terra ed unico detentore del controllo sul credito, sui materiali d’avvio

della produzione (fertilizzanti, macchinari, sementi, carburante ecc.) e su gran parte delle

vendite (Ibid.). Riprendendo il concetto esposto da Max Spoor (1993) è possibile affermare

che negli anni successivi all’indipendenza la grande inefficienza delle aziende agricole statali

venne semplicemente convertita nella grande inefficienza delle aziende collettive.

La produzione dei kolkhoz poggiò solo in parte su dinamiche riconducibili

all’economia di mercato. Essa fu caratterizzata, piuttosto, da contratti di locazione e di

commercio fortemente regolamentati dallo Stato attraverso rigide clausole d’affitto.

51

All’attuazione della riforma in Uzbekistan si contarono 971 kolkhozes e 1.137 sovhkozes (Ilkhamov

2007:539).

54

Nonostante la legge riconoscesse formalmente la proprietà delle aziende collettive ai membri

che ne facessero parte, in concreto, essi si ritrovarono ad essere soggetti alienati di un sistema

che raramente lasciava loro la possibilità di amministrare tale proprietà liberamente (Ilkhamov

2007). Il lavoro nel kolkhoz era organizzato secondo rapporti di mezzadria: ogni membro

riceveva l’affido di un’area e di norma le aree venivano suddivise in parti uguali. L’affidatario

ne era responsabile durante tutto l’arco di vita del raccolto. Nei momenti più impegnativi,

come il periodo della raccolta, i lavoratori venivano raggruppati in brigate che solitamente

erano il risultato dell’unione di più membri aventi appezzamenti terrieri limitrofi e, talvolta,

potevano coincidere col mahalla, ossia l’organizzazione di quartiere. Ogni brigata lavorava

circa tre o quattro ettari di terreno (Zanca 2011). A livello amministrativo la volontà dei

membri si esprimeva attraverso il voto di maggioranza alle assemblee generali degli azionisti.

Tuttavia, i candidati con la facoltà di ricoprire cariche amministrative potevano essere

nominati esclusivamente e in via diretta dai governatori regionali (hokims), primi interlocutori

dello Stato (Ibid.). Oltre al mantenimento di tale nomenklatura (Ilkhamov 2007; Spoor 1993)

lo Stato influiva sul kolkhoz anche a livello produttivo, possedendo il controllo di fattori

basilari alla sopravvivenza delle aziende quali: l’accesso al credito, elargito esclusivamente da

banche governative, e spesso convertito in buoni d’acquisto per prodotti utili alla produzione

(fertilizzanti, carburante, lubrificanti meccanici, sementi ecc.); l’accesso alle risorse idriche e

l’accesso ai macchinari agricoli. Inoltre, l’imposizione di quote di produzione stagionali

influiva notevolmente sulla rendita derivante dal raccolto. Il cosiddetto “obiettivo di Stato”,

relativo alla produzione di cotone e grano, venne mantenuto come piano direttivo obbligatorio

per tutte le aziende agricole. Tale obiettivo andò via via diminuendo dal 1992 al 1997,

stabilizzandosi, una volta raggiunta la quota di produzione richiesta, sulla cessione del 30%

del raccolto di cotone e 25% del raccolto di grano. A causa di tale obbligo si stimò che circa il

65% della superficie coltivabile del paese venisse destinata alla produzione per lo Stato

(Ilkhamov 2007:541). Il meccanismo era costruito in modo tale che se, ad esempio,

un’azienda agricola riusciva a soddisfare al 100% il piano statale di produzione del cotone,

tolto il 30% che necessariamente avrebbe dovuto cedere allo Stato a prezzi di mercato

interno52

, avrebbe potuto vendere, sempre allo Stato, il restante 70% del raccolto ad un prezzo

più vantaggioso; il mancato adempimento del piano di produzione, invece, comportava la

totale confisca del raccolto, pagato integralmente al prezzo fortemente svantaggioso del

mercato interno (Ibid.). Il monopolio di Stato sull’intero export della materia prima, inoltre,

52

Nonostante la legge sostenesse che i prezzi di mercato interno non potessero mai essere inferiori ai 2/3 del

mercato mondiale, di fatto, stipulando gli accordi con le aziende in valuta locale (il cui tasso è circa il doppio del

tasso mondiale), il prezzo di mercato interno risultava essere 1/3 di quello mondiale (Ilkhamov 2007:542).

55

rese impossibile alle aziende l’affacciarsi autonomamente sul mercato mondiale53

(Kandyoti

2002; Ilkhamov 2007; Veldwisch & Bock 2006). Come accennato sopra la presenza statale

non si concretizzò unicamente nell’imposizione di quote di produzione, nel controllo delle

esportazioni o nelle decisioni legate alle modalità di semina e raccolta; essa si attuò anche

nella distribuzione di tutta una serie di forniture necessarie alla produzione. L’intero mercato

legato a fertilizzanti, diserbanti, carburanti, irrigazione, macchinari agricoli e sementi era in

mano ad agenzie governative, semi-governative o a banche specializzate nel settore54

(Ilkhamov 2007; Veldwisch 2008; Zanca 2011).

Alla fine del 1997 si stimò che 662 aziende agricole collettive chiusero i propri bilanci

in rosso ed il grave indebitamento con lo Stato le pose prossime alla bancarotta55

. Ciò derivò

spesso dal fatto che i collettivi, pagando materiale ed assistenza tecnica per la produzione a

prezzi di mercato internazionale, ma, allo stesso tempo, rivendendo il raccolto a prezzi di

mercato interni, vedevano la propria rendita bastare a malapena per pagare le spese di

produzione, e talvolta, neanche totalmente (Ilkhamov 2007; Veldwisch 2008). E’ interessante

notare, in accordo con Ilkhamov (2007), come questo sistema collettivista desse vita ad una

situazione fortemente ambigua: se da un lato il governo minacciava costantemente le aziende

agricole di applicare in via definitiva i meccanismi di fallimento per le imprese improduttive,

dall’altro, al momento di ufficializzare la bancarotta, esso si dimostrava clemente, estendendo

i tempi di rimborso del debito, azzerando gli interessi maturati sui prestiti bancari e

allungando, di fatto, la vita delle aziende. A tal riguardo la domanda che Ilkhamov (2007) si è

posto è: perché lo Stato non procedette al totale smantellamento dei kolkhoz, come nelle

repubbliche confinanti, vista la loro insostenibilità economica? Il motivo della volontà statale

di far sopravvivere questo “sistema sovietico privo di sovietici e di comunisti” si chiarisce in

ragione del fatto che, superando il periodo sovietico d’origine, esso divenne uno strumento di

ridistribuzione del potere e delle risorse economiche a vantaggio dell’élite dirigenziale

nazionale (Ibid.). La leadership dei vari kolkhoz aveva, infatti, il potere di influire

profondamente sulla vita degli abitanti dei villaggi limitrofi. Essa controllava l’accesso al

lavoro e alle retribuzioni salariali in denaro e aveva facoltà di decidere quali progetti per il

53

Per essere abilitati all’esportazione del cotone, infatti, i kolkhoz necessitavano di una specifica licenza

rilasciata dal Ministero per le relazioni economiche estere. Non vi furono mai casi in cui tale licenza venne

effettivamente rilasciata e il monopolio di Stato rimase sempre integro (Kandyoti 2002; Ilkhamov 2007;

Veldwisch & Bock 2006). 54

Come ad esempio: UzSelkhozTekhnika, specializzata nella riparazione di macchinari, UzAgroStroi, per le

costruzioni agricole, UzVodStroi, che si occupava della gestione del sistema d’irrigazione, UzEnergoSbyt, per il

rifornimento elettrico, Pakhta Bank, specializzata nell’industria cotoniera, Galla Bank, specializzata sul grano,

Tadbirkor Bank, Mevasabzavot Bank, Zamin Bank ecc. (Ilkhamov 2007:542). 55

Narodnote Slovo, 05/02/1997 cit. in Ilkhamov (2007:543)

56

villaggio sarebbero stati intrapresi e quali ignorati (in base all’esigenza d’origine del progetto,

delle relazioni con il promotore di quest’ultimo, ecc.). L’antropologo Russell Zanca (2011),

utilizzando materiale raccolto durante interviste ad esponenti della dirigenza e a kolhozdji

(lavoratori), mostra che, nonostante alcune amministrazioni lavorassero coscientemente, nella

maggior parte dei casi la percezione che gli abitanti dei villaggi e i lavoratori avevano di esse

riconduceva molto spesso alla figura del funzionario corrotto che utilizza la sua posizione per

catalizzare su di sé ogni tipo di privilegio possibile. In realtà è stato sottolineato come essi

eseguissero ordini provenienti dall’hokimiiat (leadership dei governatori regionali o

provinciali), occupando pertanto i gradini più bassi del potere nel sistema politico dello Stato.

I leader dei kolchoz, dunque, lavoravano come parte di una catena di comando che rafforzava

costantemente gerarchie di potere delimitando l’accesso alle risorse (Ibid.).

Contemporaneamente allo smantellamento dei sovkhoz vennero approvati

provvedimenti per la conversione di parte delle piantagioni di cotone in colture di grano, al

fine di colmare l’ammanco di prodotti per l’approvvigionamento e ridimensionarne le

importazioni. Fu, inoltre, aumentata la concessione di terra pro capite per i nuclei famigliari

rurali. Al momento dell’indipendenza, quindi, ogni famiglia stanziata in zone rurali ricevette

un appezzamento di terra addizionale a quella già posseduta (Kandiyoti 2002). All’area del

tamorka (0.12 ha), una piccola lingua di terra limitrofa la casa, paragonabile al nostro

giardino, venne affiancato il terreno del ko’sumcha tamoka (0.13 ha), un terreno provvisto di

sistema d’irrigazione, distante dall’abitazione, solitamente ricavato dai campi delle aziende

collettive (Veldwisch 2008:65). Tale provvedimento venne percepito come una pallida

risposta al malcontento della classe contadina che, sempre più spesso, non vedeva retribuito il

lavoro prestato nelle aziende agricole collettive. Proprio a causa di queste mancate

retribuzioni i nuclei famigliari iniziarono sempre più a far affidamento per il proprio

sostentamento alle terre private.

2.3.2 Seconda fase (1998-2003): dal Kolkhoz al Shirkat

Questa seconda fase fu inaugurata dall’attuazione di una legge che sancì la

conversione dei kolkhoz in cooperative agricole, shirkat, e piccole aziende private (fermer)

(Ilkhamov 2007; Kandyoti 2002; Veldwisch & Bock 2006; Zanca 2002). Per esempio, nella

regione di Khorezm su un totale di 132 kolkhoz, 123 vennero convertiti in shirkat mentre le 9

aziende restanti, le più inefficienti, vennero liquidate e trasformate in aziende private (fermer)

(Kandiyoti 2002:23). In Uzbekistan il concetto di shirkat si avvicina molto ai concetti di

comunità, compagnia, associazione; nella nuova legge sulla proprietà, infatti, la sua

definizione venne spesso associata a unità quali i mahalla e i nuclei famigliari (Ilkhamov

57

2007). Concretamente, però, il concetto teorico di shirkat venne applicato ad aziende agricole

create sulla base dei kolkhoz, i quali, una volta smantellati, vennero riassemblati in soggetti

produttivi più piccoli. In ambito produttivo non vi furono cambiamenti notevoli. Tra le colture

le quote di produzione rimasero: il 100% del cotone, 60% del riso, 50% del grano e 100%

della barbabietola da zucchero. Vennero stipulati nuovi contratti di collaborazione con gli

acquirenti statali a livello distrettuale e con i fornitori di materiali per la produzione56

(Kandiyoti 2002:24). Per comprendere più adeguatamente le dinamiche alla base di questi

rapporti produttivi riporto di seguito il caso del shirkat Ok Bugday57

, studiato da Deniz

Kandiyoti (2002) nella provincia di Khorezm. La produzione dell’azienda agricola di Ok

Bugday si articolava in tal modo: il shirkat riceveva un anticipo per l’avvio della produzione,

depositato in un conto corrente appositamente creato presso la Pakhta Bank (banca

specializzata nel settore cotoniero); tale anticipo non consisteva in una somma di denaro,

bensì in crediti da poter spendere, presso selezionati venditori statali, per l’acquisto di prodotti

quali pesticidi, fertilizzanti, macchinari, così come assistenza, manutenzione e ricambi

meccanici. Tale anticipo ammontava solitamente al valore del 25% del ricavato dell’anno

precedente e veniva versato tramite differenti transazioni specifiche per ogni settore d’uso.

Era, tuttavia, importante per il shirkat avere le proprie fonti di liquidità al fine di poter fare

acquisti in contanti o, ad esempio, stipulare accordi trasversali con alcuni dei propri fornitori.

Nel caso in esame la vendita di bestiame era una delle fonti d’introito più affidabili; in alta

stagione un shirkat arrivava a vendere fino a 70 capi di bestiame a settimana (ibid:25). La

riorganizzazione del lavoro sulle terre collettive post-kolkhoz vide l’abbandono della brigata58

come unità base della produzione che venne, infatti, sostituita dal nucleo famigliare. Fu

56

Gli acquirenti statali possono essere la fabbrica di lavorazione del cotone grezzo, l’organizzazione per la

trasformazione di prodotti derivanti dal grano, la fabbrica di zucchero o il caseificio per quanto riguardava il latte

(nonostante quest’ultimo rientrasse nel mercato libero non essendoci quote sul latte). Per fornitori di materiali e

servizi alla produzione, invece, si intendono i fornitori di attrezzature meccaniche per trattori, aratri ecc.,

l’organizzazione statale petrolifera, venditori di fertilizzanti o prodotti chimici per l’agricoltura (Kandiyoti

2002). 57

Azienda collettiva divenuta shirkat nel 1999. Composta da una superficie totale di 2.740 ettari, il 60% della

quale coltivata a cotone, il 15% a riso, 11% con barbabietola dello zucchero e il 7% a grano. Le terre rimanenti

erano, infine, dedicate all’orticultura. Per il shirkat lavoravano circa 1.800 famiglie. La grandezza della terra data

in concessione ad ogni famiglia dipendeva dal tipo di coltura e dalla possibilità che essa aveva in termini di forza

lavoro: 5 ha per il grano, 1.1 ha per il riso e 1.7 ha per il cotone. A 1.620 famiglie fu distribuito un totale di 368

ha di terra che divenne privata sotto forma di tamorka. Il shirkat, inoltre, possedeva un allevamento di circa 800

capi di bestiame, curato da 36 lavoratori salariati. I lavoratori ufficialmente salariati erano più o meno 120, da

sommarsi ai lavoratori stagionali (Kandiyoti 2002:23). 58

La brigata, intesa come una coalizione di lavoratori accomunati dalla vicinanza abitativa o dalla vicinanza dei

campi coltivati, continuò ad esistere, ma a differenza del passato, non si occupò più della produzione, iniziò a

svolgere perlopiù lavori di manutenzione come la pulizia o la riparazione dei canali d’irrigazione (Kandiyoti

2002).

58

introdotto un particolare contratto di lavoro chiamato pudrat59

(Veldwisch 2008).

Dall’organizzazione del lavoro basato sulle brigate si passò, dunque, a quello basato sulle

famiglie. Il pudrat di fatto era un contratto di lavoro stipulato tra il shirkat e le varie famiglie

locatarie e consisteva nella responsabilità di ogni nucleo famigliare di una parte di terreno da

coltivare secondo specifici accordi di collaborazione60

. Tale contratto sanciva l’ingresso dei

soggetti produttori in una serie di rapporti di mezzadria fatti di pagamenti salariali

occasionali, il più delle volte sostituiti dallo scambio di merci, da concessioni di vario genere

e benefici riguardanti protezione o welfare (Djanibekov, Bobojonov & Lamers 2012). Ogni

famiglia con contratto pudrat, a inizio stagione, veniva dotata di uno specifico registro o di un

libretto degli assegni in cui annotare tutte le spese sostenute per il raccolto. Alla fine

dell’anno, dopo il deposito dei bilanci sulla produzione, il costo delle spese sostenute dal

shirkat, segnate nei registri e addizionate al costo dei servizi tecnici offerti dal personale

specializzato (agronomi, commercialisti, manutentori meccanici ecc.), venivano detratte

dall’importo dovuto al pudrat per l’ammontare del raccolto61

(Kandiyoti 2002). Un simile

contratto di collaborazione sfavoriva nettamente i lavoratori su vari livelli:

- sulla vendita a prezzi irrisori del raccolto soggetto alle quote di produzione statale (vedi

paragrafo 2.3.1);

- sul pagamento dei materiali di produzione attraverso crediti anticipati dal shirkat in

buoni d’acquisto. Questi materiali, infatti, acquistati da fornitori statali venivano pagati

ad un prezzo superiore rispetto a quelli acquistabili in denaro al bazar;

- sul pagamento di un’elevata tassa di supporto all’apparato tecnico-amministrativo.

Riporto di seguito alcuni frammenti estratti da un serie di interviste fatte dall’antropologa

Deniz Kandiyoti (2002) a lavoratori pudrat del shirkat di Eski Kishlak, situato nei pressi della

città di Andijan (Valle del Fergana), che testimoniano le difficoltà dei contadini impiegati

nelle aziende collettive:

59

Il termine pudrat può essere utilizzato anche nell’accezione di piccola brigata di lavoratori organizzati su

relazioni di tipo familiare (Veldwisch 2008). 60

Nel caso in esame, Kandiyoti (2002) apporta l’esempio di un contratto pudrat tra i più diffusi, una

collaborazione della durata di un anno relativa alla coltivazione del cotone. I termini del contratto prevedevano

che il shirkat desse alla famiglia locataria un incentivo all’intera produzione annua di circa il 25% della rendita

dell’anno precedente. Al termine della stagione, se il contadino riusciva a produrre quanto specificato dalle quote

contrattuali, il 50% del raccolto doveva essere venduto al shirkat al prezzo di mercato interno deciso dallo Stato

(Kandiyoti 2002:25). 61

Nel caso in cui una famiglia locataria avesse prodotto 6 tonnellate di cotone, quantificabili

approssimativamente in 300.000 sums, circa la metà veniva subito destinata al rimborso degli anticipi che il

shirkat concedeva per l’avvio alla produzione, altri 40.000 sums venivano richiesti per il pagamento

dell’apparato amministrativo (contabili, servizi idrici, specialisti agronomi ecc.). Il guadagno finale si aggirava,

dunque, intorno ai 70.000 sums, circa il 25% del totale stipulato nel contratto di locazione (Kandiyoti 2002).

59

Oyashahon: “Sono una team leader, e ci sono altre quattro donne nel mio team. Mi avevano dato un

libretto d’assegni per una locazione di cinque ettari di terra da suddividere tra di noi. Non ci hanno fatto

un contratto, hanno distribuito le azioni e i libretti degli assegni, ma poco dopo se li sono ripresi. Il shirkat

dovrebbe provvedere a fertilizzare, irrigare e fornire i trattori per i cinque ettari di terra. Al momento, ne

hanno fertilizzato solo uno e i trattori sono venuti a lavorare solo tre volte. Noi ci prendiamo cura del

cotone come fosse nostro figlio, andiamo nei campi tutti i giorni. Questo non è tutto, non ci hanno

spiegato molte cose: cos’è un’azione, come si usa il libretto degli assegni? Molta gente non si fida di

queste azioni e di questi libretti. Dovremmo ottenere dei dividendi dal possesso di queste azioni, ma al

momento nessuno sa niente. Il shirkat mi ha dato 1 kg di burro, 2 kg di riso, 5 kg di pasta e 100 kg di

grano per il mio lavoro.”

Kizlarkhon: “Coltivo cotone su di un campo di un ettaro, butto il diserbante, curo la potatura e la raccolta.

Se non raggiungo le quote di produzione, devo pagare per questo. E’ da primavera che non ci pagano il

salario. Al posto del denaro mi hanno dato 1 kg di burro, 2 kg di riso, 5 kg di pasta e 100 kg di grano.”

(Kandiyoti 2002:29)

Concretamente, dunque, essendo spesso private della possibilità di avere un adeguato

compenso in denaro, queste famiglie si ritrovarono a basare la loro sussistenza principalmente

sul ricavato degli appezzamenti di terra privata (tamoka e ko’sumcha tamoka), sul baratto del

surplus che da essa ne ricavavano, sull’allevamento di qualche capo di bestiame e su un

fenomeno fiorito negli ultimi anni: il lavoro migrante (Ibid.).

Oltre che per i contadini questa nuova struttura produttiva, basata su contratti

famigliari, iniziò ad essere onerosa anche per l’apparato amministrativo del shirkat.

L’efficienza della produzione, volta al raggiungimento delle quote statali, rischiava di essere

messa in discussione dalla frammentazione dei contratti di lavoro, onerosi in termini di spese

di gestione (Trevisani 2007). Nel caso dell’Ok Bugday l’amministrazione arrivò a seguire

anche 1.800 contratti di lavoro simultaneamente (Kandiyoti 2002:26).

Vista, dunque, la subalternità e la condizione servile in cui versavano le famiglie locatarie,

cosa spingeva una famiglia a diventare pudrat?

Dirigente del shirkat: “[…] Noi uzbeki abbiamo la nostra cultura. Cos’è la cosa più importante della

nostra vita? Essere capaci di arrangiare un buon matrimonio per i nostri figli ed un buon funerale per chi

ci lascia. Quando un membro del shirkat mi dice “ho bisogno di 40 kg di riso e 20 l d’olio per il

matrimonio di mia figlia”, cosa dovrei fare? Come posso negarglieli? Dobbiamo essere in grado di

continuare a guardarci in faccia. Voglio poter essere in grado di dirgli selam-in aleykim [buona fortuna]

per il vostro giorno. Molti dei debiti che hanno vengono da queste cerimonie.” (Kandiyoti 2002:26)

Come dimostrano queste parole pronunciate da un esponente dirigenziale di un shirkat, tali

contratti lavorativi non si limitavano all’aspetto meramente lavorativo, ma nella maggior parte

dei casi prendevano le sembianze di veri e propri contratti sociali. I vincoli che legavano i

lavoratori della terra ai collettivi o alle aziende private (fermer) erano una miscela di

60

mancanza di alternative62

, da un lato, e forme di protezione paternalistica dall’altro (Ilkhamov

2007; Kandyoti 2002; Veldwisch & Bock 2006; Zanca 2002). Oltre alla tutela della cartella

lavorativa registrata presso un’azienda collettiva (valente per la pensione e per l’accesso ad

alcuni servizi sociali), il contratto pudrat era alla base di benefici ai quali, i lavoratori del

shirkat, potevano accedere solo grazie al mantenimento di una seria di relazioni clientelari coi

rappresentanti dell’amministrazione. Tra i favori più comuni vi erano: la possibilità di

utilizzare, dopo la raccolta, gli steli secchi della pianta del cotone come combustibile o come

foraggio per gli animali; la concessione di poter pascolare, in alcuni periodi dell’anno, il

proprio bestiame nelle terre collettive; la possibilità di vendere l’olio di cotone in eccesso nei

bazar così come lo zucchero scartato dalla raffinazione della barbabietola ecc. Inoltre, con una

specifica locazione, veniva permesso di piantare coltivazioni a “crescita rapida” (carote,

piselli, fagioli ecc.) nei campi in cui fosse appena terminata la raccolta del grano; un periodo

di locazione, questo, che si limitava alla pausa produttiva tra la raccolta e la nuova semina

(Djanibekov, Bobojonov & Lamers 2012; Kandiyoti 2002; Veldwisch 2008; Veldwisch &

Bock 2011). Il beneficio più importante, infine, era la possibilità di ricevere un appezzamento

di terra irrigata in aggiunta alla tamoka. Come accennato prima, lo Stato promulgò una legge

per la ridistribuzione di parte delle terre collettive al popolo e a tal proposito investì le aziende

collettive del compito di distribuire tali terre. I lavoratori registrati nei collettivi poterono

accedere a terre mediamente più grandi e più fertili rispetto alla popolazione generale

(Kandiyoti 2002).

La questione a questo punto è: perché lo Stato sentì la necessità di creare i shirkat se,

come abbiamo visto, non vennero apportate grandi modifiche relative all’organizzazione

produttiva e lavorativa, tanto da poterli definire kolkhoz in miniatura? Nell’analisi di Alisher

Ilkhamov (2007) la necessità di questo cambiamento è legata essenzialmente a due motivi: in

molti luoghi, specialmente quelli più densamente popolati (come la Valle del Fergana), il

disfacimento dei kolkhoz si rese necessario per l’intricata e ingovernabile burocrazia venutasi

a creare attorno ad essi, che ne deteriorò di molto la, già discutibile, efficienza. Tuttavia, il

motivo più rilevante dell’inserimento del shirkat nella vita del paese andò ben oltre il mero

scopo burocratico-amministrativo. Il termine kolkhoz, nonostante riscuotesse una certa

famigliarità nell’immaginario collettivo, divenne un sostantivo scomodo alla leadership

nazionale. Era forte, infatti, l’associazione col vecchio sistema sovietico che esso veicolava. Il

discorso del Presidente Islam Karimov, tenutosi nel 1997, è illuminante in tal senso:

62

Si consideri, in questa precisa fase di transizione economica, l’elevata disuguaglianza nell’accesso alle risorse

di un contadino autonomo rispetto ad un contadino vincolato ad un’azienda agricola collettiva. Di fatto la

maggior parte delle risorse, sia idriche che energetiche, venivano prosciugate dai collettivi.

61

“[…] Rivolgiamoci ora al significato di concetti quali kolkhoz e sovkhoz. Il nostro popolo è di

animo tanto buono da accettare abilmente parole esotiche di cui non capisce completamente il significato

[…] kolkhoz significa “kollektivnoye khozyaistvo”, sovkhoz significa “sovetskoye khozyaistvo”. Entrambi i

termini rimandano all’epoca sovietica. Questi concetti non rientrano nella nostra vita di oggi, non

rispecchiano la nostra nuova realtà, il nostro orgoglio nazionale. Oggi c’è bisogno di organizzare

l’economia su nuove basi, nuovi presupposti che già vengono praticati in tutti gli altri paesi civilizzati.

Ritengo appropriato, dunque, associare dei nomi alle aziende agricole in trasformazione per merito dei

nostri azionisti, che rispecchino la loro essenza – shirkat agricoli o cooperative agricole.” (Islam Karimov

1997, cit. in Ilkhamov 2007:545)

Al di la della retorica nazionalista utilizzata dal Presidente, da queste poche righe si

evince come l’élite nazionale avesse il desiderio di tenere in piedi il sistema collettivista

snaturandolo della sua origine storica d’epoca sovietica. La rinominazione delle aziende

agricole fu uno dei mezzi messi in atto a tal fine. Il kolkhoz, che urtava l’orgoglio nazionale,

venne ufficialmente relegato nel passato, mentre il shirkat, suo degno sostituto, fu presentato

come la più efficiente organizzazione per riformare il sistema agrario, un’entità produttiva in

perfetta armonia con gli interessi contadini e del gruppo dirigenziale (Ilkhamov 2007). E’

chiaro, a questo punto dell’analisi, come la diversità delle unità di produzione agricola sia

rintracciabile più a livello formale (kolkhoz, shirkat, join-stock, cooperative ecc..), piuttosto

che di contenuto. La somiglianza in questa miriade di nomi, infatti, è lampante se si riflette

sull’effettivo grado di privatizzazione di ciascuna (Zinzani 2011).

Per quanto riguarda le join-stock (o società di capitali) la situazione non si discostò

molto dai shirkat. L’unico cambiamento sostanziale fu il tentativo di unificare l’impresa

agricola ai processi di lavorazione industriale della materia prima. Ciò che oggi definiremmo

agro-impresa (Ilkhamov 2007).

