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PONTIFICIA UNIVERSITÀ GREGORIANA Facoltà di Storia e Beni Culturali della Chiesa Secondo Ciclo STUDENTE Fra Luciano Cinelli OP matr. 161084 L'ASCESA DEL CETO CIVILE A NAPOLI FRA LA SECONDA META' DEL SECOLO XVII E LA FINE DEL SECOLO XVIII DIRETTORE Prof. Fidel Gonzáles Fernández, M.C.C.I. A.A. 2011/2012

Ascesa del ceto civile a Napoli nel XVII secolo

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PONTIFICIA UNIVERSITÀ GREGORIANA

Facoltà di Storia e Beni Culturali della Chiesa

Secondo Ciclo

STUDENTE

Fra Luciano Cinelli OP matr. 161084

L'ASCESA DEL CETO CIVILE A NAPOLI FRA LA

SECONDA META' DEL SECOLO XVII E LA FINE DEL

SECOLO XVIII

DIRETTORE

Prof. Fidel Gonzáles Fernández, M.C.C.I.

A.A. 2011/2012

1

L'ASCESA DEL CETO CIVILE A NAPOLI FRA LA SECONDA

META' DEL SECOLO XVII E LA FINE DEL SECOLO XVIII

“Gli incunaboli della nuova cultura risalgono in Napoli alla seconda metà del

seicento e i nomi di coloro che ne furono iniziatori e promotori risonarono a

lungo, pronunciate con gratitudine dai loro scolari della seconda e terza

generazione, finché non sopravvennero sul finire del settecento altre

sollecitudini ed altri pensieri”.1

Così Benedetto Croce nella Storia del Regno di Napoli sottolinea l'importanza che

la seconda metà del Seicento riveste per la storia della cultura napoletana, come

spartiacque da cui far partire il rinnovamento intellettuale, innescato

dall'introduzione della nuova filosofia cartesiana. Ma gli anni 1648-1650

rivestono un'importanza fondamentale anche, anzi direi principalmente nella

storia politico-istituzionale del Regno.

Dopo il fallimento della rivolta di Masaniello (7 luglio 1647- 6 aprile 1648), la

monarchia spagnola perseguì una politica di restaurazione a tutti i livelli, allo

scopo di creare una forte stabilità politica, unica garanzia contro la minaccia di

un'altra simile esperienza. Sotto i governi dei vicerè, il conte d'Onãte e del suo

successore il conte di Castriglio “...le forze politico-sociali presenti sulla scena

tendevano ad una reciproca contrapposizione, che facilitava il compito del

governo e insieme ne attestava anche il successo, poiché quella reciproca

contrapposizione altro non era che l'effetto della mancanza di spazio e di

possibilità d'azione, avvertita nei confronti del potere centrale”.2

Si attuò quindi un nuovo equilibrio delle forze locali, che determinò, a partire

1 - CROCE, p.145

2 - GALASSO, p. 53

2

dal viceregno dell'Onãte (1648-1653) l'ascesa del "ceto civile", i cui membri

formavano una burocrazia degli uffici pubblici “...intorno alla quale egli riuscì a

stringere i gruppi moderati dell'aristocrazia e del ceto popolare”3 ; ed è sempre

in questo frangente che “l'azione politica e la vita civile napoletana furono

sostenute ed accompagnate da una cultura nuova.”4

La cultura precedente alla rivolta antispagnola era caratterizzata dall'

intransigente scolasticismo delle filosofie controriformistiche, da cui

dipendevano, come diramazioni tecniche l'economia, il diritto e la medicina. Il

sintomo dell'entrata in crisi di questo sistema fu la cosiddetta "filosofia

colonnese", cioè l'accademia filosofica fondata da Camillo Colonna intorno agli

anni quaranta del sec. XVII, che attrasse i migliori spiriti della giovane

"intellighentia" della città. La nuova cultura ebbe legami sia con questa

accademia sia con la tradizione giuridica, specialistica e tecnica, rappresentata

eminentemente dal Di Capua e dal Cornelio, allievi del Severino; fu grazie a

Tommaso Cornelio che a Napoli vennero introdotte, al suo ritorno dall'esilio nel

1649, le idee di Gassendi, di Cartesio, di Bayle, di Grozio e di altri filosofi del

tempo. Il suo nome però è legato strettamente anche alla creazione

dell'Accademia degli Investiganti, realizzata con il patrocinio di Andrea

Conclubert, marchese di Arenca, viceré di Napoli; questa istituzione si propose

di confutare, in nome della ragione cartesiana ogni tipo di indagine, basata sulla

vecchia autorità di Aristotele; nella seconda metà del Seicento “le Accademie

che si crearono a Napoli furono espressione dell'intesa fra giurisprudenza e

filosofia”5, intesa che fu determinante per la formazione del nuovo pensiero

giuridico, influenzato dal giusnaturalismo.

