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73 Andrea Dini CALVINO, HEMINGWAY E «PER CHI SUONA LA CAMPANA»* 1. «Caro Mario […], tutte le volte che mi sono messo a scrivere di questo dannato uomo mi sono venute da dire cose diverse e certo quando mi met- terò a scrivere questo saggio scriverò cose ancora diverse, e adesso bisogna che conservi la brutta copia di questa lettera se no dimentico tutto»1: con- clude così Italo Calvino, il 16 gennaio 1950, un lungo paragrafo dedicato a Hemingway nella replica a Mario Motta, direttore di «Cultura e realtà», che gli aveva chiesto un articolo per la rivista. D’istinto, Calvino aveva proposto il riesame a tutto tondo dello scrittore americano, uno dei suoi «pallini» fin dagli esordi2, termine di un rapporto idiosincratico marcato da tentativi di definizione interrotti (è il caso di Classe e sesso in Hemingway, ipotizzato per «Dàrsena Nuova» di Silvio Micheli, al maggio 1946, di cui non si farà niente)3, da letture polemiche (appare su «l’Unità» Hemingway burbero bene- fico, su Addio alle armi, quattro mesi più tardi, nel settembre)4 e, soprattutto, dallo studio del recìt, di cui avrebbe indicato il ruolo d’esempio per la sua prosa5. D’altronde, ammetterà Calvino, il tirocinio narrativo passa di neces- * Il presente articolo è parte di un più ampio studio, in corso di elaborazione, sul ruolo di He- mingway nella prima narrativa di Calvino, in cui il rapporto con Hemingway (anche a livello formale, qui escluso per ragioni di spazio) è indagato da vicino. 1 Italo Calvino, Lettere 1940-1985, a cura di Luca Baranelli con introduzione di Claudio Mi- lanini, Milano, Mondadori, 2000, p. 267. (D’ora innanzi ogni lettera citata dal volume sarà solo indicata col nome del destinatario seguito dalla data e dalla pagina.) 2 A Alfonso Gatto, 23 novembre 1947, p. 204 (cui promette per il quindicinale «Pattuglia» «un racconto, un profilo di Conrad e d’altri autori ancora: Hemingway, Nievo e altri miei pallini»). 3 A Silvio Micheli, 22 maggio 1946, p. 158. 4 Italo Calvino, Hemingway burbero benefico, in «l’Unità» (Torino), 15 settembre 1946, adesso in Id., Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, ii, Milano, Mondadori, 1995, pp. 2115-2117 (d’ora innanzi, Saggi, seguito dal numero del tomo e della pagina). 5 «Hemingway è stato uno dei miei primi modelli, forse perché era più facile, come moduli sti- listici, di Faulkner, che è molto più complesso» (Italo Calvino, La mia città è New York, in Ugo Rubeo, Mal d’America. Da mito a realtà, Roma, Editori Riuniti, 1987, p. 157, adesso in Italo Cal- vino, Sono nato in America… Interviste 1951-1985, a cura di Luca Baranelli, Introduzione di Mario Barenghi, Milano, Mondadori, 2012, p. 585; d’ora innanzi Interviste, seguito dalla pagina). Oppure: «Ho cominciato a pubblicare dopo la Liberazione racconti d’azione ispirati alla vita della Resistenza italiana. Erano scritti à la Hemingway, di cui ammiravo la rapidità dello stile» (Intervista concessa a

Calvino, Hemingway e \"Per chi suona la campana\"

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CALVINO, HEMINGWAY E «PER CHI SUONA LA CAMPANA»*

1. «Caro Mario […], tutte le volte che mi sono messo a scrivere di questo dannato uomo mi sono venute da dire cose diverse e certo quando mi met-terò a scrivere questo saggio scriverò cose ancora diverse, e adesso bisogna che conservi la brutta copia di questa lettera se no dimentico tutto»1: con-clude così Italo Calvino, il 16 gennaio 1950, un lungo paragrafo dedicato a Hemingway nella replica a Mario Motta, direttore di «Cultura e realtà», che gli aveva chiesto un articolo per la rivista. D’istinto, Calvino aveva proposto il riesame a tutto tondo dello scrittore americano, uno dei suoi «pallini» fin dagli esordi2, termine di un rapporto idiosincratico marcato da tentativi di definizione interrotti (è il caso di Classe e sesso in Hemingway, ipotizzato per «Dàrsena Nuova» di Silvio Micheli, al maggio 1946, di cui non si farà niente)3, da letture polemiche (appare su «l’Unità» Hemingway burbero bene-fico, su Addio alle armi, quattro mesi più tardi, nel settembre)4 e, soprattutto, dallo studio del recìt, di cui avrebbe indicato il ruolo d’esempio per la sua prosa5. D’altronde, ammetterà Calvino, il tirocinio narrativo passa di neces-

* Il presente articolo è parte di un più ampio studio, in corso di elaborazione, sul ruolo di He-mingway nella prima narrativa di Calvino, in cui il rapporto con Hemingway (anche a livello formale, qui escluso per ragioni di spazio) è indagato da vicino.

1 Italo Calvino, Lettere 1940-1985, a cura di Luca Baranelli con introduzione di Claudio Mi-lanini, Milano, Mondadori, 2000, p. 267. (D’ora innanzi ogni lettera citata dal volume sarà solo indicata col nome del destinatario seguito dalla data e dalla pagina.)

2 A Alfonso Gatto, 23 novembre 1947, p. 204 (cui promette per il quindicinale «Pattuglia» «un racconto, un profilo di Conrad e d’altri autori ancora: Hemingway, Nievo e altri miei pallini»).

3 A Silvio Micheli, 22 maggio 1946, p. 158.4 Italo Calvino, Hemingway burbero benefico, in «l’Unità» (Torino), 15 settembre 1946, adesso

in Id., Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, ii, Milano, Mondadori, 1995, pp. 2115-2117 (d’ora innanzi, Saggi, seguito dal numero del tomo e della pagina).

5 «Hemingway è stato uno dei miei primi modelli, forse perché era più facile, come moduli sti-listici, di Faulkner, che è molto più complesso» (Italo Calvino, La mia città è New York, in Ugo Rubeo, Mal d’America. Da mito a realtà, Roma, Editori Riuniti, 1987, p. 157, adesso in Italo Cal-vino, Sono nato in America… Interviste 1951-1985, a cura di Luca Baranelli, Introduzione di Mario Barenghi, Milano, Mondadori, 2012, p. 585; d’ora innanzi Interviste, seguito dalla pagina). Oppure: «Ho cominciato a pubblicare dopo la Liberazione racconti d’azione ispirati alla vita della Resistenza italiana. Erano scritti à la Hemingway, di cui ammiravo la rapidità dello stile» (Intervista concessa a

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sità attraverso i libri degli altri: «ogni esperienza di vita per essere interpretata chiama certe letture e si fonde con esse»6; «quando ho cominciato a scrivere [storie] […] andavo a sfogliare tutti i narratori contemporanei e passati, per imparare il miglior modo di raccontarle»7. I libri degli americani tradotti o raccomandati dai numi tutelari Pavese e Vittorini, sue «guide», gli fanno da scuola8; e tra essi svetta, fascinosa, l’opera di Hemingway.

All’inizio del 1950, però, dopo anni di frequentazione e discepolato, il nodo del rapporto è tutt’altro dall’essere risolto (teste quell’impulsivo, «dan-nato uomo» che spunta a epiteto di Hemingway dall’epistola a Motta). Anzi: nonostante la fedeltà sbandierata a una prosa riprodotta nelle sue «prime cose» scritte9, che ne rileva il debito, una definizione conclusiva di chi sia l’uomo Hemingway, cosa ne rappresenti il mondo poetico (al di là del lin-guaggio) e come le due siano valutabili assieme rimane tutta da scrivere. «È un affar serio – riconosce Calvino – non ho ancora le idee chiare»10.

La difficoltà a illustrare la funzione di questo appassionante rapporto autoriale («non ho amato mai nessun scrittore quanto Hemingway»11) diven-ta un invito stimolante a indagarne gli addentellati. Rileggere l’Hemingway del biennio 1946-1947, precisa Calvino, significa ripercorrere le modalità dell’incontro storico che un’intera generazione di giovani, uscita dal conflitto mondiale, ha avuto con i suoi libri. Non soltanto l’appropriazione fatta da un “io” aspirante scrittore, ma un più corale “noi” (come sottolineerà del resto, tornando sull’argomento, con il saggio Hemingway e noi del 195412, i cui

Claude Couffon, Calvino à Paris, in «Les Lettres Françaises», 1131, 12-18 maggio 1966, p. 6, adesso in Interviste, p. 121).

6 Italo Calvino, Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, in Id., Romanzi e racconti, a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, Prefazione di Jean Starobinski, i, Milano, Mondadori, 1991, p. 1194 (d’ora innanzi, Romanzi e racconti, I, seguito dal numero della pagina).

7 Id., Nota introduttiva a Pesci grossi, pesci piccoli, in «Inventario», iii, 3, autunno 1950, pp. 62-63, adesso in Romanzi e racconti, i, pp. 1267-1269.

8 «La letteratura americana ha sempre avuto per me grande familiarità e importanza, sia per la mia evoluzione di scrittore sia per il mio lavoro. […] Quanto alla mia personale formazione di scrittore, appartengo a quella generazione italiana che è cresciuta nell’ammirazione e nel culto di scrittori come Hemingway, Faulkner e Fitzgerald. Le mie guide, sia nella scrittura letteraria sia nel lavoro editoriale, furono allora Cesare Pavese e Elio Vittorini. Sono loro due che per primi tradussero i narratori ame-ricani degli anni ’30 e ’40 e li fecero conoscere in Italia, proponendoli come modelli stilistici ai nostri scrittori di quel periodo» (Intervista concessa a Costanzo Costantini, Ogni giorno la fine del mondo, in «Il Messaggero», 21 febbraio 1982, p. 3, adesso in Interviste, pp. 488-495. La citazione è a p. 491).

9 «[…] per quanto riguarda le prime cose che ho scritto, certamente sono stato influenzato da He-mingway» (Italo Calvino, La mia città è New York, cit., p. 157).

10 A Mario Motta, 16 gennaio 1950, p. 266. Corsivo nostro.11 A Franco Lucentini, 20 marzo 1964, p. 788: «Se tutte le volte che mi capita ho sempre ripetuto

che sono nato alla letteratura attraverso quell’America là […], vorrà dire che quell’immagine per me continua a contare, pur sottoposta a tutte le critiche. E lo stesso si dica del fatto che continuo a soste-nere che non ho amato mai nessun scrittore quanto Hemingway, con tutto che il suo personaggio sia possibile d’involgarimenti».

12 Italo Calvino, Hemingway e noi, in «Il Contemporaneo», 13 novembre 1954, p. 3, adesso in

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semi sono contenuti nella lettera del 16 gennaio). Il riesame di Hemingway – circoscritto all’impiego fattone dall’intellettualità italiana a partire dalle traduzioni circolate a ridosso della guerra e nell’immediato dopo-guerra –, dovrà appunto vertere «sul nostro incontro con Hemingway, della nostra generazione italiana, sulla utilità di Hemingway (e utilizzazione, uso) per noi»13. Si tratta insomma di stabilire il ritratto di un Hemingway tutto italiano, non americano; e, inquadrandolo, affidarsi alla storicizzazione della sua figura.

In quanto scrittore appartenente a due mondi (quello d’origine, l’Ameri-ca; e quello della sua fortuna critica, l’Italia), continua Calvino, «bisognerà introdurlo con un discorso esauriente sul significato dell’America per gli intellettuali antifascisti italiani cresciuti dentro il fascismo»14. Una pre-messa necessaria, questa, per evitare le contaminazioni ideologiche che per l’intellettualità di sinistra già a partire dal 1947 (se non prima) avevano trasformato l’America dal bastione ideale della democrazia progressiva roo-seveltiana (fissata nella sua coscienza collettiva durante gli anni dell’alleanza con l’Unione Sovietica per battere il nazi-fascismo)15 nel paese della guerra fredda e del conservatorismo culturale e politico anti-marxista, che finiva per cancellarne l’immagine d’origine.

«Sono venuto un po’ pensando queste cose, sull’America, su “quella” America, leggendo e discutendo gli scritti di Giaime Pintor […]. È forse un argomento che meriterebbe un saggio apposta, per spiegare tanti fatti [Pave-se, Vittorini, Balbo (della “tecnica” e degli “eroi senza gloria”), Pintor (di Americana), e poi tutto il fenomeno di “Politecnico”]». Quest’ampio saggio e ambizioso sui «tanti fatti» della vita letteraria italiana recente finirà per non essere scritto. La spinta rinnovata ad affrontare un discorso sull’America «allegoria politica»16 delle vicende italiane tra gli anni ’30 e ’40 si concretiz-zerà invece con ben altra urgenza, di lì a pochi mesi, a seguito del suicidio di Pavese (agosto 1950), come introduzione alla raccolta dei suoi scritti letterari, La letteratura americana e altri saggi, un terzo dei quali è dedicato a autori americani.

Saggi, i, 1312-1320.13 A Mario Motta, 16 gennaio 1950, p. 266. Corsivo nostro.14 Ivi, pp. 265-266.15 Sul «sogno americano» e la sua fine si veda almeno la sintesi nel volume di Gino Tellini, Il

romanzo italiano dell’Ottocento e Novecento, Milano, Bruno Mondadori, 1998, pp. 348-458. Uno stu-dio approfondito su quest’argomento è nel volume di Bruno Pischedda, Due modernità. Le pagine culturali dell’«Unità»: 1945-1956, prefazione di Vittorio Spinazzola, Milano, Franco Angeli, 1995.

16 Italo Calvino, Introduzione a Cesare Pavese, La letteratura americana e altri saggi, a cura di Italo Calvino, Torino, Einaudi, 1951, p. xiv.

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L’America. I periodi di scontento hanno spesso visto nascere il mito letterario di un paese proposto come termine di un confronto […]. Spesso il paese scoperto è solo una terra d’utopia, un’allegoria sociale che col paese esistente in realtà ha appena qualche dato in comune. […] la letteratura americana fu […] «il gigantesco teatro dove con maggior franchezza che altrove veniva recitato il dramma di tutti», […] «noi scoprimmo l’Italia – questo è il punto – cercando gli uomini e le parole in America, in Russia, in Francia, nella Spagna».

E davvero, quest’America dei letterati, calda di sangui di popoli diversi, fumosa di ciminiere e irrigua di campi, ribelle alle ipocrisie chiesastiche, urlante di scioperi e di masse in lotta, diventava un simbolo complesso di tutti i fermenti e le realtà contemporanee, un misto d’America, di Russia e d’Italia, con in più un sapore di terre primitive –una incomposta sintesi di tutto ciò che il fascismo pretendeva di negare, di escludere17.

Il cuore duro del discorso di Calvino (qui rivolto alla funzione di Pavese come fabbricatore del mito americano) era già tutto nell’epistola a Motta, incollato all’immagine di Hemingway e dell’America precisata a «terra d’u-topia», «allegoria sociale» «mito letterario di un paese proposto come termine di un confronto» con la storia stessa italiana e ispirazione a un suo nuovo racconto, a un suo nuovo corso, in cui entrava anche l’idea della Russia sovietica (che sommata all’America produceva «il grande paese d’utopia» obiettivo della Resistenza).

L’alleanza Russia-America è stata la condizione fondamentale per la «comu-nistizzazione» degli intellettuali italiani d’avanguardia, e la sua fine ha contato pure molto. Ora sia «Russia» che «America» erano un insieme di dati e aspirazioni italia-ne, erano due paesi di utopia, due utopie incomplete e complementari, e l’addizione «Russia» + «America» («quella» R. + «quella» A.) dava il grande paese d’utopia che fu, io credo, per molti, e certo non solo intellettuali, il «vero» obiettivo della Resistenza. (Fu un fenomeno fine a se stesso, o conteneva una verità storica di cui bisogna continuare a tener conto?) Quello che si intendeva per «America» c’è un po’ tutto in H[emingway, n.d.r]. La verginità di storia, la tecnica (sapere fare le cose), la libertà e pienezza dell’amore, l’aria aperta, la democrazia immediata nei rapporti umani, il coraggio. E, come scrittura, l’ultimo risultato d’approfondimento tecnico: tecnico-funzionale è il linguaggio di H., in cui nulla è senza utilizzazione raziona-le immediata, nulla è astrattismo, solipsismo o belluria (come già nel grande ma fumoso Faulkner)18.

L’analisi estemporanea fatta per Motta («bisogna che conservi la brut-ta copia di questa lettera se no dimentico tutto») illumina i perché di un Hemingway eretto a sineddoche dell’America intera. Calvino pone al centro

17 Ivi, p. xiii, passim. Corsivi nostri.18 A Mario Motta, 16 gennaio 1950, pp. 266-267.

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ispiratore dell’esperienza hemingwaiana una serie di valori («di dati») che la identificano con tutte le «aspirazioni italiane» da realizzarsi (quali antitesi del fascismo e sintesi «di tutti i fermenti e le realtà contemporanee»): Ame-rica e Hemingway sono sinonimi di democrazia e libertà, di re-invenzione continua della propria storia (che non la fossilizza e la fa rimanere vergine) e, suo punto più rilevante, di una coscienza del «sapere fare bene le cose» (l’attualizzazione delle potenzialità dell’individuo nelle opere), attraverso la concretezza funzionale del linguaggio, suo risvolto («il più limpidamente realistico della prosa moderna»)19. È chiaro come la ricezione dell’uomo e dell’autore, portavoce primo di valori americani tutti italiani, appaia sotto il diretto riflettore politico, prima che letterario. Diviene allora necessario procedere al districamento dei due per comprendere, di Hemingway, l’en-tusiasmo (letterario) della sua accoglienza in Italia e le conseguenti, spinose polemiche della valutazione (politica) dell’opera.

