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5 INTRODUZIONE «Se voi mi avete seguito fino a questo punto, allora comprenderete già in questo momento che cosa intendevo intitolando queste lezioni Religione come Presenza. Adesso siamo nalmente arrivati al primo signicato di questa parola. C’è presenza nella vita nella misura in cui e solo nella misura in cui c’è relazione, c’è Tu, c’è rela- zione a un Tu. Da questa relazione, solo da una tale relazione sorge la presenza. Quando qualcosa ci viene incontro e si pone di fronte a noi, sorge l’esclusiva presenza» 1 . 1 Religion als Gegenwart, Religione come presenza, è il titolo di un ciclo di otto lezioni che Martin Buber tenne al Freies Jüdische Lehrhaus 2 di Francoforte sul 1 Infra, p. 121. 2 Sulla attività di Buber a Francoforte, vedi A. Meyer, R. Meyer, Martin Bubers Mitarbeit am Freien Jüdischen Lehrhaus in Frankfurt, in AA.VV., Leben als Begegnung: ein Jahrhundert Martin Buber (1878-1978); Vorträ- ge und Aufsätze, Inst. Kirche und Judentum, Berlin 1982, e, soprattutto, N. Glatzer, The Frankfurt Lehrhaus, in Leo Baeck Institute Year Book, N. 1 (1956), pp. 105-122. Si veda inoltre W. Schottroff, Martin Buber an der Uni- versität Frankfurt am Main, nel volume a cura di D. Stoodt, Martin Buber – Erich Foerster – Paul Tillich: Evangelische Theologie und Religionsphi- losophie an der Universität Frankfurt am Main 1914 bis 1933, Lang, Frank- 01 Introduzione.indd 5 01 Introduzione.indd 5 04/05/12 11.34 04/05/12 11.34

BUBER Religione come Presenza

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INTRODUZIONE

«Se voi mi avete seguito fino a questo punto, allora comprenderete già in questo momento che cosa intendevo intitolando queste lezioni Religione come Presenza. Adesso siamo fi nalmente arrivati al primo signifi cato di questa parola. C’è presenza nella vita nella misura in cui e solo nella misura in cui c’è relazione, c’è Tu, c’è rela-zione a un Tu. Da questa relazione, solo da una tale relazione sorge la presenza. Quando qualcosa ci viene incontro e si pone di fronte a noi, sorge l’esclusiva presenza»1.

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Religion als Gegenwart, Religione come presenza, è il titolo di un ciclo di otto lezioni che Martin Buber tenne al Freies Jüdische Lehrhaus2 di Francoforte sul

1 Infra, p. 121.2 Sulla attività di Buber a Francoforte, vedi A. Meyer, R. Meyer, Martin

Bubers Mitarbeit am Freien Jüdischen Lehrhaus in Frankfurt, in AA.VV., Leben als Begegnung: ein Jahrhundert Martin Buber (1878-1978); Vorträ-ge und Aufsätze, Inst. Kirche und Judentum, Berlin 1982, e, soprattutto, N. Glatzer, The Frankfurt Lehrhaus, in Leo Baeck Institute Year Book, N. 1 (1956), pp. 105-122. Si veda inoltre W. Schottroff, Martin Buber an der Uni-versität Frankfurt am Main, nel volume a cura di D. Stoodt, Martin Buber – Erich Foerster – Paul Tillich: Evangelische Theologie und Religionsphi-losophie an der Universität Frankfurt am Main 1914 bis 1933, Lang, Frank-

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Meno, allora diretto dall’amico Franz Rosenzweig. Questo testo, stenografato in duplice copia e conservato nell’archivio Buber di Gerusalemme, è stato pubblica-to per la prima volta nel 1978, a cura di Rivka Hor-witz3. Religion als Gegenwart costituisce un documento di indubbio valore: ci consegna un vivido affresco del pensatore viennese come docente, ma soprattutto si ri-vela uno snodo centrale nell’evoluzione del Denkweg buberiano. Accanto a termini propri di Daniel, come la fondamentale contrapposizione tra orientamento e rea-lizzazione, che comparirà per l’ultima volta nelle sue pagine proprio in questa sede, è possibile evidenziare tutta una serie di prodromi del capolavoro buberiano Io e Tu, pubblicato pochi mesi dopo. Buber vi lavorava fi n dal 19164, e questi «prolegomeni a una fi losofi a della religione»5 ne rappresentano l’indubbia cellula madre.

furt am Main 1990, pp. 69-132. Sull’attività del Lehrhaus di Francoforte si veda W. Licharz, Lernen und Lehren im Jüdischen Lehrhaus, Haag Herchen, Frankfurt am Main 1991.

3 R. Horwitz, Buber’s way to «I and Thou»: an historical analysis and the fi rst publication of Martin Buber’s lectures «Religion als Gegenwart», Lambert Schneider, Heidelberg 1978. A tale edizione ci siamo più volte richiamati per l’apparato di note, davvero prezioso nell’individuare i fre-quenti paralleli tra i luoghi testuali delle lezioni francofortesi ed il testo defi nitivo di Io e Tu. Analogamente, ne abbiamo ripreso l’attribuzione dei titoli e la suddivisione in paragrafi . Il testo è disponibile anche in una tradu-zione inglese, curata da Esther Cameron (The Jewish Publication Society, Philadelphia 1988).

4 R. Horwitz, Introduction, in Id., Buber’s way to I and Thou, cit., p. 20. Al lungo cammino di gestazione del capolavoro buberiano è dedicata la seconda sezione del citato volume, The history and development of I and Thou, pp. 155-241.

5 Così Buber stesso qualifi cava queste lezioni, come leggiamo in R. Hor-witz, ibi, p. 22 e nella relativa nota 25.

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Nondimeno, è interessante cogliere come Religion als Gegenwart fosse il titolo onnicomprensivo per una più ampia opera, progettata ma mai realizzata da Buber, che avrebbe dovuto abbracciare la totalità di quelle Ur-formen des religiöse Leben6, forme originarie della vita religiosa, alla luce della contrapposizione tra religione e religiosità che Buber ricevette direttamente dalle aule berlinesi di G. Simmel7. Un ulteriore motivo d’interes-se, su cui avremo modo di insistere, è di ordine erme-

6 Ibi, p. 210. Il manoscritto buberiano ivi riprodotto mostra la seguente articolazione: Bücherreiche: Religion als Gegenwart. I. Ich und Du. II. Die Urformen des religiösen Lebens. III. Die religiöse Person. IV. Die Religio-nen. V. Die religiöse Kraft und unsere Zeit. Segue una seconda articolazione, relativa alla prospettata sezione Das religiöse Leben: 1. Die Offenbarung. 2. Die Weihe (Mysterium). 3. Der Dienst (Opfer und Gebet). 4. Die Kunde (Mythos-Dogma). 5. Die Lehre. 6. Das Gemeinde. 7. Das Reich. Una terza ed ultima articolazione avrebbe invece istituito una contrapposizione tra Die Urformen und die Magie.

7 Cfr. G. Simmel, La religione, in Id., Saggi di sociologia della reli-gione, Borla, Roma 1993; oppure, G. Simmel, La religione, Bulzoni, Roma 1994. Questo testo, che Buber stesso inserì nel 1906 nelle pubblicazioni della collana Die Gesellschaft, di cui era redattore, sarà di fondamentale impor-tanza per la formazione del suo pensiero. Buber aveva già avuto modo di seguire tre cicli di lezioni del grande sociologo: Sommersemester 1898, Lo-gik und Erkenntnistheorie; Wintersemester 1899/1900, Philosophie des 19. Jahrhunderts; Wintersemester 1900/1901, Ethik und Sozialphilosophie. (Cfr. Anhang: Aufstellung der von Buber 1896-1901 belegten Universitätsveran-staltungen, appendice al primo volume della Martin Buber Werkausgabe: Frühe kulturkritische und philosophische Schriften 1891-1924. Bearbeitet, eingeleitet und kommentiert von M. Treml, Gütersloher Verlagshaus, Güter-sloh 2001). Sul rapporto tra il pensiero di Buber e quello di Simmel segna-liamo lo studio di H. Kress, Religiöse Ethik und dialogisches Denken: das Werk Martin Bubers in der Beziehung zur Georg Simmel, Gütersloher Ver-lagshaus Mohn, Gütersloh 1985. La prefazione buberiana ai volumi di Die Gesellschaft è riportata da P. Mendes-Flohr in appendice al suo fondamentale studio Von der Mystik zum Dialog. Martin Bubers geistige Entwicklung bis hin zu «Ich und Du», Jüdischer Verlag, Königstein / Ts, 1979.