Intorno agli anni sessanta del secolo XVII il dibattito, accesosi con la guerra di

"devoluzione" (1665), diede un grosso contributo alla circolazione delle nuove

3 - RUSSO, p. 245

4 - GALASSO, p.85

5 - Cfr. MASTELLONE, Pensiero politico, pp. 21ss.

3

idee; il principale protagonista ne fu Francesco D'Andrea, giurista di grande

caratura ed espressione del ceto civile emergente. Egli fu convinto assertore

della necessità di applicare le nuove idee agli studi giuridici e a questo fine si

adoperò per l'assegnazione delle cattedre dello Studio di Napoli a coloro che

potevano garantire un valido contributo alla diffusione della nuova cultura, cioè

a personaggi come il Cornelio, il Di Capua, l'Ausilio ed il Messere. La sua opera

principale, la Risposta al Trattato delle ragioni della Regina cristianissima sopra

il ducato di Brabante e altri Stati della Fiandra (1667), fu il suo contributo per

dirimere la questione posta dalla guerra di "devoluzione". Alla morte del re di

Spagna Filippo IV, il re di Francia Luigi XIV occupò alcune città delle Fiandre,

con il pretesto che la dote assegnata a sua moglie Maria Teresa, figlia di primo

letto del re defunto, non era stata ancora pagata, fondando le sue pretese sul

diritto di "devoluzione", vigente nel Brabante, per il quale l'eredità spettava ai

figli di primo letto e non a quelli di secondo, quale era invece il nuovo re di

Spagna Carlo II. Per dimostrare l'ingiustizia di queste pretese, il D'Andrea

utilizzò la dottrina di Grozio, attingendo così alla cultura riformata, la cui

diffusione fu possibile per il riavvicinamento della Spagna cattolica ai paesi

protestanti proprio in occasione di questa guerra6.

Per il giurista il diritto di "devoluzione" era da considerarsi appartenente alla

sfera del diritto privato e perciò non poteva essere applicato alle successioni

reali, che rientravano invece nella sfera del diritto pubblico. Altra fonte del

D'Andrea fu Samuel Pufendorf (1637-1694), dal quale egli derivò sia il principio

secondo cui il diritto di proprietà è legittimo, a patto che sia una proprietà

"d'uso" e non di "abuso", cioè che consenta la libera circolazione delle merci, sia

lo sganciamento del diritto da ogni considerazione di ordine teologico, dato che

esso si rivolge all'uomo reale vivente sulla terra.

Intorno al 1660 la crisi economica del Regno giunse al culmine: i baroni

sobillavano i vassalli e la monarchia spagnola che prima del 1648 aveva concesso 6 - A tal proposito cfr. MASTELLONE, Francesco D'Andrea, pp.15-50.

4

alla feudalità il diritto di creare i giudici e i funzionari, il potere regio di polizia e

l'esercizio della giustizia, timorosa della reazione dei baroni, si appoggiò al ceto

civile composto essenzialmente dai "nobili di cappa" e da borghesi che miravano

ad un peso sempre più rilevante nel governo ed all'acquisto di un titolo e di un

feudo.

A sostegno della monarchia spagnola e del governo vicereale venne ingaggiata

una polemica antifeudale, che già all'inizio del secolo XVII aveva visto

impegnati giuristi come Carlo di Tapia, Agnello Amato, Fulvio Lamario,

Vincenzo de Franchis, il cardinale Carlo Antonio de Luca e Francesco Rocco7.

Sulla progressiva identificazione del ceto forense con il partito spagnolo,

Raffaele Colapietra nel suo saggio Vita pubblica e classi politiche nel viceregno

napoletano (1656-1734), sostiene che “...il ceto forense, legato com'era al potere

vicereale e all' immobilismo giuridico ed economico ed al disordine

amministrativo, non può essere considerato classe dirigente, titolo che spetta

all'aristocrazia, l'unico ceto che aveva coscienza di classe e autonomia di

governo”8; ma “il giudizio sulla funzione del ceto civile ha significato storico

solo se è messo in rapporto con quella che era la sitazione generale del Regno di

Napoli nella prima metà del Seicento e non in funzione di quello che sarà poi

l'Illuminismo oppure la Rivoluzione francese, oppure il Risorgimento”9.

Il D'Andrea insieme a Giuseppe Valletta, altro eminente giurista, partecipò

attivamente alla polemica antifeudale e alla lotta anticuriale viva in quegli anni.

Questi giuristi scorsero nell'ampia giurisdizione concessa ai baroni dai governi

vicereali la principale causa della depauperazione dei vassalli e dell'usurpazione

di molti diritti regi, come ad esempio l'imposizione dei dazi, che secondo loro

poteva essere compiuta solo dal Principe e non da "subordinati" come i baroni; il

ceto civile si fece promotore dell'abolizione di ogni tipo di esazione imposta

7 - MASTELLONE, Pensiero politico, p. 26.

8 - COLAPIETRA, p.202.

9 - MASTELLONE, Pensiero politico, p. 58.