Si verificò, infine, un aumento del numero di aziende agricole private (fermer), di

cooperative create dall’unione di queste ultime e la crescita di piccole aziende (dekhon,

termine traducibile con “contadino”, che si riferisce a quelle piccole attività agricole la cui

produzione è finalizzata esclusivamente alla sussistenza). L’emergere dei fermer venne

regolamentato da una privatizzazione che, a livello teorico, si sarebbe dovuta compiere

seguendo i principi comunisti della giustizia sociale, ossia spartendo le terre collettive in parti

uguali. Tuttavia, come l’intera storia socio-economica sovietica ha ampiamente dimostrato,

l’egalitarismo coercitivo non può essere considerato uno strumento valido per l’eliminazione

delle problematiche legate al binomio giustizia/ingiustizia. Il propagandato livellamento della

ricchezza pubblica fu presente più sulla carta che nella vita reale del popolo (Ibid.). I primi

anni per i fermer furono duri, la concorrenza dei grandi collettivi era spietata, tanto che le

aziende neonate vennero investite immediatamente da una pesante crisi economica. Furono

62

intenzionalmente relegati ad una condizione di subalternità rispetto alle grandi aziende

collettive. Secondo la legge riguardante la regolamentazione delle aziende contadine, i fermer

dovevano, inizialmente, essere creati in specifiche riserve statali, terre spesso di nuova

irrigazione, aride, improduttive e tendenzialmente poste in aree in cui la forza lavoro era di

difficile reperimento. La disuguaglianza venne sancita, inoltre, dall’inquadramento giuridico

relativo all’uso della terra. In accordo con la legge, il contratto di locazione, stipulato tra

governatori distrettuali (hokim) e fermer, non poteva superare i 10 anni (non rinnovabili),

diversamente dalla locazione per le aziende agricole collettive che era perenne. Il governo,

non creando le condizioni favorevoli allo sviluppo del settore privato, condannò, in

quegl’anni, le aziende private ad una quasi totale dipendenza dalle aziende collettive. Un

hokim distrettuale:

“sosteniamo pienamente lo sviluppo di contadini [privati]. Molti contadini nel nostro distretto si

dimostrano veri proprietari terrieri coscienziosi. Ciò nonostante, non è accettabile che ci siano persone

che, in modo subdolo, seminano i propri campi senza alcun precedente accordo, con colture che sono

redditizie per loro. Sì, si deve ammettere, rivitalizzano terre senza valore. Ma il gioco dovrebbe essere

giocato secondo le regole.” (Ilkhamov 2007:550)

Come si deduce dalle parole riportate sopra, non era affatto raro che molti dirigenti di kolkhoz

o shirkat considerassero i contadini indipendenti come loro sottoposti, dettando legge sul tipo

di produzione e sul mercato di vendita (Ilkhamov 2007; Markowitz 2008). La situazione,

però, andò trasformandosi nel corso degli anni, in particolare nei primi anni 2000 quando,

come si vedrà nel paragrafo seguente, fermer e dekhon divennero i nuovi soggetti produttivi

dell’agricoltura contemporanea dell’Uzbekistan (Veldwisch 2008).

2.3.3. Terza fase (2003-2008): Decollettivizzazione

I shirkat ebbero vita breve. Già dalla fine della seconda fase vennero messi in atto

meccanismi di frammentazione che convertirono le grandi aziende collettive in fermer. La

privatizzazione venne dapprima applicata ai shirkat meno produttivi e gradualmente estesa

alla maggior parte di essi (Djanibekov, Bobojonov & Lamers 2012; Kandiyoti 2002;

Trevisani 2007; Veldwisch 2008; Veldwisch & Bock 2011). Questo periodo, infatti, secondo

Nodir Djanibekov (2012:101), può essere a giusta ragione definito “decollettivizzazione”. I

primi anni 2000 furono caratterizzati dalla rapida conversione dei terreni collettivi in terreni

agricoli privati, una trasformazione avvenuta grazie all’introduzione di contratti di locazione

più favorevoli nei confronti dei singoli coltivatori indipendenti (vedi fig.12).

63

In questa fase i fermer divennero il cuore della produzione agraria del paese

(Djanibekov, Bobojonov & Lamers 2012; Veldwisch 2008; Veldwisch & Bock 2011). In

media dalla privatizzazione di un shirkat potevano emergere circa 130 fermer63

(Djanibekov,

Bobojonov & Lamers 2012:101). A Yangibozor, un distretto di 65.000 abitanti posto nei

pressi dell’Amu Darya, 19.500 ha di terra suddivisi in 11 shirkat vennero ridistribuiti a circa

1200 fermer (Trevisani 2007:196). Nonostante il termine utilizzato (privatizzazione), va

ricordato che le terre coltivabili degli ex kolkhoz e shirkat rimasero di esclusiva proprietà

dello Stato. L’accesso ad esse venne legittimato da contratti d’affitto a lungo termine stipulati

tra fermer e hokim distrettuali (la durata della locazione variava da un minimo di 10 anni ad

un massimo di 50, comprendenti il diritto ereditario). Tali concessioni, comunque, potevano

essere revocate in qualsiasi momento nel caso in cui il produttore privato non si fosse attenuto

ai piani aziendali concordati nel contratto di locazione (Trevisani 2007).

Con l’emergere del settore privato e il tramonto di quello collettivista, i meccanismi di

dipendenza statali vennero, ancora una volta, fatti scivolare dalla vecchia organizzazione

(shirkat) alla nuova (fermer) (Ilkhamov 2007; Kandiyoti 2002; Trevisani 2007; Veldwisch

2008). La decollettivizzazione fu un momento di cambiamento importante per coloro i quali si

trovavano coinvolti nel settore primario. I diritti sullo sfruttamento dei terreni coltivabili

passarono per la prima volta all’individuo e le terre vennero ridistribuite ad una minoranza di

agricoltori, escludendo gran parte dei membri associati ai shirkat dall’accesso diretto. Infatti

63

Lo Stato favorì la nascita di fermer di grandi dimensioni. Per esempio, nella regione del Khorezm, si passò da

fermer di 7.5 ha nel 1998 a 13 ha nel 2003 fino ad arrivare a 15 ha nel 2006 (Djanibekov, Bobojonov & Lamers

2012:101).

(Fig.12) Trasformazione d’uso della terra in periodo post-indipendenza (Veldwisch 2008:64).

64

solo il 5-10% della popolazione divenne fermer64

, il restante 90-95% delle famiglie rurali

divenne dekhon. Questa transizione fece, inoltre, diminuire notevolmente la quantità di

lavoratori necessari per l’agricoltura: mentre il shirkat impiegava un contadino ogni 1.4 ha di

cotone e ogni 3 ha di grano, il fermer impiegava un contadino ogni 2 ha di cotone e ogni 4 ha

di grano. Il risultato fu che molte persone si ritrovarono disoccupate (Trevisani 2007). Nel

periodo della decollettivizzazione esclusi e inclusi dell’agricoltura post-collettiva andarono

gradualmente acquisendo una loro specificità, costituendosi, infine, come categorie distinte:

quella dei fermer (dal russo “agricoltore”) e quella dei dekhon65

(dall’uzbeko “agricoltore”)

(Trevisani 2007; Zinzani 2011). Già con un decreto legge del 1998 introdusse la distinzione

tra i possessori di un piccolo appezzamento di terra finalizzato alla sussistenza (dekhon) e i

contadini indipendenti (fermer) (Zinzani 2011). Riporto di seguito una schematizzazione che

rende immediata la percezione delle differenze tra i due soggetti in esame:

Fermer:

- sono entità legali (con un decreto del marzo 1997, infatti, alle aziende agricole indipendenti venne

garantito lo status giuridico);

- possono stipulare contratti di locazione della terra da un minimo di 10 anni ad un massimo di 50, con la

possibilità di ricevere una concessione ereditaria;

- per il lavoro si servono per lo più di famigliari, parenti, qualche lavoratore a tempo pieno;

- la concessione viene data previa presentazione di una richiesta scritta al shirkat o all’hokim distrettuale,

richiesta che deve essere seguita da un ipotetico piano produttivo;

- deve avere una mandria di minimo 30 capi di bestiame per l’allevamento, un minimo di 10 ha coltivati a

cotone e grano e un minimo di 1 ha per l’orticultura;

- l’utilizzo della terra deve essere finalizzato a determinate attività agricole specificate nel contratto di

locazione.

Dekhon:

- hanno l’opzione facoltativa di ricevere lo status giuridico;

- hanno la locazione a tempo indeterminato della terra, che può inoltre essere ereditata;

- si possono avvalere esclusivamente della forza lavoro proveniente dalla famiglia;

- possono avere un massimo di 0.35 ha di terra in concessione, più un aggiunta di 1 ha in relazione alle

condizioni climatiche della regione e del sistema d’irrigazione;

- possono utilizzare la terra in concessione per attività agricole o edilizie di libera scelta;

- la concessione viene data previa presentazione di una richiesta scritta o al shirkat o all’hokim distrettuale.

(Kandiyoti 2002:12)

Sia fermer che dekhon, inoltre, erano soggetti al pagamento di una tassa per la concessione

della terra (Ibid.).

64

La categoria dei fermer divenne il naturale bacino d’accoglienza di tutta una serie di amministratori, dirigenti,

agricoltori, capi di brigata ecc. delle ex aziende collettive, i quali, spesso, erano accomunati da una fitta rete di

relazioni e buoni rapporti con gli hokims distrettuali e provinciali (Veldwisch 2008). 65

Come descritto dal codice di regolamentazione della terra del 1998 (Trevisani 2007:197).

65

Di seguito analizzerò come le relazione di dipendenza instauratasi tra le aziende

collettive e i pudrat, e inizialmente, tra shirkat e fermer, venga replicata in questa terza fase,

così come ai nostri giorni, nel rapporto tra fermer e dekhons. Mostrerò, infine, come tale

modello di subalternità possa essere applicato anche al rapporto tra fermer e Stato.

Come affermato in precedenza i dekhon (circa il 90% della popolazione rurale) si

costituirono come un vasto gruppo di famiglie contadine. Tale gruppo è tutt’ora caratterizzato

da un’enorme varietà di status ed identità, e dal ricorso a strategie di guadagno derivate da

attività economiche differenti (Trevisani 2007; Veldwisch & Bock 2011). La categoria

rappresenta la maggior parte della forza lavoro del settore produttivo primario, includendo in

esso anche il lavoro prestato nelle coltivazioni dei fermer. Affinché la relazione dekhon-

fermer possa essere adeguatamente compresa è necessario tenere in considerazione la vasta

gamma di attività economiche messa in atto dalle famiglie rurali per il proprio sostentamento

(Ibid.). Secondo lo studio condotto da Gert Jan Veldwisch e Bettina Bock (2011) sulle

pratiche economiche dei dekhon in Uzbekistan, esse possono essere raggruppate in tre

categorie fondamentali: a) produzione agricola indipendente, b) produzione agricola

dipendente dai fermer, c) attività non-agricole. Ciascuna attività viene decisa ed organizzata

all’interno del nucleo famigliare66

.

a) La produzione agricola indipendente consiste nella rendita derivata dagli appezzamenti

privati di tamorka e ko’sumcha tamorka. La terra limitrofa all’abitazione viene solitamente

coltivata con patate e varietà di frutta e ortaggi. Il campo distante dall’abitazione, invece,

viene solitamente coltivato con due tipi di grano differenti (l’inverno), con riso e mais

(l’estate). Il surplus prodotto dalla coltivazione di queste terre viene, inoltre, barattato in una

rete di relazioni di vicinato oppure venduto nei bazar. Molti dekhon posseggono, poi, capi di

bestiame quali bovini, polli e pecore. Come nel rapporto pudrat-shirkat anche in quello

dekhon-fermer permane la consuetudine di stipulare accordi informali per il diritto di pascolo

66

La famiglia allargata è l'unità primaria del consumo, della distribuzione e della produzione di un dekhon. E’

un’unità patriarcale in cui l’uomo a capo della famiglia ne gestisce il bilancio, assegna le mansioni lavorative e

decide in merito a tutte le questioni di rilevanza economica e sociale. La moglie, i figli, le figlie e le nuore (nel

caso in cui vivano nella stessa abitazione), mettono in comune i propri salari, chiedendo denaro in caso di spese

straordinarie. Il lavoro viene suddiviso lungo la linea generazionale e secondo il genere. Le donne solitamente

sono responsabili della casa e tra i compiti di cui devono occuparsi rientrano la coltivazione del tamorka, la

mungitura, la lavorazione del cibo, la produzione di seta, i processi per diserbare i campi ed il commercio nei

bazar. Tali mansioni vengono coordinate dalla moglie del capo famiglia. Le donne, inoltre, sono la maggior

parte della forza lavoro impegnata nei campi dei fermers; tale femminizzazione dell’agricoltura è in parte il

risultato dell’ondata di lavoro migrante maschile degli ultimi anni. Gli uomini, invece, sono responsabili della

stipula di contratti lavorativi, del reperimento di materiali per l’avvio della produzione, del sistema d’irrigazione

e della coltivazione del ko’sumcha tamorka. I bambini lavorano nei campi dall’età di 10 anni, ma già in tenera

età si danno da fare per aiutare le donne nella cura della casa, del giardino e del bestiame (Trevisani 2007; Wall

2006). Per un approfondimento sulla suddivisione di genere del lavoro e sulla femminizzazione dell’agricoltura

si vedano Aslan (2008), Constantine (2007), Kandiyoti (2002), Koch (2011).

66

del bestiame nelle terre private. Una seconda consuetudine molto diffusa è la possibilità data

dai fermer ai contadini di accedere al residuo della pressatura dei semi di cotone, utilizzato

come foraggio per gli animali (Veldwisch & Bock 2011; Trevisani 2007; Zanca 2011). Si noti

come anche l’allevamento sia, in parte, inserito nel reticolo di relazioni di dipendenza che

vedono la loro massima espressione in ambito agricolo.

b) Oltre al lavoro nelle terre di proprietà, circa la metà delle famiglie dekhon sono inserite nel

ciclo produttivo delle aziende agricole private. L’attività più comune è il lavoro manuale nei

campi (per lo più nelle coltivazioni di cotone) attraverso contratti di mezzadria, molto simili ai

contratti pudrat, che prevedono la divisione della aree coltivate in circa 2 ha pro capite.

Sebbene il contratto pudrat sia stato formalmente abolito, a livello colloquiale le persone si

riferiscono a questi tipi di accordi continuando ad utilizzare tale termie. La maggior parte dei

lavoratori di questo genere non percepisce una vera e propria retribuzione salariale: nei casi in

cui essa sia prevista non supera i 7-10$ per mese, per ettaro, nel periodo della crescita, durante

la raccolta invece l’eventuale retribuzione viene conteggiata in base ai kg del raccolto

(Veldwisch 2008:78). In alternativa a queste esigue somme di denaro, come nel caso visto in

precedenza riguardante i lavoratori del shirkat, i pagamenti si quantificano in tutta una serie di

benefici o elargizioni di beni alimentari, negoziati nell’arco della stagione produttiva in base

al rendimento dei campi67

(Veldwisch & Bock 2011). Questi rapporti informali, di fiducia,

che si creano attorno al fermer divengono facilmente vere e proprie reti clientelari con

collegamenti di scambi differenti e di dipendenze reciproche, in cui ovviamente è l’agricoltore

privato a detenere la posizione di potere. La citazione riportata qui sotto mostra bene la natura

multiforme del panorama di relazioni possibili:

Intervistatore: “Per quanto riguarda i tuoi figli? Per chi lavoreranno?”

Dekhon: “Uno di loro lavorerà qui [in agricoltura, nel villaggio], mio figlio minore, ma non gli ho ancora

permesso di firmare [un contratto] con alcun fermer. Penso che probabilmente lavorerà per il fermer

proprietario del campo di riso per cui io ho sempre lavorato. Abbiamo una sorta di accordo verbale

riguardo a ciò. […] In cambio di questo lavoro alla piantagione di riso, mio figlio lavorerà anche per il

suo campo di cotone, avendo il permesso di accedere a 1-1.5 ha di rovi secchi da ardere per il fuoco.

(Veldwisch 2008:78)

In aggiunta alla cura delle piantagioni cotoniere il dekhon può collaborare anche alla

produzione commerciale del riso attraverso tre modalità differenti: come forza lavoro nel caso

in cui il fermer detenga il pieno controllo di tutta la produzione (come nella citazione sopra);

67

Per esempio: l’utilizzo degli steli secchi delle piante di cotone come combustibile per il fuoco, pagamenti in

riso, grano o altri beni alimentari di prima necessità, la garanzia dell’accesso ad un appezzamento di terra

aggiuntivo, qualche sorta di regalo durante le occasioni speciali quali la fine dell’anno o il matrimonio di un

figlio (Veldwisch 2008:78).

67

lavorando parte del terreno privato secondo accordi di mezzadria in cui, il fermer, provvede

alle spese di produzione ed il dekhon alla mano d’opera, ricevendo una percentuale fissa sul

raccolto (solitamente il 30%); nell’ultimo caso il fermer può decidere di affittare una parte

della sua terra ad una famiglia (solitamente 1000 m2). Il prezzo della locazione è variabile e

dipende dalla posizione, dalla qualità del suolo, dalla relazione tra locatore e locatario ecc.68

.

Il riso ricavato da questi appezzamenti viene solitamente venduto nei bazar (Ibid:11). Come

notano diversi autori (Kandiyoti 2002; Trevisani 2007; Veldwisch & Bock 2011; Zanca

2011), talvolta, proprio per la natura di queste ragnatele clientelari, la figura del fermer si

sovrappone a quella del benefattore del villaggio: “Ho anche dato parte del mio raccolto

all’ufficio Shora, per la povera gente; ogni fermer ha almeno 5 famiglie di cui prendersi cura”

(Veldwisch 2008:78).

c) Molte famiglie rurali, infine, sono impegnate in attività economiche alternative

all’agricoltura, che contribuiscono al bilancio famigliare. Tra le attività principali vi sono

impieghi salariati di vario genere, rendite derivate dal lavoro migrante, forme di scambio

locale e baratto (Trevisani 2007; Veldwisch & Bock 2011; Veldwisch 2008). Circa il 46%

delle famiglie rurali hanno un membro della famiglia con un lavoro retribuito al di fuori del

settore primario (Veldwisch & Bock 2011:11).

Inoltre, specialmente negli ultimi anni, il numero di migranti in cerca di lavoro è aumentato

notevolmente. L’Uzbekistan è attualmente il paese centro asiatico che registra il maggior

numero di migrazioni. Si stima che dai 2 milioni agli 8 milioni di cittadini uzbechi lavorino

all’estero (Marat 2009:16). La pratica maggiormente seguita è il lavoro migrante stagionale.

Gli uomini solitamente migrano verso il Kazakhstan o verso la Russia. A livello d’impiego,

soprattutto in Russia, il settore dell’edilizia è quello che offre ai migranti maggiori

opportunità (Aslan 2008; Marat 2009)69

. La migrazione femminile, invece, è solitamente

caratterizzata da periodi di breve durate, per lo più stagionali, e generalmente in località

vicine a casa. Nonostante il lavoro migrante sia vantaggioso dal punto di vista lucrativo, esso

è fortemente associato alla nozione di povertà e legato a sentimenti di vergona e delusione

(Veldwisch & Bock 2011). Questi sentimenti sono facilmente percepibili nelle parole di un

68

Per un terreno coltivato a riso il prezzo può variare dai 40 ai 60 mila sum per 1000 m2, l’equivalente di circa

40-60 dollari; ovviamente la trattativa ed il pagamento vengono fatti in nero, essendo la cessione della terra

un’attività gestita esclusivamente dallo Stato e dai suoi organi incaricati (quali i governatori distrettuali o le

organizzazioni semi-statali, semi-ministeriali) (Veldwisch & Bock 2011:11). 69

Interconnesso al tema del lavoro migrante sarebbe senz’altro interessante analizzare le dinamiche soggiacenti

all’intricata rete del traffico di esseri umani, soprattutto donne avviate alla prostituzione o allo sfruttamento

lavorativo, che si dipana dalle cinque repubbliche del Centro Asia a paesi quali Russia, Afghanistan, Emirati

Arabi, Turchia e paesi del Golfo. Per un maggior approfondimento sul tema si veda il libro di Erica Marat

(2009), Labor Migration in Central Asia: Implications of the Global Economic Crisis, in particolar modo pp. 33-

44.

68

contadino intervistato in merito alla connessione tra l’accesso all’acqua, il lavoro migrante e

la povertà:

Dekhon: “Abbiamo molti problemi con l’acqua. Se abbiamo acqua e fertilizzanti lavoriamo bene in

quest’area. Specialmente l’acqua è un problema. E’ da un mese che non annaffio il mio giardino. E non

sono l’unico, anche l’altra gente del villaggio. Senza l’acqua diventa difficile vivere in queste zone, ed è

questo il motivo per cui i nostri giovani vanno a lavorare fuori dall’Uzbekistan. Se ci fosse l’acqua, loro

non avrebbero bisogno di lasciarci.” (Veldwisch 2008:73)

Il lavoro migrante, infatti, è l’ultima spiaggia a cui una famiglia dekhon fa ricorso quando i

mezzi di sostentamento a loro disposizione risultano insufficienti (Ibid.).

È importante sottolineare che lo scambio del surplus ricavato dal lavoro agricolo

attraverso semplici forme di commercio tra membri dei mahalla, con la vendita all’interno dei

bazar cittadini o semplicemente attraverso il baratto, è un'altra modalità di rendita

consuetudinaria delle famiglie contadine. Infatti, anche se attraverso una connotazione vaga e

residuale, il termine dekhon non venne scelto casualmente. I legislatori lo utilizzarono per

rievocare la figura storica dell’abitante sedentario delle oasi uzbeke, che basava

sull’agricoltura la sua intera vita. Il termine, inoltre, tenta una sorta di riconciliazione con la

vita antecedente alla collettivizzazione, giocando sul tema delle radici nazionali e sul concetto

di fierezza della classe contadina sedentaria uzbeka. Mistificando il drammatico

peggioramento della condizione della popolazione rurale post indipendenza dietro la retorica

di una legittimazione culturale. Divulgato nei manifesti di propaganda e nei discorsi dei

funzionari governativi, il messaggio trasmesso, anche nell’attualità, è che vi sia un legame

ideologico tra i recenti sviluppi della riforma agraria e una pre-stabilità del modello rurale

antico, al fine di far credere alle masse contadine che la loro condizione attuale sia in armonia

con la condizione dei loro antenati. Tale retorica si riflette, anche, nello sguardo dell’autorità,

per cui dekhon non è, affatto, considerabile sinonimo di povertà (Trevisani 2007). Tuttavia il

punto di vista emerso nelle interviste fatte a 16 differenti famiglie dekhon da Tommaso

Trevisani (2007) risulta essere diametralmente opposto. La maggior parte di esse ha difficoltà

a sostenere un tenore di vita dignitoso coi mezzi a disposizione, e molte famiglie non ci

riescono affatto. Contrariamente a quanto propagandato dalle autorità essere un contadino in

Uzbekistan non è uno status attrattivo o desiderabile per i cittadini: la maggior parte delle

famiglie dekhon intervistate afferma che la terra data a loro disposizione per sopperire alle

necessità familiari non è sufficiente, e che la possibilità di ricevere una retribuzione in denaro

per lavori svolti in ambito agricolo è pressoché inesistente (Ibid.). Tommaso Trevisani (2007)

sostiene che, per le famiglie dekhon, l’unico modo d’immaginare un futuro migliore

69

continuando a lavorare nel settore primario è diventare fermer. Spesso, infatti, parlando di

ridefinizione dei ruoli tra fermer e dekhon, quest’ultimi esprimevano emozioni in bilico tra

l’accettazione rassegnata della loro condizione e la rabbia verso gli agricoltori privati. Riporto

di seguito uno stralcio d’intervista fatta ad un contadino di circa 50 anni impiegato come

mezzadro per un fermer:

Trevisani: “Com’è vivere di agricoltura, dal punto di vista di un lavoratore pudrat?”

Dekhon: “Se lasciassero i prodotti dell’agricoltura al popolo allora sarebbe OK, ma non è così.

Dovrebbero pagarci, ma non lo fanno. Per esempio, quando ci devono 13.000sum (13$), durante il

periodo della coltivazione, a quel punto ci dicono che non hanno soldi. Quindi ci pagano in altri modi, o

con dei viveri o con dei buoni d’acquisto. Praticamente ci pagano molto poco o non ci pagano affatto.

Solamente durante la raccolta del cotone pagano qualcosa, perché sennò nessuno vorrebbe lavorare. Ma

anche in questo caso se la legge dice 36 sum per kg, ci pagano 28. Per questo se ne vanno tutti in Russia,

il 30% degli uomini è li. Qui non c’è più lavoro, anche uno dei miei figli è partito per la Russia, e ora sta

coltivando angurie.

Trevisani: “Cosa ti aspetti che faccia Tashkent?”

Dekhon: “Da Tashkent noi vogliamo una fabbrica con posti di lavoro. Al giorno d’oggi i giovani sono

sulla strada a non fare niente, ci sono un sacco di giovani disoccupati qui. Bevono e non sanno cosa fare.

In passato non era così. (Trevisani 2007:199-200)

Generalmente, la categoria dei dekhon, essendo maggiormente dipendente dalla

produzione agricola, è di conseguenza più vulnerabile a problemi legati al riscaldamento nella

stagione invernale, all’accesso all’acqua, all’andamento positivo o negativo dei raccolti, di

quanto non lo fossero i loro predecessori che lavoravano nei kolkhoz. Questo ha fatto sì che,

attualmente, le famiglie rurali siano molto più dipendenti dagli agricoltori privati di quanto

non lo fossero i lavoratori dei kolkhoz sovietici, quando lo stipendio era una reale fonte di

reddito. Ancor più che nel passato sovietico, oggi, il sistema retributivo è caratterizzato da

enormi falle che ne compromettono fortemente l’efficienza (Veldwisch 2008; Trevisani 2007;

Zanca 2011).

Il profondo senso d’ingiustizia vissuto dalla classe contadina, quindi, può essere

ricondotto alla condizione d’esclusione che questa fase di riforme ha avviato nei loro

confronti. La percezione dell’illegittimità della ridistribuzione terriera poggia su dinamiche

per cui, chi in passato ricopriva posti di rilievo nella gestione del kolkhoz, oggi si è

accaparrato tutta la terra per se, per i suoi parenti e i suoi conoscenti (Trevisani 2007; Zanca

2011).

Il 5-10% dei fermer, infatti, gestisce circa il 70-80% della terra coltivabile (Veldwisch

2008:74). Formalmente lo Stato distingue tra tre tipi di fermer: le aziende dedite

all’allevamento, le aziende da coltura e le aziende ortofrutticole (Muller 2006, cit. in

Veldwisch 2008). Le prime due tipologie variano dalla grande alla media produzione (dai 50

70

ai 100 ha), mentre la terza è di dimensioni ristrette (dai 3 ai 5 ha). La categoria più

interessante ai fini del mio lavoro è senz’altro la seconda, relativa alle aziende agricole

specializzate nella produzione di monoculture, essendo essa ancora oggi soggetta a rigide

imposizioni statali relative a grano e cotone. Solitamente, è all’interno di questa tipologia che

si riproducono, in misura maggiore rispetto alle altre due categorie, i rapporti di dipendenza

tra dekhon e fermer. Come accennato in precedenza le famiglie rurali trovano impiego in tali

aziende private sia come forza lavoro, sia attraverso contratti di mezzadria (Veldwisch 2008).

