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I La ‘prima’ Arcadia 1 si concludeva con l’egloga X, interamente dedicata alla circostanziata denuncia del male storico presente, e in particolare della drammatica situazione del Regno immediatamente dopo la con- 1 Nel 1502 Bernardino da Vercelli stampò in Venezia la prima redazione dell’opera, li- mitata alla egloga X, che più o meno dal 1490 circolava manoscritta, e che rapidamente fu ristampata nei due anni successivi ancora a Venezia, a Napoli e a Milano. Questa ini- ziativa non autorizzata indignò sia il Sannazaro, allora esule in Francia, che gli amici na- poletani, sì che il Summonte, con il probabile tacito accordo dell’autore e giovandosi del- l’autografo allora nelle mani del fratello dell’autore, Marco Antonio Sannazaro, fece stampare nel marzo 1504 da Sigismondo Mayr la seconda redazione, corretta e forse com- pletata già nei primi anni ’90 del ’400 con le egloghe XI e XII, mentre può essere più tar- do il congedo A la sampogna e varie correzioni (vedi avanti, note 23 e 47). Tutto ciò po- ne vari problemi all’editore moderno: vedi in part. G. Villani, Per l’edizione dell’«Arca- dia» del Sannazaro, Roma, Salerno, 1989; Id., Ancora sul testo dell’«Arcadia»: come fare l’edizione, nel vol. La Serenissima e il Regno. Nel V centenario dell’Arcadia di Iacopo San- nazaro, Bari, Cacucci, 2006, pp. 729-752, e le puntuali discussioni in merito di M. Riccuc- ci, Il «neghittoso» e il «fier connubbio». Storia e filologia nell’«Arcadia» di Iacopo Sanna- zaro, Napoli, Liguori, 2001 (se ne veda la rec. di S. Signorini, in «La rassegna della lett. italiana», 107, IX, 2003, pp. 244-247, e quella di R. Pestarino, ricca di interessanti osser- vazioni e proposte, in «Strumenti critici», XVIII, 2003, pp. 152-159). Una minuziosa ana- lisi delle edd. 1502 e 1504 è in A. Caracciolo Aricò, Critica e testo. L’avventura della prima edizione dell’«Arcadia» di Jacobo Sannazaro, nei Saggi di linguistica e letteratura in memo- ria di Paolo Zolli, a cura di G. Borghello, M. Cortelazzo e G. Padoan, Padova, Anteno- re, 1991, pp. 507-522. Va ancora ricordato che l’edizione a cura di M. Scherillo, Arcadia di JACOBO SANNAZARO secondo i manoscritti e le prime stampe, con note e introduzione di M. S., Torino, Loescher, 1888, riproduce sino all’egloga decima il testo della prima redazio- ne dal cod. Vat. Lat. 3202, con le varianti di altri testimoni della stessa redazione e quel- le della ‘summontina’ in apparato (e il testo di quest’ultima, ovviamente, per la parte fi- nale): vedi Intr., pp. CCLX sgg., in part. pp. CCLXIV-CCLXV, per la giustificazione di siffatta scelta. Qui mi sono basato sulle due edizioni, quella di Erspamer e quella di Marino, ci- tate nella nota che segue. ENRICO FENZI Arcadia X-XII Girardi_corretto.qxd:Girardi 3-04-2009 13:16 Pagina 35

Arcadia X-XII

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La ‘prima’ Arcadia1 si concludeva con l’egloga X, interamente dedicataalla circostanziata denuncia del male storico presente, e in particolaredella drammatica situazione del Regno immediatamente dopo la con-

