Upload
unimib
View
0
Download
0
Embed Size (px)
Citation preview
1
Università degli Studi di Milano Bicocca
Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione Riccardo Massa
Corso di laurea Magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche
COTONE DI STATO
Sfruttamento del lavoro e risorse naturali nella Repubblica dell’Uzbekistan
Relatore: Dott. Antonio De Lauri
Co-relatore: Prof.ssa Alice Bellagamba
Tesi di Laurea Magistrale di:
Sara Maniscalco
Matricola 770827
Anno Accademico 2014-2015
2
RINGRAZIAMENTI
Desidero innanzitutto ringraziare il dott. Antonio De Lauri per i suoi preziosi
insegnamenti, per essere stato un importante punto di riferimento, un’ispirazione, un mentore,
anche al di là di questo preciso lavoro di tesi. Lo ringrazio per aver creduto in me, per avermi
seguita con estrema serietà e dedizione, dedicandomi tempo ed energie. Grazie alla sua
estrema preparazione e alla passione che riversa nel suo lavoro ha arricchito, non solo la mia
capacità analitica, ma anche la sensibilità con la quale approcciarsi a determinate tematiche
dell’antropologia contemporanea. Grazie, inoltre, alla mia correlatrice, la professoressa Alice
Bellagamba, ed al progetto Shadows of Slavery in West Africa and Beyond. A Historical
Anthropology (SWAB), ERC GA 313737, che ha finanziato il mio periodo in Uzbekistan. In
relazione a questa bellissima esperienza, non posso non ringraziare mio fratello Davide, per
aver condiviso con me quei giorni meravigliosi che, da sola, ammetto sarebbero risultati un
po’ più impegnativi. Sei stato un fratello maggiore esemplare, grazie. Ringrazio, ovviamente,
mio padre e mia madre, per non avermi mai fatto mancare l’appoggio ed il calore di una
famiglia. Supportandomi durante tutto il mio percorso formativo, sapendomi consigliare e
criticare positivamente nelle scelte prese sin ora. Ci sarebbero moltissime altre persone da
ringraziare, dagli interlocutori con cui ho potuto scambiare informazioni fondamentali durante
il mio viaggio, tra questi Дильшод Рафиев e la sua famiglia; alle persone che mi sono state
vicine durante i mesi della scrittura, tra loro un ringraziamento speciale va a Stefano
Malatesta per la disponibilità all’ascolto e l’amicizia di questo ultimo anno.
3
INDICE
Abstract ................................................................................................................................................................... 4
INTRODUZIONE ................................................................................................................................................... 5
1. CENNI STORICI .............................................................................................................................................. 9
1.1 GLI ZAR E LA SOTTOMISSIONE DEI GRANDI KHANATI: .................................................................. 9
1.2 IL CROLLO DELL’IMPERO E L’ASCESA BOLSCEVICA: ................................................................... 17
1.3 “RICONQUISTA” E DELIMITAZIONE NAZIONALE: ........................................................................... 22
1.4 L’EPOCA DELLE REPUBBLICHE SOCIALISTE E L’IMMINENTE CROLLO .................................... 29
1.5 L’UZBEKISTAN POST-SOVIETICO ........................................................................................................ 33
2. SFRUTTAMENTO DEL LAVORO E GESTIONE DELLE RISORSE NATURALI: ACQUA, TERRA,
COTONE NELLE TRASFORMAZIONI AGRARIE DELL’UZBEKISTAN POST-SOVIETICO ...... 36
2.1 LA QUESTIONE DEL LAGO ARAL ......................................................................................................... 36
2.2. WATER USERS ASSOCIATIONS (WUAs): PIANIFICAZIONE,............................................................... 47
2.3 COMUNITA’ RURALI IN TRANSIZIONE: RIFORME AGRARIE E NUOVI........................................ 49
2.3.1 Prima fase (1992-1998): Dal Sovkhoz al Kolkhoz ................................................................................... 53
2.3.2 Seconda fase (1998-2003): dal Kolkhoz al Shirkat ................................................................................. 56
2.3.3. Terza fase (2003-2008): Decollettivizzazione ....................................................................................... 62
2.3.4 Quarta fase (dal 2008 in poi): Ottimizzazione ........................................................................................ 73
2.4. POLITICHE DI PRODUZIONE DEL COTONE ....................................................................................... 74
2.4.1 Pianificazione: i fermer e la produzione del cotone ................................................................................ 77
2.4.2 L’organizzazione del lavoro ................................................................................................................... 80
2.4.3 Lavoratori sfruttati .................................................................................................................................. 81
3. STATO DI CONTROLLO ............................................................................................................................. 85
3.1 NEO-PATRIMONIALISMO ....................................................................................................................... 85
3.1.1 Presidenzialismo e autoritarismo ............................................................................................................ 88
3.1.2. La cultura della politica locale: i clan d’élite ....................................................................................... 100
3.2. IDEOLOGIA NAZIONALE E RETORICA DI STATO .......................................................................... 104
3.2.1 Mitologia e costruzione della storia nazionale ...................................................................................... 106
CONCLUSIONI .................................................................................................................................................. 124
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 127
4
Abstract: Questo lavoro di tesi è orientato all’analisi storica e antropologica di cruciali
dinamiche legate alla produzione del cotone nella Repubblica dell’Uzbekistan. L’intento
ultimo è di riflettere su come lo sfruttamento del lavoro e, in particolare, dei “lavoratori della
terra”, di pari passo con lo sfruttamento delle risorse ambientali, sia fortemente intrecciato a
politiche di centralizzazione del potere nonché direttamente legittimato dall’autorità dello
Stato tanto da poter parlare di sfruttamento istituzionalizzato o sfruttamento produttivo (Viti
2007:256). L’industria cotoniera è il mezzo tramite cui precise dinamiche di “asservimento”
vengono attuate attraverso l’uso del diritto e del potere esecutivo, il controllo sulla terra e sui
prezzi di mercato, la costruzione di miti e ritualità di Stato, la limitazione e il controllo delle
libertà individuali.
(*) Tutte le citazioni riportate in questo lavoro, trascritte in italiano e non in lingua originale,
sono state tradotte da me.
5
INTRODUZIONE
Il Centro Asia è una regione notoriamente difficile da definire. Rispettando una
visione cartografica generale, essa comprende le terre incorniciate tra il Mar Caspio e alcune
grandi catene montuose: dalle sponde del mare si estende verso nord fino alla punta degli
Urali, da est verso il centro dove incontra i monti Altai e Tien Shan e a sud fino all’Hindu
Kush (Sahadeo & Zanca 2007). Le Repubbliche post-sovietiche presenti in questi territori
sono entità politiche relativamente giovani. I confini nazionali che le connotano, derivano in
linea diretta dal dominio bolscevico che, modellando la regione sulla base delle entità
amministrative zariste del Turkestan, “creò” Kazakhstan, Kyrguzstan, Tajikistan,
Turkmenistan e Uzbekistan. Per i suoi cittadini, il Centro Asia rappresentava e tutt’ora
rappresenta una regione di grandi promesse, ma anche profonde iniquità. Le promesse, dopo il
crollo dell’Unione Sovietica, presero forma in nove opportunità di mobilità sociale ed
espressione culturale. Le iniquità, invece, si legarono a dinamiche politiche ed economiche
autoritarie, con l’imposizione di severe restrizioni ad attività indipendenti concorrendo al
divario tra ricchi e poveri. Il mio lavoro di tesi è, almeno in una certa misura, legato proprio a
queste iniquità. Le pagine che seguono sono, infatti, finalizzate all’analisi storica ed
antropologica di cruciali dinamiche legate alla produzione del cotone nella Repubblica
dell’Uzbekistan. L’intento ultimo di questo lavoro è riflettere su come lo sfruttamento del
lavoro e, in particolare, dei “lavoratori della terra”, di pari passo con lo sfruttamento delle
risorse ambientali, sia fortemente intrecciato a politiche di centralizzazione del potere nonché
direttamente legittimato dall’autorità dello Stato tanto da poter parlare di sfruttamento
istituzionalizzato o sfruttamento produttivo (Viti 2007:256).
Le chiavi di lettura che ho utilizzato rimandano a diversi ambiti dell’analisi
antropologica. Nell’analizzare le problematiche relative allo sfruttamento delle risorse naturali
mi sono ispirata a particolari teorie elaborate dall’antropologia dell’ambiente, in particolar
modo a quelle relative alla New Ecological Anthropolgy (Kottak 1999). L’antropologia del
lavoro, comprendente il filone di ricerca sulle nuove forme di schiavitù e sugli asservimenti di
tipo produttivo, sono stati la mia lente interpretativa per guardare le relazioni di potere
riprodotte all’interno dell’industria cotoniera uzbeka. Dinamiche, queste, in cui lo Stato,
attraverso retoriche nazionaliste e politiche autoritarie, diviene la figura centrale di una catena
di sfruttamento particolarmente onerosa per i membri della classe contadina. Ho ritenuto,
inoltre, fondamentale collocare tale riflessione in una prospettiva storica per mostrare come,
nonostante ci si aspetti che le strutture sovietiche non condividano nulla col sistema di stampo
liberale contemporaneo, vi sia, invece, una continuità politico-economica che, a mio parere,
6
spiega molti aspetti dell’attualità dell’Uzbekistan. Il mio tentativo è quello di tenere insieme
la riflessione sullo sfruttamento delle risorse naturali con il fenomeno dello sfruttamento del
lavoro al fine di fornire un quadro utile per comprendere i profondi squilibri sociali e il
“logorio ambientale” che hanno contraddistinto la nascita e il consolidamento dello stato
uzbeko.
Pur avendo deciso sin dalle prime fasi di progettazione di questo scritto che la mia tesi
non sarebbe stata basata su un lavoro di ricerca etnografica vera e propria, ho comunque
voluto recarmi nel paese per un periodo compreso tra ottobre e novembre 20141. Il desiderio
di fare esperienza tangibile dei fenomeni raccontati da altri nella letteratura antropologica mi
ha spinto a viaggiare tra le più importanti città uzbeke. Ho seguito un itinerario abbastanza
tradizionale che dalla capitale, Tashkent, mi ha portato fino a Bukhara, passando per
Samarcanda e Urgut, un paesino agricolo limitrofo al “cuore pulsante della via della seta”.
Nonostante l’enorme scoglio comunicativo, dato dal fatto che nel paese la maggior
parte della popolazione parla solo russo o uzbeko, lingue che io sfortunatamente non pratico,
ho, comunque, intrattenuto alcune conversazioni informali molto interessanti ed utili con i
pochi che parlassero inglese: commercianti di spezie, proprietari di guesthouse, taxisti,
studenti e una studentessa italiana in Erasmus a Samarcanda. Nei primi giorni trascorsi a
Tashkent ho avuto modo di scontrarmi con la rigidità di una città fortemente politica2, in cui
edifici governativi tappezzati da marmo lucidissimo o ricoperti da pannelli di vetro scuro,
svettano sontuosi tra il reticolo di enormi vie cementificate. Una città il cui passato sovietico
si respira nell’aria e si concretizza in elementi architettonici come, ad esempio, la “tenebrosa”
metropolitana, ricoperta da immensi mosaici a tinte cupe e fievolmente illuminata da
lampadari in stile barocco. Altrettanto palpabile è, di contro, il tentativo messo in atto dal
neonato Stato indipendente di mistificare il suo vistoso passato. Gli enormi murales ispirati
alla tradizione persiana, arricchiti da particolari tipicamente uzbeki (fiori di cotone, frutti
stilizzati di melograno e mandorla), o l’invasiva e appariscente propaganda nazionalista
1 Il viaggio è stato finanziato dal progetto SWAB, GA 313737.
2 C’è chi sostiene, come il giornalista Fabio Belafatti, che percorrendola ci si renda conto che tutto, dalla
disposizione delle vie alle dimensioni degli edifici, segue una logica politica ferrea. A partire dalle strade, che a Tashkent sono larghissime ed incredibilmente inutili, per una popolazione di due milioni di abitanti. Si possono facilmente vedere viali a sei corsie, autentici monumenti allo spreco, dove al massimo si incrociano un paio di Daewoo e qualche vecchia Lada. Sempre secondo le informazioni del giornalista in realtà, questi nastri d’asfalto avrebbero una funzione d’ordine pubblico ben precisa. Sarebbero, infatti, funzionali all’esercizio del potere sulle masse: strade così larghe non possono essere occupate da folle inferocite. Non possono essere bloccate da rivoltosi, o chiuse da barricate durante proteste popolari. L’esercito, invece, può muovervisi rapidamente per schierare mezzi e divisioni antisommossa; e può reprimere eventuali rivolte simili a quelle che, nel vicino Kirghizistan, deposero due presidenti in soli cinque anni. (Belafatti 2010, disponibile al sito web http://www.erodoto108.com/tashkent-anatomia-di-unarchitettura/)
7
affissa nei luoghi più disparati, ne sono un’ottima riprova. Durante i miei spostamenti da una
città all’altra, attraverso la linea ferroviaria, mi sono imbattuta in vaste distese di campi
coltivati a cotone, alternati da piccoli villaggi rurali e solcati da una miriade di canali
d’irrigazione. Pur non essendo stata una vera e propria etnografia, l’esperienza in Uzbekistan
mi è stata d’enorme aiuto nella strutturazione del mio percorso d’analisi. Grazie a questo
viaggio ho arricchito i dati provenienti dallo studio della letteratura con esperienze personali
che mi hanno permesso di mettere in discussione alcuni preconcetti dati da una visione
ingenua e comprendere più profondamente il senso e l’intento del mio lavoro. Come scrive
Duilio Giammaria nell’incipit del suo libro Seta e Veleni
Ogni viaggio obbliga all’abbandono di qualche certezza. Si viaggia meglio se si lascia
dietro di sé una parte di quello che si conosce. Ogni viaggio infatti produce la percezione della propria
ignoranza e quasi mai conferma gli assunti o le idee di partenza. Viaggiare è un’esperienza che coinvolge
tutti i sensi e richiede ogni energia e capacità di cui si dispone (Giammaria 2009:5).
Ho strutturato la tesi in tre capitoli:
1) Il primo capitolo è orientato all’analisi storica dei più importanti avvenimenti che portarono
il cotone ad essere il protagonista indiscusso dell’economia dell’Uzbekistan contemporaneo.
Qui mostro come la coltura, già presente nell’epoca dei grandi Khanati, venne enormemente
potenziata durante il dominio zarista di fine ‘800, fino a raggiungere la sua massima
espressione con l’ascesa del potere sovietico. Affronto, inoltre, temi quali la capacità
coloniale di sfruttare meccanismi di dominio basati sul divide et impera, avvicinando la
riflessione sul colonialismo sovietico alla lente interpretativa foucaultina legata al biopotere e
alla biopolitica nell’ottica che Appadurai elabora in relazione al colonialismo britannico in
India. L’intento fondamentale di questo capitolo è mostrare come, già dai primi anni di
dominazione, iniziò a prendere forma una fitta rete di rapporti di potere legati alla produzione
dell’“oro bianco” riscontrabile anche nell’attualità.
2) Nel secondo capitolo mi concentro sull’interazione tra sfruttamento ambientale e
sfruttamento lavorativo. Nel primo paragrafo mi occupo della questione del prosciugamento
del Lago Aral mostrando, attraverso la chiave di lettura di alcune teorie d’antropologia
ambientale nonché della teoria del terzo paesaggio di Guillet Clément, la natura politico-
economica delle controversie ecologiche e le sue conseguenze sociali e culturali. Attraverso
un’analisi delle riforme agrarie dall’indipendenza ad oggi, cerco inoltre di delineare un profilo
delle comunità rurali in transizione e dei nuovi soggetti produttivi scaturiti da politiche
centralizzate statali. Essendo l’Uzbekistan una nazione in piena transizione politica ed
economica, ciò che mi interessa mostrare in questo capitolo è come, nonostante i cambiamenti
8
formali nell’organizzazione agricola, la sostanza alla base della produzione (del cotone in
particolar modo) e dei rapporti di sfruttamento del lavoro, sia rimasta molto simile al periodo
sovietico. Nei paragrafi specificatamente dedicati alla produzione del cotone mostro, infine,
come nel paese si possa parlare di una catena di relazioni di potere (e sfruttamento) basate su
clientelismo, quote di produzione, controllo del mercato e diseguale accesso alle risorse.
3) Nel terzo capitolo, infine, affronto la questione del controllo statale, della sua
composizione e delle retoriche nazionaliste che esso produce. Attraverso gli studi sul
neopatrimonialismo analizzo le dinamiche legate all’autoritarismo statale, mostrando come
esse si riproducano fortemente nell’industra cotoniera tanto da far si che essa divenga il
mezzo tramite cui precise dinamiche di “asservimento” vengono attuate attraverso l’uso del
diritto e del potere esecutivo, il controllo sulla terra e sui prezzi di mercato, la costruzione di
miti e ritualità di Stato nonché la limitazione e il controllo delle libertà individuali.
Grazie al supporto del progetto Shadows of Slavery in West Africa and Beyond. A
Historical Anthropology (SWAB), ERC GA 313737, ho potuto trascorre un periodo in
Uzbekistan e ho avuto modo di confrontarmi con tematiche di grande rilevanza oltre ce di
grande interesse. Il lavoro di tesi, infatti, è stato un percorso che mi ha permesso di allargare i
miei orizzonti d’interesse e, allo stesso tempo, di approfondire questioni che ritengo
particolarmente importanti per capire il mondo in cui viviamo: sfruttamento umano e
ambientale.
1. CENNI STORICI
1.1 GLI ZAR E LA SOTTOMISSIONE DEI GRANDI KHANATI:
9
L’AVVIO DELLA COLONIA DEL COTONE
Prima di articolare in maniera più approfondita i temi accennati sopra, è interessante
chiarire quali furono gli avvenimenti storici più rilevanti che portarono il cotone ad essere un
elemento fondamentale per la politica e l’economia dell’Asia centrale e in particolar modo
dell’ Uzbekistan.
Nel corso del medioevo fino all’avvento dell’impero zarista i territori dell’Asia
centrale erano suddivisi principalmente in tre grandi Khanati3 musulmani: Khiva, Bukhara e
Kokand. Città stato feudali con confini non ben delineati, in cui convivevano popoli di etnie
differenti che, secondo la grossolana logica classificatoria derivata dalla futura potenza
coloniale4, potremmo identificare come uzbeki, turkmeni, kazaki ecc. Questi tre nuclei di
potere, oltre ad essere legati da precari rapporti commerciali, si caratterizzavano per i
frequenti conflitti tra élite dominanti volte ad ottenere la supremazia sui territori dell’antica
via della seta. Una delle debolezze maggiori all’arrivo degli invasori, infatti, fu proprio questa
mancanza di mutuo soccorso, tale che i khan di Kokand, Bukhara e Khiva , da tempo in
guerra tra loro, si resero disponibili a scendere a patti coi russi a scapito gli uni degli altri
(Filatov – Malašenko 2000).
Di fatto la Russia zarista iniziò ad avanzare pretese espansionistiche sui territori
dell’Asia centrale agli inizi del XIX sec.. In origine fu un espansione volta a limitare
l’avanzata inglese, che dall’India spinse i suoi confini verso l’Afghanistan e successivamente
verso le regioni centro asiatiche. Molti storici sono soliti parlare di “Grande gioco”5
3 Khanato ‹ka-› (meno com. canato) s. m. [der. di khan]. – Territorio soggetto alla giurisdizione di un khan; può
voler significare, anche, la giurisdizione stessa. Khan s.m. - dal turco kân, di orig. mongolica; propr. ‘signore’
(Dizionario Hoepli 2011). 4 Infatti, a partire dalla seconda metà dell’800 la potenza coloniale zarista diede vita alla regione del Turkestan,
un raggruppamento di vaste aree dell’asia centrale all’interno di un'unica colonia. Essa confinava a nord con la
Regione delle steppe, a occidente con il mar Caspio, a oriente con la Cina e a sud con la Persia e l’Afghanistan.
Col primo censimento si stimò che la popolazione fosse intorno ai 5 milioni di abitanti. Era divisa equamente tra
nomadi e sedentari. Il censimento dell’imperò catalogò la popolazione secondo appartenenze etniche. Vennero
identificati quali gruppi sedentari uzbechi, sarti e tajichi, e come gruppi nomadi i kazachi, kirgizi e i turkmeni.
Una divisione grossolana dettata da esigenze di catalogazione e controllo. Per un maggior approfondimento vedi
Buttino (2003). 5 David Fromkin (2002), pag. 29: “Sembra che il primo a usare l'espressione «il Grande Gioco» sia stato un
ufficiale britannico di nome Arthur Conolly. Pur essendosi battuto con coraggio e intelligenza lungo la frontiera
himalayana e tra i deserti e le oasi dell'Asia centrale, egli finì col perdere, e pagò, un prezzo terribile. Un emiro
uzbeko lo tenne prigioniero per due mesi in un pozzo in cui faceva gettare rettili e vermi; infine, ciò che restava
dell'ufficiale venne estratto dal pozzo e decapitato. L'espressione «il Grande Gioco» fu trovata in un suo
quaderno di appunti, e adoperata da uno storico della prima guerra afghana. [John W. Kaye, History of the War
in Afghanistan, 1851, London] In seguito, Rudyard Kipling le diede la celebrità servendosene in Kim, il romanzo
che narra le imprese di un ragazzo angloindiano e del suo mentore afghano, impegnati a sventare minacciose
trame russe lungo le vie di comunicazione con l'India.”
10
riferendosi a questa disputa coloniale, che culminò con la negoziazione della “Durand Line”6,
una convenzione anglo-russa con la quale vennero fissati i confini di dominio tra Russia e
Inghilterra.
Appurato il primo intento di arginare l’espansione anglosassone, come ogni imperialismo
dell’epoca, anche quello zarista non ebbe esclusivamente obiettivi di ordine politico-militare,
gli strumenti di dominio andarono al di là delle armi. Agli inizi degli anni Settanta
dell’Ottocento l’intento di riprendere la campagna militare in Turkestan, momentaneamente
sospesa per far fronte alla guerra in Crimea, fu caldamente sostenuta e spalleggiata da
importanti circoli industriali e commerciali di San Pietroburgo e Mosca. L’interessamento a
quelle terre di mezzo nasceva dal fatto che l’industria tessile russa stava attraversando una
crisi legata al taglio delle importazioni di cotone grezzo proveniente dagli Stati Uniti. Con
l’esplodere della guerra civile americana, infatti, i rapporti di import della materia prima
ebbero un brusco arresto. Industriali e mercanti russi chiesero dunque aiuti finanziari al
governo per importare il cotone grezzo dall’Asia centrale, soprattutto da Bukhara (Buttino
2003):
“Da queste parti il cotone si era sempre lavorato. Il tessuto di cotone è leggero, robusto e anche sano:
copre e tiene freschi. Da secoli manteneva un prezzo vantaggioso, dato che se ne fabbricava poco: limite
imposto allora (come oggi) dalla cronica mancanza d’acqua dei tropici, Per aumentarne la produzione si
sarebbe dovuto sottrarre acqua ai giardini, tagliare i boschi, sterminare il bestiame. Ma in tal caso di che
vivere, che cosa mangiare? Un dilemma millenario, noto in tutto il mondo, dall’India alla Cina, dall’
America all’Africa. E Mosca? Ovviamente era noto anche a Mosca” (Kapuściński 1994:250).
Le parole del documentarista polacco risuonano qui come un preludio all’invasivo
sfruttamento delle risorse avvenuto negli anni della dominazione, e oltre, di cui parlerò nei
paragrafi seguenti. Dunque, le élite industriali appoggiarono caldamente la conquista militare
sperando di ottenere un ritorno economico concretizzato in una maggior fruizione del cotone
grezzo (Buttino 2003:20).
Nel 1860 la Russia conquistò gran parte del khanato di Kokand. Tashkent7 cadde nel
1865, due anni dopo vi si stabilì il Governatorato generale. L’ultima a cadere fu Khiva,
Alessandro II “per lei” progettò una campagna di conquista in gran stile. Quattro spedizioni
6 Con la messa in atto di tale provvedimento nel 1893, Sir Montimer Durand, segretario degli Esteri del Raj
britannico, stabilì i margini del confine di separazione tra India e Afghanistan (che attualmente separano
Pakistan e Afghanistan). Una demarcazione che è rimasta motivo di contrasto per gli afghani, soprattutto per i
pashtun, etnia che venne suddivisa dal nuovo confine in due diversi stati (De Lauri 2012). 7 Città principale del Turkestan e la città russa dell’Asia Centrale per antonomasia. Capitale coloniale
dell’Impero ed attuale capitale dell’Uzbekistan. Per avere un quadro più approfondito della complessità di
dinamiche presenti in questa città e degli sviluppi nel corso della dominazione vedi Buttino (2003) cap. 2 pp. 23-
48.
11
giunte da diverse direzioni attraverso la steppa tra i fiumi Syr Daria e Amu Daria
circondarono il khanato, il signore della città stato si arrese dopo una sanguinosa difensiva, gli
yomut8 furono sterminati e nel 1873 gli Zar proclamarono la provincia autonoma del
Turkestan nominando protettorati russi i khanati di Khiva e Bukhara. L’espansione fu
accompagnata da una campagna stampa serrata, incoraggiata dall’allora ministro degli Esteri
M. Gorčakov, in nome della “missione civilizzatrice” della Russia, del contenimento del
“fanatismo islamico” e dell’apertura di nuove terre alla colonizzazione dei contadini russi
(Benvenuti 1999:42). Da subito l’impero zarista comprese che la ricchezza del Turkestan
risiedeva nel cotone, e nel giro di affari connesso alla sua produzione e al suo commercio. Col
continuo appoggio delle industrie tessili venne introdotto nella colonia il cotone americano,
considerato più pregiato di quello tradizionalmente prodotto nell’Asia centrale.
Le prime piantagioni videro la luce nei dintorni di Tashkent già all’indomani della conquista
della città (Galuzo 1929, cit. in Buttino 2003:50). L’obiettivo che si prefisse l’impero era
quello di estendere le terre coltivate per la produzione del cotone su vasta scala. Ciò che è
interessante notare, anche al fine di comprendere meglio tutta una serie di relazioni legate
oggi all’industria cotoniera in Uzbekistan, è come, già nei primi anni della dominazione,
iniziò a prendere forma un’intricata rete di interessi che avviluppava nelle sue maglie politici,
militari, esponenti delle élite locali, contadini russi e “mussulmani”9, accumunati dal desiderio
di lucro offerto dallo sviluppo di questo settore. Le nuove piantagioni erano considerate,
infatti, un’ottima occasione di guadagno. Vi fu una sorta di “corsa all’oro” che coinvolse
commercianti, funzionari, ufficiali dell’esercito e tutti coloro che avevano possibilità di
investire denaro o che in qualche modo erano in grado di ottenere crediti. Ma i primi tentativi
di gestione diretta della produzione fallirono, principalmente per l’incapacità di comunicare
con la popolazione indigena. Quest’insuccesso portò quindi a una nuova strategia di
avvicinamento. Al fine di sopperire alle difficoltà comunicative si creò un ceto di mediatori10
che fecero da ponte tra le imprese commerciali russe e i produttori locali. Le aziende
contadine indigene non riuscirono mai, negli anni, ad arricchirsi a tal punto da diventare
autonome nella gestione del commercio del cotone. In effetti si iniziò qui a delineare una certa
8 Un gruppo etnico nomade facente parte del khanato di khiva, scesero in battaglia contro le truppe sovietiche in
difesa del proprio “regno”. Per approfondimenti sulla vicenda della conquista di Khiva si veda l’articolo di Ron
Sela (2006) disponibile da http://dx.doi.org/10.5169/seals-147713. 9 Uso qui il termine “musulmani” nell’accezione che Marco Buttino ne fa in La rivolta capovolta, ossia con
riferimento agli autoctoni dell’Asia Centrale, in contrapposizione ai coloni russi, arrivati in queste terre in
seguito all’avanzata zarista. 10
Si trattava di membri dei villaggi che avevano familiarità con la lingua russa e che conoscevano
personalmente il produttore locale. La mediazione avveniva nel momento in cui il produttore acquistava la
materia grezza dal coltivatore, la raffinava in piccole fabbriche di proprietà, e la rivende a industrie commerciali
russe.
12
rete di rapporti di potere legati al credito molto significativa. I contadini musulmani, per far
fronte alla domanda di materia prima e agli investimenti necessari alla produzione, fecero un
costante ricorso al credito. Furono i mediatori a fornire denaro, spesso pagando in anticipo le
quote di cotone non ancora raccolto (Bartol’d 1963, cit. in Buttino 2003:51). Parallelamente a
ciò si sviluppò anche un sistema di credito che poggiava sulle banche e sulle imprese
commerciali russe che ebbe come primi fruitori i mediatori. Ne derivò così un circuito di
credito secondo cui il destinatario ultimo del denaro, ossia il contadino, si trovò spesso a
dover pagare tassi d’interesse altissimi. Gli ingenti interessi derivati dalla nascente industria
spinsero l’impero ad allargare rapidamente la quantità di aree coltivate.
“Nel 1902 le piantagioni avevano un’estensione di 195.000 desyatina11
; nel 1912 erano cresciute a
385.000 desyatina e nel 1915 a 524.000, pari circa al 16% della terra coltivata in Turkestan. Il cotone
prodotto, tranne una piccola parte destinata al consumo locale, viene mandato in Russia: si tratta di 6.000
migliaia di pud12
nel 1902 che sono salite a 14.000 nel 1912. Le coltivazioni del Turkestan hanno così
assunto un’importanza centrale nell’economia dell’impero: forniscono il 33% del cotone utilizzato
dall’industria tessile russa nel 1900 e ne forniscono il 43% nel 1910.” (Buttino 2003:52)
Ne conseguì la diminuzione delle aree coltivate a grano tanto che dagli inizi del XX secolo il
Turkestan ne divenne importatore dalla Russia.
Questo periodo storico è particolarmente interessante ai fini dell’analisi dei temi da me
trattati, perché mostra come i russi sin da subito siano riusciti a legare l’economia della
colonia a quella dell’impero, creando una nuova élite locale con ruoli di collaborazione. Per la
stabilità del regime coloniale, infatti, era fondamentale che i ceti di mediazione sopra citati si
mantenessero in grado di controllare i produttori collaborando regolarmente con il centro
(Mosca), e che la domanda di cotone fosse relativamente stabile e a prezzi accettabili.
Volendo analizzare i primi anni di dominazione russa sul territorio centrasiatico, è
senz’altro opportuno dedicare qualche pagina anche al fenomeno dell’immigrazione contadina
russa e al difficile rapporto tra questa e la popolazione locale. Scoppiarono molti conflitti per
la ridistribuzione delle terre, fomentati anche dalle ondate di carestia e povertà che colpirono
la provincia del Turkestan agli inizi del ‘900. E’ interessante riflettere su tali migrazioni anche
in considerazione del fatto che esse non furono un evento isolato di questo preciso periodo
storico: come vedremo, le ondate migratorie legate al lavoro avrebbero interessato le regioni
del Turkestan anche negli anni successivi al crollo dell’Unione Sovietica (Aslan 2008).
11
Desyatina (in russo Десятина) era un tipo di misurazione arcaica della terra in vigore nella Russia zarista.
Equivaleva approssimativamente a 2.702 acri o 10,925 metri quadrati. 12
Pud (in russo пуд) era un'antica unità di misura russa pari a 40 libbre, ossia 16,3805 kg. È stata abolita nel
1924 dall'Unione sovietica insieme ad altre unità di misura obsolete russe.
13
Originariamente l’immigrazione russa, perlopiù di contadini, fu una pratica volutamente
incoraggiata e sponsorizzata dal governo. E’ d'altronde noto che le ondate migratorie fecero
coda a quasi tutte le grandi colonizzazioni moderne dal XVI al XX sec., basti pensare alla
conquista dell’America o dell’America Latina, uno degli elementi che rese stabili queste
grandi colonizzazioni, di fatto, fu lo stabilirsi di coloni migranti dal centro verso i territori
occupati. In questi termini si può dunque definire l’immigrazione come un ulteriore strumento
di dominio che, nel corso della conquista, si affianca alle armi e al commercio.
In epoca zarista la motivazione principale che spingeva un contadino russo ad emigrare nei
territori dell’Asia Centrale era la possibilità di reperire terre fertili e non ancora coltivate. Più
della metà dei migranti si stabilì fuori dalle città. Ciò rese la presenza russa più capillare e,
non più, prerogativa esclusiva delle città, facendo in modo che l’impero fosse meno esposto a
possibili rivolte dei musulmani. Si crearono così zone abitate da una popolazione europea
fedele all’amministrazione centrale pronta a rifornire, attraverso la propria produzione
agricola, l’esercito e la popolazione civile immigrata nelle città. Inoltre destabilizzò il potere e
l’economia pastorale delle tribù nomadi, creando nuove vie d’accesso al regime coloniale.
A ben vedere le migrazioni iniziarono già dagli anni quaranta dell’Ottocento, ancor prima
della presenza militare zarista. A spostarsi furono prevalentemente cosacchi provenienti dalla
Siberia che, volontariamente, occuparono zone limitrofe al confine con la Cina. Qualche
centinaio di famiglie allettate dalla possibilità di reperire terre nuove e supportate dal governo
attraverso l’esenzione dal servizio militare e dall’esenzione provvisoria dal pagamento delle
tasse per qualche anno (Pierce 1960, cit. in Buttino 2003).
Dagli anni settanta e soprattutto in seguito ad una grave carestia di inizio anni novanta
dell’Ottocento, le migrazioni si fecero via via più consistenti. Nel 1906, con la Riforma
Stolypin13
il governo sovietico liberalizzò l’immigrazione in Asia Centrale aprendo le porte a
un flusso di contadini poveri in cerca di terre da coltivare (Zanca 2011). L’amministrazione
del Turkestan si trovò così a fronteggiare l’ingente insediamento dei coloni. Il numero dei
contadini immigrati era elevato: circa 30.000 uomini con le loro famiglie si insediarono alla
fine del 1908 (Palen 1910, cit. in Buttino 2003). Questi grandi flussi migratori furono, oltre
che un mezzo per perseguire il fine coloniale, il risultato di riforme agrarie del governo
13
Inizialmente le autorità centrali compresero le difficolta d’inserimento dei migranti che l’amministrazione
della provincia del Turkestan dovette affrontare e, nel 1896, misero un freno alle migrazioni nei territori
coloniali. Tuttavia nonostante il divieto essa continuò in modo spontaneo, senza aiuto o regole di Stato. La
decisione di liberalizzare l’immigrazione venne presa a causa della carenza di terre fertili nelle regioni europee e
a causa delle agitazioni contadine sempre più frequenti.
14
centrale14
. Tra il 1910 e il 1914 vi furono circa 20.000 nuovi arrivi all’anno; solo nelle
campagne del Semirech’e15
la popolazione russa passò da 67.000 persone nel 1897 a 255.000
nel 1914 (Galuzo 1965, cit. in Buttino 2003). Si capisce, dunque, come la migrazione russa fu
una migrazione di massa che avvenne relativamente in pochi anni e che interessò in maggior
misura la regione del Turkestan. Questo processo fortemente invasivo portò a forti tensioni tra
i coloni russi, e tra questi e le popolazioni locali, specialmente come detto prima con le
comunità nomadi. Ciò che maggiormente mi interessa sottolineare in relazione alla questione
migratoria è il sistema di spartizione delle terre dettato dall’amministrazione coloniale e la
conseguente sedentarizzazione della popolazione nomade indigena. Prendendo ad esempio
l’analisi storica che Buttino (2003) fa dell’insediamento dei coloni nei territori della provincia
del Semirech’e, delineerò i punti chiave di un sistema di relazioni subordinanti basato sulla
proprietà e sull’affitto della terra.
Dagli inizi del ‘900 possiamo distinguere quattro tipologie di immigrati: i cosacchi, i
contadini di vecchia immigrazione, i coloni arrivati spontaneamente regolarizzati in un
secondo momento dall’amministrazione coloniale e i coloni che non hanno ancora
istituzionalmente ottenuto la terra. La distribuzione e l’estensione della terra data in cessione a
questi quattro gruppi era notevolmente ineguale. I cosacchi di fatto furono i più favoriti nella
spartizione terriera, al punto che furono in grado di affittare terre ad altri coloni russi o a
nomadi che decisero di diventare sedentari. Si formò cosi un sistema di proprietà e privilegi
piramidale che costrinse gli ultimi coloni arrivati, privi di denaro e possibilità di credito, a
lavorare come braccianti alle dipendenze di cosacchi o coloni di vecchia immigrazione. Vi fu,
inoltre, una categoria di contadini che svolse mansioni differenti nelle città, in attesa di
ottenere la regolamentazione. Di anno in anno le richieste per l’ottenimento di terre fertili da
parte dei contadini russi divennero sempre più pressanti, e l’intento iniziale di non influire
eccessivamente sulla vita delle comunità nomadi iniziò a vacillare (Ibid.).
A causa dell’aumento delle terre coltivate tali popolazioni incontrarono difficoltà via via più
consistenti a raggiungere col bestiame pascoli e torrenti secondo le abituali vie d’accesso.
Occorre ricordare che la popolazione nomade e seminomade dell’area in analisi si componeva
principalmente di gruppi kirgizi e kazachi, più una piccola percentuale di gruppi kalmyki
provenienti dalla Cina. I nomadi disponevano anche di insediamenti (zimovka) dove veniva
14
Per un maggior approfondimento sulle riforme agrarie attuate nell’impero sovietico, dalla metà dell’800 in poi,
si veda Benvenuti (1999), in particolar modo i capitoli secondo e terzo, pp. 41-110. 15
L’ oblast del Semirech’e (in russo Семиреченская область, letteralmente "Terra dei sette fiumi") era una
provincia dell’ impero coloniale russo. Corrisponde attualmente alla parte sud-est del Kazakhstan e nord del
Kyrgystan. Fu creata dai territori della parte nord del Khanato di Kokand, antecedentemente furono territori
appartenenti al Khanato Kazako.
15
tenuto il bestiame al riparo durante l’inverno, e in cui una parte dei nomadi stessi viveva tutto
l’anno occupandosi del foraggio dell’agricoltura16
. Con l’arrivo dei coloni russi questa pratica
di semi-stanziamento divenne sempre più frequente. Il progressivo abbandono del
nomadismo, indotto dalla nuova situazione coloniale, venne percepito rispettivamente come
segno di impoverimento e di crisi dalle comunità tribali, e come fatto positivo dalla comunità
russa. Già nel 1891 venne emanata una legge coloniale per cui le terre che tradizionalmente
appartenevano ai nomadi divennero proprietà dello Stato17
. Questa legge non venne mai
modificata, ciò che cambiò fu piuttosto la rigidità con cui l’amministrazione giudicava “in
eccesso” le terre nomadi. Al fine di requisire sempre più terra i russi si arrogarono diritti
inesistenti fino ad accusare le comunità kirgize e kazake di creare nuovi zimovka
esclusivamente per non perderne l’uso. Considerate sempre più occupazioni abusive la
maggior parte delle terre venne data in concessione ai coloni.
Vi furono poi compagne apertamente volte alla conversione dei nomadi in sedentari,
nel 1908 il consiglio dei ministri di Pietroburgo decise che le famiglie nomadi che si fossero
convertite alla vita sedentaria avrebbero avuto diritti eguali ai russi in fatto di terra. Ciò,
tuttavia, non creò grosse modificazioni, le comunità di fatto non erano interessate a rinunciare
al nomadismo. In sintesi, negli anni antecedenti alla prima guerra mondiale, le pressioni sulle
comunità nomadi si fecero più pesanti che in passato. L’impero zarista stava provocando una
crisi nell’economia pastorale senza offrire alternative effettivamente praticabili (Ibid.).
Riflettendo dunque sulla prima fase della colonizzazione a livello generale si può
affermare che, fin quando fu la monarchia a capo della regione, l’ordinamento istituzionale
preesistente non cambiò a livello formale; vi fu piuttosto la conversione del medesimo verso
un assetto politico centralizzato con a capo Mosca, in cui cariche chiave delle istituzioni locali
furono assegnate a esponenti dell’élite russa. L’indebolimento dell’élite tradizionale fu
ottenuta anzitutto con la forza delle armi, con la conquista del territorio ed escludendo da
qualsiasi posizione di potere il Khan e gli Emiri; vennero poi colpiti gli interessi materiali su
cui vertevano i gruppi di potere musulmani. I russi intervennero nei rapporti agrari, attraverso
16
L’organizzazione dei nomadi aveva quale elemento base la kibitka (“carro”) che indicava un nucleo familiare
ristretto; circa 200 kibitka formavano un aul ossia un gruppo di nomadismo; la stipula di un’alleanza tra più aul
vveniva sancita attraverso rapporti di consanguineità, o presunti tali, e formava una tribù (Palen 1910, cit. in
Buttino 2003: 62). 17
Legge “Vysochajshe utverzhdennoe polozhenie ob upravelenii oblastej Akmolinskoj, Semipalatinskoj,
Semirechenskoj, Ural’skoj i Turgajskoj i ob ismenenii nekotorykh statej Polozhenija ob upravlenii
Turkestansskogo Kraja” del 5 maggio 1891 (articoli 119, 120, 125) pubblicata in Polnoe sobranie zakonov
Rossiiskoj Imperii, vol. XI, San Pietroburgo, 1894, pp. 133-147. Prevedeva che tutte le terre usufruite dalle
comunità nomadi passassero in mano allo Stato, tuttavia essi poterono continuare a servirsene secondo le loro
necessità. Però con tale provvedimento le terre considerate dallo stato come eccedenti potevano essere confiscate
e date in concessione a coloni russi e a nomadi che si fossero sedentarizzati.
16
riforme dei regimi di proprietà della terra che sfavorivano la popolazione locale. Imposero che
le terre del mil’k18
venissero espropriate e date ai contadini che le lavoravano. In egual modo
operarono per indebolire la ricchezza del clero musulmano attraverso una nuova
regolamentazione delle terre del waqf19
(Filatov – Malašcenko 2000; Buttino 2003). In tal
modo l’impero limitò sia la ricchezza dell’aristocrazia e dei funzionari del khan, sia quella
delle istituzioni religiose musulmane.
Con l’imposizione di queste politiche di controllo, l’amministrazione russa si trovò a
fronteggiare resistenze e rivolte in tutto il paese. Solitamente le rivolte vennero capeggiate da
ishan di tariqua sufi20
e supportate da membri dell’aristocrazia ed esponenti militari dell’ex
amministrazione del khanato, da artigiani delle città impoveriti dalla concorrenza russa, da
contadini che versavano in condizioni precarie e da membri delle comunità nomadi
espropriati. Tuttavia, il merito, se così possiamo chiamarlo, del nuovo assetto coloniale
risiedette nel mascheramento formale del potere. Come detto prima l’Impero cercò di
mantenere pressoché intatto l’assetto istituzionale, affiancando alla rappresentanza locale
quella russa e cercando di coinvolgere tanto la popolazione immigrata quanto quella locale.
Come spiega lo storico:
“la nuova gerarchi si fondò su due principali criteri: la territorialità e l’elettività. Sia nelle regioni dei
nomadi, che in quelle dei sedentari, l’amministrazione fa capo a un funzionario russo, nominato dal
governatore generale. A questo funzionario, che in genere è un militare, fanno riferimento i rappresentanti
della popolazione locale; i livelli bassi dell’amministrazione sono dunque la sede principale della
mediazione politica tra regime coloniale e popolazione locale.” (Buttino 2003:61)
A consolidamento dell’annessione all’impero venne inoltre portata avanti la creazione
di reti di comunicazione nuove, prima fra tutte quella ferroviaria.
1.2 IL CROLLO DELL’IMPERO E L’ASCESA BOLSCEVICA:
IL POTENZIAMENTO DELLE MONOCOLTURE
La situazione coloniale appena descritta vide una rapida svolta a partire dal 1919,
all’indomani della Rivoluzione d’ottobre di San Pietroburgo. Fu infatti il mutare della politica
sovietica nel corso della prima guerra mondiale a innescare una situazione di crisi nella
colonia. E’ considerevole sottolineare però che già le violenze scoppiate nell’estate del 1916
18
Terre concesse dal Khan ai membri dell’aristocrazia e a funzionari del khanato. 19
Proprietà delle istituzioni caritatevoli musulmane, formate da donazioni personali al clero musulmano. Parte di
queste terre era gestita direttamente dall’istituzione religiosa, parte veniva gestita da privati che in cambio
versavano una tassa sul raccolto per pagarne l’uso. 20
Capi spirituali appartenenti a confraternite musulmane.
17
fecero presagire l’instabilità su cui poggiava il regime coloniale zarista, infatti, all’indomani
dell’esplosione della Guerra vennero a galla le conseguenze dell’eccessiva pressione che lo
Stato perpetrò a danno della colonia. Tutta l’Asia Centrale fu pervasa da rivolte che
interessarono trasversalmente l’intera popolazione; si ribellarono i musulmani nelle città, i
coloni, i contadini e, soprattutto, i nomadi. Notevoli furono anche le proteste delle donne, i
così detti bab’i bunty21
(Viola 2010). Tuttavia gli animi vennero velocemente smorzati dalla
sanguinosa repressione messa in atto dalla milizia sovietica.
Come suggerisce Buttino (2003) è necessario considerare la “paura” che tale rivolta
provocò nell’amministrazione coloniale per comprendere il successivo cambio di rotta nei
rapporti con la regione: ogni compromesso con la comunità musulmana venne abbandonato e
i russi reagirono con aggressioni a scapito delle comunità nomadi che portarono a massacri ed
espulsioni. Ciò che più mi interessa mettere in luce a questo punto è l’ingente sfruttamento
economico del Turkestan che caratterizzò gli anni della prima guerra mondiale. Prima di tutto
vennero aumentate le tasse, si chiese alla popolazione di versare contributi “volontari” in
denaro che ben presto persero il loro carattere spontaneo per divenire obbligatori, furono
inoltre attuate requisizioni a tappeto di beni utili all’esercito: yurte (tende nomadi), cavalli,
cammelli, carri ecc..
Agli albori della prima Guerra Mondiale il Turkestan sodisfaceva più della metà della
domanda russa di cotone, e divenne di cruciale importanza durante il suo svolgimento fino ad
arrivare a fornire l’intera quota cotoniera richiesta dall’impero. Tutto il cotone utilizzato
dall’industria tessile russa e da quella militare proveniva dalle piantagioni coloniali, in
particolar modo dalla regione del Fergana. Scrive Kapuściński:
“la tipica situazione coloniale: la colonia fornisce materia prima, la metropoli elabora il prodotto finito. Solo
un dieci per cento del cotone raccolto in Uzbekistan viene lavorato in loco. Il resto viene spedito alle
fabbriche tessili nelle zone centrali dell’Impero. Se l’Uzbekistan smette di coltivare cotone, i bacini tessili
russi si fermano.” (Kapuściński, 1994:252)
21
Il termine può essere letteralmente traducibile con “women’s riots”, delle rivolte portate avanti dalle donne,
scoppiate spontaneamente in molte città del Turkestan a partire dal febbraio 1916 (Viola 2010).
Significativo per il propagarsi delle proteste il gesto di una donna russa di Tashkent che un mattino al bazar,
sconvolta dal prezzo triplicato delle patate, si mise ad inveire per poi esser trascinata via. Fu allora che una folla
di donne si mise a saccheggiare i banchi della verdura sotto gli occhi della polizia. In poche ore i saccheggi si
allargarono a macchia d’olio fino a sei bazar cittadini. Al termine dei saccheggi molte donne furono arrestate. Si
mobilitarono allora in loro difesa gli uomini, perlopiù operai e dipendenti ferroviari. Questi atti di protesta non
furono limitati alla sola capitale, fatti analoghi accaddero anche nelle città di Charnaevo, Krivosheino e Perovsk.