2. Quello per Hemingway era stato, da parte di Calvino e di molti suoi sodali, un innamoramento fulmineo. La novità impetuosa del suo linguag-gio spontaneo, rapido e scandito, tutto-fatti, coi «piedi per terra»20, incar-natosi nelle battute di un «dialogato» secco a fotografia di un parlato anti-retorico e anti-accademico (persino secondo Cecchi, tutore del formalismo italico, «il miglior regalo ch’egli fece alla letteratura»)21, si era saldata con la rivelazione di «uno dei pochi scrittori contemporanei che siano stati sempre e decisamente contro il fascismo, sempre per la democrazia progressiva»22. Lo aveva presentato così Vittorini, suo principale sponsor italiano, ai lettori di «Politecnico» settimanale il 29 settembre 1945, segnandone il campo dell’ap-partenenza ideologica e sdoganandone il novero dei racconti e dei romanzi

19 Italo Calvino, Hemingway e noi, cit., p. 1319. Ma al 1950, sono «cose difficili da dire» come l’America tanto sognata e l’Hemingway tanto amato portino (e abbiano portato) con sé aspetti dete-riori, da rifiutare oggi con fermezza, e come l’idolo della giovinezza sia forse superato. Il riesame della sua storia conduce alla sensazione della perdita di un padre. Si cfr. ancora la lettera a Motta del 16 gennaio, pp. 266-267, passim: «Ma H. è un’“America” che non trova la sua “Russia”. Trova invece (e il guaio è che la cerca) la sua “Europa”. Questo è il decadentismo di H. E la trova in base (come diver-sivo e spiegazione) agli elementi d’America deteriore (e reale almeno quanto l’altra) che ci sono in lui: alcolismo, ignoranza, vuotaggine. E intuisce, lui barbaro, cose finissime sulla civiltà-barbarie europea; entra nell’olimpo del nostro irrazionalismo squisito, lui il “tecnico”: ma a noi che ce ne importa più? […] Altro era che volevamo da lui, altro ora che sempre più ci tornano agli occhi, fino a coprire gli aspetti che cercavamo e amavamo in lui e cerchiamo e amiamo, ci tornano dico agli occhi gli altri aspetti (il contrasto barbarie-civiltà ora superato […]) di cui sempre meno c’importa, altro dunque ora al di là di lui […] (dove?) ora cerchiamo. Come vedi, cose difficili da dire».

20 Ivi, p. 1313.21 Emilio Cecchi, Ernest Hemingway, in Id., Scrittori inglesi e americani. Saggi, note e versioni, vol.

ii, Milano, Il Saggiatore, 1964, pp. 217-228 (la citazione è a p. 224).22 Elio Vittorini, Nota a Ernest Hemingway, Per chi suonano le campane [sic], in «Il Politecnico»,

n. 1, 29 settembre 1945, p. 3 (riprodotta nella n. 1, pp. 385-385, in Id., Letteratura arte e società. Arti-coli e interventi 1938-1965, a cura di Raffaella Rodondi, Torino, Einaudi, 2008).

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(una scoperta ritardata al dopoguerra «perché quasi tutti i suoi libri avevano un contenuto apertamente antifascista»23 e erano stati proibiti durante la dit-tatura). Una ricetta irresistibile. Non solo: si trattava di leggere uno scrittore-partigiano, rappresentante di un «antifascismo attivo, in contrapposizione all’antifascismo della pura intelligenza»24. Il primo numero della rivista vittoriniana aveva proposto la lettura serializzata di Per chi suona la campa-na, romanzo della guerra civile spagnola che proietta repentino la fama di Hemingway in Italia (consolidatasi poi nel 1946 sotto la felice costellazione delle molte traduzioni uscite25).

L’origine del discepolato hemingwaiano da parte dell’ex garibaldino Italo – come racconterà lui stesso nel 1964 a proposito della genesi del romanzo Il sentiero dei nidi di ragno (1946) – ha per oggetto proprio quel libro crudo, scomodo, anti-ideologico, polo di un confronto prima letterario (a causa della relativa paucità di romanzi dedicati alla guerra civile e alla lotta contro il nazi-fascismo allora circolanti in Italia) e di identificazione biografica poi, per chi una guerra l’aveva davvero combattuta: «Appena finito di fare il partigiano trovammo (prima in pezzi sparsi su riviste, poi tutto intero) un romanzo sulla guerra di Spagna che Hemingway aveva scritto […]. Fu il primo libro in cui ci riconoscemmo; fu lì che cominciammo a trasformare in motivi narrativi e frasi quello che avevamo visto sentito e vissuto, il distaccamento di Pablo e di

23 Intervista concessa a Jean A. Gili, Italo Calvino et le cinema des annees Trente, in «Positif», 303, maggio 1986, pp. 46-48, adesso in Interviste, p. 519.

24 Italo Calvino, Hemingway e noi, cit., p. 1313.25 Intricata è la questione dei diritti di traduzione dell’opera di Hemingway in Italia, con versioni

che si accavallano. Già a liberazione di Roma avvenuta, nel 1944, l’editrice Jandi Sapi pubblica una antologia della raccolta Uomini senza donne (Men Without Women, 1927) e Nel nostro tempo (1925) col titolo L’ invincibile, dal racconto eponimo: il volume contiene i racconti L’ invincibile (The Unvan-quished), Cinquantamila dollari (Fifty Grand), Il mio vecchio, Il villaggio indiano (Indian Village), Il campione, I sicari (The Killers). Per la stessa casa editrice esce ancora nel 1944 E il sole sorge ancora (The Sun Also Rises, 1926), tradotto da Rosetta Dandolo, e nel 1945, tradotti da Bruno Fonzi, Un addio alle armi (A Farewell to Arms, 1929) e Chi ha e chi non ha (To Have and Have Not, 1937). Addio alle armi uscirà per i tipi Mondadori, in una traduzione a più mani di Dante Isella, Giansiro Ferrata e Puccio Russo, con 8 illustrazioni originali di Renato Guttuso, nel 1946. A cura di Giorgio Monicelli esce per Einaudi Avere e non avere (1946) e, col titolo Fiesta, la traduzione di Giuseppe Trevisani di The Sun Also Rises. Sempre nel 1946 escono Verdi colline d’Africa (Green Hills of Africa, 1935), per Jandi Sapi, nella traduzione di Gaetano Carancini, il dramma La quinta colonna (The Fifth Column, 1938) per Einaudi con Trevisani e la raccolta integrale di Uomini senza donne per i tipi Elios, tradotta da Angela Salomone. Ma l’opera che causa più controversie, anche nel campo dei diritti, è Per chi suona la campana (For Whom the Bell Tolls, 1940), che appare con tagli prima su «Politecnico» di Vittorini nella traduzione di Bruno Zevi e Vittorio Foà (come Per chi suonano le campane, sic), e poi tra il 1945 e il 1946 esaurisce sei edizioni per Mondadori, nella traduzione di Maria Napolitano Martone. Sulla vi-cenda editoriale di Per chi suona la campana, si cfr. la n. 1, pp. 385-385 in Elio Vittorini, Letteratura arte e società. Articoli e interventi 1938-1965, cit. I racconti Il ritorno del soldato Krebs (traduzione di Carlo Linati) con Vita felice di Francis Macomber, per poco (The Short Happy Life of Francis Macomber) e Messicani, la monaca, la radio (The Gambler, the Nun, and the Radio, entrambi su traduzione di Elio Vittorini) erano apparsi nell’antologia Americana (Milano, Bompiani, 1941).

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Pilar era il “nostro” distaccamento»26. Il romanzo dell’intellettuale Robert Jordan che, abbandonate le ragioni della penna, sceglie le ragioni della lotta armata e combatte a fianco della resistenza repubblicana contro Franco fino al sacrificio della vita nel tentativo di far saltare un ponte, diventa un irresi-stibile viatico per la «didassi»27 narrativa del giovane Calvino. Attraverso gli occhi di questo Hemingway si osserva la realtà della guerra che lo ha formato e «messo al mondo, anche come scrittore»28, il cui «mondo avventuroso e tragico»29 gli ha dato «la giustificazione per scrivere»30. Attraverso romanzi come Addio alle armi (letto nell’estate del 1946) e Per chi suona la campana (seguìto su «Politecnico» settimanale tra il settembre 1945 e l’aprile 1946, nonché, si presume, letto nella versione integrale Mondadori) si ritrovano e soppesano le ragioni (politiche e umanitarie) dell’antifascismo, dell’antimi-litarismo e dell’impegno liberatore, individuale prima, e collettivo poi, della Resistenza. Queste opere di Hemingway, in cui «la realtà si configura come un gran massacro»31 (il «gran massacro» sperimentato in prima persona con la lotta partigiana), sono ricondotte nella lettura di Calvino a uno slancio civile: al fare (sinonimo di costruire o ri-costruire) e all’imperativo morale che richiede allo scrittore di testimoniare la sua condizione di uomo storico che si adopera, al suo meglio, per «l’integrazione dell’uomo nel mondo, nelle cose che fa», «in armonia con l’umanità» attraverso «le operazioni del pre-cise del suo lavoro»32. Il salto originario nello scrivere è legato a processo di immedesimazione con l’autore americano: «Avevo conosciuto e sperimentato il mondo che vedevo descritto nei libri di autori americani come Hemingway e Dos Passos, che leggevo in quel periodo»33. Col suo linguaggio, i suoi personaggi, e i suoi contenuti anti-retorici l’Hemingway circolante in Italia nel dopoguerra incarna agli occhi di Calvino l’ideale di una «letteratura dei fatti» scelta «come primo appiglio polemico nello scrivere» contro «la lette-ratura dell’intellettualismo»34, che non s’interessa d’incidere sulla realtà del mondo, «di quel mondo che era per noi il mondo»35; e, «nella polemica let-

26 Italo Calvino, Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 1195. Corsivo nostro.27 Intervista concessa a Marco D’Eramo, Italo Calvino, in «Mondoperaio», xxxii, 6, 1979, pp.

133-138, in Interviste, pp. 283-298 (la citazione è a p. 283).28 Intervista concessa a Enzo Maizza, La giovane narrativa, in «La Discussione», v, 210, 29 di-

cembre 1957, pp. 8-9, in Interviste, pp. 33-34 (la citazione è a p. 34).29 Intervista concessa a Alexander stille, An Interview with Italo Calvino, in «Saturday Review»,

xi, 2, marzo-aprile 1985, pp. 37-39, adesso in Interviste, pp. 604-609 (la citazione è a p. 605).30 Ibidem31 Italo Calvino, Hemingway e noi, cit., p. 1316.32 Ivi, p. 1319.33 Intervista concessa a Alexander stille, in Interviste, p. 605. Corsivo nostro.34 A Carlo Cassola, 12 febbraio 1958, p. 248 (in Italo Calvino, I libri degli altri. Lettere 1947-

1981, a cura di Giovanni Tesio, con una nota di Carlo Fruttero, Torino, Einaudi, 1991).35 Italo Calvino, Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 1187.

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teraria» dal fronte interno italiano (sull’impegno etico-civile degli scrittori), prima che la guerra fredda ne spostasse i termini, il valore degli scrittori nordamericani (e quindi, per translato, di Hemingway stesso), derivava dal porsi come «l’antitesi ideale al clima della prosa d’arte e dell’ermetismo»36 che Calvino condanna come perdenti a rappresentare i destini storici degli uomini37.

Sarà a Per chi suona la campana, romanzo della guerra civile spagnola, che converrà tornare per l’esame di alcuni snodi tematici e ideologici del Sentiero, che l’assume a palinsesto, ma non a quest’opera soltanto: il primo romanzo di Calvino, concepito e scritto tra l’agosto e il dicembre 1946, tiene presente il furioso dibattito politico che a sinistra, nell’arco di quell’anno, accoglie il libro di Hemingway (accusato di un ritratto alquanto critico delle Brigate Internazionali, operanti in Spagna sotto il comando sovietico)38, e di cui Calvino riutilizzerà il vocabolario e le pezze critiche come spina del testo stesso. L’immagine carismatica di Hemingway, giunta a Calvino come «una suggestione poetica e politica assieme» («l’antifascismo internazionale, il fronte della guerra di Spagna»)39 viene presto ridotta con suo rammarico all’esempio della vita dissipata dell’uomo (un alcolista) e dell’impegno politi-co dello scrittore (antifascista, ma non marxista). Per questo gli addentellati del rapporto Calvino-Hemingway hanno contorni difficili: essi esulano da

36 Id., Introduzione a Cesare Pavese, La letteratura americana e altri saggi, cit., p. xiv.37 Si cfr. Id., Umanesimo e marxismo, in «l’Unità», 22 giugno 1946, adesso in Saggi, i, pp. 1470-

1471: «Quest’atteggiamento trovava la sua giustificazione storica nel desiderio, vivo in tutti gli uomini di cultura, d’opporsi alla società e al costume corrente, posizione che in Italia acquistava il particolare significato di repulsione al fascismo: ma prendeva vie sbagliate, astoriche […]. Era la via dell’eva-sione, evasione dal tempo e dalla logica […]», oppure: «La letteratura della testimonianza interiore, della confessione individuale […] assegnava all’indagine dello scrittore una zona ben delimitata della coscienza, […] difendendosi il più possibile dalle sollecitazioni esterne. Ma il bilancio di questa lette-ratura, che ha pure avuto una sua logica interna e una sua giustificazione storica, era inevitabile che minacciasse di chiudersi in perdita» (in Inchiesta sul realismo, a cura di Carlo Bo, «Quaderni della Radio» - xiii, Eri, Torino, 1951, adesso in Interviste, p. 3).

38 Uno scoglio di cui Cecchi, prima che si scatenassero in Italia le polemiche sul libro, avrebbe dato un’interpretazione anticipata discutendo le «querele» che da parte spagnola avevano accolto il ro-manzo: «Non escluderei che, all’origine di quelle querele, sia un senso di delusione perché il libro non ha una decisa impostatura propagandistica: da una parte tutto il bene, e il male tutto da quell’altra parte. Ma è artista di gusto troppo realistico, Hemingway, per concedere a tali semplificazioni. […] Vilipende falangisti e loro capi; benché […] siano figure da lui trattate con piena dignità e umanità. E d’altro canto non sorvola sulle atrocità e sugli eccidi comandati e commessi da Pablo. […] Si capisce che, da un angolo visuale rigorosamente propagandistico, un simile ritratto di capo partigiano non potesse incontrare unanimi approvazioni». Per questo, conclude Cecchi, nel farne il ritratto critico c’è chi giudica Hemingway «politicamente, di dubbia fede democratica, e pericolosamente antipro-gressista», definizione tacciate subito come «semplicistiche d’uno scompenso che non pertiene poi allo scrittore, quanto a tutta l’epoca; e che con un po’ di rettorica ad uso corrente, non gli sarebbe stato difficile dissimulare. Noi dobbiamo essergli grati d’essersi risolutamente astenuto da cotesta qualità di rettorica» (Emilio Cecchi, Ernest Hemingway, cit., pp. 226-228, passim).

39 Italo Calvino, Hemingway e noi, cit., p. 1313. Corsivo nostro.

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una fruizione soltanto estetica della sua opera e si scontrano con valutazioni puramente ideologiche dell’operato dell’uomo. «Quell’ideale d’una cultura che fosse tutt’uno con la lotta politica ci si delineava in quei giorni come una realtà naturale»40, ricorderà Calvino riesaminando il mondo letterario dell’immediato dopoguerra («gli elementi extraletterari stavano lì tanto massicci e indiscutibili che parevano un dato di natura; tutto il problema ci sembrava fosse di poetica, come trasformare in opera letteraria quel mondo che era per noi il mondo»41); ma aggiungerà, subito: «Invece non era affatto così: coi rapporti tra politica e cultura dovevamo romperci la testa […]»42.

3. La riflessione a voce alta sulla storicizzazione della fortuna di Hemingway in Italia, tentata nella lettera a Motta, arriva – va di nuovo ricordato – dall’interno di una contingenza storica non sottovalutabile. Siamo all’inizio del 1950, in piena guerra fredda in Italia: l’intellettualità è saldamente barricata su due campi opposti, marxista e anti-marxista, con la costrizione (almeno teorica) dello zdanovismo a vigilare sull’ortodossìa degli scrittori di sinistra. Calvino ricorderà il «tentativo d’una “direzione politica” dell’attività letteraria» in cui «si chiede allo scrittore di creare “l’eroe positi-vo”, di dare immagini normative, pedagogiche di condotta sociale, di milizia rivoluzionaria» in «funzione celebrativa e didascalica»43, di cui nel 1946-1947 si avvertivano sonori i prodromi44. La polemica sull’interdipendenza di cultura e politica costeggia già con forza quel biennio. Come ha ben delinea-to Manacorda, tale litigiosissimo dibattito poneva al suo centro il «continuo raffronto e misurazione del fatto letterario col fatto politico, e dello scrittore con l’uomo», errando non tanto per l’esigenza stessa del raffronto, «ma in quanto troppo rapido e superficiale passaggio dall’uno all’altro campo di giudizi, in quanto […] non si poneva prima in chiaro quali dovessero essere i retti rapporti tra fatto letterario e fatto etico-politico, sicché i giudizi avevano spesso un po’ l’aspetto dell’accusa […]. Sicché ci sarebbe stato da lamenta-re non già l’eccessiva e continua intrusione del termine politico, quanto la maniera in cui questo veniva introdotto e la mancanza o l’insufficienza di un’elaborazione critica dei rapporti politica-letteratura […]»45.