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neutico: l’ipotesi di una centralità del problema della presenza come chiave di lettura del pensiero buberiano troverebbe qui il luogo d’una esplicita formulazione. Forse è proprio il problema della presenza quello che può, meglio di qualunque altro, mostrarci la continuità tra il cosiddetto «Buber predialogico» e le sue opere più mature, attraverso l’identifi cazione della Shekinah con la presenza che viene esplicitamente affermata durante queste lezioni8.

Oltre ad un primo riferimento, offertoci dallo scam-bio epistolare tra Buber e Rosenzweig tra l’8 ed il 9 di-cembre 19219, il fi losofo viennese fa esplicita menzione a Religion als Gegenwart nel suo scritto Per la storia del pensiero dialogico, dove possiamo leggere come «la redazione defi nitiva [di Io e Tu] fu terminata nella pri-mavera del 1922, dopo aver esposto, nel gennaio e feb-braio del 1922, gli sviluppi del mio pensiero in un corso su «Religione come presenza» tenuto al Freies Jüdische Lehrhaus»10. Allo stesso modo, in Incontro. Frammenti autobiografi ci, Buber porrà Religion als Gegenwart in relazione con la sua opera maggiore:

8 Infra, p. 178. A tale proposito ci sia consentito il rimando al nostro vo-lume F. Ferrari, Presenza e relazione nel pensiero di Martin Buber, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2012.

9 M. Buber, Briefwechsel aus sieben Jahrzehnten, Herausgegeben und eingeleitet von G. Schaeder in Beratung mit E. Simon und unter Mitwirkung von R. Buber, M. Cohn und G. Stern, Vol. II, Lambert Schneider, Heidelberg 1973, pp. 92, 93.

10 M. Buber, Per la storia del pensiero dialogico, in Id., Il pensiero dia-logico e altri saggi, tr. it. di A.M. Pastore, a cura di A. Poma, San Paolo, Cinisello Balsamo 1993, p. 324.

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«Potei infi ne lavorare alla versione defi nitiva, terminandola nella primavera del 1922, dopo che ne avevo presentato le argomentazioni nel gennaio e febbraio 1922 in un seminario su religione come presenza»11.

Le otto lezioni che costituiscono Religion als Ge-genwart sono divisibili in due gruppi.

Il primo comprende le prime tre lezioni, ed è una vera e propria pars destruens, dove Buber afferma la necessità di emancipare la religione da tutte quelle in-gerenze, indebite ed aggressive, che altre sfere della vita spirituale esercitano su di lei. Queste tentano di attuarne una relativizzazione, altra da quella che il fe-nomeno religioso incontra necessariamente nel proprio dispiegarsi storico. Si tratta qui di affrontare i diversi riduzionismi che minano l’autonomia della religione. Si va dalla riconduzione della religione alla biologia, all’appropriazione della religione da parte del naziona-lismo; dalla riduzione della religione a prodotto della cultura piuttosto che dell’arte, alla supposta dipenden-za della religione dall’etica, quando non dalla scienza; infi ne, caso ultimo, e, probabilmente, il più insidioso in assoluto, il tentativo di una riduzione della religio-ne alla psicologia, attraverso la nozione di sentimen-to, con particolare riferimento allo schleiermacheriano sentimento di dipendenza assoluta. Questo, vedremo, offrirà la possibilità a Buber di concepire il termine «anima» in quanto «nient’altro che la relazione dell’es-sere umano al mondo, alle cose, alle essenze, agli uo-

11 M. Buber, Incontro. Frammenti autobiografi ci, traduzione di A. Fran-ceschini, a cura di D. Bidussa, Città Nuova, Roma 1994, p. 90.

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mini, all’essere, a se stesso»12; questa concezione di anima in quanto relazione assumerà così una posizione centrale, sarà «un presupposto essenziale»13 del dispie-garsi del fenomeno religioso in quanto Seinsbindung. A fronte di tutte queste tendenze, particolarmente in-vasive agli albori del XX secolo – e tali nondimeno tuttora – che fanno della religione «qualcosa di rela-tivo», Buber dispiega il tentativo di un’autoafferma-zione della religione, oppure, per meglio dire, «del religioso» – das Religiöse è un termine che ricorrerà assai sovente nelle prime tre lezioni che andiamo pre-sentando – sostenendo la necessità di riaffermare «la religione come qualcosa di assoluto», non in un senso egemonico e dogmatico, bensì affermando come essa debba essere sciolta da tutti quei legami che queste sfe-re pretendono da lei. La «religione come qualcosa di assoluto» di Buber diventerà allora l’affermazione di una religiosità che non si lascia riassorbire, e, quindi, negare, dalle sabbie mobili di un positivismo che nega ad essa la possibilità di essere, per usare un’espressione del fi losofo genovese A. Caracciolo, struttura e modo autonomo della coscienza14. Con queste affermazioni possiamo comprendere come la vis di Buber sarà pa-rimenti accesa nei confronti, anzitutto, della religione

12 Infra, p. 78.13 Ibidem.14 Il riferimento è all’opera di A. Caracciolo, La religione come strut-

tura e come modo autonomo della coscienza, Il nuovo melangolo, Genova 2000. Sulla fi gura del fi losofo genovese si vedano le seguenti ricostruzioni: G. Moretto, Filosofi a umana. Itinerario di Alberto Caracciolo, Morcelliana, Brescia 1992; D. Venturelli, Alberto Caracciolo. Sentieri del suo fi losofare, Il nuovo melangolo, Genova 2011.

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stessa, allorché questa perda il suo affl ato originario di Religiosität, e prenda a cristallizzarsi in dogmi asfi ttici ed in confessionalismi che non sono altro che passato, tentativi, attraverso la fede e il culto, di istituire una continuità dell’Augenblick sorgivo del religioso che non tarda tuttavia a rivelarsi come liberticida.

Il secondo gruppo di lezioni, dalla quarta all’ottava, rappresenta quindi la pars construens di questo ciclo di incontri: dopo aver sgombrato il campo da tutto ciò che ostacola il libero dispiegarsi della religione, o, per me-glio dire, del religioso, Buber individua proprio in una religione come presenza l’unico modo per riaffermare, ora e sempre, indipendentemente dal momento storico toccato in sorte, la religione. Ed è proprio quella che po-tremo chiamare una «fedeltà al presente» che può aprire l’esistenza di ogni essere umano alla religiosità, fi no a poter affermare, attraverso l’universale fenomeno dello spirito, la possibilità di una «umanità invisibile», unita nella comune religiosità. Ed è proprio nella impossibile e necessaria «fedeltà al presente» che le religioni stori-che compiono la loro tragica – in quanto ne rappresenta il destino – parabola. Vengono così introdotti elementi con i quali il lettore buberiano avrà una sicura familia-rità: la contrapposizione tra Io-Tu ed Io-Esso, che è qui istituita tra Mondo del Tu e Mondo dell’Esso; l’affer-mazione di Dio quale Tu Eterno, qui designato come Tu Assoluto; numerosi brani che torneranno pressoché invariati in Io e Tu, i cui paralleli con i luoghi corri-spondenti in Religion als Gegenwart cercheremo di ri-costruire in nota, grazie anche all’apporto del prezioso lavoro di R. Horwitz. E non è tutto: la critica alla misti-

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ca, la nozione di Tu Innato, la diffi coltà di costruire un mondo del Tu, il conseguente sorgere delle religioni, il loro tradimento allorché torcono l’evento della presenza per eccellenza, l’evento dell’attimo che sa farsi presen-te – l’evento della rivelazione – in un contenuto, tutto questo è già qui pienamente dispiegato.