Tali rivolte continuarono per più di un anno. (nota info. della polizia al governatore, 29 febbraio 1916:
TsGARUz I-461/1/1824/10-10ob., in Buttino 2003:67-70)
18
Uno sfruttamento massivo che, come vedremo tra poco, venne consolidato e portato
agli estremi durante gli anni di dominazione della nuova forza dominante, l’URSS.
Dal grafico sottostante si può notare che l’espansione delle aree coltivate a cotone continuò ad
aumentare nei primi due anni della guerra, spesso a scapito delle colture alimentari.
(cit. in Buttino 2003:100)
Tuttavia, come si evince dal secondo grafico, sia la terra coltivata a frumento sia
successivamente quella coltivata a cotone videro una brusca diminuzione. Ciò fu dovuto ad un
vero e proprio abbandono dei campi piuttosto che ad una conversione della produzione. La
popolazione stremata dalla carestia e abbandonata a se stessa dalla macchina coloniale non
riuscì, in questo lasso di tempo, a far fronte al lavoro contadino.
(Ibid:101)
I contadini della colonia si trovarono cosi ad avere meno cotone, a produrre meno
grano e con carenza di mezzi per acquistare grano da altre parti dell’impero. Fu in questo
contesto di economia bloccata e di indigenza che si verificò il crollo della monarchia e il
successivo disfacimento delle istituzioni coloniali sul territorio. Si aprì così una nuova fase
19
della storia centro asiatica, vista da molti storici22
come una seconda conquista: una
riconquista.
La rivoluzione di Febbraio portò al potere un Governo provvisorio. I discorsi di
rinnovamento politico arrivarono a Tashkent attraverso l’esercito, si iniziò a parlare di
patriottismo e democrazia. Il regime coloniale zarista venne messo in discussione da una
rivoluzione percepita come lontana, ma la notizia dell’abdicazione dello zar fece arrivare nel
Turkestan la sensazione che l’ordine presente era in bilico. L’amministrazione era
consapevole del fatto che nel panorama potenzialmente esplosivo della colonia la transizione
dovesse avvenire con continuità, evitando una crisi delle autorità dello Stato e salvando gli
interessi coloniali. Si volle puntare a un’alternativa che salvaguardasse una coesione di fondo
del mondo russo combinata a un’apertura collaborativa con le forze progressiste musulmane.
Il governo della regione venne così affidato provvisoriamente al generale Kuropatkin, che
divenne rappresentante ufficiale di Pietroburgo. A seguito di questa transizione di poteri
videro la luce nuove forme di rappresentanza: i soviet23
.
Agli inizi del 1917 il programma di governo della colonia si trovava a fronteggiare
questioni rilevanti quali la definizione dei diritti politici della maggioranza musulmana della
regione; il chiarimento del rapporto tra centro (Pietroburgo) e periferia; la possibilità di
sancire la fine di una dipendenza forzata attraverso la conquista militare e la nascita di un
rapporto che superasse i tratti coloniali tra Russia e Turkestan. Fondamentale fu dunque la
discussione riguardo agli spazi di autonomia auspicabili per l’Asia Centrale. Nella realtà dei
fatti, però, il cattivo funzionamento degli approvvigionamenti dalle campagne e la mancanza
di aiuti concreti dalla Russia col conseguente dilagare di fame e carestia, fomentarono
l’aggressività delle popolazione immigrata russa nei confronti di quella musulmana. Già nel
settembre 1917 il soviet di Tashkent divenne il mezzo di protesta della popolazione europea
ed iniziò ad arrogarsi poteri autonomamente. Un’iniziativa lodata dai bolscevichi, che di lì a
22
Si vedano Benvenuti (1999), Bianchini (2009), Buttino (2003), Levi (1999) 23
La parola russa soviet (pr. savièt) significa "consiglio": essa ha avuto una diffusione assai vasta anche fuori di
Russia attraverso il senso specificamente politico che è venuta assumendo nel corso degli avvenimenti russi del
1917, e, in parte, già durante la rivoluzione del 1905. Furono associazioni a rappresentanza del popolo. I Soviet
avrebbero dovuto costituire la struttura di base dell’ Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, nata a
seguito della presa di potere dei bolscevichi. Dal marzo 1917, col crollo dell’impero zarista, lo slogan coniato da
Lenin fu Tutto il potere ai soviet!. La concezione di una dittatura sovietica nell’ottica del partito bolscevico
prevedeva un sistema in cui tutti i “partiti sovietici” avrebbero dovuto convivere attraverso confronti democratici
all’interno di soviet operai, cittadini, militari ecc. Sarebbe dovuta essere una struttura piramidale elettiva al cui
vertice vi era il Congresso panrusso dei soviet dei deputati, degli operai, dei contadini e dei soldati costituiva il
massimo organo del potere statale; dopo la creazione dell’URSS, al vertice della piramide fu posto il Congresso
dei soviet dell’Unione (1924).
Con la Costituzione del 1936 il più alto organo del potere statale divenne il Soviet Supremo, formato dal Soviet
dell’Unione, eletto a suffragio universale, e dal Soviet delle Nazionalità, espressione delle repubbliche federate
(http://www.treccani.it/enciclopedia/tag/soviet/).
20
breve presero il potere a Pietroburgo. Fu una strana rivoluzione quella che avvenne nel
Turkestan: Buttino (2003:192) la definisce una rivoluzione capovolta o controrivoluzione, sia
perché i suoi protagonisti erano parte della minoranza dominante, sia perché andò a chiudere
la breccia democratica inizialmente aperta dal governo provvisorio. Si risprofondò così nel
modello di forte dipendenza coloniale.
In Russia, nel frattempo, con la Rivoluzione d’Ottobre, si misero le basi per la nascita
dello stato leninista e del movimento comunista. Vide gli albori l’Unione Sovietica, uno stato
totalitario, monopartitico, con un economia statalista predisposta ad utilizzare violenza e
terrore come strumenti di governo. Con essa nacque anche il movimento politico globale del
comunismo, che raccolse nel mondo una moltitudine di adesioni. Di fatto la nascente URSS
venne eletta come modello di una nuova forma di civiltà che prometteva di realizzare gloriosi
ideali di progresso e di eguaglianza, le cui radici si trovavano nella storia del pensiero
europeo, dall’illuminismo alle idee di democrazia e socialismo (Levi 1999). Non approfondirò
qui le dinamiche di tale movimento, ne la storia degli sviluppi politico-economici della
Russia24
, funzionale ai fini della mia ricerca è piuttosto creare una panoramica storica sui fatti
significativi che concorsero a plasmare le attuali repubbliche indipendenti del Centro Asia.
Come in molte altre regioni dell’ex impero russo, come per esempio il Caucaso, la
rivoluzione si diffuse dall’alto, dalla città verso le campagne, divulgando un nuovo ordine
istituzionale centralizzato e gerarchico. L’autorità massima venne rappresentata dal Centro
(Pietroburgo); il Sovnarkom25
del Turkestan rappresentava questo potere a livello di Kraj26
, le
amministrazioni delle regioni, delle città e dei villaggi gli erano poi subordinate. Più che un
sistema gerarchico poteva essere definito come un “sistema di legittimazione fornito dai
livelli più alti a quelli inferiori” (Buttino 2003:233), il governo centrale riconobbe il potere dei
rivoluzionari in Turkestan e diede loro il mandato di governare in rappresentanza della Russia
sovietica. All’indomani dell’Ottobre, il centro proclamò la dittatura del proletariato, dichiarò
che la terra apparteneva ai contadini che la lavoravano e promulgò, con firma di Lenin e
Stalin, la “Dichiarazione dei diritti dei popoli della Russia”. Come visto prima la situazione
24
Per approfondimenti si vedano Thompson J.M. (1990), Levi A. (1999), Riasanovsky N.V. (2001). 25
Il Sovnarkom (dal russo Совнрком) si traduce con Consiglio dei commissari del popolo, nome
dell’amministrazione delle legislature sovietiche fino al 1946, anno in cui venne riformato. Un organo istituito
nel secondo congresso dei soviet russi (1917) presieduto da Lenin e che avrebbe dovuto gestire il potere
esecutivo del Paese. La costituzione sovietica del 1918 rendeva il Sovnarkom della RSFS Russa responsabile di
fronte al Congresso dei Soviet per “l’amministrazione generale degli affari di stato”. I commissari del popolo
erano coloro che hanno espletato le funzioni dei ministri del governo nell’Unione Sovietica, l’organismo politico
a cui facevano riferimento era appunto il Sovnarkom. (http://www.encyclopedia.com/doc/1G2-
3404101275.html) 26
In Russia Kraj (dal russo край) è un termine utilizzato per riferirsi ad entità federali, divisioni amministrative,
provincie o regioni.
21
della colonia vedeva Tashkent completamente in linea con la politica di Pietroburgo; gli
esponenti della rivoluzione capovolta, rifacendosi a Lenin, sostenevano che si dovesse
concepire l’autodeterminazione dei popoli solo subordinandola al socialismo, ossia,
intendendola come autodeterminazione delle classi lavoratrici. Da quel momento la dittatura
dei russi in Turkestan si inscrisse nel nuovo panorama della rivoluzione proletaria
internazionale. L’antropologo Russell Zanca (2011:34), riflettendo sul significato e sulle
implicazioni che la categoria dei “contadini” ha assolto in Centro Asia, nota come i
bolscevichi si servirono di un processo di “proletarizzazione” di tale categoria, al fine di
trasformarla in una vera e propria classe accettata dall’ideologia sovietica, equiparandone le
condizioni di lavoro alla controparte russa del proletariato industriale.
Nel 1918 il soviet di Tashkent prese pieni poteri, dalla capitale fu inviato l’esercito
contro un governo autonomo musulmano formatosi a Kokand27
, come alternativa Sovnarkom.
Uno dei primi decreti emanati da quest’ultimo andò a toccare la proprietà terriera, da quel
momento in poi venne abolita la proprietà privata, la creazione di comitati non ufficiali e
venne vietata la compravendita della terra. Considerando il corso degli eventi finora trattati è
facile intuire che tale decreto andò pienamente a sfavore della componente musulmana della
regione; oltre allo svantaggio sulla proprietà terriera venne emanato un decreto che stabiliva
l’abolizione dei tribunali islamici e vennero prese iniziative lesive nei confronti della
popolazione musulmana in relazione agli interessi economici legati al cotone. A febbraio un
altro decreto del Sovnarkom stabilì che:
“tutto il cotone che si trova nel Kraj del Turkestan, in qualsiasi forma sia e ovunque si trovi, sia
immediatamente confiscato e divenga proprietà del governo operaio-contadino del kraj […]. Nel caso di
opposizione da parte dei proprietari, si prenderanno provvedimenti fino alla fucilazione sul posto” (Prikaz
686 all’esercito: RGVIA 1396/2/2071/413, in Buttino 2003:249).
Un decreto, questo, fondamentale per comprendere come il cotone possa essere oggi il
monopolio di Stato più redditizio della Repubblica Uzbeka. I russi, guidati dal commissario
per il cotone Shmidt, entusiasti del proclama, iniziarono da subito a confiscare ai contadini
musulmani l’unico bene che permettesse loro, attraverso scambi, di procurarsi beni alimentari.
In un secondo momento vennero poi nazionalizzate le ditte commerciali e le imprese di
lavorazione della materia grezza (atte alla sgranatura, pressatura e imballaggio). La dittatura
del proletariato, che continuò di fatto ad essere identificata con la dittatura russa di stampo
27
Per approfondire gli sviluppi dell’alternativa politica musulmana costituita dalla popolazione locale si veda
Buttino (2003) pp. 269-283, pp. 350-352. Inoltre, per una panoramica sulla storia dell’Islam nei territori centro
asiatici in periodo post-sovietico, si veda Filatov S. e Malasenko A. (2000).
22
coloniale, intervenne inoltre sull’organizzazione del credito e sulla vendita delle sementi ai
contadini musulmani. Prese a questo punto avvio una forma di controllo diretto sull’economia
(Zanca 2011).
Incuranti del dilagare della crisi alimentare i vertici centrali si preoccuparono
esclusivamente di ricevere cotone dalla colonia. In questi primi anni Mosca stabilì un
finanziamento per il potenziamento dell’irrigazione nelle zone del cotone e una politica di
difesa e incremento della produzione che non sarebbe stata più abbandonata. Attraverso la
lente interpretativa dell’approccio antropologico definito da Kottak (1999) New Ecological
Anthropology, spiegherò in seguito come tale potenziamento produttivo, legato
principalmente all’opera colossale di espansione del sistema idrico, abbia portato con se danni
sociali, economici ed ambientali, giungendo a causare uno dei più grandi disastri ecologici
del XX secolo.
1.3 “RICONQUISTA” E DELIMITAZIONE NAZIONALE:
UN ATTO DI BIOPOLITICA
La strategia posta in atto in questa “seconda colonizzazione” dal nuovo potere
sovietico si concretizzò nella repressione delle rivolte dei coloni e dei cosacchi;
nell’allontanamento dei comunisti nazionali emarginando in primis il loro leader Turar
Ryskulov; nella creazione di politiche sfavorevoli per la componente musulmana e infine
nella violenta lotta armata ai ribelli basmachi28
all’interno dei kishlak29
. Nel 1920 l’Armata
Rossa, sotto la guida del comandante Frunze, invase la Repubblica Autonoma del Turkestan.
Nell’aprile venne attaccato il protettorato di Khiva che, al pari della già soverchiata Bukara,
godeva ancora di una semi-autonomia.
Durante questa fase di “riconquista” del Turkestan è interessante notare come i
sovietici impararono a sfruttare le divisioni interne già esistenti tra la comunità musulmana,
infiammando una fazione contro l’altra e creando flebili alleanze. Vide la luce un vero e
proprio reparto incaricato di indagare e fare rapporto su tali rivalità. Fu un chiaro esempio di
politica di conquista basata sul Divide et Impera30
. Strategia palesemente manifesta nella
28
Il termine basmachi significa letteralmente “bandito” e fu utilizzato dai sovietici per etichettare chi contrastava
il potere sovietico con le armi. Interessante notare come in Uzbekistan si usi un altro termine per denotare queste
forze armate ribelli, un termine che tradotto significa “combattente per la libertà”. Per approfondire il tema della
l’alternativa armata basmachi in Asia centrale si veda: Buttino (2003), Broxup M. (1983), Olcott M.B. (1981). 29
I Kishlaki (dal turco Kişlak, letteralmente “accampamento invernale”) erano accampamenti rurali, nei quali le
comunità semi-nomadi dell’Asia centrale si raggruppavano durante l’inverno. 30
A livello comparativo si prenda in considerazione, tra i molti, il lavoro di Lindisfarne (2008) sulla situazione
mediorientale.
23
suddivisione territoriale calata dall’alto che diede vita alle Repubbliche Sovietiche del Centro
Asia. Come racconta lo scrittore Dulio Giammaria (2007), la lezione di geopolitica dei romani
era stata ben applicata da Stalin, dando un’occhiata alla carta geografica (fig.1) si comprende
immediatamente che l’intento di frammentazione etnica elaborato da quest’ultimo riuscì a
tutti gli effetti.
(Fig. 1) http://www.nobordersmagazine.org Copyright © 2014 No Borders Magazine. Powered by Wordpress, Enhanced with OCMX-Live
In linea con il federalismo sovietico basato sulla delimitazione nazionale delle sue
parti costitutive, il progetto di suddivisione nazionale in Asia Centrale (“national delimitation
of Central Asia”) ridisegnò i confini seguendo un fine ben definito, un chiaro esempio della
“fantasiosa realizzazione imperialistico-burocratica dell’era di Stalin” che impose concetti
alieni alla regione e alla sua popolazione creando coscientemente un clima di potenziale
conflitto (Fedtke 2007). Nel 1924 il Turkestan venne frammentato e fu ufficialmente
proclamata la Repubblica Socialista Sovietica dell’Uzbekistan (RSS) e con essa anche le altre
quattro: Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Turkmenistan.
Le frontiere così artificialmente frastagliate separarono le comunità locali e alzarono il
livello di tensione tra le parti (la valle del Fergana ne è senz’altro la sintesi più emblematica).
Come auspicato tale assetto fece in modo che una qualsiasi spinta rivoluzionaria di
autodeterminazione contro le istituzioni centralizzate fosse difficilmente attuabile. Secondo
quella che venne chiamata dagli storici “teoria della nazionalità”, il vasto territorio della
24
colonia russa venne ripartito in Repubbliche dell’unione, Repubbliche autonome all’interno di
Repubbliche dell’unione e territori autonomi. Questi tre livelli di sovranità territoriale
configurarono un grado decrescente di autonomia che fu attribuito sulla base di un
compromesso stabilito dal centro con le forze bolsceviche locali, il meccanismo fece leva su
una valutazione arbitraria del grado di autoconsapevolezza nazionale raggiunto dalle varie
etnie. Attraverso i grandi censimenti del 1920 e del 1926 si considerò per lo scopo prestabilito
la prevalenza etno-linguistica (Benvenuti 1999).
Il risultato in realtà fu però una scarsa considerazione della composizione etnica,
culturale e geografica, dei cinque paesi in questione. Infatti, ad oggi ritroviamo minoranze
tagike presenti in Uzbekistan, che peraltro in Afghanistan costituiscono il secondo gruppo per
consistenza numerica (25%); minoranze uzbeke, in Tagikistan e Kirghizistan e minoranze
kirghize in Uzbekistan, in particolare nella Valle di Fergana. Una condizione che diede vita ad
un costante clima di ostilità tra le parti. Taluni conflitti di frontiera si protrassero a lungo nel
tempo, come quello uzbeko-kazako conclusosi solo nel 2003 (Ce.S.I. 2006). Nella valle del
Fergana, invece, i conflitti perdurano tutt’oggi, costituendo un forte elemento d’ostacolo al
regolare sviluppo del commercio tra i tre Paesi (Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan). Il
Ce.S.I. (Centro studi internazionali), in un dossier intitolato “L'Asia Centrale ex sovietica”,
sostiene che una caratteristica dei paesi in esame sia l’identità sub-nazionale o regionale, dal
momento che le identità nazionali dei singoli stati non hanno mai costituito un forte
riferimento per le popolazioni o quantomeno per la maggioranza di ciascuna popolazione
(Ce.S.I. 2006).
Alla luce di quanto esposto sopra ritengo interessante avvicinare tali circostanze
all’analisi che Appadurai sviluppa in relazione all’essenza della biopolitica coloniale inglese
in ambito indiano (Appadurai, 2012)31
. Egli afferma che la peculiarità di tale potere confluisce
nella capacità di creare comunità enumerate:
“Detto in modo semplice, altri regimi possono aver avuto interessi numerici e anche classificatori, ma
queste due sfere rimasero in gran parte separate. Fu solo nella complessa congiuntura di variabili che
diede vita al progetto dello stato coloniale maturo, invece, che queste due forme di nominalismo dinamico
si unirono per creare una politica che ruotava intorno a comunità enumerate auto-consapevolmente”
(Appadurai, 2012:170).
E’ da ciò che secondo l’antropologo deriverebbe una sostanziale forma di controllo
basata sul tentativo di classificare secondo logiche orientaliste il soggetto coloniale.
31
La sua riflessione in merito alla biopolitica coloniale si sviluppa a partire dal pensiero di Foucault che analizza
l’essenza e gli sviluppi di biopolitica e biopotere in opere quali La volontà di sapere (1976), Microfisica del
potere (1977), Nascita della biopolitica (1978-1979).
25
Proseguendo nella riflessione si evince che, il moderno stato coloniale, a mio avviso dunque
anche quello russo in centro Asia, unificò la visione esotizzante dell’orientalismo e il
discorso familiarizzante della classificazione, attraverso ad esempio i grandi censimenti, al
fine di lasciare il corpo del soggetto coloniale intrinsecamente estraneo, ma tentando di
renderlo disciplinato (Ibid.). Dice Edward Said nella sua opera più celebre, Orientalismo
(1978): “dal punto di vista retorico, l’orientalismo è anatomico ed enumerativo: avvalersi
della sua terminologia significa frammentare e classificare l’Oriente in parti concettualmente
maneggevoli” (Said 1978:78).
Oltre all’approccio “per comunità” (Appadurai 2012:168) alla base della riorganizzazione
geopolitica del ’24, considero un chiaro esempio di biopolitica coloniale anche il rapporto che
venne a instaurarsi tra URSS e islam già dai primi decenni del ‘900. A partire da questi anni,
infatti, l’atteggiamento verso l’islam venne caratterizzato da una sostanziale ondata
repressiva. Si rafforzò la propaganda ateistica, l’islam fu considerato un antagonista
dell’ideologia ufficiale e unitamente una “dannosa tradizione, destinata a scomparire”, di
ostacolo al naturale sviluppo della nuova società (Fedke 2007:22). Nella sua tesi sulla
questione nazionale esposta al decimo congresso del partito di VKP(b)32
, Stalin dichiarò che,
negli interessi dell’ideologia socialista, l’idea di un senso di appartenenza “pan-turco” sarebbe
dovuta essere considerata come profondamente nociva e dannosa (Ibid.). Venne dunque
osteggiata l’élite intellettuale mussulmana, vennero chiuse e distrutte moltissime moschee, e
quelle rimaste furono riconvertite per lo svolgimento di attività di altro genere (Filatov -
Malašcenko 2000). L’irradiarsi del controllo sovietico si fece via via più capillare arrivando
alla regolamentazione del quotidiano, tramite l’eliminazione di qualsiasi festività religiosa.
Inoltre, come per il caso indiano analizzato da Appadurai (2012) in cui l’impero britannico si
impegnò nella riscrittura della politica del corpo, soprattutto per pratiche di manipolazione
quali il sati o il charak-puja, così anche quello sovietico si operò in tal senso, fu per esempio
messo al bando l’uso del Paranji per le donne mussulmane (fig.2).
32
Vsesojuznaja Kommunistcheskaja Partja Bolshevikov (Partito Comunista dei Bolscevichi dell’URSS)
disponibile da www.treccani.it.
26
A proposito di quest’ultima riflessione le idee di Foucault sul biopotere sono senz’altro
essenziali. Arguisce l’autore che, tale forma di assoggettamento, si verifica quando lo stato
comincia ad occuparsi non più solo di territorio da difendere in nome della sovranità e da cui
estrarre tasse e tributi, ma anche della popolazione, della vita degli individui come singoli e
della popolazione come insieme. Un potere, biopotere appunto, che guarda alla vita, la regola,
la dirige e la indirizza verso scopi precisi, un potere che non ha in sé solo il germe repressivo
ma anche quello produttivo, ciò che lo caratterizza è la capacità di “produrre individui”
(Chignola 2007) .
“Non chiedersi dunque perché certi vogliono dominare, che cosa cercano, qual è la loro strategia
d’insieme, ma come funzionano le cose al livello del processo dell’assoggettamento o in quei processi
continui e ininterrotti che assoggettano i corpi, dirigono i gesti, reggono i comportamenti ecc. In altri
termini, cercar di sapere come si sono progressivamente, realmente, materialmente costituiti i soggetti.”
(Foucault, 1977:183)
Come sostiene Chiara de Santi (2007:51), nel suo lavoro sulla rivoluzione culturale in
Uzbekistan durante gli anni ’20, Mosca cercò di forgiare l’homo sovieticus a partire dall’homo
islamicus.
Indubbiamente la questione islamica è una componente fondamentale degli sviluppi
politici che caratterizzarono la formazione degli stati centroasiatici e delle dinamiche che ad
oggi ritroviamo in essi, in particolar modo in un paese come l’ Uzbekistan vittima recente di
feroci scontri tra governo e frange islamiste che hanno portato a fatti di cronaca quali l’eccidio
di Andijan33
nel 2005, meriterebbe un approfondimento denso e problematico che in tale sede
non è possibile affrontare34
.
33
L’eccidio di Andijan fu un caso di visibilità mediatica internazionale avvenuto tra il 12 ed il 13 maggio 2005
nella città omonima. In quei giorni una folla di dimostranti attaccò la locale prigione per liberare 23 detenuti,
(fig.2) Donne uzbeke agli inizi del XX sec.
Due di loro indossano il burqa tradizionale
(Paranji). Foto acquistata durante il mio
soggiorno a Samarcanda in un piccolo
ufficio postale.
27
Alla fine degli anni trenta l’Asia Centrale si ritrovò ufficialmente suddivisa in cinque
repubbliche dell’Unione, ciascuna delle quali considerata formalmente sovrana con pieni
diritti decisionali in merito a se aderire o meno all’URSS; di fatto però esse erano pienamente
parte dell’impero sovietico; con le loro economie incomplete, frutto delle politiche coloniali,
non avrebbero mai potuto prendere decisioni autonome in relazione ai propri diritti (Filatov –
Malašcenko 2000).
Terminata la fase di “invenzione” del nuovo assetto geopolitico, e consolidato il
controllo sulla regione, i sovietici iniziarono nuovamente a reinserire esponenti musulmani
nella politica locale. Di fatto il potere sovietico finì con l’affermarsi grazie ad una miscela di
concessioni ai movimenti popolari locali e simultaneamente di repressione di essi35
. Le
principali concessioni furono la ridistribuzione della terra, la federalizzazione dell’ex Impero,
l’uscita dalla guerra e l’introduzione della “nuova politica economica” (Nep)36
tesa alla
scapparono poi in 200, la popolazione si riversò quindi nelle strade chiedendo le dimissioni del presidente
Karimov e l’attuazione di riforme sia politiche che economiche. Quella che ne seguì fu una vera e propria
mattanza condotta dalle forze speciali uzbeke; il conto delle vittime non è mai stato fatto ed il numero viene
stimato secondo alcuni analisti addirittura nell’ordine delle migliaia. I 23 detenuti erano uomini d’affari locali
accusati dalle autorità di essere membri del movimento Akramia, ritenuto una costola del partito panislamico
Hizb ut Tahrir (partito della liberazione islamica), a sua volta accusato di legami con Al Qaeda. Andijan, capitale
della provincia omonima, si trova nella Valle di Fergana, la regione più densamente popolata dell’Asia Centrale
nonché una delle zone dove è più forte il radicamento religioso islamico, grazie anche alla presenza del già citato
Hizb ut Tahrir (organizzazione dichiarata fuorilegge dalle autorità uzbeke) che professa il rovesciamento dei
regimi esistenti e la costituzione di un califfato islamico centroasiatico. Ciò che accadde veramente quel giorno,
e nei giorni successivi, nella popolosa città uzbeka non si saprà mai. I media occidentali furono allontanati e
confinati a Tashkent, e la repressione che seguì, spesso colpendo la popolazione indiscriminatamente senza
risparmiare nemmeno i bambini, portò ad una fuga massiccia verso i paesi vicini, in particolar modo verso il
Kirghizistan, con la conseguente chiusura delle frontiere, creando così una vera e propria emergenza umanitaria
(Acquistapace 2012, UZBEKISTAN: Eccidio di Andijan, un anniversario interessatamente dimenticato, in East
Journal, disponibile da http://www.eastjournal.net/). 34
Per un maggior approfondimento del tema si vedano Filatov - Malašcenko (2000), Sartori (2007), Zanca
(2011). 35
Si consideri che con diversi gradi d’intensità dalla metà degli anni venti alla fine degli anni ottanta la questione
islamica passò attraverso fasi di aperto conflitto, con continue oscillazioni tra autorizzazione e repressione.
Tuttavia la popolazione non rinunciò mai alla propria tradizione religiosa continuando a seguirla nella sfera
privata. Sull’ondata della democratizzazione di fine anni ottanta inizi anni novanta poi, scomparso il controllo
ateistico da parte dello stato, si assistette a un intenso processo di rinascita religiosa (chiamato “la luna di miele”
dell’islam in Uzbekistan), in cui la religione ritornò ad essere un importante fattore della vita politica e sociale
(Filatov – Malašcenko 2000). La profonda penetrazione di quest’ultima nel paese è riscontrabile anche a livello
di struttura sociale nell’esistenza dei mahalla (makhallia), un termine adottato attualmente dallo stato uzbeko per
identificare le comunità locali. Il mahalla è definibile come una particolare forma di stato nello stato, una sotto
unità urbana o contadina, organizzata secondo specifiche leggi e costumi riconducibili allo spirito delle tradizioni
islamiche. Tutt’oggi l’appartenenza a tali comunità è determinata dal quartiere di residenza (Z. Arifkhanova
2000; Filatov - Malašcenko 2000; Trevisani 2007). Durante il mio soggiorno a Samarcanda, girando per le vie
della città vecchia mi sono spesso imbattuta in cartelli di ogni forma e colore che, posti in punti strategici di
inizio o fine quartiere, ne segnalavano la presenza. 36
Sigla del russo Novaja ekonomičeskaja politika (“nuova politica economica”), fu un insieme di misure di
carattere economico adottate dal governo sovietico, sotto la guida di Lenin, nel corso del 1921. Avviata il 21
marzo con l’introduzione di un’imposta in natura sui raccolti (in sostituzione alle requisizioni forzate delle
eccedenze applicate dal 1917 al 1921 durante il comunismo di guerra), la NEP liberalizzò il commercio dei
prodotti agricoli. Il ripristino del commercio privato coinvolse anche i settori artigianali e industriali; venne
abbandonata la precedente politica di nazionalizzazione (processo di “denazionalizzazione”) reinserendo forme
28
modernizzazione dello stato, personificata in quegli anni nel modello industriale (Benvenuti
1999). Le tendenze del centro in materia d’intervento economico, tuttavia, furono eterogenee:
da un lato quella che veniva definita la “destra” del partito bolscevico (riconducibile a
personalità quali Buharin, Šanir e Sokol’nikov) si mosse a sostegno di un’economia mista
tipica della nuova politica adottata, in cui il controllo statale sull’industria, sul commercio
estero e sul commercio all’ingrosso doveva essere ricondotto a un contesto di mercato. Essa si
espresse inoltre in favore di un processo di graduale industrializzazione dell’URSS da attuare
attraverso investimenti in agricoltura, sostegno all’industria leggera e rafforzamento delle reti
di comunicazione. In altre parole la destra sosteneva che l’agevolazione dell’agricoltura e
l’esportazione dei suoi prodotti avrebbero consentito lo sviluppo urbano e il reperimento dei
capitali necessari al rafforzamento dell’industria pesante e alla macchina militare; la logica
della “sinistra” invece (rappresentata da Preobraženskij e Trockij) pose l’accento
sull’”arretratezza” dell’URSS e sulla necessità impellente di un’industrializzazione accelerata.
Fondamentale, in quest’ottica, il concetto di modernizzazione del paese, una trasformazione
alla quale solo la classe operaia avrebbe potuto far fronte, ancorata al desiderio di una
rivoluzione mondiale che portasse all’espansione dell’ideologia comunista, soprattutto
quest’ultima idea si trovava in netto contrasto con la dottrina della “costruzione del socialismo
in un Paese solo” elaborata da Stalin nel 1924 (Bianchini 2009). Se in un primo momento
vennero abbracciate le idee di “destra”, in seguito al diffondersi della convinzione secondo
cui il processo di graduale industrializzazione avviato con la nuova politica economica fosse
troppo lento rispetto all’esigenze dettate sia dall’ideologia che dal contesto internazionale,
facendo leva sulla crisi economica e sociale, Stalin ribaltò gli equilibri di partito spianando la
strada alla “svolta del 1929”, quando la collettivizzazione fu imposta nelle campagne, vennero
avviati i piani quinquennali e si passò a una rapida militarizzazione dell’economia. Scrive
Bianchini: “ebbe così termine la condizione di un rapporto consensuale tra agricoltura e
industria, fra città e campagna… Contro i contadini fu allora condotta una sorta di guerra
civile, in aperto contrasto con la preoccupazione buhariniana di salvaguardare l’alleanza con
la classe operaia” (Ibid:162). Le riforme di Lenin con la parola d’ordine “la terra a chi la
lavora”, non aumentarono la produttività del terreno, ecco perché Stalin scelse la soluzione
più radicale: l’espropriazione della classe contadina (Westerman 2002).
di gestione privata (affitto, concessioni…). Tale politica fu poi abbandonata nel 1928 in favore di un’economia
socialista pianificata. (Lo Gatto, n.d., disponibile da www.treccani.it)
29
1.4 L’EPOCA DELLE REPUBBLICHE SOCIALISTE E L’IMMINENTE CROLLO
DELL’UNIONE SOVIETICA
Questa rapida panoramica sulle diatribe di Mosca è utile alla comprensione di ciò che
avvenne in campo economico-industriale in centro Asia durante l’epoca delle Repubbliche
socialiste.
In precedenza ho accennato al fatto che in periodo imperiale gli zar intervennero sugli
equilibri agricoli locali portando una coltivazione definibile cash-crop37
(Spoor 1993),
praticata nelle aree limitrofe i fiumi Syr Darya38
e Amu Darya39
, connessa ad un sistema
feudale fortemente legato al controllo dell’acqua e bilanciata con un’agricoltura di grano e
frutteti, ad una coltivazione largamente praticata che fece del cotone il “white gold” dell’Asia
Centrale. Tuttavia tale incremento fu solo un pallido risultato se paragonato a ciò che venne
messo in atto dopo la Rivoluzione d’ottobre. In un articolo sulla transizione ad un economia
di mercato dell’ Asia post sovietica il ricercatore Max Spoor (Ibid:6) afferma che l’ordine
propagandato da Mosca agli inizi del secolo: “prima di tutto il cotone” (“cotton first”), renda
conto dell’enorme rilievo che si diede all’accrescimento produttivo in quegli anni, più
efficacemente di qualsivoglia tabella ufficiale sui dati del raccolto e sull’andamento dei
prezzi. Ciò anche in ragione del fatto che tali dati vennero spesso gonfiati dalle élite politiche
locali al fine di ricevere da Mosca maggiori finanziamenti, una pratica impregnata di
corruzione e clientelismo che lo stato federale cercò di arginare durante gli anni della
perestroika (argomento ripreso a pp.37-38). Al fine di limitare le importazioni di cotone
estero, Stalin attuò in Uzbekistan, ancor prima della messa in atto dei piani quinquennali
(1929-1932), un’ingente politica di collettivizzazione agricola. Dalla fine del 1932, infatti,
circa il 77,5 per cento di tutte le famiglie rurali furono incorporate in 9734 kolchoz (fattorie
collettive) e 94 sovkhoz (grandi aziende agricole statali) (Kandiyoti 2002), una
37
Ossia una produzione aggiuntiva all’agricoltura tradizionale, caratterizzata per lo più da piante da frutto e
grano, finalizzata al guadagno tramite un commercio ristretto che ne apprezzava l’altra qualità. 38
Il Syr Darja è un fiume che nasce dalla confluenza del Kara Darya e Naryn presso Namangan, dove i due corsi
d'acqua si uniscono dopo essere scesi dalle montagne del Tien Shan, in cui si trovano le sorgenti. Il fiume
attraversa il Kirghizistan, l'Uzbekistan, parte del Tagikistan e il sud del Kazakistan fino al Lago d'Aral per un
totale di circa 2.212 km (disponibile al sito web http://it.wikipedia.org/Syr_Darya). 39
L’Amu Darya è un fiume dell'Asia, tributario del lago d'Aral, uno dei maggiori dell'intero continente, e il più
importante del Turkestān Occidentale. La lunghezza dell’ Amu è di 2512 km.; la larghezza media di alcune
centinaia di metri Le sue sorgenti rimasero a lungo ignorate, o per lo meno non vennero individuate con
sufficiente esattezza. Soltanto dopo i rilevamenti topografici, eseguiti nel 1885 e nel 1895 dalle commissioni
incaricate di delimitare le frontiere fra i possedimenti russi e l'Afghanistan, si sono fissate le sorgenti dei vari
rami, che concorrono a formare l'Amu. Quasi tutti derivano le loro acque dai numerosi ghiacciai e nevai, sparsi
sui versanti delle catene montuose, che sormontano l'altipiano del Pamir (Pullè n.d. Enciclopedia Treccani,
disponibile al sito web http://www.treccani.it/enciclopedia/amu-dary).
30
trasformazione nella struttura di produzione locale che, come esplicherò in dettaglio nel cap.
II, caratterizzò fortemente anche la nuova Repubblica dell’Uzbekistan.
Per avere un’idea dell’incremento e della specializzazione attorno alla monocoltura cotoniera
si veda la tabella qui sotto (fig. 4); la rapidità con cui si passò dai 441,600 ettari destinati al
cotone nel 1913 ai 1.022,600 del 1940 rende conto dell’impatto sul paese (Ibid:9).
(Fig. 4) Spoor M. (1993), Transition to Market Economies in Former Soviet Central Asia: Dependency, Cotton
and Water, in European Journal of Development Research, 5, pag. 19
All’interno di quest’ottica di produzione smisurata, volta ad arricchire le tasche di
industrie tessili russe e politici corrotti locali e non, le ricadute a livello economico, sociale ed
ecologico sulla popolazione delle regioni centrasiatiche furono devastanti. Il disastro
ecologico verso cui i russi traghettarono le fertili terre limitrofe al maestoso lago d’Aral,
diviso tra Uzbekistan e Kazakhstan, influì pesantemente sul futuro delle genti che in
quell’area prosperavano vivendo di pesca e agricoltura. Nel paragrafo seguente (vedi pp. 35-
45) analizzerò in dettaglio tappe, cause ed effetti di questa smisurata catastrofe.
Per volgere al termine di questa panoramica storica analizzerò di seguito i fattori
principali che portarono al collasso dell’Unione Sovietica e alla conseguente dichiarazione di
indipendenza della cinque Repubbliche Socialiste Sovietiche del centro Asia.
31
Alla morte di Stalin e con l’audacia riformatrice degli anni ’50-’60 la penetrazione del
mondo esterno nelle società europee del “socialismo reale”, o “realizzato”, fu inevitabile. Di
fatto ciò si concretizzo grazie all’aumento del commercio estero e dei crediti internazionali;
tale confluenza del mondo esterno fu un fatto politicamente e culturalmente nuovo, poiché
andava a ridimensionare l’approccio dominante di “chiusura, separazione e impenetrabilità”,
proprio dell’ideologia socialista, nei confronti del capitalismo occidentale (Bianchini 2009).
In altre parole , l’industria pesante e le infrastrutture interne vennero potenziate facendo
ricorso a istituzioni finanziarie internazionali, nella convinzione che ciò sarebbe bastato a
rilanciare il modello di produzione russo. Le previsioni, tuttavia, vennero ampiamente
disattese, non si verificò mai il passaggio ad un’economia flessibile di mercato e
conseguentemente non vi furono spinte innovative sufficienti a generare quell’avanzata
tecnologica che, nei paesi capitalisti, sfociò nella “rivoluzione informatica” degli anni ’80
(Bianchini 2009; Höbel 2004). Inoltre non si tenne conto dei vincoli ambientali e dei rischi
d’inquinamento derivati dalla corsa alla modernizzazione. Quest’ultima considerazione non
va sottovalutata, infatti, a causa del degrado provocato dalle industrie chimiche della
Sassonia, della distruzione di un terzo del patrimonio forestale di Boemia e Moravia per le
piogge acide, dell’inquinamento di quasi il 21% delle acque pubbliche in Slovacchia, nonché
di gran parte del litorale del Mar Baltico, dell’abuso di fertilizzanti in Ungheria, arrivando
fino “al più grave disastro ecologico della storia dell’umanità“, definito così da Al Gore, nel
suo libro Earth in the balance (1992), discusso nelle pagine precedenti (si veda la questione
del lago d’Aral p.24), si innescò una seria di processi di interdipendenza internazionale che
sfociarono in mobilitazioni di massa. Soprattutto fra le giovani generazioni, si affermarono
vari gruppi ambientalisti la cui azione assunse ben presto caratteri transnazionali. Di li a
qualche anno, questi gruppi strutturati concorsero al rafforzamento dei successivi moti per
l’indipendenza che diedero vita al panorama delle nazioni post-sovietiche (Bianchini 2009),
L’apertura e interdipendenza col mondo internazionale, dunque, portò con sé una catena di
ripercussioni inimmaginabili, che, attraverso un susseguirsi di eventi nefasti, portarono alla
caduta dell’Unione nel 1991, come chiaramente espresso dalle parole di Hobsbawm (1994,
cit. in Höbel 2004:3), “fu l’interazione dell’economia di tipo sovietico con l’economia
mondiale capitalista [...] che rese vulnerabile il socialismo. [...] Ciò che sconfisse e alla fine
distrusse l’URSS non fu lo scontro ma la distensione”.
In accordo con quanto sostenuto da Alexander Höbel (2004) si può affermare che
l’esperienza sovietica fu costantemente segnata sia da una arretratezza relativa (rispetto ai
paesi occidentali), sia da un modello di sviluppo estensivo (ossia basato sull’uso di grandi
32
quantità di materie prime e forza lavoro, più che sul loro sviluppo qualitativo). All’inizio degli
anni ’80, l’URSS costituiva una società industriale di tipo “fordista”, in cui gli operai erano il
61.5% della popolazione attiva, con 12.5% di contadini colcosiani e il rimanente 26% di
impiegati, funzionari e intellettuali.
Peraltro, da anni procedeva una graduale sottrazione di poteri al centro, con l’emergere
di particolarismi e localismi. Sotto Brezhnev si consolidò il ruolo delle relazioni personali,
delle reti informali e spesso illegali intessute dalla nomenklatura, di cui prima accennato in
relazione all’industria cotoniera Uzbeca (vedi p.35). I dirigenti delle grandi organizzazioni
territoriali del Partito, divennero “veri e propri ‘feudatari’”, basandosi sulle realtà locali “per
contrattare meglio col centro” . In particolare nelle repubbliche asiatiche, dove il Partito aveva
promosso la nascita di élites politiche locali, erano sorti “meccanismi di patronato”, di clan e
clientelari. Nel caso dell’Uzbekistan la produzione del cotone mediava i legami tra: Mosca, le
élite repubblicane, le élite regionali e le loro circoscrizioni locali. Il potere centrale
conversava, dunque, con leader repubblicani, che si basavano su dirigenti regionali che, a loro
volta, facevano affidamento a dirigenti distrettuali o ad amministratori delle grandi aziende
agricole, al fine di garantire che il piano di cotone fosse soddisfatto. Fu su questa base
piramidale ce si svilupparono i meccanismi di corruzione e clientelismo sopra citati, perché
tramite esso i leader repubblicani in Uzbekistan avevano accesso a ingenti trasferimenti
finanziari (Kandiyoti 2002; Spoor 1993; Trevisani 2007). Il caso più eclatante che bene
dimostra questo sistema fu quello della stretta relazione tra Sharaf Rashidov, primo segretario
del Partito comunista dell’ Uzbekistan, in carica dal 1959 al 1982, e Brezniev, ricordato con il
nome di “scandalo del cotone” (o “Uzbek affair”)40
(Kandiyoti 2002). Ne derivò un sistema di
relazioni una sorta di “compromesso instabile” tra centro e periferia, aggravato durante gli
anni della Perestrojka, quando le risorse iniziarono a scarseggiare e la debolezza dello Stato
iniziò a farsi strutturale. La nomenklatura economica locale rimase allora l’unica ad avere
poteri reali, e con la disgregazione del potere centrale esso venne suddiviso tra le migliaia di
direttori delle fabbriche, delle aziende agricole, delle miniere ecc. che mirarono ad ottenere la
proprietà dei mezzi di produzione (Höbel 2004). Il caso uzbeko si scostò dalla traiettoria della
40
Si trattò di un caso in cui, un sistema strutturato di falsificazione delle statistiche ufficiali sul raccolto del
cotone, depauperò ingenti somme di denaro stanziate dal Cremlino per le piantagioni dell’Uzbekistan. Con
l’aiuto di una rete di corrotti, per quasi vent’anni vennero consegnate in Russia enormi partite di cotone fittizio.
Si trattava di milioni di tonnellate di fibre inesistenti che andavano a gravare sui conti dell’ufficio di stato per gli
acquisti. Mentre i campi di cotone in centro Asia si ricoprivano di sale e si inaridivano, nei rapporti forniti
dall’Uzbekistan si rilevava il raggiungimento degli obiettivi al 100%. Fu successivamente Michail Gorbačëv a
smascherare e rivelare lo scandalo. Con l’attuazione della Perestroika alla fine degli anni ’80 vennero arrestati
circa 2.600 funzionari, e circa 50.000vennero allontanati dall’amministrazione, tra cui anche il genero di
Breznev. (Kandiyoti 2002; Westerman 2006)
33
maggior parte degli stati post-sovietici, esso, infatti, sotto la guida dell’allora segretario di
Partito Comunista Islam Karimov divenuto presidente, non diede mai avvio a ingenti riforme
di privatizzazione e apertura liberale, costringendo la neonata Repubblica uzbeka a muovere i
primi passi in compagnia di gran parte delle strutture obsolete di epoca sovietica.
Possiamo, dunque, affermare che un elemento determinante nel crollo dell’URSS fu
l’esplosione di moti nazionalisti, che resero il processo di disgregazione capillare e
incontrollabile. Per quanto riguarda le repubbliche del centro Asia le prime agitazioni
nazionalistiche che interessarono le cinque Repubbliche si verificarono già alla fine degli
anni’60. Ufficialmente la dichiarazione d’indipendenza di Kazakistan, Kirghizistan,
Uzbekistan, Tagikistan e Turkmenistan, avvenne simultaneamente nell’ottobre del 1991.
1.5 L’UZBEKISTAN POST-SOVIETICO
Oggi l’allevamento, e in misura maggiore l’agricoltura, sono le attività economiche
predominanti nell’Uzbekistan post-sovietico (Ilkhamov 1998). In seguito alla dissoluzione
dell’URSS e al seguente crollo del settore industriale e del commercio interno, da qualche
anno a questa parte si è verificata, nel paese, una forte ri-agrarizzazione dell’economia. Ciò al
fine di valorizzare produzioni locali e garantire il pieno sostentamento al Paese, divenuto
ormai orfano delle importazioni garantite sotto il dominio sovietico (Ibid.). La superficie
agricolo-pastorale uzbeka è ancora saldamente di proprietà dello Stato (Buttino 2008:11-12).
Il governo, fortemente autoritario, riesce a mantenere un forte controllo sulle superfici
agricole e la relativa produzione. Per motivazioni economiche, e per avvicinarsi all’auto-
sufficienza alimentare nazionale, nei primi anni post-indipendenza le scelte maturate dallo
Stato si sono orientate verso la conversione delle colture industriali, dalla monocoltura
cotoniera alla policoltura, e verso l’aumento di superficie degli appezzamenti privati, i
tomorka. (Buttino 2008; Zinzani 2011; Kandiyoti 2002). In base agli studi svolti a riguardo
dalla ricercatrice Deniz Kandiyoti (2002), risulta evidente che nel Paese non si è verificato
mai un vero e proprio processo di privatizzazione della terra e delle risorse idriche, ciò che
avvenne fu piuttosto un processo di decentralizzazione dei poteri. Come esaminerò in
dettaglio nel capitolo seguente, il decentramento politico-economico è il fattore chiave per
comprendere il quadro attuale relativo alla gestione delle superfici agricolo-pastorali del
paese: dopo la chiusura dei sovkhoz e la conversione dei kolchoz in shirkat, cooperative di
produzione, verso la fine degli anni novanta, e precisamente nel 1998, si è verificato lo
scioglimento anche di queste strutture e la liberalizzazione dell’attività agricolo-pastorale
34
attraverso l’affitto delle terre ai privati. Lo scopo fu quello di aumentare la produttività
attraverso lo stimolo dell’iniziativa individuale41
. Inoltre, una significativa decentralizzazione
dei poteri dallo Stato alle regioni comportò l’ascesa degli hokim, forti governatori regionali
politicamente influenti, che oggi godono del pieno controllo delle superfici e delle relative
produzioni attraverso un’apposita registrazione dei nuovi soggetti privati in un fascicolo
regionale (Zinzani 2011). Una liberalizzazione nella gestione delle superfici agricole
contraddistinta quindi da un ridotto grado di libertà. I nuovi “soggetti agricoli”, ufficializzati
con la legge del 1998, furono i fermer (dal russo, agricoltore) e i dekhon (dall’uzbeko,
agricoltore). I fermer hanno la possibilità di ricevere in affitto un appezza-mento di terra
compreso in media tra i 10 e i 15 ettari; il contratto ha una durata minima di dieci anni e può
essere revocato dall’hokimyat nel caso in cui l’agricoltore non riesca a rispettare gli accordi
riguardanti la produttività stipulati con il Governo regionale. Questo fatto spiega quanto sia
forte il controllo che le autorità regionali esercitano sugli agricoltori. La superficie
dell’appezzamento agricolo dato in affitto è invece strettamente correlata alla scelta delle
coltivazioni, che viene concordata tra il neo affittuario e l’hokimyat al momento della stipula
del contratto e non può più subire variazioni. Tra le clausure integrate nel contratto d’affitto vi
sono obblighi quali: i terreni destinati a colture industriali quali cotone e grano, non possono
essere inferiori a 10 ettari; parallelamente, le superfici agricole volte alla coltivazione di
prodotti ortofrutticoli devono essere superiori a 1 ettaro. Nelle terre aride inadatte alla pratica
agricola è possibile stipulare il contratto sull’allevamento pastorale: il capo privilegiato è la
pecora Karakul e il numero degli esemplari deve essere superiore ai 30 (ibid:14-15). I fermer
produttori di colture industriali hanno l’obbligo di vendita dell’intera produzione
all’hokimyat, che a sua volta si fa carico della fornitura di macchinari e sementi; gli agricoltori
orientati al settore ortofrutticolo versano invece solo parte della produzione alle autorità
pubbliche. Differentemente dai fermer, i dekhon sono contraddistinti da un grado di libertà
notevolmente maggiore: il contratto d’affitto stipulato con l’hokimyat non ha una scadenza
precisa e può essere prolungato a vita. La produzione viene consumata in famiglia e per il
resto venduta nei bazar rurali ed urbani (Ibid.).