Considerando tali condizioni, i fermer si potrebbero definire a tutti gli effetti dei veri e propri

“signori della terra”, sia per il pieno potere decisionale riguardante l’accesso delle famiglie

rurali all’uso diretto della terra, sia per tutta una serie di relazioni clientelari che vengono ad

instaurarsi coi propri lavoratori da un lato e con le organizzazioni governative dall’altro

(Kandiyoti 2002; Markowitz 2008; Trevisani 2007; Veldwisch 2008; Zanca 2011). Tuttavia, è

doveroso notare che la posizione dei fermer uzbeki rimane assai distante dalla figura

tradizionale del landlord come si ritrova, per esempio, in America Latina. Essi, infatti, si

discostano per il differente livello di liberta gestionale: come mostrerò di seguito, a loro volta

gli agricoltori privati dipendono considerevolmente dalle scelte dello Stato (Veldwisch 2008).

Prima di analizzare la condizione di subalternità dei fermer nei confronti degli organi

di Stato è opportuno considerare che anche questa categoria racchiude grandi differenze in

termini di stratificazione sociale. Di base la “legge del più forte” sancisce che, le aziende

private di media dimensione (10-20 ha) che coltivano principalmente grano e cotone, siano

spesso economicamente molto vulnerabili. Gli agricoltori di questo genere non si allontanano

di molto dallo standard di vita modesto della maggior parte della popolazione rurale. Mentre

le grandi aziende agricole (intono ai 100 ha) rappresentano una vera e propria classe

privilegiata ed economicamente influente di notabili del primo settore, legati per rapporti di

fiducia sia alla classe dei dirigenti governativi distrettuali che a quella urbana delle città più

influenti del paese (Trevisani 2007). Non è solo per l’influenza politica ed economica che

quest’ultima categoria di fermer (“katta fermerland”) si distingue, vi è anche un notevole

dislivello sociale. Questi agricoltori, infatti, posseggono un alto grado d’istruzione e non di

rado ricoprono cariche professionali nei palazzi governativi della regione, sono medici,

ufficiali dell’esercito, businessman, insegnanti universitari ecc. La cosa più rilevante, però, è

che sono in grado di usare le loro connessioni e la loro vicinanza alla burocrazia statale per

ottenere contratti agevolati nelle locazioni terriere e mobilitare risorse aggiuntive per le loro

aziende. Il tutto grazie alle loro posizioni di spicco all’interno della gerarchia di comando

71

agricola. Sono molti i funzionari regionali e distrettuali che, oggi, possono utilizzare la loro

influenza per gestire al meglio e senza intoppi la propria azienda70

(ibid.).

Ma nonostante le implicazioni favorevoli di alcuni notabili agricoltori, i fermer sono

una categoria produttiva che dipende, ancora, da organizzazioni statali in merito ad

irrigazione, approvvigionamento, vendita al dettaglio e contabilità. Non avere problemi con

l’apparato di comando, ricevere i materiali per la produzione al momento giusto ed in giusta

misura, avere manodopera a sufficienza durante i mesi della raccolta, sono alcune delle cose

che influiscono maggiormente sulla rendita produttiva (Markowitz 2008; Trevisani 2007;

Veldwisch 2008; Veldwisch & Bock 2011). Formalmente essi sono semplici affittuari dello

Stato, ma in pratica vivono una condizione di subordinazione, simile a quella della

popolazione rurale. In primis, non hanno libertà decisionale in merito a cosa coltivare e su

quali aree coltivare. L’intromissione dello Stato si insinua, poi, nelle più piccole scelte

gestionali: la profondità di semina, la data di semina, le dosi e le modalità di concimazione, la

potatura ecc. Il rispetto o meno di tali direttive è attentamente controllato da funzionari statali

che, durante i momenti salienti della produzione, si recano in visita nei campi (Trevisani

2007).

Intervistatore: “Riguardo al gruppo di cui parlavi [funzionari statali], in quali momenti e per quali tipi di

coltivazioni controllate i campi?

Funzionario del ministero dell’agricoltura: “Beh, cominciamo in inverno, per l’inizio della fertilizzazione.

Siamo divisi in gruppi, ognuno responsabile di una determinata area. Il compito principale è verificare se

la fertilizzazione è stata fatta correttamente e se gli scarichi intorno ai campi sono scavati bene.

Controlliamo anche il livello del suolo. Se un lato del campo è più alto dell’altro non va bene, significa

che non vi è una distribuzione eguale di acqua. Infine controlliamo che gli agricoltori fertilizzino per tre

volte (Veldwisch 2008:79).

Il gruppo di cui parla l’intervistatore è composto solitamente da quattro o cinque

funzionari che rappresentano differenti dipartimenti governativi: il Laboratorio di biologia, il

Dipartimento che si occupa di fertilizzanti, il Dipartimento per gli animali domestici e le

malattie, il Dipartimento dell’acqua ecc. (Veldwisch 2008). L’attenzione maggiore viene

riservata al controllo delle piantagioni di cotone e grano, essendo queste in gran parte

“riservate” allo Stato (vedi paragrafo 2.4.1). Grano e cotone sono, tutt’oggi, soggetti a quote

di produzione e l’intero raccolto di cotone deve essere necessariamente venduto allo Stato,

mentre per il grano la quota si abbassa al 50% del raccolto. Per l’esiguo ricavato della vendita

a prezzi di mercato interno i fermer si trovano spesso sull’orlo della bancarotta o sotto la

70

Essi sono la continuazione di quella che in periodo sovietico venne soprannominata nomenklatura rurale

(Spoor 1993), ossia l’élite rurale. Ufficialmente le persone che ricoprono una posizione governativa non

potrebbero essere allo stesso tempo fermer. Di fatto, però, attraverso raggiri di ogni sorta, risulta che molti

funzionari governativi siano proprietari di aziende agricole private (Veldwisch 2008).

72

minaccia dello Stato di requisire le terre e rompere il contratto di locazione con formula

immediata. Di fatto, come accennato in precedenza, il profitto che un agricoltore privato può

ricavare dalla propria azienda agricola dipende in gran parte dalla sua capacità di negoziare e

contrattare con le varie organizzazioni governative del territorio71

(Ibid.).

In linea di principio ciò che avvenne in questa fase di decollettivizzazione fu una

nuova ri-regolamentazione formale del settore agrario in cui, i kolkhoznik divennero dekhon e

la nomenklatura rurale confluì nella figura dei fermer (Markowitz 2008; Trevisani 2007;

Veldwisch 2008). Come dimostrato nel corso del paragrafo, durante l’inizio degl’anni 2000,

vennero create unità produttive focalizzate sui nuclei famigliari (dekhon). Di contro videro la

luce una moltitudine di aziende agricole private (fermer) che presero il controllo della

maggior parte della terra coltivabile relegando la popolazione contadina alla sola proprietà di

piccoli appezzamenti appena sufficienti per l’autosussistenza (tamorka – ko’sumcha

tamorka). Tale situazione diede origine ad una relazione tra fermer e dekhons diadica,

asimmetrica, e basata sull’accesso limitato e disuguale alle risorse (Valdwisch & Bock 2011).

Infatti, i fermer controllando l’accesso alle risorse divengono conseguentemente il punto

focale di tutta una serie di strategie economiche necessarie alla vita della popolazione rurale,

compreso l’aspetto sociale del welfare e della protezione. La relazione tra i due soggetti

produttivi varia dal livello informale, fatto di accordi verbali, a quello formale, caratterizzato

dalla stipula di contratti lavorativi (colloquialmente definiti ancora oggi pudrat).

La relazione tra dekhon e fermer ha forti parallelismi con la relazione tra Stato e

fermer (Veldwisch 2008). Infatti i fermer, che appaiono patroni (punti forti) nella relazione

coi dekhon, sono a loro volta coinvolti in rapporti di dominio e dipendenza se relazionati allo

Stato. Quindi, come i fermer si trovano obbligati al soddisfacimento delle quote di produzione

imposte dal governo su grano e cotone, per poter accedere al mercato del riso, così i dekhon si

trovano obbligati a svolgere lavori duri e spesso non retribuiti nelle piantagioni di cotone dei

fermer, per accedere a risorse e protezione necessarie al mantenimento di uno standard di vita

dignitoso. L’osservazione conclusiva di questa fase mi porta a far presente che la rete di

dipendenze che emerge è un fenomeno molto complesso e non si articola in una semplice

struttura gerarchica piramidale. E’ certamente chiara la riproduzione di relazioni fortemente

asimmetriche, ma la divisione dei poteri non può essere inquadrata all’interno di modelli

statici. Ciò è principalmente dovuto al fatto che, come accennato a inizio paragrafo, in

Uzbekistan, la trasformazione del sistema economico è attualmente ancora in corso

71

Oltretutto, anche la possibilità di coltivare riso, un prodotto lucrativo essendo regolamentato da un’economia

di mercato libero, è strettamente vincolata alle organizzazioni governative le quali possono dare il benestare per

la coltivazione o meno (Veldwisch 2008).

73

(Kandiyoti 2002; Djanibekov, Bobojonov & Lamers 2012; Veldwisch & Bock 2011;

Veldwisch 2008).

2.3.4 Quarta fase (dal 2008 in poi): Ottimizzazione

Le dinamiche analizzate nel paragrafo precedente restano pressoché inalterate anche

oggigiorno: dekhon e fermer sono i principali soggetti produttivi del settore primario

nell’Uzbekistan contemporaneo. L’intervento più rilevante di questi ultimi anni si è verificato

nell’autunno del 2008, quando venne messo in atto un tentativo di ottimizzazione

dell’efficienza aziendale agricola. Le aziende agricole private di seconda categoria dedicate

alla coltivazione di cotone, grano e riso (vedi p.57), con una superficie inferiore ai 30 ha

vennero requisite. In breve tempo lo Stato cancello i contratti di locazione con gli agricoltori

privati a capo di queste aziende e ridistribuì gran parte della terra ad aziende più grandi,

concentrando così la produzione in unità più grandi. Le piccole aziende volte all’allevamento

e all’orticultura non vennero toccate (Djanibekov, Bobojonov & Lamers 2012). Per esempio,

a Gurlen, un distretto del Khorezm, l’ottimizzazione colpì un totale di 1.365 aziende agricole

dalla superfice media di 15 ha. All’interno di questa cifra, circa 1.135 (intorno agli 11,5 ha)

vennero chiuse, suddividendo i loro business e le loro terre tra 229 grandi aziende su larga

scala. Le restanti, invece, vennero estese a dimensioni tra i 32-89 ha (Ibid:104). Uno degli

obiettivi guida del processo di ottimizzazione è stato quello di fondere le piccole aziende

private in aziende più solide senza, tuttavia, ricorrere a grandi spese pubbliche in materia di

infrastrutture. Il governo si aspettava che le aziende agricole più grandi raggiungessero una

maggior efficacia riadattando alla produzione attuale le infrastrutture costruite per servire

sovkhoz e kolkhoz in periodo sovietico (Ibid.).

Da un certo punto di vista considero tale decisione una specie di “passo indietro”.

Dopo la frammentazione e la pallida privatizzazione delle grandi aziende collettive avvenuta

durante la decollettivizzazione, lo Stato ha cercato nuovamente di accorpare le numerose

aziende private soggette a quote di produzione in entità più grandi, numericamente inferiori e,

di conseguenza, maggiormente controllabili.

Per quanto riguarda, poi, gli ultimissimi sviluppi in ambito legislativo, nel testo del

Rapporto Congiunto redatto dall’Ambasciata italiana a Tashkent72

, nel maggio 2013, si legge:

72

Testo disponibile al link

http://www.ambtashkent.esteri.it/Ambasciata_Tashkent/Menu/Informazioni_e_servizi/Fare_affari_nel_Paese/Ra

pporto_congiunto/ .

74

“Nel settembre 2012 è stata approvata la legge “sulla protezione della proprietà privata e le garanzie sui

diritti di proprietà”; nel nuovo testo normativo si proibisce la revisione o l’annullamento di

privatizzazioni già concluse. Si tratta del più recente tra gli sforzi legislativi del Presidente Karimov volti

a rassicurare gli investitori esteri circa la stabilità del “business climate” del paese” (Ambasciata italiana

2013).

2.4. POLITICHE DI PRODUZIONE DEL COTONE

Il cotone è la più diffusa ed utilizzata delle fibre naturali e la maggiore coltura agricola

non alimentare al mondo. Ricopre un ruolo da protagonista della nostra quotidianità e

costituisce una parte fondamentale della vita dei 190 milioni di persone impegnate nella sua

coltivazione in più di 80 paesi e dei 60 milioni di lavoratori impiegati nella trasformazione in

filati e tessuti, nella produzione di olio per il consumo umano o nella manipolazione di

integratori proteici per i mangimi del bestiame zootecnico, ottenuti dal suo seme.

La Food and Agricultural Organization delle Nazioni Unite (FAO) stima che siano

più 100 milioni le famiglie rurali coinvolte, in tutto il mondo, nella produzione del cotone. Tra

i paesi in cui il cotone è un importante contributo ai mezzi di sussistenza rurali troviamo, per

esempio: Cina, India, Pakistan, Nigeria, Benin, Togo, Mali, Zimbabwe, Uzbekistan,

Turkmenistan ecc. L'importanza dei temi interconnessi alla produzione cotoniera è stata

ampiamente riconosciuta dalla comunità internazionale. Sono stati numerosi, infatti, gli

incontri di pianificazione strategica organizzati da macro-potenze quali la Banca Mondiale (in

collaborazione con il Comitato Consultivo Internazionale del Cotone), la Commissione

Europea ed il WTO (Baffes, Badiane & Nash 2004). Durante gli ultimi quattro decenni la

produzione di cotone è cresciuta ad un tasso annuo medio del 1,8% fino a raggiungere 20

milioni di tonnellate nel 2001 e 25 milioni nel 2014, circa il doppio di quanto prodotto agli

inizi degli anni’90 (Ibid.). Un terzo della produzione di cotone è indirizzata agli scambi

internazionali. I quattro esportatori dominanti sul panorama mondiale fino al 2003 erano Stati

Uniti, Uzbekistan, Africa francofona e Australia, a rappresentanza dei due terzi delle

esportazioni mondiali totali (vedi tabella in fig.13). I dati aggiornati ad Aprile 2015, tuttavia,

denotano un lieve cambio di tendenza per l’Uzbekistan che, dalla seconda posizione nel 2003,

si ritrova oggi in quinta posizione, ed in sesta per quanto riguarda invece le potenze

produttrici della materia prima (vedi tabella in fig.14) (dati Cotton Incorporated 201573

). Circa

il 40% del cotone prodotto nel paese, infine, è acquistato da società russe e il restante da

società operanti nei mercati occidentali, cinese, indiano, pakistano e anche in Bangladesh, Sud

73

Dati disponibili al link http://www.cottoninc.com/corporate/Market-Data/MonthlyEconomicLetter/ .

75

Corea e EAU (Rapporto congiunto Ambasciata italiana 2013).

TABLE 3: GLOBAL COTTON TRADE (THOUSAND TONS)

1960 1970 1980 1990 1999 2000 2001 2002 2003

EXPORTS

US 1,444 848 1,290 1,697 1,470 1,472 2,395 2,591 2,862

Uzbekistan 381 553 616 397 893 800 810 798 643

Australia 0 4 53 329 696 849 662 575 360

Mali 2 19 35 114 201 125 126 167 262

Greece 33 0 13 86 310 244 290 275 223

Burkina Faso 0 9 22 73 95 112 123 155 197

Syria 97 134 71 91 252 212 180 120 170

Côte d’Ivoire 0 7 42 81 160 150 109 83 144

Tajikistan — — — 200 83 110 117 140 141

Benin 1 14 8 58 136 140 148 162 128

Zimbabwe 0 32 55 38 121 118 67 76 95

World 3,667 3,875 4,414 5,081 6,107 5,857 6,470 6,618 6,932

(Fig.13) Tabella dei maggiori esportatori di cotone al mondo (Baffes J., Badiane O. & Nash J. 2004)

76

(Fig.14) Tabella dei maggiori produttori ed esportatori di cotone al mondo (Cotton Incorporated 2015)

77

2.4.1 Pianificazione: i fermer e la produzione del cotone

Come ampiamente ribadito nelle pagine precedenti la coltivazione del cotone è

fortemente regolamentata dallo Stato, nonostante la produzione avvenga nelle terre di aziende

agricole private. Come intuibile dai dati forniti nel paragrafo precedente la politica

dell’Uzbekistan in merito al cotone è prevalentemente orientata all’esportazione e finalizzata

a generare consistenti introiti per le casse dello Stato (Baffes, Badiane & Nash 2004;

Guadagni 2005, cit. in Djanibekov, Bobojonov & Lamers 2012:105). Di base, la legge statale

impone che il 60% della superfice totale in concessione ad un fermer debba essere coltivata a

cotone. Tuttavia, tale percentuale ha margini di variabilità relativi alle caratteristiche del suolo

e al programma di rotazione delle colture. Si può, dunque, sostenere che la percentuale

definitiva di cotone imposta all’agricoltore è il risultato di una negoziazione in merito al piano

di produzione tra il fermer e le organizzazioni governative, in particolar modo tra fermer e

Ministero dell’Agricoltura (Veldwisch 2008:91). All’interno della gerarchia agricola le quote

di produzione vengono assegnate dalla provincia ai distretti e dai distretti agli agricoltori.

Anche in questo caso vi è una certo grado di flessibilità nell’assegnazione delle quote di

produzione ai singoli fermer. In questa catena di passaggi di potere si può notare l’importanza

del ruolo giocato dall’hokimiyat (distretto), che risulta essere il braccio destro del Ministero

dell’Agricoltura sul territorio (Ibid.). Le due interviste sotto riportate rendono bene l’idea

della variabilità delle quote di produzione:

Fermer: “Le fabbriche di lavorazione del cotone stipulano, annualmente, un contratto con il Ministero

dell’Agricoltura su quanto cotone necessitano. Se la fabbrica necessita l’80%, il Dipartimento chiede 80%

ai fermer.”

Intervistatore: “Quanto te ne hanno imposto di piantare quest’anno?”

Fermer: “Quest’anno mi hanno detto di piantare 12 ha a cotone, e così ho fatto.”

Intervistatore: “Mi hai detto che ti hanno imposto di piantare a cotone circa il 70% dei campi, ma ne hai

piantato molto di più, circa il 90% , perché?”

Fermer: “Non mi hanno detto di piantarne il 70%, mi hanno detto di piantarne minimo il 70%, che

significherebbe dal 75% all’85%. Mi sono fatto il piano di produzione da solo, con la maggior area

piantata a cotone che potevo sostenere, poi sono andato dal distretto e ho chiesto l’autorizzazione.”

(Veldwisch 2008:91)

L’intromissione dello Stato in merito alla coltivazione cotoniera non si limita

esclusivamente all’imposizione delle quote di produzione; lo Stato si fa garante di tutto un

sistema di controllo capillare che si insinua fin nei più piccoli aspetti gestionali della

produzione: profondità e data della semina, tipo e modalità di fertilizzazione, potatura,

quantità d’irrigazione ecc.). Le frequenti visite di funzionari incaricati dall’hokim distrettuale

78

hanno, poi, il compito di verificare che i processi standard di coltivazione vengano rispettati

(Veldwisch & Bock 2011). Nella tabella sottostante riporto un elenco di alcuni dei controlli

più frequenti, suddivisi nei momenti principali della coltivazione:

Fertilizzazione

- Controllare che i canali di scolo attorno ai campi siano scavati correttamente

- Controllare il livello della terra del campo; dovuta ad una distribuzione uniforme dell’acqua

- Controllare che il fertilizzante venga sparso per tre volte Preparazione della terra e semina

- Controllare che l’irrigazione avvenga al momento giusto e che non sia troppo abbondante

- Controllare che l’aratura venga fatta nel giusto tempo, altrimenti il suolo risulterà compatto, duro

- Dare indicazioni su quanto in profondità piantare il seme del cotone

- Controllare che i semi vengano giustamente distribuite; non più di 4-5 piante per metro Durante la stagione del cotone

- Controllare solchi e creste del terreno; alcune volte le creste sono troppo alte

- Controllare che le erbacce vengano rimosse

- Controllare il lavoro dei coltivatori

- Controllare se avviene la giusta somministrazione di fertilizzanti

- Controllare che l’irrigazione sia in linea con il piano di regolamentazione (Veldwisch 2008:94)

Come si può vedere ogni fase critica del ciclo di vita della pianta è minuziosamente

supervisionata dall’ufficio distrettuale governativo (hokimiyat).

Quasi tutti i materiali e gli interventi tecnici per la coltivazione del cotone vengono

sovvenzionati dallo Stato e forniti ai fermer attraverso canali di distribuzione statali. Il

pagamento degli anticipi alla produzione viene effettuato dai fermer tramite bonifico bancario

su conti bancari, molto simili a quelli di stampo sovietico, dei kolkhoz e dei shirkat (vedi

paragrafo 2.3.2). I conti correnti ricadono sotto il controllo statale e raramente i loro importi

possono essere convertiti in denaro, vengono piuttosto utilizzati sotto forma di nuovi crediti

d’acquisto (Veldwisch & Bock 2011). Ricapitolando si può, dunque, affermare che, per

sostenere la produzione, lo Stato rifornisce i fermer dello stretto necessario alla produzione; lo

fa attraverso particolari crediti bancari da spendere per l’acquisto di prodotti di vario genere:

fertilizzanti, macchinari per l’aratura, sementi, diserbanti chimici, carburante ecc.74

Tali beni

sono acquistabili grazie alla formula del credito bancario, solo presso determinate

organizzazioni, quasi sempre semi-statali. Il risultato di un meccanismo siffatto è la

condizione per cui, in Uzbekistan, non solo lo Stato vincola gli agricoltori a quantità e

74

I fertilizzanti per il cotone costano la metà dei fertilizzanti destinati al resto dell’agricoltura, vengono

distribuiti dal Dipartimento di Agro-Chimica, che ha sedi in tutti i distretti del paese. I semi del cotone sono

solitamente di tre varietà differenti, la scelta del seme varia dalle caratteristiche ambientali di ogni provincia e

vengono distribuiti da filiali del Dipartimento dell’Agricoltura. Per quanto riguarda i trattori, la maggior parte dei

fermer dipende totalmente dalle organizzazioni statali, la Motor Tractor Parks (MTPs) è l’organizzazione più

influente nel settore (Veldwisch 2008).

79

modalità di produzione del cotone, ma detiene, inoltre, il pieno possesso dei canali di

commercializzazione e distribuzione di tutti gli elementi fondamentali all’agricoltura

(Djanibekov, Bobojonov & Lamers 2012; Trevisani 2007; Veldwisch 2008; Veldwisch &

Bock 2011; Zanca 2011).

Il profitto che gli agricoltori privati possono ricavare dalle piantagioni di cotone varia

molto a seconda della qualità della negoziazione in merito ai vari aspetti discussi finora. La

capacità di mobilitare i trattori o ricevere acqua nei giusti tempi, il riuscire a contrattare sul

peso, sulla qualità e sulla percentuale di umidità del proprio cotone, sono alcune delle abilità

principali che un fermer deve avere per ottenere un profitto dignitoso dalla coltivazione

dell’“oro bianco” (Djanibekov, Bobojonov & Lamers 2012; Veldwisch & Bock 2011).

Nonostante le negoziazioni e la sviluppata rete di rapporti clientelari che lega i produttori

privati alle organizzazioni statali (vedi paragrafo 2.3.3), il business del cotone non è affatto

redditizio. Molti fermer sostengono, addirittura, di arrivare a perdere denaro per la cura delle

piantagioni (Trevisani 2007). Ciò è senz’altro dovuto al fatto che lo Stato, stagionalmente,

recrimina per se l’intero ammontare del raccolto di cotone, pagandolo a prezzi interni decisi

da se stesso. Negli ultimi anni, al fine di diminuire il divario tra i prezzi di mercato mondiale

della fibra di cotone e i prezzi del mercato interno, imposti dallo Stato, gli organi governativi

hanno aumentato il prezzo del cotone grezzo75

. Nel 1997 il prezzo mondiale della fibra di

cotone era del 67% più alto del prezzo pagato ai fermer per l’acquisto del cotone grezzo. Tra

il 1998 ed il 2007 il prezzo mondiale ebbe un leggero calo mentre il prezzo interno pagato

dallo Stato crebbe di quasi una volta e mezza. Dal 2007 in poi il divario tra il prezzo di

mercato mondiale e quello interno si è attestato intono al 17% (Djanibekov, Bobojonov &

Lamers 2012:105). L’agricoltore viene pagato a seconda della qualità del cotone prodotto; i

prezzi sono fissi per cui non risentono delle oscillazioni di mercato. La qualità dipende da

svariati fattori tra cui la pulizia del prodotto76

e la quantità di umidità trattenuta dalle fibre. Il

processo di consegna del raccolto alle organizzazioni statali per la sgranatura delle piante,

dove avviene, anche, la pesatura e la determinazione dell’umidità delle fibre, non è un

processo molto affidabile. Geert J.A. Veldwisch (2008) riferisce come molti fermer da lui

75

Si noti che in Uzbekistan, in line con l’economia di comando che ad oggi governa il settore cotoniero, gli

agricoltori vengono pagati dallo Stato per il prezzo del cotone grezzo, in seguito lo Stato provvederà alla

lavorazione e all’esportazione della fibra di cotone. Sul mercato mondiale, infatti, non esiste un prezzo per il

cotone grezzo, ma solo per la fibra lavorata, ed esso dipende dal grado di qualità (Djanibekov, Bobojonov &

Lamers 2012). 76

La pulizia è uno dei caratteri più appariscenti e talvolta di notevole influenza sul valore commerciale del

cotone. Per pulizia si intende la presenza o meno di impurità, quali: frammenti di foglie secche, di capsule, di

steli, terra e sabbia. Si tenga presente che mentre le grosse impurità sono di facile eliminazione, le piccole

possono sfuggire all’azione degli organi pulitori, e perciò comparire nei filati diminuendone il valore.

80

intervistati sottolineassero, ripetutamente, l’importanza di essere presenti al momento della

consegna per provare a contrattare e manipolare i risultati inerenti alla valutazione del proprio

raccolto. Ne deriva, dunque, che anche il momento di valutazione del raccolto è frutto di una

negoziazione tra il fermer e le agenzie statali per la sgranatura. Ecco che, nuovamente,

l’abilità del fermer di relazionarsi con l’autorità gli permette di ottenere prezzi più

vantaggiosi.

In relazione a quanto detto, si può dedurre che il vero profitto dei coltivatori di cotone

non è riconducibile esclusivamente all’ambito economico. Produrre cotone è, in primis, il

prerequisito fondamentale per accedere a grandi aree terriere e al permesso di inserire nei

propri piani produttivi (che ricordo devono essere approvati dal Ministero dell’Agricoltura)

una varietà di coltivazioni differenti ed enormemente più lucrative, specialmente il riso.

Inoltre, tali autorizzazioni possono essere viste come una sorta di “ricompensa” per la fedeltà

dimostrata all’hokimiyat attraverso l’impegno per il raggiungimento delle quote di produzione

(Ibid.). Da sempre, in Uzbekistan, il cotone è, infatti, uno degli indicatori più evidenti dei

rapporti di fedeltà tra le parti in gioco (Kandiyoti 2002).

2.4.2 L’organizzazione del lavoro

Ho già trattato in parte la situazione riguardante le condizioni lavorative in ambito

agricolo (vedi paragrafi 2.3.2, 2.3.3). Tuttavia, è importante soffermarsi sull’organizzazione

del lavoro relativo alle piantagioni di cotone.