5

sulle vie del Regno, in nome del diritto comune delle genti che “non viene

considerato come astratto diritto pubblico, ma come richiamo ad un principio di

libertà in seno allo stato”10.

La nuova politica vicereale inaugurata dal marchese del Caprio nel 1683

determinò l'inasprimento della lotta antibaronale, condotta dal ceto civile, che

sotto il suo governo assunse un ruolo di primo piano nell'amministrazione (ad

esempio con la pragmatica ” de exteris in regnum venientibus”, i ministri togati

ebbero l'incarico di sorvegliare le mosse degli emissari stranieri); si iniziò così

un processo che porterà il ceto civile ad assumere sempre più posizioni di

maggior rilievo politico e sociale nella vita cittadina, che sarebbero state poi

consolidate dalla funzione svolta dalle alte magistrature del Regno e della

Piazza popolare nel passaggio dagli Spagnoli agli Austriaci (1707)11.

La trasformazione in senso civile della vita amministrativa del Regno apparve

con tutta la sua evidenza nel 1687, all' indomani dell'improvvisa morte del

viceré, quando cioè grazie alla costituzione di un'efficiente amministrazione, fu

possibile l'esperienza di interviceregno, un governo a carattere amministrativo

retto da togati, in attesa della nomina a nuovo viceré del conte di Santostefano

Francesco Benarides.

Giuseppe Valletta autore della Risposta ad Amico sopra le Ragioni della Città di

Napoli per l'Assistenze domandate alla Fabrica della Nuova Moneta (1675), impresse

alla lotta antifeudale un più deciso carattere giurisdizionalista, attingendo non

solo a Grozio e Pufendorf , come fece il D'Andrea, ma anche a pensatori francesi

come Bodin, Du Moulin, Ayrault e tedeschi , fra cui Benedikt Carpzov, autore

della Iurisprudentia Ecclesiastica o Opus Definitionum Ecclesiasticorum (1649).

Ben presto però il Valletta si impegnò sul fronte della polemica anticuriale che

affondava le sue radici nel tradizionale giurisdizionalismo napoletano, avverso

al Sant'Uffizio: la Curia romana, avvertendo la minaccia costituita in questi anni

10- MASTELLONE, Francesco D'Andrea, p.121.

11- RUSSO, pp.246-7.

6

dall'introduzione delle dottrine straniere e dei libri proibiti nel Regno, intentò

una serie di processi nei confronti dei maggiori esponenti della rinnovata

cultura, come Basilio Giannelli o Giacinto de Cristofaro, avvocati in stretto

contatto con la Piazza popolare, cioè con il ceto dei commercianti e degli

artigiani. I seggi costituirono allora una Deputazione contro il Sant'Uffizio ed

inviarono una delegazione in Spagna, per implorare per Napoli il privilegio di

esenzione dall'Inquisizione; da questi fatti appare evidente che l'anticurialismo

della fine del secolo XVII fu “di concordanza”, cioè un atteggiamento comune a

governo, nobiltà di piazza e giuristi togati.12

Napoli si era sempre opposta all'introduzione del tribunale del Sant'Uffizio fin

dai tempi di Ferdinando il Cattolico, che aveva proibito la presenza degli

Inquisitori nel suo Regno e forte di questa tradizione il ceto civile reagì

prontamente. Giuseppe Valletta, incaricato nel 1691di scrivere una

“memoria”sulla questione, pubblicò nel 1693 il Procedimento Ordinario e Canonico

nelle Cause che si trattano nel Tribunale del Sant'Uffizio nella Città e nel Regno di

Napoli, in cui ripercorrendo la storia della Chiesa dalle origini ai tempi attuali,

sottolineava il processo di allontanamento di questo, dallo spirito originario e

considerava il Tribunale dell'Inquisizione, istituito sotto il regno di Federico II,

un'istituzione non solo governata da regole arretrate ed ingiuste, ma contraria

alle leggi di natura, non potendo gli accusatori presentare alcuna prova, né gli

accusati difendersi; per rimediare a tutto questo, Valletta auspicava la

separazione fra Stato e chiesa, ognuno indipendente nel proprio campo.

Questo trattato si inseriva nel dibattito di ampiezza europea sull'Inquisizione, a

cui parteciparono sia eruditi di parte cattolica, come il francese Dellon con

l'opera l'Histoire de l'Inquisition de Goa (1688), in cui l'autore riportava le sue

vicissitudini dopo la sua cattura da parte dell' Inquisizione durante un suo

viaggio in India, sia di parte protestante, con l'olandese Philippus Van

Limborch, autore anch'egli di una Historia Inquisitionis (1692); tra le due 12- MASTELLONE, Pensiero politico, p.71.

7

impostazioni “... non v'era in fondo grande differenza, sennonché il primo

pareva invocare sull'Inquisizione la condanna della stessa Chiesa e l'altro

pareva, agli occhi dei cattolici, continuare in una polemica di natura

protestante”13.