La situazione attuale della Repubblica dell’Uzbekistan, pur essendo notevolmente
cambiata rispetto alla situazione sovietica, è ancora fortemente legata alla produzione
cotoniera, uno dei monopoli più redditizi dello Stato. Nel paese, infatti, permane ancora una
condizione di asservimento della classe contadina portata avanti grazie a politiche agricole e
41
La chiusura dei sovchoz è avvenuta a partire dal 1991; la conversione dei kolchoz in shirkat a partire dal 1993.
La chiusura dei shirkat e il procedimento di affitto delle terre ai privati è risultato lento e disomogeneo (Zinzani
2011).
35
di concessione terriera fortemente coercitive, all’impiego di manodopera a basso costo
durante i mesi di raccolta, ciclicamente reperita per mezzo di leggi governative che impongo
ai cittadini selezionati di lasciare il proprio impiego, o la propria istruzione per quanto
riguarda gli studenti, e riversarsi nelle immense distese bianche a riempire sacchi di cotone a
mano. Inoltre, nelle aree maggiormente colpite dal disastro ecologico, permangono grandi
sacche di povertà ed ingenti problemi di carattere sanitario legati all’inquinamento.
36
2. SFRUTTAMENTO DEL LAVORO E GESTIONE DELLE RISORSE
NATURALI: ACQUA, TERRA, COTONE NELLE TRASFORMAZIONI
AGRARIE DELL’UZBEKISTAN POST-SOVIETICO
2.1 LA QUESTIONE DEL LAGO ARAL
Ciò che la politica stalinista ebbe a cuore negli anni della “modernizzazione” fu
essenzialmente il raggiungimento di obbiettivi economici e di mercato. Non venne preso
alcun provvedimento a tutela delle economie e delle identità locali e tantomeno del fragile
ecosistema semi-desertico delle cinque Repubbliche. Ed è proprio in nome della
modernizzazione che spesso le risorse naturali sono diventate oggetto di tecniche di governo
con cui, oltre a controllare il territorio e le sue materie prime, si è giunti alla dominazione
della popolazione controllandone numerosità, distribuzione e comportamenti socio-
economici. In molti casi, come ci dimostra la letteratura antropologica sul tema, e in particolar
modo nel nostro caso, quanto detto sopra avviene privando le popolazioni locali del diritto di
sfruttamento, talvolta anche d’accesso, alle proprie risorse naturali (Foucault 2005; Agrawal
2005, cit. in Rossi 2012). Un processo che sfocia in fenomeni quali l’abbandono delle
campagne, lo sfollamento urbano o la scomparsa di economie di sussistenza locali col
conseguente annichilimento del sistema sociale ad esse connesso: ciò che avvenne, appunto,
nei territori dell’Aral. Nell’Unione Sovietica erano gli anni del cosiddetto “socialismo
scientifico”, quando la tecnologia e la scienza furono gli strumenti con i quali trasformare la
realtà naturale, biologica e sociale, modellandola sui principi dell’ideologia (Giammaria
2009). Nel caso in questione il piano di sfruttamento delle acque dei fiumi a scopo agricolo, di
cui parlerò nelle pagine successive, fu supervisionato dal responsabile sovietico Grigory
Voropaev. Quest’ultimo, durante una conferenza sui lavori in corso d’opera, dichiarò
consapevolmente che le conseguenze per il lago sarebbero state nefaste e che il suo scopo era
proprio quello di “far morire serenamente il lago d'Aral” (Westerman 2006). Talmente
abbondante era la necessità di acqua che i pianificatori arrivarono a dichiarare, coerentemente
all’ideologia del “socialismo scientifico”, che l'enorme lago era ritenuto uno spreco di risorse
idriche meglio utilizzabili in agricoltura, “un errore della natura” che aveva necessità d’essere
corretto (Ibid.).
37
Servendomi qui dei principi concettuali alla base degli studi antropologici che si
occupano dell’impatto antropico sull’ambiente42
, in riferimento alla New Ecological
Anthropology (Kottak 1999), analizzerò come gli interventi ingegneristici sovietici, in
particolar modo di ingegneria idraulica legati al sistema d’irrigazione, portarono ad un
disastro ecologico su larga scala i cui danni (economici, sociali, ambientali…) sono
abbondantemente osservabili in Uzbekistan. Prima di entrare nel merito della vicenda vera e
propria, ritengo necessario spendere alcune parole sulle le linee teoriche che hanno guidato il
mio approccio relativo all’uso delle risorse naturali. Nadia Breda (2012) sostiene che una
lettura antropologica della natura e dell’ambiente oggi si avvicini e spesso si sovrapponga ad
un’antropologia della crisi. Le grandi o piccole crisi della natura si dimostrano essere sempre
più associabili a crisi di civiltà, di società, di culture (Arran E. Gare 1995, cit. in Breda 2012),
basti pensare a temi quali deforestazione, alluvioni, cambiamenti climatici, consumo del
suolo, inquinamento, sfruttamento dell’acqua ecc. Ecco che l’antropologia dell’ambiente si
inserisce così in contesti di estrema conflittualità. Comune a questo tipo di studi è porre
l’attenzione sulla natura politica delle controversie ecologiche; tale antropologia, infatti,
ripoliticizza i conflitti riguardanti l’ambiente soffermandosi in particolar modo sulle
conseguenze sociali e culturali da essi derivanti e sulle asimmetrie in relazione alle quali essi
si generano (Rossi 2012). Interessante notare, inoltre, pensando al caso in esame, come la
tendenza contemporanea sia propensa a considerare le odierne incongruenze nella
distribuzione del potere sulla natura (intendendo con ciò la “libertà” di sfruttamento delle
risorse naturali) come il frutto di processi storici relativamente recenti quali colonizzazione,
de-colonizzazione politica, ricolonizzazione economica di paesi extraeuropei. Tali riflessioni
sono il frutto di un profondo ripensamento, in seno alla disciplina, della categoria “Natura”
all’interno della vita produttiva umana. Si è arrivati, infatti, alla valutazione dei suoi elementi
costitutivi, non più come oggetti passivi, ma piuttosto come soggetti pienamente attivi e
autorevoli:
“L’ambiente non è solo il contenitore fragile e vulnerato della pressione antropica, né l’inerte fondale su
cui campeggiano le magnifiche azioni degli uomini. Esso costituisce al contrario un soggetto
indispensabile e protagonista, la controparte imprescindibile dell’agire sociale nel processo di produzione
della ricchezza” (Bevilacqua cit. in Breda 2012)
42
Si vedano, tra tanti, i lavori di Breda (2000, 2001, 2009, 2010), Ferguson (2005), Latour (1991, 1999),
Kopnina and Shoreman-Ouimet (2013), Kottak (1999), Micklin (1988, 2007), Pye (2010, 2011), Robbins (2004),
Rossi e D’Angelo (2012), Tassan (2011), Van Aken (2012, 1015), Veldwisch (2008), Zimmerer (2006, 2007)
38
L’acquisita consapevolezza critica antropologico-ambientale attuale consiste nella
certezza del carattere fondamentalmente culturale-sociale-storico della categoria di “Natura”
(Ibid.). Facendo uno passo avanti nell’analisi, trovo interessante sottolineare come uno dei fini
auspicabili che questo filone di studi si prefigge di raggiungere sia lo svincolarsi da una
conoscenza tecnocratica affidata al sapere in apparenza “politicamente neutrale” di tecnici ed
esperti in campo ambientale (Rossi 2012). Proprio per questo l’antropologia dell’ambiente,
suggerisce Breda (2012) riprendendo le riflessioni di Piermattei (2007), pone all’antropologo
una questione etica e deontologica: non ci si dovrebbe limitare più a svolgere un lavoro
prettamente d’analisi ma intervenire direttamente in quegli stessi processi che ci si propone di
studiare mettendo in rilievo il nodo etico del posizionamento politico della ricerca etnografica,
soprattutto se essa è in grado di creare un concreto impatto materiale, economico o politico
sul campo.
A livello metodologico ciò che risulta fondamentale è focalizzarsi sull’analisi delle
relazioni tra locale, nazionale ed internazionale (Kottak 1999); di fatto i mondi locali in cui le
risorse naturali e le materie prime vengono estratte, entrano quotidianamente a far parte di
altri mondi locali grazie alle molteplici implicazioni su larga scala di scambio tra
infrastrutture, mercati, media, interessi nazionali ecc. (Rossi 2012): “nella nuova antropologia
ecologica tutto è su larga scala” (Kottak 1999:25). Sono microcosmi che partecipano così ad
un sistema planetario, globale, di scambio economico e relazioni di potere talvolta, come nel
nostro caso, in funzione di “articolazioni” di carattere ideologico che ne modellano la gestione
a livello di sfruttamento agricolo e non solo (Hall 1996; Li 2000 cit. in Rossi 2012). A tal
proposito Colson e lo stesso Kottak (Colson 1994, cit. in Kottak 1999:30) propongono di
definire il metodo utilizzato linkages methodology (“metodologia delle connessioni”), stando
a significare con esso la possibilità di lavorare interagendo su una molteplicità di livelli, tanto
spaziali quanto temporali.
Tornando alla vicenda del mare d’Aral e alle relazioni di subalternità, possiamo
pertanto affermare che essa può essere ricondotta a una categoria di casi in cui i conflitti
ruotano attorno a beni comuni minacciati dalla presenza di enti estrattivi, o di sfruttamento
delle risorse, governativi o di gruppi dominanti, divenuti in molti casi endemici (Rossi 2012).
Molto spesso tali controversie riguardano la gestione delle acque e, in contesti come quello
centrasiatico caratterizzato da un clima semi-desertico, l’acqua, essendo una risorsa scarsa, è
stata da sempre il fulcro di relazioni di potere e il nodo centrale della conflittualità sociale.
Relativo a quanto appena esposto ritengo interessante il punto di vista esposto da Frank
Westerman, ingegnere, giornalista e scrittore olandese, autore del libro Ingenieurs van de ziel
39
(2002), tradotto in italiano col titolo Ingegneri di anime (2006). L’opera prende spunto da
alcune riflessioni avanzate da un giovane ingegnere che, trovatosi per lavoro a Mosca,
dichiarò, con tono dal sapore prettamente spengleriano: “Più sono colossali i progetti idraulici
intrapresi da un potere statale, più sono dispotici i suoi governatori”. L’autore, tramite il suo
personaggio, analizza l’opera Dispotismo orientale di Karl August Wittfogel, sinologo fuggito
dalla Germania nazista negli anni trenta, il cui titolo deriva da un articolo di Marx del giugno
1853 in cui affermava che i regimi tirannici il più delle volte si sviluppano laddove il clima e
il suolo invitano alla costruzione di grandiose opere d’irrigazione, aggiungendo che
l’irrigazione artificiale per mezzo di canali e di altre opere idrauliche è la base dell’agricoltura
orientale. Wittfogel, facendo un passo avanti rispetto all’anali di Marx, sostenne che la storia
ha mostrato una volta per tutte che l’irrigazione determina coercizione e controllo: gli stati
comunisti a partito unico rappresentano un caso storico di grande rilievo in tal senso. Alla
caduta dello zar, Lenin e i bolscevichi iniziarono ad operare la ricostruzione delle società
asiatiche sotto altre sembianze. In seguito Stalin perfezionò il processo, ponendo le
fondamenta delle realizzazioni idrauliche, conferendo così all’Unione Sovietica la struttura
arcaica del dispotismo orientale (Westerman 2006:96-97).
Affronterò ora in dettaglio le vicende che interessarono il lago d’Aral e l’intervento
sovietico dei primi decenni del ‘900. Se si osserva una carta geografica del mondo,
procedendo da occidente a oriente, a sud del continente euroasiatico appare una catena di
quattro mari: il Mediterraneo, il Mar Nero, oltre i monti del Caucaso vi è il Mar Caspio e
infine, più a est di tutti, si trova il Mare d’Aral (o almeno ciò che ormai ne rimane)
(Kapuściński 1994). Il suo bacino si situa sul confine tra Kazakhstan (la parte nord) e
Uzbekistan (la parte sud) e attinge l’acqua dai fiumi già sopra citati Syr Daria e Amu Darja i
quali, con la loro impressionante lunghezza (2212 km uno e 2600 km l’altro), attraversano
l’intera l’Asia Centrale. Fu a lungo considerato il quarto lago salato al mondo. Prima del 1960
ricopriva una superfice di circa 68.000 km2, con un livello d’acqua di 53.4 m e una capienza
di 1.090 km3
(Szöke n.d:135). La brama sovietica di diventare il principale produttore di
cotone al mondo portò al concretizzarsi, sotto la guida di Stalin, dei piani quinquennali e,
successivamente, del progetto “Terra Vergine”43
(“Virgin Land”) degli anni ‘50 promosso da
Khrushchev. La prima mossa messa in atto dai sovietici fu quella di appropriarsi della
gestione delle riserve idriche; una volta sottratta alle istituzioni locali, questa venne posta
43
Nel 1956 Mosca intraprese un progetto di irrigazione e appropriazione delle terre vergini delle steppe
Golodnaya nella R.S.S. Uzbeka e in quella Kazaka per l’implemento della produzione di cotone, un progetto che
originariamente fu elaborato per l’accrescimento delle colture di grano in Russia (Matley 1970, cit. in Szöke
n.d).
40
sotto il controllo di una leadership centralizzata (Ibid.). L’acqua, essendo una risorsa scarsa in
queste regioni, si poneva, da sempre, al centro di un fragile equilibrio fatto di lotte e
collaborazioni che investiva le relazioni tra uomini, tra uomini e animali e tra uomini e piante
(Kapuściński 1994). Nel decennio tra il 1930 e il 1940 la sostenibilità dell’irrigazione emica
fu spazzata via quando le piccole aziende agricole locali, quasi sempre a conduzione
familiare, vennero riorganizzate (accorpate) in grandi aziende collettive (Kolchoz - Sovchoz)
che, a causa dell’enorme richiesta d’acqua, necessitarono di un nuovo sistema d’irrigazione.
In risposta alla “sete” di un’agricoltura così strutturata, il governo iniziò a deviare il corso dei
due maggior affluenti dell’Aral in un’intricata ragnatela di fossati a cielo aperto, il tutto per
far confluire l’acqua nelle steppe e nelle zone desertiche al fine di renderle fertili (Micklin
2007; Spoor 1993). Questo sistema di canali è ancora oggi visibile viaggiando per
l’Uzbekistan: durante i miei spostamenti in treno il panorama incorniciato dal finestrino era
per lo più costituito da una continua alternanza di aree aride solcate da canali, piccoli villaggi
contadini e piantagioni di cotone (fig.5-6).
Ma un suolo per costituzione desertico è di per sé povero di sostanze nutritive,
essenziali ad una buona coltivazione, cosicché al fine di potenziarne il rendimento vennero
utilizzati potenti concimi chimici, fertilizzanti e pesticidi sparsi da aerei ed elicotteri in
quantità scellerate attraverso piogge nebulizzate (Kapuściński 1994; Micklin 2007; Strickman
& Porkka 2008). La maggior parte dei finanziamenti stanziati da Mosca vennero spesi per la
realizzazione del sistema di canalizzazione. Non si fecero mai, infatti, progetti alternativi che
a fronte del clima desertico, prevedessero l’uso di drenaggi, tubazioni, condotti o altri
espedienti del genere. Si prese semplicemente l’acqua dai fiumi e la si fece scorrere nei
campi, col risultato che prima di arrivare alle zone del cotone, un terzo si perdeva per strada,
(fig.5) foto del 25/10/14, canale d’irrigazione, scattata
lungo la strada tra Samarcanda e Bukhara
(fig.6) foto del 25/10/14, campo di cotone già raccolto, scattata lungo la strada tra
Samarcanda e Bukhara
41
evaporata o prosciugata dalla sabbia (Kapuściński 1994). A differenza di altri grandi
produttori di cotone quali USA e Egitto, in Asia Centrale il miglioramento del sistema
d’irrigazione non fu mai una priorità governativa. Gli effetti di ciò si videro in merito alla
comparazione della quantità d’acqua necessaria per la coltivazione di 100kg di prodotto
grezzo: 6-10m3 d’acqua in Asia Centrale contro i 1.5m
3 utilizzati per esempio da Israele
(Khazamov 1990:30; Rumer 1987:81, cit. in Spoor 1993).
“Per prima cosa vennero fatti venire i bulldozer da tutto il paese. Poi i grossi scarafaggi di metallo rovente
si sparpagliarono sulle distese sabbiose. Partendo dalle rive del Syr Darja e dell’Amu Darja, gli arieti
d’acciaio cominciarono a scavare nella sabbia canali e fossati, dove poi venne fatta scorrere l’acqua dei
fiumi. Ne dovettero scavare un numero infinito […] Lungo quei canali i kolchoziani dovevano ora
coltivare il cotone.” (Kapuściński 1994:250)
La tabella che segue in fig.7 mostra i risultati conseguiti con tale intervento; si può vedere
come la produzione di cotone abbia avuto un’impennata rapida e massiva (si veda anche
fig.4).
Nell’arco di 75 anni la produzione di cotone in Asia Centrale è aumentata di circa 12
volte (Szöke n.d). Inoltre i territori interessati dal sistema d’irrigazione passarono da 3 milioni
di ettari (1900), a 5 milioni (1960) fino a 6,5 milioni (1980). L’impatto che tale cambiamento
ebbe sull’ecosistema della regione non fu tuttavia visibile fino agli anni ’60, quando il bacino
del lago Aral iniziò a ritirarsi rapidamente e fu allora chiaro che un sistema di sfruttamento
delle risorse di quell’entità era totalmente insostenibile a livello ecologico (Micklin 2007). A
(fig. 7) Szőke, A. (n.d.), Environment, sustainability and economic performance–the case of the northern aral
sea region, disponibile al sito web http://www.cisproject.hu/docs/EE-4-kotet_ch6.pdf
42
causa delle innumerevoli deviazioni la quantità d’acqua che dai due fiumi riusciva via via ad
arrivare al lago si ridusse drasticamente, arrivando in alcuni periodi dell’anno ad azzerarsi
totalmente. L’immensa distesa d’acqua originaria (68.000 km2) si ridusse in pochi anni ad
appena un quarto del suo volume iniziale. Nel 1987-89 l’Aral si divise in due corpi separati: il
“piccolo Aral” a nord, situato in Kazakhstan, e il “grande Aral” a sud, situato in Uzbekistan
(fig. 8).
Ma l’evaporazione del lago fu solo la più visibile conseguenza derivata dal mercato dell’oro
bianco. Gli effetti di tale abuso, infatti, furono presto visibili anche in termini di:
- salinizzazione del suolo: oltre al sale, che col ritirarsi delle acque del lago si depositò
sugli ex fondali del bacino, è risaputo che a dieci, venti metri di profondità sotto ogni
deserto si trovano giacimenti di sale sodio. Con l’umidità dell’acqua proveniente dai
canali d’irrigazione il sale cominciò a risalire in superfice trasformando vaste aree della
dorata terra uzbeka in lucida crosta salina del tutto inservibile (Kapuściński 1994;
Micklin 2007; Strickman & Porkka 2008);
- inquinamento delle falde acquifere e del terreno: laddove l’Aral si è ritirato, l’antico
fondale, caratterizzato da depositi salini e da sostanze inquinanti raccolte dai fiumi
lungo il loro corso (metalli pesanti, fertilizzanti, pesticidi, ecc.), venne esposto ai venti
e ciò ebbe gravi ripercussioni sull’ecosistema e sulla salute della popolazione locale.
Nel cosiddetto Priaralye, la regione che si affaccia sull’Aral, la falda acquifera,
pesantemente contaminata e non più utilizzabile a fini potabili, iniziò ad abbassarsi,
contribuendo alla salinizzazione dei suoli ed al procedere della desertificazione (Piastra
n.d.). Da dati UNEP del 2005 si stima che circa il 66% delle acque in Uzbekistan sia
(fig.8) Immagine satellitare del Lago
d’Aral, scattata con sistema MODIS dalla
NASA il 14 agosto 2014. Delineato in
nero si vede il perimetro originale del
bacino. (www.earthobservatory.nasa)
43
contaminato. Di fatto la scarsità e l’inquinamento delle acque sono attualmente le cause
principali dell’incremento di malattie che interessano sistema nervoso, tiroide, sistema
immunitario, apparato cardiovascolare, sangue, così come l’aumento dell’incidenza di
cancro e malattie infettive delle popolazioni che risiedono nelle zone dell’ex Aral.
Inoltre, grazie ad un vento che spira costantemente verso est/sud-est, si verifica il
fenomeno delle grandi tempeste di sabbia; tale fenomeno trasporta ogni anno quasi 43
milioni di tonnellate di polveri tossiche, a causa dell’inquinamento del suolo desertico,
che influiscono sulla genesi di malattie quali: anemia, cancro, problemi circolatori e
tiroidei oltre a malformazione prenatale e incremento delle malattie pediatriche
(Strickman & Porkka 2008);
- cambiamenti climatici: venuta meno l’azione mitigatrice della massa idrica, il clima ha
visto negli anni un accentuarsi del suo carattere continentale, sperimentando estati più
calde e secche ed inverni più freddi con temperature che possono raggiungere anche i -
20° (Piastra n.d.);
- rapida progressione della desertificazione;
- perdita della varietà di fauna e flora;
- ripercussioni sanitarie e socio-economico sulla popolazione che in quelle zone ci
viveva e ci vive, in percentuale molto ridotta, in condizione di elevata precarietà
(Micklin 1988, 2004, 2007; Spoor 1993; Strickman & Porkka 2008). Come scrive
Kapuściński (1994:251), “la terra cambiò rapidamente faccia”. Agli inizi degli anni ’80
si verificò il definitivo collasso dell’economia ittica che da sempre rappresentava il
sostentamento principale della popolazione stanziata sulle sponde del lago. L'impatto
ambientale sulla fauna lacustre fu devastante poiché dapprima i pesci iniziarono a
morire per l’inquinamento dei reflussi tossici provenienti dai campi fertilizzati, mentre
quelli rimasti in vita erano comunque inservibili perché fortemente contaminati da
sostanze chimiche nocive, infine molte specie scomparvero per sempre dalle ormai
esigue acque del lago, tra qui il salmone dell’Aral, dichiarato ora ufficialmente estinto
(Micklin 2007; Strickman & Porkka 2008). A seguito del disfacimento dell’ecosistema
ittico si stimò che, nel Karakalpakstan - regione maggiormente colpita - circa 60.000
persone persero i propri mezzi di sussistenza; molte di loro, circa 10.000, furono
costrette a migrare in cerca di lavoro, molte altre vennero assorbite dall’industria
cotoniera come manodopera a basso costo (UNEP 2005 cit. in Strickman & Porkka
2008:111). Col ritiro delle acque, poi, i villaggi che un tempo sorgevano sulle rive del
bacino si trovarono a decine di km di distanza dai punti di accesso all’acqua, in alcuni
44
casi lontani anche 150 km, rendendo la navigazione niente più che un nostalgico
ricordo (Ibid.).
Ciò che rimane oggi a testimonianza di quanto detto sopra sono le innumerevoli carcasse
arrugginite dei pescherecci che un tempo solcavano le acque dell’Aral, tristemente arenati
tra le dune dell’arida terra desertica (fig. 9-10). Oltre all’economia ittica venne smantellata
in gran parte anche la coltivazione di grano e frutteti, da sempre base consistente
dell’economia locale:
“Dapprima lo fecero sui terreni desertici sterili; ma poiché il tessuto bianco non bastava mai, le
autorità imposero di coltivare a cotone anche i campi fertili, i giardini, i frutteti. Si può immaginare la
disperazione e lo spavento dei contadini privati degli unici beni che possedevano: un cespuglio di
ribes, qualche albicocca, un angolo d’ombra […] Al posto di pomodori e cipolle, di olive e cocomeri,
si coltivava cotone.” (Kapuściński 1994:250)
Il cotone è una pianta a produzione stagionale, dunque finito il periodo di semina e raccolta
moltissimi contadini si trovavano sprovvisti di lavoro, versando in condizioni di povertà ed
indigenza fino alla produzione successiva.
Per quanto affermato sopra si può dunque concludere che il potenziamento e
l’imposizione della monocoltura cotoniera venne pagato, e tutt’ora è pagato, a caro prezzo
dalla popolazione locale. Sulla scia della pubblicazione francese del libro di Gilles Clèment
Menifeste du Tiers paysage (2004), tradotto in italiano col titolo di Manifesto del Terzo
paesaggio (2005), si creò un dibattito in campo interdisciplinare in relazione alle pratiche di
scrittura e riscrittura del paesaggio (Breda 2012). Personalmente ritengo alcune delle
riflessione che derivano da tale dibattito particolarmente stimolanti se affrontate in relazione
(fig.9-10) Photograph Courtesy Philip Micklin , for National Geographic magazine http://news.nationalgeographic.com/
45
alle vicende del lago d’Aral. Secondo l’autore il Terzo paesaggio appare per sottrazione dal
territorio antropizzato, per abbandono, per sospensione o assenza di decisioni umane, per
dimenticanza o marginalità (Ibid.). Sostiene Clèment:
“Se si smette di guardare il paesaggio come l’oggetto di un’attività umana subito si scopre una quantità di
spazi indecisi, privi di funzione sui quali è difficile posare un nome. Quest’insieme non appartiene né al
territorio dell’ombra né a quello della luce. Si situa ai margini. Dove i boschi si sfrangiano, lungo le
strade e i fiumi, nei recessi dimenticati dalle coltivazioni, là dove le macchine non passano. Copre
superfici di dimensioni modeste, disperse, come gli angoli perduti di un campo: vaste e unitarie, come le
torbiere, le lande e certe aree abbandonate in seguito a una dismissione recente” (Clèment 2005:10).
Terzo paesaggio non rinvia in quest’analisi a Terzo mondo, ma piuttosto a Terzo stato
con riferimento al pamphlet di Seyès del 1789: “Cos’è il Terzo stato? - Tutto. Cosa ha fatto
finora? – Niente. Cosa aspira a diventare? – Qualcosa” (Ibid:11). Sono dunque luoghi in cui
l’intervento umano c’è stato, ma dove nell’ordine delle cose attuali è sospeso. Tale concetto
ha interessato l’antropologia nella misura in cui l’ha avvicinata a dimensioni in cui l’agire
umano cessa quasi d’esistere, ai confini con il dismesso, con il non agire (Breda 2012).
L’implicazione affascinante dell’avvicinare la riflessione antropologica a quella del Terzo
paesaggio è la concezione secondo cui proprio dove si creano interstizi sociali, culturali,
frontiere, limiti, lì l’antropologia riesce a leggere e descrivere il mondo contemporaneo, un
mondo fuoriuscito dal discorso ufficiale in cui le persone sperimentano pratiche meno
codificate e in continuo adattamento (Ibid.) Credo che tale concetto e le sfumature che ne
derivano siano particolarmente utili per osservare i territori un tempo culla delle acque
dell’Aral. Ciò che rimane oggi di quel paesaggio un tempo florido e popoloso non è altro che
un “residuo” (Clèment 2005), un luogo marginale dove l’uomo ha sospeso il suo agire.
Volendo affiancare ulteriormente la situazione dell’Aral al concetto di Clèment (2005) è
interessante considerare le molte declinazioni che egli ne fa: esistono, infatti, Terzi paesaggi
vegetali, animali, urbani-architettonici e anche politico-amministrativi. Quest’ultima versione
è a mio avviso particolarmente interessante in relazione al caso in esame: essa riguarda tutti
quegli elementi che fanno vergognare la classe politica, ciò che turba, dis-turba e inquieta,
come ad esempio sacche di povertà di un paese, manifestanti, disoccupati, zone marginali
inquinate frutto di sfruttamento massivo, discariche ecc. (Breda 2012). Spesso, inoltre, il
disinteresse delle istituzioni per il Terzo paesaggio coincide con un punto di vista svalutante:
aree dismesse, incolte, residue, vuote (Clèmente 2005:54). Vi è poi anche il Terzo paesaggio
sociale e culturale, e ricordando le precarie condizioni di vita in cui versano gli abitanti dei
villaggi semidisabitati che spuntano come isole dal deserto, mi viene da chiedermi se sia
possibile estendere la categoria di “residuo” (Ibid:13) anche a loro, nella misura in cui essi
46
sarebbero divenuti parte di comunità residuali, scomode e difficilmente raggiungibili44
. Scrive
Kapuściński (1994), che ha visitato quelle cittadine all’indomani della caduta dell’Impero
sovietico:
“Il paese di Mujnak fino a qualche anno fa era un porto di pesca marittima. Ora si trova nel bel mezzo del
deserto, a sessanta, ottanta chilometri dal mare. […] Mujnak è un luogo triste. Un tempo si trovava nel
luogo dove lo splendido Amu Daria, sfociava nel Mare d’Aral […] Nel paese ogni vegetazione è seccata,
tutti i cani sono morti. Metà della gente è partita e chi è rimasto non sa che fare. Lavorare no: si tratta di
pescatori, e ora non c’è più pesce. […] Se non tira troppo vento la gente si siede su panchine poggiate
contro le pareti scrostate e fatiscenti delle loro casupole.” (Kapuściński 1994:254)
E’ chiaro, dunque, come, durante il periodo sovietico, la vita di un’abitante delle
cinque repubbliche (ma soprattutto uzbeko e kazako) fosse impregnata da tutta una serie di
relazioni che la legavano al cotone: iniziando dall’imposizione di semina e raccolta fino ad
arrivare alla questione politica. Ciò che Spoor (1993) ha chiamato la nomenklatura del cotone
consisteva in un sistema fatto a) di “baroni del cotone” spesso appartenenti all’élite politica
locale, b) di corruzione e falsificazione dei dati sul raccolto e c) della perpetrazione di
pratiche di lavoro forzato, soprattutto a fronte della raccolta in autunno. “In Asia Centrale
durante la raccolta del cotone tutto si ferma. Scuole, istituti, uffici pubblici, tutto viene chiuso
per due o tre mesi. Nessuno può venire esentato dall’obbligo.[…] Giornali, televisioni, radio,
tutto si mette al servizio del dio cotone” (Kapuściński 1994:251). In una annotazione di
Rumer (1987:82) ripresa da Spoor (1993:12) si legge: “L’Uzbekistan ha intrapreso un lungo e
tragico esperimento – che ha messo in luce la capacità della monocultura di corrodere non
solo l’agricoltura, ma anche l’industria, l’educazione, la salute e infine anche la moralità
pubblica”.
Come si vedrà nel corso del capitolo la situazione attuale della Repubblica dell’Uzbekistan,
pur essendo notevolmente cambiata rispetto alla situazione sovietica, è ancora fortemente
legata a questa coltura, uno dei monopoli più redditizi dello Stato.
44
Dico difficilmente raggiungibili perché, durante il mio soggiorno in Uzbekistan (tra ottobre e novembre 2014),
spinta dalla letteratura riguardante il disastro ecologico dell’Aral, ho cercato di organizzarmi per raggiungere
alcune delle comunità stanziate nel nord della regione autonoma del Karakalpakistan. Essendo la regione orai
caratterizzata da una vastissima area desertica, scarsamente collegata alle città principali del paese quali Bukhara
o Samarcanda, il raggiungimento della più vicina comunità di ex pescatori (Muynaq) necessitava di una guida
esperta e un viaggio di circa quattro giorni andata e ritorno, a bordo di un pick-up equipaggiato di viveri e
attrezzatura per passare la notte nel deserto. L’ingente spesa in termini di denaro e il difficile reperimento della
guida, essendo ottobre-novembre bassa stagione turistica, mi hanno infine indotta a rinunciare a tale visita.
47
2.2. WATER USERS ASSOCIATIONS (WUAs): PIANIFICAZIONE,
DISTRIBUZIONE E GESTIONE DELLE RISORSE IDRICHE
La transizione economica che interessò il paese all’indomani dell’indipendenza colpì,
in parte, anche la gestione delle risorse idriche. La decentralizzazione del potere fu uno, se
non l’unico, dei meccanismi di riorganizzazione delle acque messi in atto dal governo
indipendente (Veldwisch 2008; Veldwisch et al. 2012; Zinzani 2011). Come descritto nel
paragrafo precedente, con il crollo dell’Unione Sovietica, l’Uzbekistan ereditò un sistema
d’irrigazione su larga scala distribuito in svariati milioni di ettari.
Le riforme agrarie avviate dallo Stato nei primi anni di transizione economica
andarono ad influire, anche, sulla gestione delle risorse idriche. Come mostrerò nei paragrafi
successivi, l’introduzione di processi di decollettivizzazione e privatizzazione portarono alla
suddivisione delle grandi aziende agricole collettive45
in numerose aziende private, basate su
accordi di produzione individuali. Con la riorganizzazione del sistema agrario, dunque, il
vecchio modello di distribuzione dell’acqua, basato sul tipo di coltura e sugli assetti
ambientali annotati accuratamente nei registi collettivi, divenne fortemente obsoleto
(Abdullayev, Nurmetova, Abdullaeva & Lamers 2008).
Il cambiamento nella gestione delle risorse idriche avvenne col trasferimento dei pieni
poteri dello Stato46
alle Water Users Associations47
(WUAs), che iniziarono ad occuparsi
della pianificazione, distribuzione e gestione dell’acqua in campo agricolo e domestico
(Ibid.). Nel 2003 venne approvato un decreto governativo indirizzato alla suddivisione del
territorio nazionale in differenti bacini d’irrigazione48
. Le 13 sedi regionali e le 163 sedi
distrettuali d’amministrazione dei servizi idrici, più le 40 organizzazioni distrettuali di
gestione dei canali e svariate altre organizzazioni del settore facenti capo al Ministero
45
Durante il periodo collettivista i membri di sovkhoz, kolkhoz o shirkat (le principali organizzazioni agricole
collettive) non erano interessati a come avvenisse la distribuzione dell’acqua. Questo perché
l’approvvigionamento dei materiali utili all’agricoltura, tra cui appunto l’irrigazione, veniva interamente fornito
dallo Stato (Abdullayev, Nurmetova, Abdullaeva & Lamers 2008). 46
Il decreto legge n. 419 del 26 novembre 1996, approvato dal consiglio dei ministri, abolì definitivamente il
Ministero dell’Agricoltura ed il Ministero del Miglioramento della Gestione delle Acque (Ministry of
Agriculture and Ministry of Melioration and Water Management), fondati nel 1927-28. In sostituzione venne
creato un unico nuovo organo istituzionale centralizzato: il Ministero dell’Agricoltura e delle Risorse Idriche
(Ministry of Agriculture and Water Resources - MAWR) (Veldwisch et al. 2012:129). 47
La creazione di questa nuova organizzazione in campo idrico fu favorita da tre circostanze principali: il
collasso dell’Unione Sovietica e le successive riforme agrarie che cambiarono l’assetto del settore primario; la
pressione esercitata da organi internazionali quali Banca Mondiale, Asian Development Bank, United States
Agency for International Development (USAID) e l’International Water Management Institute (IWMI), a favore
della creazione delle Water Users Associations; il volere del Ministero dell’Agricoltura e delle Risorse Idriche
(Veldwisch et al. 2012:133). 48
Decreto presidenziale n. UP-3226 del 24 marzo 2003, seguito dal decreto legislativo n. 320 del 21 luglio 2003,
approvato dal consiglio dei ministri (Veldwisch et al. 2012:129).
48
dell’Agricoltura e delle Risorse Idriche, furono abolite. Vennero sostituiti con 10 enti per la
gestione dell’acqua e 1 ente per la gestione dei canali, con circa 52 sedi sparse nei differenti
bacini d’irrigazione49
(Veldwisch et al. 2012:129). Le nuove Associazioni iniziarono ad
occuparsi di controllo e manutenzione dei canali e dei bacini artificiali, della distribuzione
delle acque nelle terre agricole e dei contributi versati dai cittadini sia per uso domestico sia
per l’irrigazione delle terre private (Zinzani 2011). Attualmente, gli uomini a capo di questo
sistema manageriale delle risorse idriche vengono selezionati e garantiti direttamente dal
Ministero, divenendo, di fatto, personaggi chiave anche della pianificazione agricola
(Veldwisch 2008). Nella sua definizione formale una Water Users Association (WUA) risulta
essere un’associazione non-governativa, esente da fini di lucro e amministrata dai
rappresentati degli utenti che ne usufruiscono. In realtà, però, essa è strettamente vincolata al
controllo statale, entrando a far parte di una rigida struttura gerarchica fortemente subordinata
al volere governativo (Abdullayev, Nurmetova, Abdullaeva & Lamers 2008; Veldwisch et al.
2012). Uno degli indicatori forse più evidenti della coercizione statale è, come accennato
sopra, la nomina da parte dello Stato dell’apparato amministrativo. Attualmente, dunque,
nonostante il processo di decentralizzazione del potere, i maggiori provvedimenti in campo
idrico sono approvati sotto una stretta supervisione statale. Ciò è principalmente dovuto al
fatto che i nuovi enti che gestisco i differenti bacini d’irrigazione sono, ancora,
economicamente dipendenti dal Ministero dell’Agricoltura (Zinzani 2011). Molti di loro,
inoltre, sono affetti da una consistente inefficienza che compromette il funzionamento e la
manutenzione della rete di irrigazione e di drenaggio (Abdullayev, Nurmetova, Abdullaeva &
Lamers 2008; Veldwisch et al. 2012; Veldwisch 2008). Tale inefficienza è spesso dovuta
all’intromissione degli organi di governo a diversi livelli. Per esempio, lo statuto legislativo
definisce che le Water Users Associations (WUAs) siano associazioni finanziate dai canoni
d’utenza, i cui organi decisionali massimi sono le Assemblee Generali, uniche responsabili
dell’elezione del proprio presidente. I membri consistono in persone legali o fisiche in
possesso di immobili o terreni nelle aree territoriali di competenza di una delle Associazioni e
che, quindi, usufruiscono dei servizi pagando il canone d’utenza (Veldwisch et al. 2012).
Contrariamente a quanto scritto nelle carte ufficiali, tuttavia, lo Stato non ha mai dato pieni
poteri a questi enti. Inoltre, i governatori regionali (hokims) hanno sempre esercitato notevole
influenza sui programmi di gestione delle acque, specialmente nei periodi di maggiore siccità,
gravati del raggiungimento delle quote di produzione statali. Dal canto loro, gli agricoltori
49
A differenza delle organizzazioni abolite, questi nuovi enti, amministrativamente parlando, non dipendono più
dai governatori locali (hokims), né dagli uffici regionali e distrettuali, ma, direttamente dal dipartimento per le
risorse idriche del Ministero, a Tashkent (Veldwisch et al. 2012:129).
49
delle aziende agricole private (fermer), schiacciati anch’essi dall’onere delle quote di
produzione, conoscendo l’influenza degli hokims sulle risorse idriche, hanno continuato a
coltivare le proprie relazioni di fedeltà, raggirando la Water Users Association del bacino
d’irrigazione (Ibid.).
Analizzando le dinamiche di potere che ad oggi governano il sistema di distribuzione
dell’acqua si può notare che, le Water Users Associations (WUAs) non sono, come
propagandato dai documenti ufficiali, enti portatrici di principi democratici e di autogestione
ma, piuttosto, strutture che implementano il controllo statale sulla produzione agricola.
Come mostrerò nei paragrafi successivi, la produzione agricola dell’Uzbekistan
contemporaneo è fortemente regolamentata dallo Stato, soprattutto in merito alla coltivazione
di cotone e grano. Parallelamente, anche la distribuzione dell’acqua per l’irrigazione, per
quanto detto sopra, risulta essere parte del sistema autoritario governativo. Il controllo sulla
distribuzione delle risorse idriche viene utilizzato, dallo Stato, per controllare la produzione
agricola in generale, nonché il rispetto delle quote di produzione su cotone e grano in
particolare.
In merito allo sfruttamento delle risorse, e in particolare con riferimento alle
condizioni del sistema idrico e ambientale attuale, occorre considerare che
“Dal 1991 non è stato compiuto alcun intervento per la pianificazione di nuove opere; la mancanza di
fondi e competenze tecnico-idrauliche, hanno costretto le autorità alla sola salvaguardia delle strutture
idrauliche esistenti. Inoltre, di primaria rilevanza, è far fronte alle problematiche legate alla
desertificazione e salinizzazione dei suoli, fenomeno molto frequente e in crescita a causa dell’iper
sfruttamento delle superfici agricole; circa il 50% delle pianure irrigue uzbeke soffre di questo problema,
di difficile risoluzione per le autorità e gli enti competenti (Jozan, 2004, p. 279)” (cit. in Zinzani
2011:467).
2.3 COMUNITA’ RURALI IN TRANSIZIONE: RIFORME AGRARIE E NUOVI
SOGGETTI PRODUTTIVI
Dall’indipendenza (1991) ad oggi il sistema di organizzazione rurale uzbeco è sempre
stato in continua trasformazione. Le riforme agrarie, infatti, sono una componente
fondamentale del pacchetto di misure politiche volte al passaggio da un’economia di comando
ad un’economia di mercato adottate nelle transizioni economiche delle ex-repubbliche
sovietiche. Questo assume particolare rilevanza nel Centro Asia, regione composta da paesi
scarsamente industrializzati che hanno sempre basato il sistema produttivo sull’agricoltura
(Kandiyoti 2002). In particolar modo in Uzbekistan il 64% della popolazione vive in aree
50
rurali ed il 32% della forza lavoro è impiegata nel settore primario che genera circa il 25% del
prodotto interno lordo del paese (dati Governativi dell’Uzbekistan 2007, cit. in Djanibekov,
Bobojonov & Lamers 2012). Dopo il disfacimento dell’URSS, il nuovo apparato governativo
cercò di elaborare una forma di organizzazione della produzione agricola che si adattasse alle
necessità della Repubblica indipendente (Ilkhamov 2007; Veldwisch & Bock 2006). In epoca
sovietica kolkhoz50
(aziende agricole collettive) e sovkhoz (aziende agricole statali)
rappresentarono la forma dominante di gestione della produttività, dando vita ad un
complesso sistema manageriale basato su grandi aziende collettive assoggettate al volere
statale. L’allontanamento da questa politica collettivista, tuttavia, per l’Uzbekistan fu un
processo lento e problematico e la gradualità di tale processo fu una scelta politica
volutamente sponsorizzata dal governo. Se nella maggior parte dei paesi post-sovietici, infatti,
il rovesciamento del sistema politico ed economico fu accompagnato dal fenomeno di
decollettivizzazione dell’agricoltura, attuato con modalità di privatizzazione e ridistribuzione
delle terre differenti, in Uzbekistan ciò avvenne solo in parte. Le terre non furono mai
totalmente privatizzate, ed il controllo statale sulla produzione e sul commercio rimane, ad
oggi, una componente viva del sistema agrario (Veldwisch & Bock 2006). Molti autori sono
concordi nell’affermare che le riforme agrarie promosse nel corso degli anni non mirarono
mai ad una liberalizzazione del mercato, bensì ad una ri-regolarizzazione, che mantenne
integri molti di quegli elementi della gerarchia di controllo propri del periodo sovietico
(Kandiyoti 2002; Trevisani 2007; Spoor 2010; Veldwisch & Bock 2006). Secondo Deniz
Kandiyoti (2004), infatti, nel paese non si verificò mai un processo di privatizzazione delle
risorse, ma, piuttosto, un processo di decentralizzazione dei poteri. La superficie agro-
pastorale uzbeka è ancora saldamente di proprietà dello Stato ed il governo, fortemente
autoritario, riesce a mantenere un forte controllo su di essa e sulla sua produzione (Zinzani
2011).
In questo paragrafo analizzerò i principali stadi di sviluppo della transizione
economica. Al fine di comprendere al meglio tale processo ho ritenuto efficace avvicinarmi al
modello esplicativo costruito da Djanibekov, Bobojonov e Lamers (2012) nel libro Cotton,
50
Azienda agraria collettiva, considerata da Lenin uno strumento indispensabile del passaggio dalla coltivazione
privata della terra alla socializzazione. Invece che sul possesso della terra, il kolkhoz si fondava sull’accordo di
persone fisiche ed era disciplinato da un regolamento interno, concordato in armonia con i principi generali del
codice agrario sovietico. Operava all’interno degli schemi produttivi generali fissati dallo Stato per mezzo dei
piani quinquennali nazionali, godendo però, di una certa autonomia relativa ad alcune scelte economiche interne.
La terra era ceduta in uso perpetuo dallo Stato al kolkhoz, assieme ai mezzi impiegati per la produzione. Con la
riforma agraria iniziata nel 1990, nel quadro generale del processo di privatizzazione del terreno agricolo, queste
aziende collettive vennero da prima modificate e successivamente soppresse, dopo un periodo di transizione di
differente durata che vide protagoniste le 5 repubbliche post sovietiche (Enciclopedia Treccani 2012, disponibile
al link www.treccani.it/enciclopedia/kolkhoz).
51
Water, Salts and Soums. In tale studio gli autori propendono per una suddivisione in quattro
fasi critiche (vedi tabella in fig.11) dell’azione riformista che, dall’indipendenza, traghettò il
paese nella situazione attuale. Ogni fase si caratterizza per diversi livelli di regolamentazione
che portarono all’emergere di nuovi soggetti produttivi. Dalle grandi aziende statali (sovkhoz)
si passò a quelle collettive (kovhkoz e shirkat) ed infine ad aziende agricole private (fermer),
spesso associate in cooperative e fondate su di una produzione a base familiare (dekhon)
(Djanibekov, Bobojonov & Lamers 2012; Ilkhamov 1998).
52
(Fig
.11
) R
ifo
rme
agra
rie
nel
la t
ran
sizi
on
e p
ost
-ind
ipen
den
za.
(Dja
nib
ekov
, B
ob
ojo
nov
& L
amer
s 2
012
:10
2)
53
Il decentramento politico-economico, inoltre, è uno dei fattori chiave per comprendere
il quadro attuale della gestione delle risorse. Una significativa decentralizzazione dei poteri
dallo Stato alle regioni comportò, negli anni, l’ascesa degli hokim, governatori regionali forti
e politicamente influenti. Ancora oggi essi godono del pieno controllo delle superfici
coltivabili e delle relative produzioni agrarie, grazie ad un’apposita registrazione dei nuovi
soggetti privati in fascicoli regionali, veicolo primo di una ferrea supervisione (Zinzani 2011).