Dalle prime lezioni apprendiamo allora come la do-manda sulla religione come presenza debba essere posta contro le minacce esogene al fenomeno religioso; dal secondo gruppo di lezioni apprenderemo invece come tale domanda valga, a maggior ragione, di fronte alle minacce endogene che minano il fenomeno religioso al suo stesso interno. In questo senso il pensatore ebraico è stato qualifi cato come un «profeta della secolarizza-zione religiosa»15, come colui che si confronta con una «alienazione e richiesta di senso»16 che non può giacere inascoltata.

Come annota la stessa R. Horwitz17, l’attenzione del-la critica non ha abbastanza indugiato su queste lezioni. B. Casper ne fa esplicita menzione attraverso Io e Tu, ricordando come il suo «titolo, quando era ancora una conferenza, era Religion als Gegenwart»18. Una impor-tante testimonianza a riguardo c’è offerta dalla storica

15 D. Moore, Martin Buber: prophet of religious secularism. The criti-cism of institutional religion in the writings of Martin Buber, Jewish Publica-tion Society of America, Philadelphia 1974 (II Edizione: Fordham U.P., New York 1996).

16 L.J. Silberstein, Martin Buber’s social and religious thought: aliena-tion and quest for meaning, New York U.P., New York 1989.

17 R. Horwitz, Introduction, in Buber’s way to I and Thou, cit., p. 24.18 B. Casper, Il pensiero dialogico. Franz Rosenzweig, Ferdinand Eb-

ner, Martin Buber, Morcelliana, Brescia 2009, p. 68 (I Edizione: Herder, Freiburg 1967).

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ricostruzione biografi ca del fi losofo viennese curata da H. Kohn19, parimenti confermata dalle puntuali ri-costruzioni di M. Friedman20 e di G. Wehr21. Occorre rilevare, comunque, come diversi interpreti del pen-siero buberiano, da D. Breslauer22 a P. Vermes23, da P. Mendes Flohr24 a D. Moore25, non abbiano mancato di rilevare l’importanza di Religion als Gegenwart all’in-terno del cammino di pensiero dell’autore. Sono forse i primi due, oltre, naturalmente, a R. Horwitz, ad avere dedicato maggiore attenzione a queste lezioni, nonché al problema stesso della presenza all’interno del pensie-ro buberiano. La studiosa americana, nel suo Buber on God and the perfect man, stende due capitoli, signifi ca-tivamente intitolati Religion as presence26 e Presence as religiousness27. Nella sua monografi a Martin Buber, disponibile anche in traduzione italiana, ha modo di af-fermare esplicitamente come, nell’opera di Buber, sia

19 H. Kohn, Martin Buber, sein Werk und seine Zeit: Ein Versuch über Religion und Politik, J. Hegner, Hellerau 1930, p. 362.

20 M. Friedman, Encounter on the narrow ridge: a life of Martin Buber, Paragon House, New York 1993, p. 127; M. Friedman, Martin Buber life and work, vol. I. The early years, Dutton, New York 1981, pp. 297, 298.

21 G. Wehr, Der deutsche Jude: Martin Buber, Kindler, München 1977, p. 129.

22 D. Breslauer, Martin Buber on myth, Garland, New York 1990.23 P. Vermes, Buber on God and the perfect man, Scholar press, Brown

University, Chico 1980 e P. Vermes, Martin Buber, San Paolo, Cinisello Bal-samo 1990 (Grove, New York 1988).

24 P. Mendes-Flohr, Martin Buber: a contemporary perspective, Syra-cuse U.P., Syracuse 2002.

25 Si veda in particolare il paragrafo «Religion as tragedy», in D. Moore, Martin Buber: prophet of religious secularism, Fordham U.P., New York 1996, p. 253.

26 P. Vermes, Buber on God and the perfect man, cit., pp. 153-183. 27 Ibi, pp. 185-189.

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determinante «il tema a lui caro della «religione come presenza»28. D. Breslauer è nondimeno puntuale nel rin-venire la rilevanza di tali lezioni:

«Le lezioni di Buber intitolate Religion als Gegenwart si estesero oltre l’ebraismo per dimostrare il signifi cato della religione nella vita umana ed esplorare le varie dimensioni dell’esperienza umana, concludendo che l’essere umano sco-pre Dio attraverso la sua interazione con un Altro, attraverso la scoperta della presenza e dell’essere presente, attraverso l’incontro di un Io e di un Tu»29.

All’interno della scena italiana, N. Bombaci ha tri-butato una signifi cativa attenzione a Religion als Ge-genwart nell’introduzione ai due saggi da lui raccolti sotto il titolo La passione credente nell’ebreo. In un pa-ragrafo intitolato La religiosità come «esistenza nella presenza» dell’Eterno egli ha modo di scrivere: «in un ciclo di conferenze tenute pochi mesi prima della pub-blicazione di Ich und Du, al Freies Jüdisches Lehrhaus di Francoforte sul Meno – istituto per la formazione degli ebrei adulti diretto dall’amico Franz Rosenzweig – Buber prospetta la religione autentica come pura presenza dell’Assoluto. Il relativo testo è di notevole importanza per lo studioso poiché, sia sul piano stori-co che su quello teorico, è contiguo a quello della sua opera più nota»30.

28 P. Vermes, Martin Buber, San Paolo, Cinisello Balsamo 1990, p. 84.29 D. Breslauer, Martin Buber on myth, Garland, cit., p. 15. 30 N. Bombaci, Una fede vissuta tra memoria e attesa. L’ebraismo nella

lettura di Martin Buber, in M. Buber, La passione credente dell’ebreo, Mor-celliana, Brescia 2007, pp. 13, 14.

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La più signifi cativa testimonianza di un interesse rivolto a Religion als Gegenwart da parte della critica potrebbe essere – oltre, naturalmente, ribadiamo, al fon-damentale volume di R. Horwitz – la monografi a di P. Huston, Martin Buber’s journey to presence31, in parti-colare il quinto capitolo, The presence of God, dove, a partire dal paragrafo «Religion as Presence» lectures32, ci viene offerta la più dettagliata analisi delle lezioni che sia a nostra conoscenza.

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È possibile istituire un nesso tra la presenza di Dio nel mondo, che Buber avrebbe descritto fi n dai suoi pri-mi scritti chassidici attraverso la nozione di Shekinah proveniente dalla Cabala, la presenza di Dio nell’uomo, e la presenza dell’uomo a se stesso?

La nozione chassidica di Shekinah viene rinvenuta e reinterpretata da Buber come «la presenza di Dio abi-tante nel mondo»33, come «la presenza immanente di Dio nel mondo»34, e come la presenza che l’uomo con-quista a se stesso, portando a compimento la Shekinah medesima. Una triplice affermazione, così, si impone: alla presenza di Dio nel mondo corrisponde proprio il nome Shekinah; alla presenza di Dio nell’uomo, alla

31 P. Huston, Martin Buber’s journey to presence, Fordham U.P., New York 2007.

32 Ibi, pp. 193-208.33 M. Buber, I racconti dei Chassidim, in Id., Storie e leggende chassidi-

che, a cura di A. Lavagetto, Mondadori, Milano 2008, p. 454.34 Ibi, p. 736.