1 Nel 1502 Bernardino da Vercelli stampò in Venezia la prima redazione dell’opera, li-mitata alla egloga X, che più o meno dal 1490 circolava manoscritta, e che rapidamentefu ristampata nei due anni successivi ancora a Venezia, a Napoli e a Milano. Questa ini-ziativa non autorizzata indignò sia il Sannazaro, allora esule in Francia, che gli amici na-poletani, sì che il Summonte, con il probabile tacito accordo dell’autore e giovandosi del-l’autografo allora nelle mani del fratello dell’autore, Marco Antonio Sannazaro, fecestampare nel marzo 1504 da Sigismondo Mayr la seconda redazione, corretta e forse com-pletata già nei primi anni ’90 del ’400 con le egloghe XI e XII, mentre può essere più tar-do il congedo A la sampogna e varie correzioni (vedi avanti, note 23 e 47). Tutto ciò po-ne vari problemi all’editore moderno: vedi in part. G. Villani, Per l’edizione dell’«Arca-dia» del Sannazaro, Roma, Salerno, 1989; Id., Ancora sul testo dell’«Arcadia»: come farel’edizione, nel vol. La Serenissima e il Regno. Nel V centenario dell’Arcadia di Iacopo San-nazaro, Bari, Cacucci, 2006, pp. 729-752, e le puntuali discussioni in merito di M. Riccuc-ci, Il «neghittoso» e il «fier connubbio». Storia e filologia nell’«Arcadia» di Iacopo Sanna-zaro, Napoli, Liguori, 2001 (se ne veda la rec. di S. Signorini, in «La rassegna della lett.italiana», 107, IX, 2003, pp. 244-247, e quella di R. Pestarino, ricca di interessanti osser-vazioni e proposte, in «Strumenti critici», XVIII, 2003, pp. 152-159). Una minuziosa ana-lisi delle edd. 1502 e 1504 è in A. Caracciolo Aricò, Critica e testo. L’avventura della primaedizione dell’«Arcadia» di Jacobo Sannazaro, nei Saggi di linguistica e letteratura in memo-ria di Paolo Zolli, a cura di G. Borghello, M. Cortelazzo e G. Padoan, Padova, Anteno-re, 1991, pp. 507-522. Va ancora ricordato che l’edizione a cura di M. Scherillo, Arcadia diJACOBO SANNAZARO secondo i manoscritti e le prime stampe, con note e introduzione di M.S., Torino, Loescher, 1888, riproduce sino all’egloga decima il testo della prima redazio-ne dal cod. Vat. Lat. 3202, con le varianti di altri testimoni della stessa redazione e quel-le della ‘summontina’ in apparato (e il testo di quest’ultima, ovviamente, per la parte fi-nale): vedi Intr., pp. CCLX sgg., in part. pp. CCLXIV-CCLXV, per la giustificazione di siffattascelta. Qui mi sono basato sulle due edizioni, quella di Erspamer e quella di Marino, ci-tate nella nota che segue.

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giura dei baroni del 1485-862. Così, il motivo accennato sin dalle primeegloghe – I e II – e ampiamente ripreso nella VI saliva definitivamentein primo piano e finiva per informare di sé l’opera, rendendo percepi-bile un percorso interno e fermando una conclusione, per provvisoriache fosse. Con ciò, contestualmente, anche l’Arcadia usciva da se stes-sa, quasi che le affascinanti e deboli quinte del teatro pastorale cedesse-ro, o a dir meglio implodessero sotto la pressione incontenibile dellarealtà.

Nella prosa X i pastori seguono il «santo sacerdote» Enareto in unbosco sacro, e giungono alla spelonca ov’è l’altare di Pan, dal quale pen-dono due grandi tavole di faggio che contengono «le antiche leggi e gliammaestramenti de la pastorale vita»; davanti, dal ramo di un pino, pen-de una bella zampogna a sette canne che fornisce l’avvio al lungo di-scorso di Enareto, che dapprima traccia una compendiosa storia dellabucolica antica (Pan, Teocrito, Virgilio) attraverso la storia della zampo-gna, e passa poi all’infelice Clonico, malato d’amore, proponendogli siala possibilità di cacciare da sé l’amore sia quella, contraria, di fare inna-morare l’amata ninfa impiegando in entrambi i casi le sue arti magiche.Dopo di ciò i pastori si allontanano dal bosco, e avendo dinanzi a sé an-

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2 Con un piccolo spostamento in avanti rispetto alle date generalmente indicate: 1484-1485. Ma io sono convinto che il lungo sfogo del Caracciolo, nell’egloga X, sia leggibilesolo sullo sfondo immediato della repressione della congiura, scattata con i famosi arre-sti dell’agosto 1486: ne parlo più diffusamente in L’impossibile Arcadia di Iacopo Sanna-zaro, in «Per leggere», 15, 2008, pp. 157-178: p. 169 e nota 27 (ma diversamente M. Riccuc-ci, Il neghittoso, cit., pp. 72 e 94). Colgo subito l’occasione per rimediare a una mia man-canza. Nel saggio appena sopra citato non ho fatto ricorso a: Iacopo Sannazaro, Arcadia/L’Arcadie, Édition critique par Francesco Erspamer, Introduction, traduction, notes ettables par Gérard Marino, avec une préf. de Y. Bonnefoy, Paris, Les Belles Lettres, 2004,avendo allora distrattamente pensato a una mera riedizione francese dell’edizione italia-na di riferimento, curata dallo stesso Erspamer, Milano, Mursia, 1990. Non è così, sia permerito della bella introduzione di Marino che illustra bene, in particolare, il modo raffi-nato con il quale Sannazaro utilizza le proprie fonti e che integra con nuovi e assai inte-ressanti apporti le già ricche note di Erspamer. Dello stesso Marino si veda anche il sag-gio Itinéraires de Sannazaro en Arcadie. L’héritage de Virgile (de Gallus et Orphée à Ari-stée), in «Lettere italiane», 2, 2007, pp. 251-261, che individua una percorso interno se-condo il quale «l’Arcadie c’est l’abandon progressif de la tension entre l’Idéal et la Réa-lité, propre aux Bucoliques et c’est en même temps le passage à d’autres conceptions, eten particulier morales, qui sont celles des Géorgiques». Aggiungo ancora che al saggioL’impossibile Arcadia, pur derivandone qualcosa, rimando per le considerazioni e la bi-bliografia di tipo storico.