40 Id., Autobiografia politica giovanile, in Saggi, ii, p. 2753 (apparso in origine nel volume collettivo La generazione degli anni difficili, a cura di Ettore A. Albertoni, Ezio Antonini e Renato Palmieri, Bari, Laterza, 1962)

41 Id., Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 1187.42 Id., Autobiografia politica giovanile, cit., p. 2753.43 Id., Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 1193.44 Ibidem: «Cominciava appena, ho detto: e devo aggiungere che neppure in seguito, qui in Italia,

simili pressioni ebbero molto peso e molto seguito. Eppure, il pericolo che alla nuova letteratura fosse assegnata una funzione celebrativa e didascalica, era nell’aria».

45 Giuliano Manacorda, Le polemiche letterarie del dopoguerra, in Id., Storia della letteratura

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Il giornalista comunista Calvino, classe 1923, marxista neofito e agit-prop, rivendica anch’esso, com’è da aspettarsi, il legame strutturale («naturale») tra il fatto politico-sociale e quello artistico-culturale; ma i suoi giudizi letterari di questi anni, anche quando riecheggiano riserve di stampo ideologico, reclamano forme autonome di giudizio che lo portano spesso a combatte-re su «due fronti»46. Contro, per esempio, «quelli di “La Fiera Letteraria” che pretendono che i letterari siano letterati e basta, e non prendono parte in questioni politiche. E non s’accorgono che anche il dire “Non prendo posizione politica” è già un prendere posizione, un parteggiare per gli uni piuttosto che per gli altri»47; ma anche formulando all’interno dello schie-ramento di sinistra «a pelo ritto, a unghie sfoderate contro l’incombere di una nuova retorica»48 inviti perentori a evitare pericolo che «molti compagni scrittori […] s’abbandonino a un pietismo sociale che non è né letterario né rivoluzionario. Cercar di capire il perché dei sentimenti dell’uomo, dei mali dell’uomo. E se tutti avranno capito, allora che il mondo cambierà»49.

Coincidentalmente, il caso della prima apparizione nell’epistolario edito del nome di Hemingway come autore letto e studiato avviene sotto il segno di una discussione «tra fatto letterario e fatto etico-politico»50. L’idea di un saggio sullo scrittore americano prende forma al 22 maggio 1946, come attesta una lettera al sodale Silvio Micheli 51, di cui Calvino, il 12, aveva recensito con favore il romanzo Pane duro (Einaudi, 1946)52. Alla nota spedita da Micheli – che inizia uno scambio epistolare tra i due rilevantis-simo per capire chi sia il Calvino di questo periodo – è inclusa l’offerta di collaborare alla rivista «Darsena Nuova». Calvino conferma «tutto contento» che manderà «certo qualche articolo, forse uno intitolato Classe e sesso in Hemingway che ho cominciato ma mi rincresce un po’ finire perché mi rin-cresce scrivere di autori che conosco solo in parte»53. Giustificando la scelta della particolare angolatura critica, Calvino ci avverte come «gli articoli su temi generali come “vita e letteratura” non sono il mio forte; mi piace partire

italiana contemporanea (1940-1975), Roma, Editori Riuniti, 1975, pp. 14-15.46 Italo Calvino, Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 1192.47 Id., Comisso sentimentale, in «l’Unità», Torino, 6 ottobre 1946, adesso in Saggi, ii, p. 2121.48 Id., Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 1193.49 Id., Comisso sentimentale, cit., p. 2123. 50 Giuliano Manacorda, Le polemiche letterarie del dopoguerra, cit., p. 14.51 A Silvio Micheli, 22 maggio 1946, pp. 158-160. Per l’epistolario edito, è questa la prima corri-

spondenza nota (almeno tra quelle incluse dal curatore) in cui si fa esplicita menzione di Hemingway.52 Italo Calvino, Adesso viene Micheli, l’uomo di massa, in «l’Unità», Torino, 12 maggio 1946

(adesso in Saggi, i, pp. 1170-1175).53 A Silvio Micheli, 22 maggio 1946, p. 158. Una idiosincrasia così spiegata da Calvino stesso: «Io

poi di fronte a un libro non sono contento se non lo sviscero fino in fondo. Sono figlio di scienziati, padre e madre, e per quanto negato a tutto quello che è scientifico, m’è rimasta in letteratura quest’e-sigenza d’analisi completa» (a Silvio Micheli, 1 luglio, 1946, p. 161).

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da un argomento definito e poi divagare e arrivare a conclusioni generali. È anche più marxista, credo»54. Il rimando va commentato; perché, da un lato, a quest’altezza cronologica (il maggio 1946), Calvino si spinge all’annuncio della propria insufficienza a cogliere la quidditas di quest’autore per incom-pletezza informativa (teste l’ancora scarsa lettura e l’acerba frequentazione di Hemingway, che si intensificherà tra l’estate e l’autunno); dall’altro, il sog-getto proposto rivela immediato l’interesse suo – almeno nel dominio delle dichiarazioni pubbliche (pur nell’apparente privacy di questi scambi) – verso una valutazione «marxista» del fatto letterario, in cui la «validità estetica» di un testo va a coincidere con la «validità politica»55. Con un fondamentale caveat (che ne sottrae l’applicazione meccanica). Come ripete pieno di lodi a Micheli in merito a Pane duro, «mai in te si sente il peso della tesi, non scrivi per dimostrare, ma parti dall’esperienza e in un secondo momento l’analizzi - e in ciò appunto sta il tuo essere marxista»56 (castigandogli però un recente racconto in cui si avverte invece «il peso della tesi sociale»57). In altre parole, Calvino ribadisce nella lettera quanto aveva delineato dieci giorni prima su «l’Unità»:

Micheli è uno scrittore marxista, marxista quanto può esserlo uno scrittore, e non perché ogni tanto, come in un coro che sottolinea l’azione, personaggi o figure irreali s’abbandonano a vere e proprie dissertazioni dottrinarie, che se non possono mai essr dette retoriche, pure son sempre gratuite e non necessarie. Marxista perché la sua umanità si muove in una zona dove vale solo la prepotenza dei richiami econo-mici, dove ogni mutamento d’ordine morale trova ragione in un mutamento d’ordine economico […], dove anche il sesso non è che un richiamo opaco e sordo e Freud non è più il demiurgo delle azioni umane58.

Lo scambio di vedute sul fantomatico metodo marxista di lettura conti-nua con Micheli a luglio, con un altro capitale chiarimento: commentando la recensione di un romanzo, Calvino protesta come ci «si fermi a analizzare

54 Ibidem.55 Ivi, p. 159. È, questo, il metodo di lettura in atto su «l’Unità» di Torino con Gente nel tempo, la

sua «rubrichetta di spunti culturali analizzati marxisticamente» (come specifica a Micheli nella stessa lettera).

56 Ibidem.57 Ibidem.58 Italo Calvino, Adesso viene Micheli, l’uomo di massa, cit., pp. 1172-1173 (corsivi nostri). Di

Classe e sesso in Hemingway, per quanto si sappia, non rimane traccia. Il titolo, alla luce delle considera-zioni su Freud nell’articolo su Micheli, è tutto un programma. Congetturalmente, si potrebbe pensare alla lettura critica di Avere e non avere (coniugata, magari, a altri racconti letti): ma è il romanzo di Harry Morgan che presenta più che in ogni altra opera di Hemingway uscita in quel periodo il falli-mento, o la problematizzazione, dei rapporti tra i sessi, considerati nel loro meccanismo economico e di classe. L’angolatura apparentemente ristretta del tema si scontra però in Calvino con la coscienza che sia necessario conoscere di più dell’opera dell’autore, prima di azzardare «conclusioni generali».

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marxisticamente il contenuto del libro, senza considerare l’atteggiamento umano dell’autore che è quello che conta» (e di conseguenza gli sembra che questo tipo di marxismo «sia appiccicato con la saliva»59). Non basta cioè una valutazione marxista del contenuto di un’opera per identificarne i pregi (etici, politici, civili in senso generale) se, a far questo, viene persa di vista la persona dello scrittore, la sua disponibilità verso la materia narrata, le sue ragioni umane. Questo il nòcciolo della questione (anche un po’ tautologi-co): «Bene, per essere marxista credo che importi fino a un certo punto aver letto poco o tanto. Quel che importa è l’atteggiamento, la mentalità, il saper impostare i problemi marxisticamente. E questo è il frutto d’una sensibilità che si può acquistare in tanti modi: anche nell’organizzazione cospirativa o di partito, anche leggendo tutt’altri libri e interpretandoli da sé»60.

Di questi giudizi calviniani bisogna subito rilevare tutti i “distinguo”, leg-gervi il rifiuto di un’applicazione pedissequa di ricette normative. E questo in particolare quando si tratti di valutare l’impegno di scrittori le cui opere rappresentano la «denuncia» delle contraddizioni della borghesia senza che si compia il passo ideologico ulteriore dello schieramento verso il proletariato. (Che sarà l’accusa principe dei suoi compagni di sinistra, come vedremo, per squalificare il maestro Hemingway.) Il caso di George Bernard Shaw «bastian contrario» (portatosi a «dimostrare […] nella commedia Fra gli scogli, che all’Inghilterra occorreva un dittatore di tipo fascista»), proposto il 18 agosto 1946 è lampante:

Ecco il difetto fondamentale di Shaw in politica: il non sapere uscire dalla borghesia, il non aver abbastanza fiducia nel proletariato. Difetto in politica che forse è anche difetto in poesia […] Conoscere la crisi della borghesia senza credere nel proletariato è un grave pericolo. […] Shaw è il figlio di una società piena di con-traddizioni, è la voce e la denuncia di queste contraddizioni, ma, nato e cresciuto in mezzo a esse, non può ragionare che per via di contraddizioni e di paradossi61.

L’insufficienza ideologica si trasforma «forse» in insufficienza estetica (ne limita cioè lo scopo e i risultati); ma rimane valida nell’opera «la voce e la denuncia» della «crisi della borghesia». Lo scrittore «figlio di una società piena di contraddizioni» non può che ragionare «per via di contraddizioni

59 A Silvio Micheli, 1 luglio 1946, p. 161. Corsivo nostro.60 A Silvio Micheli, 29 luglio 1946, p. 163.61 Italo Calvino, Shaw «bastian contrario», in «l’Unità», Torino, 18 agosto 1946, adesso in Saggi,

ii, pp. 2114-2115.

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e paradossi»: se la sua demistificazione del ruolo reazionario della classe borghese non finisce coll’inserirsi in un processo dialettico (in cui appaia, a sintesi risolutiva, il passo successivo della «fiducia nel proletariato» a rivelare la possibilità di una nuova, libera, più compiuta società) non si può però tacere la funzione positiva di quell’autocoscienza, anche se limitata. La nota su Shaw va ricordata perché il suo nucleo rimane in linea con la lettera a Micheli del primo luglio, che invitava a cogliere (cioè: a storicizzare), degli scrittori, la posizione morale, senza anatemi nonostante i “difetti” (in politi-ca, in poesia); e che nell’ottobre sarà così compendiata: «Prima di tutto non sono gli scrittori a determinare la storia e la società, ma la storia e la società a determinare gli scrittori. Gli scrittori possono essere araldi e profeti di nuovi aspetti della società non ancora manifesti ma già latenti; non di più»62.

L’opinione che Calvino si forma di Hemingway durante questi mesi rimane sempre al di qua del settarismo: ne propone con puntualità una lettura utilitaristica che mai rifiuti lo scrittore con l’uomo: «Una lezione di pessimismo, di invidualistico distacco, di superficiale adesione alle esperien-ze più crude» c’era in Hemingway, ammette Calvino nel 1954, «ma o non sapevamo leggerlo o avevamo altro per la testa, sta di fatto che la lezione che ne ricavavamo era di un’attitudine aperta e generosa, d’ impegno pratico – tecnico e morale insieme – nelle cose che si dovevano fare»63. Vero, questo scrittore «figlio della civiltà borghese» coglie la realtà di massacri della guerra «come la realtà normale del mondo borghese nell’età imperialista»64 – e di questo dobbiamo essergliene grati per il sincero atteggiamento umano e la volon-tà di denuncia dei mali storici dell’uomo– ma al pari di Shaw rimane poi incapace di trovare una via (dialettica) da intraprendere per contrastare tale realtà. Il nodo del contendere rimane insomma «il grave pericolo», la man-cata adesione di Hemingway a una visione rivoluzionaria della storia, il suo scettico individualismo di fondo che mostra di non credere alla liberazione derivante dal cambiamento del sistema economico, dalla fine della lotta di classe, con l’esperimento del mondo nuovo sovietico: «L’eroe di Hemingway – chiarirà apertis verbis Calvino nel 1954 – che pure ha visto aprirsi la grande alternativa dell’Ottobre, accetta il mondo dell’imperialismo e si muove tra i suoi massacri, combattendo anch’egli, con lucidità e distacco, una battaglia che sa perduta in partenza perché solitaria»65. È questo un limite su cui già Calvino aveva posto l’accento nel 1946 a proposito di Micheli, traducendolo da termine politico a letterario: «Noi vorremmo che Micheli diventasse il

62 Id., Comisso sentimentale, cit., p. 2122. 63 Id., Hemingway e noi, cit., p. 1312. Corsivo nostro.64 Ivi, p. 1317.65 Ibidem.

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Dostoevskij italiano, con tutto il suo bagaglio di sofferenza quotidiana, il suo peso di gerarchie ingiuste, […] un Dostoevskij il cui travaglio […] non sbocchi in un epilettico, individualistico grido d’umiliazione o di rivolta, ma continui la strada fiducioso di far cambiare il sistema, un Dostoevskij che ha capito perché si è umiliati e offesi»66.

Se il «pessimismo», «l’individualistico distacco» di Hemingway è d’osta-colo al giudizio tout court positivo sull’opera, per Calvino rimane il fatto fondamentale che come uomo e come scrittore egli non offra mai sterili soluzioni intellettualistiche alle domande storiche sul posto dell’uomo nel mondo (e questo costituisce il suo principale merito): riconosce e misura «l’uomo nelle sue azioni, nel suo essere o no all’altezza dei compiti che gli si pongono»67 nell’ hic et nunc della sua esperienza storica, identificando con rigore «la realtà dell’uomo coi paradigmi del suo comportamento»68 come primaria posizione ontologica e stilistica. La validità morale è esplicita, nono-stante manchi a Hemingway «figlio della civiltà borghese» «la prospettiva generale»69, collettiva e rivoluzionaria (questo il refrain del ritornello accusa-torio da sinistra) che la inquadri e la rafforzi. È, del resto, questa enfasi del «fare» (e del fare bene le cose), la lezione che identifica Calvino stesso nel suo impegno marxista, spiegata di nuovo a Motta, l’11 luglio 1950 («come “vedo” la rivoluzione, il socialismo, la società che auspico e per attuare la quale […] lavoro»70):

Ciò che mi spinge in questa direzione […] è la soddisfazione a vedere le cose che a poco a poco si mettono a andare nel loro verso, il sentirsi in una posizione più adatta per risolvere i problemi man mano che si presentano, per «lavorare meglio», l’aver più chiarezza in testa e il senso di essere sempre più al proprio posto tra gli uomini, tra le cose, nella storia.

Ora io credo che questa sia la conquista dell’uomo moderno (o meglio: a cui l’uomo moderno deve tendere): aver perso il mito d’un «paradiso» teleologico (metafisico o terreno) come vera patria dell’uomo, e ritrovare questa patria umana

66 Id., Adesso viene Micheli, l’uomo di massa, cit., p. 1175.67 Id., Hemingway e noi, cit., p. 1319.68 Ivi, p. 1315.69 A Mario Motta, 11 luglio 1950, p. 283. Dalla parte degli uomini «che hanno per patria le cose

che fanno e che vedono, – patria continuamente contrastata e da riconquistare» nel mondo tangi-bile «delle proprie opere e dei propri giorni» Calvino cita a esempio i nomi di Conrad, Cecov e He-mingway. Dalla sua «nera visione dell’universo» scaturisce però «la […] fiducia nell’uomo» del conser-vatore Conrad, a Cecov che sotto il piccolo-borghesismo umano scopre come in ognuno «c’è l’uomo da salvare», per cui reclama «l’utilità storica di ogni uomo – al di là dei singoli fallimenti – unica dignità umana e salvezza», a Hemingway «non ostante (anzi forse proprio per questo) la fondamentale vuotaggine americana che egli avverte intorno a sé e di cui lui stesso fa parte-, Hemingway che sente il bisogno di rifarsi ai rapporti fondamentali dell’uomo con le cose, pescare bene, accendere bene i fuochi, stabilire bene i rapporti da uomo a donna, da uomo a uomo, far saltare bene i ponti (solo che gli manca la prospettiva generale, e s’infutilisce, s’annoia; cosa ce ne importa delle corride, anche ben fatte?)».