Se per i fermer la produzione del cotone non è affatto un’attività redditizia, anche per i

dekhon lavorare nelle piantagioni di cotone non è l’impiego migliore. Quasi tutti i fermer

organizzano il lavoro stipulando contratti pudrat, ossia legando a sé famiglie dekhon

attraverso rapporti di mezzadria che, solitamente, prevedono la gestione di 1-2 ha di cotone

(una consuetudine molto simile a ciò che avveniva nelle aziende collettive). La predilezione

dei fermer per questo tipo di rapporto lavorativo viene spesso giustificata dalla possibilità di

delegare ad altri il reperimento della forza lavoro necessaria in momenti critici quali la

raccolta. Il dekhon con la stipula del contratto diviene il solo responsabile della manodopera

necessaria alla produzione (Trevisani 2007; Veldwisch & Bock 2011; Zanca 2011). Entrambe

le parti a capo del contratto sono concordi nella spartizione degli oneri: il fermer è

responsabile di tutta la parte del lavoro che prevede la mobilitazione di macchinari particolari

(aratri, trattori), del reperimento dei materiali agricoli e delle decisioni di gestione agricola; al

dekhon, invece, concerne l’organizzazione della forza lavoro (Veldwisch & Bock 2001). Le

condizioni lavorative di remunerazione della famiglia contadina assunta dal fermer vengono

81

solitamente negoziate durante tutto l’arco della stagione. Alcune relazioni prevedono una

misera retribuzione salariale, ma nella maggior parte dei casi i pagamenti in denaro giocano

un ruolo secondario. I pagamenti attraverso generi alimentari o benefici di vario tipo sono i

maggiormente diffusi. Di seguito riporto una conversazione con un fermer in merito alla

retribuzione dei suoi lavoratori:

Intervistatore: “Come dividi il lavoro delle piantagioni di cotone tra i tuoi lavoratori?”

Fermer: “I 10 pudrats che lavorano per me, hanno 1-2 ha di cotone a testa di cui prendersi cura”

Intervistatore: “Cosa dai loro in cambio?”

Fermer: “Concedo loro uno stipendio mensile, come stipulato nel contratto. Lavorano da marzo a

dicembre.[…] Riconosco loro 8.000 sum al mese [circa 8$] per quattro mesi. Oltre a questo talvolta li

pago con angurie e meloni. Quest’anno ci sono 7 lavoratori con 3,5 ha a testa […] Ma la paga è

forfettaria, 8,000 sum (Velwisch & Bock 2011:13).

Come analizzato nel paragrafo 2.3.3, con l’acquisizione del monopolio di gran parte

della produzione agricola, i fermer sono divenuti una figura chiave per la classe contadina.

Essi, infatti, veicolano tutta una serie di possibili introiti necessari alla sussistenza delle

famiglie rurali. Tra i benefici indiretti di questa relazione clientelare vi è, senz’altro, il

permesso di utilizzare i terreni per la produzione di riso, concessione percepita come la

miglior ricompensa possibile del lavoro contadino77

. Ma accanto alle questioni di controllo

della terra, vi sono un numero elevato di benefici, in passato elargiti dalle grandi aziende

collettive, ai quali, oggi, si può accedere solo attraverso una relazione di fiducia con un

fermer: diritti di pascolo, supporto finanziario per eventi importanti quali il matrimonio di un

figlio, o per momenti di difficoltà, la possibilità di utilizzare gli steli secchi del cotone come

combustibile per il fuoco, forme minime di salario ecc. (Kandiyoti 2002; Trevisani 2007;

Veldwisch 2008; Veldwisch & Bock 2011). Lavorare come pudrat nelle piantagioni di cotone

offre alle famiglie dekhon determinati benefici ai quali sarebbe altrimenti impossibile

accedere (Veldwisch & Bock 2011).

2.4.3 Lavoratori sfruttati

Nonostante l’Uzbekistan abbia siglato tutti e tre i trattati internazionali

dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) che condannano la coercizione

lavorativa, oltre che la Convenzione sui Diritti dei Bambini, il sesto produttore al mondo di

cotone, nonché quinto esportatore, continua a costruire la grandezza della sua economia

nazionale principalmente sull’utilizzo di più di un milione di minori e adulti costretti ai lavori

77

Solo una parte relativamente ristretta dell’ammontare di terra data in gestione può essere utilizzata dal dekhon

per la coltivazione del riso. Inoltre, la concessione non è facile da ottenere, solitamente è il risultato di una

strettissima relazione di fiducia tra il contadino ed il fermer (Veldwisch & Bock 2011)

82

forzati ogni autunno (Ferrero 2013). L’Uzbekistan esporta quasi un milione di tonnellate di

cotone ogni anno, con un profitto annuale di oltre un miliardo di dollari e un posto tra i primi

cinque paesi produttori di cotone al mondo. Ciò è ottenuto, oltre che con lo sfruttamento a

monte della classe contadina, costringendo parte dei cittadini a partecipare alla raccolta in

cambio di una remunerazione insignificante (circa sei centesimi per kg). Nel 2013, sono stati

circa cinque milioni i cittadini uzbeki (più o meno il 16% della popolazione) mobilitati per la

raccolta del cotone (Kourabas 2014). Chi viene chiamato alla raccolta può trascorrere un

periodo compreso tra uno o due mesi lontano da casa e dalle proprie mansioni lavorative, il

tempo necessario a soddisfare la quota di cotone dovuta al governo. Nel 2014 i lavoratori

erano tenuti a raccogliere una quota variabile tra i 50 e gli 80 kg di cotone al giorno. Per la

sistemazione di questa massa di lavoratori a tempo determinato, lo Stato organizza dormitori

provvisti di brandine nelle scuole locali o in caserme limitrofe ai campi (Ibid.). Secondo il

Forum uzbeko-tedesco per i diritti umani (UGF) la “coercizione costituisce l'elemento

centrale del sistema di produzione del cotone in Uzbekistan”. L’istigazione al raggiungimento

della quota pro capite di raccolta, infatti, può essere perseguita con l’utilizzo di percosse e

umiliazioni pubbliche. Negli ultimi 20 anni i cittadini mandati nei campi sono stati reperiti

all’interno di scuole, college, università, personale ospedaliero e in altre istituzioni pubbliche

(Ibid).

La presidenza di Karimov non accenna a fare un passo indietro nei confronti della

questione del lavoro forzato e non cede alle pressioni internazionali affinché sia possibile agli

osservatori di agenzie qualificate quali, appunto, l’Organizzazione Interazionale del Lavoro,

di accedere alle piantagioni in stagione di raccolta (Ferrero 2013). Recentemente si sono

verificati alcuni passi avanti per quanto concerne l’impiego di lavoro minorile. Nel 2008,

l'Uzbekistan ha ratificato la convenzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro in

merito alle condizioni del lavoro minorile (International Labor Organization’s Convention on

the Worst Forms of Child Labour) accettando di impegnarsi affinché questo fenomeno venga

definitivamente eliminato dal paese (Kourabas 2014).

Nonostante questi pallidi riscontri positivi, Human Rights Watch e Cotton Campaign

sono costantemente in allerta e gli osservatori internazionali hanno più volte invitato brand e

aziende del settore tessile a firmare l’impegno con il Responsible Sourcing Network a non

utilizzare cotone uzbeko nelle loro produzioni. L’avvocato Michael Kourabas (2014),

specializzato in diritti umani, sostiene che, fortunatamente, vi siano alcuni recenti segnali di

progresso. Per esempio, il 15 ottobre 2014, 163 aziende di abbigliamento - tra cui Adidas,

Disney, Gap, H&M, Nike, e Zara - hanno aderito al monito di Responsible Sourcing Network,

83

di qui sopra, impegnandosi, così, a non utilizzare cotone uzbeko nei loro prodotti. Eppure, il

cotone trova inevitabilmente una nuova via di mercato. In seguito a queste campagne di

boicottaggio, l’export della materia prima uzbeka si è spostato dai paesi europei verso quelli

asiatici. Circa l’83% del raccolto del 2013 è confluito, infatti, verso Cina e Bangladesh che ha

recentemente siglato un accordo per assicurarsi una fornitura annuale di 200 mila tonnellate di

fibra di cotone (Ferrero 2013; Kourabas 2014).

Durante il mio soggiorno in Uzbekistan78

, parlando con alcune persone in merito alla

pratica della raccolta forzata, ho potuto constatare che esistono atteggiamenti del tutto

contrastanti. C’è chi la ritiene un giusto aiuto all’economia del paese, come il proprietario di

un piccolo ufficio postale di Samarcanda il quale mi ha spiegato:

“la raccolta del cotone è un contributo che diamo al nostro Stato, non tutti devono farlo. Se lavori in

un’impresa puoi essere chiamato, se sei proprietario di una ditta con più di 5 o 6 dipendenti devi mandare

un tot di quota lavoro, se sei un lavoratore autonomo con pochi dipendenti o sei solo non devi andare. E

comunque quelli che vengono chiamati sono pagati; puoi anche offrirti volontario se vuoi”.79

C’è poi invece chi la percepisce come un’ingiustizia legalizzata, come per esempio il

figlio diciottenne del proprietario dell’Emir, guesthouse in cui ho soggiornato sempre a

Samarcanda. Il ragazzo mi ha riferito che fortunatamente quell’anno la sua classe non era

stata chiamata, ma che se l’anno seguente fosse riuscito ad entrare alla Facoltà di Medicina

sarebbe dovuto partire sicuramente. Secondo il giovane, si tratta di “una cosa negativa, prima

di tutto perché il lavoro è duro, e poi soprattutto perché non ci si può in alcun modo

astenere”80

. C’è infine chi non se ne cura arrivando fino a sminuire la questione. Una mattina,

al bazar, un uomo sulla sessantina, padre di famiglia, commerciante di zafferano iraniano e

cumino selvatico di montagna mi disse:

“Un tempo si che c’erano i lavori forzati, ma oggi?! Oggi poca gente va a raccogliere il cotone. Sono

perlopiù studenti, ma non fanno niente, vanno in vacanza. Qui si dice sempre il controllo dello Stato, non

è un vero controllo”81

.

Non so dire fino a che punto queste ultime affermazioni derivino dal fatto che lui, come altre

persone della medesima opinione, non sia mai stato coinvolto in prima persona nella raccolta,

e quanto, invece, siano considerazioni reali e comprovate.

78

Tra ottobre e novembre 2014. 79

Conversazione del 24 ottobre 2014, Samarcanda. 80

Conversazione del 25 ottobre 2014, Samarcanda. 81

Conversazione del 23 ottobre 2014, Samarcanda. Interessante l’espressione utilizzata dal venditore di spezie

“governament control, is not control”.

84

Riflettendo, tuttavia, sulla questione del lavoro da un punto di vista più ampio, constatata,

oltretutto, l’esistenza di opinioni convergenti in merito alla “sopravvivenza” di questa pratica

forzata, ritengo82

che le dinamiche di sfruttamento del lavoro che caratterizzano l’Uzbekistan

contemporaneo vadano ricercate ad un livello più profondo d’analisi. Pur considerando il

lavoro forzato una pratica altamente condannabile, nonché, un gravoso problema di carattere

umanitario, reputo la condizione di perpetuo asservimento della classe contadina, analizzata

nei paragrafi precedenti, la sede principale dei problemi di sfruttamento del lavoro del paese.

Essa, di fatto, risulta essere l’ultimo tassello di una catena di rapporti di potere inseriti in

un’economia di comando “sopravvissuta” al periodo sovietico.

Fabio Viti, in Schiavi, servi e dipendenti (2007) sostiene che, ed esclusione di forme

criminali o marginali di dipendenza ottenuta con la forza, il rapimento o il traffico di esseri

umani, la maggior parte dei casi descritti oggi come riduzione in schiavitù risulta

corrispondere a forme alienanti di sfruttamento produttivo. Uno sfruttamento messo in atto,

nella maggior parte dei casi, in contesti di arretratezza tecnologica, in cui, il lavoro manuale

ricopre ancora un ruolo considerevole. E’ proprio in questi contesi che, come li definisce lui, i

lavoratori invisibili, privati dei propri diritti, divengono in larga misura “volontari”, costretti

in un certo modo dalle condizioni economiche e sociali degradate, ma mai oggetto di

appropriazione violenta da parte della figura dominante. Citando le parole di Bormans

(1996:795) Viti analizza la differenza tra schiavitù e “schiavitù moderna”:

“La grande differenza tra schiavitù e “schiavitù moderna” sta nella “partecipazione” del lavoratore al

dispositivo di asservimento. Nella schiavitù lo schiavo è spersonalizzato e deresponsabilizzato, ridotto

letteralmente a “cosa”. Nella “schiavitù moderna” si “attira” l’attenzione o l’intelligenza del futuro

lavoratore, facendogli intravedere un salario e condizioni di lavoro accettabili, cosicché “tutto il

meccanismo della messa a lavoro fa appello alla personalità stessa di questo lavoratore, giocando del

resto su tutte le sue debolezze” (Bormans 1996:795, cit. in Viti 2007:256).

Trovo che queste parole rendano piena giustizia alla condizione vissuta dalla classe

contadina della Repubblica dell’Uzbekistan, e in particolar modo, da quei lavoratori impiegati

nella produzione della coltivazione sovrana: il cotone. Un aspetto decisamente rilevante,

peraltro, è che in Uzbekistan tale sfruttamento produttivo si esprime in una catena di sfruttati

e sfruttatori al cui vertice primeggia, fra tutte, la figura dello Stato.

82

In accordo coi molti ricercatori, da me citati, che si sono occupati di cotone in Uzbekistan quali: Ilkhamov

(2007), Djanibekov, Bobojonov & Lamers (2012), Kandiyoti (2002), Markowitz (2008), Spoor (1993), Trevisani

(2007), Zanca (2011), Zinzani (2011), Veldwisch (2008), Veldwisch & Bock (2011).

85

3. STATO DI CONTROLLO

3.1 NEO-PATRIMONIALISMO

La riorganizzazione economica intrapresa dall’Uzbekistan in seguito al

collasso dell’Unione Sovietica mise in atto un processo di transizione da un’economia di

comando ad un’economia di mercato liberale. Tale transizione, non essendosi pienamente

conclusa, pone attualmente il paese in una condizione intermedia in cui meccanismi di stampo

liberale (privatizzazione e decollettivizzazione) convivono con elementi coercitivi e di

autoritarismo statale (Markowitz 2008; Veldwisch & Bock 2011). Questo genere di

condizione dà vita ad un’economia definibile, secondo taluni autori, come “economia ibrida”

(Smith & Stenning 2006, cit. in Veldwisch & Bock 2011).

Una chiave di lettura teorica interessante, relativa alla situazione politica attuale

dell’ex Repubblica Sovietica, viene fornita dagli studi sul neo-patrimonialismo. L’origine di

tale concetto è da ricondurre alla classificazione sociologica che Max Weber fece in merito a

dominazione e legittimazione, in cui definì tre tipi di autorità: tradizionale, carismatica e

giuridico-burocratica. Nel patrimonialismo tradizionale, il diritto di governare, solitamente, si

motivava con l'ereditarietà dell’incarico. L’autorità tradizionale, dunque, risultava essere

legittima in quanto profondamente radicata nella tradizione (Paiziev 2014). Nel 1973, Shmuel

Eisenstaedt, per primo, concettualizzò il termine neo-patrimonialismo, utilizzando il prefisso

neo- per distinguerlo dal patrimonialismo weberiano (Eisenstaedt 1973, cit. in Paiziev

2014:3). Dagli anni ’70 in poi tale concetto entrò in auge principalmente per descrivere la

situazione dei regimi personalistici dell’Africa sub-sahariana (Ibid.). In un regime neo-

patrimonialista meccanismi formali e informali, inseriti spesso in sistemi democratici

consolidati, concorrono per mantenere sottomissione e fedeltà all’élite dominante. Essi sono

basati non solo su valori e norme patriarcali, ma anche sullo scambio razionale di benefici e

interessi clientelari (Ilkhamov 2007; Veldwisch & Bock 2011). La legittimità del leader in

regimi di questo tipo non deriva direttamente dalle strutture, dai processi e dalle ideologie

democratiche, ma piuttosto da un forte culto della personalità e da un’efficace rete di relazioni

clientelari che lega l’élite nazionale al popolo (Paiziev 2014). La figura del leader, inoltre,

esercita il suo potere nominando a capo di ministeri chiave, imprese statali o fondi sovrani,

persone a lui vicine: famigliari, amici, o persone di fiducia, dando loro la gestione di affari

pubblici, in genere intorno a petrolio, gas e altre risorse naturali, utilizzabili da questi per

coltivare interessi privati (Giersch 2013, cit. in Paiziev 2014). Una volta creatosi un entourage

di privilegiati, tale élite va ad aumentare il sostegno al Presidente, garantendo voti nei propri

86

collegi elettorali e facendo ostruzione ad ogni forma d’opposizione all’autorità presidenziale.

La caratteristica più evidente dei paesi soggetti a tali sistemi di potere è la difficoltà ad attuare

politiche riconducibili allo stato di diritto (rule of law), accomodando gli interessi delle varie

forze in gioco in organi equi ed istituzionali (Ibid.). Pertanto la componente giuridico-

razionale e quella consuetudinaria ed informale hanno, nei regimi neo-partrimonialisti, la

medesima rilevanza.

Nonostante il concetto di neo-patrimonialismo abbia esordito in studi fortemente legati

all’area geografica dell’Africa sub-sahariana, oggi viene largamente utilizzato da differenti

autori in contesti di varia natura. Ciò denota la sua multidimensionalità e multidisciplinarietà.

Il concetto, infatti, viene correntemente applicato in economia, sociologia, antropologia e

nell’ambito più generale delle scienze sociali. Spesso lo si trova in sostituzione di vari altri

termini quali corruzione, nepotismo, clientelismo, patronato, sultanismo, sindrome del “big

man”, sistema predatorio ecc. Molti di questi termini sono indubbiamente pertinenti ai sistemi

neo-patrimonialisti, ma la maggior parte di essi ne riducono la portata. Laurelle (2012, cit. in

Paiziev 2014) delinea una distinzione tra fenomeni i di corruzione/clientelismo ed il concetto

più ampio di neo-patrimonialismo. La corruzione, spiega l’autrice, può avvenire anche in

sistemi non politicizzati ed in contesti estranei all’istituzione giuridica; di contro, il neo-

patrimonialismo manifesta una struttura corruttiva centralizzata che infetta gran parte del

processo di legittimazione politico. Il clientelismo, invece, inteso come scambio di favori tra

un gruppo imprenditoriale e la classe politica, è un fenomeno che non necessariamente

impedisce la crescita economica del paese, anzi, in alcuni casi, contribuisce al suo sviluppo.

Differentemente i meccanismi insiti nel neo-patrimonialismo, procurando una distribuzione

fortemente ineguale della ricchezza, vanno ad ostacolare la crescita economica del paese.

Branko Milanovic (2013, cit. in Paiziev 2014) dimostra come i regimi ad impronta neo-

patrimonialistica siano quelli con la distribuzione della ricchezza maggiormente ineguale. Per

questa, e per le altre ragioni sopra esposte, il concetto di neo-patrimonialismo viene

comunemente associato a situazioni di malgoverno, spesso derivanti da eredità post-coloniali

presenti in paesi in via di sviluppo (Paiziev 2014).

Recentemente il concetto è stato utilizzato anche per descrivere e classificare

l’economia ibrida ed il network di relazioni di potere presenti nei governi dell’ex Unione

Sovietica. Nessuna delle cinque ex Repubbliche Sovietiche dell’Asia Centrale, infatti, può

essere classificata come una democrazia liberale in cui si garantiscano libertà individuali e

supporto alla società civile (Reeves, Rasanayagam & Beyer 2014). Nei loro sistemi politici

permangono leader autoritari, repressione politica, diffusa corruzione e un debole

87

avvicinamento alla rule of law (Paiziev 2014). In riferimento alle dinamiche d’asservimento

analizzate nel capitolo precedente, si può notare come, in Uzbekistan, il concetto di neo-

patrimonialismo trova piena legittimità grazie al ruolo chiave giocato da fedeltà e favori

personali che, comunemente, prevaricano i circuiti del sistema istituzionale ufficiale, fino ad

esserne una caratteristica basilare.

E’ indubbio che il regime ibrido sovietico pesò fortemente sulla formazione dei regimi

post-sovietici (vedi capitolo 1). Il periodo di Brezhnev (1964-1982) lasciò un’importante

eredità caratterizzata da una politica giocata dietro le quinte, secondo l’uso di reti di

favoritismi e benefici che, raramente, consideravano le necessità e le aspirazioni del popolo

(vedi caso dello scandalo del cotone, “cotton affair”, pp.26-28) (Ibid.).

Uzbekistan e Kazakhstan sono gli unici due paesi della regione a non aver ancora

sperimentato una transizione di leadership dall’indipendenza ad oggi. Sia il presidente

Karimov che Nazarbayev, ormai ultra settantenni, sono attualmente tediati dalla questione

della successione83

, mentre nel vicino Turkmenistan, Gurbanguly Berdymukhamedov, è

subentrato al presidente “sovietico” Niyazov, morto nel 2006. L’Uzbekistan, inoltre, assieme

al Turkmenistan, è considerato il regime più autoritario della regione (Reeves, Rasanayagam

& Beyer 2014). In uno studio comparativo su tre dei cinque Stati centrasiatici, Uzbekistan,

Kazakhstan e Kyrgystan, il ricercatore di scienze politiche Eric McGlinchey (McGlinchey

2011, cit. in Reeves, Rasanayagam & Beyer 2014:4), ha analizzato i differenti percorsi politici

intrapresi da questi tre governi, di stampo autoritario, dopo l’indipendenza. Etichettandoli con

abbreviazioni tanto lapidarie quanto efficaci (“caos kyrgyco”, “violenza uzbeka” e “dinastia

kazaka”), l’autore manifesta le variazioni locali di ciò che chiama “politica clientelare”. Tale

politica si concretizza in autarchie spiegabili attraverso la combinazione di tre variabili che

McGlinchet identifica con: a) coinvolgimento delle autorità locali nella mediazione con la

leadership sovietica nell’era di Gorbachev; b) disponibilità di risorse naturali; c) grado di

revivalismo islamico presente nei paesi indipendenti.

a) Negli ultimi anni di vita dell’Unione Sovietica, Gorbachev gestì il cambiamento di

leadership delle Repubbliche Sovietiche; di fatto, Karimov e Nazarbayev furono

indirettamente investiti dai sovietici del pieno controllo sui processi d’indipendenza di

Uzbekistan e Kazakhstan. Ciò non avvenne, invece, in Kirghizistan, dove il non intervento

83

Riguardo a tale questione il problema maggioritario è costituito dalle eventuali conseguenze che il passaggio

di poteri potrebbe avere, sugli Stati coinvolti, in primis, ma anche sulle grandi potenze che con essi hanno

intessuto ingenti rapporti economici. Le domande da porsi dunque sono: in che modalità avverranno tali

successioni? Saranno pacifiche o violente? E’ lecito temere per lo scoppio di ulteriori guerre civili? Questo

perché ad oggi ancora non si assiste allo sviluppo di istituzioni democratiche consolidate e regole in grado di

garantire una transizione trasparente e pacifica del potere (Paiziev 2014:1).

88

sovietico diede avvio ad un duraturo periodo d’instabilità politica, alternato da feroci periodi

di guerra civile.

b) Per quanto riguarda il dominio sulle risorse naturali, emblematico è il caso kazako,

dove il Presidente e la sua famiglia divennero unici possessori dei giacimenti di petrolio,

utilizzati, nel corso degli anni, per finanziare la rete di relazioni clientelari con élite locali.

L’Uzbekistan, invece, nonostante l’immobilismo economico, continuò con la produzione

cotoniera, intraprendendo una politica clientelare basata sulla coercizione (vedi cap. 2). Come

nota il ricercatore Richard Donald Lewis:

“la stagnazione dell’economia del paese sembra essere il prezzo da pagare per la fedeltà, ed

incoraggia lo Stato all’uso della coercizione invece che della persuasione finanziaria” (Lewis 2012, cit. in

Paiziev 2014:13)

c) Repressione e violenza statale vennero inoltre aggravate, secondo McGlinchey,

dalla persistente minaccia del movimento islamista che, in alcune aree, si sostituì allo Stato

nelle funzioni di welfare e di supporto alla popolazione (McGlinchey 2011, cit. in Reeves,

Rasanayagam & Beyer 2014:4).

Il ricercatore della Central European University Erali Paiziev84

, in un saggio intitolato

“Gods of Central Asia: Understanding Neopatrimonilism” (2014), individua due fattori chiave

alla base dell’origine e del perdurare del neo-patrimonialismo in Asia Centrale: l’adozione di

modelli presidenzialisti autoritari con una stretta relazione tra potere esecutivo e legislativo; e

la cultura della politica locale basata su clan d’élite.

3.1.1 Presidenzialismo e autoritarismo

Dalla metà degli anni’80 una parte della comunità scientifica, interessata allo studio

delle scienze politiche a livello comparativo, tornò ad occuparsi di una questione che più di

tutte aveva preoccupato la disciplina in precedenza: quali condizioni conducono allo sviluppo

di una democrazia? Quali fattori favoriscono od ostacolano il consolidamento democratico?

(Easter 1997). Il contesto di ricerca ottimale per questo genere di studi si indirizzò verso

l’analisi di Stati in transizione, essendo il loro processo di democratizzazione agli stadi iniziali

(Easter 1997; Paiziev 2014).

84

In accordo con altri autori quali Aliser Ilkhamov (2007) e Sherzod Abdukadirov (2009).

89

Attualmente è in atto un intenso dibattito su quale genere di governo, presidenziale o

parlamentare85

, sia maggiormente favorevole al consolidamento della democrazia. I vari poli

della discussione sono, comunque, concordi nel ritenere che la forma di governo prescelta da

uno Stato nascente abbia un peso sostanziale nell’influenzare lo sviluppo e il consolidamento

democratico (Paiziev 2014). Per molti anni gli Stati di carattere autoritario furono esclusi da

questo genere di studi, in quanto considerati svincolati da una qualsiasi forma di costituzione.

Attualmente, analizzando il panorama mondiale, tale posizione è stata definitivamente

abbandonata, essendo molti dei regimi autoritari contemporanei una forma “ibrida” di Stati

aventi istituzioni democratiche, per quanto non sempre in grado di esercitare le proprie

funzioni (Ibid.). Questi Stati “borderline”, tra cui l’Uzbekistan, non sono estranei, infatti, ad

un sistema politico formalmente democratico. Uno degli esempi più immediati del loro

apparato di stampo democratico è l’utilizzo delle elezioni come mezzo di legittimazione

politica. Come nota l’antropologo Antonio de Lauri (2014), in relazione alle elezioni svoltesi

in Afghanistan del 2014, il ricorso alle dinamiche elettorali in paesi in transizione, condensa

molti dei miti, certamente legati al tema della libertà, dell’”era della democrazia”. Due di

questi possono essere rintracciati nell’idea che le elezioni siano l’espressione massima della

libertà politica, e nella rappresentazione della democrazia come una sorta di mantra moderno,

veicolo preferenziale di immagini e ideologie politiche, e non. Fissandosi, tuttavia,

sull’immagine illusoria comunicata dalle elezioni, ossia il verificarsi di un passaggio dal

“prima” al “dopo, si rischia, secondo l’autore, di perdere di vista il fatto che, in contesti

particolari quali l’Afghanistan (o l’Uzbekistan), l’elezione divenga un modo per trasportare il

“prima” nel “dopo”. In altre parole, esse, hanno il potere di riprodurre forme prestabilite di

gerarchia sociale, in un (solo apparente) nuovo ordine. E’ consuetudine che le élite locali

sviluppino continuamente nuove tecniche di manipolazione per mantenere il loro potere,

alterando i risultati elettorali secondo accordi legati alla rete clientelare (Ibid.).