Si tratta di “una liberalizzazione nella gestione delle superfici agricole contraddistinta, quindi,
da un ridotto grado di libertà” (Ibid:5).
2.3.1 Prima fase (1992-1998): Dal Sovkhoz al Kolkhoz
Negli anni successivi all’indipendenza, il monopolio della produzione agricola passo
dal diretto controllo statale a quello collettivo. Molti sovkhoz vennero smantellati e
riorganizzati in aziende agricole collettive di minore entità: i kolkhoz51
(Djanibekov,
Bobojonov & Lamers 2012; Kandiyoti 2002; Trevisani 2007). Fu una manovra che si prefisse
l’obiettivo di ridurre i finanziamenti statali alle aziende, in favore di un sistema di auto-
finanziamento volto a risollevare il bilancio statale. Furono, inoltre, rimossi i vincoli di
produzione dalla maggior parte delle coltivazioni, ad eccezione di cotone, grano e riso
(Djanibekov, Bobojonov & Lamers 2012). Teoricamente, con tali presupposti, il nuovo
assetto produttivo sarebbe dovuto essere in grado di auto supportarsi e di decidere
autonomamente del destino della propria produzione. Ma, nella realtà delle cose, quanto in
profondità andò ad operare la conversione dei sovkhoz in kolkhoz? Secondo Alisher Ilkhamov
(2007), sebbene i nuovi soggetti produttivi fossero per definizione aziende agricole non
governative, essi di fatto continuarono ed essere un prodotto del sistema di comando
sovietico, avviato nel 1930. I kolkhoz, infatti, rimasero fortemente dipendenti dallo Stato,
unico proprietario della terra ed unico detentore del controllo sul credito, sui materiali d’avvio
della produzione (fertilizzanti, macchinari, sementi, carburante ecc.) e su gran parte delle
vendite (Ibid.). Riprendendo il concetto esposto da Max Spoor (1993) è possibile affermare
che negli anni successivi all’indipendenza la grande inefficienza delle aziende agricole statali
venne semplicemente convertita nella grande inefficienza delle aziende collettive.
La produzione dei kolkhoz poggiò solo in parte su dinamiche riconducibili
all’economia di mercato. Essa fu caratterizzata, piuttosto, da contratti di locazione e di
commercio fortemente regolamentati dallo Stato attraverso rigide clausole d’affitto.
51
All’attuazione della riforma in Uzbekistan si contarono 971 kolkhozes e 1.137 sovhkozes (Ilkhamov
2007:539).
54
Nonostante la legge riconoscesse formalmente la proprietà delle aziende collettive ai membri
che ne facessero parte, in concreto, essi si ritrovarono ad essere soggetti alienati di un sistema
che raramente lasciava loro la possibilità di amministrare tale proprietà liberamente (Ilkhamov
2007). Il lavoro nel kolkhoz era organizzato secondo rapporti di mezzadria: ogni membro
riceveva l’affido di un’area e di norma le aree venivano suddivise in parti uguali. L’affidatario
ne era responsabile durante tutto l’arco di vita del raccolto. Nei momenti più impegnativi,
come il periodo della raccolta, i lavoratori venivano raggruppati in brigate che solitamente
erano il risultato dell’unione di più membri aventi appezzamenti terrieri limitrofi e, talvolta,
potevano coincidere col mahalla, ossia l’organizzazione di quartiere. Ogni brigata lavorava
circa tre o quattro ettari di terreno (Zanca 2011). A livello amministrativo la volontà dei
membri si esprimeva attraverso il voto di maggioranza alle assemblee generali degli azionisti.
Tuttavia, i candidati con la facoltà di ricoprire cariche amministrative potevano essere
nominati esclusivamente e in via diretta dai governatori regionali (hokims), primi interlocutori
dello Stato (Ibid.). Oltre al mantenimento di tale nomenklatura (Ilkhamov 2007; Spoor 1993)
lo Stato influiva sul kolkhoz anche a livello produttivo, possedendo il controllo di fattori
basilari alla sopravvivenza delle aziende quali: l’accesso al credito, elargito esclusivamente da
banche governative, e spesso convertito in buoni d’acquisto per prodotti utili alla produzione
(fertilizzanti, carburante, lubrificanti meccanici, sementi ecc.); l’accesso alle risorse idriche e
l’accesso ai macchinari agricoli. Inoltre, l’imposizione di quote di produzione stagionali
influiva notevolmente sulla rendita derivante dal raccolto. Il cosiddetto “obiettivo di Stato”,
relativo alla produzione di cotone e grano, venne mantenuto come piano direttivo obbligatorio
per tutte le aziende agricole. Tale obiettivo andò via via diminuendo dal 1992 al 1997,
stabilizzandosi, una volta raggiunta la quota di produzione richiesta, sulla cessione del 30%
del raccolto di cotone e 25% del raccolto di grano. A causa di tale obbligo si stimò che circa il
65% della superficie coltivabile del paese venisse destinata alla produzione per lo Stato
(Ilkhamov 2007:541). Il meccanismo era costruito in modo tale che se, ad esempio,
un’azienda agricola riusciva a soddisfare al 100% il piano statale di produzione del cotone,
tolto il 30% che necessariamente avrebbe dovuto cedere allo Stato a prezzi di mercato
interno52
, avrebbe potuto vendere, sempre allo Stato, il restante 70% del raccolto ad un prezzo
più vantaggioso; il mancato adempimento del piano di produzione, invece, comportava la
totale confisca del raccolto, pagato integralmente al prezzo fortemente svantaggioso del
mercato interno (Ibid.). Il monopolio di Stato sull’intero export della materia prima, inoltre,
52
Nonostante la legge sostenesse che i prezzi di mercato interno non potessero mai essere inferiori ai 2/3 del
mercato mondiale, di fatto, stipulando gli accordi con le aziende in valuta locale (il cui tasso è circa il doppio del
tasso mondiale), il prezzo di mercato interno risultava essere 1/3 di quello mondiale (Ilkhamov 2007:542).
55
rese impossibile alle aziende l’affacciarsi autonomamente sul mercato mondiale53
(Kandyoti
2002; Ilkhamov 2007; Veldwisch & Bock 2006). Come accennato sopra la presenza statale
non si concretizzò unicamente nell’imposizione di quote di produzione, nel controllo delle
esportazioni o nelle decisioni legate alle modalità di semina e raccolta; essa si attuò anche
nella distribuzione di tutta una serie di forniture necessarie alla produzione. L’intero mercato
legato a fertilizzanti, diserbanti, carburanti, irrigazione, macchinari agricoli e sementi era in
mano ad agenzie governative, semi-governative o a banche specializzate nel settore54
(Ilkhamov 2007; Veldwisch 2008; Zanca 2011).
Alla fine del 1997 si stimò che 662 aziende agricole collettive chiusero i propri bilanci
in rosso ed il grave indebitamento con lo Stato le pose prossime alla bancarotta55
. Ciò derivò
spesso dal fatto che i collettivi, pagando materiale ed assistenza tecnica per la produzione a
prezzi di mercato internazionale, ma, allo stesso tempo, rivendendo il raccolto a prezzi di
mercato interni, vedevano la propria rendita bastare a malapena per pagare le spese di
produzione, e talvolta, neanche totalmente (Ilkhamov 2007; Veldwisch 2008). E’ interessante
notare, in accordo con Ilkhamov (2007), come questo sistema collettivista desse vita ad una
situazione fortemente ambigua: se da un lato il governo minacciava costantemente le aziende
agricole di applicare in via definitiva i meccanismi di fallimento per le imprese improduttive,
dall’altro, al momento di ufficializzare la bancarotta, esso si dimostrava clemente, estendendo
i tempi di rimborso del debito, azzerando gli interessi maturati sui prestiti bancari e
allungando, di fatto, la vita delle aziende. A tal riguardo la domanda che Ilkhamov (2007) si è
posto è: perché lo Stato non procedette al totale smantellamento dei kolkhoz, come nelle
repubbliche confinanti, vista la loro insostenibilità economica? Il motivo della volontà statale
di far sopravvivere questo “sistema sovietico privo di sovietici e di comunisti” si chiarisce in
ragione del fatto che, superando il periodo sovietico d’origine, esso divenne uno strumento di
ridistribuzione del potere e delle risorse economiche a vantaggio dell’élite dirigenziale
nazionale (Ibid.). La leadership dei vari kolkhoz aveva, infatti, il potere di influire
profondamente sulla vita degli abitanti dei villaggi limitrofi. Essa controllava l’accesso al
lavoro e alle retribuzioni salariali in denaro e aveva facoltà di decidere quali progetti per il
53
Per essere abilitati all’esportazione del cotone, infatti, i kolkhoz necessitavano di una specifica licenza
rilasciata dal Ministero per le relazioni economiche estere. Non vi furono mai casi in cui tale licenza venne
effettivamente rilasciata e il monopolio di Stato rimase sempre integro (Kandyoti 2002; Ilkhamov 2007;
Veldwisch & Bock 2006). 54
Come ad esempio: UzSelkhozTekhnika, specializzata nella riparazione di macchinari, UzAgroStroi, per le
costruzioni agricole, UzVodStroi, che si occupava della gestione del sistema d’irrigazione, UzEnergoSbyt, per il
rifornimento elettrico, Pakhta Bank, specializzata nell’industria cotoniera, Galla Bank, specializzata sul grano,
Tadbirkor Bank, Mevasabzavot Bank, Zamin Bank ecc. (Ilkhamov 2007:542). 55
Narodnote Slovo, 05/02/1997 cit. in Ilkhamov (2007:543)
56
villaggio sarebbero stati intrapresi e quali ignorati (in base all’esigenza d’origine del progetto,
delle relazioni con il promotore di quest’ultimo, ecc.). L’antropologo Russell Zanca (2011),
utilizzando materiale raccolto durante interviste ad esponenti della dirigenza e a kolhozdji
(lavoratori), mostra che, nonostante alcune amministrazioni lavorassero coscientemente, nella
maggior parte dei casi la percezione che gli abitanti dei villaggi e i lavoratori avevano di esse
riconduceva molto spesso alla figura del funzionario corrotto che utilizza la sua posizione per
catalizzare su di sé ogni tipo di privilegio possibile. In realtà è stato sottolineato come essi
eseguissero ordini provenienti dall’hokimiiat (leadership dei governatori regionali o
provinciali), occupando pertanto i gradini più bassi del potere nel sistema politico dello Stato.
I leader dei kolchoz, dunque, lavoravano come parte di una catena di comando che rafforzava
costantemente gerarchie di potere delimitando l’accesso alle risorse (Ibid.).
Contemporaneamente allo smantellamento dei sovkhoz vennero approvati
provvedimenti per la conversione di parte delle piantagioni di cotone in colture di grano, al
fine di colmare l’ammanco di prodotti per l’approvvigionamento e ridimensionarne le
importazioni. Fu, inoltre, aumentata la concessione di terra pro capite per i nuclei famigliari
rurali. Al momento dell’indipendenza, quindi, ogni famiglia stanziata in zone rurali ricevette
un appezzamento di terra addizionale a quella già posseduta (Kandiyoti 2002). All’area del
tamorka (0.12 ha), una piccola lingua di terra limitrofa la casa, paragonabile al nostro
giardino, venne affiancato il terreno del ko’sumcha tamoka (0.13 ha), un terreno provvisto di
sistema d’irrigazione, distante dall’abitazione, solitamente ricavato dai campi delle aziende
collettive (Veldwisch 2008:65). Tale provvedimento venne percepito come una pallida
risposta al malcontento della classe contadina che, sempre più spesso, non vedeva retribuito il
lavoro prestato nelle aziende agricole collettive. Proprio a causa di queste mancate
retribuzioni i nuclei famigliari iniziarono sempre più a far affidamento per il proprio
sostentamento alle terre private.
2.3.2 Seconda fase (1998-2003): dal Kolkhoz al Shirkat
Questa seconda fase fu inaugurata dall’attuazione di una legge che sancì la
conversione dei kolkhoz in cooperative agricole, shirkat, e piccole aziende private (fermer)
(Ilkhamov 2007; Kandyoti 2002; Veldwisch & Bock 2006; Zanca 2002). Per esempio, nella
regione di Khorezm su un totale di 132 kolkhoz, 123 vennero convertiti in shirkat mentre le 9
aziende restanti, le più inefficienti, vennero liquidate e trasformate in aziende private (fermer)
(Kandiyoti 2002:23). In Uzbekistan il concetto di shirkat si avvicina molto ai concetti di
comunità, compagnia, associazione; nella nuova legge sulla proprietà, infatti, la sua
definizione venne spesso associata a unità quali i mahalla e i nuclei famigliari (Ilkhamov
57
2007). Concretamente, però, il concetto teorico di shirkat venne applicato ad aziende agricole
create sulla base dei kolkhoz, i quali, una volta smantellati, vennero riassemblati in soggetti
produttivi più piccoli. In ambito produttivo non vi furono cambiamenti notevoli. Tra le colture
le quote di produzione rimasero: il 100% del cotone, 60% del riso, 50% del grano e 100%
della barbabietola da zucchero. Vennero stipulati nuovi contratti di collaborazione con gli
acquirenti statali a livello distrettuale e con i fornitori di materiali per la produzione56
(Kandiyoti 2002:24). Per comprendere più adeguatamente le dinamiche alla base di questi
rapporti produttivi riporto di seguito il caso del shirkat Ok Bugday57
, studiato da Deniz
Kandiyoti (2002) nella provincia di Khorezm. La produzione dell’azienda agricola di Ok
Bugday si articolava in tal modo: il shirkat riceveva un anticipo per l’avvio della produzione,
depositato in un conto corrente appositamente creato presso la Pakhta Bank (banca
specializzata nel settore cotoniero); tale anticipo non consisteva in una somma di denaro,
bensì in crediti da poter spendere, presso selezionati venditori statali, per l’acquisto di prodotti
quali pesticidi, fertilizzanti, macchinari, così come assistenza, manutenzione e ricambi
meccanici. Tale anticipo ammontava solitamente al valore del 25% del ricavato dell’anno
precedente e veniva versato tramite differenti transazioni specifiche per ogni settore d’uso.
Era, tuttavia, importante per il shirkat avere le proprie fonti di liquidità al fine di poter fare
acquisti in contanti o, ad esempio, stipulare accordi trasversali con alcuni dei propri fornitori.
Nel caso in esame la vendita di bestiame era una delle fonti d’introito più affidabili; in alta
stagione un shirkat arrivava a vendere fino a 70 capi di bestiame a settimana (ibid:25). La
riorganizzazione del lavoro sulle terre collettive post-kolkhoz vide l’abbandono della brigata58
come unità base della produzione che venne, infatti, sostituita dal nucleo famigliare. Fu
56
Gli acquirenti statali possono essere la fabbrica di lavorazione del cotone grezzo, l’organizzazione per la
trasformazione di prodotti derivanti dal grano, la fabbrica di zucchero o il caseificio per quanto riguardava il latte
(nonostante quest’ultimo rientrasse nel mercato libero non essendoci quote sul latte). Per fornitori di materiali e
servizi alla produzione, invece, si intendono i fornitori di attrezzature meccaniche per trattori, aratri ecc.,
l’organizzazione statale petrolifera, venditori di fertilizzanti o prodotti chimici per l’agricoltura (Kandiyoti
2002). 57
Azienda collettiva divenuta shirkat nel 1999. Composta da una superficie totale di 2.740 ettari, il 60% della
quale coltivata a cotone, il 15% a riso, 11% con barbabietola dello zucchero e il 7% a grano. Le terre rimanenti
erano, infine, dedicate all’orticultura. Per il shirkat lavoravano circa 1.800 famiglie. La grandezza della terra data
in concessione ad ogni famiglia dipendeva dal tipo di coltura e dalla possibilità che essa aveva in termini di forza
lavoro: 5 ha per il grano, 1.1 ha per il riso e 1.7 ha per il cotone. A 1.620 famiglie fu distribuito un totale di 368
ha di terra che divenne privata sotto forma di tamorka. Il shirkat, inoltre, possedeva un allevamento di circa 800
capi di bestiame, curato da 36 lavoratori salariati. I lavoratori ufficialmente salariati erano più o meno 120, da
sommarsi ai lavoratori stagionali (Kandiyoti 2002:23). 58
La brigata, intesa come una coalizione di lavoratori accomunati dalla vicinanza abitativa o dalla vicinanza dei
campi coltivati, continuò ad esistere, ma a differenza del passato, non si occupò più della produzione, iniziò a
svolgere perlopiù lavori di manutenzione come la pulizia o la riparazione dei canali d’irrigazione (Kandiyoti
2002).
58
introdotto un particolare contratto di lavoro chiamato pudrat59
(Veldwisch 2008).
Dall’organizzazione del lavoro basato sulle brigate si passò, dunque, a quello basato sulle
famiglie. Il pudrat di fatto era un contratto di lavoro stipulato tra il shirkat e le varie famiglie
locatarie e consisteva nella responsabilità di ogni nucleo famigliare di una parte di terreno da
coltivare secondo specifici accordi di collaborazione60
. Tale contratto sanciva l’ingresso dei
soggetti produttori in una serie di rapporti di mezzadria fatti di pagamenti salariali
occasionali, il più delle volte sostituiti dallo scambio di merci, da concessioni di vario genere
e benefici riguardanti protezione o welfare (Djanibekov, Bobojonov & Lamers 2012). Ogni
famiglia con contratto pudrat, a inizio stagione, veniva dotata di uno specifico registro o di un
libretto degli assegni in cui annotare tutte le spese sostenute per il raccolto. Alla fine
dell’anno, dopo il deposito dei bilanci sulla produzione, il costo delle spese sostenute dal
shirkat, segnate nei registri e addizionate al costo dei servizi tecnici offerti dal personale
specializzato (agronomi, commercialisti, manutentori meccanici ecc.), venivano detratte
dall’importo dovuto al pudrat per l’ammontare del raccolto61
(Kandiyoti 2002). Un simile
contratto di collaborazione sfavoriva nettamente i lavoratori su vari livelli:
- sulla vendita a prezzi irrisori del raccolto soggetto alle quote di produzione statale (vedi
paragrafo 2.3.1);
- sul pagamento dei materiali di produzione attraverso crediti anticipati dal shirkat in
buoni d’acquisto. Questi materiali, infatti, acquistati da fornitori statali venivano pagati
ad un prezzo superiore rispetto a quelli acquistabili in denaro al bazar;
- sul pagamento di un’elevata tassa di supporto all’apparato tecnico-amministrativo.
Riporto di seguito alcuni frammenti estratti da un serie di interviste fatte dall’antropologa
Deniz Kandiyoti (2002) a lavoratori pudrat del shirkat di Eski Kishlak, situato nei pressi della
città di Andijan (Valle del Fergana), che testimoniano le difficoltà dei contadini impiegati
nelle aziende collettive:
59
Il termine pudrat può essere utilizzato anche nell’accezione di piccola brigata di lavoratori organizzati su
relazioni di tipo familiare (Veldwisch 2008). 60
Nel caso in esame, Kandiyoti (2002) apporta l’esempio di un contratto pudrat tra i più diffusi, una
collaborazione della durata di un anno relativa alla coltivazione del cotone. I termini del contratto prevedevano
che il shirkat desse alla famiglia locataria un incentivo all’intera produzione annua di circa il 25% della rendita
dell’anno precedente. Al termine della stagione, se il contadino riusciva a produrre quanto specificato dalle quote
contrattuali, il 50% del raccolto doveva essere venduto al shirkat al prezzo di mercato interno deciso dallo Stato
(Kandiyoti 2002:25). 61
Nel caso in cui una famiglia locataria avesse prodotto 6 tonnellate di cotone, quantificabili
approssimativamente in 300.000 sums, circa la metà veniva subito destinata al rimborso degli anticipi che il
shirkat concedeva per l’avvio alla produzione, altri 40.000 sums venivano richiesti per il pagamento
dell’apparato amministrativo (contabili, servizi idrici, specialisti agronomi ecc.). Il guadagno finale si aggirava,
dunque, intorno ai 70.000 sums, circa il 25% del totale stipulato nel contratto di locazione (Kandiyoti 2002).
59
Oyashahon: “Sono una team leader, e ci sono altre quattro donne nel mio team. Mi avevano dato un
libretto d’assegni per una locazione di cinque ettari di terra da suddividere tra di noi. Non ci hanno fatto
un contratto, hanno distribuito le azioni e i libretti degli assegni, ma poco dopo se li sono ripresi. Il shirkat
dovrebbe provvedere a fertilizzare, irrigare e fornire i trattori per i cinque ettari di terra. Al momento, ne
hanno fertilizzato solo uno e i trattori sono venuti a lavorare solo tre volte. Noi ci prendiamo cura del
cotone come fosse nostro figlio, andiamo nei campi tutti i giorni. Questo non è tutto, non ci hanno
spiegato molte cose: cos’è un’azione, come si usa il libretto degli assegni? Molta gente non si fida di
queste azioni e di questi libretti. Dovremmo ottenere dei dividendi dal possesso di queste azioni, ma al
momento nessuno sa niente. Il shirkat mi ha dato 1 kg di burro, 2 kg di riso, 5 kg di pasta e 100 kg di
grano per il mio lavoro.”
Kizlarkhon: “Coltivo cotone su di un campo di un ettaro, butto il diserbante, curo la potatura e la raccolta.
Se non raggiungo le quote di produzione, devo pagare per questo. E’ da primavera che non ci pagano il
salario. Al posto del denaro mi hanno dato 1 kg di burro, 2 kg di riso, 5 kg di pasta e 100 kg di grano.”
(Kandiyoti 2002:29)
Concretamente, dunque, essendo spesso private della possibilità di avere un adeguato
compenso in denaro, queste famiglie si ritrovarono a basare la loro sussistenza principalmente
sul ricavato degli appezzamenti di terra privata (tamoka e ko’sumcha tamoka), sul baratto del
surplus che da essa ne ricavavano, sull’allevamento di qualche capo di bestiame e su un
fenomeno fiorito negli ultimi anni: il lavoro migrante (Ibid.).
Oltre che per i contadini questa nuova struttura produttiva, basata su contratti
famigliari, iniziò ad essere onerosa anche per l’apparato amministrativo del shirkat.
L’efficienza della produzione, volta al raggiungimento delle quote statali, rischiava di essere
messa in discussione dalla frammentazione dei contratti di lavoro, onerosi in termini di spese
di gestione (Trevisani 2007). Nel caso dell’Ok Bugday l’amministrazione arrivò a seguire
anche 1.800 contratti di lavoro simultaneamente (Kandiyoti 2002:26).
Vista, dunque, la subalternità e la condizione servile in cui versavano le famiglie locatarie,
cosa spingeva una famiglia a diventare pudrat?
Dirigente del shirkat: “[…] Noi uzbeki abbiamo la nostra cultura. Cos’è la cosa più importante della
nostra vita? Essere capaci di arrangiare un buon matrimonio per i nostri figli ed un buon funerale per chi
ci lascia. Quando un membro del shirkat mi dice “ho bisogno di 40 kg di riso e 20 l d’olio per il
matrimonio di mia figlia”, cosa dovrei fare? Come posso negarglieli? Dobbiamo essere in grado di
continuare a guardarci in faccia. Voglio poter essere in grado di dirgli selam-in aleykim [buona fortuna]
per il vostro giorno. Molti dei debiti che hanno vengono da queste cerimonie.” (Kandiyoti 2002:26)
Come dimostrano queste parole pronunciate da un esponente dirigenziale di un shirkat, tali
contratti lavorativi non si limitavano all’aspetto meramente lavorativo, ma nella maggior parte
dei casi prendevano le sembianze di veri e propri contratti sociali. I vincoli che legavano i
lavoratori della terra ai collettivi o alle aziende private (fermer) erano una miscela di
60
mancanza di alternative62
, da un lato, e forme di protezione paternalistica dall’altro (Ilkhamov
2007; Kandyoti 2002; Veldwisch & Bock 2006; Zanca 2002). Oltre alla tutela della cartella
lavorativa registrata presso un’azienda collettiva (valente per la pensione e per l’accesso ad
alcuni servizi sociali), il contratto pudrat era alla base di benefici ai quali, i lavoratori del
shirkat, potevano accedere solo grazie al mantenimento di una seria di relazioni clientelari coi
rappresentanti dell’amministrazione. Tra i favori più comuni vi erano: la possibilità di
utilizzare, dopo la raccolta, gli steli secchi della pianta del cotone come combustibile o come
foraggio per gli animali; la concessione di poter pascolare, in alcuni periodi dell’anno, il
proprio bestiame nelle terre collettive; la possibilità di vendere l’olio di cotone in eccesso nei
bazar così come lo zucchero scartato dalla raffinazione della barbabietola ecc. Inoltre, con una
specifica locazione, veniva permesso di piantare coltivazioni a “crescita rapida” (carote,
piselli, fagioli ecc.) nei campi in cui fosse appena terminata la raccolta del grano; un periodo
di locazione, questo, che si limitava alla pausa produttiva tra la raccolta e la nuova semina
(Djanibekov, Bobojonov & Lamers 2012; Kandiyoti 2002; Veldwisch 2008; Veldwisch &
Bock 2011). Il beneficio più importante, infine, era la possibilità di ricevere un appezzamento
di terra irrigata in aggiunta alla tamoka. Come accennato prima, lo Stato promulgò una legge
per la ridistribuzione di parte delle terre collettive al popolo e a tal proposito investì le aziende
collettive del compito di distribuire tali terre. I lavoratori registrati nei collettivi poterono
accedere a terre mediamente più grandi e più fertili rispetto alla popolazione generale
(Kandiyoti 2002).
La questione a questo punto è: perché lo Stato sentì la necessità di creare i shirkat se,
come abbiamo visto, non vennero apportate grandi modifiche relative all’organizzazione
produttiva e lavorativa, tanto da poterli definire kolkhoz in miniatura? Nell’analisi di Alisher
Ilkhamov (2007) la necessità di questo cambiamento è legata essenzialmente a due motivi: in
molti luoghi, specialmente quelli più densamente popolati (come la Valle del Fergana), il
disfacimento dei kolkhoz si rese necessario per l’intricata e ingovernabile burocrazia venutasi
a creare attorno ad essi, che ne deteriorò di molto la, già discutibile, efficienza. Tuttavia, il
motivo più rilevante dell’inserimento del shirkat nella vita del paese andò ben oltre il mero
scopo burocratico-amministrativo. Il termine kolkhoz, nonostante riscuotesse una certa
famigliarità nell’immaginario collettivo, divenne un sostantivo scomodo alla leadership
nazionale. Era forte, infatti, l’associazione col vecchio sistema sovietico che esso veicolava. Il
discorso del Presidente Islam Karimov, tenutosi nel 1997, è illuminante in tal senso:
62
Si consideri, in questa precisa fase di transizione economica, l’elevata disuguaglianza nell’accesso alle risorse
di un contadino autonomo rispetto ad un contadino vincolato ad un’azienda agricola collettiva. Di fatto la
maggior parte delle risorse, sia idriche che energetiche, venivano prosciugate dai collettivi.
61
“[…] Rivolgiamoci ora al significato di concetti quali kolkhoz e sovkhoz. Il nostro popolo è di
animo tanto buono da accettare abilmente parole esotiche di cui non capisce completamente il significato
[…] kolkhoz significa “kollektivnoye khozyaistvo”, sovkhoz significa “sovetskoye khozyaistvo”. Entrambi i
termini rimandano all’epoca sovietica. Questi concetti non rientrano nella nostra vita di oggi, non
rispecchiano la nostra nuova realtà, il nostro orgoglio nazionale. Oggi c’è bisogno di organizzare
l’economia su nuove basi, nuovi presupposti che già vengono praticati in tutti gli altri paesi civilizzati.
Ritengo appropriato, dunque, associare dei nomi alle aziende agricole in trasformazione per merito dei
nostri azionisti, che rispecchino la loro essenza – shirkat agricoli o cooperative agricole.” (Islam Karimov
1997, cit. in Ilkhamov 2007:545)
Al di la della retorica nazionalista utilizzata dal Presidente, da queste poche righe si
evince come l’élite nazionale avesse il desiderio di tenere in piedi il sistema collettivista
snaturandolo della sua origine storica d’epoca sovietica. La rinominazione delle aziende
agricole fu uno dei mezzi messi in atto a tal fine. Il kolkhoz, che urtava l’orgoglio nazionale,
venne ufficialmente relegato nel passato, mentre il shirkat, suo degno sostituto, fu presentato
come la più efficiente organizzazione per riformare il sistema agrario, un’entità produttiva in
perfetta armonia con gli interessi contadini e del gruppo dirigenziale (Ilkhamov 2007). E’
chiaro, a questo punto dell’analisi, come la diversità delle unità di produzione agricola sia
rintracciabile più a livello formale (kolkhoz, shirkat, join-stock, cooperative ecc..), piuttosto
che di contenuto. La somiglianza in questa miriade di nomi, infatti, è lampante se si riflette
sull’effettivo grado di privatizzazione di ciascuna (Zinzani 2011).
Per quanto riguarda le join-stock (o società di capitali) la situazione non si discostò
molto dai shirkat. L’unico cambiamento sostanziale fu il tentativo di unificare l’impresa
agricola ai processi di lavorazione industriale della materia prima. Ciò che oggi definiremmo
agro-impresa (Ilkhamov 2007).
Si verificò, infine, un aumento del numero di aziende agricole private (fermer), di
cooperative create dall’unione di queste ultime e la crescita di piccole aziende (dekhon,
termine traducibile con “contadino”, che si riferisce a quelle piccole attività agricole la cui
produzione è finalizzata esclusivamente alla sussistenza). L’emergere dei fermer venne
regolamentato da una privatizzazione che, a livello teorico, si sarebbe dovuta compiere
seguendo i principi comunisti della giustizia sociale, ossia spartendo le terre collettive in parti
uguali. Tuttavia, come l’intera storia socio-economica sovietica ha ampiamente dimostrato,
l’egalitarismo coercitivo non può essere considerato uno strumento valido per l’eliminazione
delle problematiche legate al binomio giustizia/ingiustizia. Il propagandato livellamento della
ricchezza pubblica fu presente più sulla carta che nella vita reale del popolo (Ibid.). I primi
anni per i fermer furono duri, la concorrenza dei grandi collettivi era spietata, tanto che le
aziende neonate vennero investite immediatamente da una pesante crisi economica. Furono
62
intenzionalmente relegati ad una condizione di subalternità rispetto alle grandi aziende
collettive. Secondo la legge riguardante la regolamentazione delle aziende contadine, i fermer
dovevano, inizialmente, essere creati in specifiche riserve statali, terre spesso di nuova
irrigazione, aride, improduttive e tendenzialmente poste in aree in cui la forza lavoro era di
difficile reperimento. La disuguaglianza venne sancita, inoltre, dall’inquadramento giuridico
relativo all’uso della terra. In accordo con la legge, il contratto di locazione, stipulato tra
governatori distrettuali (hokim) e fermer, non poteva superare i 10 anni (non rinnovabili),
diversamente dalla locazione per le aziende agricole collettive che era perenne. Il governo,
non creando le condizioni favorevoli allo sviluppo del settore privato, condannò, in
quegl’anni, le aziende private ad una quasi totale dipendenza dalle aziende collettive. Un
hokim distrettuale:
“sosteniamo pienamente lo sviluppo di contadini [privati]. Molti contadini nel nostro distretto si
dimostrano veri proprietari terrieri coscienziosi. Ciò nonostante, non è accettabile che ci siano persone
che, in modo subdolo, seminano i propri campi senza alcun precedente accordo, con colture che sono
redditizie per loro. Sì, si deve ammettere, rivitalizzano terre senza valore. Ma il gioco dovrebbe essere
giocato secondo le regole.” (Ilkhamov 2007:550)
Come si deduce dalle parole riportate sopra, non era affatto raro che molti dirigenti di kolkhoz
o shirkat considerassero i contadini indipendenti come loro sottoposti, dettando legge sul tipo
di produzione e sul mercato di vendita (Ilkhamov 2007; Markowitz 2008). La situazione,
però, andò trasformandosi nel corso degli anni, in particolare nei primi anni 2000 quando,
come si vedrà nel paragrafo seguente, fermer e dekhon divennero i nuovi soggetti produttivi
dell’agricoltura contemporanea dell’Uzbekistan (Veldwisch 2008).
2.3.3. Terza fase (2003-2008): Decollettivizzazione
I shirkat ebbero vita breve. Già dalla fine della seconda fase vennero messi in atto
meccanismi di frammentazione che convertirono le grandi aziende collettive in fermer. La
privatizzazione venne dapprima applicata ai shirkat meno produttivi e gradualmente estesa
alla maggior parte di essi (Djanibekov, Bobojonov & Lamers 2012; Kandiyoti 2002;
Trevisani 2007; Veldwisch 2008; Veldwisch & Bock 2011). Questo periodo, infatti, secondo
Nodir Djanibekov (2012:101), può essere a giusta ragione definito “decollettivizzazione”. I
primi anni 2000 furono caratterizzati dalla rapida conversione dei terreni collettivi in terreni
agricoli privati, una trasformazione avvenuta grazie all’introduzione di contratti di locazione
più favorevoli nei confronti dei singoli coltivatori indipendenti (vedi fig.12).
63
In questa fase i fermer divennero il cuore della produzione agraria del paese
(Djanibekov, Bobojonov & Lamers 2012; Veldwisch 2008; Veldwisch & Bock 2011). In
media dalla privatizzazione di un shirkat potevano emergere circa 130 fermer63
(Djanibekov,
Bobojonov & Lamers 2012:101). A Yangibozor, un distretto di 65.000 abitanti posto nei
pressi dell’Amu Darya, 19.500 ha di terra suddivisi in 11 shirkat vennero ridistribuiti a circa
1200 fermer (Trevisani 2007:196). Nonostante il termine utilizzato (privatizzazione), va
ricordato che le terre coltivabili degli ex kolkhoz e shirkat rimasero di esclusiva proprietà
dello Stato. L’accesso ad esse venne legittimato da contratti d’affitto a lungo termine stipulati
tra fermer e hokim distrettuali (la durata della locazione variava da un minimo di 10 anni ad
un massimo di 50, comprendenti il diritto ereditario). Tali concessioni, comunque, potevano
essere revocate in qualsiasi momento nel caso in cui il produttore privato non si fosse attenuto
ai piani aziendali concordati nel contratto di locazione (Trevisani 2007).
Con l’emergere del settore privato e il tramonto di quello collettivista, i meccanismi di
dipendenza statali vennero, ancora una volta, fatti scivolare dalla vecchia organizzazione
(shirkat) alla nuova (fermer) (Ilkhamov 2007; Kandiyoti 2002; Trevisani 2007; Veldwisch
2008). La decollettivizzazione fu un momento di cambiamento importante per coloro i quali si
trovavano coinvolti nel settore primario. I diritti sullo sfruttamento dei terreni coltivabili
passarono per la prima volta all’individuo e le terre vennero ridistribuite ad una minoranza di
agricoltori, escludendo gran parte dei membri associati ai shirkat dall’accesso diretto. Infatti
63
Lo Stato favorì la nascita di fermer di grandi dimensioni. Per esempio, nella regione del Khorezm, si passò da
fermer di 7.5 ha nel 1998 a 13 ha nel 2003 fino ad arrivare a 15 ha nel 2006 (Djanibekov, Bobojonov & Lamers
2012:101).
(Fig.12) Trasformazione d’uso della terra in periodo post-indipendenza (Veldwisch 2008:64).
64
solo il 5-10% della popolazione divenne fermer64
, il restante 90-95% delle famiglie rurali
divenne dekhon. Questa transizione fece, inoltre, diminuire notevolmente la quantità di
lavoratori necessari per l’agricoltura: mentre il shirkat impiegava un contadino ogni 1.4 ha di
cotone e ogni 3 ha di grano, il fermer impiegava un contadino ogni 2 ha di cotone e ogni 4 ha
di grano. Il risultato fu che molte persone si ritrovarono disoccupate (Trevisani 2007). Nel
periodo della decollettivizzazione esclusi e inclusi dell’agricoltura post-collettiva andarono
gradualmente acquisendo una loro specificità, costituendosi, infine, come categorie distinte:
quella dei fermer (dal russo “agricoltore”) e quella dei dekhon65
(dall’uzbeko “agricoltore”)
(Trevisani 2007; Zinzani 2011). Già con un decreto legge del 1998 introdusse la distinzione
tra i possessori di un piccolo appezzamento di terra finalizzato alla sussistenza (dekhon) e i
contadini indipendenti (fermer) (Zinzani 2011). Riporto di seguito una schematizzazione che
rende immediata la percezione delle differenze tra i due soggetti in esame:
Fermer:
- sono entità legali (con un decreto del marzo 1997, infatti, alle aziende agricole indipendenti venne
garantito lo status giuridico);
- possono stipulare contratti di locazione della terra da un minimo di 10 anni ad un massimo di 50, con la
possibilità di ricevere una concessione ereditaria;
- per il lavoro si servono per lo più di famigliari, parenti, qualche lavoratore a tempo pieno;
- la concessione viene data previa presentazione di una richiesta scritta al shirkat o all’hokim distrettuale,
richiesta che deve essere seguita da un ipotetico piano produttivo;
- deve avere una mandria di minimo 30 capi di bestiame per l’allevamento, un minimo di 10 ha coltivati a
cotone e grano e un minimo di 1 ha per l’orticultura;
- l’utilizzo della terra deve essere finalizzato a determinate attività agricole specificate nel contratto di
locazione.
Dekhon:
- hanno l’opzione facoltativa di ricevere lo status giuridico;
- hanno la locazione a tempo indeterminato della terra, che può inoltre essere ereditata;
- si possono avvalere esclusivamente della forza lavoro proveniente dalla famiglia;
- possono avere un massimo di 0.35 ha di terra in concessione, più un aggiunta di 1 ha in relazione alle
condizioni climatiche della regione e del sistema d’irrigazione;
- possono utilizzare la terra in concessione per attività agricole o edilizie di libera scelta;
- la concessione viene data previa presentazione di una richiesta scritta o al shirkat o all’hokim distrettuale.
(Kandiyoti 2002:12)
Sia fermer che dekhon, inoltre, erano soggetti al pagamento di una tassa per la concessione
della terra (Ibid.).
64
La categoria dei fermer divenne il naturale bacino d’accoglienza di tutta una serie di amministratori, dirigenti,
agricoltori, capi di brigata ecc. delle ex aziende collettive, i quali, spesso, erano accomunati da una fitta rete di
relazioni e buoni rapporti con gli hokims distrettuali e provinciali (Veldwisch 2008). 65
Come descritto dal codice di regolamentazione della terra del 1998 (Trevisani 2007:197).
65
Di seguito analizzerò come le relazione di dipendenza instauratasi tra le aziende
collettive e i pudrat, e inizialmente, tra shirkat e fermer, venga replicata in questa terza fase,
così come ai nostri giorni, nel rapporto tra fermer e dekhons. Mostrerò, infine, come tale
modello di subalternità possa essere applicato anche al rapporto tra fermer e Stato.
Come affermato in precedenza i dekhon (circa il 90% della popolazione rurale) si
costituirono come un vasto gruppo di famiglie contadine. Tale gruppo è tutt’ora caratterizzato
da un’enorme varietà di status ed identità, e dal ricorso a strategie di guadagno derivate da
attività economiche differenti (Trevisani 2007; Veldwisch & Bock 2011). La categoria
rappresenta la maggior parte della forza lavoro del settore produttivo primario, includendo in
esso anche il lavoro prestato nelle coltivazioni dei fermer. Affinché la relazione dekhon-
fermer possa essere adeguatamente compresa è necessario tenere in considerazione la vasta
gamma di attività economiche messa in atto dalle famiglie rurali per il proprio sostentamento
(Ibid.). Secondo lo studio condotto da Gert Jan Veldwisch e Bettina Bock (2011) sulle
pratiche economiche dei dekhon in Uzbekistan, esse possono essere raggruppate in tre
categorie fondamentali: a) produzione agricola indipendente, b) produzione agricola
dipendente dai fermer, c) attività non-agricole. Ciascuna attività viene decisa ed organizzata
all’interno del nucleo famigliare66
.
a) La produzione agricola indipendente consiste nella rendita derivata dagli appezzamenti
privati di tamorka e ko’sumcha tamorka. La terra limitrofa all’abitazione viene solitamente
coltivata con patate e varietà di frutta e ortaggi. Il campo distante dall’abitazione, invece,
viene solitamente coltivato con due tipi di grano differenti (l’inverno), con riso e mais
(l’estate). Il surplus prodotto dalla coltivazione di queste terre viene, inoltre, barattato in una
rete di relazioni di vicinato oppure venduto nei bazar. Molti dekhon posseggono, poi, capi di
bestiame quali bovini, polli e pecore. Come nel rapporto pudrat-shirkat anche in quello
dekhon-fermer permane la consuetudine di stipulare accordi informali per il diritto di pascolo
66
La famiglia allargata è l'unità primaria del consumo, della distribuzione e della produzione di un dekhon. E’
un’unità patriarcale in cui l’uomo a capo della famiglia ne gestisce il bilancio, assegna le mansioni lavorative e
decide in merito a tutte le questioni di rilevanza economica e sociale. La moglie, i figli, le figlie e le nuore (nel
caso in cui vivano nella stessa abitazione), mettono in comune i propri salari, chiedendo denaro in caso di spese
straordinarie. Il lavoro viene suddiviso lungo la linea generazionale e secondo il genere. Le donne solitamente
sono responsabili della casa e tra i compiti di cui devono occuparsi rientrano la coltivazione del tamorka, la
mungitura, la lavorazione del cibo, la produzione di seta, i processi per diserbare i campi ed il commercio nei
bazar. Tali mansioni vengono coordinate dalla moglie del capo famiglia. Le donne, inoltre, sono la maggior
parte della forza lavoro impegnata nei campi dei fermers; tale femminizzazione dell’agricoltura è in parte il
risultato dell’ondata di lavoro migrante maschile degli ultimi anni. Gli uomini, invece, sono responsabili della
stipula di contratti lavorativi, del reperimento di materiali per l’avvio della produzione, del sistema d’irrigazione
e della coltivazione del ko’sumcha tamorka. I bambini lavorano nei campi dall’età di 10 anni, ma già in tenera
età si danno da fare per aiutare le donne nella cura della casa, del giardino e del bestiame (Trevisani 2007; Wall
2006). Per un approfondimento sulla suddivisione di genere del lavoro e sulla femminizzazione dell’agricoltura
si vedano Aslan (2008), Constantine (2007), Kandiyoti (2002), Koch (2011).
66
del bestiame nelle terre private. Una seconda consuetudine molto diffusa è la possibilità data
dai fermer ai contadini di accedere al residuo della pressatura dei semi di cotone, utilizzato
come foraggio per gli animali (Veldwisch & Bock 2011; Trevisani 2007; Zanca 2011). Si noti
come anche l’allevamento sia, in parte, inserito nel reticolo di relazioni di dipendenza che
vedono la loro massima espressione in ambito agricolo.
b) Oltre al lavoro nelle terre di proprietà, circa la metà delle famiglie dekhon sono inserite nel
ciclo produttivo delle aziende agricole private. L’attività più comune è il lavoro manuale nei
campi (per lo più nelle coltivazioni di cotone) attraverso contratti di mezzadria, molto simili ai
contratti pudrat, che prevedono la divisione della aree coltivate in circa 2 ha pro capite.
Sebbene il contratto pudrat sia stato formalmente abolito, a livello colloquiale le persone si
riferiscono a questi tipi di accordi continuando ad utilizzare tale termie. La maggior parte dei
lavoratori di questo genere non percepisce una vera e propria retribuzione salariale: nei casi in
cui essa sia prevista non supera i 7-10$ per mese, per ettaro, nel periodo della crescita, durante
la raccolta invece l’eventuale retribuzione viene conteggiata in base ai kg del raccolto
(Veldwisch 2008:78). In alternativa a queste esigue somme di denaro, come nel caso visto in
precedenza riguardante i lavoratori del shirkat, i pagamenti si quantificano in tutta una serie di
benefici o elargizioni di beni alimentari, negoziati nell’arco della stagione produttiva in base
al rendimento dei campi67
(Veldwisch & Bock 2011). Questi rapporti informali, di fiducia,
che si creano attorno al fermer divengono facilmente vere e proprie reti clientelari con
collegamenti di scambi differenti e di dipendenze reciproche, in cui ovviamente è l’agricoltore
privato a detenere la posizione di potere. La citazione riportata qui sotto mostra bene la natura
multiforme del panorama di relazioni possibili:
Intervistatore: “Per quanto riguarda i tuoi figli? Per chi lavoreranno?”
Dekhon: “Uno di loro lavorerà qui [in agricoltura, nel villaggio], mio figlio minore, ma non gli ho ancora
permesso di firmare [un contratto] con alcun fermer. Penso che probabilmente lavorerà per il fermer
proprietario del campo di riso per cui io ho sempre lavorato. Abbiamo una sorta di accordo verbale
riguardo a ciò. […] In cambio di questo lavoro alla piantagione di riso, mio figlio lavorerà anche per il
suo campo di cotone, avendo il permesso di accedere a 1-1.5 ha di rovi secchi da ardere per il fuoco.
(Veldwisch 2008:78)
In aggiunta alla cura delle piantagioni cotoniere il dekhon può collaborare anche alla
produzione commerciale del riso attraverso tre modalità differenti: come forza lavoro nel caso
in cui il fermer detenga il pieno controllo di tutta la produzione (come nella citazione sopra);
67
Per esempio: l’utilizzo degli steli secchi delle piante di cotone come combustibile per il fuoco, pagamenti in
riso, grano o altri beni alimentari di prima necessità, la garanzia dell’accesso ad un appezzamento di terra
aggiuntivo, qualche sorta di regalo durante le occasioni speciali quali la fine dell’anno o il matrimonio di un
figlio (Veldwisch 2008:78).
67
lavorando parte del terreno privato secondo accordi di mezzadria in cui, il fermer, provvede
alle spese di produzione ed il dekhon alla mano d’opera, ricevendo una percentuale fissa sul
raccolto (solitamente il 30%); nell’ultimo caso il fermer può decidere di affittare una parte
della sua terra ad una famiglia (solitamente 1000 m2). Il prezzo della locazione è variabile e
dipende dalla posizione, dalla qualità del suolo, dalla relazione tra locatore e locatario ecc.68
.
Il riso ricavato da questi appezzamenti viene solitamente venduto nei bazar (Ibid:11). Come
notano diversi autori (Kandiyoti 2002; Trevisani 2007; Veldwisch & Bock 2011; Zanca
2011), talvolta, proprio per la natura di queste ragnatele clientelari, la figura del fermer si
sovrappone a quella del benefattore del villaggio: “Ho anche dato parte del mio raccolto
all’ufficio Shora, per la povera gente; ogni fermer ha almeno 5 famiglie di cui prendersi cura”
(Veldwisch 2008:78).
c) Molte famiglie rurali, infine, sono impegnate in attività economiche alternative
all’agricoltura, che contribuiscono al bilancio famigliare. Tra le attività principali vi sono
impieghi salariati di vario genere, rendite derivate dal lavoro migrante, forme di scambio
locale e baratto (Trevisani 2007; Veldwisch & Bock 2011; Veldwisch 2008). Circa il 46%
delle famiglie rurali hanno un membro della famiglia con un lavoro retribuito al di fuori del
settore primario (Veldwisch & Bock 2011:11).
Inoltre, specialmente negli ultimi anni, il numero di migranti in cerca di lavoro è aumentato
notevolmente. L’Uzbekistan è attualmente il paese centro asiatico che registra il maggior
numero di migrazioni. Si stima che dai 2 milioni agli 8 milioni di cittadini uzbechi lavorino
all’estero (Marat 2009:16). La pratica maggiormente seguita è il lavoro migrante stagionale.