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cora buona parte del giorno decidono di ascoltare il canto di qualcunodi loro: in particolare Opico affida a Selvaggio il compito di celebrarel’attuale «nobile secolo», così ricco di eccellenti poeti. A quel punto,tutti loro scorgono il piccolo colle sulla cima del quale è la piramide ric-camente decorata (avremo poi l’edicola di Filli/Adriana Sassone, la mo-glie di Meliseo/Pontano morta nel 1490, nell’egloga XII, 298) entro laquale sono state poste le ossa di Massilia, la madre di Ergasto3, e propriolì, nell’incanto miracoloso del locus amœnus ch’è anche un capolavorodi arte topiaria minuziosamente descritto, tra i colori dei fiori, il crepitìodelle cicale e i canti degli uccelli, i pastori si sdraiano su letti di lentisco eSelvaggio comincia il suo canto, chiamando Fronimo a rispondergli.

A questo punto, il passaggio all’egloga è per più motivi sorprendente,e dà corpo a uno snodo concettuale e lirico estremamente delicato. Siapure dal sommario riassunto appena fatto dovrebbe emergere come laprosa corrisponda bene alle regole di rappresentazione del mondo arca-dico, sia per quanto riguarda la suggestione di un paesaggio che svariadall’incanto luminoso dei prati e dei fiori all’orrido di ombrosi dirupi esegrete sorgenti, sia per la corrispondenza che lega questo mondo allanaturale religio dei pastori, anch’essa svariante dalla rustica semplicitàdei culti alla nera e inquietante magia di Enareto. Ma ecco che l’egloga

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3 Ergasto, già alter ego dell’autore all’inizio dell’opera, torna ad essere tale: Massilia èil nome latino di Masella Santomago, madre del poeta, morta prima del 1481. In Eleg. III2, 35 sgg., a Cassandra Marchese, Sannazaro scrive di aver celebrato in Arcadia la mortedella madre. Per la sua morte Gabriele Altilio scrisse una Epistola consolatoria ai fratelliSannazaro (inc.: «Unanimi fratres, rapta qui matre doletis»): «Massiliam chorus omniset aetheriae convalles, / Massiliam totis reddit et aura locis» (vv. 17-18: cito da Jacobi siveActii Synceri Sannazarii neapolitani viri patricii Poemata [...] Item Gabrielis Altilii et Ho-norati Fascitelli Carmina quae exstant, Padova, Comino, 1751, p. 17 della seconda parte).Pontano nella dedica del De liberalitate a Jacopo ne elogia il ruolo avuto nell’educazio-ne del figlio e afferma di venerarne la memoria: «cum etiam patrem tuum Nicolaum Na-zarium mirifice amaverium, Massiliam vero matrem propter morum sanctitatem educa-tionisque tuae singulare supraque maternam affectionem studium fuerit etiam veneratusvenererque memoriam». Sulla tomba e sul luogo (prosa X 50-56) cfr. le importanti notecomplementari di Marino, ed. cit., pp. 351-358. Sostiene ora l’esistenza di uno stretto le-game tra la figura di Massilia e Maria, nel De partu Virginis, G. Serena, Ipotesi su Massi-lia-Maria tra Arcadia e De partu Virginis, nel vol. La Serenissima e il Regno, cit., pp. 661-668. Su altro piano, vedi qui, pp. 685-696, C. Vecce, Sannazaro e la lettura di Teocrito, cheoltre a discutere dell’imitazione teocritea nel passo citato, ricostruisce molto bene il per-corso della ‘prima’ Arcadia, cioè del Libro pastorale nominato Arcadio.

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non prosegue affatto questa linea, e per più di un aspetto la contraddice.Cosa era stato chiesto a Selvaggio? Di intonare un canto di lode per il«nobile secolo», per la «nostra età» ricca di poeti, abbiamo visto: quasiuna ripresa e variazione delle parole di Carino a Sincero, nelle ultime ri-ghe della prosa VII («per lo inanzi la felice giovenezza tra sonore trom-be di poeti chiarissimi del tuo secolo, non senza speranza di eterna fama,trapasserai»). Ma avviene qualcosa di inaspettato. Selvaggio apre l’eglo-ga con una sorta di provocazione nei confronti di Fronimo:

Non son, Fronimo mio, del tutto mutole,com’uom crede, le selve; anzi risonano,tal che quasi all’antiche egual riputole4.