Dall’indipendenza ad oggi, molte delle Repubbliche del Centro Asia sono passate attraverso

elezioni, definite dalle élite dominanti come “libere e giuste”. La legittimazione della

leadership, nella realtà dei fatti, però, viene rinnovata attraverso elezioni falsificate e decise a

tavolino. Il più delle volte il Presidente non corrisponde necessariamente alla volontà

popolare, ciò in ragione del fatto che, grazie al controllo assoluto del potere esecutivo,

qualsiasi forma di contestazione o sfida al regime e alla figura presidenziale viene repressa

con l’uso della violenza. Questi paesi, a causa, appunto, di una feroce repressione delle

85

In un sistema presidenziale il Presidente ha l’autorità di nominare e destituire i membri del governo, in un

sistema parlamentare tale autorità è condivisa dal potere legislativo, ossia dal Parlamento (Paiziev 2014)

90

opposizioni, mancano di una società civile fervente e di partiti forti e coesi, che si affaccino al

panorama politico come vere alternative al regime. Di fatto, nelle ultime due decadi, il potere

del Presidente è andato rafforzandosi più che indebolendosi, arrivando a dominare

incontrastato su tutte le istituzioni formali (Paiziev 2014).

Occorre notare che la presenza d’istituzioni democratiche in determinati contesti,

come quello centroasiatico, non serve al raggiungimento di uno Stato democratico vero e

proprio, ma, più comunemente, tali istituzioni servono da “facciata” per coprire la natura anti-

democratica e autoritaria del regime (Abdukadirov 2009). Numerosi studi transnazionali

hanno dimostrato, infatti, come, nonostante la quantità di paesi in transizione in cui si

riscontra una qualche forma di democratizzazione sia elevata, solo una minoranza di essi ha

effettivamente raggiunto un consolidamento democratico, ossia un regime che soddisfi tutti i

criteri procedurali della democrazia, in cui tutti i gruppi politicamente significativi accettino le

istituzioni politiche ed aderiscano alle regole democratiche “del gioco" (Easter 1997).

Se ci si addentra maggiormente nell’analisi degli studi comparativi sulla politica degli

Stati in transizione, si può notare come gran parte della comunità scientifica sia incline a

sostenere che la scelta di una forma di governo presidenzialista porti con più facilità al

fallimento dello sviluppo di una democrazia solida e durevole (Easter 1997). Sherzod

Abdukadirov, importante studioso di Asia Centrale, sostiene che “un sistema presidenziale

acuisca la natura predatoria del regime incrementando le probabilità di conflitti violenti”

(Abdukadirov 2009:285). Nel sistema presidenzialista, secondo il ricercatore Juan Linz (1994,

cit. in Easter 1997), la propensione allo stallo politico, unita alla concentrazione di potere in

un’unica figura istituzionale, aumenterebbe la probabilità di esiti non democratici. Tuttavia,

non tutti gli studiosi di processi di democratizzazione e cambiamento istituzionale accettano

le conclusioni sopra esposte. Le critiche a tali posizioni sono essenzialmente di due tipi:

istituzionali e contestuali. Nella prima categoria vi è, ad esempio, la posizione di Donald

Horowitz, il quale sottolinea come studi sull’Africa e sull’Asia post coloniale abbiano

dimostrato che il modello Westminster86

del parlamentarismo, sia stato considerato per anni

86

Il nome di Westminster non si riferisce solo al celebre palazzo che ospita il parlamento londinese, ma nella

storia si è affermato come un vero e proprio modello di regime democratico, con alcune caratteristiche specifiche

ricalcate proprio dal sistema britannico e in adozione in diversi paesi, spesso ex colonie inglesi, come l’Australia,

l’India, il Canada, la Malesia, la Nuova Zelanda o Singapore. I tratti caratteristici di tale modello Westminster,

elencati efficacemente da Arend Lijphart, sono: un sistema elettorale maggioritario e non proporzionale,

l’accentramento del potere esecutivo in governi monopartitici a maggioranza ‘stentata’, un sistema bipartitico, il

predominio dell’esecutivo, un parlamento unicamerale, il pluralismo dei gruppi di interesse, un sistema di

governo unitario e centralizzato, la flessibilità costituzionale, l’assenza di revisione giurisdizionale, una banca

centrale controllata dall’esecutivo. Tra questi elementi esiste una stretta correlazione. La competizione elettorale

di tipo maggioritario, infatti, determina il formarsi di un sistema bipartitico, e quindi un sistema in cui vi sono

due partiti principali che dominano il panorama politico, entrambi in grado di competere per la maggioranza

91

“il modello istituzionale cattivo”, alla base di una serie di democrazie fallite, autoritarismi

recenti e politiche d’instabilità. Similmente, autori come Matthew Shugart e John Carey,

basandosi su studi comparativi ad ampio raggio, sostengono la tesi per cui il fallimento dello

sviluppo democratico possa attuarsi tanto in regimi che adottano l’istituzione parlamentare

quanto presidenziale (Abdukadirov 2009; Easter 1997; Paiziev 2014; Reeves, Rasanayagam

& Beyer 2014).

E’ indubbio, però, che il dibattito sulle implicazioni e sugli effetti della forma

istituzionale adottata dai paesi in transizione ha dato un nuovo impulso ad un settore di studi

ancora poco sviluppato: lo studio comparativo delle varie forme di presidenzialismo87

. La

transizione dei regimi del Centro Asia offre a questo nuovo settore di ricerca l’occasione

ideale per arricchire la propria letteratura di esempi utili allo studio comparativo (Ibid.).

Dal 2006, infatti, le Repubbliche centrasiatiche sono state formalmente riconosciute

come sistemi politici presidenziali. Ognuno dei suoi Presidenti ha l’autorità di nominare o

destituire i membri di governo, esercita forte influenza sui gruppi di potere nazionale e ha un

significativo controllo sulla gestione delle risorse naturali. Inoltre ha anche l’autorità di

sciogliere il Parlamento se ritiene valide le proprie ragioni. Nonostante vi sia una separazione

formale dei poteri, la bilancia verte nettamente verso il potere esecutivo (detenuto in

maggioranza dal Presidente). Con l’unica eccezione del Kyrgyzstan88

, in tutte le repubbliche

del Centro Asia il corpo legislativo, rappresentato dal Parlamento, ha un’influenza ridotta al

minimo sulle dinamiche del paese e di fatto rappresenta un organo funzionale al potere

esecutivo (Paiziev 2014). A differenza del Kyrgyzstan, dunque, tutte le altre quattro

Repubbliche centroasiatiche sono ben distanti da un sistema presidenziale propriamente detto.

Come sostiene la ricercatrice Sally Cummings (2012), la politica autoritaria di questi Stati

assoluta dei seggi in Parlamento, e quindi disposti a governare da soli, generando la possibilità di un’alternanza

di governo. Un sistema bipartitico non esclude chiaramente la presenza di altre formazioni partitiche, ma rende

di fatto marginale l’influenza e il peso che questi riescono ad avere in Parlamento e nelle dinamiche politiche

nazionali. La solida e coesa maggioranza di cui gode il governo in Parlamento gli permette di essere stabile e di

veder approvate le proprie proposte legislative. Dal punto di vista istituzionale il Parlamento è bicamerale, ma

caratterizzato da un bicameralismo talmente asimmetrico che si può parlare di quasi-unicameralismo: le due

camere hanno differenti prerogative e composizione e il processo legislativo è concentrato solo in una delle due

(Enciclopedia Treccani 2012, disponibile al link http://www.treccani.it/enciclopedia/il-modello-

westminster_%28Atlante_Geopolitico%29/). 87

Ciò in ragione del fatto che i riferimenti comparativi al modello americano e francese risultano essere, al

giorno d’oggi, insufficienti ed inadeguati a comprendere in profondità le dinamiche di potere insite nei regimi

presidenziali di nuova formazione. Questo nuovo ambito di studi si prefigge l’obiettivo di sviluppare un corpo di

letteratura ampio in cui definire le varie forme di presidenzialismo emerse nei processi di transizione politica

degli ultimi decenni. Ciò al fine di identificare le condizioni chiave che portano alla scelta di tale forma

istituzionale, analizzando in maniera sempre più dettagliata come la scelta istituzionale influenzi o meno il

consolidamento della democrazia (Easter 1997). 88

A differenza delle altre quattro Repubbliche ex Sovietiche, il Kyrgyzstan, nel 2006 ha adottato un cambio

costituzionale radicale e nel 2007 ha ridotto notevolmente i poteri del Presidente, dando maggior rilievo al

Parlamento (Paiziev 2014).

92

concentra il potere in una élite piccola, chiusa, che può essere eletta o meno dal popolo e che

possiede in misura sproporzionata il potere su tutte le istituzioni. Un aspetto che, sicuramente,

trae insegnamento dal regime sovietico, rappresentante per antonomasia di un sistema basato

su una forte leadership, capitanata da un unico individuo, simbolo dell’intera comunità

politica (Ibid.). In relazione all’eredità sovietica rintracciabile nelle strutture politiche post

indipendenza reputo interessante esporre di seguito l’analisi articolata dal ricercatore Gerald

Easter (1997) nel suo articolo “Preference for Presidentialism: Postcommunist Regime

Change in Russia and the NIS”. Tale analisi abbraccia la tesi secondo cui la struttura delle

vecchie élite di regime sovietico, al momento della fase di rottura (crollo del URSS 1990-

1991), abbia avuto un ruolo sostanziale nel determinare la scelta istituzionale dei nuovi Stati

nascenti. La forma istituzionale scelta dalle Repubbliche in transizione, dunque, sarebbe

determinata dalla continuità o meno dell’integrità delle vecchie élite sovietiche e dal

mantenimento del loro accesso alle risorse naturali. Nel corso della sua argomentazione,

Easter individua tre tipi di strutture delle vecchie élite emerse nelle transizioni post comuniste:

consolidate, disperse e riformate. L’élite consolidate sono quelle che uscirono dal momento

critico di disfacimento dell’Unione Sovietica pressoché inalterate, la cui struttura politica

rimase pertanto sostanzialmente intatta. In questi casi, le forze di opposizione presenti sul

territorio furono troppo deboli per imporre alle vecchie élite di ridurre il proprio potere. Di

conseguenza, esse mantennero con successo il monopolio sulle risorse naturali anche nella

fase di transizione. Nel secondo caso, invece, le élite disperse subirono una frammentazione

interna durante la fase di rottura. In questo caso, le forze di opposizione si mobilitarono con il

supporto delle masse popolari in azioni collettive quali dimostrazioni, elezioni, boicottaggi,

per rimuovere le vecchie élite di regime dalla loro posizione di potere. Dopo aver subito

un’ingente frammentazione interna il loro accesso alle risorse naturali venne messo in

discussione. Nella fase di transizione, dunque, tali élite furono costrette a competere al pari

dei nuovi attori politici. Infine, le vecchie élite riformate non rimasero strutturalmente intatte

né, d’altro canto, subirono frammentazione interna. Si verificarono, certo, delle scissioni ed

alcune vennero persino rimosse dal potere. Tuttavia, entrarono in accordi di condivisione del

potere con i nuovi attori politici emergenti. Le vecchie élite dovettero, inoltre, riformarsi per

mantenere l’accesso alle risorse. Quest’ultima categoria si trovò, indubbiamente, in una

posizione di debolezza, ma riuscì a mantenere notevoli vantaggi in accordo coi nuovi attori

politici (Easter 1997:188). Come accennato in precedenza, queste tre variazioni strutturali

delle vecchie élite, a loro volta, influenzarono la scelta istituzionale degli Stati post-sovietici

in transizione. Essi, dopo il disfacimento dell’Unione Sovietica, adottarono principalmente tre

93

forme istituzionali: parlamentare, presidenziale e sistema misto. Easter, tramite uno studio

comparativo, ricorda che la forma di governo presidenzialista fu scelta in tutti e sei i casi in

cui si riscontrò la presenza di élite consolidate. La forma parlamentare venne, invece, adottata

in sei degli otto casi in cui si riscontrò la presenza di élite disperse, ad eccezione della Polonia

che optò per un sistema misto. Infine, anche negli Stati in cui si riscontrarono strutture d’élite

riformate, venne adottato il presidenzialismo (si veda Tabella in fig.15). La domanda che

sorge spontanea, dopo la lettura di questi dati, è: perché i vecchi regimi d’élite preferirono il

presidenzialismo, mentre i nuovi attori politici optarono per il parlamentarismo? La risposta,

secondo Easter, potrebbe essere rintracciabile nel fatto che la scelta della forma istituzionale

riflette le strategie messe in atto dall’élite per assicurarsi l’accesso alle risorse. Nelle

transizioni post-comuniste, il presidenzialismo è stato preferito da quelle vecchie élite di

regime che, nel processo di ripartizione dell’URSS, mantennero il loro accesso, tutto o in

parte, alle risorse naturali dello Stato. Il loro obiettivo, durante la fase di transizione, non fu

solo mantenere ciò che già avevano, ma, soprattutto, negarne ad altri l’accesso. In questo, il

presidenzialismo, meglio del parlamentarismo, ha offerto una soluzione più funzionale al

raggiungimento di tali obiettivi. Le particolari caratteristiche istituzionali del presidenzialismo

vennero utilizzate dalle élite consolidate per istituire un proprio diritto di proprietà sulle

risorse dello Stato (Easter 1997). I nuovi attori politici emersi negli anni della transizione, di

contro, non potevano fare affidamento ad un già consolidato accesso alle risorse. Il loro primo

obiettivo fu, dunque, istituire un sistema istituzionale che mettesse in gioco tale accesso. Il

parlamentarismo fu la soluzione che meglio si confece a tale finalità. Attraverso i suoi

meccanismi istituzionali, il parlamentarismo faceva in modo che nessun gruppo o partito

politico potesse rivendicare la proprietà delle risorse dello Stato. Essa sarebbe stata garantita

tramite un sistema di competizione elettorale (Ibid.).

94

.

(Fig.15) Tabella riportante i diversi tipi di struttura delle vecchie élite sovietiche e le conseguenti scelte di forma

istituzionale negli ex Stati dell’Unione Sovietica (Easter 1997:190)

Applicando l’analisi di Easter (1997) al caso specifico dell’Uzbekistan si può notare

come esso sia un chiaro esempio di Stato in cui la vecchia élite consolidata si intromise nella

decisione e nella creazione della forma istituzionale post-indipendenza. Soprattutto il regime

di Brezhnev (1964-1982) (vedi cap. 1) segnò in profondità il paese, lasciando un’importante

eredità di “politica giocata dietro le quinte”, secondo un rete di relazioni clientelari che, come

affermato a inizio paragrafo, caratterizzano gli Stati neo-patrimonialisti (Paiziev 2014). Una

parte considerevole della leadership e dell’apparato politico/amministrativo dell’Uzbekistan

deriva in linea diretta dall’insegnamento e dall’élite dell’epoca brezhneviana (Kandiyoti 2002;

Easter 1997; Paiziev 2014). In primis, il processo di scelta istituzionale venne controllato

interamente dalla vecchia élite sovietica. Come approfondirò in seguito, senza la sfida politica

posta da movimenti nazionalisti o democratici di massa, forti e coesi, le élite comuniste in

Uzbekistan non furono mai costrette a ridefinire se stesse come fecero in altre repubbliche,

per esempio in quelle slave. Le élite sovietiche locali manipolarono palesemente le elezioni

per il nuovo parlamento, svolte nel febbraio 1990. Le nomine dei candidati, la registrazione

dei partiti, la copertura mediatica ed il conteggio dei voti venne interamente gestito da

organismi sovietici altamente controllati. Più di un terzo dei seggi del nuovo parlamento non

furono cambiati. Il risultato delle elezioni parlamentari fu che circa il 95% dei deputati

risultarono essere membri del Partito Comunista. A differenza di altre repubbliche sovietiche,

in Uzbekistan le elezioni del 1990 non servirono come mezzo attraverso cui nuovi attori

95

politici non comunisti ottennero l'accesso, anche parziale, alle risorse e al potere dello Stato.

Sopravvissuta del tutto illesa al crollo sovietico, la vecchia élite non fece altro che

riorganizzarsi all’interno di una nuova forma istituzionale: il presidenzialismo (Paiziev 2014;

Easter 1997; Ilkhamov 2002). Nel marzo del 1990, Islam Karimov89

divenne Presidente della

Repubblica Sovietica dell’Uzbekistan. Venne ufficialmente investito di tale carica dal

Parlamento comunista. Quando fu chiaro che il regime sovietico non sarebbe sopravvissuto

alla crisi, nel 1991, vennero indette le elezioni per eleggere il Presidente dello Stato

indipendente e fu arrangiato un referendum per l’indipendenza. L’oppositore di Islam

Karimov fu Muhamad Salih, leader del movimento di opposizione democratica Erk

(Demokratik Partiyasi). Karimov vinse con l’86% dei voti. Ai candidati del Birlik, il Partito

del Popolo, e a quelli dell’Islamic Renaissance Party, fu negata la possibilità di partecipare

alle elezioni, e ad un mese dall’entrata in carica del Presidente entrambi i partiti vennero

dichiarati fuori legge (Paiziev 2014). Il Partito Comunista in carica venne rinominato People

Democratic Party (PDP). Subito dopo le elezioni, Karimov propose una nuova costituzione,

che divenne un potente simbolo dell'Uzbekistan indipendente. L’intento primo della nuova

carta costituzionale, tuttavia, fu di delineare un sistema istituzionale in cui il Presidente

avrebbe agito come capo assoluto dello Stato. Sarebbe stato eletto per un mandato di cinque

anni tramite l’esercizio della sovranità popolare. Per legge, il Presidente non avrebbe potuto

ricoprire tale ruolo per più di due mandati consecutivi. La costituzione venne approvata nel

dicembre 1992: dopo alcune ore di discussione il Parlamento votò all’unanimità

l’approvazione. Nel dicembre 1994 si svolsero, inoltre, le elezioni per la nuova legislatura

post-comunista: la Oly Majlis. Anche queste elezioni vennero ampiamente controllate dalla

vecchia élite comunista ormai riorganizzata nel partito in carica (People Democratic Party). I

partiti d’opposizione (Birlik, Erk e l’ Islamic Renaissance Party), essendo stati dichiarati

ufficialmente fuori legge, non parteciparono al processo di rinnovamento del Parlamento. La

partecipazione a queste elezioni fu concessa solo ad un partito, il Fatherland Progress,

composto da esponenti dell’intellighenzia urbana e da grandi imprenditori che,

fondamentalmente, erano in accordo col partito del Presidente. Ancora una volta, la vecchia

élite prevalse e circa il 95% dei seggi della nuova legislatura furono occupati da membri

dell’ex Partito Comunista. La preoccupazione maggiore nella prima sessione parlamentare

tenuta dall’Oly Majlis nel febbraio del 1995 fu l’organizzazione di un referendum popolare

per estendere la scadenza del mandato del Presidente Islam Karimov dal 1997 al 2000. Dai

dati ufficiali, l’elettorato si pronunciò, con il 99% dei voti, a favore dell’estensione (Easter

89

Segretario del Partito Comunista dal 1989.

96

1997:201; Ilkhamov 2002). Nel frattempo, già dal dicembre 1997 venne corretta la legge

riguardante l’elezione presidenziale. Se nella versione iniziale di tale legge veniva sancito il

divieto di servire il paese per più di due mandati, nella nuova versione revisionata tale

clausura venne eliminata. Dal punto di vista legale, dunque, nulla impedì più a Islam Karimov

di essere rieletto per il terzo mandato (Ilkhamov 2002). In un rapporto di ricerca del

Congresso degli Stati Uniti, redatto da Jim Nichol (2010), specialista di Russia ed Eurasia,

vengono esposti gli sviluppi politici recenti del paese. Nel gennaio 2002, il Presidente,

orchestrò un referendum per l’entrata in vigore di una nuova Costituzione che modificò

l’apparato legislativo, dando vita ad un Parlamento bicamerale. Unitamente, si rimodificò la

legge sul mandato presidenziale allungandolo da cinque a sette anni. In seguito a queste

modifiche sostanziali l’apparato istituzionale si trovò organizzato in questo modo: la

legislatura (Oly Majlis) si compose, da quel momento, di 120 membri, direttamente eleggibili,

che andavano a formare la camera inferiore, è da 100 membri della camera superiore

(Senato), 16 dei quali investiti direttamente dal Presidente, il restante selezionato dagli organi

politici locali. Gli unici partiti accettati nel dibattito politico rimasero quelli fortemente

controllati dal People Democratic Party (PDP): l’Adolat (Justice) Social Democratic Party

(LDP)90

e il Milliy Tiklanish (National Revival) Party91

. I partiti considerati dal regime come

oppositori dello Stato continuarono ad essere dichiarati fuori legge, tra essi: Bridamlik, Birlik,

Erk, Free Farmers e la Sunshine Coalition (Nichol 2010). Nel 2008 entrò in vigore una legge

costituzionale sui partiti che, orientata a “democratizzare” le istituzioni, permise ai deputati

dei partiti di “opposizione” di offrire progetti alternativi e partecipare ai dibattiti politici

dell’Oly Majlis. La legge, inoltre, sancì che il Presidente avesse l’obbligo di "consultare" le

due Camere prima di nominare il Primo Ministro.

Nel 2007, alle nuove elezioni presidenziali, Islam Karimov fu nuovamente

riconfermato col 90,6% dei voti, mentre i suoi avversari92

ricevettero solo un 3% di consensi a

testa (Ibid.).

Sono, infine, di quest’anno le ultime elezioni presidenziali del paese. Durante il mio

periodo di permanenza, tra ottobre e novembre, l’Uzbekistan era in piena campagna elettorale.

Molte delle persone con cui ho avuto modo di parlare mi confessarono il timore che vi fosse

un passaggio d’incarico e che, quindi, Islam Karimov non fosse riconfermato. Una tra le frasi

più comuni a legittimazione del desiderio che l’attuale Presidente restasse in carica fu “meglio

90

Un partito i cui membri sono per lo più imprenditori profondamente legati al governo (Nichol 2010). 91

Un movimento composto da intellettuali a supporto del dello Stato (Nichol 2010). 92

I candidati in lizza per il posto di Presidente furono: per il People Democratic Party, Asliddin Rustamov, per

l’Adolat Social Democratic Party, Dilorom Toshmuhammadova e Akmal Saidov fu candidato da un comitato

d’iniziativa cittadina (Nichol 2010).

97

che rimanga lui, chi lo sa come potrebbe essere il suo sostituto?!”. Ho potuto, dunque,

riscontrare in molti dei miei interlocutori una sorta di abitudine rassicurante nella figura di

Karimov, considerato ormai da molti, al di là della carica presidenziale in sé, come vero e

proprio Padre della Patria (Citati 2015).

Le elezioni presidenziali svoltesi domenica 29 marzo 2015 hanno visto la schiacciante

vittoria di Islam Karimov che, per la quarta volta in ventiquattro anni, è stato riconfermato

alla guida del paese. Candidato per il Partito Liberal-Democratico Uzbeko (OzLiDep), di

orientamento centrista, Karimov ha totalizzato il 90,39% delle preferenze, lasciando ad

Akmal Saidov, candidato per il partito di destra Milliy Tiklanish (Rinascita nazionale), un

insignificante 3,08%. Narimon Umarov, candidato per il partito social-democratico Adolat

(Giustizia) si è invece fermato al risultato più basso con il 2,05% (Citati 2015). Riporto di

seguito le parole di Dario Citati, osservatore internazionale incaricato di monitorare le

operazioni di voto in diversi seggi elettorali della regione di Khorezm93

:

“In tutti i seggi che ho visitato le votazioni si sono svolte correttamente senza alcun tipo d'infrazione. Il

processo elettorale si è svolto in una cornice di piena regolarità procedurale: i cittadini dei diversi collegi

erano registrati nelle rispettive liste, le cabine e le urne allestite con estrema cura e i membri delle

commissioni vigilavano con serietà sulla correttezza delle operazioni di voto. L’unica prassi apparsa

invece inadeguata rispetto agli standard internazionali è la facoltà del voto su delega per i componenti del

nucleo familiare, regolarmente consentita dalle disposizioni della Commissione Elettorale Centrale. La

legge uzbeka concede infatti al singolo cittadino la possibilità di votare anche per i membri della propria

famiglia previa presentazione del loro documento d'identità. Tale consuetudine è risultata diffusa nelle

operazioni di voto e sembra indicativa di un contesto culturale in cui il ruolo del gruppo di appartenenza

resta molto forte ed è spesso preminente rispetto alle scelte puramente individuali” (Citati 2015).

Il ricercatore prosegue inoltre aggiungendo:

“Se il rispetto formale delle norme è stato a ogni modo complessivamente positivo, a testimonianza di

un’accresciuta competenza nella gestione delle procedure elettorali, la situazione riguardante l’effettivo

pluralismo politico si è dimostrata ancora distante dalle dinamiche delle democrazie consolidate. Le

piattaforme programmatiche dei tre candidati sconfitti, a cui comunque, secondo quanto affermato dallo

stesso severo rapporto dell’Osce, «i media dello Stato hanno garantito un ampio spazio sulla stampa e nei

dibattiti radiotelevisivi» avevano tutte un punto in comune: la mancanza di vere critiche e la speculare

assenza di proposte politiche chiaramente alternative a quelle del vincitore Karimov. Ad esempio, come

già per Umarov e Ketmonov, anche il programma elettorale di Akmal Saidov (forse l’unico candidato che

per notorietà e consenso avrebbe potuto ottenere percentuali di un qualche rilievo su scala nazionale) si

apriva con l’elogio dei risultati raggiunti dallo Stato uzbeko nei ventiquattro anni di indipendenza, cioè

con una lode implicita del Presidente uscente nonché avversario nella competizione elettorale” (Ibid.).

Lo svolgimento e i risultati delle presidenziali 2015 in Uzbekistan mostrano, dunque,

secondo Citati, un quadro caratterizzato da una forte ambivalenza: un indubbio

93

Più specificatamente nelle città di Urgenč (nei seggi n. 42 e n. 63) e Khiva (con monitoraggio prolungato nei

seggi n. 19, 43, 348, 349), effettuando, inoltre, un sopralluogo a due giorni dalle elezioni nella città di Bukhara

(nei seggi n. 40, n. 74, n. 50) e diversi colloqui con i commissari responsabili delle circoscrizioni e con i

rappresentanti dei candidati (Citati 2015).

98

consolidamento delle pratiche e dei meccanismi elettorali, ampia partecipazione popolare e un

buon livello organizzativo; ma anche un clima ancora segnato da una concezione della

democrazia di tipo quasi cesaristico, incardinata sul nesso Nazione-Presidente più che su un

sistema collaudato di pesi e contrappesi e sull’aperta contrapposizione fra candidati con pari

opportunità di vittoria (Ibid.). Il ruolo a cui Islam Karimov è assurto dal 1991 a oggi è, come

accennato prima, quello di autentico "padre della Patria": l’identificazione tra il percorso

storico dell’Uzbekistan indipendente e la sua stessa persona è tale da renderne la figura

pressoché incontestata. Se la sua riconferma ai vertici della repubblica centroasiatica appariva

dunque di gran lunga prevedibile, sarebbe stata purtuttavia auspicabile, quantomeno dal punto

di vista della comunità internazionale, una vittoria con percentuali meno clamorose, per

testimoniare la crescita di consenso verso gli altri candidati (e dunque l’aumento della

competizione politica reale), accanto a quello che si configura come un processo di

democratizzazione in transizione (Ibid.).