Gli uomini solitamente migrano verso il Kazakhstan o verso la Russia. A livello d’impiego,
soprattutto in Russia, il settore dell’edilizia è quello che offre ai migranti maggiori
opportunità (Aslan 2008; Marat 2009)69
. La migrazione femminile, invece, è solitamente
caratterizzata da periodi di breve durate, per lo più stagionali, e generalmente in località
vicine a casa. Nonostante il lavoro migrante sia vantaggioso dal punto di vista lucrativo, esso
è fortemente associato alla nozione di povertà e legato a sentimenti di vergona e delusione
(Veldwisch & Bock 2011). Questi sentimenti sono facilmente percepibili nelle parole di un
68
Per un terreno coltivato a riso il prezzo può variare dai 40 ai 60 mila sum per 1000 m2, l’equivalente di circa
40-60 dollari; ovviamente la trattativa ed il pagamento vengono fatti in nero, essendo la cessione della terra
un’attività gestita esclusivamente dallo Stato e dai suoi organi incaricati (quali i governatori distrettuali o le
organizzazioni semi-statali, semi-ministeriali) (Veldwisch & Bock 2011:11). 69
Interconnesso al tema del lavoro migrante sarebbe senz’altro interessante analizzare le dinamiche soggiacenti
all’intricata rete del traffico di esseri umani, soprattutto donne avviate alla prostituzione o allo sfruttamento
lavorativo, che si dipana dalle cinque repubbliche del Centro Asia a paesi quali Russia, Afghanistan, Emirati
Arabi, Turchia e paesi del Golfo. Per un maggior approfondimento sul tema si veda il libro di Erica Marat
(2009), Labor Migration in Central Asia: Implications of the Global Economic Crisis, in particolar modo pp. 33-
44.
68
contadino intervistato in merito alla connessione tra l’accesso all’acqua, il lavoro migrante e
la povertà:
Dekhon: “Abbiamo molti problemi con l’acqua. Se abbiamo acqua e fertilizzanti lavoriamo bene in
quest’area. Specialmente l’acqua è un problema. E’ da un mese che non annaffio il mio giardino. E non
sono l’unico, anche l’altra gente del villaggio. Senza l’acqua diventa difficile vivere in queste zone, ed è
questo il motivo per cui i nostri giovani vanno a lavorare fuori dall’Uzbekistan. Se ci fosse l’acqua, loro
non avrebbero bisogno di lasciarci.” (Veldwisch 2008:73)
Il lavoro migrante, infatti, è l’ultima spiaggia a cui una famiglia dekhon fa ricorso quando i
mezzi di sostentamento a loro disposizione risultano insufficienti (Ibid.).
È importante sottolineare che lo scambio del surplus ricavato dal lavoro agricolo
attraverso semplici forme di commercio tra membri dei mahalla, con la vendita all’interno dei
bazar cittadini o semplicemente attraverso il baratto, è un'altra modalità di rendita
consuetudinaria delle famiglie contadine. Infatti, anche se attraverso una connotazione vaga e
residuale, il termine dekhon non venne scelto casualmente. I legislatori lo utilizzarono per
rievocare la figura storica dell’abitante sedentario delle oasi uzbeke, che basava
sull’agricoltura la sua intera vita. Il termine, inoltre, tenta una sorta di riconciliazione con la
vita antecedente alla collettivizzazione, giocando sul tema delle radici nazionali e sul concetto
di fierezza della classe contadina sedentaria uzbeka. Mistificando il drammatico
peggioramento della condizione della popolazione rurale post indipendenza dietro la retorica
di una legittimazione culturale. Divulgato nei manifesti di propaganda e nei discorsi dei
funzionari governativi, il messaggio trasmesso, anche nell’attualità, è che vi sia un legame
ideologico tra i recenti sviluppi della riforma agraria e una pre-stabilità del modello rurale
antico, al fine di far credere alle masse contadine che la loro condizione attuale sia in armonia
con la condizione dei loro antenati. Tale retorica si riflette, anche, nello sguardo dell’autorità,
per cui dekhon non è, affatto, considerabile sinonimo di povertà (Trevisani 2007). Tuttavia il
punto di vista emerso nelle interviste fatte a 16 differenti famiglie dekhon da Tommaso
Trevisani (2007) risulta essere diametralmente opposto. La maggior parte di esse ha difficoltà
a sostenere un tenore di vita dignitoso coi mezzi a disposizione, e molte famiglie non ci
riescono affatto. Contrariamente a quanto propagandato dalle autorità essere un contadino in
Uzbekistan non è uno status attrattivo o desiderabile per i cittadini: la maggior parte delle
famiglie dekhon intervistate afferma che la terra data a loro disposizione per sopperire alle
necessità familiari non è sufficiente, e che la possibilità di ricevere una retribuzione in denaro
per lavori svolti in ambito agricolo è pressoché inesistente (Ibid.). Tommaso Trevisani (2007)
sostiene che, per le famiglie dekhon, l’unico modo d’immaginare un futuro migliore
69
continuando a lavorare nel settore primario è diventare fermer. Spesso, infatti, parlando di
ridefinizione dei ruoli tra fermer e dekhon, quest’ultimi esprimevano emozioni in bilico tra
l’accettazione rassegnata della loro condizione e la rabbia verso gli agricoltori privati. Riporto
di seguito uno stralcio d’intervista fatta ad un contadino di circa 50 anni impiegato come
mezzadro per un fermer:
Trevisani: “Com’è vivere di agricoltura, dal punto di vista di un lavoratore pudrat?”
Dekhon: “Se lasciassero i prodotti dell’agricoltura al popolo allora sarebbe OK, ma non è così.
Dovrebbero pagarci, ma non lo fanno. Per esempio, quando ci devono 13.000sum (13$), durante il
periodo della coltivazione, a quel punto ci dicono che non hanno soldi. Quindi ci pagano in altri modi, o
con dei viveri o con dei buoni d’acquisto. Praticamente ci pagano molto poco o non ci pagano affatto.
Solamente durante la raccolta del cotone pagano qualcosa, perché sennò nessuno vorrebbe lavorare. Ma
anche in questo caso se la legge dice 36 sum per kg, ci pagano 28. Per questo se ne vanno tutti in Russia,
il 30% degli uomini è li. Qui non c’è più lavoro, anche uno dei miei figli è partito per la Russia, e ora sta
coltivando angurie.
Trevisani: “Cosa ti aspetti che faccia Tashkent?”
Dekhon: “Da Tashkent noi vogliamo una fabbrica con posti di lavoro. Al giorno d’oggi i giovani sono
sulla strada a non fare niente, ci sono un sacco di giovani disoccupati qui. Bevono e non sanno cosa fare.
In passato non era così. (Trevisani 2007:199-200)
Generalmente, la categoria dei dekhon, essendo maggiormente dipendente dalla
produzione agricola, è di conseguenza più vulnerabile a problemi legati al riscaldamento nella
stagione invernale, all’accesso all’acqua, all’andamento positivo o negativo dei raccolti, di
quanto non lo fossero i loro predecessori che lavoravano nei kolkhoz. Questo ha fatto sì che,
attualmente, le famiglie rurali siano molto più dipendenti dagli agricoltori privati di quanto
non lo fossero i lavoratori dei kolkhoz sovietici, quando lo stipendio era una reale fonte di
reddito. Ancor più che nel passato sovietico, oggi, il sistema retributivo è caratterizzato da
enormi falle che ne compromettono fortemente l’efficienza (Veldwisch 2008; Trevisani 2007;
Zanca 2011).
Il profondo senso d’ingiustizia vissuto dalla classe contadina, quindi, può essere
ricondotto alla condizione d’esclusione che questa fase di riforme ha avviato nei loro
confronti. La percezione dell’illegittimità della ridistribuzione terriera poggia su dinamiche
per cui, chi in passato ricopriva posti di rilievo nella gestione del kolkhoz, oggi si è
accaparrato tutta la terra per se, per i suoi parenti e i suoi conoscenti (Trevisani 2007; Zanca
2011).
Il 5-10% dei fermer, infatti, gestisce circa il 70-80% della terra coltivabile (Veldwisch
2008:74). Formalmente lo Stato distingue tra tre tipi di fermer: le aziende dedite
all’allevamento, le aziende da coltura e le aziende ortofrutticole (Muller 2006, cit. in
Veldwisch 2008). Le prime due tipologie variano dalla grande alla media produzione (dai 50
70
ai 100 ha), mentre la terza è di dimensioni ristrette (dai 3 ai 5 ha). La categoria più
interessante ai fini del mio lavoro è senz’altro la seconda, relativa alle aziende agricole
specializzate nella produzione di monoculture, essendo essa ancora oggi soggetta a rigide
imposizioni statali relative a grano e cotone. Solitamente, è all’interno di questa tipologia che
si riproducono, in misura maggiore rispetto alle altre due categorie, i rapporti di dipendenza
tra dekhon e fermer. Come accennato in precedenza le famiglie rurali trovano impiego in tali
aziende private sia come forza lavoro, sia attraverso contratti di mezzadria (Veldwisch 2008).
Considerando tali condizioni, i fermer si potrebbero definire a tutti gli effetti dei veri e propri
“signori della terra”, sia per il pieno potere decisionale riguardante l’accesso delle famiglie
rurali all’uso diretto della terra, sia per tutta una serie di relazioni clientelari che vengono ad
instaurarsi coi propri lavoratori da un lato e con le organizzazioni governative dall’altro
(Kandiyoti 2002; Markowitz 2008; Trevisani 2007; Veldwisch 2008; Zanca 2011). Tuttavia, è
doveroso notare che la posizione dei fermer uzbeki rimane assai distante dalla figura
tradizionale del landlord come si ritrova, per esempio, in America Latina. Essi, infatti, si
discostano per il differente livello di liberta gestionale: come mostrerò di seguito, a loro volta
gli agricoltori privati dipendono considerevolmente dalle scelte dello Stato (Veldwisch 2008).
Prima di analizzare la condizione di subalternità dei fermer nei confronti degli organi
di Stato è opportuno considerare che anche questa categoria racchiude grandi differenze in
termini di stratificazione sociale. Di base la “legge del più forte” sancisce che, le aziende
private di media dimensione (10-20 ha) che coltivano principalmente grano e cotone, siano
spesso economicamente molto vulnerabili. Gli agricoltori di questo genere non si allontanano
di molto dallo standard di vita modesto della maggior parte della popolazione rurale. Mentre
le grandi aziende agricole (intono ai 100 ha) rappresentano una vera e propria classe
privilegiata ed economicamente influente di notabili del primo settore, legati per rapporti di
fiducia sia alla classe dei dirigenti governativi distrettuali che a quella urbana delle città più
influenti del paese (Trevisani 2007). Non è solo per l’influenza politica ed economica che
quest’ultima categoria di fermer (“katta fermerland”) si distingue, vi è anche un notevole
dislivello sociale. Questi agricoltori, infatti, posseggono un alto grado d’istruzione e non di
rado ricoprono cariche professionali nei palazzi governativi della regione, sono medici,
ufficiali dell’esercito, businessman, insegnanti universitari ecc. La cosa più rilevante, però, è
che sono in grado di usare le loro connessioni e la loro vicinanza alla burocrazia statale per
ottenere contratti agevolati nelle locazioni terriere e mobilitare risorse aggiuntive per le loro
aziende. Il tutto grazie alle loro posizioni di spicco all’interno della gerarchia di comando
71
agricola. Sono molti i funzionari regionali e distrettuali che, oggi, possono utilizzare la loro
influenza per gestire al meglio e senza intoppi la propria azienda70
(ibid.).
Ma nonostante le implicazioni favorevoli di alcuni notabili agricoltori, i fermer sono
una categoria produttiva che dipende, ancora, da organizzazioni statali in merito ad
irrigazione, approvvigionamento, vendita al dettaglio e contabilità. Non avere problemi con
l’apparato di comando, ricevere i materiali per la produzione al momento giusto ed in giusta
misura, avere manodopera a sufficienza durante i mesi della raccolta, sono alcune delle cose
che influiscono maggiormente sulla rendita produttiva (Markowitz 2008; Trevisani 2007;
Veldwisch 2008; Veldwisch & Bock 2011). Formalmente essi sono semplici affittuari dello
Stato, ma in pratica vivono una condizione di subordinazione, simile a quella della
popolazione rurale. In primis, non hanno libertà decisionale in merito a cosa coltivare e su
quali aree coltivare. L’intromissione dello Stato si insinua, poi, nelle più piccole scelte
gestionali: la profondità di semina, la data di semina, le dosi e le modalità di concimazione, la
potatura ecc. Il rispetto o meno di tali direttive è attentamente controllato da funzionari statali
che, durante i momenti salienti della produzione, si recano in visita nei campi (Trevisani
2007).
Intervistatore: “Riguardo al gruppo di cui parlavi [funzionari statali], in quali momenti e per quali tipi di
coltivazioni controllate i campi?
Funzionario del ministero dell’agricoltura: “Beh, cominciamo in inverno, per l’inizio della fertilizzazione.
Siamo divisi in gruppi, ognuno responsabile di una determinata area. Il compito principale è verificare se
la fertilizzazione è stata fatta correttamente e se gli scarichi intorno ai campi sono scavati bene.
Controlliamo anche il livello del suolo. Se un lato del campo è più alto dell’altro non va bene, significa
che non vi è una distribuzione eguale di acqua. Infine controlliamo che gli agricoltori fertilizzino per tre
volte (Veldwisch 2008:79).
Il gruppo di cui parla l’intervistatore è composto solitamente da quattro o cinque
funzionari che rappresentano differenti dipartimenti governativi: il Laboratorio di biologia, il
Dipartimento che si occupa di fertilizzanti, il Dipartimento per gli animali domestici e le
malattie, il Dipartimento dell’acqua ecc. (Veldwisch 2008). L’attenzione maggiore viene
riservata al controllo delle piantagioni di cotone e grano, essendo queste in gran parte
“riservate” allo Stato (vedi paragrafo 2.4.1). Grano e cotone sono, tutt’oggi, soggetti a quote
di produzione e l’intero raccolto di cotone deve essere necessariamente venduto allo Stato,
mentre per il grano la quota si abbassa al 50% del raccolto. Per l’esiguo ricavato della vendita
a prezzi di mercato interno i fermer si trovano spesso sull’orlo della bancarotta o sotto la
70
Essi sono la continuazione di quella che in periodo sovietico venne soprannominata nomenklatura rurale
(Spoor 1993), ossia l’élite rurale. Ufficialmente le persone che ricoprono una posizione governativa non
potrebbero essere allo stesso tempo fermer. Di fatto, però, attraverso raggiri di ogni sorta, risulta che molti
funzionari governativi siano proprietari di aziende agricole private (Veldwisch 2008).
72
minaccia dello Stato di requisire le terre e rompere il contratto di locazione con formula
immediata. Di fatto, come accennato in precedenza, il profitto che un agricoltore privato può
ricavare dalla propria azienda agricola dipende in gran parte dalla sua capacità di negoziare e
contrattare con le varie organizzazioni governative del territorio71
(Ibid.).
In linea di principio ciò che avvenne in questa fase di decollettivizzazione fu una
nuova ri-regolamentazione formale del settore agrario in cui, i kolkhoznik divennero dekhon e
la nomenklatura rurale confluì nella figura dei fermer (Markowitz 2008; Trevisani 2007;
Veldwisch 2008). Come dimostrato nel corso del paragrafo, durante l’inizio degl’anni 2000,
vennero create unità produttive focalizzate sui nuclei famigliari (dekhon). Di contro videro la
luce una moltitudine di aziende agricole private (fermer) che presero il controllo della
maggior parte della terra coltivabile relegando la popolazione contadina alla sola proprietà di
piccoli appezzamenti appena sufficienti per l’autosussistenza (tamorka – ko’sumcha
tamorka). Tale situazione diede origine ad una relazione tra fermer e dekhons diadica,
asimmetrica, e basata sull’accesso limitato e disuguale alle risorse (Valdwisch & Bock 2011).
Infatti, i fermer controllando l’accesso alle risorse divengono conseguentemente il punto
focale di tutta una serie di strategie economiche necessarie alla vita della popolazione rurale,
compreso l’aspetto sociale del welfare e della protezione. La relazione tra i due soggetti
produttivi varia dal livello informale, fatto di accordi verbali, a quello formale, caratterizzato
dalla stipula di contratti lavorativi (colloquialmente definiti ancora oggi pudrat).
La relazione tra dekhon e fermer ha forti parallelismi con la relazione tra Stato e
fermer (Veldwisch 2008). Infatti i fermer, che appaiono patroni (punti forti) nella relazione
coi dekhon, sono a loro volta coinvolti in rapporti di dominio e dipendenza se relazionati allo
Stato. Quindi, come i fermer si trovano obbligati al soddisfacimento delle quote di produzione
imposte dal governo su grano e cotone, per poter accedere al mercato del riso, così i dekhon si
trovano obbligati a svolgere lavori duri e spesso non retribuiti nelle piantagioni di cotone dei
fermer, per accedere a risorse e protezione necessarie al mantenimento di uno standard di vita
dignitoso. L’osservazione conclusiva di questa fase mi porta a far presente che la rete di
dipendenze che emerge è un fenomeno molto complesso e non si articola in una semplice
struttura gerarchica piramidale. E’ certamente chiara la riproduzione di relazioni fortemente
asimmetriche, ma la divisione dei poteri non può essere inquadrata all’interno di modelli
statici. Ciò è principalmente dovuto al fatto che, come accennato a inizio paragrafo, in
Uzbekistan, la trasformazione del sistema economico è attualmente ancora in corso
71
Oltretutto, anche la possibilità di coltivare riso, un prodotto lucrativo essendo regolamentato da un’economia
di mercato libero, è strettamente vincolata alle organizzazioni governative le quali possono dare il benestare per
la coltivazione o meno (Veldwisch 2008).
73
(Kandiyoti 2002; Djanibekov, Bobojonov & Lamers 2012; Veldwisch & Bock 2011;
Veldwisch 2008).
2.3.4 Quarta fase (dal 2008 in poi): Ottimizzazione
Le dinamiche analizzate nel paragrafo precedente restano pressoché inalterate anche
oggigiorno: dekhon e fermer sono i principali soggetti produttivi del settore primario
nell’Uzbekistan contemporaneo. L’intervento più rilevante di questi ultimi anni si è verificato
nell’autunno del 2008, quando venne messo in atto un tentativo di ottimizzazione
dell’efficienza aziendale agricola. Le aziende agricole private di seconda categoria dedicate
alla coltivazione di cotone, grano e riso (vedi p.57), con una superficie inferiore ai 30 ha
vennero requisite. In breve tempo lo Stato cancello i contratti di locazione con gli agricoltori
privati a capo di queste aziende e ridistribuì gran parte della terra ad aziende più grandi,
concentrando così la produzione in unità più grandi. Le piccole aziende volte all’allevamento
e all’orticultura non vennero toccate (Djanibekov, Bobojonov & Lamers 2012). Per esempio,
a Gurlen, un distretto del Khorezm, l’ottimizzazione colpì un totale di 1.365 aziende agricole
dalla superfice media di 15 ha. All’interno di questa cifra, circa 1.135 (intorno agli 11,5 ha)
vennero chiuse, suddividendo i loro business e le loro terre tra 229 grandi aziende su larga
scala. Le restanti, invece, vennero estese a dimensioni tra i 32-89 ha (Ibid:104). Uno degli
obiettivi guida del processo di ottimizzazione è stato quello di fondere le piccole aziende
private in aziende più solide senza, tuttavia, ricorrere a grandi spese pubbliche in materia di
infrastrutture. Il governo si aspettava che le aziende agricole più grandi raggiungessero una
maggior efficacia riadattando alla produzione attuale le infrastrutture costruite per servire
sovkhoz e kolkhoz in periodo sovietico (Ibid.).
Da un certo punto di vista considero tale decisione una specie di “passo indietro”.
Dopo la frammentazione e la pallida privatizzazione delle grandi aziende collettive avvenuta
durante la decollettivizzazione, lo Stato ha cercato nuovamente di accorpare le numerose
aziende private soggette a quote di produzione in entità più grandi, numericamente inferiori e,
di conseguenza, maggiormente controllabili.
Per quanto riguarda, poi, gli ultimissimi sviluppi in ambito legislativo, nel testo del
Rapporto Congiunto redatto dall’Ambasciata italiana a Tashkent72
, nel maggio 2013, si legge:
72
Testo disponibile al link
http://www.ambtashkent.esteri.it/Ambasciata_Tashkent/Menu/Informazioni_e_servizi/Fare_affari_nel_Paese/Ra
pporto_congiunto/ .
74
“Nel settembre 2012 è stata approvata la legge “sulla protezione della proprietà privata e le garanzie sui
diritti di proprietà”; nel nuovo testo normativo si proibisce la revisione o l’annullamento di
privatizzazioni già concluse. Si tratta del più recente tra gli sforzi legislativi del Presidente Karimov volti
a rassicurare gli investitori esteri circa la stabilità del “business climate” del paese” (Ambasciata italiana
2013).
2.4. POLITICHE DI PRODUZIONE DEL COTONE
Il cotone è la più diffusa ed utilizzata delle fibre naturali e la maggiore coltura agricola
non alimentare al mondo. Ricopre un ruolo da protagonista della nostra quotidianità e
costituisce una parte fondamentale della vita dei 190 milioni di persone impegnate nella sua
coltivazione in più di 80 paesi e dei 60 milioni di lavoratori impiegati nella trasformazione in
filati e tessuti, nella produzione di olio per il consumo umano o nella manipolazione di
integratori proteici per i mangimi del bestiame zootecnico, ottenuti dal suo seme.
La Food and Agricultural Organization delle Nazioni Unite (FAO) stima che siano
più 100 milioni le famiglie rurali coinvolte, in tutto il mondo, nella produzione del cotone. Tra
i paesi in cui il cotone è un importante contributo ai mezzi di sussistenza rurali troviamo, per
esempio: Cina, India, Pakistan, Nigeria, Benin, Togo, Mali, Zimbabwe, Uzbekistan,
Turkmenistan ecc. L'importanza dei temi interconnessi alla produzione cotoniera è stata
ampiamente riconosciuta dalla comunità internazionale. Sono stati numerosi, infatti, gli
incontri di pianificazione strategica organizzati da macro-potenze quali la Banca Mondiale (in
collaborazione con il Comitato Consultivo Internazionale del Cotone), la Commissione
Europea ed il WTO (Baffes, Badiane & Nash 2004). Durante gli ultimi quattro decenni la
produzione di cotone è cresciuta ad un tasso annuo medio del 1,8% fino a raggiungere 20
milioni di tonnellate nel 2001 e 25 milioni nel 2014, circa il doppio di quanto prodotto agli
inizi degli anni’90 (Ibid.). Un terzo della produzione di cotone è indirizzata agli scambi
internazionali. I quattro esportatori dominanti sul panorama mondiale fino al 2003 erano Stati
Uniti, Uzbekistan, Africa francofona e Australia, a rappresentanza dei due terzi delle
esportazioni mondiali totali (vedi tabella in fig.13). I dati aggiornati ad Aprile 2015, tuttavia,
denotano un lieve cambio di tendenza per l’Uzbekistan che, dalla seconda posizione nel 2003,
si ritrova oggi in quinta posizione, ed in sesta per quanto riguarda invece le potenze
produttrici della materia prima (vedi tabella in fig.14) (dati Cotton Incorporated 201573
). Circa
il 40% del cotone prodotto nel paese, infine, è acquistato da società russe e il restante da
società operanti nei mercati occidentali, cinese, indiano, pakistano e anche in Bangladesh, Sud
73
Dati disponibili al link http://www.cottoninc.com/corporate/Market-Data/MonthlyEconomicLetter/ .
75
Corea e EAU (Rapporto congiunto Ambasciata italiana 2013).
TABLE 3: GLOBAL COTTON TRADE (THOUSAND TONS)
1960 1970 1980 1990 1999 2000 2001 2002 2003
EXPORTS
US 1,444 848 1,290 1,697 1,470 1,472 2,395 2,591 2,862
Uzbekistan 381 553 616 397 893 800 810 798 643
Australia 0 4 53 329 696 849 662 575 360
Mali 2 19 35 114 201 125 126 167 262
Greece 33 0 13 86 310 244 290 275 223
Burkina Faso 0 9 22 73 95 112 123 155 197
Syria 97 134 71 91 252 212 180 120 170
Côte d’Ivoire 0 7 42 81 160 150 109 83 144
Tajikistan — — — 200 83 110 117 140 141
Benin 1 14 8 58 136 140 148 162 128
Zimbabwe 0 32 55 38 121 118 67 76 95
World 3,667 3,875 4,414 5,081 6,107 5,857 6,470 6,618 6,932
(Fig.13) Tabella dei maggiori esportatori di cotone al mondo (Baffes J., Badiane O. & Nash J. 2004)
76
(Fig.14) Tabella dei maggiori produttori ed esportatori di cotone al mondo (Cotton Incorporated 2015)
77
2.4.1 Pianificazione: i fermer e la produzione del cotone
Come ampiamente ribadito nelle pagine precedenti la coltivazione del cotone è
fortemente regolamentata dallo Stato, nonostante la produzione avvenga nelle terre di aziende
agricole private. Come intuibile dai dati forniti nel paragrafo precedente la politica
dell’Uzbekistan in merito al cotone è prevalentemente orientata all’esportazione e finalizzata
a generare consistenti introiti per le casse dello Stato (Baffes, Badiane & Nash 2004;
Guadagni 2005, cit. in Djanibekov, Bobojonov & Lamers 2012:105). Di base, la legge statale
impone che il 60% della superfice totale in concessione ad un fermer debba essere coltivata a
cotone. Tuttavia, tale percentuale ha margini di variabilità relativi alle caratteristiche del suolo
e al programma di rotazione delle colture. Si può, dunque, sostenere che la percentuale
definitiva di cotone imposta all’agricoltore è il risultato di una negoziazione in merito al piano
di produzione tra il fermer e le organizzazioni governative, in particolar modo tra fermer e
Ministero dell’Agricoltura (Veldwisch 2008:91). All’interno della gerarchia agricola le quote
di produzione vengono assegnate dalla provincia ai distretti e dai distretti agli agricoltori.
Anche in questo caso vi è una certo grado di flessibilità nell’assegnazione delle quote di
produzione ai singoli fermer. In questa catena di passaggi di potere si può notare l’importanza
del ruolo giocato dall’hokimiyat (distretto), che risulta essere il braccio destro del Ministero
dell’Agricoltura sul territorio (Ibid.). Le due interviste sotto riportate rendono bene l’idea
della variabilità delle quote di produzione:
Fermer: “Le fabbriche di lavorazione del cotone stipulano, annualmente, un contratto con il Ministero
dell’Agricoltura su quanto cotone necessitano. Se la fabbrica necessita l’80%, il Dipartimento chiede 80%
ai fermer.”
Intervistatore: “Quanto te ne hanno imposto di piantare quest’anno?”
Fermer: “Quest’anno mi hanno detto di piantare 12 ha a cotone, e così ho fatto.”
Intervistatore: “Mi hai detto che ti hanno imposto di piantare a cotone circa il 70% dei campi, ma ne hai
piantato molto di più, circa il 90% , perché?”
Fermer: “Non mi hanno detto di piantarne il 70%, mi hanno detto di piantarne minimo il 70%, che
significherebbe dal 75% all’85%. Mi sono fatto il piano di produzione da solo, con la maggior area
piantata a cotone che potevo sostenere, poi sono andato dal distretto e ho chiesto l’autorizzazione.”
(Veldwisch 2008:91)
L’intromissione dello Stato in merito alla coltivazione cotoniera non si limita
esclusivamente all’imposizione delle quote di produzione; lo Stato si fa garante di tutto un
sistema di controllo capillare che si insinua fin nei più piccoli aspetti gestionali della
produzione: profondità e data della semina, tipo e modalità di fertilizzazione, potatura,
quantità d’irrigazione ecc.). Le frequenti visite di funzionari incaricati dall’hokim distrettuale
78
hanno, poi, il compito di verificare che i processi standard di coltivazione vengano rispettati
(Veldwisch & Bock 2011). Nella tabella sottostante riporto un elenco di alcuni dei controlli
più frequenti, suddivisi nei momenti principali della coltivazione:
Fertilizzazione
- Controllare che i canali di scolo attorno ai campi siano scavati correttamente
- Controllare il livello della terra del campo; dovuta ad una distribuzione uniforme dell’acqua
- Controllare che il fertilizzante venga sparso per tre volte Preparazione della terra e semina
- Controllare che l’irrigazione avvenga al momento giusto e che non sia troppo abbondante
- Controllare che l’aratura venga fatta nel giusto tempo, altrimenti il suolo risulterà compatto, duro
- Dare indicazioni su quanto in profondità piantare il seme del cotone
- Controllare che i semi vengano giustamente distribuite; non più di 4-5 piante per metro Durante la stagione del cotone
- Controllare solchi e creste del terreno; alcune volte le creste sono troppo alte
- Controllare che le erbacce vengano rimosse
- Controllare il lavoro dei coltivatori
- Controllare se avviene la giusta somministrazione di fertilizzanti
- Controllare che l’irrigazione sia in linea con il piano di regolamentazione (Veldwisch 2008:94)
Come si può vedere ogni fase critica del ciclo di vita della pianta è minuziosamente
supervisionata dall’ufficio distrettuale governativo (hokimiyat).
Quasi tutti i materiali e gli interventi tecnici per la coltivazione del cotone vengono
sovvenzionati dallo Stato e forniti ai fermer attraverso canali di distribuzione statali. Il
pagamento degli anticipi alla produzione viene effettuato dai fermer tramite bonifico bancario
su conti bancari, molto simili a quelli di stampo sovietico, dei kolkhoz e dei shirkat (vedi
paragrafo 2.3.2). I conti correnti ricadono sotto il controllo statale e raramente i loro importi
possono essere convertiti in denaro, vengono piuttosto utilizzati sotto forma di nuovi crediti
d’acquisto (Veldwisch & Bock 2011). Ricapitolando si può, dunque, affermare che, per
sostenere la produzione, lo Stato rifornisce i fermer dello stretto necessario alla produzione; lo
fa attraverso particolari crediti bancari da spendere per l’acquisto di prodotti di vario genere:
fertilizzanti, macchinari per l’aratura, sementi, diserbanti chimici, carburante ecc.74
Tali beni
sono acquistabili grazie alla formula del credito bancario, solo presso determinate
organizzazioni, quasi sempre semi-statali. Il risultato di un meccanismo siffatto è la
condizione per cui, in Uzbekistan, non solo lo Stato vincola gli agricoltori a quantità e
74
I fertilizzanti per il cotone costano la metà dei fertilizzanti destinati al resto dell’agricoltura, vengono
distribuiti dal Dipartimento di Agro-Chimica, che ha sedi in tutti i distretti del paese. I semi del cotone sono
solitamente di tre varietà differenti, la scelta del seme varia dalle caratteristiche ambientali di ogni provincia e
vengono distribuiti da filiali del Dipartimento dell’Agricoltura. Per quanto riguarda i trattori, la maggior parte dei
fermer dipende totalmente dalle organizzazioni statali, la Motor Tractor Parks (MTPs) è l’organizzazione più
influente nel settore (Veldwisch 2008).
79
modalità di produzione del cotone, ma detiene, inoltre, il pieno possesso dei canali di
commercializzazione e distribuzione di tutti gli elementi fondamentali all’agricoltura
(Djanibekov, Bobojonov & Lamers 2012; Trevisani 2007; Veldwisch 2008; Veldwisch &
Bock 2011; Zanca 2011).
Il profitto che gli agricoltori privati possono ricavare dalle piantagioni di cotone varia
molto a seconda della qualità della negoziazione in merito ai vari aspetti discussi finora. La
capacità di mobilitare i trattori o ricevere acqua nei giusti tempi, il riuscire a contrattare sul
peso, sulla qualità e sulla percentuale di umidità del proprio cotone, sono alcune delle abilità
principali che un fermer deve avere per ottenere un profitto dignitoso dalla coltivazione
dell’“oro bianco” (Djanibekov, Bobojonov & Lamers 2012; Veldwisch & Bock 2011).
Nonostante le negoziazioni e la sviluppata rete di rapporti clientelari che lega i produttori
privati alle organizzazioni statali (vedi paragrafo 2.3.3), il business del cotone non è affatto
redditizio. Molti fermer sostengono, addirittura, di arrivare a perdere denaro per la cura delle
piantagioni (Trevisani 2007). Ciò è senz’altro dovuto al fatto che lo Stato, stagionalmente,
recrimina per se l’intero ammontare del raccolto di cotone, pagandolo a prezzi interni decisi
da se stesso. Negli ultimi anni, al fine di diminuire il divario tra i prezzi di mercato mondiale
della fibra di cotone e i prezzi del mercato interno, imposti dallo Stato, gli organi governativi
hanno aumentato il prezzo del cotone grezzo75
. Nel 1997 il prezzo mondiale della fibra di
cotone era del 67% più alto del prezzo pagato ai fermer per l’acquisto del cotone grezzo. Tra
il 1998 ed il 2007 il prezzo mondiale ebbe un leggero calo mentre il prezzo interno pagato
dallo Stato crebbe di quasi una volta e mezza. Dal 2007 in poi il divario tra il prezzo di
mercato mondiale e quello interno si è attestato intono al 17% (Djanibekov, Bobojonov &
Lamers 2012:105). L’agricoltore viene pagato a seconda della qualità del cotone prodotto; i
prezzi sono fissi per cui non risentono delle oscillazioni di mercato. La qualità dipende da
svariati fattori tra cui la pulizia del prodotto76
e la quantità di umidità trattenuta dalle fibre. Il
processo di consegna del raccolto alle organizzazioni statali per la sgranatura delle piante,
dove avviene, anche, la pesatura e la determinazione dell’umidità delle fibre, non è un
processo molto affidabile. Geert J.A. Veldwisch (2008) riferisce come molti fermer da lui
75
Si noti che in Uzbekistan, in line con l’economia di comando che ad oggi governa il settore cotoniero, gli
agricoltori vengono pagati dallo Stato per il prezzo del cotone grezzo, in seguito lo Stato provvederà alla
lavorazione e all’esportazione della fibra di cotone. Sul mercato mondiale, infatti, non esiste un prezzo per il
cotone grezzo, ma solo per la fibra lavorata, ed esso dipende dal grado di qualità (Djanibekov, Bobojonov &
Lamers 2012). 76
La pulizia è uno dei caratteri più appariscenti e talvolta di notevole influenza sul valore commerciale del
cotone. Per pulizia si intende la presenza o meno di impurità, quali: frammenti di foglie secche, di capsule, di
steli, terra e sabbia. Si tenga presente che mentre le grosse impurità sono di facile eliminazione, le piccole
possono sfuggire all’azione degli organi pulitori, e perciò comparire nei filati diminuendone il valore.
80
intervistati sottolineassero, ripetutamente, l’importanza di essere presenti al momento della
consegna per provare a contrattare e manipolare i risultati inerenti alla valutazione del proprio
raccolto. Ne deriva, dunque, che anche il momento di valutazione del raccolto è frutto di una
negoziazione tra il fermer e le agenzie statali per la sgranatura. Ecco che, nuovamente,
l’abilità del fermer di relazionarsi con l’autorità gli permette di ottenere prezzi più
vantaggiosi.
In relazione a quanto detto, si può dedurre che il vero profitto dei coltivatori di cotone
non è riconducibile esclusivamente all’ambito economico. Produrre cotone è, in primis, il
prerequisito fondamentale per accedere a grandi aree terriere e al permesso di inserire nei
propri piani produttivi (che ricordo devono essere approvati dal Ministero dell’Agricoltura)
una varietà di coltivazioni differenti ed enormemente più lucrative, specialmente il riso.
Inoltre, tali autorizzazioni possono essere viste come una sorta di “ricompensa” per la fedeltà
dimostrata all’hokimiyat attraverso l’impegno per il raggiungimento delle quote di produzione
(Ibid.). Da sempre, in Uzbekistan, il cotone è, infatti, uno degli indicatori più evidenti dei
rapporti di fedeltà tra le parti in gioco (Kandiyoti 2002).
2.4.2 L’organizzazione del lavoro
Ho già trattato in parte la situazione riguardante le condizioni lavorative in ambito
agricolo (vedi paragrafi 2.3.2, 2.3.3). Tuttavia, è importante soffermarsi sull’organizzazione
del lavoro relativo alle piantagioni di cotone.
Se per i fermer la produzione del cotone non è affatto un’attività redditizia, anche per i
dekhon lavorare nelle piantagioni di cotone non è l’impiego migliore. Quasi tutti i fermer
organizzano il lavoro stipulando contratti pudrat, ossia legando a sé famiglie dekhon
attraverso rapporti di mezzadria che, solitamente, prevedono la gestione di 1-2 ha di cotone
(una consuetudine molto simile a ciò che avveniva nelle aziende collettive). La predilezione
dei fermer per questo tipo di rapporto lavorativo viene spesso giustificata dalla possibilità di
delegare ad altri il reperimento della forza lavoro necessaria in momenti critici quali la
raccolta. Il dekhon con la stipula del contratto diviene il solo responsabile della manodopera
necessaria alla produzione (Trevisani 2007; Veldwisch & Bock 2011; Zanca 2011). Entrambe
le parti a capo del contratto sono concordi nella spartizione degli oneri: il fermer è
responsabile di tutta la parte del lavoro che prevede la mobilitazione di macchinari particolari
(aratri, trattori), del reperimento dei materiali agricoli e delle decisioni di gestione agricola; al
dekhon, invece, concerne l’organizzazione della forza lavoro (Veldwisch & Bock 2001). Le
condizioni lavorative di remunerazione della famiglia contadina assunta dal fermer vengono
81
solitamente negoziate durante tutto l’arco della stagione. Alcune relazioni prevedono una
misera retribuzione salariale, ma nella maggior parte dei casi i pagamenti in denaro giocano
un ruolo secondario. I pagamenti attraverso generi alimentari o benefici di vario tipo sono i
maggiormente diffusi. Di seguito riporto una conversazione con un fermer in merito alla
retribuzione dei suoi lavoratori:
Intervistatore: “Come dividi il lavoro delle piantagioni di cotone tra i tuoi lavoratori?”
Fermer: “I 10 pudrats che lavorano per me, hanno 1-2 ha di cotone a testa di cui prendersi cura”
Intervistatore: “Cosa dai loro in cambio?”
Fermer: “Concedo loro uno stipendio mensile, come stipulato nel contratto. Lavorano da marzo a
dicembre.[…] Riconosco loro 8.000 sum al mese [circa 8$] per quattro mesi. Oltre a questo talvolta li
pago con angurie e meloni. Quest’anno ci sono 7 lavoratori con 3,5 ha a testa […] Ma la paga è
forfettaria, 8,000 sum (Velwisch & Bock 2011:13).
Come analizzato nel paragrafo 2.3.3, con l’acquisizione del monopolio di gran parte
della produzione agricola, i fermer sono divenuti una figura chiave per la classe contadina.
Essi, infatti, veicolano tutta una serie di possibili introiti necessari alla sussistenza delle
famiglie rurali. Tra i benefici indiretti di questa relazione clientelare vi è, senz’altro, il
permesso di utilizzare i terreni per la produzione di riso, concessione percepita come la
miglior ricompensa possibile del lavoro contadino77
. Ma accanto alle questioni di controllo
della terra, vi sono un numero elevato di benefici, in passato elargiti dalle grandi aziende
collettive, ai quali, oggi, si può accedere solo attraverso una relazione di fiducia con un
fermer: diritti di pascolo, supporto finanziario per eventi importanti quali il matrimonio di un
figlio, o per momenti di difficoltà, la possibilità di utilizzare gli steli secchi del cotone come
combustibile per il fuoco, forme minime di salario ecc. (Kandiyoti 2002; Trevisani 2007;
Veldwisch 2008; Veldwisch & Bock 2011). Lavorare come pudrat nelle piantagioni di cotone
offre alle famiglie dekhon determinati benefici ai quali sarebbe altrimenti impossibile
accedere (Veldwisch & Bock 2011).
2.4.3 Lavoratori sfruttati
Nonostante l’Uzbekistan abbia siglato tutti e tre i trattati internazionali
dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) che condannano la coercizione
lavorativa, oltre che la Convenzione sui Diritti dei Bambini, il sesto produttore al mondo di
cotone, nonché quinto esportatore, continua a costruire la grandezza della sua economia
nazionale principalmente sull’utilizzo di più di un milione di minori e adulti costretti ai lavori
77
Solo una parte relativamente ristretta dell’ammontare di terra data in gestione può essere utilizzata dal dekhon
per la coltivazione del riso. Inoltre, la concessione non è facile da ottenere, solitamente è il risultato di una
strettissima relazione di fiducia tra il contadino ed il fermer (Veldwisch & Bock 2011)
82
forzati ogni autunno (Ferrero 2013). L’Uzbekistan esporta quasi un milione di tonnellate di
cotone ogni anno, con un profitto annuale di oltre un miliardo di dollari e un posto tra i primi
cinque paesi produttori di cotone al mondo. Ciò è ottenuto, oltre che con lo sfruttamento a
monte della classe contadina, costringendo parte dei cittadini a partecipare alla raccolta in
cambio di una remunerazione insignificante (circa sei centesimi per kg). Nel 2013, sono stati
circa cinque milioni i cittadini uzbeki (più o meno il 16% della popolazione) mobilitati per la
raccolta del cotone (Kourabas 2014). Chi viene chiamato alla raccolta può trascorrere un
periodo compreso tra uno o due mesi lontano da casa e dalle proprie mansioni lavorative, il
tempo necessario a soddisfare la quota di cotone dovuta al governo. Nel 2014 i lavoratori
erano tenuti a raccogliere una quota variabile tra i 50 e gli 80 kg di cotone al giorno. Per la
sistemazione di questa massa di lavoratori a tempo determinato, lo Stato organizza dormitori
provvisti di brandine nelle scuole locali o in caserme limitrofe ai campi (Ibid.). Secondo il
Forum uzbeko-tedesco per i diritti umani (UGF) la “coercizione costituisce l'elemento
centrale del sistema di produzione del cotone in Uzbekistan”. L’istigazione al raggiungimento
della quota pro capite di raccolta, infatti, può essere perseguita con l’utilizzo di percosse e
umiliazioni pubbliche. Negli ultimi 20 anni i cittadini mandati nei campi sono stati reperiti
all’interno di scuole, college, università, personale ospedaliero e in altre istituzioni pubbliche
(Ibid).
La presidenza di Karimov non accenna a fare un passo indietro nei confronti della
questione del lavoro forzato e non cede alle pressioni internazionali affinché sia possibile agli
osservatori di agenzie qualificate quali, appunto, l’Organizzazione Interazionale del Lavoro,
di accedere alle piantagioni in stagione di raccolta (Ferrero 2013). Recentemente si sono
verificati alcuni passi avanti per quanto concerne l’impiego di lavoro minorile. Nel 2008,
l'Uzbekistan ha ratificato la convenzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro in
merito alle condizioni del lavoro minorile (International Labor Organization’s Convention on
the Worst Forms of Child Labour) accettando di impegnarsi affinché questo fenomeno venga
definitivamente eliminato dal paese (Kourabas 2014).
Nonostante questi pallidi riscontri positivi, Human Rights Watch e Cotton Campaign
sono costantemente in allerta e gli osservatori internazionali hanno più volte invitato brand e
aziende del settore tessile a firmare l’impegno con il Responsible Sourcing Network a non
utilizzare cotone uzbeko nelle loro produzioni. L’avvocato Michael Kourabas (2014),
specializzato in diritti umani, sostiene che, fortunatamente, vi siano alcuni recenti segnali di
progresso. Per esempio, il 15 ottobre 2014, 163 aziende di abbigliamento - tra cui Adidas,
Disney, Gap, H&M, Nike, e Zara - hanno aderito al monito di Responsible Sourcing Network,
83
di qui sopra, impegnandosi, così, a non utilizzare cotone uzbeko nei loro prodotti. Eppure, il
cotone trova inevitabilmente una nuova via di mercato. In seguito a queste campagne di
boicottaggio, l’export della materia prima uzbeka si è spostato dai paesi europei verso quelli
asiatici. Circa l’83% del raccolto del 2013 è confluito, infatti, verso Cina e Bangladesh che ha
recentemente siglato un accordo per assicurarsi una fornitura annuale di 200 mila tonnellate di
fibra di cotone (Ferrero 2013; Kourabas 2014).
Durante il mio soggiorno in Uzbekistan78
, parlando con alcune persone in merito alla
pratica della raccolta forzata, ho potuto constatare che esistono atteggiamenti del tutto
contrastanti. C’è chi la ritiene un giusto aiuto all’economia del paese, come il proprietario di
un piccolo ufficio postale di Samarcanda il quale mi ha spiegato:
“la raccolta del cotone è un contributo che diamo al nostro Stato, non tutti devono farlo. Se lavori in
un’impresa puoi essere chiamato, se sei proprietario di una ditta con più di 5 o 6 dipendenti devi mandare
un tot di quota lavoro, se sei un lavoratore autonomo con pochi dipendenti o sei solo non devi andare. E
comunque quelli che vengono chiamati sono pagati; puoi anche offrirti volontario se vuoi”.79
C’è poi invece chi la percepisce come un’ingiustizia legalizzata, come per esempio il
figlio diciottenne del proprietario dell’Emir, guesthouse in cui ho soggiornato sempre a
Samarcanda. Il ragazzo mi ha riferito che fortunatamente quell’anno la sua classe non era
stata chiamata, ma che se l’anno seguente fosse riuscito ad entrare alla Facoltà di Medicina
sarebbe dovuto partire sicuramente. Secondo il giovane, si tratta di “una cosa negativa, prima
di tutto perché il lavoro è duro, e poi soprattutto perché non ci si può in alcun modo
astenere”80
. C’è infine chi non se ne cura arrivando fino a sminuire la questione. Una mattina,
al bazar, un uomo sulla sessantina, padre di famiglia, commerciante di zafferano iraniano e
cumino selvatico di montagna mi disse:
“Un tempo si che c’erano i lavori forzati, ma oggi?! Oggi poca gente va a raccogliere il cotone. Sono
perlopiù studenti, ma non fanno niente, vanno in vacanza. Qui si dice sempre il controllo dello Stato, non
è un vero controllo”81
.
Non so dire fino a che punto queste ultime affermazioni derivino dal fatto che lui, come altre
persone della medesima opinione, non sia mai stato coinvolto in prima persona nella raccolta,
e quanto, invece, siano considerazioni reali e comprovate.
78
Tra ottobre e novembre 2014. 79
Conversazione del 24 ottobre 2014, Samarcanda. 80
Conversazione del 25 ottobre 2014, Samarcanda. 81
Conversazione del 23 ottobre 2014, Samarcanda. Interessante l’espressione utilizzata dal venditore di spezie
“governament control, is not control”.
84
Riflettendo, tuttavia, sulla questione del lavoro da un punto di vista più ampio, constatata,
oltretutto, l’esistenza di opinioni convergenti in merito alla “sopravvivenza” di questa pratica
forzata, ritengo82
che le dinamiche di sfruttamento del lavoro che caratterizzano l’Uzbekistan
contemporaneo vadano ricercate ad un livello più profondo d’analisi. Pur considerando il
lavoro forzato una pratica altamente condannabile, nonché, un gravoso problema di carattere
umanitario, reputo la condizione di perpetuo asservimento della classe contadina, analizzata
nei paragrafi precedenti, la sede principale dei problemi di sfruttamento del lavoro del paese.
Essa, di fatto, risulta essere l’ultimo tassello di una catena di rapporti di potere inseriti in
un’economia di comando “sopravvissuta” al periodo sovietico.