Il ceto civile nella polemica anticuriale non ricorse agli apporti stranieri così

ampiamente come fece nella polemica antifeudale; infatti “...la soluzione che il

ceto intellettuale escogitò dei problemi determinati dei rapporti con la Chiesa di

Roma e quella locale, non si avvaleva di apporti dall'estero. Il ceto intellettuale

su questa materia era autonomo...”14.

Su questa spinosa questione intervennero anche altri membri del ceto

intellettuale, come il grande avvocato Serafino Biscardi, che ribadì il diritto del

governo di riscuotere ogni quindici anni le imposte dagli enti ecclesiastici, in

sostituzione del “relievo”, la tassa pagata al sovrano dai feudatari laici

all'entrata in possesso di un nuovo feudo; Pietro di Fusco invece , membro della

Deputazione e rappresentante della Piazza popolare, invitò i suoi colleghi ad

inviare presso la Santa Sede una delegazione con la richiesta di espellere il

delegato dell'Inquisizione romana dalla città di Napoli, di investire l'autorità

vescovile del potere di istruire e di rendere pubblici i processi d'eresia e di poter

procedere all'arresto solo dopo aver raccolto prove inconfutabili. Questo deciso

tentativo s'infranse però contro il muro diamantino dell'espertissima diplomazia

pontificia che per calmare gli animi assicurò i membri della Deputazione della

paterna benevolenza di Papa Innocenzo XII verso Napoli , sua città natale.

Alla scuola dell'anticulturalismo della fine del secolo XVII si formò Pietro

Giannone (1676-1748), che giunto a Napoli nel 1694 e frequentata la scuola del

celebre professor Domenico Aulisio, in cui ricevette la formazione romanistica

ritenuta necessaria per una completa conoscenza del diritto contemporaneo, fu

assunto allo studio legale dell'Argento intorno ai primi anni del sec. XVIII

13- COMPARATO, p.186.

14- MARINI, pp.51-2.

8

(1707-1708). Gaetano Argento, professore giurista, presidente del Collaterale e

delegato della regia giurisdizione sotto il viceregno austriaco, non solo aveva

proposto “...che si lasciassero liberi i professori dell'Università di abbandonare

Aristotele e seguire i filosofi e gli scienziati moderni e che si restringessero a due

sole le cattedre di teologia, aggiungendo in cambio, come meglio adatte ai

tempi, quelle di diritto criminale e diritto municipale”15, ma si era battuto anche

per la restrizione del diritto d'asilo e di altri privilegi della giurisdizione

ecclesiastica, nonché per l'abbreviazione dell'enfiteusi a coloro che avevano

bonificati e coltivati i terreni del clero.

Il quadro politico in cui operarono l'Argento e il Giannone è profondamente

diverso da quello dei primi esponenti della nuova cultura; alla morte di Carlo II

d'Asburgo, senza discendenti, era stato designato come successore Filippo di

Borbone, nipote di Luigi XIV, con una clausola di rinunciare ai diritti alla

successione francese; la mancanza alla parola data diede inizio alla guerra di

successione spagnola: Luigi XIV, infatti, aveva fatto confermare i diritti del

nipote al trono di Francia. In questo delicato momento, il ceto civile compì ogni

sforzo per difendere la propria posizione e mantenere stabile l'equilibrio sociale

in atto; perciò alla morte di Carlo II d'Asburgo, dopo essere stato propenso ad

un ritorno all'autonomia dinastica, accarezzata da forze politico-sociali, quali i

gruppi oltranzisti dell'aristocrazia feudale emarginati dal precedente governo, “

il ceto civile insieme agli altri ceti più interessati al sistema si schierò a favore

della Spagna”16.

La fedeltà alla dinastia, che per oltre due secoli governava il Regno, fu lo

strumento di difesa da quei ceti, clero e aristocrazia, che vedevano nel cambio

dinastico un'occasione per mutare radicalmente l'assetto sociale in loro favore.

Gli schieramenti che si fronteggiarono nella guerra di successione, cioè franco-

spagnoli da una parte e Anglo-Imperiali-Olandesi dall'altra, si ripeterono in

15- CROCE, pp.147-8.

16- RUSSO, p.247.

9

Napoli in due partiti: l'uno patrizio, filo austriaco e favorevole al cambio

dinastico, l'altro filo spagnolo, sostenuto dalla burocrazia ; il partito patrizio

cercò di inserirsi nel conflitto in atto tra le maggiori potenze europee con la

congiura del principe di Macchia, Gaetano Gambacorta, una rivolta finalizzata a

destabilizzare l'ordine politico-sociale. Questo avvenimento ebbe notevoli

ripercussioni nella vita culturale partenopea, suscitando una viva polemica fra i

sostenitori dell'illegittimità della successione di Filippo V 17 e i suoi fautori, che

lo sostenevano in quanto successore designato del re Carlo II prima di morire,

Amato Dauno, Vincenzo D'Ippolito, Nicola Capasso e Serafino Biscardi,

intervenendo nella polemica, riconobbero la legittimità della successione di

Filippo V e anche un generico titolo di dipendenza del Regno della Santa Sede;

Nicola Caravita invece osservò come il diritto pontificio sul Regno non fu mai

posseduto dai Papi né per elezione, né per successione, né per donazione;

inoltre, qualora un principe fosse divenuto vassallo di un altro signore, tale

rapporto non avrebbe coinvolto il popolo, che viene considerato inalienabile.