70 Ivi, p. 280.

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nel cuore delle proprie opere e dei propri giorni, in un rapporto dialettico difficilissimo da raggiungere e da mantenere tra sé e tutto il resto. Questo è possibile solo a chi ha delle idee ben chiare sulla direzione nella quale deve muoversi, a chi sa – sempre meglio- quello che vuole, quello che si deve volere; ma più dei successivi punti d’arrivo conta vedere il mondo trasformarsi per quel tanto che ognuno fa, che ognuno s’ inseri-sce nel processo per trasformarlo. Per questo il socialismo è uscito dall’«utopia» (dal «paradiso») quando ha cominciato a essere «scienza» e quindi «pratica»; per questo il comunista lotta anche se sa che i risultati dei suoi sacrifici saranno goduti solo dalle generazioni future; per questo non si può immaginare un marxista «contem-plativo» […]71.

Della concreta, storica esperienza umana va dunque privilegiata la fonda-mentalità del processo dialettico, dell’itinerario nell’impegno personale («per quel tanto che ognuno fa») per la trasformazione del mondo, visto tramite il suo punto di partenza e di sviluppo, più che per il risultato in sé: una lotta personale che va oltre il soggetto che ne fa esperienza, a investire le «genera-zioni future», e il sacrificio come responsabilità ultima derivante dall’avere raggiunto «delle idee ben chiare» anche volontaristicamente («a chi sa… quello che si deve volere») sulla direzione della trasformazione.

È attraverso questa enfasi sul fare, sull’inserirsi in un «processo per tra-sformarlo» con la chiarezza delle idee su «quello che si deve volere», «sulla direzione nella quale [l’individuo] deve muoversi» che Calvino leggerà la vicenda di Per chi suona la campana, con un’interpretazione che costituirà poi il corno più importante del dialogo del suo stesso libro, il Sentiero, con quello di Hemingway, al di là delle critiche sull’opportunità o meno di leg-gere il punto di vista di un autore non marxista sulle lotte resistenziali nella guerra civile spagnola.

4. La divulgazione di Hemingway, araldo di un nuovo linguaggio e di un inedito modo di leggere la realtà, fatta da Vittorini con Per chi suona la campana, si meriterà un corsivo severissimo per la penna di Mario Alica-ta (dalla cui ombra spunta il segretario del PCI stesso, Palmiro Togliatti) sul numero doppio n. 5-6, del maggio-giugno 1946, di «Rinascita»72. Hemingway è soltanto il casus belli, la punta dell’iceberg, dell’inizio di una polemica, tutta interna allo schieramento di sinistra, sul rapporto cultura-politica e sul ruolo degli intellettuali scrittori nell’organizzazione di partito (di cui la rivista «Politecnico» fa da parafulmine). Dobbiamo tenere presente il linguaggio delle accuse a Hemingway e al suo romanzo per apprezzare il tipo di operazione (di fatto, una risposta) che Calvino si troverà a gestire alla

71 Ivi, pp. 280-281, passim. Corsivi nostri.72 Mario Alicata, La corrente «Politecnico», in «Rinascita», n. 5-6, maggio-giugno 1946, p. 116.

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scrittura del Sentiero, dalla fine dell’estate. Secondo Alicata, è «intellettuali-smo giudicare “rivoluzionario” e “utile” uno scrittore come Hemingway, le cui doti non vanno al di là d’una sensibilità da “frammento”, da “elzeviro”, e “rivoluzionario” e “utile” un romanzo come Per chi suona la campana che rappresenta la riprova estrema dell’incapacità di Hemingway a comprendere e a giudicare (cioè, poi, a narrare) qualcosa che vada al di là d’un suo quadro di sensazioni elementari e immediate: egoistiche». Per ben due volte Alicata calca la mano sull’inutilità – per il pubblico italiano, e in specie dei nuovi lettori proletari – dell’autore e del romanzo, a seguito della mancanza di un contenuto rivoluzionario nell’opera (e nella vita). Anzi: l’accusa è che le doti letterarie di Hemingway (della misura corta dei racconti, per esempio, non-ché del romanzo) non lo possano portare oltre un formalismo intellettualisti-co, in quanto l’invenzione del linguaggio col quale vuole parlare agli uomini «ha sì una presunzione di maggiore “umanità”, ma, in pratica, è risultato quando mai “astratto” ed “esteriore”»: «lavorare per una cultura “nuova”, significa riuscire a creare e a diffondere un “linguaggio” nuovo, attribuendo al termine “linguaggio” (come è chiaro) non un valore puramente formale, ma di intima espressione, di “atteggiamento”, di “gusto”, di “mentalità”». L’atteggiamento di Hemingway squalifica il suo impiego pedagogico, perché rifiuta «una conquista di verità», l’incontrovertibile esempio del socialismo sovietico. Alicata conclude così la nota: «in che misura è viva e moderna, cioè “nuova” e “utile”, per noi, una letteratura che ha, fra gli altri come portaban-diera, uno Hemingway? Ci può essere un’arte “umana” che non abbia come obiettivo una conquista di verità? E che bisogno abbiamo noi, oggi, d’un arte che non sia “umana”, cioè non aiuti gli uomini in una lotta conseguente per la giustizia e la libertà?».

Fa eco alle riserve di Alicata il ritratto di Hemingway scritto dal tradut-tore di Fiesta Giuseppe Trevisani, che esce su «Politecnico» in agosto73. Il pezzo – che ripercorre la biografia letteraria dello scrittore – è in verità una requisitoria contro l’uomo prima e l’autore poi, confuso coi suoi personaggi narrati, e le cui ragioni narrative si confondono con quelle biografiche (anzi: l’intellettuale Robert Jordan, protagonista di Per chi suona la campana, è visto punto e basta come un ritratto dello scrittore medesimo, di cui assu-merebbe i pregiudizi politici). Sono obiezioni espresse con lemmi e argo-mentazioni che, come vedremo, Calvino terrà a mente. Trevisani presenta la vicenda di Hemingway come «l’avventura di un individuo che dalla propria

73 Giuseppe Trevisani, Storia breve di Ernest Hemingway, in «Politecnico», n. 31-32, luglio-agosto 1946, adesso in Il Politecnico. Antologia critica a cura di Marco Forti e Sergio Pautasso, Milano, Lerici Editori, 1960, pp. 567-574. Il testo è altresì reperibile nell’edizione anastatica Il Politecnico, Torino, Einaudi, 1975.

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individualità non ha voluto uscire»74, in linea con Alicata. In tempi che richiedono agli scrittori l’impegno diretto sociale e civile, e il riconoscimen-to di un assetto alternativo alla civiltà borghese imperialista, Hemingway rifiuta invece di trovare per i suoi eroi un via ideologicamente positiva perché «rassegnato nella propria impotenza che il mondo esterno determina», tale e quale come quell’«impotenza dei [suoi] personaggi di fronte alla vita dalla quale non riescono a trarre che la conoscenza astratta del piacere»75. Già a partire da Fiesta si farebbe portavoce di quest’edonismo borghese sterile il Jake Barnes protagonista del libro, evirato di guerra. Il tema immanente dell’impotenza e dell’infelicità esistenziale (nonché sessuale) dei personaggi di tutti i racconti e dei romanzi è giudicato con asprezza. L’azione raccontata nelle storie hemingwaiane, sintomaticamente, ha per risultato la sconfitta dell’eroe, impossibilitato a cambiare le sue condizioni mentali (prima che sociali) e gli altri. Ai personaggi hemingwaiani manca una dialettica sociale e, per riflesso, esistenziale: non vedono alternative al loro dramma storico. All’uomo è tolta la possibilità ultima di un costruttivo fare e dell’ottenere una qualsiasi felicità. Addio alle armi stessa – opera in cui è chiara l’accusa dell’autore alla guerra e al militarismo – non raggiunge un’alternativa posi-tiva, perché «si chiariscono la vita e la morte come necessità indipendenti dalla scelta dell’uomo»76 per cui sorge spontanea la domanda «Serve fare?». Non a caso l’abile titolo dell’intervento di Trevisani è Storia breve di Ernest Hemingway, che parafrasa il famoso The Short Happy Life of Francis Macom-ber (la «breve vita felice di Francis Macomber»), un racconto in cui, come ci ricorda Trevisani, «la logica consequenza di ogni situazione»77 è la morte. Di fatto, la storia di Hemingway non può essere, nella duplice accezione di storia biografica e di storia dei suoi personaggi, felice. La conclusione di Trevisani s’appaia a quella di Alicata: il nichilismo dello scrittore condanna le sue opere all’insufficienza politica perché continua a rappresentare l’uomo uti singulus, astratto dalle ragioni e lotte di una società composta da classi tra loro in guerra, determinata nel suo essere dalla materialità dei rapporti economici, che vengono accettati come immodificabili dallo scrittore ameri-cano. Il tentativo rappresentato da Avere e non avere (il cui titolo sarebbe già un programma) conferma l’insufficiente elaborazione ideologica dello scrit-tore. Nei racconti del contrabbandiere Harry Morgan, Hemingway sì «cerca di rintracciare le ragioni o almeno la realtà del contrasto sociale sforzandosi di uscire dall’io letterario, dando la parola ai personaggi ed alle classi»78 ma

74 Ivi, p. 567. Corsivo nostro.75 Ivi, p. 568. Corsivo nostro.76 Ivi, p. 570.77 Ivi, p. 571.78 Ibidem.

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tutto si esaurisce in una descrizione d’impotenza: «la classe contro la classe, il marito contro la moglie, la lotta per l’esistenza»79 rimane su un piano indi-viduale. Di conseguenza « per questo rifiuto di aderire a una dialettica, per questo sgomento di uomo maturo dinanzi all’impotenza lungamente temuta e prossima ormai, per questo estremo tentativo di evadere dalla propria sto-ria, l’individuo ricade in se stesso, nel proprio egoismo […]»80. I corollari che permettono l’accusa di irresponsabilità politica a Per chi suona la campana fanno presto a venire: «Sarebbe sciocco affermare che a Hemingway sfug-gisse il significato sociale di quella guerra: troppo spesso si chiarisce nella sua pagina che il suo ostinato individualismo non muove da ignoranza. Ma certo egli dovette vedere in quella lotta soprattutto un mezzo di liberazione indivi-duale […]»81. Lo scrittore, secondo Trevisani, pur sentendo «generosamente la necessità dell’impegno politico», non ne comprende la necessità dialettica: «la rivoluzione, la repubblica non sono uno scopo: sono soltanto cose volute a suo tempo, con forza e ferocia», senza una giustificazione storica che riscatti la «guerra dei lavoratori contro il fascismo»82, la conquista di una libertà di classe. Ecco perché la storia dei libri di Hemingway coinciderebbe con la storia dello scrittore: è «la vita di un uomo […] dalla negazione dell’uomo in terra all’affermazione di una libertà dell’individuo che non riesce a com-prendere la libertà altrui»83. Trevisani conclude tacciando Hemingway di incomprensione classista.

Con una buona dose di sano tatticismo, il giovane giornalista comunista Calvino si tiene lontano dall’occhio del ciclone che investe l’idolo america-no, Per chi suona la campana e «Politecnico». Tuttavia, risponde di fatto a Trevisani, a «Rinascita» e alla posizione di Alicata sull’(in)«utilità» o meno di leggere Hemingway – o quell’Hemingway di Per chi suona la campana, accu-sato di intellettualismo – dall’insospetta tribuna del quotidiano di partito, orientando la discussione su di un romanzo critico del militarismo italiano (e per questo antifascista ante-litteram) quale Addio alle armi. Lo qualifica come «libro pieno di giudizi crudi sugli italiani, sulla mentalità della società italiana» e, lemma non innocente in questo contesto di attorcigliati rimandi sulla stampa di partito e prese di posizioni polarizzanti, «lettura utile soprat-tutto per noi, che non siamo abituati a analizzarci, a criticarci, a caricaturarci a fondo»84. Un Hemingway appunto burbero (demistificante) e, per noi suoi

79 Ibidem.80 Ivi, p. 572. Corsivo nostro.81 Ibidem. Corsivo nostro.82 Ivi, p. 573. Corsivo nostro.83 Ibidem.84 Italo Calvino, Hemingway burbero benefico, cit., p. 2116.

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lettori italiani, benefico (taumaturgico per i mali dell’italiano medio, da sem-pre alieno dall’autocritica e incline piuttosto al qualunquismo)85.

Addio alle armi è, per il Calvino del settembre 1946, «lettura adatta al momento», la travagliata età presente. Quel libro, sdegnato fustigatore della classe dirigente italiana militarista – la quale aveva facilitato, o non ostaco-lato, la dittatura a venire –, si proietta come specchio di una congiuntura temporale in cui si riaffacciano allarmanti i pericoli derivati dalla risorgente «retorica imperialista di cui è imbevuta la piccola borghesia intellettuale» del nostro paese. Il libro è «utile», è «adatto» perché dimostrazione di una protesta politica e civile.

L’urgenza di questa lettura hemingwayiana risalta decisa quando si consi-deri dall’interno della complessiva produzione giornalistica e narrativa calvi-niana. S’aggancia sintomatico a queste cogitazioni critiche, infatti, il raccon-to Ragionamento del cugino (pubblicato su «l’Unità» stessa il 29 settembre, e cartone del più tardo Chi ha messo la mina nel mare?)86, le cui immagini di ordigni bestiali che tornano a galla, e di morti di cui è ancora pieno il mare alludono a una pacificazione nazionale non ancora avvenuta, al pericolo di una nuova guerra civile (di classe), e alla minaccia dello scoppio di una terza guerra. I colpevoli delle mine riaffiorate dal mare appartengono al complesso militar-industriale e dell’alta finanza (sono generali e gallonati dell’esercito, industriali, banchieri), ma l’accusa si estende alla piccola borghesia dell’utile (i bottegai), ai profitattori di guerra (i borsaneristi) e, elemento da non sot-tovalutare in quest’insieme di letture e scritture militanti di Calvino, agli intellettuali. Al pari del rinvio esplicito nella nota su Addio alle armi (là rivolto, nel contesto della Grande Guerra, agli interventisti della prima ora), Calvino pone sotto accusa in Ragionamento sia coloro che negli anni della dittatura fascista «hanno detto troppo» facendosi scudo e strumento della propaganda militare, sia gli omertosi o i neutrali, «quelli che non hanno detto nulla», ugualmente colpevoli per il silenzio meschino, attendista o auto-assolutorio87. Il tanto bistrattato Hemingway, ci dice Calvino per vie traverse, avrebbe insomma da assolvere col suo coraggio denunciatore all’in-

85 Ivi, p. 2115: «Siamo fatti così, noi italiani: niente ci dispiace come sentir parlare male di noi stessi. E dire che siamo abituati a incassare colpi più duri: abbiamo incassato bombardamenti aerei, occupazioni militari, am-lire. Ma a sentir parlar male di noi non c’eravamo ancora abituati, perché allora di noi si parlava sempre bene, e anche i gerarca sentendo Radio Londra si convinceva d’essere una vittima del fascismo. Invece adesso s’è cominciato con i giudizi severi, con le parole dure, talvolta meritate, talvolta no. Noi siamo sempre stati un popolo privo di autocritica, sempre pronto a incensare e a romantizzare se stesso e le sue cose; perciò queste dure parole, giustre e ingiuste, sono i colpi che più ci dolgono».

86 Italo Calvino, Ragionamento del cugino, in «l’Unità», Torino, 29 settembre 1946, adesso in Romanzi e racconti, iii, pp. 840-844.

87 Ivi, p. 843.

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grato ruolo di scrittore alleato, non di nemico (nonostante i limiti ideologici), almeno per Addio alle armi, romanzo ostile al militarismo italiano e all’Italia uscita da Caporetto.

Non solo: a sèguito significativo di queste posizioni sul militarismo e sulla responsibilità della cultura, il 6 ottobre Calvino scrive la nota Rosenberg dannato, dedicata a un altro argomento del giorno, i processi di Norimber-ga e a quello per il teorico del nazismo Alfred Ernst Rosenberg (impiccato di lì a poco, il 16). In essa, Calvino castiga la complicità col nazi-fascismo degli «uomini di cultura che hanno fatto della loro cultura uno strumento di oppressione e d’ingiustizia»88. A Rosenberg è appaiato Giovanni Gentile, «il panciuto appaltatore di filosofie su misura per “stati etici”» cui Calvino augura «un inferno speciale […] perché la sua cultura più profonda e più soli-da lo rende maggiormente responsabile»89 della tragedia italiana. Il filosofo era stato giustiziato dai partigiani nel 1944 in una controversa iniziativa che Calvino qui indica «tra i non ultimi vanti della resistenza italiana, anzi della cultura italiana nella resistenza» perché ha «fatto giustizia di propria mano […] del maggiore esponente e responsabile della nostra trahison des clercs, che magari qualche compiacente Norinberga locale avrebbe assolto perché il fatto non costituisce reato»90. Data la cornice storica presente, il secco rimando fatto da Calvino tramite Addio alle armi alla non spenta «retorica imperialista» della borghesia, nonostante il disastro mondiale appena alle spalle, va allargato alle coeve, accesissime discussioni politiche invocanti la necessità del riarmamento tedesco e occidentale in funzione anti-sovietica, con lo spettro di un nuovo conflitto di cui Calvino considera appunto complice col suo silenzio (o tacito assenso) la casta dei letterati, «la piccola borghesia intellettuale» anti-marxista.