Fabio Viti, in Schiavi, servi e dipendenti (2007) sostiene che, ed esclusione di forme
criminali o marginali di dipendenza ottenuta con la forza, il rapimento o il traffico di esseri
umani, la maggior parte dei casi descritti oggi come riduzione in schiavitù risulta
corrispondere a forme alienanti di sfruttamento produttivo. Uno sfruttamento messo in atto,
nella maggior parte dei casi, in contesti di arretratezza tecnologica, in cui, il lavoro manuale
ricopre ancora un ruolo considerevole. E’ proprio in questi contesi che, come li definisce lui, i
lavoratori invisibili, privati dei propri diritti, divengono in larga misura “volontari”, costretti
in un certo modo dalle condizioni economiche e sociali degradate, ma mai oggetto di
appropriazione violenta da parte della figura dominante. Citando le parole di Bormans
(1996:795) Viti analizza la differenza tra schiavitù e “schiavitù moderna”:
“La grande differenza tra schiavitù e “schiavitù moderna” sta nella “partecipazione” del lavoratore al
dispositivo di asservimento. Nella schiavitù lo schiavo è spersonalizzato e deresponsabilizzato, ridotto
letteralmente a “cosa”. Nella “schiavitù moderna” si “attira” l’attenzione o l’intelligenza del futuro
lavoratore, facendogli intravedere un salario e condizioni di lavoro accettabili, cosicché “tutto il
meccanismo della messa a lavoro fa appello alla personalità stessa di questo lavoratore, giocando del
resto su tutte le sue debolezze” (Bormans 1996:795, cit. in Viti 2007:256).
Trovo che queste parole rendano piena giustizia alla condizione vissuta dalla classe
contadina della Repubblica dell’Uzbekistan, e in particolar modo, da quei lavoratori impiegati
nella produzione della coltivazione sovrana: il cotone. Un aspetto decisamente rilevante,
peraltro, è che in Uzbekistan tale sfruttamento produttivo si esprime in una catena di sfruttati
e sfruttatori al cui vertice primeggia, fra tutte, la figura dello Stato.
82
In accordo coi molti ricercatori, da me citati, che si sono occupati di cotone in Uzbekistan quali: Ilkhamov
(2007), Djanibekov, Bobojonov & Lamers (2012), Kandiyoti (2002), Markowitz (2008), Spoor (1993), Trevisani
(2007), Zanca (2011), Zinzani (2011), Veldwisch (2008), Veldwisch & Bock (2011).
85
3. STATO DI CONTROLLO
3.1 NEO-PATRIMONIALISMO
La riorganizzazione economica intrapresa dall’Uzbekistan in seguito al
collasso dell’Unione Sovietica mise in atto un processo di transizione da un’economia di
comando ad un’economia di mercato liberale. Tale transizione, non essendosi pienamente
conclusa, pone attualmente il paese in una condizione intermedia in cui meccanismi di stampo
liberale (privatizzazione e decollettivizzazione) convivono con elementi coercitivi e di
autoritarismo statale (Markowitz 2008; Veldwisch & Bock 2011). Questo genere di
condizione dà vita ad un’economia definibile, secondo taluni autori, come “economia ibrida”
(Smith & Stenning 2006, cit. in Veldwisch & Bock 2011).
Una chiave di lettura teorica interessante, relativa alla situazione politica attuale
dell’ex Repubblica Sovietica, viene fornita dagli studi sul neo-patrimonialismo. L’origine di
tale concetto è da ricondurre alla classificazione sociologica che Max Weber fece in merito a
dominazione e legittimazione, in cui definì tre tipi di autorità: tradizionale, carismatica e
giuridico-burocratica. Nel patrimonialismo tradizionale, il diritto di governare, solitamente, si
motivava con l'ereditarietà dell’incarico. L’autorità tradizionale, dunque, risultava essere
legittima in quanto profondamente radicata nella tradizione (Paiziev 2014). Nel 1973, Shmuel
Eisenstaedt, per primo, concettualizzò il termine neo-patrimonialismo, utilizzando il prefisso
neo- per distinguerlo dal patrimonialismo weberiano (Eisenstaedt 1973, cit. in Paiziev
2014:3). Dagli anni ’70 in poi tale concetto entrò in auge principalmente per descrivere la
situazione dei regimi personalistici dell’Africa sub-sahariana (Ibid.). In un regime neo-
patrimonialista meccanismi formali e informali, inseriti spesso in sistemi democratici
consolidati, concorrono per mantenere sottomissione e fedeltà all’élite dominante. Essi sono
basati non solo su valori e norme patriarcali, ma anche sullo scambio razionale di benefici e
interessi clientelari (Ilkhamov 2007; Veldwisch & Bock 2011). La legittimità del leader in
regimi di questo tipo non deriva direttamente dalle strutture, dai processi e dalle ideologie
democratiche, ma piuttosto da un forte culto della personalità e da un’efficace rete di relazioni
clientelari che lega l’élite nazionale al popolo (Paiziev 2014). La figura del leader, inoltre,
esercita il suo potere nominando a capo di ministeri chiave, imprese statali o fondi sovrani,
persone a lui vicine: famigliari, amici, o persone di fiducia, dando loro la gestione di affari
pubblici, in genere intorno a petrolio, gas e altre risorse naturali, utilizzabili da questi per
coltivare interessi privati (Giersch 2013, cit. in Paiziev 2014). Una volta creatosi un entourage
di privilegiati, tale élite va ad aumentare il sostegno al Presidente, garantendo voti nei propri
86
collegi elettorali e facendo ostruzione ad ogni forma d’opposizione all’autorità presidenziale.
La caratteristica più evidente dei paesi soggetti a tali sistemi di potere è la difficoltà ad attuare
politiche riconducibili allo stato di diritto (rule of law), accomodando gli interessi delle varie
forze in gioco in organi equi ed istituzionali (Ibid.). Pertanto la componente giuridico-
razionale e quella consuetudinaria ed informale hanno, nei regimi neo-partrimonialisti, la
medesima rilevanza.
Nonostante il concetto di neo-patrimonialismo abbia esordito in studi fortemente legati
all’area geografica dell’Africa sub-sahariana, oggi viene largamente utilizzato da differenti
autori in contesti di varia natura. Ciò denota la sua multidimensionalità e multidisciplinarietà.
Il concetto, infatti, viene correntemente applicato in economia, sociologia, antropologia e
nell’ambito più generale delle scienze sociali. Spesso lo si trova in sostituzione di vari altri
termini quali corruzione, nepotismo, clientelismo, patronato, sultanismo, sindrome del “big
man”, sistema predatorio ecc. Molti di questi termini sono indubbiamente pertinenti ai sistemi
neo-patrimonialisti, ma la maggior parte di essi ne riducono la portata. Laurelle (2012, cit. in
Paiziev 2014) delinea una distinzione tra fenomeni i di corruzione/clientelismo ed il concetto
più ampio di neo-patrimonialismo. La corruzione, spiega l’autrice, può avvenire anche in
sistemi non politicizzati ed in contesti estranei all’istituzione giuridica; di contro, il neo-
patrimonialismo manifesta una struttura corruttiva centralizzata che infetta gran parte del
processo di legittimazione politico. Il clientelismo, invece, inteso come scambio di favori tra
un gruppo imprenditoriale e la classe politica, è un fenomeno che non necessariamente
impedisce la crescita economica del paese, anzi, in alcuni casi, contribuisce al suo sviluppo.
Differentemente i meccanismi insiti nel neo-patrimonialismo, procurando una distribuzione
fortemente ineguale della ricchezza, vanno ad ostacolare la crescita economica del paese.
Branko Milanovic (2013, cit. in Paiziev 2014) dimostra come i regimi ad impronta neo-
patrimonialistica siano quelli con la distribuzione della ricchezza maggiormente ineguale. Per
questa, e per le altre ragioni sopra esposte, il concetto di neo-patrimonialismo viene
comunemente associato a situazioni di malgoverno, spesso derivanti da eredità post-coloniali
presenti in paesi in via di sviluppo (Paiziev 2014).
Recentemente il concetto è stato utilizzato anche per descrivere e classificare
l’economia ibrida ed il network di relazioni di potere presenti nei governi dell’ex Unione
Sovietica. Nessuna delle cinque ex Repubbliche Sovietiche dell’Asia Centrale, infatti, può
essere classificata come una democrazia liberale in cui si garantiscano libertà individuali e
supporto alla società civile (Reeves, Rasanayagam & Beyer 2014). Nei loro sistemi politici
permangono leader autoritari, repressione politica, diffusa corruzione e un debole
87
avvicinamento alla rule of law (Paiziev 2014). In riferimento alle dinamiche d’asservimento
analizzate nel capitolo precedente, si può notare come, in Uzbekistan, il concetto di neo-
patrimonialismo trova piena legittimità grazie al ruolo chiave giocato da fedeltà e favori
personali che, comunemente, prevaricano i circuiti del sistema istituzionale ufficiale, fino ad
esserne una caratteristica basilare.
E’ indubbio che il regime ibrido sovietico pesò fortemente sulla formazione dei regimi
post-sovietici (vedi capitolo 1). Il periodo di Brezhnev (1964-1982) lasciò un’importante
eredità caratterizzata da una politica giocata dietro le quinte, secondo l’uso di reti di
favoritismi e benefici che, raramente, consideravano le necessità e le aspirazioni del popolo
(vedi caso dello scandalo del cotone, “cotton affair”, pp.26-28) (Ibid.).
Uzbekistan e Kazakhstan sono gli unici due paesi della regione a non aver ancora
sperimentato una transizione di leadership dall’indipendenza ad oggi. Sia il presidente
Karimov che Nazarbayev, ormai ultra settantenni, sono attualmente tediati dalla questione
della successione83
, mentre nel vicino Turkmenistan, Gurbanguly Berdymukhamedov, è
subentrato al presidente “sovietico” Niyazov, morto nel 2006. L’Uzbekistan, inoltre, assieme
al Turkmenistan, è considerato il regime più autoritario della regione (Reeves, Rasanayagam
& Beyer 2014). In uno studio comparativo su tre dei cinque Stati centrasiatici, Uzbekistan,
Kazakhstan e Kyrgystan, il ricercatore di scienze politiche Eric McGlinchey (McGlinchey
2011, cit. in Reeves, Rasanayagam & Beyer 2014:4), ha analizzato i differenti percorsi politici
intrapresi da questi tre governi, di stampo autoritario, dopo l’indipendenza. Etichettandoli con
abbreviazioni tanto lapidarie quanto efficaci (“caos kyrgyco”, “violenza uzbeka” e “dinastia
kazaka”), l’autore manifesta le variazioni locali di ciò che chiama “politica clientelare”. Tale
politica si concretizza in autarchie spiegabili attraverso la combinazione di tre variabili che
McGlinchet identifica con: a) coinvolgimento delle autorità locali nella mediazione con la
leadership sovietica nell’era di Gorbachev; b) disponibilità di risorse naturali; c) grado di
revivalismo islamico presente nei paesi indipendenti.
a) Negli ultimi anni di vita dell’Unione Sovietica, Gorbachev gestì il cambiamento di
leadership delle Repubbliche Sovietiche; di fatto, Karimov e Nazarbayev furono
indirettamente investiti dai sovietici del pieno controllo sui processi d’indipendenza di
Uzbekistan e Kazakhstan. Ciò non avvenne, invece, in Kirghizistan, dove il non intervento
83
Riguardo a tale questione il problema maggioritario è costituito dalle eventuali conseguenze che il passaggio
di poteri potrebbe avere, sugli Stati coinvolti, in primis, ma anche sulle grandi potenze che con essi hanno
intessuto ingenti rapporti economici. Le domande da porsi dunque sono: in che modalità avverranno tali
successioni? Saranno pacifiche o violente? E’ lecito temere per lo scoppio di ulteriori guerre civili? Questo
perché ad oggi ancora non si assiste allo sviluppo di istituzioni democratiche consolidate e regole in grado di
garantire una transizione trasparente e pacifica del potere (Paiziev 2014:1).
88
sovietico diede avvio ad un duraturo periodo d’instabilità politica, alternato da feroci periodi
di guerra civile.
b) Per quanto riguarda il dominio sulle risorse naturali, emblematico è il caso kazako,
dove il Presidente e la sua famiglia divennero unici possessori dei giacimenti di petrolio,
utilizzati, nel corso degli anni, per finanziare la rete di relazioni clientelari con élite locali.
L’Uzbekistan, invece, nonostante l’immobilismo economico, continuò con la produzione
cotoniera, intraprendendo una politica clientelare basata sulla coercizione (vedi cap. 2). Come
nota il ricercatore Richard Donald Lewis:
“la stagnazione dell’economia del paese sembra essere il prezzo da pagare per la fedeltà, ed
incoraggia lo Stato all’uso della coercizione invece che della persuasione finanziaria” (Lewis 2012, cit. in
Paiziev 2014:13)
c) Repressione e violenza statale vennero inoltre aggravate, secondo McGlinchey,
dalla persistente minaccia del movimento islamista che, in alcune aree, si sostituì allo Stato
nelle funzioni di welfare e di supporto alla popolazione (McGlinchey 2011, cit. in Reeves,
Rasanayagam & Beyer 2014:4).
Il ricercatore della Central European University Erali Paiziev84
, in un saggio intitolato
“Gods of Central Asia: Understanding Neopatrimonilism” (2014), individua due fattori chiave
alla base dell’origine e del perdurare del neo-patrimonialismo in Asia Centrale: l’adozione di
modelli presidenzialisti autoritari con una stretta relazione tra potere esecutivo e legislativo; e
la cultura della politica locale basata su clan d’élite.
3.1.1 Presidenzialismo e autoritarismo
Dalla metà degli anni’80 una parte della comunità scientifica, interessata allo studio
delle scienze politiche a livello comparativo, tornò ad occuparsi di una questione che più di
tutte aveva preoccupato la disciplina in precedenza: quali condizioni conducono allo sviluppo
di una democrazia? Quali fattori favoriscono od ostacolano il consolidamento democratico?
(Easter 1997). Il contesto di ricerca ottimale per questo genere di studi si indirizzò verso
l’analisi di Stati in transizione, essendo il loro processo di democratizzazione agli stadi iniziali
(Easter 1997; Paiziev 2014).
84
In accordo con altri autori quali Aliser Ilkhamov (2007) e Sherzod Abdukadirov (2009).
89
Attualmente è in atto un intenso dibattito su quale genere di governo, presidenziale o
parlamentare85
, sia maggiormente favorevole al consolidamento della democrazia. I vari poli
della discussione sono, comunque, concordi nel ritenere che la forma di governo prescelta da
uno Stato nascente abbia un peso sostanziale nell’influenzare lo sviluppo e il consolidamento
democratico (Paiziev 2014). Per molti anni gli Stati di carattere autoritario furono esclusi da
questo genere di studi, in quanto considerati svincolati da una qualsiasi forma di costituzione.
Attualmente, analizzando il panorama mondiale, tale posizione è stata definitivamente
abbandonata, essendo molti dei regimi autoritari contemporanei una forma “ibrida” di Stati
aventi istituzioni democratiche, per quanto non sempre in grado di esercitare le proprie
funzioni (Ibid.). Questi Stati “borderline”, tra cui l’Uzbekistan, non sono estranei, infatti, ad
un sistema politico formalmente democratico. Uno degli esempi più immediati del loro
apparato di stampo democratico è l’utilizzo delle elezioni come mezzo di legittimazione
politica. Come nota l’antropologo Antonio de Lauri (2014), in relazione alle elezioni svoltesi
in Afghanistan del 2014, il ricorso alle dinamiche elettorali in paesi in transizione, condensa
molti dei miti, certamente legati al tema della libertà, dell’”era della democrazia”. Due di
questi possono essere rintracciati nell’idea che le elezioni siano l’espressione massima della
libertà politica, e nella rappresentazione della democrazia come una sorta di mantra moderno,
veicolo preferenziale di immagini e ideologie politiche, e non. Fissandosi, tuttavia,
sull’immagine illusoria comunicata dalle elezioni, ossia il verificarsi di un passaggio dal
“prima” al “dopo, si rischia, secondo l’autore, di perdere di vista il fatto che, in contesti
particolari quali l’Afghanistan (o l’Uzbekistan), l’elezione divenga un modo per trasportare il
“prima” nel “dopo”. In altre parole, esse, hanno il potere di riprodurre forme prestabilite di
gerarchia sociale, in un (solo apparente) nuovo ordine. E’ consuetudine che le élite locali
sviluppino continuamente nuove tecniche di manipolazione per mantenere il loro potere,
alterando i risultati elettorali secondo accordi legati alla rete clientelare (Ibid.).
Dall’indipendenza ad oggi, molte delle Repubbliche del Centro Asia sono passate attraverso
elezioni, definite dalle élite dominanti come “libere e giuste”. La legittimazione della
leadership, nella realtà dei fatti, però, viene rinnovata attraverso elezioni falsificate e decise a
tavolino. Il più delle volte il Presidente non corrisponde necessariamente alla volontà
popolare, ciò in ragione del fatto che, grazie al controllo assoluto del potere esecutivo,
qualsiasi forma di contestazione o sfida al regime e alla figura presidenziale viene repressa
con l’uso della violenza. Questi paesi, a causa, appunto, di una feroce repressione delle
85
In un sistema presidenziale il Presidente ha l’autorità di nominare e destituire i membri del governo, in un
sistema parlamentare tale autorità è condivisa dal potere legislativo, ossia dal Parlamento (Paiziev 2014)
90
opposizioni, mancano di una società civile fervente e di partiti forti e coesi, che si affaccino al
panorama politico come vere alternative al regime. Di fatto, nelle ultime due decadi, il potere
del Presidente è andato rafforzandosi più che indebolendosi, arrivando a dominare
incontrastato su tutte le istituzioni formali (Paiziev 2014).
Occorre notare che la presenza d’istituzioni democratiche in determinati contesti,
come quello centroasiatico, non serve al raggiungimento di uno Stato democratico vero e
proprio, ma, più comunemente, tali istituzioni servono da “facciata” per coprire la natura anti-
democratica e autoritaria del regime (Abdukadirov 2009). Numerosi studi transnazionali
hanno dimostrato, infatti, come, nonostante la quantità di paesi in transizione in cui si
riscontra una qualche forma di democratizzazione sia elevata, solo una minoranza di essi ha
effettivamente raggiunto un consolidamento democratico, ossia un regime che soddisfi tutti i
criteri procedurali della democrazia, in cui tutti i gruppi politicamente significativi accettino le
istituzioni politiche ed aderiscano alle regole democratiche “del gioco" (Easter 1997).
Se ci si addentra maggiormente nell’analisi degli studi comparativi sulla politica degli
Stati in transizione, si può notare come gran parte della comunità scientifica sia incline a
sostenere che la scelta di una forma di governo presidenzialista porti con più facilità al
fallimento dello sviluppo di una democrazia solida e durevole (Easter 1997). Sherzod
Abdukadirov, importante studioso di Asia Centrale, sostiene che “un sistema presidenziale
acuisca la natura predatoria del regime incrementando le probabilità di conflitti violenti”
(Abdukadirov 2009:285). Nel sistema presidenzialista, secondo il ricercatore Juan Linz (1994,
cit. in Easter 1997), la propensione allo stallo politico, unita alla concentrazione di potere in
un’unica figura istituzionale, aumenterebbe la probabilità di esiti non democratici. Tuttavia,
non tutti gli studiosi di processi di democratizzazione e cambiamento istituzionale accettano
le conclusioni sopra esposte. Le critiche a tali posizioni sono essenzialmente di due tipi:
istituzionali e contestuali. Nella prima categoria vi è, ad esempio, la posizione di Donald
Horowitz, il quale sottolinea come studi sull’Africa e sull’Asia post coloniale abbiano
dimostrato che il modello Westminster86
del parlamentarismo, sia stato considerato per anni
86
Il nome di Westminster non si riferisce solo al celebre palazzo che ospita il parlamento londinese, ma nella
storia si è affermato come un vero e proprio modello di regime democratico, con alcune caratteristiche specifiche
ricalcate proprio dal sistema britannico e in adozione in diversi paesi, spesso ex colonie inglesi, come l’Australia,
l’India, il Canada, la Malesia, la Nuova Zelanda o Singapore. I tratti caratteristici di tale modello Westminster,
elencati efficacemente da Arend Lijphart, sono: un sistema elettorale maggioritario e non proporzionale,
l’accentramento del potere esecutivo in governi monopartitici a maggioranza ‘stentata’, un sistema bipartitico, il
predominio dell’esecutivo, un parlamento unicamerale, il pluralismo dei gruppi di interesse, un sistema di
governo unitario e centralizzato, la flessibilità costituzionale, l’assenza di revisione giurisdizionale, una banca
centrale controllata dall’esecutivo. Tra questi elementi esiste una stretta correlazione. La competizione elettorale
di tipo maggioritario, infatti, determina il formarsi di un sistema bipartitico, e quindi un sistema in cui vi sono
due partiti principali che dominano il panorama politico, entrambi in grado di competere per la maggioranza
91
“il modello istituzionale cattivo”, alla base di una serie di democrazie fallite, autoritarismi
recenti e politiche d’instabilità. Similmente, autori come Matthew Shugart e John Carey,
basandosi su studi comparativi ad ampio raggio, sostengono la tesi per cui il fallimento dello
sviluppo democratico possa attuarsi tanto in regimi che adottano l’istituzione parlamentare
quanto presidenziale (Abdukadirov 2009; Easter 1997; Paiziev 2014; Reeves, Rasanayagam
& Beyer 2014).
E’ indubbio, però, che il dibattito sulle implicazioni e sugli effetti della forma
istituzionale adottata dai paesi in transizione ha dato un nuovo impulso ad un settore di studi
ancora poco sviluppato: lo studio comparativo delle varie forme di presidenzialismo87
. La
transizione dei regimi del Centro Asia offre a questo nuovo settore di ricerca l’occasione
ideale per arricchire la propria letteratura di esempi utili allo studio comparativo (Ibid.).
Dal 2006, infatti, le Repubbliche centrasiatiche sono state formalmente riconosciute
come sistemi politici presidenziali. Ognuno dei suoi Presidenti ha l’autorità di nominare o
destituire i membri di governo, esercita forte influenza sui gruppi di potere nazionale e ha un
significativo controllo sulla gestione delle risorse naturali. Inoltre ha anche l’autorità di
sciogliere il Parlamento se ritiene valide le proprie ragioni. Nonostante vi sia una separazione
formale dei poteri, la bilancia verte nettamente verso il potere esecutivo (detenuto in
maggioranza dal Presidente). Con l’unica eccezione del Kyrgyzstan88
, in tutte le repubbliche
del Centro Asia il corpo legislativo, rappresentato dal Parlamento, ha un’influenza ridotta al
minimo sulle dinamiche del paese e di fatto rappresenta un organo funzionale al potere
esecutivo (Paiziev 2014). A differenza del Kyrgyzstan, dunque, tutte le altre quattro
Repubbliche centroasiatiche sono ben distanti da un sistema presidenziale propriamente detto.
Come sostiene la ricercatrice Sally Cummings (2012), la politica autoritaria di questi Stati
assoluta dei seggi in Parlamento, e quindi disposti a governare da soli, generando la possibilità di un’alternanza
di governo. Un sistema bipartitico non esclude chiaramente la presenza di altre formazioni partitiche, ma rende
di fatto marginale l’influenza e il peso che questi riescono ad avere in Parlamento e nelle dinamiche politiche
nazionali. La solida e coesa maggioranza di cui gode il governo in Parlamento gli permette di essere stabile e di
veder approvate le proprie proposte legislative. Dal punto di vista istituzionale il Parlamento è bicamerale, ma
caratterizzato da un bicameralismo talmente asimmetrico che si può parlare di quasi-unicameralismo: le due
camere hanno differenti prerogative e composizione e il processo legislativo è concentrato solo in una delle due
(Enciclopedia Treccani 2012, disponibile al link http://www.treccani.it/enciclopedia/il-modello-
westminster_%28Atlante_Geopolitico%29/). 87
Ciò in ragione del fatto che i riferimenti comparativi al modello americano e francese risultano essere, al
giorno d’oggi, insufficienti ed inadeguati a comprendere in profondità le dinamiche di potere insite nei regimi
presidenziali di nuova formazione. Questo nuovo ambito di studi si prefigge l’obiettivo di sviluppare un corpo di
letteratura ampio in cui definire le varie forme di presidenzialismo emerse nei processi di transizione politica
degli ultimi decenni. Ciò al fine di identificare le condizioni chiave che portano alla scelta di tale forma
istituzionale, analizzando in maniera sempre più dettagliata come la scelta istituzionale influenzi o meno il
consolidamento della democrazia (Easter 1997). 88
A differenza delle altre quattro Repubbliche ex Sovietiche, il Kyrgyzstan, nel 2006 ha adottato un cambio
costituzionale radicale e nel 2007 ha ridotto notevolmente i poteri del Presidente, dando maggior rilievo al
Parlamento (Paiziev 2014).
92
concentra il potere in una élite piccola, chiusa, che può essere eletta o meno dal popolo e che
possiede in misura sproporzionata il potere su tutte le istituzioni. Un aspetto che, sicuramente,
trae insegnamento dal regime sovietico, rappresentante per antonomasia di un sistema basato
su una forte leadership, capitanata da un unico individuo, simbolo dell’intera comunità
politica (Ibid.). In relazione all’eredità sovietica rintracciabile nelle strutture politiche post
indipendenza reputo interessante esporre di seguito l’analisi articolata dal ricercatore Gerald
Easter (1997) nel suo articolo “Preference for Presidentialism: Postcommunist Regime
Change in Russia and the NIS”. Tale analisi abbraccia la tesi secondo cui la struttura delle
vecchie élite di regime sovietico, al momento della fase di rottura (crollo del URSS 1990-
1991), abbia avuto un ruolo sostanziale nel determinare la scelta istituzionale dei nuovi Stati
nascenti. La forma istituzionale scelta dalle Repubbliche in transizione, dunque, sarebbe
determinata dalla continuità o meno dell’integrità delle vecchie élite sovietiche e dal
mantenimento del loro accesso alle risorse naturali. Nel corso della sua argomentazione,
Easter individua tre tipi di strutture delle vecchie élite emerse nelle transizioni post comuniste:
consolidate, disperse e riformate. L’élite consolidate sono quelle che uscirono dal momento
critico di disfacimento dell’Unione Sovietica pressoché inalterate, la cui struttura politica
rimase pertanto sostanzialmente intatta. In questi casi, le forze di opposizione presenti sul
territorio furono troppo deboli per imporre alle vecchie élite di ridurre il proprio potere. Di
conseguenza, esse mantennero con successo il monopolio sulle risorse naturali anche nella
fase di transizione. Nel secondo caso, invece, le élite disperse subirono una frammentazione
interna durante la fase di rottura. In questo caso, le forze di opposizione si mobilitarono con il
supporto delle masse popolari in azioni collettive quali dimostrazioni, elezioni, boicottaggi,
per rimuovere le vecchie élite di regime dalla loro posizione di potere. Dopo aver subito
un’ingente frammentazione interna il loro accesso alle risorse naturali venne messo in
discussione. Nella fase di transizione, dunque, tali élite furono costrette a competere al pari
dei nuovi attori politici. Infine, le vecchie élite riformate non rimasero strutturalmente intatte
né, d’altro canto, subirono frammentazione interna. Si verificarono, certo, delle scissioni ed
alcune vennero persino rimosse dal potere. Tuttavia, entrarono in accordi di condivisione del
potere con i nuovi attori politici emergenti. Le vecchie élite dovettero, inoltre, riformarsi per
mantenere l’accesso alle risorse. Quest’ultima categoria si trovò, indubbiamente, in una
posizione di debolezza, ma riuscì a mantenere notevoli vantaggi in accordo coi nuovi attori
politici (Easter 1997:188). Come accennato in precedenza, queste tre variazioni strutturali
delle vecchie élite, a loro volta, influenzarono la scelta istituzionale degli Stati post-sovietici
in transizione. Essi, dopo il disfacimento dell’Unione Sovietica, adottarono principalmente tre
93
forme istituzionali: parlamentare, presidenziale e sistema misto. Easter, tramite uno studio
comparativo, ricorda che la forma di governo presidenzialista fu scelta in tutti e sei i casi in
cui si riscontrò la presenza di élite consolidate. La forma parlamentare venne, invece, adottata
in sei degli otto casi in cui si riscontrò la presenza di élite disperse, ad eccezione della Polonia
che optò per un sistema misto. Infine, anche negli Stati in cui si riscontrarono strutture d’élite
riformate, venne adottato il presidenzialismo (si veda Tabella in fig.15). La domanda che
sorge spontanea, dopo la lettura di questi dati, è: perché i vecchi regimi d’élite preferirono il
presidenzialismo, mentre i nuovi attori politici optarono per il parlamentarismo? La risposta,
secondo Easter, potrebbe essere rintracciabile nel fatto che la scelta della forma istituzionale
riflette le strategie messe in atto dall’élite per assicurarsi l’accesso alle risorse. Nelle
transizioni post-comuniste, il presidenzialismo è stato preferito da quelle vecchie élite di
regime che, nel processo di ripartizione dell’URSS, mantennero il loro accesso, tutto o in
parte, alle risorse naturali dello Stato. Il loro obiettivo, durante la fase di transizione, non fu
solo mantenere ciò che già avevano, ma, soprattutto, negarne ad altri l’accesso. In questo, il
presidenzialismo, meglio del parlamentarismo, ha offerto una soluzione più funzionale al
raggiungimento di tali obiettivi. Le particolari caratteristiche istituzionali del presidenzialismo
vennero utilizzate dalle élite consolidate per istituire un proprio diritto di proprietà sulle
risorse dello Stato (Easter 1997). I nuovi attori politici emersi negli anni della transizione, di
contro, non potevano fare affidamento ad un già consolidato accesso alle risorse. Il loro primo
obiettivo fu, dunque, istituire un sistema istituzionale che mettesse in gioco tale accesso. Il
parlamentarismo fu la soluzione che meglio si confece a tale finalità. Attraverso i suoi
meccanismi istituzionali, il parlamentarismo faceva in modo che nessun gruppo o partito
politico potesse rivendicare la proprietà delle risorse dello Stato. Essa sarebbe stata garantita
tramite un sistema di competizione elettorale (Ibid.).
94
.
(Fig.15) Tabella riportante i diversi tipi di struttura delle vecchie élite sovietiche e le conseguenti scelte di forma
istituzionale negli ex Stati dell’Unione Sovietica (Easter 1997:190)
Applicando l’analisi di Easter (1997) al caso specifico dell’Uzbekistan si può notare
come esso sia un chiaro esempio di Stato in cui la vecchia élite consolidata si intromise nella
decisione e nella creazione della forma istituzionale post-indipendenza. Soprattutto il regime
di Brezhnev (1964-1982) (vedi cap. 1) segnò in profondità il paese, lasciando un’importante
eredità di “politica giocata dietro le quinte”, secondo un rete di relazioni clientelari che, come
affermato a inizio paragrafo, caratterizzano gli Stati neo-patrimonialisti (Paiziev 2014). Una
parte considerevole della leadership e dell’apparato politico/amministrativo dell’Uzbekistan
deriva in linea diretta dall’insegnamento e dall’élite dell’epoca brezhneviana (Kandiyoti 2002;
Easter 1997; Paiziev 2014). In primis, il processo di scelta istituzionale venne controllato
interamente dalla vecchia élite sovietica. Come approfondirò in seguito, senza la sfida politica
posta da movimenti nazionalisti o democratici di massa, forti e coesi, le élite comuniste in
Uzbekistan non furono mai costrette a ridefinire se stesse come fecero in altre repubbliche,
per esempio in quelle slave. Le élite sovietiche locali manipolarono palesemente le elezioni
per il nuovo parlamento, svolte nel febbraio 1990. Le nomine dei candidati, la registrazione
dei partiti, la copertura mediatica ed il conteggio dei voti venne interamente gestito da
organismi sovietici altamente controllati. Più di un terzo dei seggi del nuovo parlamento non
furono cambiati. Il risultato delle elezioni parlamentari fu che circa il 95% dei deputati
risultarono essere membri del Partito Comunista. A differenza di altre repubbliche sovietiche,
in Uzbekistan le elezioni del 1990 non servirono come mezzo attraverso cui nuovi attori
95
politici non comunisti ottennero l'accesso, anche parziale, alle risorse e al potere dello Stato.
Sopravvissuta del tutto illesa al crollo sovietico, la vecchia élite non fece altro che
riorganizzarsi all’interno di una nuova forma istituzionale: il presidenzialismo (Paiziev 2014;
Easter 1997; Ilkhamov 2002). Nel marzo del 1990, Islam Karimov89
divenne Presidente della
Repubblica Sovietica dell’Uzbekistan. Venne ufficialmente investito di tale carica dal
Parlamento comunista. Quando fu chiaro che il regime sovietico non sarebbe sopravvissuto
alla crisi, nel 1991, vennero indette le elezioni per eleggere il Presidente dello Stato
indipendente e fu arrangiato un referendum per l’indipendenza. L’oppositore di Islam
Karimov fu Muhamad Salih, leader del movimento di opposizione democratica Erk
(Demokratik Partiyasi). Karimov vinse con l’86% dei voti. Ai candidati del Birlik, il Partito
del Popolo, e a quelli dell’Islamic Renaissance Party, fu negata la possibilità di partecipare
alle elezioni, e ad un mese dall’entrata in carica del Presidente entrambi i partiti vennero
dichiarati fuori legge (Paiziev 2014). Il Partito Comunista in carica venne rinominato People
Democratic Party (PDP). Subito dopo le elezioni, Karimov propose una nuova costituzione,
che divenne un potente simbolo dell'Uzbekistan indipendente. L’intento primo della nuova
carta costituzionale, tuttavia, fu di delineare un sistema istituzionale in cui il Presidente
avrebbe agito come capo assoluto dello Stato. Sarebbe stato eletto per un mandato di cinque
anni tramite l’esercizio della sovranità popolare. Per legge, il Presidente non avrebbe potuto
ricoprire tale ruolo per più di due mandati consecutivi. La costituzione venne approvata nel
dicembre 1992: dopo alcune ore di discussione il Parlamento votò all’unanimità
l’approvazione. Nel dicembre 1994 si svolsero, inoltre, le elezioni per la nuova legislatura
post-comunista: la Oly Majlis. Anche queste elezioni vennero ampiamente controllate dalla
vecchia élite comunista ormai riorganizzata nel partito in carica (People Democratic Party). I
partiti d’opposizione (Birlik, Erk e l’ Islamic Renaissance Party), essendo stati dichiarati
ufficialmente fuori legge, non parteciparono al processo di rinnovamento del Parlamento. La
partecipazione a queste elezioni fu concessa solo ad un partito, il Fatherland Progress,
composto da esponenti dell’intellighenzia urbana e da grandi imprenditori che,
fondamentalmente, erano in accordo col partito del Presidente. Ancora una volta, la vecchia
élite prevalse e circa il 95% dei seggi della nuova legislatura furono occupati da membri
dell’ex Partito Comunista. La preoccupazione maggiore nella prima sessione parlamentare
tenuta dall’Oly Majlis nel febbraio del 1995 fu l’organizzazione di un referendum popolare
per estendere la scadenza del mandato del Presidente Islam Karimov dal 1997 al 2000. Dai
dati ufficiali, l’elettorato si pronunciò, con il 99% dei voti, a favore dell’estensione (Easter
89
Segretario del Partito Comunista dal 1989.
96
1997:201; Ilkhamov 2002). Nel frattempo, già dal dicembre 1997 venne corretta la legge
riguardante l’elezione presidenziale. Se nella versione iniziale di tale legge veniva sancito il
divieto di servire il paese per più di due mandati, nella nuova versione revisionata tale
clausura venne eliminata. Dal punto di vista legale, dunque, nulla impedì più a Islam Karimov
di essere rieletto per il terzo mandato (Ilkhamov 2002). In un rapporto di ricerca del
Congresso degli Stati Uniti, redatto da Jim Nichol (2010), specialista di Russia ed Eurasia,
vengono esposti gli sviluppi politici recenti del paese. Nel gennaio 2002, il Presidente,
orchestrò un referendum per l’entrata in vigore di una nuova Costituzione che modificò
l’apparato legislativo, dando vita ad un Parlamento bicamerale. Unitamente, si rimodificò la
legge sul mandato presidenziale allungandolo da cinque a sette anni. In seguito a queste
modifiche sostanziali l’apparato istituzionale si trovò organizzato in questo modo: la
legislatura (Oly Majlis) si compose, da quel momento, di 120 membri, direttamente eleggibili,
che andavano a formare la camera inferiore, è da 100 membri della camera superiore
(Senato), 16 dei quali investiti direttamente dal Presidente, il restante selezionato dagli organi
politici locali. Gli unici partiti accettati nel dibattito politico rimasero quelli fortemente
controllati dal People Democratic Party (PDP): l’Adolat (Justice) Social Democratic Party
(LDP)90
e il Milliy Tiklanish (National Revival) Party91
. I partiti considerati dal regime come
oppositori dello Stato continuarono ad essere dichiarati fuori legge, tra essi: Bridamlik, Birlik,
Erk, Free Farmers e la Sunshine Coalition (Nichol 2010). Nel 2008 entrò in vigore una legge
costituzionale sui partiti che, orientata a “democratizzare” le istituzioni, permise ai deputati
dei partiti di “opposizione” di offrire progetti alternativi e partecipare ai dibattiti politici
dell’Oly Majlis. La legge, inoltre, sancì che il Presidente avesse l’obbligo di "consultare" le
due Camere prima di nominare il Primo Ministro.
Nel 2007, alle nuove elezioni presidenziali, Islam Karimov fu nuovamente
riconfermato col 90,6% dei voti, mentre i suoi avversari92
ricevettero solo un 3% di consensi a
testa (Ibid.).
Sono, infine, di quest’anno le ultime elezioni presidenziali del paese. Durante il mio
periodo di permanenza, tra ottobre e novembre, l’Uzbekistan era in piena campagna elettorale.
Molte delle persone con cui ho avuto modo di parlare mi confessarono il timore che vi fosse
un passaggio d’incarico e che, quindi, Islam Karimov non fosse riconfermato. Una tra le frasi
più comuni a legittimazione del desiderio che l’attuale Presidente restasse in carica fu “meglio
90
Un partito i cui membri sono per lo più imprenditori profondamente legati al governo (Nichol 2010). 91
Un movimento composto da intellettuali a supporto del dello Stato (Nichol 2010). 92
I candidati in lizza per il posto di Presidente furono: per il People Democratic Party, Asliddin Rustamov, per
l’Adolat Social Democratic Party, Dilorom Toshmuhammadova e Akmal Saidov fu candidato da un comitato
d’iniziativa cittadina (Nichol 2010).
97
che rimanga lui, chi lo sa come potrebbe essere il suo sostituto?!”. Ho potuto, dunque,
riscontrare in molti dei miei interlocutori una sorta di abitudine rassicurante nella figura di
Karimov, considerato ormai da molti, al di là della carica presidenziale in sé, come vero e
proprio Padre della Patria (Citati 2015).
Le elezioni presidenziali svoltesi domenica 29 marzo 2015 hanno visto la schiacciante
vittoria di Islam Karimov che, per la quarta volta in ventiquattro anni, è stato riconfermato
alla guida del paese. Candidato per il Partito Liberal-Democratico Uzbeko (OzLiDep), di
orientamento centrista, Karimov ha totalizzato il 90,39% delle preferenze, lasciando ad
Akmal Saidov, candidato per il partito di destra Milliy Tiklanish (Rinascita nazionale), un
insignificante 3,08%. Narimon Umarov, candidato per il partito social-democratico Adolat
(Giustizia) si è invece fermato al risultato più basso con il 2,05% (Citati 2015). Riporto di
seguito le parole di Dario Citati, osservatore internazionale incaricato di monitorare le
operazioni di voto in diversi seggi elettorali della regione di Khorezm93
:
“In tutti i seggi che ho visitato le votazioni si sono svolte correttamente senza alcun tipo d'infrazione. Il
processo elettorale si è svolto in una cornice di piena regolarità procedurale: i cittadini dei diversi collegi
erano registrati nelle rispettive liste, le cabine e le urne allestite con estrema cura e i membri delle
commissioni vigilavano con serietà sulla correttezza delle operazioni di voto. L’unica prassi apparsa
invece inadeguata rispetto agli standard internazionali è la facoltà del voto su delega per i componenti del
nucleo familiare, regolarmente consentita dalle disposizioni della Commissione Elettorale Centrale. La
legge uzbeka concede infatti al singolo cittadino la possibilità di votare anche per i membri della propria
famiglia previa presentazione del loro documento d'identità. Tale consuetudine è risultata diffusa nelle
operazioni di voto e sembra indicativa di un contesto culturale in cui il ruolo del gruppo di appartenenza
resta molto forte ed è spesso preminente rispetto alle scelte puramente individuali” (Citati 2015).
Il ricercatore prosegue inoltre aggiungendo:
“Se il rispetto formale delle norme è stato a ogni modo complessivamente positivo, a testimonianza di
un’accresciuta competenza nella gestione delle procedure elettorali, la situazione riguardante l’effettivo
pluralismo politico si è dimostrata ancora distante dalle dinamiche delle democrazie consolidate. Le
piattaforme programmatiche dei tre candidati sconfitti, a cui comunque, secondo quanto affermato dallo
stesso severo rapporto dell’Osce, «i media dello Stato hanno garantito un ampio spazio sulla stampa e nei
dibattiti radiotelevisivi» avevano tutte un punto in comune: la mancanza di vere critiche e la speculare
assenza di proposte politiche chiaramente alternative a quelle del vincitore Karimov. Ad esempio, come
già per Umarov e Ketmonov, anche il programma elettorale di Akmal Saidov (forse l’unico candidato che
per notorietà e consenso avrebbe potuto ottenere percentuali di un qualche rilievo su scala nazionale) si
apriva con l’elogio dei risultati raggiunti dallo Stato uzbeko nei ventiquattro anni di indipendenza, cioè
con una lode implicita del Presidente uscente nonché avversario nella competizione elettorale” (Ibid.).
Lo svolgimento e i risultati delle presidenziali 2015 in Uzbekistan mostrano, dunque,
secondo Citati, un quadro caratterizzato da una forte ambivalenza: un indubbio
93
Più specificatamente nelle città di Urgenč (nei seggi n. 42 e n. 63) e Khiva (con monitoraggio prolungato nei
seggi n. 19, 43, 348, 349), effettuando, inoltre, un sopralluogo a due giorni dalle elezioni nella città di Bukhara
(nei seggi n. 40, n. 74, n. 50) e diversi colloqui con i commissari responsabili delle circoscrizioni e con i
rappresentanti dei candidati (Citati 2015).
98
consolidamento delle pratiche e dei meccanismi elettorali, ampia partecipazione popolare e un
buon livello organizzativo; ma anche un clima ancora segnato da una concezione della
democrazia di tipo quasi cesaristico, incardinata sul nesso Nazione-Presidente più che su un
sistema collaudato di pesi e contrappesi e sull’aperta contrapposizione fra candidati con pari
opportunità di vittoria (Ibid.). Il ruolo a cui Islam Karimov è assurto dal 1991 a oggi è, come
accennato prima, quello di autentico "padre della Patria": l’identificazione tra il percorso
storico dell’Uzbekistan indipendente e la sua stessa persona è tale da renderne la figura
pressoché incontestata. Se la sua riconferma ai vertici della repubblica centroasiatica appariva
dunque di gran lunga prevedibile, sarebbe stata purtuttavia auspicabile, quantomeno dal punto
di vista della comunità internazionale, una vittoria con percentuali meno clamorose, per
testimoniare la crescita di consenso verso gli altri candidati (e dunque l’aumento della
competizione politica reale), accanto a quello che si configura come un processo di
democratizzazione in transizione (Ibid.).
E’ senz’altro corretto affermare che, nonostante le loro sostanziali differenze, tutti e
cinque i sistemi presidenziali del Centro Asia siano caratterizzati da un alto indice di
autoritarismo (Paiziev 2014). Il modello di modernizzazione giuridica di stampo occidentale
sta, solo in parte e solo recentemente, influenzando gli apparati statali in questione. Il
Kirghizistan resta, indubbiamente, la Repubblica più liberale della regione, correntemente
definita dagli osservatori internazionali, come “isola democratica” nel mezzo di un vicinato
altamente autoritario. Il Tajikistan, che da poco è riuscito a sedare la dilaniante guerra civile
scoppiata all’indomani dell’indipendenza, ha iniziato recentemente il suo percorso di riforma
liberale. Il Kazakhstan, con una sorta di compromesso tattico, ha instaurato un sistema
presidenziale definibile familiare in cui la rete familiare e clientelare del Presidente
Nazarbayev gestisce l’enorme patrimonio di risorse naturali (petrolio, gas…), utilizzato
inoltre per sedare la lotta tra élite locali. Come accennato in precedenza, Uzbekistan e
Turkmenistan sono i due Stati considerati in maggior misura totalitari. In entrambi i casi la
centralizzazione del potere viene messa in atto eliminando le forze d’opposizione dall’arena
politica. La società civile è duramente repressa, le ONG94
sono state allontanate e gli
oppositori diretti del Presidente vengono spesso costretti a chiedere asilo politico all’estero
(Ibid.). Nonostante in questo lavoro io non abbia l’occasione di approfondire l’argomento,
94
Il governo uzbeko ha aumentato le persecuzioni contro gli attivisti per i diritti umani, dopo le vicende di
Andijan del maggio 2004. Lo denuncia la Federazione internazionale di Helsinki per i diritti umani (IHF). Dopo
i fatti di Andijan – dice Aaron Rhodes, capo della Federazione – il governo ha iniziato una campagna contro la
società civile. In particolare, contro le organizzazioni sociali che tutelano i diritti umani (Asia News 2006,
disponibile al link http://www.asianews.it/notizie-it/In-Uzbekistan-peggiora-la-persecuzione-contro-le-ong-per-i-
diritti-umani-5056.html).
99
sarebbe senz’altro interessante soffermarsi a riflettere sulle dinamiche di “esportazione” del
sistema giuridico occidentale in paesi che, come l’Uzbekistan, stanno vivendo una transizione
politica, economica ed amministrativa. Siamo in un epoca in cui, come afferma l’antropologo
De Lauri (2012), l’idea di rule of law (“Stato di diritto”, “governo della legittimità”) assume
un carattere globale, ossia si “arroga” la possibilità di poter affermare regole universali, valide
per tutti. E’ interessante, però, notare come tale fenomeno possa assumere anche una
connotazione negativa, legata a movimenti di espansione giuridica che assumono una forma
neocoloniale (Ibid.). Nel suo libro Afghanistan, De Lauri (2012), invita, dunque, a riflettere
sul discorso attorno alla rule of law, in un’ottica differente dalla retorica dominante, che
proclama la modernizzazione giuridica come via indispensabile per il raggiungimento di un
progresso privo di alternative95
.
La domanda su cui la comunità scientifica si sta attualmente interrogando, in particolar
modo il settore delle scienze politiche, è: perché il Centro Asia ha un carattere fortemente
autoritario ed è caratterizzato da un rigido presidenzialismo? Una possibile risposta a tale
domanda è stata avanzata da alcuni autori impegnati in studi riguardanti la cultura politica
della regione, evidenziando la natura patriarcale e gerarchica delle strutture sociali autoctone.
Gregory Gleason (1997, cit. in Paiziev 2014), per esempio, sostiene che la tradizione
patriarcale centroasiatica, fatta di sottomissione, deferenza all’autorità e agli anziani, unita al
carattere debole delle istituzioni, sembra essere il motore primo dell’autoritarismo. Ma la
questione, ricollegandomi ai temi trattati ad inizio paragrafo, può essere posta anche al
rovescio: perché gli stati del Centro Asia non hanno ancora sviluppato delle democrazie
consolidate? Come suggerisce la ricercatrice Sally Cummings (2012:68), esistono due
approcci differenti riguardo a tale questione: a) approccio modernista/strutturale, b) approccio
transizionalista.
a) L’approccio modernista/strutturale sostiene che senza un determinato livello di sviluppo
economico e senza una configurazione ben sviluppata della classe media, il paese non sarà
in grado di sostenere un vero e proprio processo di liberalizzazione;
b) L’approccio transizionalista, invece, sottolinea l’importanza di una volontà politica,
ponendo in primo piano la leadership e la sua capacità di forgiare una nuova élite unita,
che dialoghi e negozi con la propria opposizione.