Gli ultimi anni di viceregno furono caratterizzati da un enorme progresso nella

vita culturale e morale; la conquista del Regno da parte delle truppe austriache ,

avvenuta il 7 luglio del 1707, pose bruscamente fine a duecentoquattro anni di

dominio spagnolo. Questo avvenimento rafforzò il potere del partito filo

austriaco, vale a dire dell'aristocrazia tradizionale, che avanzò ben presto

importanti richieste finalizzate al rafforzamento delle proprie posizioni: la

riforma del nuovo codice, a cui attesero i migliori esponenti del ceto civile (il

Biscardi, l'Argento, il Giannone), il reclutamento dell'esercito solamente fra i

Napoletani e i rafforzamento della nobiltà più antica.

Sotto il dominio asburgico il Collaterale e le altre magistrature si ridussero ad

organi esecutivi delle direttive di Vienna che, operando un rimpasto nell'alta

burocrazia, fece affidamento su una nuova generazione di uomini politici ed

17 - Tale successione era infatti avvenuta senza il consenso dei Parlamenti generali del Regno e

delle Piazze di Napoli senza il suggello dell'investitura pontificia.

10

intellettuali, in cui era prevalente più la componente avvocatesca del ceto civile

che quella burocratica. La politica del nuovo governo fu però incostante,

oscillando fra velleità riformistiche e ritorni al passato.

Furono questi gli anni in cui Giannone operò a Napoli. Il 1707 può essere

considerato un anno di svolta non solo per il mutamento politico-istituzionale,

ma anche per il nuovo orientamento che aveva assunto la polemica anticuriale,

incentivata dalla politica giurisdizionalista sia dell'imperatore Giuseppe I che di

suo fratello e successore Carlo VI. Gaetano Argento tra il 1707 e il 1709 scrisse

una dissertazione dal titolo De re beneficiaria in cui difendeva la collazione dei

benefici ecclesiastici sancita da un editto di Carlo VI; questo scritto segna il

passaggio, operato dal ceto civile, dalla tematica antifeudale alla tematica

giurisdizionalista. In questo mutato clima culturale, Pietro Giannone concepì l'

Istoria civile del Regno di Napoli, una lettura del passato remoto e recente, frutto

della collaborazione di “...una nutrita équipe d'amici, i quali compirono con lui

le ricerche e gli fornirono materiali”18, cioè il gruppo di studiosi formatisi alla

scuola dell'Argento.

L'Istoria “è un gigantesco processo a Roma temporale”19, in cui si analizzano

approfonditamente i rapporti fra la Chiesa e il Regno di Napoli durante i secoli,

ribadendo la condanna dell'Inquisizione ed il biasimo per il clero regolare,

colpevole di accumulare ricchezze aggravando l'economia dello stato. Giannone

affrontò anche lo scottante problema dell'Investitura, negando che Roma avesse

donato il Regno ai Normanni, che ne erano stati i conquistatori; quindi a

differenza del Caravita, egli non condannò l'Investitura in sé, che al limite era

vantaggiosa per il popolo, protetto così dalla temuta potenza ecclesiastica, bensì

la modalità con cui era avvenuta. L'autore osservava inoltre come la storia della

Chiesa non era altro che un allontanamento dalla purezza iniziale, a causa

dell'usurpazione da parte dei vescovi di prerogative che non appartenevano

18- BERTELLI, p.364.

19- MARINI, p.71.

11

loro.

Per rimediare a questa situazione egli auspicava il ripristino dei diritti spettanti

al Principato, cioè la censura sui libri, il controllo delle Chiese, l'imposizione

fiscale sui beni ecclesiastici, la possibilità di limitare il diritto d'asilo e di vietare

agli enti ecclesiastici l'acquisto di beni immobili.

In questa storia del progresso temporale della Chiesa Giannone si rifece

essenzialmente a due filoni: quello della storia profana, nella quale sua guida fu

Ugo Grozio con la sua Historia Gotthorum, Vandalorum et Langobardorum

(Amsterdam 1655), e quello della storia ecclesiastica, con il suo più importante

esponente Louis Ellies Dupin, autore del Traité historique des excommunications

(Parigi 1716-1719), uno dei protagonisti della"querelle" giurisdizionalistica

scatenata in Francia dalla bolla papale Unigenitus proprio in quegli anni.