Le rubriche del 15 settembre e del 6 ottobre su Hemingway di Addio alle armi, la letteratura antimilitarista e sul tradimento degli intellettuali che credono che cultura non sia politica, insomma, si fanno da pendant; siamo all’interrogazione esplicita, urgente e polemica di come esercitare appieno il potere della penna e alla delineazione di uno strettissimo rapporto tra cultu-ra e politica che in questi mesi ha occupato riviste e giornali letterari. Ma è altrettanto chiaro che un punto specifico del contendere, il giudizio negativo su Hemingway uomo, e scrittore, sia ribaltato da Calvino per il ruolo benefi-co che la lettura dell’opera può rivestire per l’Italia, quando si consideri come la letteratura mondiale antimilitarista nata dal primo conflitto abbia prodot-to un Remarque, un Arnold Zweig o un Wiechert mentre in Italia i letterati

88 Id., Rosenberg dannato, in «l’Unità», Torino, 6 ottobre 1946, adesso in Saggi, ii, p. 2119.89 Ibidem.90 Ibidem.

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abbiano evitato qualsiasi giudizio sulla carneficina e si siano auto-assolti da qualsiasi responsabilità. (Inutile dire come l’applicazione di questo giudizio sulla Prima guerra sia valido per estensione alla Seconda.)

La mossa riabilitatoria di Calvino, compiuta dall’organo di partito (sep-pure dalla periferia dell’edizione torinese) appare per quello che è: abile, sofisticata (e diplomatica al contempo). La risposta a Alicata e Trevisani sul valore del romanzo hemingwaiano, e del suo autore (anzi, nonostante il suo autore), agisce su un altro punto estetico e politico: Addio alle armi è «una rappresentazione sretorizzata della Prima guerra mondiale sul nostro fronte»91 (quindi non falsata, non intellettualizzata). Il testo «scritto nel 1929, quando già l’esperienza bellica s’era decantata e approfondita nell’a-nimo dell’autore» fornisce «un giudizio non solo sull’Italia di quel periodo, ma su quello che all’Italia sarebbe accaduto poi, c’è la cattiva organizzazione della guerra, l’incoscienza con cui le classi dirigenti mandano al massacro il popolo italiano […]»92. Merito della trama è osservare «una solidarietà non detta a parole» (esplicitamente non didascalica, didattica) «ma per questo più profonda, col popolo che non sa perché lo mandano a morire, che vuol ragionare di testa sua, con il mondo dei soldati diviso da quello degli uffi-ciali da una barriera come tra caste indiane»93. È l’istantanea dell’Italia della rivoluzione risorgimentale tradita: la frattura tra il mondo del popolo («dei soldati» precettati) e il mondo della classe dirigente borghese militarista, coi suoi interessi opposti a quel popolo, di cui l’intellettuale Hemingway, osser-vatore esterno dall’occhio neutrale, coglie nel romanzo i tratti reazionari, a profezia di una dittatura a venire: «Questo c’è in Hemingway, e il libro letto all’estero può far capire il perché del fascismo, e il perché della resistenza popolare al fascismo»94.

Libro «utile», libro necessario, libro rivoluzionario, anche se caso-limite: l’esempio di Addio alle armi serve a Calvino per smontare l’accusa totaliz-zante di intellettualismo rivolta al suo autore95; fa altresì leva sugli aspetti del

91 Id., Hemingway burbero benefico, cit., p. 2116. Corsivo nostro.92 Ibidem.93 Ivi, pp. 2116-2117.94 Id., Dante qualunquista, in «l’Unità», Torino, 15 settembre 1946, adesso in Saggi, ii, p. 2117 (la

conclusione su Hemingway apre il primo paragrafo della parte su Dante, il qualunquismo italiano e la letteratura antimilitarista).

95 Anche il giudizio cautelamente negativo di Calvino che investe l’uomo Hemingway, antifascista sì, ma non marxista, anzi, «pessimista» (in linea con la critica ufficiale di sinistra allo scrittore ame-ricano –una posizione su cui Calvino rimarrà fermo nel tempo, ogni volta che si occuperà di questo «dannato uomo») limita ma non pregiudica il significato da attribuire all’opera: «Un pessimista è sempre stato in fondo Hemingway. Che cosa ha portato lui e il suo protagonista a combattere sul fronte italiano, per una guerra che non sentivano? È stato quel suo estremo scetticismo di figlio della civiltà borghese che comprende la crisi della sua civiltà, che vuole guardare la realtà qualunque essa sia, per poi ritirarsene annoiato quando la vede. È la noia, la caratteristica noia di Hemingway, di questo Cechov

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libro in cui si esprime la sintonia tra lo scrittore e le classi lavoratrici (si pensi alle discussioni tra il tenente protagonista del libro, Fred Henry, e gli operai socialisti emiliani suoi attendenti)96 col rifiuto delle vuote parole d’ordine che chiamano alla guerra («onore», «gloria», «sacrificio»)97 e al suo condono.

L’accenno all’assenza di retorica nella rappresentazione del conflitto porta in campo, è naturale, il convitato di pietra di queste pagine stampate, la tanto dibattuta Per chi suona la campana, altra storia di guerra e racconto sretorizzato di una guerra civile che echeggia, per gli italiani, la propria.

5. L’esempio dei libri di Hemingway fa da sponda al convincimento di Calvino che sia giunta l’ora di un romanzo suo che racconti le ragioni dell’impegno partigiano nella Resistenza. Il Sentiero ne incapsula le posizioni etico-politiche, al lume delle delusioni della storia contemporanea in cui la resa dei conti col fascismo sembra interrompersi e le necessità di riattivare i princìpi morali partigiani farsi più urgenti (se considerate dall’interno di un progetto di ricostruzione socio-economica della nazione che – in nome della solidarietà nazionale e di un partito operaio classe di governo – richiede al proletariato di accettare nuovi sacrifici e un ordinamento statale ancora borghese-capitalista)98. L’ideazione e la scrittura del Sentiero avvengono tra l’agosto e il dicembre del ’46, vìs-a-vìs il quadro politico agitato dai recentis-simi tentativi di insurrezione al nord degli ex-partigiani (che riprendono le armi tra il luglio e l’agosto), a seguito della crisi economica e delle epurazioni fasciste mancate (l’amnistia Togliatti, controversa, è del giugno)99. A cartina

travestito da Buffalo Bill, la stessa noia che lo farà vagabondare per le fiestas spagnole, che porterà il suo Robert Jordan di Per chi suona la campana a combattere per una grande causa, ma quasi solo per entusiasmo sportivo, noia che si risolverà in qualcosa di più positivo forse solo nel Philip della Quinta colonna» (Id., Hemingway burbero benefico, cit., p. 2116).

96 Ernest Hemingway, Addio alle armi, a cura di Fernanda Pivano, con un’introduzione di Fer-nanda Pivano, Milano, Mondadori, 2014: si cfr. il capitolo ix, in particolare pp. 55-61, passim.

97 In particolare al capitolo xxvii: «Ero sempre imbarazzato dalle parole sacro, glorioso e sacrificio e dall’espressione invano. Le avevamo udite a volte ritti nella pioggia quasi fuori della portata della voce, in modo che solo le parole urlate giungevano, e le avevamo lette su proclami che venivano spiac-cicati su altri proclami, da un pezzo ormai, e non avevo visto niente di sacro, e le cose gloriose non avevano gloria e i sacrifici erano come i macelli a Chicago se con la carne si faceva altro che seppellirla. C’erano molte parole che non si riusciva ad ascoltare e si finiva che soltanto i nomi dei luoghi avevano dignità. Anche certi numeri e certe date, e coi nomi dei luoghi erano l’unica cosa che si potesse dire che avesse un significato. Parole astratte come gloria, onore, coraggio o dedizione erano oscene accanto ai nomi concreti dei villaggi, ai numeri delle strade, ai nomi dei fiumi, ai numeri dei reggimenti e delle date» (Id., Addio alle armi, cit., p. 128).

98 Si cfr. a questo proposito Romano Luperini, Gli intellettuali di sinistra e l’ ideologia della rico-struzione nel dopoguerra, Roma, Edizione di Ideologie, 1971.

99 Per un quadro storico di questo periodo, si cfr. Giorgio Candeloro, La fondazione della Re-pubblica e la ricostruzione. Considerazioni finali (1945-1950), Milano, Feltrinelli, 1986, e in particolare pp. 107-114 e Enzo Piscitelli, Da Parri a De Gasperi. Storia del dopoguerra 1945/1948, Milano, Feltrinelli, 1975, in particolare le pp. 168-175 sulla ribellione partigiana. Si veda anche Mimmo Fran-zinelli, L’amnistia Togliatti. Colpo di spugna sui crimini fascisti, Milano, Mondadori, 2006

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di tornasole di queste tensioni, di cui il Sentiero si fa collettore, si torni a Ragionamento del cugino, ma si rilegga anche E il settimo si riposò100: in que-sto racconto, col suo protagonista ex-partigiano ora muratore, appare per la prima volta a indice dell’esperienza partigiana il lemma «furore» (termine di una rabbia, di una rivolta interiore individuale da convogliare concretamente in azione positiva), usato a segno di una spinta al «fare» della Resistenza che va ora recuperata – letteralmente “ricostruita” ex-novo – nel dopoguerra101. Le difficili circostanze politiche e civili in cui versa l’Italia tra il primo anni-versario della Resistenza e l’autunno 1946 segnano il morale di chi aveva combattuto e sono così rammentate nella Prefazione 1964 a premessa del disegno del romanzo:

a poco più d’un anno dalla Liberazione già la «rispettabilità ben pensante» era in piena riscossa, e approfittava d’ogni aspetto contingente di quell’epoca – gli sbandamenti della gioventù postbellica, la recrudescenza della delinquenza, la dif-ficoltà di stabilire una nuova legalità – per esclamare: «Ecco, noi l’avevamo sempre detto, questi partigiani, tutti così, non ci vengano a parlare di Resistenza, sappiamo bene che razza d’ideali…»102.

Lo scrittore pone a protagonisti del racconto, «quasi per paradossale sfida ai detrattori della Resistenza»103, infatti, i «declassati del lumpenproletariat»104, usati come meccanismo tale da scoprire, di quell’esperienza, l’«elementare spinta al riscatto umano operante anche in chi s’era gettato nella lotta senza un chiaro perché»105. Un proposito sincero e machiavellico al contempo106, nato per smascherare il «carattere primario», «la vera essenza»107 della lotta sempre più nascosta da «una retorica che s’andava creando»108, «contro tutte le immagini mitizzate»109, e riportare invece la coscienza partigiana a quello

100 Italo Calvino, E il settimo si riposo, in «l’Unità», Torino, 9 giugno 1946, ora in Id., Racconti e romanzi, iii, pp. 833-839.

101 Come è riportato dalla versione manoscritta cassata «sull’idea del lavoro […] come prolunga-mento in altre forme dell’esperienza partigiana» (Bruno Falcetto, Racconti esclusi da «I racconti», in Racconti e romanzi, iii, p. 1321).

102 Italo Calvino, Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 1192.103 Id., Nota introduttiva 1954 al Sentiero dei nidi di ragno, ora in Racconti e romanzi, i, p. 1206.104 Ibidem.105 Ibidem.106 Questa la pertinentissima presa di posizione nella recensione al Sentiero di Enzo Giachino,

Il primo della classe, in «Mondo nuovo», Torino, a. i, n. 247, 20 novembre 1947, p. 3: «ci si chiede se la retorica adottata dall’autore non sia una presa di posizione politica, un tipo di propaganda, certo ben più abile e a prima vista più efficace di quello abitualmente usato dai suoi compagni, che troppo spesso paion ricalcare gli schemi dei raccontini educativi di Cuore. La bravura sempre vigile di Calvino appare allora una forma inesorabile di machiavellismo» (adesso in Andrea Dini, Il Premio Nazionale «Riccione» 1947 e Italo Calvino, Cesena, Società Editrice Il Ponte Vecchio, 2007, p. 325).

107 Italo Calvino, Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 1197.108 Ibidem.109 Ibidem.

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che si sentiva fosse stato il suo nucleo originario, «un quid elementare»110 (in sostanza personale e soggettivo: non ideologico)111. Il disegno polemico crea una tensione apparentemente irrisolvibile nel romanzo, tra la rappre-sentazione oggettiva di chi non sembra appunto essere consapevole delle ragioni ultime del suo coinvolgimento nella Resistenza e l’esigenza autoriale di discuterne le radici. A questo scopo Calvino introduce, com’é noto, un punto di vista esterno alla brigata, il commissario politico Kim, in un capi-tolo (il ix) che avrebbe la funzione di provvedere al lettore quella «chiarez-za» sulle cause che mancherebbe ai personaggi stessi. Calvino chiamerà in seguito il capitolo «quasi una prefazione inserita in mezzo al romanzo», «per soddisfare la necessità dell’innesto ideologico», in un testo che rimane, così, «spurio», «impostato in tutt’altra chiave»112.

L’arrivo del deus ex-machina Kim sulla scena del romanzo, però, non è una forzatura: va visto quale preciso contraltare del capitolo viii, in cui gli uomini stessi del distaccamento hanno parlato tra di loro, col linguaggio loro

110 Ibidem. Si cfr. anche l’intervista concessa a Maria Craipeau, Entretien avec… Italo Calvino, in «France-Observateur», xi, 526, 2 giugno 1960, pp. 21-22: « Ho scritto quel libro contro i borghesi che dicevano che con una smorfia di disgusto: “I partigiani? Tutti criminali”. Ma io non descrivevo certo l’ “eroe socialista”. Della Resistenza ho preso quello che c’era di più basso, un gruppo di sottoprole-tari, di reietti: sono loro che ho mostrato, e con loro quello che c’era di buono in tutta la Resistenza» (adesso in Interviste, p. 49). E: « Era anche un programma morale, fare una letteratura non edificante, ma che toccasse veramente la realtà dei problemi umani che la Resistenza aveva posto in gioco» (Italo Calvino. «Il gusto dei contemporanei», Quaderno 3, Banca Popolare Pesarese, Pesaro, 1987, adesso in Interviste, p. 549).

111 È chiaro il caso di come avvenga il salto nella lotta nel racconto autobiografico La stessa cosa del sangue, in cui i due fratelli, il maggiore e il minore (da identificarsi nei due fratelli Calvino) si trovano a fronteggiare l’arresto della madre. La scelta è posta prima, apprentemente, in termini anti-ideologici (in quanto la politica rimane «fuori di loro»), ma viene mostrato anche come l’offesa personale renda tangibile ciò che prima era astratto, solo studiato nei libri: «Il fratello maggiore […] era capace di spiegare cos’è la democrazia, il comunismo, sapeva storie di rivoluzioni, poesie contro i tiranni: cose utili anche a sapersi, ma che c’era tempo a imparare dopo, finita la guerra. […] Ma ora i due fratelli avevano una cosa in comune, qualcosa era cambiato in loro, l’interesse a quella vita che facevano, la posta in gioco, non più qualcosa fuori di loro, ma nel fondo di loro, nel sangue. La lotta, l’odio per i fascisti non erano più come prima, […] una cosa imparata sui libri […], erano ormai la stessa cosa del sangue, una cosa profonda in loro come il senso della madre, una cosa decisa una volta per tutte, che li avrebbe accompagnati per la vita» (Italo Calvino, La stessa cosa del sangue, in Id., Ultimo viene il corvo, Torino, Einaudi, 1949, p. 104).

112 Id., Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 1189. In una lettera del 1947 a Franco Fortini, però, Calvino rivendica questo tipo di narrazione: «in fondo io credo che il vero romanzo sia sempre qualcosa di un po’ spurio, in cui confluiscono interessi diversi e in cui la poesia è una cosa che si deve scoprire e conquistare a fatica, senza paura d’infangarsi» (a Franco Fortini, 3 dicembre 1947, p. 206, a seguito della recensione sull’«Avanti!» del Sentiero, in cui lo scrittore era invitato a «met-tersi a fuoco»). Il problema del racconto-saggio causa anche una polemica con Elio Vittorini: «Fin da principio, Vittorini pensava che nei miei racconti tutto dovesse essere espresso nella rappresentazione narrativa, e non nel commento o in una costruzione dettata da ragioni intellettuali, che erano a quei tempi i famosi doveri politici che credevamo di doverci imporre. Nel mio apprendistato, i giudizi di Vittorini, anche negativi, mi hanno molto aiutato» (intervista concessa a Maria Craipeau, Entretien avec… Italo Calvino, cit., ora in Interviste, p. 49). A questo proposito, si rimanda anche a Andrea Dini, Il Premio Nazionale «Riccione» 1947 e Italo Calvino, cit., pp. 222-224.