Fino ad oggi, tutti i leader delle Repubbliche indipendenti centroasiatiche sono rimasti
fermamente convinti che l’autoritarismo fosse, e sia, la via migliore per detenere il potere. Ciò
95
Per un approfondimento sul tema si veda Nader L., Mattei U. (2008), Plunder: When the Rule of Law is Illegal, Blackwell publishing.
100
è così perché il regime di autoritarismo presidenziale infonde la percezione di prevedibilità
del sistema, al fine di evitare elezioni competitive, assicurando che il circuito politico resti
chiuse in sé stesso senza la partecipazione della concorrenza (Cummings 2012:69).
3.1.2. La cultura della politica locale: i clan d’élite
Uno dei fattori rilevanti, secondo uno studio di Erali Paiziev (2014) già citato in
precedenza, che contribuisce al persistere attuale del neo-patrimonialismo in Centro Asia è la
cultura politica della regione. Tale cultura è rappresentata da una politica giocata a livello
informale, piuttosto che sulla scena politica principale, governata da grandi centri di potere. È
difficile, infatti, immaginare la politica dell'Asia Centrale svincolata dalle interazioni
informali tra diversi attori quali i clan e le reti di potere regionali96
(Ibid.). Sono proprio
queste pratiche informali che, secondo Paiziev, ostacolano gli Stati membri che sorgono sulla
via della seta, a promuovere i principi democratici e a rafforzare le proprie istituzioni a difesa
dello stato di diritto (rule of law), e garantire la tutela dei diritti umani. Autrici come Anna
Grzymala-Busse e Pailine Jones Luong (2002, cit. in Reeves, Rasanayagam & Beyer 2014)
hanno inoltre avanzato una profonda critica alla concezione di Stato assunta dalla letteratura
delle scienze politiche in relazione alle transizioni post-sovietiche. Le due autrici mettono,
infatti, in discussione la definizione di Stato come “un insieme chiaramente identificabile di
istituzioni e attori politici che esercitano l’autorità legittima in un determinato territorio,
pensando collettivamente come un agente pubblico unitario” (Ibid:4). Tale concezione
deriverebbe da schemi interpretativi fortemente legati all’esperienza politica europea e, più in
generale, occidentale. Differentemente, l’analisi della situazione centroasiatica dovrebbe
essere affrontata tramite un approccio processuale che tenga presente dei cambiamenti
drammatici a seguito della disgregazione dell’Unione Sovietica. Grzymala-Busse e Luong,
presentano un analisi della regione che cerca di riportare la figura del popolo all’interno dello
Stato, riconoscendo l’esistenza di più attori in competizione (élite locali, governi,
organizzazioni internazionali ecc.). Arrivando a concludere che gli Stati post-comunisti
possono essere visti come un bricolage, costruiti, cioè, su strutture formali ereditate dal
passato sovietico, ma, allo stesso tempo, costruite anche su strutture informali profonde,
derivate da eredità di vario genere (Ibid.).
96
Tra i network regionali più potenti della Repubblica uzbeka contemporanea, vi sono quelli di Tashkent,
Samarcanda e della Valle del Fergana. Queste tre élite regionali, continuano a giocare un ruolo chiave nel
controllo politico e nell’accesso alle risorse economiche del paese. Per un maggior approfondimento sui clan
presenti nel territorio centroasiatico si veda Paiziev (2014), in particolare pp.23-46.
101
In relazione alla questione della politica dei clan in Centro Asia, sono molti gli
autori che si rifanno alle tesi elaborate da Kathleen Collins (2004, cit. in Reeves,
Rasanayagam & Beyer 2014; Paiziev 2014; Ilkhamov 2002), docente di Scienze Politiche
presso l'Università di Notre Dame e ricercatrice presso l'Istituto per gli Studi Internazionali
Kellogg. Similmente alle autrici sopra citate, anche Collins si interroga su Stato e società,
concepiti comunemente come due entità distinte, quando invece, cerca di dimostrare
l’autrice, in Asia Centrale esse risultano fortemente intrecciate (Collins 2004, cit. in
Reeves, Rasanayagam & Beyer 2014). Fa ciò introducendo la cultura all’interno
dell’analisi politica. Prendendo ispirazione dalla letteratura antropologica sulla parentela,
Collins, sostiene che la politica centroasiatica sia caratterizzata dalla persistente presenza
dei clan97
, intesi come reti di legami informali basati sulla parentela o sulla parentela
fittizia. Essi sono veicolo di un legame “affettivo” che offre supporto psicologico, ma
anche di elementi “razionali”. Le élite o i capi clan hanno bisogno di una rete di sostegno
per mantenere il proprio status e la propria influenza politica e, allo stesso tempo, i non
appartenenti all’élite hanno bisogno dei leader dei clan nella misura in cui essi divengono
patroni, garantendo l'accesso al lavoro, all’opportunità di vendere nei bazar, all'istruzione,
nonché all’ottenimento di aiuti materiali in economie precarie quali quelle delle cinque
Repubbliche98
. Nella critica avanzata alla letteratura di “transizione”, Collins si focalizza
sull’eccessivo rilievo dato alle istituzioni formali, ritenendo che le istituzioni sociali
“tradizionali” siano incompatibili con le formazioni politiche moderne (Collins 2004, cit.
in Reeves, Rasanayagam & Beyer 2014:6; Paiziev 20014:25). Il “tradizionalismo” è
qualcosa che anche Olivier Roy (Roy 2000, cit. in Reeves, Rasanayagam & Beyer 2014)
sottolinea nella sua analisi della politica centroasiatica. Egli sostiene che l’apparato
sovietico sia stato “ri-abitato” da schemi tradizionali della vita politica. Per esempio, la
categoria pre-sovietica di “signore/notabile rurale” venne perpetrata trasformandosi nella
figura del capo di azienda agraria collettiva, mediatore tra la classe contadina e lo Stato,
facendo in modo che l’azienda collettiva diventasse ciò che Roy chiama la “nuova tribù”
(Ibid.). Lontane dall’aver eliminato forme di politica tradizionale pre-esistenti, le norme
sovietiche, non fecero altro che istituzionalizzarle attraverso una regolamentazione statale,
dando loro una realtà economica ed amministrativa. Roy continua la sua argomentazione
sostenendo che non vi sono molti casi di strutture tradizionali pre-sovietiche sopravvissute
97
Definisce, inoltre, la politica dei clan come: "la politica della concorrenza e della trattativa informale tra clan,
nel perseguimento degli interessi di clan" (Collins 2004:224, cit. in Paiziev 2014:24). 98
Ho trattato approfonditamente un esempio concreto delle dinamiche individuate da Collins nel secondo
capitolo di questo lavoro, riguardante le reti clientelari instaurate in ambito agrario tra la classe contadina
(dekhon), i proprietari di aziende agricole private (fermer) e i governatori distrettuali (hokim) (vedi pp. 40-83).
102
inalterate fino ad oggi, ma, ciò che lui chiama l’“habitus” di tradizionali modelli di
clientelismo, vennero riprodotti attraverso la gerarchia istituzionale sovietica di governo e
di accesso alle risorse naturali (Ibid:7). Inoltre, le ideologie nazionali e le narrazioni che
formano il cuore degli sforzi di costruzione del nuovo Stato (ciò che analizzerò nel
prossimo paragrafo), sono profondamente radicati nella politica nazionalità sovietica. Il
campo politico post-sovietico, di conseguenza, secondo Roy, dovrebbe essere inteso non
tanto come una replica di modelli pre-sovietici, ma piuttosto come un “neo-
tradizionalismo” ibrido (Ibid)99
.
Sia nell’analisi di Collins che in quella di Roy, cultura, clan e tradizione, relazionati
alla politica, possono essere indirettamente intesi come una “scatola nera” (black box), in
cui sono contenute tutte le motivazioni non razionali e gli incentivi che, in ultima analisi, si
riducono a tutte quelle operazioni legate a relazioni clientelari e calcoli di costi e benefici
(Reeves, Rasanayagam & Beyer 2014:7-8). I concetti di politica di clan e di
“tradizionalismo”, dunque, cercano di rispondere alle complesse questioni del perché le
persone fanno le cose che fanno e quando, queste azioni, non sembrano chiaramente
motivate da un calcolo di interessi individuali, in termini comprensibili per l’osservatore
esterno (per esempio per l’accademia occidentale) (Ibid.).
L’antropologo Jonathan Spencer ha elaborato un approccio alla politica
culturalmente indirizzato, riconoscendo che la politica e la cultura non sono due cose
distinte, ma che la politica emerge nelle pratiche sociali e nelle possibilità immaginative
locali che vanno a decentrare la concezione teleologica della modernità, finanche quelle
della razionalità occidentalmente intesa. Spencer definisce tale concetto come: il
riconoscimento del potenziale dinamico e creativo delle istituzioni politiche (Spencer
2007, cit. in Reeves, Rasanayagam & Beyer 2014:9).
In accordo con Harvey (2005, cit. in Reeves, Rasanayagam & Beyer 2014) e altri
antropologi quali per esempio Abu-Lughod (1991), ritengo che l’antropologia del locale
non si debba limitare ad elaborare una prospettiva “dal basso”. Piuttosto, il metodo
etnografico dovrebbe eludere le opposizioni spaziali individuando il "globale" all’interno
del locale, delle vite, dei corpi e delle materialità. La prospettiva antropologica, quindi, è in
grado di sollevare la figura dello Stato come oggettivo, separato dalla società, tendendo
99
Un eminente ricercatore del fenomeno, David Gullette, sostiene che vi è un termine concettuale più grande che
ha in sé un potere esplicativo maggiore dell’accezione” politica informale di clan”, ossia, tribalismo. L’autore
sostiene, infatti, che l’etichetta della politica dei clan come è inteso nell’analisi tradizionale offre una
comprensione ridotta delle pratiche politiche quotidiane della regione centroasiatica. Tuttavia, ritengo che,
solitamente, il termine tribalismo, rimandi fortemente ad una comprensione evoluzionista della politica dei clan
del Centro Asia (Gullette 2007, cit. in Paiziev 2014:26).
103
verso uno "smascheramento" della sua natura immaginata e costruita, sottolineandone il
processo, le pratiche e le prestazioni che producono tale maschera. Lo Stato può essere
vissuto come gerarchica oppressiva o come soggetto di regolamentazione in grado di fare
offerte, negoziare e manipolare le regole nel perseguimento dei propri obiettivi. Lo Stato
può essere condannato come assente o carente, così come può essere immaginato in modi
idealizzati o invocato coma una solida e benevola struttura di potente (Reeves,
Rasanayagam & Beyer 2014).
In Uzbekistan la figura dello Stato è fortemente intricata a dinamiche di sfruttamento
del lavoro, soprattutto della classe contadina. L’ingente sfruttamento produttivo della
popolazione rurale e delle risorse naturali per la produzione del cotone, rimane ad oggi una
caratteristica fondante dell’Uzbekistan contemporaneo. Come ampiamente ribadito nelle
pagine precedenti la coltivazione del cotone è fortemente regolamentata dagli apparati
governativi sparsi sul territorio, nonostante la produzione avvenga nelle terre di aziende
agricole private. L’esportazione del prodotto frutta allo Stato un introito annuo che compone
gran parte del PIL nazionale (Baffes, Badiane & Nash 2004; Guadagni 2005, cit. in
Djanibekov, Bobojonov & Lamers 2012:105). L’intromissione istituzionale in merito alla
coltivazione cotoniera non si limita esclusivamente all’imposizione delle quote di produzione;
lo Stato si fa garante di tutto un sistema di controllo capillare che si insinua fin nei più piccoli
aspetti gestionali della produzione: profondità e data della semina, tipo e modalità di
fertilizzazione, potatura, quantità d’irrigazione ecc. Quasi tutti i materiali e gli interventi
tecnici per la coltivazione del cotone vengono sovvenzionati dallo Stato e forniti ai fermer
attraverso canali di distribuzione statali. Il risultato di un meccanismo siffatto è la condizione
per cui, in Uzbekistan, non solo lo Stato vincola gli agricoltori a quantità e modalità di
produzione del cotone, ma detiene, inoltre, il pieno possesso dei canali di
commercializzazione e distribuzione di tutti gli elementi fondamentali all’agricoltura
(Djanibekov, Bobojonov & Lamers 2012; Trevisani 2007; Veldwisch 2008; Veldwisch &
Bock 2011; Zanca 2011). Ciò spiega la scelta di un titolo tanto lapidario, quanto immediato,
quale “Cotone di Sato”. Esso, infatti, rende l’idea di come il mio lavoro sia indirizzato
all’analisi della profonda commistione tra Stato (neo-patrimonialista), ed il fiorente business
del cotone grezzo. Un connubio, questo, che racchiude in sé dinamiche d’asservimento
istituzionalizzato dei “lavoratori della terra”, nonché, un intricato sistema di reti clientelari,
che, dall’era sovietica, infetta la sfera produttiva, la gestione delle risorse naturali e tutta la
sfera politico-amministrativa. Da sempre, in Uzbekistan, il cotone è, infatti, uno degli
indicatori più evidenti dei rapporti di fedeltà tra le parti in gioco (Kandiyoti 2002).
104
3.2. IDEOLOGIA NAZIONALE E RETORICA DI STATO
Sin dal 1991, da quando l’Uzbekistan divenne indipendente, il circuito della
metropolitana di Tashkent iniziò a subire dei cambiamenti. La stazione “Lenin” fu rinominata
“Piazza dell’Indipendenza”. La stazione “Komsomol” (Organizzazione Giovani Comunisti),
venne rinominata “Yashlik”, parola uzbeka per indicare la “gioventù”. Alla stazione
“Amicizia dei Popoli” non venne cambiato nome, ma i sigilli decorativi raffiguranti l’amicizia
socialista vennero coperti da un pesante strato di intonaco. In tutto il circuito ferroviario,
inoltre, i simboli cirillici di lingua russa vennero sostituiti da quelli in lingua uzbeka
(Kurzman 1999). Sono questi, infatti, i cambiamenti che ci aspettano da una Nazione in fase
di decolonizzazione, assieme alla riprogettazione dello stemma nazionale e della bandiera,
all'istituzione della compagnia aerea di bandiera, di organi per la promozione del turismo, e
altri orpelli che caratterizzano la nazione contemporanea (Ibid.) (vedi fig.16). Ma, oltre a
questi passaggi di routine verso la costruzione della nuova nazione, l'Uzbekistan e le altre ex
Repubbliche Sovietiche del Centro Asia furono contemporaneamente impegnate nella
costruzione del nazionalismo, un’impresa tanto difficile quanto insolita (Ibid.). Nei paesi che
hanno vissuto un lungo periodo di colonizzazione, questo processo, solitamente, inizia prima
dell'indipendenza. Come dichiara Ernest Gellner, in accordo con altri autori tra qui Eric
Hobsbawm, "solitamente è il nazionalismo, che genera le nazioni, non il contrario" (Gellner
1983, cit. in Kurzman 1999:77). I cechi sotto l’Impero Austro-Ungarico, per esempio,
intrapresero scontri e mobilitazioni per generazioni prima di ottenere l’indipendenza, così
come altre nazioni uscenti dal colonialismo quali Indonesia, Nigeria, India, America: in tutte
si assistette a movimenti nazionalisti di vario genere. All’interno di questi stati si crearono
spinte centrifughe che mirarono all’indipendenza, o almeno all’autonomia amministrativa,
spinti dall’esasperazione di politiche di sfruttamento, di oppressione, di discriminazione e
violenza da parte delle autorità centrali. Un fenomeno, questo, che nella contemporaneità
emerge, con sempre maggior forza, nelle “periferie del mondo”, in movimenti nazionalistici
che continuano a battersi per il proprio riconoscimento (Fabietti, Malighetti & Matera 2012).
In Uzbekistan, di contro, ciò non si verificò. Non vi furono movimenti nazionalisti prima
dell’Indipendenza. Diversamente dalla maggior parte delle nazioni decolonizzate del
ventesimo secolo, l’Uzbekistan fu in parte creato e spinto a dichiarare l’indipendenza da
Mosca, senza la volontà fervente di alcun movimento nazionalista (Kurzman 1999; Ilkhamov
2007; Laurelle 2010). Il nazionalismo uzbeko, e della maggior parte delle cinque ex
Repubbliche Sovietiche, si presenta, dunque, come un interessante contrasto con gli schemi
105
canonici del nazionalismo in un contesto di decolonizzazione. Ciò principalmente per due
aspetti:
a) Esso venne, e tutt’ora viene, sviluppato dall’apparato statale in prima istanza. Emerso
tra le élite della società civile e diretto contro il regime coloniale, il nazionalismo uzbeko si
rigenera all’interno di una struttura statale creata dal regime coloniale, ed è, in effetti,
supportato dalle stesse persone che servirono il regime coloniale fino al giorno prima
dell’Indipendenza. Questo non ha, tuttavia, impedito allo Stato di impegnarsi in temi
nazionalisti analoghi a quelli di nazioni decolonizzate con una maggiore storia di
mobilitazione nazionalista anticoloniale, con l’eccezione della mancata presenza di un forte
“movimento per l’indipendenza”, fondamentale nella storia delle altre nuove nazioni;
b) l’assenza del tema indipendentista, seconda eccezione del nazionalismo centroasiatico,
creò un vuoto logico e storico tra l’identità “nazionale” dell'Asia centrale considerata
primordiale e l'attuale condizione della nazionalità degli Stati appena nati. In un ottica in cui
in molte delle nuove nazioni vengono esaltati movimenti anti-coloniali e movimenti per la
liberazione, in Uzbekistan, invece, viene continuamente soppressa la memoria di quei pallidi
barlumi di nazionalismo affacciatisi sulla scena in un primo momento verso gli anni ’20 del
novecento ed in un secondo momento intono agli anni ’80. A questo proposito, il
nazionalismo in Uzbekistan assomiglia più al “nazionalismo ufficiale” dell'era sovietica che al
nazionalismo anti-coloniale di altre nazioni di recente indipendenza (Kurzman 1999:78-79).
Dall’inizio degli anni‘80 le teorie sul nazionalismo sviluppate dal mondo accademico
occidentale sono state ispirate alle idee del costruttivismo, la cui elaborazione si deve a
numerosi autori che contribuirono, coi propri studi, ad arricchirne la portata, quali: Berger
(1966), con la sua teoria del costruttivismo sociale, Ernes Gellner (1983), Benedict Anderson
(1983), Eric Hobsbawn e Terence Ranger (1983) ecc. (cit. in Ilkhamov 2007). Secondo
l'approccio costruttivista, elementi come “nazione”, “etnia”, “storia nazionale”, “tradizione
nazionale”, devono essere viste, non come entità primordiali, ma come costruzioni sociali,
invenzioni e fantasie dei vari attori in gioco, in primis, delle classi dirigenti ed intellettuali di
ogni stato e società (Ibid.). La maggior parte dei teorici sovietici e post-sovietici di etnologia
sono ancora fortemente legati alla teoria dell’"ethnos" elaborata da Yulian Bromlei
(1973,1983) aderendo alla visione dei concetti di “etnicità” e “nazione” come un prodotto
naturale del processo storico oggettivo. Secondo una concezione di questo tipo, la
106
realizzazione contemporanea delle nuove nazioni sarebbe strettamente legata, ed influenzata,
dal lignaggio etno-storico risalente ad un passato antico (Ibid.)100
.
3.2.1 Mitologia e costruzione della storia nazionale
Come accennato sopra, nei territori dell’Asia Centrale, dopo la caduta dell’Unione
Sovietica si verificò un processo di costruzione dell’ideologia nazionale nonché di arbitraria
riscrittura della storia nazionale. Il ricercato Aliser Ilkhamov (2007), nel suo saggio “National
ideologies and Hisorical Mythology Construction in Post-Soviet Central Asia”, afferma che il
processo di manipolazione della storia finalizzato alla costruzione di un’ideologia nazionale
può essere paragonato ad una vera e propria costruzione mitologica. Tale sottospecie di
mitologia, però, non viene semplicemente ridotta alla classica nozione di mitologia intesa
come un raggruppamento di miti, leggende o storie basate sulla tradizione. La mitologia
nazione, spiega l’autore, può essere considerata come un fenomeno tipicamente moderno
emerso in concomitanza con la nascita della Nazione moderna. Citando la Mitologia di
Roland Barthes, Ilkhamov mostra come questi nuovi discorsi sulla nazionalità vengano
elaborati in ragione della nuova cultura di massa. Quest'ultima, infatti, creerebbe un ambiente
culturale ottimale, in cui, varie mitologie nazionali, sono poste nelle migliori condizione per
emergere e prosperare grazie alla comunicazione di massa (Barthes 1972, cit. in Ilkhamov
2007). Ciò viene sostenuto anche dal sociologo Anthony Smith (2000) che, nel suo libro
Nazione e nazionalismo nell’era globale, afferma:
Vi è un altro attributo dell’eredità premoderna che doveva evidenziare le più profonde conseguenze una
volta ce il processo di modernizzazione cominciò a interessare le differenti aree del mondo: si tratta della
difforme diffusione dell’etnostoria. Con il termine “etnostoria” non intendo un’indagine obiettiva e
spassionata dello storico passato, bensì la visione soggettiva, presente, generazione dopo generazione, di
una determinata unità culturale di popolazione rispetto alle vicende dei loro reali o presunti progenitori”
(Smidth 2000:78)
Similmente alla mitologia antica, il mito della Nazione viene usato non solo per
legittimare la Nazione ed i suoi attributi (nazione territoriale, dominio sui confini, storia,
identità del popolo ecc.), ma, anche, per presentare la leadership come unica garante della
nazione in questione (Ilkhamov 2007). Il concetto sopra espresso può essere riassunto nel
100
Va notato che la persistenza di un approccio primordialista in relazione alla tematica in esame, non è del tutto
accidentale in territori quali il Centro Asia. Essa può essere spiegata, non solo con la mancanza di
consapevolezza circa le nuove idee e tendenze nel campo delle scienze sociali della comunità scientifica, ma,
soprattutto, da specifici interessi dell’élite dominante. Sembra, infatti, che la scuola primordialista trovi tra i suo
più grandi sostenitori figure quali Niyazov, Karimov e Rahmonov. Presidenti, che come mostrerò nel paragrafo
seguente, hanno una forte propensione a raffigurare l'identità nazionale come fissa ed immutabile. Essendo
“guardie ideologiche” dei propri regimi, rifiutano l'idea di cambiamento, di trasformazione e assimilazione come
una traiettoria possibile per il consolidamento nazionale (Ilkhamov 2007).
107
termine coniato da Smith (2000), in accordo con John Amstrong (1982, cit. in Ilkhamov
2007), di mythomoteur, ossia un complesso sistema simbolico utilizzato per la costruzione di
un’ideologia nazionalista. Si può dunque affermare che molte Nazioni nel mondo si siano
servite, e tutt’oggi si servano, di mythomotuer durante il loro consolidamento. Gran parte di
questi sistemi simbolici nascono dall’immaginazione della classe intellettuale o dell’élite
dominante: l’Uzbekistan, ne è senz’altro un valido esempio.
Secondo l’analisi della ricercatrice Liah Greenfeld (1992, cit. in Ilkhamov 2007:92) si
possono distinguere due differenti tipi di nazionalismo: a) civico, in cui l’identità nazionale
viene identificata effettivamente con la cittadinanza, la democrazia liberale e la sovranità
individuale; b) collettivo, che tende ad essere autoritario ed imposto dall’alto.
Entrambi questi due tipi di nazionalismo impiegano miti e simboli nazionali, ma, se
nel primo caso (nazionalismo civico), i mythomoteur sono fattori ausiliari, nel secondo
(nazionalismo collettivo-autoritario) la costruzione mitologica è uno dei pilastri della
formazione dello Stato, in cui le istituzioni divengono strutture chiave di controllo della
produzione del mito (Ibid.). E’ proprio questo secondo tipo di nazionalismo che meglio si
addice alla situazione contemporanea delle cinque Repubbliche del Centro Asia.
Prima di analizzare nello specifico i meccanismi di riappropriazione e costruzione
storica messi in atto dalla Repubblica dell’Uzbekistan, ritengo opportuno mostrare come,
nonostante le caratteristiche ed i parametri di costruzione della mitologia nazionale siano
unici e localmente situati, nella costruzione ideologica di stampo autoritario esistono, tuttavia,
alcuni elementi invariati (Ilkhamov 2007; Kurzman 1999; Reeves, Rasanayagam & Beyer;
Smidth 2000). Gli Stati-nazione autoritari, specialmente quelli in transizione, come nel caso
uzbeko, hanno un proprio set di strumenti per consolidare la Nazione ed imporre la leadership
al popolo. Tali strumenti includono sia mezzi coercitivi che ideologici. La fedeltà del popolo
viene, dunque, garantita attraverso il potere coercitivo ed il potere persuasivo, ciò che
Ilkhamov chiama rispettivamente hard means e soft means (Ilkhamov 2007). La costruzione
dell’ideologia nazionale si compone di due dimensioni rilevanti: a) la raffigurazione della
storia nazionale come unica, certa, rigidamente selezionata dalle altre possibili interpretazioni
(epos-memoria storica); b) la pratica di ricavare, da tale storia, esempi e lezioni utili per la
nazione contemporanea (ethos-regole per il vivere comunitario). Nella tabella elaborata da
Ilkhamov, su epos ed ethos, riportata di seguito, è possibile notare come ognuna di queste due
categorie contenga al suo interno specifici elementi strutturali che, interagendo tra loro,
concorrono alla creazione dell’ideologia nazionale.
Epos: l’immaginario dei propri antenati e della propria storia:
108
- Appropriazione e nazionalizzazione della storia regionale;
- Immaginazione di una golden age nazionale e rivendicazione di una
discendenza antica;
- Rigida identità nazionale;
- Rappresentazione teleologica della storia nazionale.
Ethos: “noi” e gli “altri”:
- Etnocentrismo e politica d’esclusione;
- Etno-narcisismo, immaginario di simboli e virtù nazionali;
- Isolamento, teorie della cospirazione e creazione dell’immagine del nemico.
(Ilkhamov 2007:94)
Di seguito analizzerò, nella loro manifestazione concreta, gli aspetti riportati nella
tabella qui sopra interrogandomi su quali sviluppi essi abbiano avuto nella Repubblica
dell’Uzbekistan post-indipendenza. Integrando il lavoro d’analisi svolto da Aliser Ilkhamov
con altri autori quali Heathershaw (2014), Lurelle (2010), Kurzman (1999), Reeves,
Rasanayagam & Beyer, cercherò di fornire una visione quanto più completa di come l’élite
dominante uzbeka abbia costruito nel corso degli anni la propria Nazione.
Epos: Appropriazione e nazionalizzazione della storia regionale
“La chiamata alla coscienza nazionale è impossibile senza l’attuazione di progetti di definizione del sé
collettivo, in cui la gestione del discorso storico sul passato è l’obiettivo principale” (Laurelle 2010:102)
Con questa frase d’esordio Marlèn Laurell (2010) introduce le riflessioni sul ruolo
delle Accademie nella costruzione dell’ideologia nazionale in Uzbekistan. Nel saggio
“National narrative, ethnology, and academia in post-Soviet Uzbekistan”, mostra come sin
dalla disgregazione dell’Unione Sovietica il paese sia stato obbligato a “calibrare” le proprie
istituzioni su nuovi sistemi simbolici per dare un senso alla propria indipendenza. In un
processo che, come sostiene Ilkhamov (2007), era in parte già cominciato negli anni prima
della seconda Guerra Mondiale, le istituzioni iniziarono a costruire, attraverso mezzi
differenti, un ideologia nazionale “ex novo”. Uno degli strumenti base di questa costruzione
fu il ricorso alla comunità scientifica. Sia le Università che le Accademie scientifiche vennero
chiamate a riconsiderare le proprie ricerche in funzione delle necessità della nazione
emergente. Ciò mise senz’altro in gioco il futuro della comunità scientifica locale, la propria
capacità di sviluppare ricerche indipendenti dall’autorità politica nonché la possibilità di
partecipare attivamente al panorama intellettuale ed istituzionale internazionale (Laurelle
2010). In Uzbekistan, come anche nelle altre Repubbliche ex Sovietiche, l'antica presenza
della Nazione sul territorio fu uno degli aspetti chiave del discorso ufficiale. L'analisi storica
di questo fenomeno assunse toni essenzialisti in cui, gruppi etnici considerati progenitori dello
109
Stato, vennero considerati fatti oggettivi, naturali, il cui sviluppo nel tempo, inevitabilmente,
portò alla creazione della Nazione contemporanea. Inoltre, attraverso un effetto retroattivo, il
discorso nazionalista ufficiale arrivò a proiettare nel passato l'esistenza della nazione uzbeka
recentemente costituita (Ilkhamov 2007; Laurelle 2010; Trevisani 2014).
I cambiamenti avvenuti in Uzbekistan, in periodo post-sovietico, ebbero un enorme
impatto sulla comunità scientifica. L’esodo di massa dei suoi maggiori studiosi in paesi più
avanzati e competitivi, l’improvviso declino delle professioni di prestigio sociale, la
mancanza di mezzi di pubblicazione e la difficoltà di reperire articoli e libri scritti in lingue
occidentali non aiutarono, di certo, la creazione di Accademie e reti universitarie vicine ai
principali settori di ricerca del pensiero contemporaneo (Laurelle 2010). In una società solo
lievemente colpita dall’ondata liberale introdotta da Gorbachev negli anni ’80, la cui
leadership ripiegò su metodi autoritari e paternalistici, l’influenza politica sul mondo
intellettuale divenne un elemento cruciale nella costruzione dell’ideologia Nazionale. Le
istituzioni si arrogarono, così, il diritto di riscrivere la storia, creando un “luogo della
memoria” per lo Stato-Nazione in transizione. Dopo il 1998 il controllo della Storia da parte
delle autorità crebbe notevolmente. Quell’anno il Presidente Islam Karimov convocò una
riunione con i maggiori ricercatori di Storia del paese. In seguito a tale incontro il Parlamento
emanò un decreto “sul miglioramento delle attività dell’Istituto di Storia dell’Accademia delle
Scienze dell’Uzbekistan” (o sovershenstvovanii deiatel’nosti Instituta istorii ANRU).
L’influenza politica sulla disciplina fu esplicitamente affermata già dal primo puto di tale
decreto:
Il Parlamento decreta che lo scopo principale dell’attività di ricerca dell’Istituto di Storia dell’Accademia
delle Scienze dell’Uzbekistan, è lo studio della storia autentica del popolo uzbeko e del suo Stato”
(decreto no 315, 1998, cit. in Laurelle 2010:103)
Attualmente la situazione non vede grandi passi avanti. La Storia contemporanea
rimane ampiamente legata alla volontà governativa. La Sociologia, percepita dal regime al
limite della legalità, viene considerata una disciplina scomoda, in quanto, esaminando
meccanismi sociali, potrebbe potenzialmente offendere i centri del potere (Ibid.). Un’altra
area di ricerca fortemente controllata è l’Archeologia. Essa è, infatti, investita del compito di
confermare attraverso prove manifeste, l’effettiva presenza del popolo uzbeko nel territorio
attualmente occupato dalla nuova Nazione, ricoprendo un ruolo chiave nell’ottica politica di
costruzione nazionale. L’etnologia, infine, è, ad oggi, totalmente al servizio dello Stato. Come
mostrerò anche nel punto riguardante l’immobilismo dell’identità nazionale, sin dall’inizio
110
della transizione del paese, il governo riservò uno spazio relativamente ampio e permeato da
un forte orgoglio nazionale, alla spiegazione scientifica delle origini del popolo uzbeko.
L'affermazione della continuità, non solo del popolo uzbeko, ma anche della loro coscienza
nazionale da tempo immemore, è sostenuta a livello accademico dalla tradizione sovietica
dell’etnogenesi101
(Ibid.). Trovo interessante mostrare come, nelle ricerche accademiche
dell’Uzbekistan contemporaneo, persistano tre elementi costitutivi dell’etnologia sovietica.
Prima di tutto, l’etnologia, in Uzbekistan, viene utilizzata unicamente per ricercare la propria
cultura o, se funzionale al progetto politico, le tradizioni di alcune minoranze stanziate sul
suolo nazionale. La nascita di un’etnologia rivolta alle popolazioni del Centro Asia si
riscontra già in periodo zarista, proseguendo poi durante tutto il periodo sovietico. Tale
impronta di ricerca porta con se una forte connotazione etnocentrica per cui “solo gli uzbeki
sono in grado di studiare il popolo uzbeko” (Ibid:104). In secondo luogo, la disciplina vive
una condizione d’isolamento rispetto alla situazione internazionale attuale. La figura
dell’etnologo è pensata come una sorta di storico che lavora su un determinato popolo, per il
quale egli cerca di dimostrarne la specificità rispetto ai propri vicini, esplorando gli elementi
culturali tradizionali, senza alcun riferimento alle complesse dinamiche vissute nel periodo
contemporaneo (Ibid.). Infine, l’etnologia uzbeka si limita allo studio di ciò che essa
considera tradizionale. Spesso, dunque, si concentra sulla cultura materiale - usanze, costumi,
artigianato, folklore, riti e cerimonie - bypassando l’aspetto ideologico dello studio come, ad
esempio, i fenomeni di ri-tradizionalizzazione (Ibid.). La letteratura etnografica Russa
dell’ultimo secolo rimane la fonte primaria delle ricerche etnografiche uzbeke.
Immaginazione di una “golden age” nazionale e rivendicazione di una discendenza antica
“Il sentimento per la propria patria (vatan), è la cosa più grande di tutte” recita un
cartellone propagandistico di Tashkent (Kurzman 1999:81). Non è affatto insolito, in
Uzbekistan, imbattersi in enormi manifesti, striscioni, targhe commemorative e tabelloni
riportanti i colori della bandiera nazionale, slogan di propaganda nazionalista e primi piani
sorridenti del presidente Islam Karimov (vedi fig. 17-18-19).
101
Un concetto che vide la luce negli anni ’40 e che continuò a dominare la disciplina etnologica senza mai
riconsiderare i propri fondamenti primordialisti: il più rilevante dei quali, si basa sul postulato che l’identità
nazionale si posi sull’individuo come fenomeno certo ed immutabili, non consentendo alcun altro tipo di
affiliazione (Laurelle 2010).
111
Durante la mia permanenza nel paese questo materiale propagandistico era dedicato
principalmente a due commemorazioni: la prima, ripetuta ciclicamente ogni anno, riguarda il
ventitreesimo anniversario del giorno dell’indipendenza; la seconda concerne la
proclamazione, per volere del Presidente Karimov, “dell’anno del bambino sano” (The Year
of Healthy Child), iniziativa giustificata dal materiale promozionale con queste parole:
“Questa è la continuazione naturale e logica della politica di stato che affronta gli aspetti
sociali dello sviluppo nazionale. Fin dall'inizio, la politica dà priorità a un educazione che
faccia crescere armoniosamente i giovani con un corpo sano e una mente sana” (Inflight
magazine Uzbekistan airways 2014). L’ingente uso di questo materiale, talune volte molto
appariscente (come si può notare dalle fotografie), rende bene il senso della connotazione data
da Adams (2010, cit. in Heathershaw 2014:31) agli stati del Centro Asia, descritti come “stati
spettacolari” (spectacular state).
(Fig.17) Materiale propagandistico
riportante la scritta: “L’obiettivo
della nostra patria è avere un futuro
prosperoso ed un paese con una
prospera libertà!”. Foto scattata a
Tashkent il 23/10/2014.
(Fig.18-19) Materiale propagandistico riportante la scritta: “Soltanto una è la nazione sacra, ti amo, o caro
Uzbekistan!”. Foto scattate a Tashkent il 30/10/2014.
112
Vorrei far notare come, nella retorica pubblica, si faccia spesso ricorso alla “figura
retorica” del giovane sano e forte, (“i giovani sono il nostro futuro”, “i giovani necessitano di
un’educazione che faccia loro sviluppare un corpo sano e una mente sana”), ciò potrebbe
essere posto in relazione al fatto che, nell’odierno Uzbekistan, la maggior parte dei lavoratori
forzati alla raccolta autunnale del cotone siano, di fatto, gli studenti. Può sembrare azzardato
ipotizzare un legame diretto tra la retorica statale relativa ai valori della giovinezza ed il
cotone, ma, tenendo conto dell’enorme spazio che il cotone riveste nella vita pubblica del
cittadino uzbeko, nonché del ruolo fondamentale che esso ricopre per lo Stato, ritengo
opportuna tale associazione. Emblematico il cartellone propagandistico riportato sotto (vedi
fig. 20), in cui la frase “i giovani sono il nostro sostegno e la fiducia nel futuro”, capeggia
sopra un gruppetto di studenti allegri e in salute, affiancati dallo stemma di Stato incorniciato
da spighe di grano e batuffoli di cotone.
La cerimoniosità della retorica nazionale, propagandata dal governo, punta molto al
mantenimento dei propri interessi economici, arrivando a creare tutta una simbologia attorno
al cotone, riscontrabile in numerosi simboli di Stato, che facciano sentire il cittadino
profondamente connesso con la produzione di tale materia prima, non a caso lo Stato spesso
diffonde slogan propagandistici riportanti frasi quali “chi non ama il cotone rinnega la propria
cultura” o “il cotone è parte del cittadino uzbeko” ecc. (cit. Zanca 2012).
Dalle precedenti foto si può, inoltre notare, la costante presenza della parola vatan
(patria), ma cosa costituisce il concetto di nazione in Uzbekistan? Un elemento
(fig. 20) Cartellone propagandistico affisso su di un palazzo di Tashkent, la scritta riporta “i
giovani sono il nostro sostegno, e la fiducia nel futuro. Foto scattata il 30/10/2014 nella capitale.
113
imprescindibile è il continuo rimando agli eroi del passato, selezionati dalle istituzioni per
rappresentare la grande tradizione dell’Uzbekistan contemporaneo (Ilkhamov 2007; Kurzman
1999; Trevisani 2007; Kandiyoti 2002). Fornire prove di autenticità delle origini nazionali è
diventata un fattore imprescindibile e di enorme rilievo per le istituzioni, anche in funzione di
una auto-legittimazione (Ilkhamov 2007).
La storiografia ufficiale uzbeka sostiene che l'epoca Karakhanid (X-XI secolo d.C.) sia
la culla della Nazione uzbeka e che le popolazioni nomadi di uzbeki che invasero la regione
agli inizi del XVI secolo vennero semplicemente assorbiti dalla già sedentaria popolazione di
lingua turca che risiedeva sul territorio. Questo paradigma storico dell’etnogenesi del popolo
uzbeko venne elaborata dallo storico sovietico Alexander Yakubovski nel 1941, in seguito
venne, poi, accolto dall’Accademia uzbeka. Quest’ultima introdusse il termine “Uzbekistan
antico” (Old Uzbek) per denotare l’epoca precedente l’arrivo delle comunità nomadi (Ibid.).
Come accennato sopra, la selezione di figure eroiche e di un determinato periodo storico, in
cui identificarsi come discendenti in linea diretta, divengono elementi fondamentali della
costruzione della mitologia nazionale. Il “gruppo ancestrale” deve essere antico abbastanza da
provare le profonde radici storiche della Nazione. Inoltre, tale periodo storico viene
considerato a tutti gli effetti una legittimazione ed un segno di prestigio nazionale. Il legame
tra l’epoca ancestrale e la sua attuale discendenza viene garantito tramite tutta una serie di
simboli nazionali finemente selezionati dall’élite dominante (Kandiyoti 2002; Ilkhamov 2007;
Kurzman 1999). Nell’Uzbekistan contemporaneo sono due le figure principalmente
glorificate come eroi della patria: Amir Timur (1336-1405, conosciuto in occidente col nome
di Tamerlano) e suo nipote, Ulugh Bek (1394-1449). Per le ragioni esposte sopra, ossia far
percepire una continuità con le proprie origini dirette, entrambi appaiono in un’infinità di
monumenti, statue, nomi di vie, piazze ed edifici sparpagliati per tutto il paese, la maggior
parte dei quali andò a sostituire le precedenti figure “idolatrate” di Lenin e Marx (Kurzman
1999). E’ indubbio che entrambi furono due figure storiche di enorme rilievo: Amir Timur fu
un grande condottiero, un signore della guerra che costruì un’florido impero tra Oriente ed
Occidente (l’Impero Timuride), a lui si deve, inoltre, gran parte dell’architettura monumentale
della regione; Ulugh Bek, invece, fu un sapiente astronomo che lasciò una sconfinata eredità
nella lettura delle stelle. Ciò che stride nel racconto ufficiale delle origini, è che i grandi eroi
nazionali non fossero propriamente d’origine uzbeka. Essi provenivano, infatti, da gruppi
etnici mongoli, parlanti una lingua differente dal dialetto turco del Centro Asia. Pare che
Timur, non solo non fosse uzbeko d’origine, ma combatté tale popolo per instaurare la sua
dinastia sul suolo che attualmente chiamiamo Uzbekistan. Quindi, mentre questi due
114
personaggi vengono ideologizzati come eroi nazionali, il popolo uzbeko di quel periodo viene
escluso dall’ideologia nazionale102
. Secondo Edward Allworth (1990, cit. in Kurzman
1999:83), questo tipo di dialettica storica vide gli albori negli anni ’40 del novecento quando
la storiografia sovietica venne chiamata a “costruire” una solida storia per la recente creazione
delle nuove Repubbliche Socialiste. Il problema con le popolazioni uzbeke del XIV-XV sec.
era che esse furono il flagello della Russia, in numerose battaglie sconfissero i suoi re e
saccheggiando le sue terre. Così, piuttosto che rivedere questo spiacevole passato, gli storici
sovietici investirono Amir Timur e la sua dinastia come antenato ufficiale. Infine, l’epoca
degli antenati, viene propagandata, dalle istituzioni, come una sorta di golden age, di cui le
sue migliori qualità e virtù devono servire ad esempio per le generazioni future (Ilkhamov
2007).
Rigida identità nazionale
Come mostrato in precedenza le teorie etnologiche sovietiche e post-sovietiche
rimangono tutt’oggi ancorate ad una concezione di “ethnos” elaborata da Yulian Bromlei
(1973,1983), e vedono in concetti quali “etnicità” e “Nazione” il prodotto naturale ed
oggettivo di processi storici (Ilkhamov 2007). La persistenza di queste teorie primordialiste103
diviene un mezzo significativo nelle mani dell’élite dominante, la quale ne è la principale
sostenitrice. Grazie ad esse il regime rigetta ogni qualsivoglia idea di cambiamento,
trasformazione o assimilazione come possibile strada di consolidamento nazionale. Un
esempio di questo volere omogeneizzante della classe dirigente è senz’altro la vicenda dei
Sarti104
. I Sarti sono un esteso gruppo etnico dell’Uzbekistan contemporaneo. Nonostante la
loro portata demografica, l’ideologia nazionalista ufficiale, insiste sull’idea che la nazione
uzbeka derivi in linea diretta dalla dinastia Timuride (Ilkhamov 2007; Zanca 2011).
102
Per esempio, Muhammad Shaybani (1451-1510), il leader uzbeko che completò la conquista dell’attuale Uzbekistan territorio dell’Uzbekistan, non gode di fama nazionale. 103
Per un approfondimento sulle teorie primordialiste vedi Appadurai (2012), Smith (2000). 104
Sart è vocabolo turco, probabilmente d'origine indiana, avente il significato di "mercante" e di "sedentario" in
opposizione a "nomade", relativo quindi a condizioni particolari di vita senza riferimento a razza o a lingua. In
questo senso s'incontra nel Dīwān lugāt at-Turk di Maḥmūd al-Kāshgharī, composto nel 1066 d. C., dove è
attestata anche l'esistenza di un verbo sartlamaq "considerare (uno) come mercante". In seguito, allorché fu
progredito il turchizzamento dell'Asia centrale (secoli XI-XV), il termine Sart assunse un particolare significato,
applicandosi prima come soprannome e poi come denominazione etnica a elementi della popolazione dell'Asia
centrale che conducevano vita sedentaria, dedicandosi al commercio, all'industria e all'agricoltura. Essi erano
sicuramente d'origine iranica, ma parlavano turco e per questo si distinguevano dai Tāgīk, i quali conservavano
un dialetto iranico. Secondo i calcoli fatti alla fine del secolo XIX i Sarti (o "Irani di lingua turca") erano valutati
a 1.768.655, di cui un milione circa in Asia centrale (Turkestan russo), 700.000 nel khānato di Buchara, 100.000
nell'Afghanistan. Erano musulmani sunniti molto devoti e costituivano quasi una metà della popolazione della
Fergana (Enciclopedia Treccani, disponibile al link http://www.treccani.it/enciclopedia/sarti_%28Enciclopedia-
Italiana%29/).
115
Il principio di evoluzione e sviluppo di una società, inteso come catena di
trasformazioni e assimilazioni, rende l'etnia e la Nazione, delle formazioni dinamiche inserite
appieno in un dialogo aperto all’alterità, e non sistemi chiusi in se stessi. Lo sviluppo di un
popolo, da questo punto di vista, viene percepito come il risultato di numerose interazioni.
Esso è un processo essenzialmente imprevedibile, a tempo indeterminato, aperto e
strettamente dipende dalle specifiche circostanze storiche (Ilkhamov 2007; Smith 2000;
Fabietti, Malighetti e Matera 2012; Appadurai 2012). In antitesi con l’approccio costruttivista
sopra esposto, i regimi di stampo autoritario, qual è l’Uzbekistan, rifiutano l’idea di scambio e
apertura, avviando politiche di auto-isolamento ed etnocentrismo (Ilkhamov 2007). Tali
politiche di chiusura si rifletto ampiamente sull’assetto produttivo del paese. Come sostenuto
nel capitolo precedente, in Uzbekistan, si può riscontrare un complesso sistema di
sfruttamento produttivo (Viti 2007) della classe contadina, ciò deriva in parte dalla condizione
di arretratezza tecnologica e di politiche lavorative antiquate presenti nel paese. Questa
situazione di stallo rende, infatti, il lavoro vivo (manuale e spesso retribuito attraverso materie
prime o scambi di favori) uno dei fondamenti del settore d’impresa primario. Anche se non si
può arrivare a parlare di schiavitù istituzionalizzata, come ad esempio in India col fenomeno
della schiavitù per debiti, o in brasile con il peonagem, il lavoro gratuito è, in Uzbekistan, un
fenomeno estremamente diffuso, retto da un sistema clientelare che vede collaborare le élite
locali con l’élite dominante (Ibid.)
Rappresentazione teleologica della storia nazionale
Non sarebbe corretto sostenere che gli “architetti” dell’ideologia nazionalista in
Uzbekistan siano del tutto contrari ad un concezione mutevole della nazione. Di fatto,
l’ideologia ufficiale accetta una forma di progresso lineare che non implichi necessariamente
trasformazioni e scambi. Ciò è sicuramente riscontrabile in materia di gestione del lavoro
agricolo. Come ho mostrato nel secondo capitolo, dall’indipendenza in poi, le riforme agrarie
introdotte dallo Stato non puntarono mai ad una drastica rottura col passato, più che vere e
proprie riforme esse puntarono a “cambiare forma” all’organizzazione rurale (passando da
sovkhoz, kolkhoz, shirkat a fermer). Fu, dunque, una politica di “trasformazione” prudente e
superficiale, quella attuata dall’Uzbekistan indipendente. Essa cercò di mantenere intatti i
punti forte della gestione produttiva, ossia il monopolio statale sul cotone e sulle risorse
naturali ad esso connesse.
Si potrebbe affermare che gli attori politici uzbeki percepiscano la processualità
storica in maniera teleologica, quasi hegeliana. Un paradigma che schematizzato potrebbe
116
essere rappresentato come un susseguirsi di golden age, inframezzate da periodi di prova o di
attesa per un nuovo imminente e glorioso futuro (vedi es. slogan propagandistico in
fig.17).Non a caso “Il futuro dell’Uzbekistan è di essere un grande stato” è stato uno degli
slogan propagandistici più diffuso nella capitale (Kurzman 1999).