Nell'Istoria viene superata la visione oligarchica del ceto forense, essendo posta

nello Stato la ragion d'essere della società civile; nonostante il superamento

della concezione feudale dello Stato, l'opera creò difficoltà politiche e divisioni

all'interno del ceto intellettuale, anche se in esso si sviluppavano quei temi e

quelle aspirazioni degli esponenti della nuova cultura napoletana.

La linea anticuriale perseguita per un breve periodo da Carlo VI, venne

completamente abbandonata nel 1722, quando la Santa Sede riconobbe la

Pragmatica Sanzione (1713), la legge cioè che modificava la linea di successione

per garantire il trono a sua figlia Maria Teresa d'Asburgo; questo

riavvicinamento venne sancito dalla nomina a viceré del cardinal Friedrich

Michael Althmann (1722-1728). Quando nel marzo del 1723 l'Istoria civile viene

pubblicata senza l' imprimatur ecclesiastico, si scatenarono violente reazioni non

solo da parte ecclesiastica ma anche da parte degli organi statali, come ad

esempio il Collaterale, che giudicò l'opera lesiva della giurisdizione regia. Il

gruppo dell' Argento, che aveva collaborato alla stesura dell'opera, espresse in

questa occasione il suo moderatismo non intervenendo a favore di Giannone ed

anzi commissionando ad un suo esponente Gregorio Grimaldi, una versione

12

"moderata" dell' Istoria civile, espressione di un ambiente che “intendeva elidere

le proprie punte radicali, riorganizzare la coscienza politica del ceto forense

indebolita dalle polemiche su Giannone e giungere alla pacificazione in uno

spirito moderato”20.

Presso le giovani generazioni l'Istoria civile riscosse notevoli consensi e ciò fu

dovuto “alla preparazione dell'ambiente anticurialistico napoletano, nel quale si

diffusero, avidamente ricercati, l'Istoria, l'Apologia, la Professione di fede e le

Ragioni dell'Arcivescovado beneventano; all'appoggio regio al movimento

giurisdizionalistico, che se mancò per un momento sotto Carlo VI, riprese e poi

si mantenne costante sotto Carlo di Borbone e Ferdinando IV fin verso il 1791 ed

alla particolare natura prevalentemente tattica dell'Istoria civile21.

Nel 1734 il Regno di Napoli tornò ai Borboni nella persona di Carlo III, figlio di

Filippo V e di Elisabetta Farnese: Napoli finalmente non era più provincia.

Questo avvenimento suscitò grandi speranze, che si mantennero vive

nonostante le alterne vicende del decennio 1734-1744, quando con la vittoria di

Velletri sugli Austriaci, la conquista borbonica del Regno fu definitiva.

Intorno agli anni quaranta del secolo XVIII nacque una nuova classe politica, a

cui appartennero gli esponenti del ceto forense “in quanto da leghisti si fecero

filosofi, storici ed economisti”22.

È così che “l'esigenza di rinnovamento che già le élites culturali della precedente

generazione avevano avvertito ma non avevano saputo tradurre in atto, trova

ora, nella piena affermazione dello spirito illuministico, un inquadramento

teorico e un fondamento tecnico: si organizza, si sistema in un programma ben

definito nei suoi fini e nei suoi mezzi”23.

L'accordo fra "l'intellighentia" napoletana ed il potere regio si manifestò quindi

con evidenza nei primi anni del regno di Carlo III; nel 1737 Antonio Genovesi

20- DE GIOVANNI, p.477.

21- MARINI, p.108.

22- ROMEO, p.170.

23- VALSECCHI, p.129.

13

(1712-1769) propose in una memoria al sovrano un ampio intervento del

governo per ridurre le ricchezze ecclesiastiche, sostenendo che al mantenimento

della Chiesa sarebbe stata sufficiente una cifra fissa, tale da rendere superfluo ad

essa il possesso di beni immobili, che lo Stato avrebbe potuto così incamerare.

Egli chiese inoltre la soppressione del Tribunale della Nunziatura, in modo da

investire la Chiesa locale solamente delle questioni spirituali, sollevandola da

quelle temporali.

A questa data il Genovesi aveva da poco abbandonato gli studi di metafisica, di

etica e di teologia e questo si deve senza dubbio all'influenza della polemica

giannoniana che, se anche mise in ombra l'aspetto economico, mirò, come

abbiamo visto, ad assicurarsi l'appoggio regio; perciò “il giannonismo

costituisce la premessa e la base da cui muove tutto il riformismo napoletano

che, partendo dall'accoglimento del nucleo centrale del pensiero giannoniano e

mantenendo e precisando quel difficile limite pratico e politico che ha dato

vigore e concretezza all'anticurialismo dei primi anni del secolo, allarga

l'indagine e la polemica a tutto l'ordinamento della società e dello Stato e quindi

ai problemi e alle contraddizioni economiche che da questo ordinamento

scaturiscono”24.

Carlo III però, temendo una possibile alleanza di Vienna con Roma per

riconquistare il Regno, si mostrò propenso successivamente ad una politica

concordataria, accogliendo l'Investitura, l'offerta della “chinea”, ottenendo così

dalla Santa Sede il riconoscimento del regio exequatur, l'abolizione del Santo

Uffizio, la riduzione del foro ecclesiastico e del diritto d'asilo.