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(«sono parole che capiscono bene tutti», viii 136)113 delle cause della guerra e «del perché fanno il partigiano e di cos’è il comunismo (viii 135)»114. Il capitolo ix semmai reinquadra, e problematizza, le loro vedute soggettive e pregiudiziali di personaggi senza coscienza di classe che rifiutano in blocco le spiegazioni astratte della politica (per esempio, della guerra mondiale come espressione ultima della guerra contro il proletariato, offerta dall’iperpoliti-cizzato Mancino, il cuoco estremista)115. I due capitoli sono legati assieme, si fanno da necessario pendant (l’uno non esclude l’altro): la struttura ideologi-ca del romanzo richiede questo dibattito. È chiaro che per questi personaggi «un’idea rivoluzionaria […] non può nascere, legati come sono alla ruota che li macina. Oppure nascerà storta, figlia della della rabbia, dell’umiliazione, come negli sproloqui del cuoco estremista […] (ix 153)». La domanda rima-ne: «Perché combattono, allora? (ix 153)». Il punto di vista intellettuale di Kim – che ha formato tale gruppo a privato «laboratorio d’esperimenti» (ix 147) – ha il compito di enucleare per il lettore in che cosa consista il «riscat-to» dei personaggi, e perché questa loro liberazione, da cui bisogna partire per comprendere le ramificazioni etico-politiche della Resistenza (in specie per salvarne l’eredità nel dopoguerra), vada considerata a priori per il suo valore catartico, esistenziale, d’essenza morale (non di classe). L’intervento di Kim, infatti, ha il carattere di spiegazione complementare, non di correzione ortodossa e “politica” (si licet) del loro punto di vista. La sua è certo una consapevolezza di stampo superiore (la sintesi provvista da un intellettuale borghese ora col popolo) rispetto alle preoccupazioni immediate e alle storie private cui danno voce i personaggi del distaccamento: ma invita a conside-rare lecite come ragioni del loro coinvolgimento (anche se solo come punto di partenza e sviluppo di una coscienza) i motivi semplici, concreti, individuali,

113 Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Torino, Einaudi, 1947. Le citazioni dal testo del romanzo date in corpus verranno d’ora innanzi accompagnate dall’indicazione del capitolo e del nu-mero della pagina in cui la citazione ha inizio.

114 «Sono discorsi che non durano a lungo perché a pochi degli uomini piace discutere e ragionare: tanto non si risolve mai niente mai niente ed è meglio stare attenti a non farsi sparare e a procurarsi delle armi e cercare di sparare agli altri, senza tanti ragionamenti (viii 129)»: la posizione anti-intellettuali-stica della brigata è qui chiaramente espressa.

115 Mancino identifica correttamente, da un punto di vista marxista, le forze all’opera contro il proletariato, ma sia per i suoi atteggiamenti che per l’astrattezza dei riferimenti, le sue contestazioni alle piega qualunquista presa dal dibattito politico nel distaccamento non hanno seguito: gli uomini «non sanno niente e bisogna che lui spieghi loro tutto. […] – Il capitalismo! –grida ogni tanto. –La borghesia sfruttatrice! (viii 131)» o: «La borghesia imperialista … la borghesia che fa la guerra per la spartizione dei mercati!(viii 132)». La spiegazione dell’avversione a Mancino viene pianamente spiegata: «Mancino è antipatico a tutti loro perché sfoga la sua rabbia a parole e ragionamenti, non a spari: a ragionamenti che non servono a nulla perché parla di nemici che non si conoscono, capitalisti e finanzieri (viii 134)». Per un’analisi completa di come incide la figura del comunista «troschista» Mancino nell’economia del romanzo, si cfr. Andrea Dini, Il Premio Nazionale «Riccione» 1947 e Italo Calvino, cit., pp. 279-291.

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pertinenti alle loro vite (e al loro livello) che essi sanno identificare116, e che dalla loro individualità particolare, quando presi assieme, compongono il quadro di un’esigenza collettiva di «riscatto umano» (che coinvolge tutti: si fa anonimo, cioè risposta non più determinata da un’offesa, una ‘umiliazione’ personale). Il linguaggio di Kim non lascia spazio a esitazioni:

Questo è il significato della lotta, il significato vero, totale, al di là dei vari significati ufficiali. Una spinta di riscatto umano elementare, anonimo, da tutte le nostre umiliazioni: per l’operaio dal suo sfruttamento, per il contadino dalla sua ignoranza, per il piccolo borghese dalle sue inibizioni, per il paria dalla sua

116 È questo il primo nucleo testuale di Uomini e no, il più palese, a cui Calvino fa riferimento nella sua lettura del partigianesimo: riguarda la ricerca di quel «quid elementare» dell’impegno nella lotta (il «senso», suo lemma chiave; «il perché … delle cose»; «l’ultimo perché» che reclama l’uso della violenza e l’accettazione del sacrificio nella morte), intrapreso nel romanzo partigiano di Vittorini dal partigia-no Gracco, il quale assolve lo stesso ruolo che sarà di Kim nel Sentiero: è il continuo interrogatore delle ragioni individuali degli uomini. Gracco è «curioso» dei «perché» (al plurale) gli uomini del Gap si trovano a combattere, i motivi per cui hanno scelto la violenza: «Perché quei due giovani avevano a che fare con dei mitragliatori? I loro interessi erano semplici, pacifici; né era accaduto loro personalmente nulla che li spingesse alla disperazione. Perché prendevano parte a una lotta che esigeva di combattere con la forza della disperazione? Il Gracco era curioso (xxxiv 44)». Si tratta di un punto importante: e il lettore è sempre nell’attesa di una rivelazione ufficiale (si lotta per la liberazione del paese dal fasci-smo, si lotta per il comunismo, si lotta insomma per una giustificazione politica e una parola d’ordine) che invece non viene mai. Allo stesso tempo, anche se la «lotta» esige di combattere «con la forza della disperazione» (tradotta da Calvino nel lemma «furore»), chi combatte non è stato in verità spinto da egoismo, da episodi capitati individualmente che lo hanno portato a reagire perché toccato nel vivo della sua storia privata. Le domande che Gracco fa a se stesso e ai compagni («Perché, ora, lottavano? Perché vivevano come animali inseguiti e ogni giorno esponevano la loro vita? […] Perché lanciavano bombe? Perché uccidevano?») generano solo imbarazzate risposte reticenti, che in apparenza insistono sul non-sapere, sulla non-consapevolezza del personaggio interrogato: «Disse Coriolano nella casa del bastione: «Io non so. Mi sembra che non sarei capace di nulla se non avessi mia moglie con me» | […] «Non sai! Non sai! » Mambrino disse. «Tu sempre non sai. » | «Io non so,» disse Coriolano. | […] Il Gracco era curioso, e se lo domandava. | Perché, se non erano terribili, uccidevano? Perché se erano semplici, lottavano? Perché, senza avere niente che li costringesse, erano entrati in quel duello a morte e lo sostenevano? (xxxviii, 51). La domanda viene rivolta a Gracco stesso: «E dai! » disse Orazio. […] «Tu non lo sai perché tu lo hai scelto?» | «Io lo so,» il Gracco disse. «Io ho il mio motivo.» «E lo stesso motivo abbiamo noi» (xxvi, 47). I motivi sono da riscontrarsi proprio negli «interessi» elementari degli uomini, che non vanno «molto più in là» della coscienza di avere un famiglia, un luogo dove dormire, un compagna: «Essi avevano, ognuno, una famiglia: un materasso su cui volevano dormire, piatti e posate in cui volevano mangiare, una donna con cui volevano stare; e i loro interessi non andavano molto più in là di questo, erano come i loro discorsi. Perché, ora, lottavano? […]» (xxvi, 46). Interessi e discorsi, personaggi e motivazioni personali diventano una cosa unica con la lotta (come per Calvino in La stessa cosa del sangue); l’indagine di Gracco, che « domandava sempre, ma mai trovava l’ultimo perché delle loro cose» se si rivela insufficiente a cogliere il quid esplicito di questi uomini è forse per la riluttanza di Gracco a accettare, e a accogliere, quanto d’elementare e irriducibilmente individuale appare nei loro discorsi (che non riportano nessuna motivazione ufficiale del perché rischiano la vita) Anzi se ne vergognano quasi, come se la retorica della guerra (di liberazione della patria, per alcuni; di liberazione dal nazifascismo; di mutamento delle strutture economiche di classe, per altri) debba far tacere le più intime, più pratiche, più spicciole ragioni, non necessariamente in contrasto con un grande disegno politico finale. Per le citazioni del romanzo vittoriniano, si cfr. Elio Vittorini, Uo-mini e no, Milano, Mondadori, 1986, con l’indicazione del capitolo e della pagina in cui la citazione ha inizio.

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corruzione. Io credo che il nostro lavoro politico sia questo, utilizzare anche la nostra miseria umana, utilizzarla contro se stessa, per la nostra redenzione, così come i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo (ix 152, corsivi nostri).

Innanzitutto, Calvino ammette l’esistenza di «vari significati ufficiali» (già al tempo, individuati: la guerra di liberazione nazionale dall’occupazione tedesca, la guerra civile – contro la dittatura fascista – e appunto la guerra di classe, l’ipotesi rivoluzionaria). Ma l’analisi si concentra sulla prima tappa, sul primo gradino (il più «elementare», e trascurato) di quella lotta, come condicio sine qua non per la realizzazione degli altri significati, tutti deri-vanti da essa: l’individuazione di una liberazione umanitaria, interclassista «di ognuno, nella sua vita» come già l’aveva delineata Vittorini in Uomini e no, affinché sia del «nostro paese, e il mondo» («Che sia di ognuno, e sarà maggiore nel mondo»)117. Nella storia dell’uomo diviso dalla violenza dello scontro di classe, i partigiani della Resistenza sono «dalla parte del riscat-to», i nazi-fascisti «dall’altra»: come spiega Kim a Ferriera, «Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, m’intendi? va perduto, tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. L’altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpertuare quel furore e quell’odio (ix 152, corsivi nostri)» in una catena ciclica: «noi per redimercene, loro per restarne schiavi» (ix 152). Il discorso politico di Kim (in cui tutte le «umiliazioni» di classe sono dichiarate: lo sfruttamento borghese-capitalista dell’operaio, l’ignoranza e l’isolamento del contadino chiuso nel proprio egoismo, l’inibizione piccolo-borghese che porta alla rivalsa sul proletariato) richiede qui, in prima istanza, per arriva-re a concreta soluzione, l’individuamento personale, soggettivo, di quelle

117 Il secondo nucleo testuale del dialogo di Calvino con Vittorini si trova all’interno della famosa sequenza dei morti di Largo Augusto. Le domande individuali di Gracco trovano finalmente soluzio-ne – e la trovano proprio partendo da quanto il sacrificio personale, l’impegno dell’uno nella guerra di resistenza a quanto il nazifascismo rappresenta, diventa automatica risposta per tutti, per l’umanità: se il nazifascismo, come nell’assioma vittoriniano, fa parte dell’uomo e delle sue miserie, allora la lotta diventa anche marchio esistenziale di «redenzione» (questo è il lemma calviniano). I morti nella guerra –sia che combattano come partigiani, siano che vengano uccisi, inermi – insegnano per che cosa sono morti: non tanto per la letterale «liberazione» del paese e del mondo dalla piaga nazifascista, ma per la liberazione (leggi: redenzione, il riscatto) «di ognuno nella sua vita», che sarà poi del paese e del mondo: «“Oh!” il vecchio rispose. “Dobbiamo imparare.” | “Imparare che cosa?” disse Berta. “Cos’è che insegnano?” | “Quello per cui” il vecchio disse, “sono morti.” | Berta chiese al vecchio che cosa intendesse dire, e il vecchio disse che intendeva dire quello per cui accadeva ogni cosa, e per cui si moriva, disse, anche se non si combatteva. | “La liberazione?” disse Berta. | Il vecchio sembrava cer-casse la risposta migliore, guardava davanti a sè con occhi lieti. “Di ognuno di noi” rispose. | “Come, di ognuno?” | “Di ognuno, nella sua vita.” | “E il nostro paese, e il mondo?” | “Si capisce” il vecchio rispose. “Che sia di ognuno, e sarà maggiore nel mondo”» (lxvii-lxviii, 98).

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umiliazioni e lo scatto che permette di usare la propria «miseria umana», la propria «impotenza» contro se stessa, per spezzare la catena. Ma anche senza la consapevolezza politica del perché si combatte, quel gesto di furore che si sfoga in spari contro i fascisti, da solo, non è inutile, bisognerà saperlo inca-nalare in attività socialmente utile (col conseguente lavoro politico).

[…] Kim è affezionato a questi uomini. C’è il riscatto umano che si muove in loro. Quel bambino del distaccamento […] Dicono che sia fratello di una prostitu-ta. Perché combatte? Non sa che combatte per non essere più fratello di una prosti-tuta. E quei quattro cognati «terroni» combattono per non essere più dei «terroni», una gente disprezzata che parla uno strano dialetto. E quel carabiniere combatte per non sentirsi più carabiniere, sbirro alla costole dei suoi simili. Poi Cugino […] dicono che sia impotente perché odia le donne e vuole sempre esser lui a uccidere quelle che fanno la spia…Tutti noi abbiamo un’ impotenza segreta per riscattare la quale combattiamo (ix 155, corsivi nostri).

«Tutti noi», nessuno escluso; ma il mettersi in gioco contro quella miseria e impotenza, da un senso storico alle azioni di ognuno. Così Calvino com-pendierà nel 1964 la propria posizione, polemizzando contro l’attendismo, la neutralità e la non-compromissione (anche intellettuale): «Anche in chi si è gettato nella lotta senza un chiaro perché, ha agito un’elementare spinta di riscatto umano, una spinta che li ha resi centomila volte migliori di voi, che li ha fatti diventare forze storiche attive quali voi non potrete mai sognarvi di essere!»118. Infatti, a capo del testo calviniano rimane il processo attraverso cui si può arrivare alla consapevolezza esplicita delle vere ragioni personali e collettive: «Che ce ne importa di chi già è un eroe, di chi la coscienza ce l’ha già? È il processo per arrivarci che si deve rappresentare! Finché resterà un solo individuo al di qua della coscienza, il nostro dovere sarà di occuparci di lui e solo di lui!»119. (Il riferimento al processo dialettico dell’acquisizione di una coscienza, snodo capitale di questo primo Calvino, è illuminato nella lettera dell’11 luglio 1950 a Motta: «più dei successivi punti d’arrivo conta vedere il mondo trasformarsi per quel tanto che ognuno fa, che ognuno s’in-serisce nel processo per trasformarlo»)120.

Il pericolo semmai – per chi non possiede una visione della lotta di classe e finisce per ignorare come la Storia gli abbia camminato accanto durante la Resistenza – è il pericolo di un nichilismo di ritorno, in cui si è dimenticato «il sistema […] per continuare […] la lunga lotta sempre diversa del riscatto umano», o si è ricaduti nell’egoismo privato, «individualista, e perciò sterile»,

118 Italo Calvino, Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 1192.119 Ivi, p. 1193.120 A Mario Motta, 11 luglio 1950, p. 281.

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fallendo nell’adattamento a un dopoguerra in apparenza pacificato del «furo-re» che aveva sostenuto la Resistenza:

Cosa faranno «dopo», per esempio? Riconosceranno nell’Italia del dopoguer-ra qualcosa fatta da loro? Capiranno il sistema che si dovrà usare allora per continua-re la nostra lotta, la lunga lotta sempre diversa del riscatto umano? […] Ci sarà invece chi continuerà col suo furore anonimo, ritornato individualista, e perciò sterile: cadrà nella delinquenza, la grande macchina dai furori perduti, dimenticherà che la storia gli ha camminato al fianco, un giorno, ha respirato attraverso i suoi denti serrati. Gli ex fascisti diranno: i partigiani! Ve lo dicevo io! Io l’ho capito subito! E non avranno capito niente, né prima né dopo (ix 158, corsivi nostri).

L’esame fatto da Kim, tuttavia, non si arresta a scoprire solo quel «quid» degli uomini «senza coscienza di classe» con la possibile risoluzione dei loro conflitti individuali – il «riscatto», la «redenzione» esistenziale e storica di cui c’è la speranza che rimanga presente agli uomini del dopoguerra (ricono-sciuta, in tempo di pace, in una lotta da condurre con altri mezzi). L’esame dell’intellettuale Kim è anche un auto-esame.

Di Kim, Calvino mostra gli snodi (dialettici) dell’itinerario verso la piena coscienza, di come il personaggio stesso assunto a soggetto-esempio, possi-bilmente universale, di un processo storico concreto arrivi alla «chiarezza» e sicurezza del suo ruolo all’interno della lotta partigiana. Di Kim vengono mostrate le «nebbie», i dubbi e le paure interiori, e come essi siano sconfitti dal raggiungimento di una sicurezza operativa sui «perché» ultimi121, a modo di finale pregresso valido per l’intero romanzo.

L’appello (retrospettivo – del ’54 e ’64) all’elementarietà e alla chiarezza logica delle cause del combattimento va dunque tenuto in mente (e verifica-to) quando si legga, del Sentiero, questo suo cuore duro, il capitolo ix. È lì che l’argomentazione dimostrativa di Calvino insiste su lemmi quali logicità, «sicurezza sulle cause e gli effetti (ix 142)», dialettica e evidenza; è lì che si importano le parole-chiave delle accuse a Hemingway (l’individualismo, l’impotenza e l’egoismo dei suoi personaggi e dell’autore) al fine di offrirne una risoluzione costruttiva, mostrando come la memoria della lettura di Per chi suona la campana – che enfatizza, dell’antifascista Robert Jordan, il tentativo di arrivare alla giustificazione persuasiva delle sue azioni – entri cospicua nel capitolo. Di Robert, infatti, Hemingway traccia più volte i ragionamenti che sempre lo portano a richiedere a se stesso la massima chia-

121 Sul percorso «kipliniano» di Kim commissario di Calvino, e la raggiunta sua autocoscienza (che riflette la raggiunta autocoscienza del personaggio di Kiplin nel romanzo eponimo), si veda Andrea Dini, Il Premio Nazionale «Riccione» 1947 e Italo Calvino, cit., pp. 231-239 e in particolare le p. 234-235; e pp. 252-262, in particolare le pp. 259-262.