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quale accenneremo nel fi nale di questo breve saggio, corrisponde il nome i-spirazione; infi ne, alla presenza dell’uomo a se stesso, allorché egli avverta la presenza di Dio nel mondo, e, parimenti, entro sé, corrisponde il nome en-tusiasmo. La Shekinah, ultima delle Sefi rot, Presenza e Gloria di Dio nel mondo, infi amma ogni scintilla, e penetra l’intera creazione. A partire da que-sto chiama ogni uomo a un compito: la relazione. Scrive Buber nell’Introduzione ai Racconti dei Chassidim:

«La dottrina talmudica della Shekinah, la presenza immanen-te di Dio nel mondo, elaborata dalla Kabbala, ricevette un nuovo contenuto, insieme intimo e pratico: quando tu rivolgi l’intera forza della tua passione al destino terrestre di Dio, se tu compi ciò che hai da compiere in quell’attimo, qualun-que cosa sia, con tutta la forza e con tale santa intenzione (Kawwana) tu congiungi Dio e la Shekinah, eternità e tempo. Per questo non hai bisogno di essere né un dotto né un saggio: basta un’anima umana indivisa, interamente volta alla sua meta divina. Il mondo in cui vivi, così com’è e non altrimenti, ti permette quel rapporto con Dio che redime al tempo stesso te e quella parte del divino nel mondo che ti è stata affi data. E la tua propria natura, quello appunto che sei rappresenta il tuo particolare adito a Dio, la tua particolare possibilità. Non aver paura del piacere che ti danno gli esseri e le cose, vedi solo di non incapsularlo dentro agli esseri e alle cose, ma avanza attraverso essi verso Dio; non mortifi care la tua passione, ma fa che essa santamente operi e santamente riposi in Dio. Ogni controsenso con cui il mondo ti offende viene a te perché tu vi scopra il senso, e ogni contraddizione che dentro di te ti tormenta attende la tua parola che la sciolga. Ogni dolore pri-mordiale vuole accesso alla tua gioia entusiasta»35.

35 Ibi, pp. 454, 455.

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La presenza chiama la relazione: senza questo atto di relazione la presenza non è nulla, non può sussistere. Presenza e relazione sono congiunte da un compito mes-sianico: l’atto della relazione, capace di creare presenza, tanto individuale quanto cosmica. Perché in verità non vi è separazione tra individuo e cosmo: questo mondo è il portale verso Dio, e colui che stringe al suo interno una relazione attraverso la retta intenzione (Kawwa-na) partecipa del compimento della Shekinah. Poiché «quando il mondo fu creato, l’effusione della luce fu così sconfi nata che il mondo non poté sostenerla»36, la Shekinah erra, al pari dell’uomo, in esilio (Galut). Frammentata, conosce un dolore che sa mutarsi in gioia proprio grazie all’azione dell’uomo, che è così chiama-to a «sollevare» ogni scintilla, con un gesto di relazione che è semplicemente unione, unione cosmica, che si at-tua come realizzazione nel mondo terreno:

«Il popolo dovette in verità convincersi che, non solo esso, ma anche la Shekinah, la presenza di Dio immanente nell’ele-mento umano, era andata in esilio. Poiché solo là la Shekinah è a casa, dove sia potente la volontà dell’alleanza con Dio, l’aspirazione alla sua realizzazione, dove l’uomo vive in fac-cia all’assoluto; là dove l’azione si intorpidisce, dove l’uomo vive dietro il dorso dell’assoluto, là la Shekinah va in esilio»37.

Il dolore dell’uomo dipende dal dolore della Sheki-nah. Il dolore della Shekinah chiede di essere estinto

36 Ibi, p. 909. Vedi anche M. Buber, Le storie di Rabbi Nachman, ibi, pp. 26, 27.

37 M. Buber, Discorsi sull’Ebraismo, tr. it. di D. Lattes e M. Beilinson, presentazione di A. Poma, Gribaudi, Milano 1996, p. 114.

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mediante la decisione dell’essere umano. Proprio l’uo-mo, parimenti frammentato e in cerca di un ricomporsi dalla distanza della Shekinah, può così farsi carico di un compito tanto grande: collaborare all’opera della cre-azione, attraverso un gesto di unione che ha carattere di redenzione (Tiqqun). Nell’incontro tra l’uomo e le scintille divine, la presenza brilla e dona quella unità ed interezza all’uomo stesso, che, non a caso, si chia-ma en-tusiasmo, la pienezza che avverte colui che sa ospitare nientemeno che la presenza di Dio entro sé. La presenza si schiude allora allorché si stringe la relazione con ogni essere, umano e non, poiché l’intera creazione è satura del principio divino; è questa «la dottrina delle scintille divine che ci vengono incontro in tutte le cose e in tutte le creature, in tutti i concetti e in tutti gli impul-si, e anelano a essere redente da noi; e, legata a questa, l’affermazione dell’intero uomo corporeo-spirituale»38.

Sarà allora possibile affermare una analogia tra la Shekinah chassidica e la presenza intesa da Buber negli scritti dialogici?

Una delle prime, fondamentali, tesi di Io e Tu è quella per cui «non c’è alcun Io in sé, ma solo l’Io della parola fondamentale Io-Tu e l’Io della parola fondamentale Io-Esso»39. Viene così enunciato quello che Buber, nel pro-sieguo dell’opera, chiamerà «a priori della relazione»40. L’impossibilità di un Io in sé impone un’apertura come dimensione originaria della soggettività. Un avere a che fare con il mondo, che è all’uomo nella possibilità del-

38 M. Buber, I racconti dei Chassidim, cit., p. 483.39 M. Buber, Io e Tu, cit., p. 59.40 Ibi, p. 78.

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la relazione Io-Tu, piuttosto che del rapporto Io-Esso. Questa relazione si dona all’uomo come presenza. La scintilla divina, descritta dalla mistica chassidica, adesso si chiama Tu, «la centrale presenza del Tu [...]; quel cen-trale Tu accolto nel presente»41. Che il Tu venga accolto, e venga accolto in quel presente che il suo accoglimento schiude attraverso la relazione, ci permette di compren-dere meglio come la religione come presenza debba pog-giare, prima di tutto, sulla relazione come presenza. Il farsi, anzi, il darsi della presenza è, infatti, l’immediato frutto dell’instaurarsi della relazione Io-Tu, possibilità riuscita di emancipazione dal dominio dei verbi transiti-vi in cui si ha sempre qualcosa «per oggetto»42.

Se si può dire Tu ad ogni essere, è perché «è alla presenza di Dio colui che vede il mondo in lui»43. In altre parole, dire Tu, vivere la relazione Io-Tu signifi ca poter vedere il mondo alla presenza di Dio; si spiega così come, nelle tre sfere della relazione, sia in tutte ugualmente potente, all’orizzonte, il dispiegarsi della presenza: «in ogni sfera, attraverso una cosa che ci si fa presente, lanciamo uno sguardo al margine del Tu

41 M. Buber, Io e Tu, cit., p. 91. Il Tu non è altro che «il semplice Tu, presente nella presenza immediata, così presente, come solo un Tu in una relazione umana» (infra, p. 144), proprio «ciò che per noi è immediato e ori-ginario, presente prima di tutto e dinnanzi a tutto» (ibi, p. 129). «Questo Tu è: comunque, il suo essere non è come quello di un Esso a portata di mano, che noi possiamo trovare. Piuttosto, è l’Essere che si dischiude solo nella relazio-ne. E proprio di questo si tratta, con incomparabile forza, la Relazione Pura. Anche questa relazione, più di ogni altra, non deve essere compresa psico-logicamente, bensì come un accadere (Geschehen) nel quale noi stiamo, una relazione così reale, compresa come presenza immediata» (ibi, pp. 132, 133).

42 M. Buber, Io e Tu, cit., p. 60. 43 Ibi, p. 115.

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Eterno»44, proprio perché «in ognuna irraggia quell’u-nica presenza»45. Già nelle primissime pagine di Io e Tu Buber dispiega un brano che possiamo qualifi care come fondamentale per il nostro discorso:

«Il presente, non quello puntuale, che indica solo il termine via via fi ssato nel pensiero del tempo «trascorso», l’apparen-za di uno scorrere che è stato fermato, ma il presente reale e compiuto, si dà soltanto nella misura in cui si dà presenzia-lità, incontro, relazione. Solo attraverso il farsi presenza del Tu, il presente nasce. L’Io della parola fondamentale Io-Esso, l’Io di fronte a cui non si fa presenza viva un Tu, ma che è attorniato da una molteplicità di «contenuti» ha solo passato, non presente. In altre parole: fi ntanto che l’uomo si contenta delle cose che esperisce e usa, vive nel passato, e il suo at-timo è senza Presenza. Non ha null’altro che oggetti; ma gli oggetti hanno il loro essere nell’essere stati. Il presente non è l’effi mero che scivola via, ma ciò che si fa presente e perma-ne. L’oggetto non è durata, ma pausa, fermata, interruzione, autoirrigidimento, sottrazione, è mancanza di relazione, man-canza di Presenza. Ciò che è essenziale è vissuto nel presente, ciò che è oggettuale è vissuto nel passato»46.