Nel 1741 il concordato con la chiesa sancì questa linea politica, che vanificò tutta

una serie di provvedimenti precedenti, ispirati all'anticurialismo, come il

conferimento dei benefici ecclesiastici esclusivamente ai “regnicoli”, la

limitazione del numero dei conventi e delle chiese, l'introduzione del Catasto

che contribuiva ad equilibrare il carico finanziario sui sudditi e obbligava gli 24- VILLARI, pp.4-5.

14

ecclesiastici al pagamento dei tributi. Tutti questi tentativi si risolsero in

fallimenti, sia per il timore della Santa Sede che per l'opposizione del

baronaggio, che nel 1744 ottenne la revoca delle leggi sugli abusi feudali,

minacciando di impedire la riscossione da parte della Corona di una tassa

speciale, che spettava ad esso approvare; il programma riformistico quindi si

infranse contro l'ostilità del vecchio ordine.

Il conferimento al Genovesi della cattedra di economia politica, voluta nel 1754

da Bartolomeo Intieri, intellettuale toscano “sensibile ai richiami di una cultura

libera e moderna”25, contribuì alla diffusione degli interessi economici fra i

giovani napoletani, che venendo così messi in rapporto con i problemi reali del

Regno, scoprirono l'utilità pratica della scienza economica e questo fu facilitato

dal fatto che le sue lezioni si tennero per la prima volta in lingua italiana.

Fisiocratico in economia (Lezioni di commercio, pubblicate a Napoli nel 1765), il

Genovesi si impegnò nella lotta all'anticurialismo nei suoi ultimi anni di vita,

ottenendo l'abolizione, nel 1768, sotto la reggenza di Bernardo Tanucci, della

cattedra dei Decretali all'Università di Napoli, sostituita con quella dei Concili,

affidata all'ecclesiastico Francesco Conforti, futuro ministro della Repubblica

partenopea.

Sempre nello stesso anno il Genovesi nel suo Piano delle scuole si occupò

dell'istruzione, stilando un progetto di riforma che ne prevedeva l'estensione a

tutti i ceti sociali e che era ispirato alla sua convinzione che la cultura dovesse

essere trasmessa a tutti i ceti; così ha inizio “quel vasto movimento pedagogico

nazionale e laico che più tardi nel periodo francese culminerà in Vincenzo

Cuoco e Matteo Galdi”26. Il 1768 è un anno importantissimo anche per la storia

politico-istituzionale del Regno: è l'anno infatti in cui termina la reggenza di

Bernardo Tanucci, iniziata nel 1759, l'anno dell'ascesa al trono spagnolo di Carlo

III e della nomina di suo figlio Ferdinando IV alla successione nel Regno di

25- VILLARI, p.18.

26- MOSCATI, Il Mezzogiorno, p.59.

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Napoli. Il governo della reggenza non attuò quelle riforme tanto auspicate, ad

eccezione però della politica anticuriale, che raggiunse il suo apice con la

cacciata di seicentocinquanta gesuiti dal Regno.

Attorno al Tanucci “operarono, nel periodo della sua massima esperienza

politica, uomini di cultura impegnati a modificare la realtà sociale ed economica

del Paese”27, vale a dire personalità di spicco come Ferdinando Galiani (1728-

1787) autore del Trattato della Moneta (1751) e nipote di Celestino Galiani, padre

di quel progetto di riforma dell'istruzione (1732) che prevedeva la soppressione

di molte cattedre inutili nello Studio di Napoli, vano tentativo di sottrarre

l'intero sistema scolastico al controllo dei Gesuiti; il Galiani però “non intese

quel che v'era di serio e di valido nelle nuove parole di "Natura" di "Umanità" e

di "Ragione"28, egli fu superiore senza dubbio al Genovesi per la sua profonda

cultura “ma caustico, maligno, cinico e sovente frivolo, fu più ammirato che

amato e non ebbe scolari”29. Ma fra gli illuministi napoletani quegli che più di

tutti riuscì ad accogliere ampiamente gli influssi della cultura contemporanea

europea fu Gaetano Filangeri (1752-1788), autore della Scienza della legislazione,

pubblicata nel 1781-3, un trattato in cui era posta in evidenza l'arretratezza dei

vecchi istituti giuridici rispetto ai nuovi tempi; strenuo giurisdizionalista, fu

convinto assertore del diritto del legislatore di intervenire anche nella religione,

concepita esclusivamente come religione di Stato. Egli apparteneva ad una

nobile famiglia napoletana e ciò non deve destare meraviglia dato che la

nobiltà, abbandonata la difesa del particolarismo feudale, si era affiancata

all'assolutismo regio insieme al ceto intellettuale per operare le riforme. Siamo

in piena epoca ferdinandea, “il moto spirituale iniziatosi col secolo è nella sua

piena maturità, la collaborazione fra il governo e la nuova aristocrazia dell'

ingegno, fra la politica e la cultura, raggiunge il suo vertice”30.