E’ senz’altro corretto affermare che, nonostante le loro sostanziali differenze, tutti e

cinque i sistemi presidenziali del Centro Asia siano caratterizzati da un alto indice di

autoritarismo (Paiziev 2014). Il modello di modernizzazione giuridica di stampo occidentale

sta, solo in parte e solo recentemente, influenzando gli apparati statali in questione. Il

Kirghizistan resta, indubbiamente, la Repubblica più liberale della regione, correntemente

definita dagli osservatori internazionali, come “isola democratica” nel mezzo di un vicinato

altamente autoritario. Il Tajikistan, che da poco è riuscito a sedare la dilaniante guerra civile

scoppiata all’indomani dell’indipendenza, ha iniziato recentemente il suo percorso di riforma

liberale. Il Kazakhstan, con una sorta di compromesso tattico, ha instaurato un sistema

presidenziale definibile familiare in cui la rete familiare e clientelare del Presidente

Nazarbayev gestisce l’enorme patrimonio di risorse naturali (petrolio, gas…), utilizzato

inoltre per sedare la lotta tra élite locali. Come accennato in precedenza, Uzbekistan e

Turkmenistan sono i due Stati considerati in maggior misura totalitari. In entrambi i casi la

centralizzazione del potere viene messa in atto eliminando le forze d’opposizione dall’arena

politica. La società civile è duramente repressa, le ONG94

sono state allontanate e gli

oppositori diretti del Presidente vengono spesso costretti a chiedere asilo politico all’estero

(Ibid.). Nonostante in questo lavoro io non abbia l’occasione di approfondire l’argomento,

94

Il governo uzbeko ha aumentato le persecuzioni contro gli attivisti per i diritti umani, dopo le vicende di

Andijan del maggio 2004. Lo denuncia la Federazione internazionale di Helsinki per i diritti umani (IHF). Dopo

i fatti di Andijan – dice Aaron Rhodes, capo della Federazione – il governo ha iniziato una campagna contro la

società civile. In particolare, contro le organizzazioni sociali che tutelano i diritti umani (Asia News 2006,

disponibile al link http://www.asianews.it/notizie-it/In-Uzbekistan-peggiora-la-persecuzione-contro-le-ong-per-i-

diritti-umani-5056.html).

99

sarebbe senz’altro interessante soffermarsi a riflettere sulle dinamiche di “esportazione” del

sistema giuridico occidentale in paesi che, come l’Uzbekistan, stanno vivendo una transizione

politica, economica ed amministrativa. Siamo in un epoca in cui, come afferma l’antropologo

De Lauri (2012), l’idea di rule of law (“Stato di diritto”, “governo della legittimità”) assume

un carattere globale, ossia si “arroga” la possibilità di poter affermare regole universali, valide

per tutti. E’ interessante, però, notare come tale fenomeno possa assumere anche una

connotazione negativa, legata a movimenti di espansione giuridica che assumono una forma

neocoloniale (Ibid.). Nel suo libro Afghanistan, De Lauri (2012), invita, dunque, a riflettere

sul discorso attorno alla rule of law, in un’ottica differente dalla retorica dominante, che

proclama la modernizzazione giuridica come via indispensabile per il raggiungimento di un

progresso privo di alternative95

.

La domanda su cui la comunità scientifica si sta attualmente interrogando, in particolar

modo il settore delle scienze politiche, è: perché il Centro Asia ha un carattere fortemente

autoritario ed è caratterizzato da un rigido presidenzialismo? Una possibile risposta a tale

domanda è stata avanzata da alcuni autori impegnati in studi riguardanti la cultura politica

della regione, evidenziando la natura patriarcale e gerarchica delle strutture sociali autoctone.

Gregory Gleason (1997, cit. in Paiziev 2014), per esempio, sostiene che la tradizione

patriarcale centroasiatica, fatta di sottomissione, deferenza all’autorità e agli anziani, unita al

carattere debole delle istituzioni, sembra essere il motore primo dell’autoritarismo. Ma la

questione, ricollegandomi ai temi trattati ad inizio paragrafo, può essere posta anche al

rovescio: perché gli stati del Centro Asia non hanno ancora sviluppato delle democrazie

consolidate? Come suggerisce la ricercatrice Sally Cummings (2012:68), esistono due

approcci differenti riguardo a tale questione: a) approccio modernista/strutturale, b) approccio

transizionalista.

a) L’approccio modernista/strutturale sostiene che senza un determinato livello di sviluppo

economico e senza una configurazione ben sviluppata della classe media, il paese non sarà

in grado di sostenere un vero e proprio processo di liberalizzazione;

b) L’approccio transizionalista, invece, sottolinea l’importanza di una volontà politica,

ponendo in primo piano la leadership e la sua capacità di forgiare una nuova élite unita,

che dialoghi e negozi con la propria opposizione.

Fino ad oggi, tutti i leader delle Repubbliche indipendenti centroasiatiche sono rimasti

fermamente convinti che l’autoritarismo fosse, e sia, la via migliore per detenere il potere. Ciò

95

Per un approfondimento sul tema si veda Nader L., Mattei U. (2008), Plunder: When the Rule of Law is Illegal, Blackwell publishing.

100

è così perché il regime di autoritarismo presidenziale infonde la percezione di prevedibilità

del sistema, al fine di evitare elezioni competitive, assicurando che il circuito politico resti

chiuse in sé stesso senza la partecipazione della concorrenza (Cummings 2012:69).

3.1.2. La cultura della politica locale: i clan d’élite

Uno dei fattori rilevanti, secondo uno studio di Erali Paiziev (2014) già citato in

precedenza, che contribuisce al persistere attuale del neo-patrimonialismo in Centro Asia è la

cultura politica della regione. Tale cultura è rappresentata da una politica giocata a livello

informale, piuttosto che sulla scena politica principale, governata da grandi centri di potere. È

difficile, infatti, immaginare la politica dell'Asia Centrale svincolata dalle interazioni

informali tra diversi attori quali i clan e le reti di potere regionali96

(Ibid.). Sono proprio

queste pratiche informali che, secondo Paiziev, ostacolano gli Stati membri che sorgono sulla

via della seta, a promuovere i principi democratici e a rafforzare le proprie istituzioni a difesa

dello stato di diritto (rule of law), e garantire la tutela dei diritti umani. Autrici come Anna

Grzymala-Busse e Pailine Jones Luong (2002, cit. in Reeves, Rasanayagam & Beyer 2014)

hanno inoltre avanzato una profonda critica alla concezione di Stato assunta dalla letteratura

delle scienze politiche in relazione alle transizioni post-sovietiche. Le due autrici mettono,

infatti, in discussione la definizione di Stato come “un insieme chiaramente identificabile di

istituzioni e attori politici che esercitano l’autorità legittima in un determinato territorio,

pensando collettivamente come un agente pubblico unitario” (Ibid:4). Tale concezione

deriverebbe da schemi interpretativi fortemente legati all’esperienza politica europea e, più in

generale, occidentale. Differentemente, l’analisi della situazione centroasiatica dovrebbe

essere affrontata tramite un approccio processuale che tenga presente dei cambiamenti

drammatici a seguito della disgregazione dell’Unione Sovietica. Grzymala-Busse e Luong,

presentano un analisi della regione che cerca di riportare la figura del popolo all’interno dello

Stato, riconoscendo l’esistenza di più attori in competizione (élite locali, governi,

organizzazioni internazionali ecc.). Arrivando a concludere che gli Stati post-comunisti

possono essere visti come un bricolage, costruiti, cioè, su strutture formali ereditate dal

passato sovietico, ma, allo stesso tempo, costruite anche su strutture informali profonde,

derivate da eredità di vario genere (Ibid.).

96

Tra i network regionali più potenti della Repubblica uzbeka contemporanea, vi sono quelli di Tashkent,

Samarcanda e della Valle del Fergana. Queste tre élite regionali, continuano a giocare un ruolo chiave nel

controllo politico e nell’accesso alle risorse economiche del paese. Per un maggior approfondimento sui clan

presenti nel territorio centroasiatico si veda Paiziev (2014), in particolare pp.23-46.

101

In relazione alla questione della politica dei clan in Centro Asia, sono molti gli

autori che si rifanno alle tesi elaborate da Kathleen Collins (2004, cit. in Reeves,

Rasanayagam & Beyer 2014; Paiziev 2014; Ilkhamov 2002), docente di Scienze Politiche

presso l'Università di Notre Dame e ricercatrice presso l'Istituto per gli Studi Internazionali

Kellogg. Similmente alle autrici sopra citate, anche Collins si interroga su Stato e società,

concepiti comunemente come due entità distinte, quando invece, cerca di dimostrare

l’autrice, in Asia Centrale esse risultano fortemente intrecciate (Collins 2004, cit. in

Reeves, Rasanayagam & Beyer 2014). Fa ciò introducendo la cultura all’interno

dell’analisi politica. Prendendo ispirazione dalla letteratura antropologica sulla parentela,

Collins, sostiene che la politica centroasiatica sia caratterizzata dalla persistente presenza

dei clan97

, intesi come reti di legami informali basati sulla parentela o sulla parentela

fittizia. Essi sono veicolo di un legame “affettivo” che offre supporto psicologico, ma

anche di elementi “razionali”. Le élite o i capi clan hanno bisogno di una rete di sostegno

per mantenere il proprio status e la propria influenza politica e, allo stesso tempo, i non

appartenenti all’élite hanno bisogno dei leader dei clan nella misura in cui essi divengono

patroni, garantendo l'accesso al lavoro, all’opportunità di vendere nei bazar, all'istruzione,

nonché all’ottenimento di aiuti materiali in economie precarie quali quelle delle cinque

Repubbliche98

. Nella critica avanzata alla letteratura di “transizione”, Collins si focalizza

sull’eccessivo rilievo dato alle istituzioni formali, ritenendo che le istituzioni sociali

“tradizionali” siano incompatibili con le formazioni politiche moderne (Collins 2004, cit.

in Reeves, Rasanayagam & Beyer 2014:6; Paiziev 20014:25). Il “tradizionalismo” è

qualcosa che anche Olivier Roy (Roy 2000, cit. in Reeves, Rasanayagam & Beyer 2014)

sottolinea nella sua analisi della politica centroasiatica. Egli sostiene che l’apparato

sovietico sia stato “ri-abitato” da schemi tradizionali della vita politica. Per esempio, la

categoria pre-sovietica di “signore/notabile rurale” venne perpetrata trasformandosi nella

figura del capo di azienda agraria collettiva, mediatore tra la classe contadina e lo Stato,

facendo in modo che l’azienda collettiva diventasse ciò che Roy chiama la “nuova tribù”

(Ibid.). Lontane dall’aver eliminato forme di politica tradizionale pre-esistenti, le norme

sovietiche, non fecero altro che istituzionalizzarle attraverso una regolamentazione statale,

dando loro una realtà economica ed amministrativa. Roy continua la sua argomentazione

sostenendo che non vi sono molti casi di strutture tradizionali pre-sovietiche sopravvissute

97

Definisce, inoltre, la politica dei clan come: "la politica della concorrenza e della trattativa informale tra clan,

nel perseguimento degli interessi di clan" (Collins 2004:224, cit. in Paiziev 2014:24). 98

Ho trattato approfonditamente un esempio concreto delle dinamiche individuate da Collins nel secondo

capitolo di questo lavoro, riguardante le reti clientelari instaurate in ambito agrario tra la classe contadina

(dekhon), i proprietari di aziende agricole private (fermer) e i governatori distrettuali (hokim) (vedi pp. 40-83).

102

inalterate fino ad oggi, ma, ciò che lui chiama l’“habitus” di tradizionali modelli di

clientelismo, vennero riprodotti attraverso la gerarchia istituzionale sovietica di governo e

di accesso alle risorse naturali (Ibid:7). Inoltre, le ideologie nazionali e le narrazioni che

formano il cuore degli sforzi di costruzione del nuovo Stato (ciò che analizzerò nel

prossimo paragrafo), sono profondamente radicati nella politica nazionalità sovietica. Il

campo politico post-sovietico, di conseguenza, secondo Roy, dovrebbe essere inteso non

tanto come una replica di modelli pre-sovietici, ma piuttosto come un “neo-

tradizionalismo” ibrido (Ibid)99

.

Sia nell’analisi di Collins che in quella di Roy, cultura, clan e tradizione, relazionati

alla politica, possono essere indirettamente intesi come una “scatola nera” (black box), in

cui sono contenute tutte le motivazioni non razionali e gli incentivi che, in ultima analisi, si

riducono a tutte quelle operazioni legate a relazioni clientelari e calcoli di costi e benefici

(Reeves, Rasanayagam & Beyer 2014:7-8). I concetti di politica di clan e di

“tradizionalismo”, dunque, cercano di rispondere alle complesse questioni del perché le

persone fanno le cose che fanno e quando, queste azioni, non sembrano chiaramente

motivate da un calcolo di interessi individuali, in termini comprensibili per l’osservatore

esterno (per esempio per l’accademia occidentale) (Ibid.).

L’antropologo Jonathan Spencer ha elaborato un approccio alla politica

culturalmente indirizzato, riconoscendo che la politica e la cultura non sono due cose

distinte, ma che la politica emerge nelle pratiche sociali e nelle possibilità immaginative

locali che vanno a decentrare la concezione teleologica della modernità, finanche quelle

della razionalità occidentalmente intesa. Spencer definisce tale concetto come: il

riconoscimento del potenziale dinamico e creativo delle istituzioni politiche (Spencer

2007, cit. in Reeves, Rasanayagam & Beyer 2014:9).

In accordo con Harvey (2005, cit. in Reeves, Rasanayagam & Beyer 2014) e altri

antropologi quali per esempio Abu-Lughod (1991), ritengo che l’antropologia del locale

non si debba limitare ad elaborare una prospettiva “dal basso”. Piuttosto, il metodo

etnografico dovrebbe eludere le opposizioni spaziali individuando il "globale" all’interno

del locale, delle vite, dei corpi e delle materialità. La prospettiva antropologica, quindi, è in

grado di sollevare la figura dello Stato come oggettivo, separato dalla società, tendendo

99

Un eminente ricercatore del fenomeno, David Gullette, sostiene che vi è un termine concettuale più grande che

ha in sé un potere esplicativo maggiore dell’accezione” politica informale di clan”, ossia, tribalismo. L’autore

sostiene, infatti, che l’etichetta della politica dei clan come è inteso nell’analisi tradizionale offre una

comprensione ridotta delle pratiche politiche quotidiane della regione centroasiatica. Tuttavia, ritengo che,

solitamente, il termine tribalismo, rimandi fortemente ad una comprensione evoluzionista della politica dei clan

del Centro Asia (Gullette 2007, cit. in Paiziev 2014:26).

103

verso uno "smascheramento" della sua natura immaginata e costruita, sottolineandone il

processo, le pratiche e le prestazioni che producono tale maschera. Lo Stato può essere

vissuto come gerarchica oppressiva o come soggetto di regolamentazione in grado di fare

offerte, negoziare e manipolare le regole nel perseguimento dei propri obiettivi. Lo Stato

può essere condannato come assente o carente, così come può essere immaginato in modi

idealizzati o invocato coma una solida e benevola struttura di potente (Reeves,

Rasanayagam & Beyer 2014).

In Uzbekistan la figura dello Stato è fortemente intricata a dinamiche di sfruttamento

del lavoro, soprattutto della classe contadina. L’ingente sfruttamento produttivo della

popolazione rurale e delle risorse naturali per la produzione del cotone, rimane ad oggi una

caratteristica fondante dell’Uzbekistan contemporaneo. Come ampiamente ribadito nelle

pagine precedenti la coltivazione del cotone è fortemente regolamentata dagli apparati

governativi sparsi sul territorio, nonostante la produzione avvenga nelle terre di aziende

agricole private. L’esportazione del prodotto frutta allo Stato un introito annuo che compone

gran parte del PIL nazionale (Baffes, Badiane & Nash 2004; Guadagni 2005, cit. in

Djanibekov, Bobojonov & Lamers 2012:105). L’intromissione istituzionale in merito alla

coltivazione cotoniera non si limita esclusivamente all’imposizione delle quote di produzione;

lo Stato si fa garante di tutto un sistema di controllo capillare che si insinua fin nei più piccoli

aspetti gestionali della produzione: profondità e data della semina, tipo e modalità di

fertilizzazione, potatura, quantità d’irrigazione ecc. Quasi tutti i materiali e gli interventi

tecnici per la coltivazione del cotone vengono sovvenzionati dallo Stato e forniti ai fermer

attraverso canali di distribuzione statali. Il risultato di un meccanismo siffatto è la condizione

per cui, in Uzbekistan, non solo lo Stato vincola gli agricoltori a quantità e modalità di

produzione del cotone, ma detiene, inoltre, il pieno possesso dei canali di

commercializzazione e distribuzione di tutti gli elementi fondamentali all’agricoltura

(Djanibekov, Bobojonov & Lamers 2012; Trevisani 2007; Veldwisch 2008; Veldwisch &

Bock 2011; Zanca 2011). Ciò spiega la scelta di un titolo tanto lapidario, quanto immediato,

quale “Cotone di Sato”. Esso, infatti, rende l’idea di come il mio lavoro sia indirizzato

all’analisi della profonda commistione tra Stato (neo-patrimonialista), ed il fiorente business

del cotone grezzo. Un connubio, questo, che racchiude in sé dinamiche d’asservimento

istituzionalizzato dei “lavoratori della terra”, nonché, un intricato sistema di reti clientelari,

che, dall’era sovietica, infetta la sfera produttiva, la gestione delle risorse naturali e tutta la

sfera politico-amministrativa. Da sempre, in Uzbekistan, il cotone è, infatti, uno degli

indicatori più evidenti dei rapporti di fedeltà tra le parti in gioco (Kandiyoti 2002).

104

3.2. IDEOLOGIA NAZIONALE E RETORICA DI STATO

Sin dal 1991, da quando l’Uzbekistan divenne indipendente, il circuito della

metropolitana di Tashkent iniziò a subire dei cambiamenti. La stazione “Lenin” fu rinominata

“Piazza dell’Indipendenza”. La stazione “Komsomol” (Organizzazione Giovani Comunisti),

venne rinominata “Yashlik”, parola uzbeka per indicare la “gioventù”. Alla stazione

“Amicizia dei Popoli” non venne cambiato nome, ma i sigilli decorativi raffiguranti l’amicizia

socialista vennero coperti da un pesante strato di intonaco. In tutto il circuito ferroviario,

inoltre, i simboli cirillici di lingua russa vennero sostituiti da quelli in lingua uzbeka

(Kurzman 1999). Sono questi, infatti, i cambiamenti che ci aspettano da una Nazione in fase

di decolonizzazione, assieme alla riprogettazione dello stemma nazionale e della bandiera,

all'istituzione della compagnia aerea di bandiera, di organi per la promozione del turismo, e

altri orpelli che caratterizzano la nazione contemporanea (Ibid.) (vedi fig.16). Ma, oltre a

questi passaggi di routine verso la costruzione della nuova nazione, l'Uzbekistan e le altre ex

Repubbliche Sovietiche del Centro Asia furono contemporaneamente impegnate nella

costruzione del nazionalismo, un’impresa tanto difficile quanto insolita (Ibid.). Nei paesi che

hanno vissuto un lungo periodo di colonizzazione, questo processo, solitamente, inizia prima

dell'indipendenza. Come dichiara Ernest Gellner, in accordo con altri autori tra qui Eric

Hobsbawm, "solitamente è il nazionalismo, che genera le nazioni, non il contrario" (Gellner

1983, cit. in Kurzman 1999:77). I cechi sotto l’Impero Austro-Ungarico, per esempio,

intrapresero scontri e mobilitazioni per generazioni prima di ottenere l’indipendenza, così

come altre nazioni uscenti dal colonialismo quali Indonesia, Nigeria, India, America: in tutte

si assistette a movimenti nazionalisti di vario genere. All’interno di questi stati si crearono

spinte centrifughe che mirarono all’indipendenza, o almeno all’autonomia amministrativa,

spinti dall’esasperazione di politiche di sfruttamento, di oppressione, di discriminazione e

violenza da parte delle autorità centrali. Un fenomeno, questo, che nella contemporaneità

emerge, con sempre maggior forza, nelle “periferie del mondo”, in movimenti nazionalistici

che continuano a battersi per il proprio riconoscimento (Fabietti, Malighetti & Matera 2012).

In Uzbekistan, di contro, ciò non si verificò. Non vi furono movimenti nazionalisti prima

dell’Indipendenza. Diversamente dalla maggior parte delle nazioni decolonizzate del

ventesimo secolo, l’Uzbekistan fu in parte creato e spinto a dichiarare l’indipendenza da

Mosca, senza la volontà fervente di alcun movimento nazionalista (Kurzman 1999; Ilkhamov

2007; Laurelle 2010). Il nazionalismo uzbeko, e della maggior parte delle cinque ex

Repubbliche Sovietiche, si presenta, dunque, come un interessante contrasto con gli schemi

105

canonici del nazionalismo in un contesto di decolonizzazione. Ciò principalmente per due

aspetti:

a) Esso venne, e tutt’ora viene, sviluppato dall’apparato statale in prima istanza. Emerso

tra le élite della società civile e diretto contro il regime coloniale, il nazionalismo uzbeko si

rigenera all’interno di una struttura statale creata dal regime coloniale, ed è, in effetti,

supportato dalle stesse persone che servirono il regime coloniale fino al giorno prima

dell’Indipendenza. Questo non ha, tuttavia, impedito allo Stato di impegnarsi in temi

nazionalisti analoghi a quelli di nazioni decolonizzate con una maggiore storia di

mobilitazione nazionalista anticoloniale, con l’eccezione della mancata presenza di un forte

“movimento per l’indipendenza”, fondamentale nella storia delle altre nuove nazioni;

b) l’assenza del tema indipendentista, seconda eccezione del nazionalismo centroasiatico,

creò un vuoto logico e storico tra l’identità “nazionale” dell'Asia centrale considerata

primordiale e l'attuale condizione della nazionalità degli Stati appena nati. In un ottica in cui

in molte delle nuove nazioni vengono esaltati movimenti anti-coloniali e movimenti per la

liberazione, in Uzbekistan, invece, viene continuamente soppressa la memoria di quei pallidi

barlumi di nazionalismo affacciatisi sulla scena in un primo momento verso gli anni ’20 del

novecento ed in un secondo momento intono agli anni ’80. A questo proposito, il

nazionalismo in Uzbekistan assomiglia più al “nazionalismo ufficiale” dell'era sovietica che al

nazionalismo anti-coloniale di altre nazioni di recente indipendenza (Kurzman 1999:78-79).

Dall’inizio degli anni‘80 le teorie sul nazionalismo sviluppate dal mondo accademico

occidentale sono state ispirate alle idee del costruttivismo, la cui elaborazione si deve a

numerosi autori che contribuirono, coi propri studi, ad arricchirne la portata, quali: Berger

(1966), con la sua teoria del costruttivismo sociale, Ernes Gellner (1983), Benedict Anderson

(1983), Eric Hobsbawn e Terence Ranger (1983) ecc. (cit. in Ilkhamov 2007). Secondo

l'approccio costruttivista, elementi come “nazione”, “etnia”, “storia nazionale”, “tradizione

nazionale”, devono essere viste, non come entità primordiali, ma come costruzioni sociali,

invenzioni e fantasie dei vari attori in gioco, in primis, delle classi dirigenti ed intellettuali di

ogni stato e società (Ibid.). La maggior parte dei teorici sovietici e post-sovietici di etnologia

sono ancora fortemente legati alla teoria dell’"ethnos" elaborata da Yulian Bromlei

(1973,1983) aderendo alla visione dei concetti di “etnicità” e “nazione” come un prodotto

naturale del processo storico oggettivo. Secondo una concezione di questo tipo, la

106

realizzazione contemporanea delle nuove nazioni sarebbe strettamente legata, ed influenzata,

dal lignaggio etno-storico risalente ad un passato antico (Ibid.)100

.

3.2.1 Mitologia e costruzione della storia nazionale

Come accennato sopra, nei territori dell’Asia Centrale, dopo la caduta dell’Unione

Sovietica si verificò un processo di costruzione dell’ideologia nazionale nonché di arbitraria

riscrittura della storia nazionale. Il ricercato Aliser Ilkhamov (2007), nel suo saggio “National

ideologies and Hisorical Mythology Construction in Post-Soviet Central Asia”, afferma che il

processo di manipolazione della storia finalizzato alla costruzione di un’ideologia nazionale

può essere paragonato ad una vera e propria costruzione mitologica. Tale sottospecie di

mitologia, però, non viene semplicemente ridotta alla classica nozione di mitologia intesa

come un raggruppamento di miti, leggende o storie basate sulla tradizione. La mitologia

nazione, spiega l’autore, può essere considerata come un fenomeno tipicamente moderno

emerso in concomitanza con la nascita della Nazione moderna. Citando la Mitologia di

Roland Barthes, Ilkhamov mostra come questi nuovi discorsi sulla nazionalità vengano

elaborati in ragione della nuova cultura di massa. Quest'ultima, infatti, creerebbe un ambiente

culturale ottimale, in cui, varie mitologie nazionali, sono poste nelle migliori condizione per

emergere e prosperare grazie alla comunicazione di massa (Barthes 1972, cit. in Ilkhamov

2007). Ciò viene sostenuto anche dal sociologo Anthony Smith (2000) che, nel suo libro

Nazione e nazionalismo nell’era globale, afferma:

Vi è un altro attributo dell’eredità premoderna che doveva evidenziare le più profonde conseguenze una

volta ce il processo di modernizzazione cominciò a interessare le differenti aree del mondo: si tratta della

difforme diffusione dell’etnostoria. Con il termine “etnostoria” non intendo un’indagine obiettiva e

spassionata dello storico passato, bensì la visione soggettiva, presente, generazione dopo generazione, di

una determinata unità culturale di popolazione rispetto alle vicende dei loro reali o presunti progenitori”

(Smidth 2000:78)

Similmente alla mitologia antica, il mito della Nazione viene usato non solo per

legittimare la Nazione ed i suoi attributi (nazione territoriale, dominio sui confini, storia,

identità del popolo ecc.), ma, anche, per presentare la leadership come unica garante della

nazione in questione (Ilkhamov 2007). Il concetto sopra espresso può essere riassunto nel

100

Va notato che la persistenza di un approccio primordialista in relazione alla tematica in esame, non è del tutto

accidentale in territori quali il Centro Asia. Essa può essere spiegata, non solo con la mancanza di

consapevolezza circa le nuove idee e tendenze nel campo delle scienze sociali della comunità scientifica, ma,

soprattutto, da specifici interessi dell’élite dominante. Sembra, infatti, che la scuola primordialista trovi tra i suo

più grandi sostenitori figure quali Niyazov, Karimov e Rahmonov. Presidenti, che come mostrerò nel paragrafo

seguente, hanno una forte propensione a raffigurare l'identità nazionale come fissa ed immutabile. Essendo

“guardie ideologiche” dei propri regimi, rifiutano l'idea di cambiamento, di trasformazione e assimilazione come

una traiettoria possibile per il consolidamento nazionale (Ilkhamov 2007).

107

termine coniato da Smith (2000), in accordo con John Amstrong (1982, cit. in Ilkhamov

2007), di mythomoteur, ossia un complesso sistema simbolico utilizzato per la costruzione di

un’ideologia nazionalista. Si può dunque affermare che molte Nazioni nel mondo si siano

servite, e tutt’oggi si servano, di mythomotuer durante il loro consolidamento. Gran parte di

questi sistemi simbolici nascono dall’immaginazione della classe intellettuale o dell’élite

dominante: l’Uzbekistan, ne è senz’altro un valido esempio.

Secondo l’analisi della ricercatrice Liah Greenfeld (1992, cit. in Ilkhamov 2007:92) si

possono distinguere due differenti tipi di nazionalismo: a) civico, in cui l’identità nazionale

viene identificata effettivamente con la cittadinanza, la democrazia liberale e la sovranità

individuale; b) collettivo, che tende ad essere autoritario ed imposto dall’alto.

Entrambi questi due tipi di nazionalismo impiegano miti e simboli nazionali, ma, se

nel primo caso (nazionalismo civico), i mythomoteur sono fattori ausiliari, nel secondo

(nazionalismo collettivo-autoritario) la costruzione mitologica è uno dei pilastri della

formazione dello Stato, in cui le istituzioni divengono strutture chiave di controllo della

produzione del mito (Ibid.). E’ proprio questo secondo tipo di nazionalismo che meglio si

addice alla situazione contemporanea delle cinque Repubbliche del Centro Asia.