Vengono qui, infatti, poste, alcune tesi davvero cen-trali per l’argomentazione buberiana: l’esistenza di un presente che fonda un essere autenticamente presente e non il consumarsi di un mero tempo trascorso, un pre-sente che non è momento qualsiasi d’un inerte scorrere,

44 Ibi, p. 62. Esponendo nuovamente la propria teoria delle tre sfere del-la relazione, Buber aggiungerà in modo signifi cativo: «in ognuna irraggia quell’unica presenza» (ibi, p. 133), ovvero, il Tu Eterno.

45 Ibidem.46 Ibi, pp. 67, 68.

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illusoriamente fermato, ma che si dà solo e grazie alla presenzialità, ad una presenza, e quindi a qualcosa o qualcuno, ovvero, a quel contro di ogni incontro, gegen di ogni Begegnung. Accade così che «avanza quest’uni-ca persona e diventa presenza; ora, nella percezione che ne abbiamo, il mondo non è più una indifferente molte-plicità di punti, a uno dei quali prestiamo forse momen-tanea considerazione»47. Quell’unica persona, nel suo farsi avanti, nella sua unicità, diventa presenza. Quello che accade tra l’Io e il Tu è un reciproco «rendersi pre-senza» che permette il dispiegarsi dell’autentica «vita dialogica». Presente e relazione sono così uniti in un nesso fondante: il presente nasce grazie alla presenza di un Tu; c’è presente solo nella relazione, e, nondime-no, c’è relazione solo nel presente. Il rapporto Io-Esso, con i suoi contenuti, con le sue oggettivazioni, con la sua separazione, è solamente passato. Fino a tal punto s’intreccia il nesso tra presente e relazione, tra presenza e relazione, che dire «mancanza di relazione» non può che signifi care «mancanza di presenza», sicché «il vero confi ne, certamente sospeso e oscillante, non passa tra l’esperienza e la non esperienza, né tra il dato e il non dato, e neppure tra il mondo dell’essere e il mondo dei valori, ma attraversa ogni territorio tra il Tu e l’Esso: tra ciò che è presenza e ciò che è oggetto»48.

Il Tu è colui che è presente nella relazione immediata che, al sorgere di un mezzo, di una mediazione, decade:

47 M. Buber, Dialogo, in Id., Il principio dialogico e altri saggi, cit., p. 208. 48 M. Buber, Io e Tu, cit., p. 67. L’antitesi tra presenza e oggetto sarà

centrale nella quarta e nella quinta lezione che andiamo presentando.

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«per quanto il Tu fosse presente in modo esclusivo nella relazione immediata, appena essa ha smesso di operare, o è stata interrotta da un mezzo, il Tu diventa oggetto tra gli oggetti»49. Proprio «nel fatto che ogni Tu nel nostro mondo debba diventare un Esso, sta la sublime malin-conia della nostra sorte. Per il quanto il Tu fosse presen-te nella relazione immediata, appena essa ha smesso di operare, o è stata interrotta da un mezzo, il Tu diventa oggetto tra gli oggetti»50. Il Tu era «presente nella rela-zione»: la sua presenza decade ogni volta che insorge una mediazione, la quale conduce inesorabilmente al ripiegamento dell’Io in un singolo oggetto, a discapi-to dell’interezza del Tu. Questo processo si spinge fi no ai tragici esiti della civiltà dell’Esso e della tecnica per cui, se l’antinomia è posta tra presenza ed oggetto, ne consegue che «venendo a patti con un mondo d’og-getti che non diventano più presenza per lui, l’uomo soccombe»51. La perdita della presenza è, infatti la per-dita dell’uomo tutto. Se il mondo non diventa presenza, l’uomo stesso non diventa presente. Se questi si nutre di rapporti con oggetti, egli stesso è destinato a perdere la propria presenza, la propria realtà. Le fi gure di un tale attivo operare del mondo dell’Esso sono moltepli-ci: si va da una concezione antropocentrica dell’arte52 a

49 Ibi, p. 71.50 Ibidem.51 Ibi, p. 97. 52 «Non posso esperire e non posso descrivere la forma che avanza di

fronte a me; posso solo realizzarla. E tuttavia, radiosa nello splendore del suo starmi di fronte, la vedo più chiara di ogni chiarezza del mondo esperito. Non come una cosa tra le cose “interne”, non come una costruzione dell’“immagi-nazione”, ma come ciò che è presente» (ibi, p. 66).

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fenomeni come «istituzioni e sentimenti»53, dall’auto-contraddizione54 solipsistica in cui giace ogni anteporre l’Io al Tu al radicale fraintendimento del proprio carico di destino – o, per meglio dire, di destinazione – che ha nome fatalità55.

La nozione di presenza si può (si deve) ricondurre quindi a quella di presente, di un essere presente che è, prima ancora, un essere nel presente. Ma chi potrebbe dire di essere davvero presente? Chi potrebbe dire di essere davvero nel presente? Come si può essere nel presente? Sviamenti, spesso mostruosamente banali, im-

53 «Nessuno dei due conosce il presente; le istituzioni, anche le più mo-derne sono il vitreo passato, l’esser compiuto; i sentimenti, anche i più dure-voli, sempre e solo l’attimo fuggente, il non essere ancora» (M. Buber, Io e Tu, cit., p. 89). Istituzioni e sentimenti, infatti, «non fanno ancora nascere la vita dell’uomo; ma la terza, la centrale presenza del Tu lo fa; piuttosto, per dir meglio, quel centrale Tu accolto nel presente» (ibi, p. 91).

54 «Così l’incontro con ciò che sta di fronte avviene dentro di sé, ma non può essere relazione, presenza, fl uente reciprocità» (ibi, p. 109). È qui presente quella critica all’interiorità intesa come solipsismo, luogo di sen-timenti che stanno in un Io e non tra l’Io e il Tu. Con autocontraddizione Buber intende l’anteposizione dell’Io rispetto a quel Tu che ha da essere, per defi nizione, Innato. Lo stesso si colga anche nel fanatismo di colui che si la-scia fagocitare dalla propria missione: «quando la missione di un uomo esige da lui che conosca solo il legame con la sua causa, che non conosca quindi più nessun reale rapporto con un Tu, nessun farsi presente di un Tu» (ibi, p. 107). Un ulteriore caso di autocontraddizione è il falso amore, dove «l’uno non diventa affatto presenza per l’altro, non è affatto reso presenza, ma l’uno gode nell’altro solo se stesso» (ibi, p. 90).

55 «L’uomo che vive nell’arbitrio, incredulo fi no al midollo, non riesce a percepire null’altro che incredulità e arbitrarietà, scopi da porre e mezzi da escogitare. Il suo mondo, senza sacrifi cio e senza grazia, senza incontro e senza presenza, è un mondo ridotto a scopi e mezzi; non può essere diverso, e si chiama fatalità» (ibi, p. 102). Infatti, «la presenza del Tu, il costituirsi a partire dal legame, le è inaccessibile. Essa non conosce la realtà dello spirito» (ibi, p. 100).

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pediscono il farsi, il darsi della presenza. La «completa accettazione del presente»56 è qualcosa cui lo scorrere di un’esistenza fatta di separazione è quantomeno re-frattario, anzi: ne rappresenta la condizione negante. La centralità dell’Io, di un Io che si sente al centro dell’uni-verso, di un Io che guarda, fa esperienza, utilizza, pare essere ovunque l’unica soluzione possibile o, quantome-no, manifesta. Uscire da questo egocentrismo è aprirsi alla vera, reale, presenza che può dischiudersi nel qui ed ora, e donarci la possibilità di dire «Io sono qui»: «con la verità di tutto il mio essere, è allora, solamente allora, che Io sono qui «autenticamente». Io sono qui, quando sono qui veramente, e il luogo di questo «qui» sarà de-terminato ogni volta più dalla presenza dell’essere, can-giante forma e apparizione, che non da me stesso»57.