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rezza, a bandire i dubbi e le paure tentando di osservare la propria situazione più oggettivamente possibile, con la consapevolezza che, dall’interno della guerra partigiana, l’“io” non è mai declinato da solo, è sempre un “noi” che ha conseguenze collettive:

Senti, disse a se stesso. […] Devo preoccuparmi che le tue idee siano assolu-tamente chiare. Perché se le tue idee non sono assolutamente chiare, non hai diritto di fare tutte le cose che fai; poiché sono tutti delitti e nessun uomo ha diritto di togliere la vita a un altro a meno che non sia per impedire che qualcosa di peggio accada ad altri uomini. Perciò cerca di avere le idee chiare e non mentire a te stesso (PCSLC xxvi, 370, corsivi nostri)122.

Quegli ordini lo irritavano per quello che rappresentavano per lui stesso, e per ciò che rapprensentavano per il vecchio [Anselmo]. Ordini maledettamente scomodi per quelli che dovevano eseguirli. «Non è questo il modo di pensare» disse a se stesso; «tu come gli altri, e non esistono persone alle quali queste cose non debbano capitare. Tu e questo vecchio non contate niente; siete solo strumenti per fare il vostro dovere. Ci sono degli ordini necessari, di cui non avete colpa, e lì c’è un ponte, e quel ponte può diventare una svolta definitiva per il futuro di tutta la razza umana. Come ogni cosa che accade in questa guerra. Tu hai una cosa sola da fare, e devi farla. Una cosa sola, sì, perdio (PCSLC iii 95).

«Ma tu dovrai far saltare quel ponte» egli sentì a un tratto con convinzione assoluta. «non avrai contrordini. Perché per un minuto tu hai visto le possibilità dell’attacco come le vedono quelli che l’hanno ordinato. Sì, tu dovrai far saltare il ponte: egli sentì ora con piena chiarezza. «Qualunque cosa accada ad Andres, non importa.» Mentre discendeva solo, al buio, il sentiero con la convinzione consolante che tutto quello che bisognava fare era a posto per le prossime quattro ore, e con la fiducia venutagli dall’aver pensato a fatti concreti del suo passato, la certezza che avrebbe dovuto far saltare il ponte quasi lo confortò. L’incertezza, quella sempre crescente sensazione di dubbio […] era adesso completamente sparita. «[…] È molto meglio essere sicuri» pensò. «È sempre molto meglio essere sicuri» (PCSLC xxx, 408, corsivi nostri).

Con il commissario di brigata Kim (il quale «studia gli uomini» e con-frontandosi con loro ne «analizza le posizioni», le ragioni) Calvino mostra il percorso intellettuale che dagli «interrogativi irrisolti» sugli individuali «perché» porta alla piena rivelazione (la «chiarezza») del «significato vero», unico, irriducibile a altro, della lotta: l’accettazione di un destino storico di «riscatto umano (ix 155)» testimoniato dalla volontà di combattere il nazi-

122 Ernest Hemingway, Per chi suona la campana, traduzione di Maria Napolitano Martone [1945], Milano, Mondadori, 1985. Ogni citazioni dal romanzo sarà accompagnata dall’abbreviazione PCSLC, dal numero del capitolo e della pagina in cui la citazione ha inizio.

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fascismo, che va inteso come una posizione morale esemplare anche senza una piena coscienza dei suoi addentellati politici – in altre parole, perché scommessa attiva contro ogni «impotenza» e «miseria» alla radice dell’uo-mo. È per questo «antifascismo attivo», concreto, contro «l’antifascismo dell’intelligenza»123 di chi non ha messo in gioco la propria vita, che Calvino riconosce a Hemingway un ruolo benefico.

Nel capitolo ix, Calvino non discute solo il processo possibile (e il suo approdo) esaminando i vari personaggi del distaccamento. Tramite Kim e i suoi monologhi, lo scrittore mostra il movimento dialettico nelle tappe di un itinerario che coinvolge il commissario stesso, che lo porta dai momenti di incertezza e dal dubbio sulla verità delle proprie convinzioni intellettuali e umane, dall’interno della violenza della guerra, al sentimento certo di sereni-tà interiore finale (una cauta, ma raggiunta «sicurezza sulle cause e gli effetti» che vince sugli «interrogativi» prima «irrisolti»), con un andamento narrativo che ci ricorda da vicino le risoluzioni di Robert Jordan, il suo conseguimento di una chiarezza mentale nell’analisi della guerra e del suo ruolo in essa.

Per arrivare a una «definizione di cos’era stata la guerra partigiana»124 per darne un giudizio morale e precisare il «senso storico delle azioni»125 di chi aveva combattuto, sta infatti l’universo della letteratura, che all’«esperienza di vita» si appaia: «ogni esperienza di vita per essere interpretata chiama certe letture e si fonde con esse. Che i libri nascano sempre da altri libri è una verità solo apparentemente in contraddizione con l’altra: che i libri nascano dalla vita pratica e dai rapporti tra gli uomini»126. Le cogitazioni calviniane sui libri di guerra di Hemingway vanno infatti a innestarsi nell’ossatura con-cettuale del Sentiero. Alla lettura di Per chi suona la campana, ci si riconosce non soltanto nel distaccamento poco ortodosso, certo non propagandisti-co, di Pablo e Pilar, tradotto dal Sentiero nell’indisciplinato «reparto tutto composto di tipi un po’ storti» comandato da Dritto127 quale opportunità per un ritratto non edulcorato delle dinamiche interne, personali dei gruppi partigiani128. Bensì – e fondamentalmente- ci si rispecchia nel protagonista

123 Italo Calvino, Hemingway e noi, cit., p. 1313.124 Id., Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 1197.125 Ivi, p. 1198.126 Ivi, p. 1194.127 Ivi, p. 1192.128 Che poi la scelta di una brigata poco ortodossa sia anche riflesso biografico di un’esperienza

fatta sul campo, e non solo artificio letterario, è palese alla lettura del racconto Cinque dopodomani, guerra finita!, pubblicato il 7 novembre 1946 per l’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre: Calvino compara il proprio distaccamento di gente sporca, indisciplinata, litigiosa, «che non sa bene perché è da questa parte e non dall’altra, e pure si batte a morte, carica di furore», con i soldati sovietici della Squadra Internazionale, esemplari, «un mondo sereno che ha già deciso tutto». Cfr. Romanzi e raccon-ti, iii, p. 846. Per come questo raconto entra nella composizione del romanzo, si cfr. Andrea Dini, Il Premio Nazionale «Riccione» 1947 e Italo Calvino, cit., pp. 249-262.

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Robert Jordan, personaggio simbolo dell’accettazione di una missione e di un destino che gli richiedono di porre la propria vita al servizio degli altri, nonostante si disinteressi di rivoluzioni e coscienze di classe129. (La lettura di Robert fatta da Calvino, viste le sue premesse, finisce per essere divergen-tissima da quella di Alicata e Trevisani.) Per questa ragione Robert diviene complicato termine d’identificazione per lo scrittore stesso, col suo passato partigiano, nonché per il suo alter ego cartaceo Kim, entrambi giovani intellettuali borghesi che hanno scelto la lotta armata come espressione di un imperativo morale. Il Sentiero stabilisce dunque un dialogo diretto con Hemingway, inserendosi con la particolare scelta dei personaggi «negativi», «i peggiori possibili», anche nelle polemiche (sollevate dalla stampa di sini-stra) sul ritratto poco glorioso dei partigiani di Per chi suona la campana, attraverso le cui azioni senza pàtina retorica o parole d’ordine ufficiali sono indicate le ragioni private, anche scomode, del coinvolgimento alla difesa della Repubblica contro i falangisti.

La definizione di cosa sia la guerra partigiana per chi la combatte, data da Kim, è da ritrovarsi in una appropriazione, rielaborazione e condensazione originale dei monologhi di Robert Jordan, sommata alle allusioni al dibattito che nei mesi recenti ne aveva accolto la ricezione. I punti di un serrato dia-logo Calvino-Hemingway ci sono tutti: la risposta ai perché della Resistenza degli uomini; il ruolo (rifiutato) all’eroe didascalico, integralmente positivo, eloquente nel richiamo alle parole d’ordine ideologiche; il significato per-sonale della violenza, e il trauma del combattimento; la mancanza di una «prospettiva dell’Ottobre» che dà soluzioni certe (per Hemingway) e, al pari, la mancanza di una coscienza di classe già sviluppata nei personaggi combat-tenti (di Calvino, che gli serve per dimostrare la virtù comunque morale di chi si è gettato nella causa pur senza la certezza degli uomini di un mondo nuovo e «sereno»). La parentela tra il libro di quasi cinquecento pagine di Hemingway che descrive i tre giorni di Robert Jordan prima dell’assalto a un ponte (e ne tiene saldo il punto di vista intellettuale su tutta la vicenda) e le duecento del Sentiero con la storia del bambino Pin e del quasi delin-quenziale reparto del Dritto (col punto di vista dei personaggi ben al di sotto della materia narrata), certo, non potrebbe essere più dissimile. Ma la

129 La posizione anti-ortodossa di Robert Jordan è presentata nettamente: «E che ne pensava vera-mente del nuovo ordine sociale e di tutto il resto? Questo toccava agli altri. Lui, dopo la guerra, aveva ben altro da fare. Faceva questa guerra perché era scoppiata in un paese che amava, perché credeva nella Repubblica ed era convinto che la sua caduta avrebbe resa impossibile la vita a tutti quelli che ci credevano. Per la durata della guerra egli si era sottoposto alla disciplina comunista. Qui in Spagna i comunisti erano la gente più disciplinata e facevano la guerra nel modo più intelligente e sano. Egli accettava la loro disciplina per la durata della guerra perché, nella condotta della guerra, il partito comunista era l’unico il cui programma e la cui disciplina egli potesse rispettare. Quali erano dunque le sue opinioni politiche? Non ne aveva, disse a se stesso» (PCSLC, xiii 222, corsivi nostri).

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lettura del romanzo partigiano di Hemingway porta in campo un numero di interferenze tematiche non secondarie per l’economia concettuale del libro di Calvino. L’identificazione calviniana con Per chi suona la campana («fu il primo libro in cui ci riconoscemmo») si può avanzare non solo perché lo scrittore stesso ci autorizza a ritroso (con la Prefazione 1964), ma perché, al 1946, fanno capo al Sentiero una serie di ‘problemi’ relativi alla narrazione della guerra civile che fino allora (con l’eccezione di Uomini e no) non erano stati affrontati dalla letteratura italiana; e certo non erano stati affrontati nel modo crudo e anti-retorico del romanzo hemingwaiano.

Per chi suona la campana è, in essenza, la storia dell’intellettuale borghese Robert di fronte alla violenza della guerra: tra i temi cruciali affrontati vi è la discussione dei problemi di disciplina, di rendimento militare e di sviluppo di una coscienza politica dei membri dei gruppi resistenti (un esercito che non è un esercito), assieme alla meditazione sulla violenza (franchista, ma anche partigiana) e sulle responsabilità personali che Robert ha verso gli altri uomini del distaccamento (la cui sopravvivenza, o morte, dipende dal successo della sua impresa).

Quest’aspetto è immediatamente palese nella rielaborazione fattane da Calvino nel capitolo ix, che ha al centro l’obiezione del comandante Ferriera a Kim sul rendimento militare di un distaccamento, da quest’ultimo voluto, «di sottoproletari» senza coscienza di classe, formato «tutto da uomini poco fidati, con un comandante meno fidato ancora». Alla vigilia di una battaglia critica per la sopravvivenza dei gruppi partigiani («sarà la decisiva», ix 145) Calvino fa appunto discutere i due personaggi di rendimento militare e disciplina inquadrandoli in una conversazione sul lavoro politico da portare avanti con gli uomini che combattono. L’operaio Ferriera – dalla sua posi-zione avvantaggiata di proletario che comprende sia il valore della guerra di liberazione nazionale al nazi-fascismo che gli effetti della sconfitta di quello (in quanto alle radici dell’imperialismo e del militarismo si trova l’oppressio-ne di classe e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo) – echieggia nel Sentiero le posizioni del sovietico Karhov in Per chi suona la campana. Il quale spiega a Robert il ruolo essenziale della disciplina militare e dell’esigenza dell’osser-vanza di un’ortodossìa ideologica nei gruppi partigiani affinché lo sviluppo di una salda coscienza politica rinnovi negli uomini l’entusiasmo della lotta. Una coscienza politica matura, si osserva, fa da pieno supporto al rendimen-to militare delle brigate in guerra, perché solo essa rivela il fine ultimo per cui si combatte. L’educazione politica del partigiano permette al singolo di comprendere le motivazioni sociali della lotta, contemplarne le finalità gene-rali: ha per suo scopo la misurazione del più ampio impatto civile, collettivo (e non soltanto individuale, d’utilità personale, che ne diventa, in questo

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contesto, ragione secondaria). Per questo, ricorda Karhov a Robert, «un eser-cito che è fatto di elementi buoni e cattivi non può vincere una guerra. Tutti debbono essere portati a un certo livello di sviluppo politico, tutti devono sapere perché stanno combattendo e l’importanza della lotta. Tutti debbono credere nella battaglia che debbono combattere e tutti debbono accettare la disciplina (PCSLC xviii 312». L’argomentazione causale è stringente: tutti, nessuno escluso; ogni individuo deve sapere, credere, combattere, accettare; e l’unico modo è dimenticare le ragioni private, proprie (tattiche, se si vuole) e abbracciare i fini ultimi (strategici) dimenticando se stesso. È una posizione, questa, che Robert accetta da un punto di vista militare («per la durata della guerra, egli si era sottoposto alla disciplina comunista»), ma da cui esclude, anzi, rifiuta, un processo a senso unico di sviluppo della sua coscienza politica. Nel suo romanzo, per bocca di Kim, Calvino rifiuta la posizione totalitaria di Karhov, se «l’importanza della lotta» e dei suoi perché non ten-gono di conto l’orizzonte concreto, individuale, del combattente, dell’uomo da cui si deve partire (non dalle teorie). Per questo si capovolgono i capi del ragionamento: la ricerca di una felicità personale (tema alquanto americano del pursuit of happiness) va fatta sposare al dovere sociale e civile «verso gli oppressi di tutto il mondo», «contro ogni tirannìa» (PCSLC xviii 301) per il ruolo trasformativo che ha la lotta per l’uomo impegnato a combatterla. La ricerca della felicità (di sè) è vista finanche nell’atto dell’amore dell’altro – tutti elementi che danno chiarezza (lemma chiave) ai perché di quest’im-pegno resistenziale, i quali hanno come risultato la spinta dell’individuo al pragmatico fare (e fare bene) a nome di un dovere morale che va al di là del proprio tornaconto (non è fine a se stesso)130.

130 Il terzo nucleo testuale di Uomini e no che ha un impatto decisivo sul Sentiero si trova ai capitoli viii-ix, ed è di nuovo nella forma di un’interrogazione, questa volta di Selva, la vecchia compagna che offre rifugio a Enne 2 e Berta durante un rastrellamento. Selva pone al centro del senso della lotta partigiana, come suo fine ultimo, la ricerca della felicità dell’uomo: «Noi lavoriamo perché gli uomini siano felici. […] Bisogna che gli uomini siano felici. Che senso avrebbe il nostro lavoro se gli uomini non potessero essere felici? […] Avrebbero senso i nostri giornaletti clandestini? Avrebbero un senso le nostre cospirazioni? […] E i nostri che vengono fucilati! Avrebbero un senso? Non avrebbero un senso. […] C’è qualcosa al mondo che avrebbe un senso? Avrebbero un senso le bombe che fabbrichiamo? […] Bisogna che gli uomini possano esser felici. Ogni cosa ha un senso solo perché gli uomini siano felici. Non è solo per questo che le cose hanno un senso? (viii, 12-13, passim)». La «felicità della gen-te» passa dalla necessità dell’amore: nella sua accezione, qui, di conoscenza concreta, anche sessuale, dell’altro. Dell’avere, cioè, una compagna –come condizione di partenza per comprendere quello di cui gli uomini hanno bisogno (ricordiamo, dunque, il legame che si stabilirà con l’affermazione di Orazio sulla lotta come mezzo per affrettare il matrimonio, o per Coriolano la necessita di portarsi dietro la moglie nella clandestinità – l’avere con sè la moglie gli ricorda il perché della lotta, altrimenti non ‘saprebbe’ perché fa quello fa): «[…] Noi per questo lottiamo. Perché gli uomini siano felici. […] È molto semplice,” disse Selva. “Un uomo che lotta perché gli uomini siano felici deve sapere tutto quello che occorre agli uomini per essere felici. E deve avere una compagna. Dev’essere felice con la sua compagna (lx, p. 84)».