27- SIRRI, p.167.

28- ROMEO, p.173.

29- CROCE, p.161.

30- VALSECCHI, p.157.

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Quelle riforme che né Carlo III né la reggenza del Tanucci ebbero il coraggio di

portare fino in fondo, furono attuate negli anni ottanta del secolo XVIII, con la

creazione di uno stato forte e accentrato, l'eliminazione di alcune prerogative

baronali (il feudatario però aveva ancora il diritto di esercitare la giustizia ed

esigere tributi), dei maggioraschi e dei fedecommessi, del foro ecclesiastico,

delle esenzioni fiscali del clero e l'abolizione dei dazi; nell'economia ci si limitò

invece al miglioramento delle tecniche agrarie e delle colture, però più per

iniziativa privata che governativa. Nel 1788, grazie all'intervento di Domenico

Caracciolo, primo ministro del Re, venne abolito l'omaggio feudale della

“chinea”, che ricordava la dipendenza del Regno dalla Santa Sede; nonostante

questi interventi “il cammino del riformismo borbonico appare lento e stentato,

senza la spinta di una sicura volontà animatrice, senza la guida di un preciso e

definitivo disegno”31.

Fra gli intellettuali dell'ultima generazione illuminista napoletana spiccano le

figure di Giuseppe Palmieri, autore delle Riflessioni sulla pubblica felicità

relativamente al Regno di Napoli (1787), di Giuseppe Maria Galanti, autore della

Descrizione delle Sicilie , la maggiore opera statistico-storica del settecento

napoletano e di Francesco Pagano (1748-1799), protagonista di primo piano nella

Repubblica partenopea; questi intellettuali mostrarono una maggiore aderenza

alle realtà problematiche del Mezzogiorno: era tramontato l'ingenuo ottimismo

che aveva caratterizzato l'Illuminismo del Genovesi e del Galiani.

Lo scoppio della Rivoluzione francese (1789) comportò, in politica estera, un

riavvicinamento all'Inghilterra in funzione antifrancese del Regno di Napoli, che

sarà trascinato nella guerra contro la Francia e sarà invaso due volte, nel 1799 e

nel 1806. La scoperta di una congiura di tipo giacobino contro il potere regio

portò alla condanna di famosi esponenti del mondo intellettuale, come il

Vitaliani e il De Deo: “le feroci inquisizioni politiche del 1795-7 furono il primo

di quei tragici errori che dovevano allontanare dalla dinastia "l'intellighentia" 31- VALSECCHI, p.170.

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meridionale. Esse infatti ebbero il risultato di rendere rivoluzionari e

antimonarchici gli elementi che rano stati fino ad allora i maggiori sostenitori

del trono e che riappariranno in primo piano nella ribalta politica del 1799”32.

Gli intellettuali che riuscirono a sfuggire alla repressione del 1795 si fecero

"giacobini", immergendosi nel dibattito sull'unità italiana; l'invasione

dell'esercito francese nel Regno, alla fine del 1798, portò alla formazione della

Repubblica napoletana, al cui governo partecipò il ceto intellettuale e borghese,

che cercò di abolire definitivamente la feudalità senza riuscirvi però per i

contasti sorti sia al suo interno sia con i capi dell'esercito francese.

Questa "rivoluzione passiva" come la definì Vincenzo Cuoco, non riuscì ad

attuare il programma di riforme economiche e sociali, che solo avrebbe potuto

consentire l'avvicinamento ad essa delle forze popolari meridionali. La

Rivoluzione del 1799 mancò di qualsiasi legame con la realtà, fu osteggiata dai

conservatori e si dimostrò debole nel rispondere ai bisogni del Paese; in questa

situazione non fu difficile al cardinale Fabrizio Ruffo, organizzatore delle truppe

sanfediste, riconquistare il regno e porre una fine tragica a questa esperienza;

Ferdinando IV attuò una spietata repressione, le cui vittime più illustri furono

Vincenzo Russo, Eleonora de Fonseca Pimentel, Mario Pagano e Francesco

Conforti.

“La rivoluzione del 1799, rivelando l'abisso fra il ceto colto e il Paese, distrusse

per sempre quell'illusione di rappresentare la causa della "felicità generale" che

aveva fin qui sostenuto gli illuministi napoletani, mentre il solco di odio

scavatosi fra ceto colto e monarchia dopo le stragi del 1799 annullò la base

tradizionale della loro politica. Dopo di allora la parola sarà agli uomini del

pensiero moderato e realistico, agli interventi delle nuove scienze e del nuovo

pensiero del secolo XIX che cominceranno la loro opera con Vincenzo Cuoco,

criticando in idea quel che gli eventi del 1799 avevano criticato nel fatto”33.

32- MOSCATI, p.774.

33- ROMEO, p.186.

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