Se dovessi fare una similitudine, paragonerei la propaganda nazionalista ai grandi
muri che circondano la città vecchia di Samarcanda. Eretti per volere dell’amministrazione
Karimov, il loro scopo è nasconde al turista il degrado in cui vive la maggior parte della
popolazione locale (fogne a cielo aperto, tubature obsolete con frequenti fughe di gas, edifici
fatiscenti…). Allo stesso modo, la narrazione sfarzosa della propaganda statale cela oltre le
sue mura il reale declino del proprio paese. La pomposità degli slogan che ricoprono edifici,
cancelli e cartelloni crea un potente contrasto con il degrado e la precarietà di molte zone
dell’Uzbekistan contemporaneo, zone che nel primo capitolo ho descritto attraverso il
concetto di “terzo paesaggio”. La sensazione è, dunque, quella di trovarsi di fronte ad un
paese in cui pomposità retorica e declino viaggiano mano nella mano.
Ethos: Etnocentrismo e Politiche d’esclusione
Theodor Adorno, uno dei più grandi sociologi del novecento, (1959, cit. in Ilkhamov
2007), nella sua opera The Authoritarian Personality, ha dimostrato come esista un legame
diretto tra autoritarismo ed etnocentrismo. Leggendo la realtà attraverso l’ottica interpretativa
dell’autore, si può tracciare un quadro della politica centrasiatica, ed in particolar modo
dell’Uzbekistan, per cui: una volta divenuti il veicolo divulgativo della mitologia di Stato,
Presidente ed élite dominante finiscono per essere essi stessi ostaggi dell’immagine
ideologizzata e distorta del “noi” e “loro”. Le decisioni prese dalla classe dirigente, di
conseguenza, risulteranno essere guidate più dall’ideologia che dalla valutazione della realtà.
L'etnocentrismo, ossia il considerare il proprio gruppo al centro del mondo giudicando
le altre culture in base ai propri valori di riferimento, può essere considerato come una forma
sottosviluppata di nazionalismo moderno che, in linea di principio, presenta la Nazione come
un'entità omogenea trascurando la diversità etnica del proprio dominio territoriale (Ilkhamov
2007). L’etnocentrismo, comportando meccanismi d’esclusione dell’”altro”, genera, inoltre,
disparità tra i cittadini, minando il principio di uguaglianza insito nel termine “cittadinanza”,
così come intesa nel moderno Stato-nazione. In Uzbekistan ciò si concretizza, oltre che nella
chiusura a livello internazionale, anche, nel trattamento ambiguo delle minoranze etniche
presenti sul territorio. A livello ideologico, non è riscontrabile nel paese un aperto conflitto
con tali minoranze, anzi, il regime ama spesso raffigurarsi generoso e cosmopolita, anche in
117
ragione di una sorta di nostalgia per il passato imperiale Timuride. E’, infatti, comune che il
Presidente Islam Karimov, durante i suoi discorsi pubblici, si identifichi e tenti di emulare gli
ideali imperiali di Amir Timur: “se qualcuno vuole capire che cos’è uzbeko, qual è la forza e
la potenza della Nazione uzbeka [...], deve ricordare la personalità di Timur” (Karimov 1997,
Ibid:106). Timur viene presentato al popolo come un sovrano forte, saggio e giusto. La sua
correttezza ricade su tutte le persone, indipendentemente dalla loro nazionalità. Questo spiega
in parte l’impronta di tolleranza che la politica interna uzbeka riserva alle minoranze
etniche105
. Tuttavia, tale menzione di generosità, non supera la connotazione fortemente
etnocentrica dello Stato. L’uguaglianza inter-etnica, propagandata dall’élite dominante, non
ha, attualmente, un riscontro effettivo nell’eguale accesso al potere e alle risorse economiche,
appannaggio esclusivo di esponenti dell’ideologizzata nazionalità uzbeka. Quest’ultima,
inoltre, domina incontrastata nel regno dei simboli nazionali e nella storia ufficiale del paese
(Rahmonov 1999, cit. in Ilkhamov 2007). In Uzbekistan, come anche nelle altre Repubbliche
centrasiatiche, l’etnocentrismo diviene parte essenziale dell'ideologia nazionale. I regimi al
potere preservano tale visione della realtà sociale, in quanto essa è perfettamente funzionale
allo scopo di limitare le libertà civili del popolo e legittimare un clima autoritario (Ibid.).
Etno-narcisismo, immaginario di simboli e virtù nazionali;
L’etnocentrismo prende, spesso, forma attraverso meccanismi di “etnonarcisismo” e
autoglorificazione. Come accennato in precedenza, in Uzbekistan, questi due concetti si
manifestano apertamente nel ridondante ricorso al passato ancestrale dell’impero Timuride.
L’importanza ricoperta dalla simbologia nazionale emerge, anche, dal fatto che essa
abbia un articolato corpo di leggi che ne regolano la legittimità. Durante il mio soggiorno a
Tashkent ho reperito alcuni fascicoli sulla filosofia di Stato redatti, in gran numero, dal
Presidente in persona. Uno di questi titola “Le leggi dei simboli dello Stato nella Repubblica
dell’Uzbekistan” (O’zbekiston Republikasining Davlat ramzlari to’g’risidagi qonunlari
2011). Scritto sia in russo che in uzbeko si articola in tre parti: la prima parte relativa alla
bandiera, la seconda allo stemma dello Stato e alla simbologia in generale e la terza relativa
all’Inno nazionale. Oltre che nelle parole dei discorsi pubblici officiali, etnonarcisimo e
autoglosificazione, si concretizzano nell’ingente quantità di simboli nazionali visibili al
popolo in ogni luogo del paese. In quasi tutte le piazze ci si può imbattere in fiere statue del
105
Nei suoi discorsi pubblici Karimov sottolinea, spesso, che l'Uzbekistan è uno Stato poli-etnico, la cui pace è considerata al di sopra di tutte le minoranze etniche. Sono ,infatti, concessi alcuni diritti e attenzioni ai popoli minoritari: essi sono autorizzati a creare le proprie associazioni culturali; un altro segnale di tolleranza, secondo il Presidente, è il fatto che la stazione Radio Tashkent Internazionale trasmetta programmi in lingue minori, mezz'ora al giorno, per lingua (Zhukova 2002, cit. in Ilkhamov 2007).
118
condottiero Timur, a cavallo, in piedi, seduto sul trono o in compagnia di suo nipote Ulugh
BeK. Tali figure capeggiano inoltre su banconote, giornali e targhe commemorative, i musei
riguardanti la storia ufficiale sono innumerevoli e gli studenti sin dai primi anni di scuola
seguono corsi specifici sulla storia nazionale ufficiale (Ilkhamov 2007; Kandiyoti 2002;
Trevisani 2007; Zanca 2011). L’apparato simbolico nazionale viene inoltre arricchito da tutta
una serie di valori e virtù riconducibili sia al popolo uzbeko che alla sua leadership. Per
esempio, la figura di Timur, come accennato prima, viene associata ad uno Stato forte e
centralizzato, organizzato secondo un ordine stabile legittimamente disciplinato dalle
istituzioni. Un altro esempio può essere ricavato dai discorsi attorno al ma’naviyat106
(spiritualità), una qualità morale e spirituale che egli vede sia come intrinseca all'identità
uzbeka sia come vittima del continuo attacco dei nemici che cercano di danneggiare la
nazione (Kendzior 2014). Fu oggetto di alcuni dei primi saggi e discorsi pubblici di Islam
Karimov, la si ritrova in titoli quali: "Ma’naviyat, onore e orgoglio nazionale", "Ma’naviyat:
la forza della nostra eredità", "Promuoviamo il ma’naviyat e l’illuminazione". Questo
concetto entrò a far parte della propaganda nazionale già dall’inizio degli anni ’90 e trovava
spesso posto in forti immagini retoriche inserite nei discorsi pubblici dell’élite politica:
“Gli essi umani necessitano della spiritualità così come di respirare aria e bere acqua. Così come un
viaggiatore nel deserto che si disseta da una sorgente vitale, anche l'umanità è alla costante ricerca, a volte
dolorosa e difficile, di una fonte spirituale” (Karimov 1992, cit. in Kurzman 1999:88).
In uno dei suoi primi libri il Presidente dedicò un intero capitolo alla connessione tra
ma’naviyat e nazionalismo:
“Consideriamo il restauro dei nostri valori spirituali come un processo naturale derivato dalla crescente
comprensione dell’identità nazionale, di un ritorno alle sorgenti spirituali della gente delle nostre radici”
(Karimov 1992, cit. in Kurzman 1999:89)
Agli inizi degli anni 2000 venne, inoltre, creato un corso di studi chiamato Ma’naviyat and
Ma’rifat (Spiritualità ed Illuminazione), che venne inserito in tutti i gradi d’istruzione
scolastica. Il cuore del corso, chiamato “Ideologia ed Indipendenza”, include molti precetti
riguardanti la vita pubblica, sociale ed individuale di un buon cittadino uzbeko. Comprende
insegnamenti che vanno dall’igiene personale alle regole per vivere serenamente in famiglia
106
Il termine ha origine araba ed entrò in uso tramite la lingua persiana. Il suo significato si trasformò nel tempo. Nella tradizione islamica esso veniva strettamente associato con la fede e con l’accettazione della parola di Dio. Nell’Uzbekistan contemporaneo, ma’naviyat, è diventato un termine per descrivere un essenza spirituale, una qualità morale innata nel popolo uzbeko il cui sano sviluppo dipende dall’intervento dello Stato (Kendzior 2014).
119
ed in comunità. Complessivamente, tale corso si prefigge d’essere una guida di ciò che lo
Stato considera “bene” e ciò che, invece, suppone essere “male” (Ilkhamov 2007).
Si può, dunque, affermare che il contenuto semantico dell'ideologia nazionale
accuratamente costruita e introdotta nei paesi dell'Asia Centrale, e in particolare in
Uzbekistan, si basi su una combinazione di etnocentrismo, patriottismo, valori patriarcali
statici, uniti al sul rifiuto di valori e norme civili di stampo liberale (Ibid.). Ciò si ripercuote
anche nel modo del lavoro contadino. Un esempio di tale fenomeno, può essere riscontrato nel
tentativo dello Stato, di far passare il lavoro coatto della raccolta del cotone come “aiuto alla
Nazione”. Non di rado, infatti, mi è capitato di trovare persone che, interrogate sulla questione
“lavori forzati”, mi abbiano risposto in piena sintonia con l’ideologia nazionale, dichiarando
che essi non sono altro che parte dei doveri di un buon cittadino.
Isolamento, teorie della cospirazione e creazione dell’immagine del nemico
La discussione di questo aspetto mi dà l’opportunità di problematizzare le questioni
finora trattate. Descrivendo l’autoritarismo, la costruzione dell’ideologia nazionale, la
manipolazione della storia e la simbologia statale come fenomeni essenzialmente diretti dallo
Stato, ho forse dato l’idea che, tali fenomeni, vengano imposti ad una società civile amorfa e
fortemente passiva. Nonostante, in effetti, molti autori abbiano parlato della “mancanza di una
società civile fervente” nelle cinque Repubbliche ex Sovietiche, ritengo doveroso spendere
qualche pagina per dare voce ai cosi detti “nemici” della Nazione, e per analizzare come
venga costruita l’immagine del nemico in generale. Questo aspetto, peraltro, è utile per capire
come lo Stato sia in grado di strutturarsi nella forma dominante, attraverso meccanismi precisi
di propaganda, ma anche di uso del diritto, di limitazione delle libertà individuali (quali ad
esempio la libertà di stampa) fino ad arrivare all’uso della forza e del potere esecutivo. Ciò dà
l’idea di come anche le istituzioni giuridiche siano costruzioni intrise di rapporti di potere che
non sempre veicolano ciò che il cittadino riconduce alle proprie categorie di
giustizia/ingiustizia.
Come già dimostrato, l’architettura della mitologia nazionale uzbeka tende a
presentare la Nazione come storicamente chiusa, ossia come un sistema circoscritto che si
dipana nel tempo senza trasformazioni o interazioni con altri sistemi culturali. Tale visione
cerca di isolare il proprio popolo dall’influenza esterna negando, in primis, il fatto che la
maggior parte delle caratteristiche considerate tradizionali siano invece il risultato di continue
trasformazioni, interazioni ed assimilazioni con altri popoli. Di fatto, l’Asia Centrale, è da
sempre stata un melting pot di etnie differenti che crearono le condizioni uniche del suo
120
sviluppo (Ilkhamov 2007). L’etnocentrismo con l’adozione del concetto di “chiusura” della
nazione, vengono spesso seguiti da politiche d’isolamento. Le restrizioni in materia di libertà
personali nell’Uzbekistan contemporaneo sono ancora un problema rilevante, tali restrizioni
vanno dalla mancanza libertà di culto, all’arretratezza in materia di diritti umani, alla,
pressoché inesistente, libertà di stampa. Riporto di seguito alcuni esempi di limitazione e
censura statale: per viaggiare al di fuori dell’Uzbekistan i cittadini devono richiedere un
particolare visto d’uscita valido per due anni, trascorsi i quali devono per legge rientrare nel
paese. La libertà di parola e di espressione trova un ampia disciplina nel sistema normativo.
Nella Costituzione del 1992, l’art. 25 e l’art. 67, sanciscono formalmente la libertà di
“pensiero, parola e convinzioni”, anche all’interno dei mass media, vietando,
paradossalmente, ogni forma di censura. Tuttavia, dal 2004, il governo ha investito il
Ministero della Cultura della selezione dei libri stranieri ammessi nel paese. Tutte le case
editrici e le etichette di pubblicazione devono necessariamente ottenere un permesso speciale
dal Ministero per essere abilitate a pubblicare libri o altro materiale informativo. Nel 2002 è
stato inoltre affinato il sistema di censura nazionale sui mezzi di comunicazione (Ibid.). Circa
il 26,8% della popolazione ha la possibilità di accedere ad una connessione internet, alla rete
sono state imposte le stesse identiche leggi restrittive riguardanti la carta stampata. Nell’art. 6
della legge sui media, lo Stato pone una serie di limiti alla libertà di parola, autorizzando la
censura ad ogni tipo di propaganda per: terrorismo, estremismo, separatismo,
fondamentalismo e pornografia. L’autorità, dunque, vista la genericità e l’ampiezza della
norma, gode di un ampio margine d’intervento, potendo rendere inaccessibili siti internet con
motivazioni superficiali quali “violazione della legge” o “non conformità” (Artese 2011)107
.
Nella visione teleologica della storia descritta in precedenza, nell’arco di tempo tra il
tramonto e l’ascesa di una nuova golden age, vi sono momenti di passaggio in cui la nazione
può essere messa alla prova da situazioni di sofferenza e pericolo. E’ parte fondante
dell’ideologia nazionalista dell’Uzbekistan ritenere che la causa di tali sofferenze sia causata
da forze esterne alla nazione (Ilkhamov 2007). Andando oltre la mera dottrina del
nazionalismo, si può affermare che, tale visione, cela una dicotomia archetipica della
mitologia inclinata verso la semplificazione del quadro mondiale come divisione di due forze
opposte – “bene” e “male”, “noi” e “loro”. La percezione del mondo in maniera dicotomica ed
oppositiva, coincide, nella mitologia nazione, con la percezione della storia, considerata
un'arena di lotta tra “bene” e “male” (Ibid.).
107
Per un approfondimento sulla libertà di stampa si veda Artese (2011), in particolar modo pp. 442-458.
121
Secondo quest’ ottica duale, dunque, l’autorità di dichiarare ciò che è moralmente
accettabile per lo Stato racchiude implicitamente in sé, anche, l’autorità di dichiarare ciò che
deve essere considerato immorale e punibile per legge. Il concetto di ma’naviyat, sopra
analizzato, viene utilizzato dallo Stato non solo per divulgare i “buoni” principi del cittadino
modello, ma, anche, per designare chi deve essere considerato al di fuori dei confini morali
dello Stato. Secondo gli stessi meccanismi lo Stato delinea, inoltre, il profilo del “buon
lavoratore”. Relazionato all’industria cotoniera, esso dovrebbe senz’altro racchiudere in se i
valori “eroici” riconducibili al condottiero Timur, dovrebbe essere forte, valoroso e fiero del
proprio contributo alla Patria. Dovrebbe inoltre essere grato dei mezzi che lo Stato mette a sua
disposizione, macchinari, sistema irriguo e materiale per la produzione per quanto riguarda i
fermer, appezzamenti privati di tamorka e ko’sumcha tamorka per quanto riguarda il dekhon.
In regimi di polizia, come quello uzbeko, che opprimono la propria società civile, la
costruzione di modelli “idealtipici” da un lato e la costruzione di nemici dello stato dall’altro
divengono mutualmente dipendenti (Kendzior 2014). Vorrei soffermarmi qui sull’analisi del
nemico come oppositore politico. In quest’ottica, come afferma Begoña Aretaga (2003, cit. in
Kendzior 2014:227), “il criminale, il terrorista o una qualsiasi altra figura minacciosa
posseggono facce famigliari, famigliari ma strane, strane nella loro familiarità”. Non potendo,
in questa sede, offrire un’analisi approfondita dell’argomento, mi limiterò ad apportare
l’esempio del rifugiato politico Nasrullo Sayyid.
Nasrullo Sayyid è in fuga dal 2005, quando attraversò il confine per scappare in
Kyrgyzstan dopo la condanna per aver divulgato una canzone di protesta legata ai fatti del
massacro di Andijan. Ex membro del Parlamento, affiliato al partito d’opposizione Erk,
Nasrullo ha un mandato di cattura emanato dalla sua città natale, Bukhara, essendo stato
etichettato come "terrorista estremista religioso" da parte dello Stato che un tempo servì
(Kendzior 2014). Venne arrestato per la prima volta nel 1994, dopo un’irruzione inspiegabile
nella casa di famiglia, in seguito alla quale la milizia dichiarò di aver trovato due granate nel
guardaroba della camera dei bambini. Incarcerato per due mesi, venne infine condannato ad
un anno di lavori forzati ed arresti domiciliari108
. Da quel momento rimase un bersaglio facile
108
Le condizioni di detenzione per gli oppositori politici, i difensori dei diritti umani e gli esponenti di partiti o
movimenti islamici possono essere particolarmente crudeli. Ex detenuti che hanno trascorso del tempo nelle celle
di punizione le descrivono come piccole stanze di cemento, prive di finestre, riscaldamento e areazione naturale
e senza spazio sufficiente per il letto, tanto che ai detenuti viene portata una stretta brandina per la notte che
viene tolta il mattino seguente. Raccontano di essere stati frequentemente picchiati dalle guardie carcerarie e
dagli altri detenuti, che è stato negato loro l’accesso alle cure mediche e che sono stati costretti ai lavori forzati,
come la produzione di mattoni e opere di muratura, senza abbigliamento adatto per proteggersi dalle temperature
gelide d’inverno e torride d’estate e con cibo e acqua insufficienti.
(http://www.amnesty.it/flex/FixedPages/pdf/stop-tortura/uzbekistan.pdf)
122
della persecuzione statale, fino alla sua fuga nel 2005. Ciò che è particolarmente interessante
di questa vicenda è che, dopo aver letto un libro pubblicato da Islam Karimov riguardante
delle riflessioni sulla moralità del popolo uzbeko, Nasrullo sentì la necessità di scriverne uno
in risposta, intitolato Five Recollections of “High Morality” (Cinque ricordi di “grande
moralità”). Il libro è una riflessione autobiografica in merito alle vicende d’incarcerazione e
persecuzione subite dal rifugiato durante gli anni in patria. La pagina d’esordio di questo libro
recita così:
“Recentemente, a Tashkent Islam Karimov ha pubblicato un nuovo libro. Ho letto in un reportage che
questo libro si intitola La grande Moralità, una forza invincibile. Non ho avuto la possibilità di leggerlo,
ma sono certo che Karimov avrà espresso il punto di vista riguardo alla sua “grande Moralità”, che ha
costruito in Uzbekistane nel corso degli ultimi 18 anni […] Oggi i sostenitori di Karimov predicano dalle
loro altre tribune, le loro assurdità di "alta moralità", mentre la società uzbeka affonda nella palude della
propria immoralità. So che è sbagliato tacere. La base della società uzbeka è morta - le bugie, l'inganno e
la corruzione sono la malattia morale della nostra nazione, e non c'è altra scelta che parlare di quanto in
basso siamo sprofondati. Ovviamente il governo dell’Uzbekistan non avrà interesse riguardo alla mia
opinione sul libro di Karimov, io sono ciò che loro chiamano un rappresentante della muxolifat
(opposizione). E nell’Uzbekistan contemporaneo che ha costruito Islam Karimov non c’è posto per la
tolleranza delle visioni individuali, o per le opinioni di qualcuno come me” (Nasrullo n.d., cit. in
Kendzior 2014:224)
La categoria di muxolifat, di cui parla Nasrullo, raggruppa tutte quelle persone
considerate dal regime nemiche della patria, descritte dalla propaganda nazionalista come
“inefficaci, disorganizzate e litigiose” (Kendzior 2014).
La storia di questo rifugiato politico è rilevante sul piano analitico non solo perché ha
avuto il coraggio di contestare pubblicamente la versione ufficiale di ma’naviyat promulgata
dal Presidente, ma perché, facendo ciò, egli è andato contro anche alla categoria parallela di
criminalità. Per Karimov come per i suoi oppositori, lo stato della moralità e la moralità dello
Stato finiscono per intrecciarsi. Entrambi impiegano il concetto di ma'naviyat come un modo
per situare un discorso ben più ampio legato alla criminalità, ed entrambi collegano,
direttamente o indirettamente, il ma'naviyat al concetto di minaccia. Per Karimov, le minacce
alla Nazione uzbeka vengono dall’esterno e non colpiscono gli apparati statali in sé, ma il
ma'naviyat stesso del popolo. I muxolifatchilar (nemici della Patria), come Nasrullo, non
vengono mai inseriti nella propaganda nazionalista, vengono solo etichettati come criminali,
indegni persino di entrare nella discussione in merito alla moralità della nazione.
E’ interessante riflettere sulla discrasia riscontrabile tra la morale propagandata dallo
Stato e le concrete condizioni di sfruttamento produttivo in cui versa la maggior parte della
popolazione rurale del paese. Lo Stato, infatti, attraverso l’opera mistificatoria della
costruzione di una morale nazionalista cerimoniosa e carica di ideali positivi, propone al
123
popolo un’immagine distorta della realtà, funzionale al mantenimento dei rapporti di potere
favorevoli all’élite dominante. Tale riflessione può essere arricchita, a livello analitico,
considerando il dibattito scientifico attorno alle economie morali. Un contributo rilevante a
tale proposito è, senz’altro, quello dello scienziato politico James C. Scott. Questo studioso,
riferendosi all’antropologia economica di Raymond Firth, studiò alcune importanti rivolte
contadine nel sud-est asiatico. Lo fece ricorrendo al concetto di economia morale per
riconoscere le zone liminari fra il tollerabile e l’intollerabile nella gestione politica dei
rapporti di produzione. In questione erano le concezioni popolari e inscritte nella quotidianità
di equità sociale, reciprocità, diritto alla sussistenza, rapporto con le élites, le forme di
resistenza (per esempio quelle che si esprimono attraverso i «discorsi nascosti» di cui si
occuperà in seguito Scott) e, attraverso l’analisi dei micro-conflitti, la lettura delle rivolte e
delle loro fonti. Gli individui elaborano, non meccanicamente, delle concezioni di giusto e
ingiusto a partire dalle loro condizioni di vita, e in questa prospettiva l’interesse delle analisi
di Scott era quello di mostrare come a un sistema di sussistenza corrispondesse un’etica della
sussistenza, nel quadro di una specifica economia morale (Alunni 2013). La nozione di
economia morale può, dunque, diventare uno strumento che permette di analizzare un sistema
di legittimazione (nel nostro caso lo Stato), capace di cogliere simultaneamente le diverse
istanze che attraversano il campo sociale, il tutto a partire dalle concezioni di giusto e
ingiusto. Nel nostro caso tali riflessioni possono essere utili se riferite, per esempio, a ciò di
cui esposto sopra, a un’elaborazione differente del concetto di ma'naviyat di cui i
muxolifatchilar si fanno portavoce. Se, oltre che negli spazi istituzionali e nei discorsi
pubblici, pensiamo alla morale come insieme di disposizioni incorporate, allora è sicuramente
interessante analizzare quei momenti di riflessività in cui disposizioni incorporate, quindi
inconsce, vengono problematizzate e assunte riflessivamente, diventando così atti morali
consci, come nel caso di Nasrullo e della sua critica al ma'naviyat di Stato.
124
CONCLUSIONI
In una annotazione di Rumer (1987:82) ripresa da Spoor (1993:12) si legge:
“L’Uzbekistan ha intrapreso un lungo e tragico esperimento – che ha messo in luce la capacità
della monocultura di corrodere non solo l’agricoltura, ma anche l’industria, l’educazione, la
salute e infine anche la moralità pubblica”. Trovo che questa frase rappresenti la conclusione
appropriata di questo mio lavoro. Tali parole, infatti, rendono l’idea di come il cotone in
Uzbekistan non sia solo un prodotto d’esportazione: esso, al contrario, costituisce il fulcro di
un complesso sistema di clientelismo e sfruttamento, tanto del lavoro quanto dell’ambiente,
intriso di politiche autoritarie e gerarchiche.
Ho strutturato la tesi in modo tale che l’industria cotoniera uzbeka fosse il mio punto
d’accesso alle dinamiche di asservimento lavorativo, interconnesse allo sfruttamento delle
risorse naturali, legittimate e perorate dall’apparato statale. Gli obiettivi che mi ero prefissata
riguardavano l’indagine delle condizioni di lavoro della classe contadina del paese, come tali
condizioni fossero legate all’accesso alle risorse, nonché allo sfruttamento dell’ambiente, e
come entrambe si trovassero fortemente intricate a meccanismi di potere riconducibili alla
forma centralizzata ed autoritaria del regime centroasiatico. Queste domande di ricerca mi
hanno permesso di discutere tematiche riconducibili a vari ambiti dell’analisi antropologica
(antropologia dell’ambiente, antropologia del lavoro, prospettiva storica), articolando un
percorso che tiene insieme campi di riflessioni distinti.
Ho innanzitutto analizzato come il cotone sia stato il motore primo di tutta una serie di
interventi ambientali volti a potenziarne la produzione. Prendendo in esame il caso specifico
del prosciugamento del Lago d’Aral mi sono soffermata sulla componente politica del
disastro ecologico concludendo che la gestione e l’accesso all’acqua e al sistema irriguo
diviene un fondamentale mezzo Statale per il controllo sull’agricoltura (sul cotone in
particolare, necessitando di ingenti quantità d’acqua) e sui suoi lavoratori.
Tramite lo studio delle comunità rurali in transizione e la nascita dei nuovi soggetti
produttivi (fermer e dekhon), inoltre, ho mostrato come, nonostante nella politica agraria il
governo pretenda di “deregolarizzare” e “destatalizzare” il settore, nella realtà dei fatti esso
continui ad esercitare un forte controllo sull’agricoltura (in particolar modo sul cotone).
Questo, da un lato, attraverso il mantenimento del monopolio statale sulla proprietà della
terra, sull’export del cotone grezzo, sulle quote di mercato e sui prezzi, dall’altro attraverso
una forte ingerenza da parte delle autorità governative locali (hokim) in tutti gli aspetti
dell’agricoltura, dalla pianificazione delle attività agricole dei fermer, fino al monitoraggio
capillare dei processi di produzione, raccolta e commercializzazione (Trevisani 2007). Ho
125
mostrato, inoltre, che anche dopo gli interventi di decollettivizzazione delle campagne, i
rapporti tra dekhon (micro imprese a conduzione familiare), fermer (nuovi imprenditori
agricoli subentrati ai shirkat) e autorità governative rimangono attualmente contradditori. Tali
contraddizioni nascono da riforme agrarie che, se da un lato puntano alla decentralizzazione
dei poteri, dall’altro mirano a contenere i cambiamenti sostanziali restando quanto più
possibile legate al modello sovietico di stampo collettivo (kolkhoz). Per le ragioni sopra citate
sono arrivata alla conclusione che, in Uzbekistan, in cui vige un regime definibile
neopatrimonialista, si possa riscontrare attorno al sistema agrario, e in particolar modo
riguardo alla produzione cotoniera, un complesso sistema di sfruttamento produttivo
particolarmente gravoso per la classe contadina (dekhon). Tale sistema si sviluppa su più
livelli; infatti, la relazione tra dekhon e fermer ha forti parallelismi con la relazione tra Stato e
fermer (Veldwisch 2008). I fermer, che appaiono patroni (punti forti) nella relazione coi
dekhon, sono a loro volta coinvolti in rapporti di dominio e dipendenza se relazionati allo
Stato. Quindi, come i fermer si trovano obbligati al soddisfacimento delle quote di produzione
imposte dal governo su grano e cotone, per poter accedere al mercato del riso, così i dekhon si
trovano obbligati a svolgere lavori duri e spesso non retribuiti nelle piantagioni di cotone dei
fermer, per accedere a risorse e protezione necessarie al mantenimento di uno standard di vita
dignitoso. Ovviamente si consideri che la rete di dipendenze che emerge è un fenomeno molto
complesso e non si articola in una semplice struttura gerarchica piramidale. E’ certamente
chiara la riproduzione di relazioni fortemente asimmetriche, ma la divisione dei poteri non
può essere inquadrata all’interno di modelli statici. Ciò è principalmente dovuto al fatto che in
Uzbekistan, la trasformazione del sistema economico è attualmente ancora in corso
(Kandiyoti 2002; Djanibekov, Bobojonov & Lamers 2012; Veldwisch & Bock 2011;
Veldwisch 2008).
Ho integrato quanto detto ad un’approfondita analisi storica che dal periodo di
dominazione russa si dipana fino ai giorni nostri. Questa prospettiva mi è servita per mostrare
come le dinamiche legate allo sfruttamento produttivo, alla rete clientelare che preclude
l’eguale accesso alle risorse, nonché al carattere autoritario dello Stato, siano in parte
riconducibili ad un’eredità sovietica. Dalla mia analisi mostro, dunque, come vi sia una linea
di continuità tra periodo sovietico e periodo post-sovietico, la cui comprensione, a mio parere,
diviene di fondamentale importanza per la trattazione dei temi di questo lavoro.
Ho, infine, analizzato come lo Stato, attraverso meccanismi di riscrittura della storia
nazionale, retorica ideologizzata, uso del diritto e del potere esecutivo così come di
coercizione e violenza, non controlli solo la vita produttiva del paese, ma limiti le libertà
126
personali del suo popolo mistificando le reali condizioni di degrado e corruzione attraverso
una fitta propaganda e un capillare sistema di controllo locale.
Come accennato in precedenza, l’Uzbekistan, così come tutta la regione centroasiatica,
è nel pieno di una importante transizione economica, politica ed amministrativa ed è
sicuramente interessante seguire le trasformazioni in corso per constatare se, come avvenuto
in precedenza, ai mutamenti di forma corrispondano anche cambiamenti di sostanza. Cotone
di Stato, le due parole chiave del titolo si fondono nella mia analisi fino a diventare l’una
specchio dell’altra.
127
BIBLIOGRAFIA
Abdukadirov S. (2009), The Failure of Presidentialism in Central Asia, Asian Journal of
Political Science, 17(3), p.285.
Abu-Lughod L. (1991), Writing Against Culture, in Recapturing Anthropology: Working in
the Present, Richard Gabriel Fox, Santa Fe, N.M.: School of American Research Press, pp.
137-162.
Adams L. (2008), Can we apply postcolonial theory to Central Eurasia?, Central Eurasian
Studies Review, 7(1), pp. 2-7.
Alunni L. (2013), Etnografie del giudizio morale: un dibattito antropologico, Fenomenologia
e società, Rosenberg & Sellier, 3, Torino disponibile al link
https://www.academia.edu/12070874/Etnografie_del_giudizio_morale_un_dibattito_antropo
logico.
Ambasciata Italiana a Tashkent (2013), Rapporto Congiunto, disponibile al link
http://www.ambtashkent.esteri.it/Ambasciata_Tashkent/Menu/Informazioni_e_servizi/Fare_
affari_nel_Paese/Rapporto_congiunto/.
Appadurai A. (2012)[2001], Modernità in polvere, Raffaello Cortina Editore, Milano.
Arifkhanova Z. (2000), Traditional Communities in Modern Uzbekistan, Central Asia and the
Caucasus, 4, pp. 56-63.
Artese E.E. (2011), Censura e libertà digitali: gli esempi del Turkmenistan, dell’Uzbekistan e
delle due Coree, in Ciberspazio e Diritto. Internet e le Professioni Giuridiche, 12(4),
Mucchi Editore, Modena, pp. 442-458.
Aslan K. (2008), Labor migration and its potential consequences for Central Asia. Central
Asia-Caucasus Analyst, 10(8), pp. 13-15.
Baffes J., Badiane O. & Nash J. (2004), Cotton: Market Structure, Policies and Development
Issues, The World Bank, Paper presented at the WTO African Regional Workshop on
Cotton, Cotonou, Benin.
Barrientos S., Kothari U. & Phillips N. (2013), Dynamics of Unfree Labour in the
contemporary Global Economy, The Journal of Development Studies, 49:8, pp. 1037-1041.
Belser P., de Cock M. & Mehran F. (2005), ILO minimum estimate of forced labour in the
world, Nondiscrimination, 7.
Benvenuti F. (1999), Storia della Russia contemporanea 1853-1996, Editori Laterza, Roma.
Bianchini S. (2009), Le sfide della modernità. Idee, politiche e percorsi dell’Europa orientale
ne XIX e XX secolo, Rubbettino, Catanzaro.
128
Brass T. (2011), Unfree labour as primitive accumulation? Capital & class,35(1), pp. 23-38.
Broxup M. (1983), The Basmachi, Central Asian Survey, 2(1), pp. 57-81.
Busse M., & Braun, S. (2003), Trade and investment effects of forced labour: an empirical
assessment, International Labour Review, 142(1), pp. 49-71.
Campbell G. (2003): Introduction: Slavery and other forms of Unfree Labour in the Indian
Ocean World, Slavery & Abolition: A Journal of Slave and Post-Slave Studies, 24:2, pp. ix-
xxxii.
Chignola S. (2007), Il concetto di biopolitica in Foucault, in approfondimenti enciclopedia
Treccani, disponibile al link http://www.treccani.it/.
Citati D. (2015), La riconferma al potere di Islam Karimov alle elezioni presidenziali in
Uzbekistan, Istituto Per Gli Studi Di Politica Internazionale (ISPI), disponibile al link
http://www.ispionline.it/it/pubblicazione/la-riconferma-al-potere-di-islam-karimov-alle-
elezioni-presidenziali-uzbekistan-13089.
Clément G. (2005), Manifesto del Terzo paesaggio, Quodlibet, Macerata.
Cornell S. E. (1999), The devaluation of the concept of autonomy: national minorities in the
former Soviet Union, Central Asian Survey, 18(2), pp. 185-196.
Cummings S.N. (2012), Understanding Central Asia : Politics and contested transformations,
Routledge, London.
De Lauri A. (2012), Afghanistan. Ricostruzione, ingiustizia, diritti umani, Mondadori
Università, Milano.
De Lauri A. (2014), After elections: hope? #afghan-elections-2014, Allegre Lab, disponibile
al link http://allegralaboratory.net/after-elections-hope-afghan-elections-2014/.
Easter G.M. (1997), Preference for Presidentialism: Postcommunist Regime Change in Russia
and the NIS, World Politics, 49(2), pp.184-211 doi:10.1353/wp.1997.0002.
Fabietti U., Malighetti R. & Matera V. (2012), Dal tribale al globale. Introduzione
all’antropologia, Bruno Mondadori, Milano.
Ferrero E. (2013), Il cotone uzbeko contro i diritti umani, l’Indro, 11 , Torino. Disponibile al
link http://www.lindro.it/0-politica/2013-08-06/95512-il-cotone-uzbeko-contro-i-diritti-
umani.
Filatov S., Malašenko A. (2000), Islam e politica nello spazio post-sovietico, Edizioni della
Fondazione Giovanni Agnelli, Torino.
Forkutsa I., Sommer R., Shirokova Y. I., Lamers J. P. A., Kienzler K., Tischbein B. & Vlek P.
L. G. (2009), Modeling irrigated cotton with shallow groundwater in the Aral Sea Basin of
Uzbekistan: I. Water dynamics, Irrigation science, 27(4), pp. 331-346.
129
Foucault M. (1977)[1971], Microfisica del potere, Einaudi, Torino.
Foucault M. (2005), Antologia. L’impazienza della libertà, Saggi Universale Economica
Feltrinelli, Milano.
Giammaria D. (2009), Seta e Veleni. Racconti dall’Asia Centrale, Universale Economica
Feltrinelli, Milano.
Gleason, G. (1983), The Pakhta programme: The politics of sowing cotton in Uzbekistan,
Central Asian Survey, 2(2), pp. 109-120.
Gorbaciov M. (1997), Riflessioni sulla rivoluzione d’Ottobre. Dal Palazzo d’Inverno alla
perestrojka, Editori Riuniti, Roma.
Heathershaw J. (2010), Central Asian statehood in post-colonial perspective, in: Kavalski,
Emilian -'Stable outside, fragile inside: post-Soviet statehood in Central Asia, Farnham,
Surrey: Ashgate, pp. 87-101.
Höbel A. (2004), Il crollo dell’Unione Sovietica. Fattori di crisi e interpretazioni, in Problemi
della transizione al socialismo in URSS, Napoli, disponibile dal link
https://www.academia.edu/612485/Il_crollo_dell_Unione_Sovietica._Fattori_di_crisi_e_inte
rpretazioni.
Ilkhamov A. (1998), Shirkats, Dekhqon farmers and others: farm restructuring in Uzbekistan,
Central Asian Survey, 17(4), pp. 539-560.
Ilkhamov A. (2002), Controllable Democracy in Uzbekistan, Middle East Report, pp. 8-10.
Ilkhamov A. (2007), National Ideologies and Historical Mythology Construction in Post-
Societ Central Asia, in Sartori P. and Trevisani T. (2007), Patterns of Transformation In and
Around Uzbekistan, Diabasis, Reggio Emilia, pp. 92-117.
Ilkhamov A. (2007). Neopatrimonialism, interest groups and patronage networks: the
impasses of the governance system in Uzbekistan, Central Asian Survey, 26(1), 65-84.
Kandiyoti D. (2002), Agrarian reform, gender and land rights in Uzbekistan. United Nations
Research Institute for Social Development.
Kapuściński R. (1994), Imperium, Feltrinelli Editore, Milano.
Kendzior S. (2014), Reclaiming Ma’naviyat. Morality, Criminality, and Dissident Politics in
Uzbekista, in Reeves M., Rasanayagam J. & Beyer J. (2014), Ethnographies of the state in
Central Asia. Performing Politics, Indiana University Press, Bloomington, pp. 223-242.
Khusnutdinova G. (2004) Environmental impact assessment in Uzbekistan, Impact
Assessment and Project Appraisal, 22:2, pp. 167-172, DOI: 10.3152/147154604781765978;
Khusnutdinova G. (2004), Environmental impact assessment in Uzbekistan. Impact
Assessment and Project Appraisal, 22(2), pp. 167-172.
130
Koch N. (2011), Security and gendered national identity in Uzbekistan, Gender, Place &
Culture: A Journal of Feminist Geography, 18:4, pp. 499-518:
Kopnina H. (2012): Re-examining culture/ conservat in conflict : the view of anthropology of
conservat in through the lens of environmental ethics, Journal of Integrat ive Environmental
Sciences, 9:1, pp. 9-25.
Kopnina H. and Shoreman-Ouimet E. (Eds.) (2013), Environmental Anthropology: Future
Directions, Routledge.
Kottak C. P. (1999), The new ecological anthropology. American Anthropologist, 101(1), pp.
23-35.
Kourabas M. (2014), Forced Labor Occuring Now in Uzbekistan’s Cotton Fields, disponibile
dal link http://www.triplepundit.com/2014/12/forced-labor-occuring-now-uzbekistans-
cotton-fields/.
Kurzman C. (1999), Uzbekistan: The Invention of Nationalism in an Invented Nation,
Critique: Journal for Critical Studies of the Middle East, No. 15, pp. 77-98.
Laruelle M. (2010), National narrative, ethnology, and academia in post-Soviet Uzbekistan,
Journal of Eurasian Studies, 1(2), pp. 102-110.
Lebaron G. and Ayers A. J. (2013) The Rise of a ‘New Slavery’? Understanding African
unfree labour through neoliberalism, Third World Quarterly, 34:5, pp. 873-892, DOI:
10.1080/01436597.2013.800738.
Levi A. (1999), Russia del ‘900, Corbaccio, Milano.
Marat E. (2009), Labor migration in Central Asia: Implications of the global economic crisis,
Silk Road Studies Program, Institute for Security and Development Policy.
Markowitz L. P. (2008), Local elites, prokurators and extraction in rural Uzbekistan, Central
Asian Survey, 27(1), pp. 1-14.
Martius C., Rudenko I., Lamers J. P. & Vlek P. L. G. (Eds.) (2012), Cotton, water, salts and
soums, Springer Science+ Business Media BV.
Micklin P. P. (1988), Desiccation of the Aral Sea: a water management disaster in the Soviet
Union, Science, 241(4870), pp. 1170-1176.
Micklin P. P. (2007), The Aral sea disaster, Annual Review of Earth Planetary Sciences, 35,
pp. 47-72.
Moran E. F. (2000), Theory and practice in environmental anthropology, NAPA Bulletin,
18(1), pp. 132-146.
Nader L., Mattei U. (2008), Plunder: When the Rule of Law is Illegal, Blackwell Publishing.
131
Nichol J. (2010), Uzbekistan: Recent Developments and US Interests, Library of Congress,
Washington Dc Congressional Research Service.
Oberkircher L. (2011) On Pumps and Paradigms: Water Scarcity and Technology Adoption in
Uzbekistan, Society & Natural Resources: An International Journal, 24:12, pp. 1270-1285,
DOI: 10.1080/08941920.2010.550085.
Olcott M.B. (1981), The Basmachi or Freemen’s revolt in Turkestan 1918-24, Euope-Asia
Studies, 33(3), pp.352-369.
Orlove B. S. and Brush S. B. (1996), Anthropology and the conservation of biodiversity,
Annual Review of Anthropology, pp. 329-352.
Paiziev, E. (2014). Gods of Central Asia: Understanding Neopatrimonialism, Doctoral
dissertation, Central European University.
Piastra S. (n.d), From a wetland to an environmental disaster zone. The evolution of the Amu-
Darya river delta (Uzbekistan) in the last 150 years from historical and contemporary
cartography, Univerity of Bologna (Italy), Dept. of Economics. Sect. of Geography.
Pomfret R. (2000), Agrarian reform in Uzbekistan: why has the Chinese model failed to
deliver?, Economic Development and Cultural Change, 48(2), pp. 269-284.
Rahaman M. M. (2008), Central Asian waters: social, economic, environmental and
governance puzzle, Helsinki University of Technology.
Rasanayagam J. (2011), Informal economy, informal state: the case of Uzbekistan,
International Journal of Sociology and Social Policy, Vol. 31 Iss: 11/12, pp. 681 – 696.
Reeves M., Rasanayagam J. & Beyer J. (2014), Ethnographies of the state in Central Asia.
Performing Politics, Indiana University Press, Bloomington.
Risaliti R. (2007), La Russia: dalle guerre coloniali alla disgregazione dell’URSS, Bruno
Mondadori, Milano.
Ron Sela (2006), Invoking te Russian conquest of Khiva and the massacre of the Yomut
Turkmens: the choices of central Asian historian, disponibile dal link
http://dx.doi.org/10.5169/seals-147713.
Rossi A. and D’Angelo L. (2012), Antropologia, risorse naturali e conflitti ambientali,
Mimesis Eterotopie, Milano – Udine.
Sartori P. and Trevisani T. (2007), Patterns of Transformation In and Around Uzbekistan,
Diabasis, Reggio Emilia.
Small I., Van der Meer J. & Upshur R. E. (2001), Acting on an environmental health disaster:
the case of the Aral Sea, Environmental Health Perspectives, 109(6).
Smith A.D. (2000) [1995], Nazioni e nazionalismo nell’era globale, Asterios Editore, Trieste.
132
Spechler M. C. (2002), Regional Cooperation in Central Asia. Problems of Post-Communism,
49(6), pp. 42-47.
Spoor M. (1993), Transition to Market Economies in Former Soviet Central Asia:
Dependency, Cotton and Water. European Journal of Development Research, 5, pp. 142-
148.
Spoor M. (1995), Agrarian transition in former Soviet Central Asia: a comparative study of
Uzbekistan and Kyrgyzstan. The Journal of Peasant Studies, 23(1), pp. 46-63.
Szőke, A. (n.d.), Environment, sustainability and economic performance–the case of the
northern aral sea region, disponibile dal link http://www.cisproject.hu/docs/EE-4-
kotet_ch6.pdf.
Trevisani T. (2014), The Reshaping of Cities and Citizens in Uzbekistan. The case of
Namangan’s “New Uzbek”, in Reeves M., Rasanayagam J. & Beyer J. (2014),
Ethnographies of the state in Central Asia. Performing Politics, Indiana University Press,
Bloomington, pp. 243-260.
Urinboyev R. (2011), Law, social norms and welfare as means of public administration: case
study of Mahalla institutions in Uzbekistan. NISPAcee, Journal of Public Administration
and Policy, 4(1), pp. 33-57.
Van Aken M. (2012), La diversità delle acque: Antropologia di un bene molto commune,
(Vol. 15), Edizioni Altravista, Lungavilla.
Veldwisch G. J. A. (2008), Authoritarianism, validity, and security: researching water
distribution in Khorezm, Uzbekistan. Field Work in Difficult Environments: Methodology as
Boundary Work in Development Research, Berlin: Lit Verlag, pp. 161-181.
Veldwisch G. J. A. (2008), Cotton, rice & water. The Transformation of Agrarian Relations,
Irrigation Technology and Water Distribution in Khorezm, Uzbekistan, University of Bonn,
Bonn. PhD.
Veldwisch G. J. A. (2008), Cotton, rice & water: the transformation of agrarian relations,
irrigation technology and water distribution in Khorezm, Uzbekistan. PhD Thesis.
Universitäts-und Landesbibliothek Bonn.
Veldwisch G. J. A. and Bock B.B. (2011), Dehakans, Diversification and Dependencies:
Rural Transformation in Post-Soviet Uzbekistan, Journal of Agrarian Change.
Vereshchetin V. S. (1996), New constitutions and the old problem of the relationship between
international law and national law, Eur. J. Int'l L.7.
Viola L. (1986), Bab’i Bunty and Peasant Women’s Protest during the collectivization, in
Russian Review, Vol. 45, No. 1, pp. 23-42.
Viti F. (2007), Schiavi, servi e dipendenti. Antropologia delle forme di dipendenza personale
in Africa, Raffaello Cortina Editore, Milano.
133
Wall C.R.L. (2006), Knowledge Managment in Rural Uzbekistan: Peasant, Project and Post-
Socialist System of Agricultural Knowledge in Khorezm, PhD Thesis, Bonn: Centre for
Development Research (ZEF), Bonn University.
West P. (2005), Translation, value, and space: theorizing an ethnographic and engaged
environmental anthropology, American Anthropologist, 107(4), pp. 632-642.
Westerman F. (2002), Ingegneri di anime, Feltrinelli, Milano.
Worbes M., Botman E., Khamzina A., Tupitsa A., Martius C. & Lamers, J. (2006), Scope and
constraints for tree planting in the irrigated landscapes of the Aral Sea Basin: case studies
in Khorezm Region, Uzbekistan (No. 112). ZEF discussion papers on development policy.
Zimmerer K. S. (2006), Cultural ecology: at the interface with political ecology-the new
geographies of environmental conservation and globalization, Progress in Human
Geography,30(1).