Prima di analizzare nello specifico i meccanismi di riappropriazione e costruzione

storica messi in atto dalla Repubblica dell’Uzbekistan, ritengo opportuno mostrare come,

nonostante le caratteristiche ed i parametri di costruzione della mitologia nazionale siano

unici e localmente situati, nella costruzione ideologica di stampo autoritario esistono, tuttavia,

alcuni elementi invariati (Ilkhamov 2007; Kurzman 1999; Reeves, Rasanayagam & Beyer;

Smidth 2000). Gli Stati-nazione autoritari, specialmente quelli in transizione, come nel caso

uzbeko, hanno un proprio set di strumenti per consolidare la Nazione ed imporre la leadership

al popolo. Tali strumenti includono sia mezzi coercitivi che ideologici. La fedeltà del popolo

viene, dunque, garantita attraverso il potere coercitivo ed il potere persuasivo, ciò che

Ilkhamov chiama rispettivamente hard means e soft means (Ilkhamov 2007). La costruzione

dell’ideologia nazionale si compone di due dimensioni rilevanti: a) la raffigurazione della

storia nazionale come unica, certa, rigidamente selezionata dalle altre possibili interpretazioni

(epos-memoria storica); b) la pratica di ricavare, da tale storia, esempi e lezioni utili per la

nazione contemporanea (ethos-regole per il vivere comunitario). Nella tabella elaborata da

Ilkhamov, su epos ed ethos, riportata di seguito, è possibile notare come ognuna di queste due

categorie contenga al suo interno specifici elementi strutturali che, interagendo tra loro,

concorrono alla creazione dell’ideologia nazionale.

Epos: l’immaginario dei propri antenati e della propria storia:

108

- Appropriazione e nazionalizzazione della storia regionale;

- Immaginazione di una golden age nazionale e rivendicazione di una

discendenza antica;

- Rigida identità nazionale;

- Rappresentazione teleologica della storia nazionale.

Ethos: “noi” e gli “altri”:

- Etnocentrismo e politica d’esclusione;

- Etno-narcisismo, immaginario di simboli e virtù nazionali;

- Isolamento, teorie della cospirazione e creazione dell’immagine del nemico.

(Ilkhamov 2007:94)

Di seguito analizzerò, nella loro manifestazione concreta, gli aspetti riportati nella

tabella qui sopra interrogandomi su quali sviluppi essi abbiano avuto nella Repubblica

dell’Uzbekistan post-indipendenza. Integrando il lavoro d’analisi svolto da Aliser Ilkhamov

con altri autori quali Heathershaw (2014), Lurelle (2010), Kurzman (1999), Reeves,

Rasanayagam & Beyer, cercherò di fornire una visione quanto più completa di come l’élite

dominante uzbeka abbia costruito nel corso degli anni la propria Nazione.

Epos: Appropriazione e nazionalizzazione della storia regionale

“La chiamata alla coscienza nazionale è impossibile senza l’attuazione di progetti di definizione del sé

collettivo, in cui la gestione del discorso storico sul passato è l’obiettivo principale” (Laurelle 2010:102)

Con questa frase d’esordio Marlèn Laurell (2010) introduce le riflessioni sul ruolo

delle Accademie nella costruzione dell’ideologia nazionale in Uzbekistan. Nel saggio

“National narrative, ethnology, and academia in post-Soviet Uzbekistan”, mostra come sin

dalla disgregazione dell’Unione Sovietica il paese sia stato obbligato a “calibrare” le proprie

istituzioni su nuovi sistemi simbolici per dare un senso alla propria indipendenza. In un

processo che, come sostiene Ilkhamov (2007), era in parte già cominciato negli anni prima

della seconda Guerra Mondiale, le istituzioni iniziarono a costruire, attraverso mezzi

differenti, un ideologia nazionale “ex novo”. Uno degli strumenti base di questa costruzione

fu il ricorso alla comunità scientifica. Sia le Università che le Accademie scientifiche vennero

chiamate a riconsiderare le proprie ricerche in funzione delle necessità della nazione

emergente. Ciò mise senz’altro in gioco il futuro della comunità scientifica locale, la propria

capacità di sviluppare ricerche indipendenti dall’autorità politica nonché la possibilità di

partecipare attivamente al panorama intellettuale ed istituzionale internazionale (Laurelle

2010). In Uzbekistan, come anche nelle altre Repubbliche ex Sovietiche, l'antica presenza

della Nazione sul territorio fu uno degli aspetti chiave del discorso ufficiale. L'analisi storica

di questo fenomeno assunse toni essenzialisti in cui, gruppi etnici considerati progenitori dello

109

Stato, vennero considerati fatti oggettivi, naturali, il cui sviluppo nel tempo, inevitabilmente,

portò alla creazione della Nazione contemporanea. Inoltre, attraverso un effetto retroattivo, il

discorso nazionalista ufficiale arrivò a proiettare nel passato l'esistenza della nazione uzbeka

recentemente costituita (Ilkhamov 2007; Laurelle 2010; Trevisani 2014).

I cambiamenti avvenuti in Uzbekistan, in periodo post-sovietico, ebbero un enorme

impatto sulla comunità scientifica. L’esodo di massa dei suoi maggiori studiosi in paesi più

avanzati e competitivi, l’improvviso declino delle professioni di prestigio sociale, la

mancanza di mezzi di pubblicazione e la difficoltà di reperire articoli e libri scritti in lingue

occidentali non aiutarono, di certo, la creazione di Accademie e reti universitarie vicine ai

principali settori di ricerca del pensiero contemporaneo (Laurelle 2010). In una società solo

lievemente colpita dall’ondata liberale introdotta da Gorbachev negli anni ’80, la cui

leadership ripiegò su metodi autoritari e paternalistici, l’influenza politica sul mondo

intellettuale divenne un elemento cruciale nella costruzione dell’ideologia Nazionale. Le

istituzioni si arrogarono, così, il diritto di riscrivere la storia, creando un “luogo della

memoria” per lo Stato-Nazione in transizione. Dopo il 1998 il controllo della Storia da parte

delle autorità crebbe notevolmente. Quell’anno il Presidente Islam Karimov convocò una

riunione con i maggiori ricercatori di Storia del paese. In seguito a tale incontro il Parlamento

emanò un decreto “sul miglioramento delle attività dell’Istituto di Storia dell’Accademia delle

Scienze dell’Uzbekistan” (o sovershenstvovanii deiatel’nosti Instituta istorii ANRU).

L’influenza politica sulla disciplina fu esplicitamente affermata già dal primo puto di tale

decreto:

Il Parlamento decreta che lo scopo principale dell’attività di ricerca dell’Istituto di Storia dell’Accademia

delle Scienze dell’Uzbekistan, è lo studio della storia autentica del popolo uzbeko e del suo Stato”

(decreto no 315, 1998, cit. in Laurelle 2010:103)

Attualmente la situazione non vede grandi passi avanti. La Storia contemporanea

rimane ampiamente legata alla volontà governativa. La Sociologia, percepita dal regime al

limite della legalità, viene considerata una disciplina scomoda, in quanto, esaminando

meccanismi sociali, potrebbe potenzialmente offendere i centri del potere (Ibid.). Un’altra

area di ricerca fortemente controllata è l’Archeologia. Essa è, infatti, investita del compito di

confermare attraverso prove manifeste, l’effettiva presenza del popolo uzbeko nel territorio

attualmente occupato dalla nuova Nazione, ricoprendo un ruolo chiave nell’ottica politica di

costruzione nazionale. L’etnologia, infine, è, ad oggi, totalmente al servizio dello Stato. Come

mostrerò anche nel punto riguardante l’immobilismo dell’identità nazionale, sin dall’inizio

110

della transizione del paese, il governo riservò uno spazio relativamente ampio e permeato da

un forte orgoglio nazionale, alla spiegazione scientifica delle origini del popolo uzbeko.

L'affermazione della continuità, non solo del popolo uzbeko, ma anche della loro coscienza

nazionale da tempo immemore, è sostenuta a livello accademico dalla tradizione sovietica

dell’etnogenesi101

(Ibid.). Trovo interessante mostrare come, nelle ricerche accademiche

dell’Uzbekistan contemporaneo, persistano tre elementi costitutivi dell’etnologia sovietica.

Prima di tutto, l’etnologia, in Uzbekistan, viene utilizzata unicamente per ricercare la propria

cultura o, se funzionale al progetto politico, le tradizioni di alcune minoranze stanziate sul

suolo nazionale. La nascita di un’etnologia rivolta alle popolazioni del Centro Asia si

riscontra già in periodo zarista, proseguendo poi durante tutto il periodo sovietico. Tale

impronta di ricerca porta con se una forte connotazione etnocentrica per cui “solo gli uzbeki

sono in grado di studiare il popolo uzbeko” (Ibid:104). In secondo luogo, la disciplina vive

una condizione d’isolamento rispetto alla situazione internazionale attuale. La figura

dell’etnologo è pensata come una sorta di storico che lavora su un determinato popolo, per il

quale egli cerca di dimostrarne la specificità rispetto ai propri vicini, esplorando gli elementi

culturali tradizionali, senza alcun riferimento alle complesse dinamiche vissute nel periodo

contemporaneo (Ibid.). Infine, l’etnologia uzbeka si limita allo studio di ciò che essa

considera tradizionale. Spesso, dunque, si concentra sulla cultura materiale - usanze, costumi,

artigianato, folklore, riti e cerimonie - bypassando l’aspetto ideologico dello studio come, ad

esempio, i fenomeni di ri-tradizionalizzazione (Ibid.). La letteratura etnografica Russa

dell’ultimo secolo rimane la fonte primaria delle ricerche etnografiche uzbeke.

Immaginazione di una “golden age” nazionale e rivendicazione di una discendenza antica

“Il sentimento per la propria patria (vatan), è la cosa più grande di tutte” recita un

cartellone propagandistico di Tashkent (Kurzman 1999:81). Non è affatto insolito, in

Uzbekistan, imbattersi in enormi manifesti, striscioni, targhe commemorative e tabelloni

riportanti i colori della bandiera nazionale, slogan di propaganda nazionalista e primi piani

sorridenti del presidente Islam Karimov (vedi fig. 17-18-19).

101

Un concetto che vide la luce negli anni ’40 e che continuò a dominare la disciplina etnologica senza mai

riconsiderare i propri fondamenti primordialisti: il più rilevante dei quali, si basa sul postulato che l’identità

nazionale si posi sull’individuo come fenomeno certo ed immutabili, non consentendo alcun altro tipo di

affiliazione (Laurelle 2010).

111

Durante la mia permanenza nel paese questo materiale propagandistico era dedicato

principalmente a due commemorazioni: la prima, ripetuta ciclicamente ogni anno, riguarda il

ventitreesimo anniversario del giorno dell’indipendenza; la seconda concerne la

proclamazione, per volere del Presidente Karimov, “dell’anno del bambino sano” (The Year

of Healthy Child), iniziativa giustificata dal materiale promozionale con queste parole:

“Questa è la continuazione naturale e logica della politica di stato che affronta gli aspetti

sociali dello sviluppo nazionale. Fin dall'inizio, la politica dà priorità a un educazione che

faccia crescere armoniosamente i giovani con un corpo sano e una mente sana” (Inflight

magazine Uzbekistan airways 2014). L’ingente uso di questo materiale, talune volte molto

appariscente (come si può notare dalle fotografie), rende bene il senso della connotazione data

da Adams (2010, cit. in Heathershaw 2014:31) agli stati del Centro Asia, descritti come “stati

spettacolari” (spectacular state).

(Fig.17) Materiale propagandistico

riportante la scritta: “L’obiettivo

della nostra patria è avere un futuro

prosperoso ed un paese con una

prospera libertà!”. Foto scattata a

Tashkent il 23/10/2014.

(Fig.18-19) Materiale propagandistico riportante la scritta: “Soltanto una è la nazione sacra, ti amo, o caro

Uzbekistan!”. Foto scattate a Tashkent il 30/10/2014.

112

Vorrei far notare come, nella retorica pubblica, si faccia spesso ricorso alla “figura

retorica” del giovane sano e forte, (“i giovani sono il nostro futuro”, “i giovani necessitano di

un’educazione che faccia loro sviluppare un corpo sano e una mente sana”), ciò potrebbe

essere posto in relazione al fatto che, nell’odierno Uzbekistan, la maggior parte dei lavoratori

forzati alla raccolta autunnale del cotone siano, di fatto, gli studenti. Può sembrare azzardato

ipotizzare un legame diretto tra la retorica statale relativa ai valori della giovinezza ed il

cotone, ma, tenendo conto dell’enorme spazio che il cotone riveste nella vita pubblica del

cittadino uzbeko, nonché del ruolo fondamentale che esso ricopre per lo Stato, ritengo

opportuna tale associazione. Emblematico il cartellone propagandistico riportato sotto (vedi

fig. 20), in cui la frase “i giovani sono il nostro sostegno e la fiducia nel futuro”, capeggia

sopra un gruppetto di studenti allegri e in salute, affiancati dallo stemma di Stato incorniciato

da spighe di grano e batuffoli di cotone.

La cerimoniosità della retorica nazionale, propagandata dal governo, punta molto al

mantenimento dei propri interessi economici, arrivando a creare tutta una simbologia attorno

al cotone, riscontrabile in numerosi simboli di Stato, che facciano sentire il cittadino

profondamente connesso con la produzione di tale materia prima, non a caso lo Stato spesso

diffonde slogan propagandistici riportanti frasi quali “chi non ama il cotone rinnega la propria

cultura” o “il cotone è parte del cittadino uzbeko” ecc. (cit. Zanca 2012).

Dalle precedenti foto si può, inoltre notare, la costante presenza della parola vatan

(patria), ma cosa costituisce il concetto di nazione in Uzbekistan? Un elemento

(fig. 20) Cartellone propagandistico affisso su di un palazzo di Tashkent, la scritta riporta “i

giovani sono il nostro sostegno, e la fiducia nel futuro. Foto scattata il 30/10/2014 nella capitale.

113

imprescindibile è il continuo rimando agli eroi del passato, selezionati dalle istituzioni per

rappresentare la grande tradizione dell’Uzbekistan contemporaneo (Ilkhamov 2007; Kurzman

1999; Trevisani 2007; Kandiyoti 2002). Fornire prove di autenticità delle origini nazionali è

diventata un fattore imprescindibile e di enorme rilievo per le istituzioni, anche in funzione di

una auto-legittimazione (Ilkhamov 2007).

La storiografia ufficiale uzbeka sostiene che l'epoca Karakhanid (X-XI secolo d.C.) sia

la culla della Nazione uzbeka e che le popolazioni nomadi di uzbeki che invasero la regione

agli inizi del XVI secolo vennero semplicemente assorbiti dalla già sedentaria popolazione di

lingua turca che risiedeva sul territorio. Questo paradigma storico dell’etnogenesi del popolo

uzbeko venne elaborata dallo storico sovietico Alexander Yakubovski nel 1941, in seguito

venne, poi, accolto dall’Accademia uzbeka. Quest’ultima introdusse il termine “Uzbekistan

antico” (Old Uzbek) per denotare l’epoca precedente l’arrivo delle comunità nomadi (Ibid.).

Come accennato sopra, la selezione di figure eroiche e di un determinato periodo storico, in

cui identificarsi come discendenti in linea diretta, divengono elementi fondamentali della

costruzione della mitologia nazionale. Il “gruppo ancestrale” deve essere antico abbastanza da

provare le profonde radici storiche della Nazione. Inoltre, tale periodo storico viene

considerato a tutti gli effetti una legittimazione ed un segno di prestigio nazionale. Il legame

tra l’epoca ancestrale e la sua attuale discendenza viene garantito tramite tutta una serie di

simboli nazionali finemente selezionati dall’élite dominante (Kandiyoti 2002; Ilkhamov 2007;

Kurzman 1999). Nell’Uzbekistan contemporaneo sono due le figure principalmente

glorificate come eroi della patria: Amir Timur (1336-1405, conosciuto in occidente col nome

di Tamerlano) e suo nipote, Ulugh Bek (1394-1449). Per le ragioni esposte sopra, ossia far

percepire una continuità con le proprie origini dirette, entrambi appaiono in un’infinità di

monumenti, statue, nomi di vie, piazze ed edifici sparpagliati per tutto il paese, la maggior

parte dei quali andò a sostituire le precedenti figure “idolatrate” di Lenin e Marx (Kurzman

1999). E’ indubbio che entrambi furono due figure storiche di enorme rilievo: Amir Timur fu

un grande condottiero, un signore della guerra che costruì un’florido impero tra Oriente ed

Occidente (l’Impero Timuride), a lui si deve, inoltre, gran parte dell’architettura monumentale

della regione; Ulugh Bek, invece, fu un sapiente astronomo che lasciò una sconfinata eredità

nella lettura delle stelle. Ciò che stride nel racconto ufficiale delle origini, è che i grandi eroi

nazionali non fossero propriamente d’origine uzbeka. Essi provenivano, infatti, da gruppi

etnici mongoli, parlanti una lingua differente dal dialetto turco del Centro Asia. Pare che

Timur, non solo non fosse uzbeko d’origine, ma combatté tale popolo per instaurare la sua

dinastia sul suolo che attualmente chiamiamo Uzbekistan. Quindi, mentre questi due

114

personaggi vengono ideologizzati come eroi nazionali, il popolo uzbeko di quel periodo viene

escluso dall’ideologia nazionale102

. Secondo Edward Allworth (1990, cit. in Kurzman

1999:83), questo tipo di dialettica storica vide gli albori negli anni ’40 del novecento quando

la storiografia sovietica venne chiamata a “costruire” una solida storia per la recente creazione

delle nuove Repubbliche Socialiste. Il problema con le popolazioni uzbeke del XIV-XV sec.

era che esse furono il flagello della Russia, in numerose battaglie sconfissero i suoi re e

saccheggiando le sue terre. Così, piuttosto che rivedere questo spiacevole passato, gli storici

sovietici investirono Amir Timur e la sua dinastia come antenato ufficiale. Infine, l’epoca

degli antenati, viene propagandata, dalle istituzioni, come una sorta di golden age, di cui le

sue migliori qualità e virtù devono servire ad esempio per le generazioni future (Ilkhamov

2007).

Rigida identità nazionale

Come mostrato in precedenza le teorie etnologiche sovietiche e post-sovietiche

rimangono tutt’oggi ancorate ad una concezione di “ethnos” elaborata da Yulian Bromlei

(1973,1983), e vedono in concetti quali “etnicità” e “Nazione” il prodotto naturale ed

oggettivo di processi storici (Ilkhamov 2007). La persistenza di queste teorie primordialiste103

diviene un mezzo significativo nelle mani dell’élite dominante, la quale ne è la principale

sostenitrice. Grazie ad esse il regime rigetta ogni qualsivoglia idea di cambiamento,

trasformazione o assimilazione come possibile strada di consolidamento nazionale. Un

esempio di questo volere omogeneizzante della classe dirigente è senz’altro la vicenda dei

Sarti104

. I Sarti sono un esteso gruppo etnico dell’Uzbekistan contemporaneo. Nonostante la

loro portata demografica, l’ideologia nazionalista ufficiale, insiste sull’idea che la nazione

uzbeka derivi in linea diretta dalla dinastia Timuride (Ilkhamov 2007; Zanca 2011).

102

Per esempio, Muhammad Shaybani (1451-1510), il leader uzbeko che completò la conquista dell’attuale Uzbekistan territorio dell’Uzbekistan, non gode di fama nazionale. 103

Per un approfondimento sulle teorie primordialiste vedi Appadurai (2012), Smith (2000). 104

Sart è vocabolo turco, probabilmente d'origine indiana, avente il significato di "mercante" e di "sedentario" in

opposizione a "nomade", relativo quindi a condizioni particolari di vita senza riferimento a razza o a lingua. In

questo senso s'incontra nel Dīwān lugāt at-Turk di Maḥmūd al-Kāshgharī, composto nel 1066 d. C., dove è

attestata anche l'esistenza di un verbo sartlamaq "considerare (uno) come mercante". In seguito, allorché fu

progredito il turchizzamento dell'Asia centrale (secoli XI-XV), il termine Sart assunse un particolare significato,

applicandosi prima come soprannome e poi come denominazione etnica a elementi della popolazione dell'Asia

centrale che conducevano vita sedentaria, dedicandosi al commercio, all'industria e all'agricoltura. Essi erano

sicuramente d'origine iranica, ma parlavano turco e per questo si distinguevano dai Tāgīk, i quali conservavano

un dialetto iranico. Secondo i calcoli fatti alla fine del secolo XIX i Sarti (o "Irani di lingua turca") erano valutati

a 1.768.655, di cui un milione circa in Asia centrale (Turkestan russo), 700.000 nel khānato di Buchara, 100.000

nell'Afghanistan. Erano musulmani sunniti molto devoti e costituivano quasi una metà della popolazione della

Fergana (Enciclopedia Treccani, disponibile al link http://www.treccani.it/enciclopedia/sarti_%28Enciclopedia-

Italiana%29/).

115

Il principio di evoluzione e sviluppo di una società, inteso come catena di

trasformazioni e assimilazioni, rende l'etnia e la Nazione, delle formazioni dinamiche inserite

appieno in un dialogo aperto all’alterità, e non sistemi chiusi in se stessi. Lo sviluppo di un

popolo, da questo punto di vista, viene percepito come il risultato di numerose interazioni.

Esso è un processo essenzialmente imprevedibile, a tempo indeterminato, aperto e

strettamente dipende dalle specifiche circostanze storiche (Ilkhamov 2007; Smith 2000;

Fabietti, Malighetti e Matera 2012; Appadurai 2012). In antitesi con l’approccio costruttivista

sopra esposto, i regimi di stampo autoritario, qual è l’Uzbekistan, rifiutano l’idea di scambio e

apertura, avviando politiche di auto-isolamento ed etnocentrismo (Ilkhamov 2007). Tali

politiche di chiusura si rifletto ampiamente sull’assetto produttivo del paese. Come sostenuto

nel capitolo precedente, in Uzbekistan, si può riscontrare un complesso sistema di

sfruttamento produttivo (Viti 2007) della classe contadina, ciò deriva in parte dalla condizione

di arretratezza tecnologica e di politiche lavorative antiquate presenti nel paese. Questa

situazione di stallo rende, infatti, il lavoro vivo (manuale e spesso retribuito attraverso materie

prime o scambi di favori) uno dei fondamenti del settore d’impresa primario. Anche se non si

può arrivare a parlare di schiavitù istituzionalizzata, come ad esempio in India col fenomeno

della schiavitù per debiti, o in brasile con il peonagem, il lavoro gratuito è, in Uzbekistan, un

fenomeno estremamente diffuso, retto da un sistema clientelare che vede collaborare le élite

locali con l’élite dominante (Ibid.)

Rappresentazione teleologica della storia nazionale

Non sarebbe corretto sostenere che gli “architetti” dell’ideologia nazionalista in

Uzbekistan siano del tutto contrari ad un concezione mutevole della nazione. Di fatto,

l’ideologia ufficiale accetta una forma di progresso lineare che non implichi necessariamente

trasformazioni e scambi. Ciò è sicuramente riscontrabile in materia di gestione del lavoro

agricolo. Come ho mostrato nel secondo capitolo, dall’indipendenza in poi, le riforme agrarie

introdotte dallo Stato non puntarono mai ad una drastica rottura col passato, più che vere e

proprie riforme esse puntarono a “cambiare forma” all’organizzazione rurale (passando da

sovkhoz, kolkhoz, shirkat a fermer). Fu, dunque, una politica di “trasformazione” prudente e

superficiale, quella attuata dall’Uzbekistan indipendente. Essa cercò di mantenere intatti i

punti forte della gestione produttiva, ossia il monopolio statale sul cotone e sulle risorse

naturali ad esso connesse.

Si potrebbe affermare che gli attori politici uzbeki percepiscano la processualità

storica in maniera teleologica, quasi hegeliana. Un paradigma che schematizzato potrebbe

116

essere rappresentato come un susseguirsi di golden age, inframezzate da periodi di prova o di

attesa per un nuovo imminente e glorioso futuro (vedi es. slogan propagandistico in

fig.17).Non a caso “Il futuro dell’Uzbekistan è di essere un grande stato” è stato uno degli

slogan propagandistici più diffuso nella capitale (Kurzman 1999).

Se dovessi fare una similitudine, paragonerei la propaganda nazionalista ai grandi

muri che circondano la città vecchia di Samarcanda. Eretti per volere dell’amministrazione

Karimov, il loro scopo è nasconde al turista il degrado in cui vive la maggior parte della

popolazione locale (fogne a cielo aperto, tubature obsolete con frequenti fughe di gas, edifici

fatiscenti…). Allo stesso modo, la narrazione sfarzosa della propaganda statale cela oltre le

sue mura il reale declino del proprio paese. La pomposità degli slogan che ricoprono edifici,

cancelli e cartelloni crea un potente contrasto con il degrado e la precarietà di molte zone

dell’Uzbekistan contemporaneo, zone che nel primo capitolo ho descritto attraverso il

concetto di “terzo paesaggio”. La sensazione è, dunque, quella di trovarsi di fronte ad un

paese in cui pomposità retorica e declino viaggiano mano nella mano.

Ethos: Etnocentrismo e Politiche d’esclusione

Theodor Adorno, uno dei più grandi sociologi del novecento, (1959, cit. in Ilkhamov

2007), nella sua opera The Authoritarian Personality, ha dimostrato come esista un legame

diretto tra autoritarismo ed etnocentrismo. Leggendo la realtà attraverso l’ottica interpretativa

dell’autore, si può tracciare un quadro della politica centrasiatica, ed in particolar modo

dell’Uzbekistan, per cui: una volta divenuti il veicolo divulgativo della mitologia di Stato,

Presidente ed élite dominante finiscono per essere essi stessi ostaggi dell’immagine

ideologizzata e distorta del “noi” e “loro”. Le decisioni prese dalla classe dirigente, di

conseguenza, risulteranno essere guidate più dall’ideologia che dalla valutazione della realtà.

L'etnocentrismo, ossia il considerare il proprio gruppo al centro del mondo giudicando

le altre culture in base ai propri valori di riferimento, può essere considerato come una forma

sottosviluppata di nazionalismo moderno che, in linea di principio, presenta la Nazione come

un'entità omogenea trascurando la diversità etnica del proprio dominio territoriale (Ilkhamov

2007). L’etnocentrismo, comportando meccanismi d’esclusione dell’”altro”, genera, inoltre,

disparità tra i cittadini, minando il principio di uguaglianza insito nel termine “cittadinanza”,

così come intesa nel moderno Stato-nazione. In Uzbekistan ciò si concretizza, oltre che nella

chiusura a livello internazionale, anche, nel trattamento ambiguo delle minoranze etniche

presenti sul territorio. A livello ideologico, non è riscontrabile nel paese un aperto conflitto

con tali minoranze, anzi, il regime ama spesso raffigurarsi generoso e cosmopolita, anche in

117

ragione di una sorta di nostalgia per il passato imperiale Timuride. E’, infatti, comune che il

Presidente Islam Karimov, durante i suoi discorsi pubblici, si identifichi e tenti di emulare gli

ideali imperiali di Amir Timur: “se qualcuno vuole capire che cos’è uzbeko, qual è la forza e

la potenza della Nazione uzbeka [...], deve ricordare la personalità di Timur” (Karimov 1997,

Ibid:106). Timur viene presentato al popolo come un sovrano forte, saggio e giusto. La sua

correttezza ricade su tutte le persone, indipendentemente dalla loro nazionalità. Questo spiega

in parte l’impronta di tolleranza che la politica interna uzbeka riserva alle minoranze

etniche105

. Tuttavia, tale menzione di generosità, non supera la connotazione fortemente

etnocentrica dello Stato. L’uguaglianza inter-etnica, propagandata dall’élite dominante, non

ha, attualmente, un riscontro effettivo nell’eguale accesso al potere e alle risorse economiche,

appannaggio esclusivo di esponenti dell’ideologizzata nazionalità uzbeka. Quest’ultima,

inoltre, domina incontrastata nel regno dei simboli nazionali e nella storia ufficiale del paese

(Rahmonov 1999, cit. in Ilkhamov 2007). In Uzbekistan, come anche nelle altre Repubbliche

centrasiatiche, l’etnocentrismo diviene parte essenziale dell'ideologia nazionale. I regimi al

potere preservano tale visione della realtà sociale, in quanto essa è perfettamente funzionale

allo scopo di limitare le libertà civili del popolo e legittimare un clima autoritario (Ibid.).