Quella «malinconia della nostra sorte» è tale per cui se il presente non è mai al centro delle nostre vite, inevitabilmente anche la pienezza, e, in questa, la feli-cità, ne sono parimenti assenti, come avevano già avu-to modo di osservare tanto Michel de Montaigne quan-to Blaise Pascal. Se l’e-sistenza è uno «stare fuori» che è già apertura a una situazione, a una circostanza (ascrivibile, buberianamente, a quel «non esiste alcun Io in sé»), un sein sempre accompagnato dal suo da, che ne è di questo da? Non ne va forse dell’intero esse-re umano, del suo destino, della sua destinazione etica, in questo da? Non risuona forse in alcuni taciti attimi l’antica domanda biblica di Rabbi Hillel «Se non ora,

56 Ibi, p. 114.57 M. Buber, Il problema dell’uomo, a cura di I. Kajon, Marietti, Genova

2004, p. 69.

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quando?» Non incontra, troppo spesso, la mortifi cante vuotezza da cui rinsaviamo con la (cattiva) coscienza che «noi non ci siamo tutti i giorni»?58 Il carattere di istante e di evento della realtà, del presente si fa allora carico di eticità nella succitata domanda. Qui, infatti, l’irrompere del presente si mostra apertamente nel suo carattere di decisione, in una duplice, simmetrica, dia-lettica. «Se non ora, quando?» implica come la deci-sione si compia sempre in un istante (Augenblick), che diviene così attimo decisivo, e mostra come, al tempo stesso, l’apparire dell’istante, il sorgere del presente, comporti già una richiesta di compimento, sicché tan-to la decisione si compie nell’attimo, quanto, aspetto decisamente meno immediato a comprendersi, l’atti-mo si compie nella decisione: «Se non ora, quando?» quando sarà questo ora? L’ora di ora, l’attimo di cui parliamo, non è mai stato dal tempo della creazione del mondo, e non sarà mai più59.

È a partire dalla riappropriazione dell’istante, in una temporalità salvata dall’alienazione, in quella «reden-zione del quotidiano», paragonabile per diversi aspetti a quella eckhartiana alltags Mystik, che si dispiega la pie-nezza di una religione come presenza, che sa dischiu-dersi in ogni istante, a partire da ogni relazione, che non può che essere vissuta, parimenti, come presenza. Proprio accettando il travaglio dell’istante si apprende

58 M. Buber, Dialogo, cit., p. 195.59 M. Buber, I racconti dei Chassidim, cit., pp. 1192, 1193. Si veda anche

M. Buber, Il cammino dell’uomo secondo l’insegnamento chassidico, tradu-zione italiana di G. Bonola, a cura di E. Bianchi, Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano 1990, p. 19.

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come «il mondo ordinato non è l’ordine del mondo. Vi sono attimi di tacito fondamento in cui l’ordine del mondo diventa visibile come presenza»60. L’ordine del mondo diventa visibile nell’Augenblick, e la religiosità buberiana è una religiosità dell’attimo, di quel presente, che, come abbiamo visto, sa nascere, anzi, urge, pro-rompe, allorché si incontra l’altro come un Tu. Viene così ricondotto all’attimo – già descritto nelle pagine d’apertura della Leggenda del Baalschem come Hitha-labut, istante sorgivo della mistica ebraica, e in Der Augenblick, ultimo, breve componimento di Ereignisse und Begegnungen – il potere di soverchiare le arbitra-rie e capricciose dimore dell’Esso. Leggiamo così nella prima come

«nell’estasi tutto il passato e tutto il futuro si comprime nel presente. Il tempo si contrae, la linea fra le eternità scompa-re, solo l’istante vive, e l’istante è l’eternità. Nella sua luce non dispersa, tutto ciò che è stato e tutto ciò che sarà appare semplice e raccolto. Esiste, come esiste un battito di cuore, e come un battito si palesa»61.

Parimenti, in Der Augenblick, l’istante è «l’irruen-te violenza del simultaneo che mi vola incontro come

60 M. Buber, Io e Tu, cit., p. 81. Il brano signifi cativamente continua in questi termini: «è allora che si percepisce di sfuggita il suono di cui il mon-do ordinato è confusa partitura. Immortali, e più fugaci di tutti, sono questi attimi (Augenblicke): non se ne può trattenere alcun contenuto, ma la loro potenza entra nella creazione e nella conoscenza dell’uomo, vampate della loro potenza penetrano nel mondo ordinato e ripetutamente lo dissolvono» (ibidem).

61 M. Buber, La leggenda del Baalschem, in Id., Storie e leggende chas-sidiche, cit., p. 215.

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un uccello. L’istante è la realtà, non più dispersa nel continuum temporale, bensì raccolta in unità. Apparen-temente, l’istante, in quanto vita interiore, è nel tempo. E, in realtà, esso è infi nito. Quando entra in me, in me entra il presente»62. Nella riappropriazione dell’istante, attraverso ogni evento della relazione Io-Tu, ogni uomo può ritornare alla presenza che lo costituisce: incontro63, grazia64, decisione65, amore66 (oltre a una concezione autenticamente «creatrice» dell’opera d’arte e della na-tura come Tu) sono i raggi attraverso i quali la vita torna nuovamente a risplendere. In questo modo, il mare è nuovamente «aperto» al carattere più proprio dell’istan-te: la rivelazione. L’evento della rivelazione è, infatti, ricondotto da Buber al momento della relazione, anzi, dell’incontro, tra l’uomo e il divino. E se «per giunge-re all’incontro basta soltanto accettare la presenza»67, è proprio questa presenza, vedremo, la vera natura dell’e-vento della rivelazione in quanto tale.

62 M. Buber, Ereignisse und Begegnungen, Insel, Leipzig 1920, p. 93.63 «L’uomo incontra nell’accadimento, e ciò che qui accade gli viene

incontro come essere [...] null’altro che quest’unica essenza è presente» (M. Buber, Io e Tu, cit., p. 82).

64 «La grazia ci riguarda nel momento in cui andiamo verso di lei e ne attendiamo la presenza» (ibi, p. 113).

65 «Solo chi conosce la relazione e sa della presenza del Tu diventa ca-pace di decidersi» (ibi, p. 95). In questo senso il presente «è il tuo presente: hai un presente, solo in quanto hai lui; e puoi fartene un oggetto per speri-mentarlo e utilizzarlo, devi sempre di nuovo farlo; e allora non hai più un presente» (ibi, p. 82).

66 «Chi ama una donna, rende presente nella propria vita la sua: il Tu degli occhi di lei gli permette di vedere un raggio del Tu Eterno» (ibi, p. 136).

67 Ibi, p. 140.

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La possibilità del presente dischiuso nell’istante par-rebbe essere l’unico modo per vincere quella malinco-nia della nostra sorte; e tuttavia il Tu dilegua neces-sariamente68. L’esistenza dell’uomo che ha conosciuto l’irrompere del Tu diventa allora segnata da una dialet-tica tra presenza ed assenza, un oscillare tra «l’ordine del mondo» ed «il mondo ordinato», un vero e proprio «scambio di attualità e latenza in cui viene meno solo la nostra potenza di relazione, e quindi la presenza, ma non la Presenza originaria»69. Proprio questa Presenza originaria permette di vincere uno scacco altrimenti in-sormontabile: la presenza del singolo Tu viene meno, la presenza dell’uomo a se stesso si occlude conseguen-temente, ma la Presenza originaria non viene meno. L’uomo torna a dispiegare la propria esistenza in un moltiplicarsi di Esso esperiti e utilizzati, ma la Presenza originaria rimane, poiché è un Tu che, per sua natura,

68 In questo senso il passaggio al mondo dell’Esso viene letto da Buber come necessario: «non si può vivere nel puro presente, se ne verrebbe con-sumati, se non si provvedesse, in fretta e bene, a superarlo. Ma si può vivere nel puro passato, addirittura solo nel passato si può disporre una vita. Basta che uno riempia ogni istante di esperienze e utilizzazioni, e questo non brucia più» (ibi, p. 83). Pertanto, «ogni isolato Tu deve trasformarsi nella crisalide dell’Esso, per poter mettere di nuovo le ali. Ma nella pura relazione la latenza è soltanto il prender fi ato dell’attualità, in cui il Tu rimane presente» (ibi, p. 131). Tuttavia, «al tempo stesso, sempre e di nuovo ciò che è oggetto deve consumarsi in ciò che è presenza, ritornare all’elemento da cui provenne» (ibi, p. 86). Pertanto, «secondo la sua essenza, la relazione al Tu deve trasfor-marsi in una relazione all’Esso. Secondo l’essenza del Tu la relazione non può permanere nella presenza» (infra, p. 146). Su questo motivo Buber avrà più volte modo di insistere.