Calvino, Hemingway e «Per chi suona la campana»

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In Per chi suona la campana è infatti l’amore che Robert sviluppa per Maria che lo porta alla chiarezza: fa parte del suo processo di auto-coscienza, gli fa accettare il proprio destino, lo rende consapevole che quel destino è un destino di liberazione umana, individuale e poiché individuale, maggior-mente collettivo. Maria è l’altro-da sé, esempio concreto per la cui felicità (di donna, di essere umano) bisogna lottare e che nella lotta gli fa raggiungere il grado di certezza di dove si deve e si vuole andare (per parafrasare ancora una volta il Calvino del 1950, che sottolinea nella lettera a Motta le tappe dell’impegno pratico di uomo soggetto storico attivo):

[…] il suo cervello pensava ora al problema del ponte e ogni cosa era chiara e dura e nitida come quando la lente di un apparecchio è messa a fuoco. Egli vedeva i due posti di guardia e Anselmo e lo zingaro che li sorvegliavano. Vedeva la strada vuota e la vedeva piena di truppe. Vedeva dove avrebbe messo le due mitragliatrici per ottenere un campo di fuoco più livellato che fosse possibile. […] Collocava le cariche, le incastrava e le legava, affondava le capsule e le comprimeva, tendeva i fili, li fissava fermamente e poi tornava al posto dove aveva lasciato la vecchia scatola dell’esploditore e cominciava a pensare a tutte le cose che potevano succedere e che potevano andar storte. «Basta!» disse a questo punto a se stesso. «hai fatto l’amore con questa ragazza e adesso il tuo cervello è chiaro, veramente chiaro, ed ecco che cominci a preoccuparti. Altro è pensare a quello che devi fare, e altro è preoccu-parti. Non ti preoccupare. Non devi preoccuparti. Sai quello che potrai fare e sai quello che può accadere» (PCSLC xiii 220, corsivi nostri).

[…] e, dimmi, faccio bene ad amare Maria? «Sì» rispose a se stesso. Anche se una cosa come l’amore non può essere ammessa in una concenzione puramente materialistica della società? Quando mai hai avuto una simile concezione? Egli stesso si domandò. Mai. E non avresti nemmeno potuto averla. Tu non sei un vero marxista e lo sai. Tu credi nella Libertà, nell’Eguaglianza e nella Fraternità. Credi nella Vita, nella Libertà e nella Ricerca della Felicità. Bada a non confonderti trop-po con la dialettica. La dialettica va bene per certuni, ma non per te. Bisogna inten-dersene, per non essere messo nel sacco. Tu hai messo temporaneamente molte cose in second’ordine per vincere la guerra. Se questa guerra sarà perduta, tutte quelle cose saranno perdute. Ma in seguito potrai scartare le cose nelle quali non credi. Ci sono una quantità di cose in cui non credi e una quantità di cose in cui credi. Un’altra cosa. Non prendere mai alla leggere l’amore. La verità è che la maggior parte della gente non ha mai avuto la fortuna di amar qualcuno. Tu non l’avevi mai avuta sinora, questa fortuna, e ora l’hai. Quello che tu e Maria avete, che duri solo oggi e una parte di domani, o duri tutta una lunga vita è la cosa più importante che può capitare a un essere umano. Ci saranno sempre persone che diranno che non esiste perché non possono averla. Ma io ti dico che è vero, che tu la possiedi e che sei fortunato, anche se domani morrai (PCSLC xxvi 370).

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È questa «primordiale dialettica di morte e di felicità»131 che rafforza lo scopo dell’impegno di Robert nella guerra, della sua missione: proprio attra-verso delle ragioni che si fanno individuali, personali (l’amore dell’altro) s’il-luminano e si chiarificano le ragioni della lotta che, di conseguenza, diventa una «cosa esatta», in cui ogni elemento deve stare al suo posto per la sua risoluzione a buon fine. Non solo: questa chiarezza porta anche a eliminare le paure (di cui si riconosce la natura irrazionale, immaginaria); e a conoscere e accettare il proprio destino, qualsiasi esso sia («Sai quello che potrai fare e sai quello che può accadere»), nella consapevolezza che l’agire individuale, in questo contesto, non si ferma all’individuo (che compie le azioni), ma ha una risonanza collettiva: anche la morte propria («sai quello che può accadere») è soltanto «una cosa da evitarsi, solo perché avrebbe ostacolato l’adempimento del proprio dovere».

«Sai che fino a che ti ho incontrata non avevo mai chiesto nulla? Né desiderato niente? Né pensavo a niente tranne al movimento e a vincere questa guerra? Sono veramente stato un puro. Ho lavorato molto e ora ti amo» diss’egli abbandonadosi completamente a tutto ciò che non sarebbe mai stato, «ti amo come amo tutto ciò per cui abbiamo combattuto. Ti amo come amo la libertà e la dignità e il diritto di tutti gli uomini di lavorare e di non aver fame. Ti amo come amo Madrid che abbiamo difesa e come amo tutti i miei camerati che sono morti. E ne sono morti molti. Molti. Molti. Tu non puoi sapere quanti. Ma io ti amo di più. Ti amo molto, coniglietto. Più che non possa dirti. Ma ti dico ora questo per dirtelo un poco. Non ho mai avuto una moglie ed ora ho te per moglie e sono felice» (PCSLC xxxi 416, corsivi nostri)

L’amore per Maria re-inquadra dunque la lotta, la rende più urgente e ne palesa le ragioni («Ti amo come amo la libertà e la dignità e il diritto di tutti gli uomini di lavorare e di non aver fame»). La felicità che deriva dall’amore (un amore personale, e concreto: conoscenza intima, anche sessuale, dell’al-tro; e più forte, nei fatti, all’amore ideale per i compagni del movimento o per Madrid e il paese per cui si combatte) però rafforza, non diminuisce, la sua determinazione a «vincere questa guerra»: quell’amore (privato) ha diritto completo di vita e cittadinanza solo all’interno del paese (collettivamente) liberato. Un aspetto palese già nelle riflessioni sulle sue pesanti responsabi-

131 È l’espressione con cui nella sua Prefazione 1964 Calvino saluta, appropriatamente, Uomini e no, il romanzo più hemingwaiano di Vittorini (Italo Calvino, Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 1191). Ma tutti gli interrogativi di Selva andranno a cadere dritti anche nel Sentiero, dove attraverso Kim si da una risposa analoga alle ragioni del combattere, che sono anche le ragioni dell’amore: amore di sé (la propria redenzione personale), e amore dell’altro, che letteralmente diventa l’operare per l’amore della compagna, per la felicità del prossimo (l’inserimento all’interno del suo mo-nologo del richiamo «Ti amo Adriana», che chiude anche il capitolo, ha senso solo in questo contesto). Per Uomini e no e la parentela con Per chi suona la campana, si veda almeno Sergio Pautasso, Guida a Vittorini, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1977, p. 169.

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lità di partigiano, alla vigilia di un attentato che avrebbe causato più aspri combattimenti nella zona (e più persecuzioni per la gente schierata con la Resistenza a Franco):

Qualunque cosa facciano, i partigiani portano, alla gente che offre loro asilo e collabora con loro, nuovi pericoli e sventure. Perché? Perché un giorno ogni peri-colo sia vinto e il paese sia un posto dove si viva bene. Questo era vero anche se suonava banale. Se la Repubblica avesse perduto la guerra non ci sarebbe stato più posto in Spagna per quelli che ci avevano creduto […] poiché sapeva quello che era accaduto nelle regioni già prese dai fascisti (PCSLC xiii 222).

6. Non si tratta quindi di stabilire una tassonomia di corrispondenze e misurare scarti e identità tra i due testi, quanto piuttosto di leggerne la provenienza con l’occhio rivolto a due variabili: i fatti del giorno (la cronaca dell’autunno 1946, con la crisi politico-economica che accompagna l’azione ritardata delle sinistre nel governo di coalizione, durante la ricostruzione nazionale, testimoniata dalle disillusioni degli ex-partigiani); e il dibattito di natura politico-letteraria, impossibile da ignorare, accesosi tra il maggio-giu-gno e l’agosto 1946 su «Rinascita» e «Politecnico» in merito a Hemingway e ai doveri degli scrittori, che spiega l’utilizzazione particolare di Per chi suona la campana nel Sentiero. Come già delineato in precedenza, l’Hemingway scrittore e uomo è assolto per l’incontrovertibile antifascismo del suo coin-volgimento nella lotta spagnola, ma condannato (in una lettura riduttiva) perché i suoi personaggi (e lui stesso) stanno al di là di un esplicito impegno rivoluzionario: sono mossi, si argomenta, da un impegno “individualista”, un operare solo a proprio vantaggio, dunque per egoismo personale (che è sterilità storica perché l’esempio che si provvede con il personaggio rima-ne fuori dall’alternativa posta dalla realtà sovietica, con la sua enfasi sulla responsabilità sociale, alla società borghese del singolo). Si chiede insomma a Robert Jordan di possedere una coscienza (marxista) già formata; e cosa risponda Calvino a questa richiesta propagandistica, è palese dalla scelta dei suoi personaggi nel Sentiero, commissario politico Kim incluso.

La «doppia polemica»132 calviniana – a destra, contro la «rispettabilità benpensante»133 a proposito degli sbandamenti dei partigiani nel dopoguer-ra; a sinistra, contro la «direzione politica»134 della letteratura – non deve però far perdere di vista il tentativo sincretico attuato. Col Sentiero siamo infatti di fronte al notevolissimo esperimento di un romanzo che salvi la

132 Italo Calvino, Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 1193.133 Ivi, p. 1192.134 Ivi, p. 1193.

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capra (socialista) coi cavoli (dell’impegno «individuale»). O, in altre parole, coniughi la fiducia in un paese forse senza miseria umana, dove la vittoria del proletariato e la fine della lotta di classe hanno annullato le ragioni socio-economiche dell’infelicità individuale (in un processo tutto da costruire per l’Italia) con la più elementare, anche a-ideologica scelta di campo contro ciò che il fascismo rappresenta per l’uomo. Il tentativo calviniano è di non escludere come «forza storica attiva» chi ancora la coscienza non ce l’ha, se l’individuo si è comunque gettato nella lotta scegliendo l’impegno anti-fascista, primo gradino di una ricostruzione morale (e poi politica).

Di Robert e di Per chi suona la campana Calvino tiene presente i punti di forza irriducibili: l’etica del fare e la coerenza morale, che tengono presente «il senso storico delle azioni di ognuno di noi»135.

Per valutare appieno il modo in cui Calvino rielabora di Hemingway tutta la controversia sulla sua “utilità” giova tornare, a nostro parere, al numero 5-6 di «Rinascita». Poche pagine dopo la sezione in cui compare l’attacco di Alicata, è trascritta la lettera-testamento di Giaime Pintor136, giovane intellettuale borghese antifascista (classe 1919), in cui sono giustificate le ragioni dell’impegno partigiano (la scelta delle armi, della violenza sopra le tradizionali ragioni della penna). La lettera rintraccia il «senso morale…della mobilitazione» armata, nella quale risulta chiarito il perché del «sacrificare tutto a un’unica esigenza rivoluzionaria»:

È questo il senso morale, non tecnico, della mobilitazione: una gioventù che non si conserva «disponibile», che si perde completamente nelle varie tecniche, è compromessa. A un certo momento gli intellettuali devono essere capaci di trasferire la loro esperienza sul terreno dell’utilità comune, ciascuno deve sapere prendere il suo posto in una organizzazione di combattimento. Questo vale soprattutto per l’Italia. […] Oggi in nessuna nazione civile il distacco fra le possibilità vitali e la condizione attuale è così grande: tocca a noi di colmare questo distacco e di dichiarare lo stato d’emergenza. Musicisti e scrittori dobbiamo rinunciare ai nostri privilegi per contri-buire alla liberazione di tutti. […] Oggi sono riaperte agli italiani tutte le possibilità del Risorgimento: nessun gesto è inutile purché non sia fine a se stesso137.

Subito prima, riepilogando la sua parabola biografica e ideologica, Pintor aveva spiegato:

[…] la guerra, ultima fase del fascismo trionfante, ha agito su di noi più profondamente di quanto risulti a prima vista. La guerra ha distolto materialmente gli uomini dalle loro abitudini, li ha costretti a prendere atto con le mani e con gli

135 Ivi, p. 1198.136 Giaime Pintor, L’ultima lettera, in «Rinascita», n. 5-6, maggio-giugno 1946, p. 120.137 Ivi, p. 119. Corsivi nostri.

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occhi dei pericoli che minacciano i presupposti di ogni vita individuale, li ha per-suasi che non c’è possibilità di salvezza nella neutralità e nell’isolamento. […] Senza la guerra io sarei rimasto un intellettuale con interessi prevalentemente letterari: avrei discusso i problemi dell’ordine politico, ma soprattutto avrei cercato nella storia dell’uomo solo le ragioni di un profondo interesse, e l’incontro con una ragazza o un impulso qualunque alla fantasia avrebbe contato per me più di ogni partito o dottrina. […] Altri amici, meglio disposti a sentire immediatamente il fatto politi-co, si erano dedicati da anni alla lotta contro il fascismo. Pur sentendomi sempre più vicino a loro, non so se mi sarei deciso a impegnarmi totalmente su quella stra-da: c’era in me un fondo troppo forte di gusti individuali, d’ indifferenza e di spirito critico per sacrificare tutto questo a una fede collettiva. Soltanto la guerra ha risolto la situazione, travolgendo certi ostacoli, sgombrando il terreno da molti comodi ripari e mettendomi brutalmente a contatto con un mondo inconciliabile138.

Due gli aspetti qui da rimarcare: una «fede collettiva» trovata dopo la scel-ta delle armi, combattendo per la «liberazione di tutti», scartando i privilegi di classe e appartenendo finalmente a «un’organizzazione di combattimento» dopo la timidezza e i rifiuti individualisti; un’«utilità comune» individuata al di là della miopia della propria esperienza personale e il fatto che nessun gesto, nessun impegno concreto di chi combatte sia da scartare «purché non sia fine a se stesso» (operato esclusivamente per il sè, il proprio tornaconto).

Sta forse qui, in questa lettura, la chiave di volta dell’interpretazione (e riabilitazione) calviniana dei gesti di Robert Jordan accusato, con il suo autore, di egoismo, invidualismo, impotenza, di non essere rivoluzionario, ecc. (dunque, della fondamentale inutilità pedagogica dell’esempio); una riabilitazione che può avvenire, per quel personaggio, pur nell’assenza del raggiungimento di «una fede collettiva» (passo ulteriore, non condizione essenziale dell’impegno partigiano). Il sacrificio di Robert, che deve fare saltare un ponte con la piena coscienza che «quel ponte può diventare una svolta definitiva per il futuro di tutta la razza umana» (PCSLC iii 95), avvie-ne di fatto per una causa accettata (la sopravvivenza della Repubblica). La quale va, letteralmente, oltre se stesso, in quanto Robert si rifiuta di mettere la propria salvezza personale per prima e venire meno al proprio dovere. L’individualismo apparente di Robert trova cittadinanza nella teorizzazione dell’impegno partigiano del Sentiero perché il suo atto di combattere non ha, al contrario di quanto sottolineato da Trevisani o Alicata, radici egoistiche o irresponsabili (come non è atto d’irresponsabilità prendere a protagonista del romanzo un personaggio che si allontana dalla concenzione del perso-naggio positivo di allora). Nonostante mostri disinteresse per le teorizzazioni sul nuovo ordinamento sociale di una vittoriosa Repubblica, il personaggio, grazie a questo atto altruistico, diventa redimibile. Una volta alle prese col

138 Ibidem. Corsivi nostri.

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suo romanzo, Calvino salva anche l’individualismo non rivoluzionario, se «scende sul terreno dell’utilità comune», in quanto, come sottolineato da Pintor, «nessun gesto è inutile purché non sia fine a se stesso». La liberazione individuale dai propri complessi, umiliazioni e dubbi, insegnata dal com-battimento, porta alla «redenzione» perché in sé è un’azione qualificatrice che finisce per divenire liberazione di tutti. Ha un significato sociale, per translato, perché anche chi si è messo nella lotta senza consapevolezza ultima contribuisce al suo successo.

Questa ragione resistenziale – e esistenziale – coincide con quella di Robert che Hemingway così sottolinea, senza ambiguità, in Per chi suona la campana:

Uno sentiva, a dispetto di tutta la burocrazia e l’incapacità e le liti di partito, qualcosa come il sentimento che uno si aspettava di avere e che non aveva avuto quando aveva fatto la prima comunione. Era il sentimento di consacrarsi a un dovere verso gli oppressi di tutto il mondo, di cui era difficile e imbarazzante parlare, così come di un’esperienza religiosa; e tuttavia era autentico come il sentimento che si prova ascoltando Bach, o quando nella cattedrale di Chartres o nella cattedrale di Leon si vede la luce penetrare attraverso le grandi finestre, o quando uno guarda i Mantegna, i Greco e i Brueghel al Prado. Uno aveva la sensazione di partecipare a qualche cosa in cui poteva credere interamente, completamente e nella quale sentiva un’assoluta fratellanza con tutti gli altri partecipanti. Era qualcosa che non aveva mai conosciuto prima, ma ora la provava, e uno dava tanta importanza a quel sentimento e ai suoi motivi che la sua stessa morte gli sembrava assolutamente irrilevante; una cosa da evitarsi, solo perché avrebbe ostacolato l’adempimento del proprio dovere. Ma la cosa migliore era che quel sentimento e quella necessità si potevano esprimere in qualche modo: combattendo (PCSLC xviii 299, corsivi nostri).

A romanzo pubblicato, nel dicembre 1947, Calvino riassumerà i termini del nodo-Hemingway come «il problema della responsabilità dell’uomo di fronte alla storia, il problema che è quello vero di noi oggi»139, da inquadra-re in una «enunciazione di una moralità nell’impegno, d’una libertà nella responsabilità che mi sembrano l’unica moralità, l’unica libertà possibili»140. È questo il nòcciolo messaggio hemingwaiano del Sentiero, la ragione per cui Per chi suona la campana può diventare libro in cui Calvino e gli altri scrittori usciti dalla Resistenza si riconoscono immediatamente, prima di ogni altro (astratto, ortodosso) significato ufficiale.

139 A Elio Vittorini, 12 dicembre 1947, p. 209.140 Ibidem.