Etno-narcisismo, immaginario di simboli e virtù nazionali;

L’etnocentrismo prende, spesso, forma attraverso meccanismi di “etnonarcisismo” e

autoglorificazione. Come accennato in precedenza, in Uzbekistan, questi due concetti si

manifestano apertamente nel ridondante ricorso al passato ancestrale dell’impero Timuride.

L’importanza ricoperta dalla simbologia nazionale emerge, anche, dal fatto che essa

abbia un articolato corpo di leggi che ne regolano la legittimità. Durante il mio soggiorno a

Tashkent ho reperito alcuni fascicoli sulla filosofia di Stato redatti, in gran numero, dal

Presidente in persona. Uno di questi titola “Le leggi dei simboli dello Stato nella Repubblica

dell’Uzbekistan” (O’zbekiston Republikasining Davlat ramzlari to’g’risidagi qonunlari

2011). Scritto sia in russo che in uzbeko si articola in tre parti: la prima parte relativa alla

bandiera, la seconda allo stemma dello Stato e alla simbologia in generale e la terza relativa

all’Inno nazionale. Oltre che nelle parole dei discorsi pubblici officiali, etnonarcisimo e

autoglosificazione, si concretizzano nell’ingente quantità di simboli nazionali visibili al

popolo in ogni luogo del paese. In quasi tutte le piazze ci si può imbattere in fiere statue del

105

Nei suoi discorsi pubblici Karimov sottolinea, spesso, che l'Uzbekistan è uno Stato poli-etnico, la cui pace è considerata al di sopra di tutte le minoranze etniche. Sono ,infatti, concessi alcuni diritti e attenzioni ai popoli minoritari: essi sono autorizzati a creare le proprie associazioni culturali; un altro segnale di tolleranza, secondo il Presidente, è il fatto che la stazione Radio Tashkent Internazionale trasmetta programmi in lingue minori, mezz'ora al giorno, per lingua (Zhukova 2002, cit. in Ilkhamov 2007).

118

condottiero Timur, a cavallo, in piedi, seduto sul trono o in compagnia di suo nipote Ulugh

BeK. Tali figure capeggiano inoltre su banconote, giornali e targhe commemorative, i musei

riguardanti la storia ufficiale sono innumerevoli e gli studenti sin dai primi anni di scuola

seguono corsi specifici sulla storia nazionale ufficiale (Ilkhamov 2007; Kandiyoti 2002;

Trevisani 2007; Zanca 2011). L’apparato simbolico nazionale viene inoltre arricchito da tutta

una serie di valori e virtù riconducibili sia al popolo uzbeko che alla sua leadership. Per

esempio, la figura di Timur, come accennato prima, viene associata ad uno Stato forte e

centralizzato, organizzato secondo un ordine stabile legittimamente disciplinato dalle

istituzioni. Un altro esempio può essere ricavato dai discorsi attorno al ma’naviyat106

(spiritualità), una qualità morale e spirituale che egli vede sia come intrinseca all'identità

uzbeka sia come vittima del continuo attacco dei nemici che cercano di danneggiare la

nazione (Kendzior 2014). Fu oggetto di alcuni dei primi saggi e discorsi pubblici di Islam

Karimov, la si ritrova in titoli quali: "Ma’naviyat, onore e orgoglio nazionale", "Ma’naviyat:

la forza della nostra eredità", "Promuoviamo il ma’naviyat e l’illuminazione". Questo

concetto entrò a far parte della propaganda nazionale già dall’inizio degli anni ’90 e trovava

spesso posto in forti immagini retoriche inserite nei discorsi pubblici dell’élite politica:

“Gli essi umani necessitano della spiritualità così come di respirare aria e bere acqua. Così come un

viaggiatore nel deserto che si disseta da una sorgente vitale, anche l'umanità è alla costante ricerca, a volte

dolorosa e difficile, di una fonte spirituale” (Karimov 1992, cit. in Kurzman 1999:88).

In uno dei suoi primi libri il Presidente dedicò un intero capitolo alla connessione tra

ma’naviyat e nazionalismo:

“Consideriamo il restauro dei nostri valori spirituali come un processo naturale derivato dalla crescente

comprensione dell’identità nazionale, di un ritorno alle sorgenti spirituali della gente delle nostre radici”

(Karimov 1992, cit. in Kurzman 1999:89)

Agli inizi degli anni 2000 venne, inoltre, creato un corso di studi chiamato Ma’naviyat and

Ma’rifat (Spiritualità ed Illuminazione), che venne inserito in tutti i gradi d’istruzione

scolastica. Il cuore del corso, chiamato “Ideologia ed Indipendenza”, include molti precetti

riguardanti la vita pubblica, sociale ed individuale di un buon cittadino uzbeko. Comprende

insegnamenti che vanno dall’igiene personale alle regole per vivere serenamente in famiglia

106

Il termine ha origine araba ed entrò in uso tramite la lingua persiana. Il suo significato si trasformò nel tempo. Nella tradizione islamica esso veniva strettamente associato con la fede e con l’accettazione della parola di Dio. Nell’Uzbekistan contemporaneo, ma’naviyat, è diventato un termine per descrivere un essenza spirituale, una qualità morale innata nel popolo uzbeko il cui sano sviluppo dipende dall’intervento dello Stato (Kendzior 2014).

119

ed in comunità. Complessivamente, tale corso si prefigge d’essere una guida di ciò che lo

Stato considera “bene” e ciò che, invece, suppone essere “male” (Ilkhamov 2007).

Si può, dunque, affermare che il contenuto semantico dell'ideologia nazionale

accuratamente costruita e introdotta nei paesi dell'Asia Centrale, e in particolare in

Uzbekistan, si basi su una combinazione di etnocentrismo, patriottismo, valori patriarcali

statici, uniti al sul rifiuto di valori e norme civili di stampo liberale (Ibid.). Ciò si ripercuote

anche nel modo del lavoro contadino. Un esempio di tale fenomeno, può essere riscontrato nel

tentativo dello Stato, di far passare il lavoro coatto della raccolta del cotone come “aiuto alla

Nazione”. Non di rado, infatti, mi è capitato di trovare persone che, interrogate sulla questione

“lavori forzati”, mi abbiano risposto in piena sintonia con l’ideologia nazionale, dichiarando

che essi non sono altro che parte dei doveri di un buon cittadino.

Isolamento, teorie della cospirazione e creazione dell’immagine del nemico

La discussione di questo aspetto mi dà l’opportunità di problematizzare le questioni

finora trattate. Descrivendo l’autoritarismo, la costruzione dell’ideologia nazionale, la

manipolazione della storia e la simbologia statale come fenomeni essenzialmente diretti dallo

Stato, ho forse dato l’idea che, tali fenomeni, vengano imposti ad una società civile amorfa e

fortemente passiva. Nonostante, in effetti, molti autori abbiano parlato della “mancanza di una

società civile fervente” nelle cinque Repubbliche ex Sovietiche, ritengo doveroso spendere

qualche pagina per dare voce ai cosi detti “nemici” della Nazione, e per analizzare come

venga costruita l’immagine del nemico in generale. Questo aspetto, peraltro, è utile per capire

come lo Stato sia in grado di strutturarsi nella forma dominante, attraverso meccanismi precisi

di propaganda, ma anche di uso del diritto, di limitazione delle libertà individuali (quali ad

esempio la libertà di stampa) fino ad arrivare all’uso della forza e del potere esecutivo. Ciò dà

l’idea di come anche le istituzioni giuridiche siano costruzioni intrise di rapporti di potere che

non sempre veicolano ciò che il cittadino riconduce alle proprie categorie di

giustizia/ingiustizia.

Come già dimostrato, l’architettura della mitologia nazionale uzbeka tende a

presentare la Nazione come storicamente chiusa, ossia come un sistema circoscritto che si

dipana nel tempo senza trasformazioni o interazioni con altri sistemi culturali. Tale visione

cerca di isolare il proprio popolo dall’influenza esterna negando, in primis, il fatto che la

maggior parte delle caratteristiche considerate tradizionali siano invece il risultato di continue

trasformazioni, interazioni ed assimilazioni con altri popoli. Di fatto, l’Asia Centrale, è da

sempre stata un melting pot di etnie differenti che crearono le condizioni uniche del suo

120

sviluppo (Ilkhamov 2007). L’etnocentrismo con l’adozione del concetto di “chiusura” della

nazione, vengono spesso seguiti da politiche d’isolamento. Le restrizioni in materia di libertà

personali nell’Uzbekistan contemporaneo sono ancora un problema rilevante, tali restrizioni

vanno dalla mancanza libertà di culto, all’arretratezza in materia di diritti umani, alla,

pressoché inesistente, libertà di stampa. Riporto di seguito alcuni esempi di limitazione e

censura statale: per viaggiare al di fuori dell’Uzbekistan i cittadini devono richiedere un

particolare visto d’uscita valido per due anni, trascorsi i quali devono per legge rientrare nel

paese. La libertà di parola e di espressione trova un ampia disciplina nel sistema normativo.

Nella Costituzione del 1992, l’art. 25 e l’art. 67, sanciscono formalmente la libertà di

“pensiero, parola e convinzioni”, anche all’interno dei mass media, vietando,

paradossalmente, ogni forma di censura. Tuttavia, dal 2004, il governo ha investito il

Ministero della Cultura della selezione dei libri stranieri ammessi nel paese. Tutte le case

editrici e le etichette di pubblicazione devono necessariamente ottenere un permesso speciale

dal Ministero per essere abilitate a pubblicare libri o altro materiale informativo. Nel 2002 è

stato inoltre affinato il sistema di censura nazionale sui mezzi di comunicazione (Ibid.). Circa

il 26,8% della popolazione ha la possibilità di accedere ad una connessione internet, alla rete

sono state imposte le stesse identiche leggi restrittive riguardanti la carta stampata. Nell’art. 6

della legge sui media, lo Stato pone una serie di limiti alla libertà di parola, autorizzando la

censura ad ogni tipo di propaganda per: terrorismo, estremismo, separatismo,

fondamentalismo e pornografia. L’autorità, dunque, vista la genericità e l’ampiezza della

norma, gode di un ampio margine d’intervento, potendo rendere inaccessibili siti internet con

motivazioni superficiali quali “violazione della legge” o “non conformità” (Artese 2011)107

.

Nella visione teleologica della storia descritta in precedenza, nell’arco di tempo tra il

tramonto e l’ascesa di una nuova golden age, vi sono momenti di passaggio in cui la nazione

può essere messa alla prova da situazioni di sofferenza e pericolo. E’ parte fondante

dell’ideologia nazionalista dell’Uzbekistan ritenere che la causa di tali sofferenze sia causata

da forze esterne alla nazione (Ilkhamov 2007). Andando oltre la mera dottrina del

nazionalismo, si può affermare che, tale visione, cela una dicotomia archetipica della

mitologia inclinata verso la semplificazione del quadro mondiale come divisione di due forze

opposte – “bene” e “male”, “noi” e “loro”. La percezione del mondo in maniera dicotomica ed

oppositiva, coincide, nella mitologia nazione, con la percezione della storia, considerata

un'arena di lotta tra “bene” e “male” (Ibid.).

107

Per un approfondimento sulla libertà di stampa si veda Artese (2011), in particolar modo pp. 442-458.

121

Secondo quest’ ottica duale, dunque, l’autorità di dichiarare ciò che è moralmente

accettabile per lo Stato racchiude implicitamente in sé, anche, l’autorità di dichiarare ciò che

deve essere considerato immorale e punibile per legge. Il concetto di ma’naviyat, sopra

analizzato, viene utilizzato dallo Stato non solo per divulgare i “buoni” principi del cittadino

modello, ma, anche, per designare chi deve essere considerato al di fuori dei confini morali

dello Stato. Secondo gli stessi meccanismi lo Stato delinea, inoltre, il profilo del “buon

lavoratore”. Relazionato all’industria cotoniera, esso dovrebbe senz’altro racchiudere in se i

valori “eroici” riconducibili al condottiero Timur, dovrebbe essere forte, valoroso e fiero del

proprio contributo alla Patria. Dovrebbe inoltre essere grato dei mezzi che lo Stato mette a sua

disposizione, macchinari, sistema irriguo e materiale per la produzione per quanto riguarda i

fermer, appezzamenti privati di tamorka e ko’sumcha tamorka per quanto riguarda il dekhon.

In regimi di polizia, come quello uzbeko, che opprimono la propria società civile, la

costruzione di modelli “idealtipici” da un lato e la costruzione di nemici dello stato dall’altro

divengono mutualmente dipendenti (Kendzior 2014). Vorrei soffermarmi qui sull’analisi del

nemico come oppositore politico. In quest’ottica, come afferma Begoña Aretaga (2003, cit. in

Kendzior 2014:227), “il criminale, il terrorista o una qualsiasi altra figura minacciosa

posseggono facce famigliari, famigliari ma strane, strane nella loro familiarità”. Non potendo,

in questa sede, offrire un’analisi approfondita dell’argomento, mi limiterò ad apportare

l’esempio del rifugiato politico Nasrullo Sayyid.

Nasrullo Sayyid è in fuga dal 2005, quando attraversò il confine per scappare in

Kyrgyzstan dopo la condanna per aver divulgato una canzone di protesta legata ai fatti del

massacro di Andijan. Ex membro del Parlamento, affiliato al partito d’opposizione Erk,

Nasrullo ha un mandato di cattura emanato dalla sua città natale, Bukhara, essendo stato

etichettato come "terrorista estremista religioso" da parte dello Stato che un tempo servì

(Kendzior 2014). Venne arrestato per la prima volta nel 1994, dopo un’irruzione inspiegabile

nella casa di famiglia, in seguito alla quale la milizia dichiarò di aver trovato due granate nel

guardaroba della camera dei bambini. Incarcerato per due mesi, venne infine condannato ad

un anno di lavori forzati ed arresti domiciliari108

. Da quel momento rimase un bersaglio facile

108

Le condizioni di detenzione per gli oppositori politici, i difensori dei diritti umani e gli esponenti di partiti o

movimenti islamici possono essere particolarmente crudeli. Ex detenuti che hanno trascorso del tempo nelle celle

di punizione le descrivono come piccole stanze di cemento, prive di finestre, riscaldamento e areazione naturale

e senza spazio sufficiente per il letto, tanto che ai detenuti viene portata una stretta brandina per la notte che

viene tolta il mattino seguente. Raccontano di essere stati frequentemente picchiati dalle guardie carcerarie e

dagli altri detenuti, che è stato negato loro l’accesso alle cure mediche e che sono stati costretti ai lavori forzati,

come la produzione di mattoni e opere di muratura, senza abbigliamento adatto per proteggersi dalle temperature

gelide d’inverno e torride d’estate e con cibo e acqua insufficienti.

(http://www.amnesty.it/flex/FixedPages/pdf/stop-tortura/uzbekistan.pdf)

122

della persecuzione statale, fino alla sua fuga nel 2005. Ciò che è particolarmente interessante

di questa vicenda è che, dopo aver letto un libro pubblicato da Islam Karimov riguardante

delle riflessioni sulla moralità del popolo uzbeko, Nasrullo sentì la necessità di scriverne uno

in risposta, intitolato Five Recollections of “High Morality” (Cinque ricordi di “grande

moralità”). Il libro è una riflessione autobiografica in merito alle vicende d’incarcerazione e

persecuzione subite dal rifugiato durante gli anni in patria. La pagina d’esordio di questo libro

recita così:

“Recentemente, a Tashkent Islam Karimov ha pubblicato un nuovo libro. Ho letto in un reportage che

questo libro si intitola La grande Moralità, una forza invincibile. Non ho avuto la possibilità di leggerlo,

ma sono certo che Karimov avrà espresso il punto di vista riguardo alla sua “grande Moralità”, che ha

costruito in Uzbekistane nel corso degli ultimi 18 anni […] Oggi i sostenitori di Karimov predicano dalle

loro altre tribune, le loro assurdità di "alta moralità", mentre la società uzbeka affonda nella palude della

propria immoralità. So che è sbagliato tacere. La base della società uzbeka è morta - le bugie, l'inganno e

la corruzione sono la malattia morale della nostra nazione, e non c'è altra scelta che parlare di quanto in

basso siamo sprofondati. Ovviamente il governo dell’Uzbekistan non avrà interesse riguardo alla mia

opinione sul libro di Karimov, io sono ciò che loro chiamano un rappresentante della muxolifat

(opposizione). E nell’Uzbekistan contemporaneo che ha costruito Islam Karimov non c’è posto per la

tolleranza delle visioni individuali, o per le opinioni di qualcuno come me” (Nasrullo n.d., cit. in

Kendzior 2014:224)

La categoria di muxolifat, di cui parla Nasrullo, raggruppa tutte quelle persone

considerate dal regime nemiche della patria, descritte dalla propaganda nazionalista come

“inefficaci, disorganizzate e litigiose” (Kendzior 2014).

La storia di questo rifugiato politico è rilevante sul piano analitico non solo perché ha

avuto il coraggio di contestare pubblicamente la versione ufficiale di ma’naviyat promulgata

dal Presidente, ma perché, facendo ciò, egli è andato contro anche alla categoria parallela di

criminalità. Per Karimov come per i suoi oppositori, lo stato della moralità e la moralità dello

Stato finiscono per intrecciarsi. Entrambi impiegano il concetto di ma'naviyat come un modo

per situare un discorso ben più ampio legato alla criminalità, ed entrambi collegano,

direttamente o indirettamente, il ma'naviyat al concetto di minaccia. Per Karimov, le minacce

alla Nazione uzbeka vengono dall’esterno e non colpiscono gli apparati statali in sé, ma il

ma'naviyat stesso del popolo. I muxolifatchilar (nemici della Patria), come Nasrullo, non

vengono mai inseriti nella propaganda nazionalista, vengono solo etichettati come criminali,

indegni persino di entrare nella discussione in merito alla moralità della nazione.

E’ interessante riflettere sulla discrasia riscontrabile tra la morale propagandata dallo

Stato e le concrete condizioni di sfruttamento produttivo in cui versa la maggior parte della

popolazione rurale del paese. Lo Stato, infatti, attraverso l’opera mistificatoria della

costruzione di una morale nazionalista cerimoniosa e carica di ideali positivi, propone al

123

popolo un’immagine distorta della realtà, funzionale al mantenimento dei rapporti di potere

favorevoli all’élite dominante. Tale riflessione può essere arricchita, a livello analitico,

considerando il dibattito scientifico attorno alle economie morali. Un contributo rilevante a

tale proposito è, senz’altro, quello dello scienziato politico James C. Scott. Questo studioso,

riferendosi all’antropologia economica di Raymond Firth, studiò alcune importanti rivolte

contadine nel sud-est asiatico. Lo fece ricorrendo al concetto di economia morale per

riconoscere le zone liminari fra il tollerabile e l’intollerabile nella gestione politica dei

rapporti di produzione. In questione erano le concezioni popolari e inscritte nella quotidianità

di equità sociale, reciprocità, diritto alla sussistenza, rapporto con le élites, le forme di

resistenza (per esempio quelle che si esprimono attraverso i «discorsi nascosti» di cui si

occuperà in seguito Scott) e, attraverso l’analisi dei micro-conflitti, la lettura delle rivolte e

delle loro fonti. Gli individui elaborano, non meccanicamente, delle concezioni di giusto e

ingiusto a partire dalle loro condizioni di vita, e in questa prospettiva l’interesse delle analisi

di Scott era quello di mostrare come a un sistema di sussistenza corrispondesse un’etica della

sussistenza, nel quadro di una specifica economia morale (Alunni 2013). La nozione di

economia morale può, dunque, diventare uno strumento che permette di analizzare un sistema

di legittimazione (nel nostro caso lo Stato), capace di cogliere simultaneamente le diverse

istanze che attraversano il campo sociale, il tutto a partire dalle concezioni di giusto e

ingiusto. Nel nostro caso tali riflessioni possono essere utili se riferite, per esempio, a ciò di

cui esposto sopra, a un’elaborazione differente del concetto di ma'naviyat di cui i

muxolifatchilar si fanno portavoce. Se, oltre che negli spazi istituzionali e nei discorsi

pubblici, pensiamo alla morale come insieme di disposizioni incorporate, allora è sicuramente

interessante analizzare quei momenti di riflessività in cui disposizioni incorporate, quindi

inconsce, vengono problematizzate e assunte riflessivamente, diventando così atti morali

consci, come nel caso di Nasrullo e della sua critica al ma'naviyat di Stato.

124

CONCLUSIONI

In una annotazione di Rumer (1987:82) ripresa da Spoor (1993:12) si legge:

“L’Uzbekistan ha intrapreso un lungo e tragico esperimento – che ha messo in luce la capacità

della monocultura di corrodere non solo l’agricoltura, ma anche l’industria, l’educazione, la

salute e infine anche la moralità pubblica”. Trovo che questa frase rappresenti la conclusione

appropriata di questo mio lavoro. Tali parole, infatti, rendono l’idea di come il cotone in

Uzbekistan non sia solo un prodotto d’esportazione: esso, al contrario, costituisce il fulcro di

un complesso sistema di clientelismo e sfruttamento, tanto del lavoro quanto dell’ambiente,

intriso di politiche autoritarie e gerarchiche.

Ho strutturato la tesi in modo tale che l’industria cotoniera uzbeka fosse il mio punto

d’accesso alle dinamiche di asservimento lavorativo, interconnesse allo sfruttamento delle

risorse naturali, legittimate e perorate dall’apparato statale. Gli obiettivi che mi ero prefissata

riguardavano l’indagine delle condizioni di lavoro della classe contadina del paese, come tali

condizioni fossero legate all’accesso alle risorse, nonché allo sfruttamento dell’ambiente, e

come entrambe si trovassero fortemente intricate a meccanismi di potere riconducibili alla

forma centralizzata ed autoritaria del regime centroasiatico. Queste domande di ricerca mi

hanno permesso di discutere tematiche riconducibili a vari ambiti dell’analisi antropologica

(antropologia dell’ambiente, antropologia del lavoro, prospettiva storica), articolando un

percorso che tiene insieme campi di riflessioni distinti.

Ho innanzitutto analizzato come il cotone sia stato il motore primo di tutta una serie di

interventi ambientali volti a potenziarne la produzione. Prendendo in esame il caso specifico

del prosciugamento del Lago d’Aral mi sono soffermata sulla componente politica del

disastro ecologico concludendo che la gestione e l’accesso all’acqua e al sistema irriguo

diviene un fondamentale mezzo Statale per il controllo sull’agricoltura (sul cotone in

particolare, necessitando di ingenti quantità d’acqua) e sui suoi lavoratori.

Tramite lo studio delle comunità rurali in transizione e la nascita dei nuovi soggetti

produttivi (fermer e dekhon), inoltre, ho mostrato come, nonostante nella politica agraria il

governo pretenda di “deregolarizzare” e “destatalizzare” il settore, nella realtà dei fatti esso

continui ad esercitare un forte controllo sull’agricoltura (in particolar modo sul cotone).

Questo, da un lato, attraverso il mantenimento del monopolio statale sulla proprietà della

terra, sull’export del cotone grezzo, sulle quote di mercato e sui prezzi, dall’altro attraverso

una forte ingerenza da parte delle autorità governative locali (hokim) in tutti gli aspetti

dell’agricoltura, dalla pianificazione delle attività agricole dei fermer, fino al monitoraggio

capillare dei processi di produzione, raccolta e commercializzazione (Trevisani 2007). Ho

125

mostrato, inoltre, che anche dopo gli interventi di decollettivizzazione delle campagne, i

rapporti tra dekhon (micro imprese a conduzione familiare), fermer (nuovi imprenditori

agricoli subentrati ai shirkat) e autorità governative rimangono attualmente contradditori. Tali

contraddizioni nascono da riforme agrarie che, se da un lato puntano alla decentralizzazione

dei poteri, dall’altro mirano a contenere i cambiamenti sostanziali restando quanto più

possibile legate al modello sovietico di stampo collettivo (kolkhoz). Per le ragioni sopra citate

sono arrivata alla conclusione che, in Uzbekistan, in cui vige un regime definibile

neopatrimonialista, si possa riscontrare attorno al sistema agrario, e in particolar modo

riguardo alla produzione cotoniera, un complesso sistema di sfruttamento produttivo

particolarmente gravoso per la classe contadina (dekhon). Tale sistema si sviluppa su più

livelli; infatti, la relazione tra dekhon e fermer ha forti parallelismi con la relazione tra Stato e

fermer (Veldwisch 2008). I fermer, che appaiono patroni (punti forti) nella relazione coi

dekhon, sono a loro volta coinvolti in rapporti di dominio e dipendenza se relazionati allo

Stato. Quindi, come i fermer si trovano obbligati al soddisfacimento delle quote di produzione

imposte dal governo su grano e cotone, per poter accedere al mercato del riso, così i dekhon si

trovano obbligati a svolgere lavori duri e spesso non retribuiti nelle piantagioni di cotone dei

fermer, per accedere a risorse e protezione necessarie al mantenimento di uno standard di vita

dignitoso. Ovviamente si consideri che la rete di dipendenze che emerge è un fenomeno molto

complesso e non si articola in una semplice struttura gerarchica piramidale. E’ certamente

chiara la riproduzione di relazioni fortemente asimmetriche, ma la divisione dei poteri non

può essere inquadrata all’interno di modelli statici. Ciò è principalmente dovuto al fatto che in

Uzbekistan, la trasformazione del sistema economico è attualmente ancora in corso

(Kandiyoti 2002; Djanibekov, Bobojonov & Lamers 2012; Veldwisch & Bock 2011;

Veldwisch 2008).

Ho integrato quanto detto ad un’approfondita analisi storica che dal periodo di

dominazione russa si dipana fino ai giorni nostri. Questa prospettiva mi è servita per mostrare

come le dinamiche legate allo sfruttamento produttivo, alla rete clientelare che preclude

l’eguale accesso alle risorse, nonché al carattere autoritario dello Stato, siano in parte

riconducibili ad un’eredità sovietica. Dalla mia analisi mostro, dunque, come vi sia una linea

di continuità tra periodo sovietico e periodo post-sovietico, la cui comprensione, a mio parere,

diviene di fondamentale importanza per la trattazione dei temi di questo lavoro.

Ho, infine, analizzato come lo Stato, attraverso meccanismi di riscrittura della storia

nazionale, retorica ideologizzata, uso del diritto e del potere esecutivo così come di

coercizione e violenza, non controlli solo la vita produttiva del paese, ma limiti le libertà

126

personali del suo popolo mistificando le reali condizioni di degrado e corruzione attraverso

una fitta propaganda e un capillare sistema di controllo locale.

Come accennato in precedenza, l’Uzbekistan, così come tutta la regione centroasiatica,

è nel pieno di una importante transizione economica, politica ed amministrativa ed è

sicuramente interessante seguire le trasformazioni in corso per constatare se, come avvenuto

in precedenza, ai mutamenti di forma corrispondano anche cambiamenti di sostanza. Cotone

di Stato, le due parole chiave del titolo si fondono nella mia analisi fino a diventare l’una

specchio dell’altra.

127

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