69 M. Buber, Io e Tu, cit., pp. 141, 142.

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non può diventare Esso. È il Tu Assoluto, «dedotto dalla storia naturale come un soggetto, ma che è immediata-mente presente, questo Tu Assoluto è, nella nostra rela-zione con Lui, il cuore inviolabile di un continuum del mondo del Tu»70.

La Presenza originaria è la presenza divina; e pre-senza è, del resto, il supremo attributo di Dio, l’unico attraverso il quale Egli non si abbassi ad un’autodefi ni-zione, o ad un’autodeterminazione. In più occasioni Bu-ber porrà la tesi per cui «la parola della rivelazione è Io sono presente così come sono presente»71, ed è in questo senso che «Dio è il Totalmente Altro, ma è anche il To-talmente Medesimo; è il Totalmente Presente»72. Se Dio è il Tu Eterno, la sua eternità risiede proprio nella sua presenza che non può mai spegnersi, non può mai farsi

70 Infra, p. 132.71 M. Buber, Io e Tu, cit., p. 140, nonché infra, p. 184. Buber traduce

così il celebre passo di Esodo 3, 14. Su questo punto, il fi losofo ritornerà in innumerevoli occasioni, tra cui segnaliamo M. Buber, La fede dei profeti, traduzione italiana di A. Poma, Marietti, Casale Monferrato 1985, pp. 33, 34; M. Buber, La regalità di Dio, traduzione di M. Fiorillo, prefazione di J.A. Soggin, Marietti, Genova 1989, pp. 115-120; M. Buber, La passione credente dell’ebreo, cit., pp. 70, 71, 85; M. Buber, Parola e scrittura. Per una nuova versione tedesca, a cura di N. Bombaci, Aracne, Roma 2007, pp. 64, 65. La trattazione più ampia ed articolata è rinvenibile nel suo Mosè: Dio «promette la sua presenza continua, la sua assistenza continua ma rifi uta di legarsi a forme di rivelazione ben defi nite; come potrebbero gli uomini tentare di evocarlo e porgli dei limiti! Dice la prima parte della frase: «non c’è bisogno di evocarmi, perché Io sono sempre presso di voi». E la seconda: «non è neanche possibile evocarmi». [...] YHWH «è colui che è presente non semplicemente dovunque e sempre, ma in ogni qui e in ogni ora. Il suo nome esprime il suo carattere ed assicura ai suoi fedeli la presenza protettiva del Signore» (M. Buber, Mosè, traduzione di P. di Segni, introduzione di P.C. Bori, Marietti, Casale Monferrato 1983, p. 48).

72 M. Buber, Io e Tu, cit., pp. 115, 116.

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Esso: Egli è «Dio, l’eterna presenza»73. La parola della rivelazione è la parola della presenza di Dio nell’uomo: in questo senso la religiosità può essere i-spirazione74 e la disposizione alla fede molto di più di una passiva osservanza. Colui che è presente accompagna colui che è in cammino,75 e ricevere la presenza di Colui che è presente rende la vita dell’uomo fi nalmente reale76. Alla luce di tutto questo Buber potrà affermare come esi-stenza nella presenza e situazione religiosa converga-no: quella che attraverso la relazione Io-Tu si dischiude all’uomo è proprio

«la situazione «religiosa» dell’uomo, l’esistenza nella Pre-senza»77.

73 Ibi, p. 137.74 In questo senso Buber collega il soffi o dell’i-spirazione al carattere

oblativo della Charis: «il carismatico riconosca la propria sostanziale dipen-denza da colui che dispensa il carisma, senza la cui i-spirazione egli non avverte in sé la presenza dello spirito, senza la cui autorizzazione non può trarre da se stesso alcun potere» (M. Buber, La regalità di Dio, cit., pp. 172, 173). Infatti, «il carisma dipende dalla Charis e da null’altro; non è statico, ma fl uttuante; non c’è possesso dello spirito, ma solo uno “spirare”, un anda-re e venire della Ruah; non esiste alcuna garanzia di potenza, ma solo l’im-prevedibile fl uire di un potere assoluto che si dona e si nega» (ibi, p. 173).

75 «Per il fatto che sei stato inviato, Dio rimane per te una presenza; chi è in cammino nella missione ha sempre Dio di fronte a sé; più fedele è l’a-dempimento, più forte e continua è la vicinanza; egli non può certo occuparsi di Dio, eppure può intrattenersi con lui» (M. Buber, Io e Tu, op. cit., p. 143).

76 «È un trovare senza cercare: una scoperta di ciò che è il più originario e di ciò che è l’origine. Il senso del Tu, che non può saziarsi di sé fi ntanto che ha trovato il Tu infi nito, lo aveva presente a sé fi n dall’inizio: dalla realtà della vita santifi cata del mondo, la presenza doveva diventare davvero reale» (ibi, pp. 116, 117).

77 Ibi, p. 128.

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Ma la storia delle religioni ci consegna qualcosa di profondamente diverso.

Se, leggiamo in Daniel, «Dio non si realizza per l’uomo se non nel più profondo presente di un vissuto, rivelandosi non come il Medesimo, bensì come il sem-pre Nuovo»78, Egli, con le sue già citate parole di Esodo 3,14, «defi nisce se stesso come colui che non è legato ad un modo specifi co di apparizione»79. Di contro, vi è l’innegabile realtà storica, per la quale «il popolo vuo-le una sicurezza tangibile, vuole «avere» Dio»80. Che ne è di quella Presenza originaria che si dischiude in un evento, in un istante di incontro, e che non tollera nessuna defi nizione? Che cosa succede esattamente, allora, nell’istante della rivelazione? L’argomentazione che Buber propone in Io e Tu, quanto nelle lezioni che stiamo per leggere, è la seguente:

«L’uomo riceve, e non riceve un contenuto, ma una presenza come forza»81.

Il domandare buberiano incalza, allora, ancor più lu-cidamente:

«La presenza e la potenza della rivelazione come divengono un contenuto?»82.

78 M. Buber, Daniel. Cinque dialoghi estatici, tr. it., introduzione e note di F. Albertini, Giuntina, Firenze 2003, p. 70.

79 M. Buber, Mosè, cit., p. 122.80 Ibi, p. 124.81 M. Buber, Io e Tu, cit., p. 139. Cfr. infra, p. 172.82 Ibi, p. 141. Cfr. infra, p. 173.

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Quello che accade nell’istante della rivelazione è l’e-vento della presenza. Ma in che modo questa presenza può farsi contenuto? Il passaggio da presenza a conte-nuto pare essere la formula esemplare in cui descrivere l’arco che va dalla religiosità alla religione, in cui le forze si sono simmelianamente fatte forme. L’identifi ca-zione tra religiosità e presenza costituisce allora tutt’al-tro che un pacifi co approdo. È questo, anzi, l’inizio, in Buber, di una acutissima critica a quelle «trasformazio-ni della presenza»83 che le religioni storiche rappresen-tano in quanto tali. Poiché, infatti, «l’uomo pretende un’estensione temporale, la durata»84, Buber riconosce che «ogni forma di religiosità degenera in chiesa e reli-gione, quando comincia a dirigere e ad orientare»85. Ma sarebbe erroneo affermare che la presenza dischiusasi nell’evento della rivelazione non possa in nessun caso tradursi in contenuto. Che ne è, infatti, di quegli uomini i-spirati ai quali abbiamo fatto sopra riferimento? La «lotta contro i sacerdoti che «maneggiano» la Torah ma non indagano la presenza di Dio»86 deve sostanziarsi in un rinnovo di fede e culto; Buber esprime questo punto davvero problematico in Io e Tu, affermando una dia-lettica per cui «lo spirito risponde con una visione, che produce una forma. Forma è anche mescolanza di Tu ed

83 «La storia cosale di Dio, il procedere del Dio-cosa attraverso la religio-ne e le sue produzioni marginali, le sue illuminazioni e i suoi oscurantismi, il suo esaltare e il suo distruggere la vita, il procedere che si allontana dal Dio vivente e di nuovo vi ritorna, le trasformazioni della presenza» (M. Buber, Io e Tu, cit., p. 141, ed anche p. 71 e p. 131).

84 Ibi, p. 142. 85 M. Buber, Daniel, cit., p. 70.86 M. Buber, La fede dei profeti, cit., p. 173.

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Esso. Nella fede e nel culto può irrigidirsi ad oggetto; ma per l’essenza della relazione che in essa continua a vivere diventerà sempre di nuovo presenza»87.

La forma che le religioni storiche rappresentano può, pertanto, periodicamente, sciogliersi nella relazione che sa farsi presenza: «solo attraverso il ripiegamento dopo la rivelazione, solo attraverso il diventare oggetto della presenza divina, si edifi ca di tanto in tanto, sempre e di nuovo, la forma di Dio. Così sorge Dio come forma, sorgono le religioni come forme. Qui Dio è diventato oggetto, ma l’essenza vive ancora»88. L’esistenza reli-giosa dell’uomo non è tale nella formulazione di una conoscenza, nel credere di possedere una «decifrazio-ne» dell’essenza di Dio, nell’adagiarsi in una forma: «la religione, quando si parla di conoscenza, non intende l’atteggiamento noetico di un soggetto pensante verso un neutrale oggetto di pensiero, ma la reale reciprocità di un contatto presente nella pienezza della vita»89. Un elemento che Buber allora adduce è il riconoscimento del carattere di infi nito mistero di ciò che ci è infi nita-mente vicino, infi nitamente presente. Affermare il mi-stero, in luogo della acquiescenza nella fede nei suoi svelamenti, cogliere il mistero come appartenente alla nostra vita, come luogo della nostra vita, conduce Bu-ber, ancora una volta, a porsi in difesa della religiosità,

87 M. Buber, Io e Tu, cit., pp. 144, 145. 88 Infra, p. 187. In questo senso, «Dio può diventare sempre di nuovo una

presenza, e nelle religioni lo diventa sempre, nella vera preghiera, in cui culto e credenza si uniscono nella Relazione Pura» (ibidem).

89 M. Buber, Eclissi di Dio, Considerazioni sul rapporto fra religione e fi losofi a, traduzione italiana di U. Schnabel, introduzione di S. Quinzio, Mondadori, Milano 1990, pp. 42, 43.

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una religiosità così intimamente vissuta da non poter sopportare nessuna formulazione che pretenda di esser-ne la soluzione: «il mistero – ciò al cui cospetto vivia-mo, in cui, da cui, e verso cui viviamo – è rimasto ciò che era. Ci si è fatto presente e con la sua presenza ci si è annunciato come salvezza; lo abbiamo «riconosciu-to» ma non ne abbiamo una conoscenza che ne dimi-nuisca o ne addolcisca il carattere misterioso. Ci siamo avvicinati a Dio, ma una decifrazione, uno svelamento dell’essere non ci sono più vicini»90.

Del resto, in strettissimo contatto con l’affermazione di Dio come Colui che è presente, il fi losofo viennese argomentava: «questa è l’eterna rivelazione presente nel qui e nell’ora. Non ne conosco nessuna, non credo in nessuna che nel suo fenomeno originario non sia uguale a questa. Non credo che Dio si nomini, si defi nisca al cospetto degli uomini»91. Dio non si nomina. Dio non si defi nisce. Ma si fa presente, nel qui e nell’ora, dal momento che la sua rivelazione è continua, e pertanto in ogni qui ed ora «nel loro fondamento, le rivelazioni delle religioni non sono nient’altro che l’eterna, sempre

90 M. Buber, Io e Tu, cit., p. 140. Cfr. «Nulla è dato agli esseri umani, se non il senso, insieme alla forza per la sua realizzazione, che non risolve il mi-stero, che non sblocca quanto è chiuso, ma mette gli esseri umani nella vita della presenza. Ogni altra, ogni garanzia apparente signifi ca fondamental-mente un ripiegamento» (infra, p. 178). Proprio in riferimento all’invincibile mistero che ci circonda, in cui nondimeno è possibile avvertire la presenza, Buber chiuderà il ciclo delle presenti lezioni: «Noi siamo e rimaniamo nel mistero. Noi non possiamo attraversarlo, più di quanto noi non possiamo diventarlo. Ma quando noi siamo veramente di fronte a lui, noi siamo in co-munione con lui. Noi siamo con lui in un rapporto di reciprocità. Noi siamo nella sua presenza» (infra, p. 189).

91 M. Buber, Io e Tu, cit., p. 140.

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presente rivelazione, la rivelazione del qui ed ora. Mai ed in nessun luogo è accaduta una rivelazione che non stia accadendo anche qui ed ora»92. Il presente è, allora, proprio il tempo della rivelazione, di quella «rivelazio-ne continua»: «per me, ogni realtà religiosa è, nel suo fondamento ultimo, un affare del qui ed ora, e non un certo quale evento storico, unico ed incomparabile in virtù della sua essenza, bensì un evento eterno e sempre presente, che si rivela solo nella molteplicità delle for-me, nelle molteplicità della storia»93.

Che il presente sia il tempo della rivelazione è testi-moniato anche dalla rilettura buberiana della Zeitver-ständnis biblica, per cui il tempo che noi distinguiamo tra passato, presente e futuro, raggiunge nella Bibbia la sua espressione più concreta nelle tre strutture di cre-azione, rivelazione, e redenzione94. Questo tempo non cessa di darsi, all’alba del XX secolo, in cui l’opera buberiana trovava la propria fonte di i-spirazione, così come all’alba del XXI in cui noi ci troviamo:

«La creazione è l’origine, la redenzione è la meta, ma la rive-lazione non è un punto statico, fi ssato, che si può distanziare tra le due; non è la rivelazione del Sinai il centro, ma il fatto che possa accadere che venga percepita sempre di nuovo. La Scrittura è documento originario della storia di un mondo che oscilla tra creazione e redenzione, di un mondo al quale, nella

92 Infra, p. 183.93 Ibi, p. 169.94 Cfr. M. Buber, Der Mensch von Heute und die jüdische Bibel, in Id.,

Werke II, Kösel-Lambert Schneider, München-Heidelberg 1962-1964, p. 855. Una formulazione di questa tripartizione sarà presentata da Buber in più punti delle presenti lezioni.

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sua storia, accade la rivelazione, una rivelazione che mi acca-de quando Io sono presente»95.

In modo complementare, il concetto di relazione come «semplice essere di fronte» che vuol dire già pre-senza, può così vivifi care attivamente ogni religione, ed infatti il «semplice essere di fronte (Gegenübertreten) è quello che tutte le religioni, ogni volta, hanno com-preso come il reale nella sua realtà. Ma con questo [...] non si intende nient’altro che l’accettazione della pre-senza immediata»96. Proprio la sempre presente possi-bilità della rivelazione, supremo momento dialogico e, quindi, di incontro, riporta la religione alla propria vera dimensione, quella di relazione, e, in quanto tale, di pre-senza:

«Relazione dialogica dell’uomo indiviso con il Dio indiviso, nella pienezza del presente terreno»97.

Francesco Ferrari

95 Ibi, pp. 853, 854.96 Infra, p. 139. 97 M. Buber, La passione credente dell’ebreo, cit., p. 73.

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