Il quale immediatamente rovescia non solo l’affermazione di Selvag-gio sulle odierne selve risuonanti di canti quasi come le antiche, ma pu-re, indietro, l’affermazione di Opico, al quale di fatto ribatte che non èvero che al presente esistano tanti poeti. No, non è più così:

Selvaggio, oggi i pastor più non ragionanode l’alme Muse...

Naturalmente l’aggancio esiste, sottile ma forte, predisposto prima daOpico e poi da Selvaggio quando hanno posto l’accento non già suun’Arcadia fuori dalla storia e sempre uguale a se stessa, ma invece sultempo presente e su ciò che potrebbe caratterizzarlo. Anche in Arcadia,dunque, il tempo esiste («Et in Arcadia ego»!), e Fronimo trova già aper-ta la strada dinanzi a sé quando denuncia come il passato e il presente sia-no ormai diversi, e sia vano illudersi del contrario. Nessuno è più degnod’essere coronato poeta; molti s’ingegnano di nascondere le propriemacchie ma la loro puzza li tradisce; c’è almeno la possibilità che gli dei (ire?) si risveglino dal loro sonno e mostrino ai buoni come si debbano pu-nire i malvagi, e se mai lo facessero da quel momento in avanti si preoccu-perebbero anche di «tornare al ben» ogni volta che fosse necessario5.

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4 Ma nella prima egloga, vv. 25-27, il medesimo Selvaggio aveva sostenuto l’esatto con-trario: «A dire il vero, oggi è tanta l’inopïa / di pastor che cantando all’ombra seggiano,/ che par che stiamo in Scizïa o in Etiopia», anche se nel caso si tratterà di motivo topi-co impiegato per introdurre ed esaltare insieme il successivo canto di Ergasto.

5 Ecco parte delle parole di Fronimo, vv. 7-15: «E sì del fango ognun s’asconde i zacca-

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In poche battute il panorama è dunque mutato: sinteticamente e convarie approssimazioni, volgersi a giudicare o anche solo a parlare delpresente significa quasi automaticamente aprire le porte all’irruzione delmale che sta inquinando il mondo con il peso della sua degradata realtà.Questa non è certo una novità, ed anzi è una costante dell’opera, sin dalprincipio, ma cambia il modo con il quale ciò avviene. Per esempio, inprecedenza quell’irruzione era assorbita entro la trama della vita pasto-rale attraverso un ricorso più totalizzante alle forme del travestimentobucolico: basti riandare per questo alle egloghe II e VI. Qui, s’apre in-vece una crepa che non potrà più essere chiusa, e la confusione e alter-nanza dei contesti investe l’opera in maniera affatto nuova, come mostrala lettura ravvicinata dell’egloga, ch’ è opportuno continuare.

A Fronimo ribatte Selvaggio, con parole che sin dal forte avvio pole-mico segnano uno stacco ulteriore:

Amico, io fui tra Baie e ’l gran Vesuvionel lieto piano, ove col mar congiungesiil bel Sebeto...

È la prima volta, infatti, che nell’Arcadia Baia e il Vesuvio e il Sebe-to, veri e propri emblemi di tutta la letteratura aragonese, sono esplici-tamente nominati: poi, di Baia e del Vesuvio si parlerà ancora nelle pro-se XI e XII e nell’egloga XII, e così, ma con frequenza maggiore, del Se-beto. Ma altrettanto importante è quel: io fui, che conferisce consisten-za storica al personaggio, rompe l’autoreferenzialità arcadica e ne fa l’a-nello di congiunzione tra la voce di Sincero che nella prosa VII raccon-tava la storia della propria famiglia e quella, imminente, di Giovan Fran-cesco Caracciolo, in questa stessa egloga, e del Cariteo (Barcinio) e del

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ri / che tal più pute che ebuli et abrotano, / e par che odore più che ambrosia e baccari./ Ond’io temo gli dii non si riscotano / dal sonno, e con vendetta ai boni insegnino / sì co-me i falli de’ malvagi notano; / e s’una volta advien che si disdegnino, / non fia mai poibalen né tempo pluvïo / che di tornar al ben pur non si ingegnino». Mi pare abbastanzaevidente che gli dei siano da identificare con i monarchi aragonesi (vedi Fenzi, L’impossi-bile Arcadia, cit., passim). Negli ultimi versi mi stacco dalla parafrasi di Erspamer (seguì-ta da Marino, nella sua traduzione), secondo la quale gli dei continuerebbero in ogni ca-so a mostrarsi assenti (‘non ci sarà lampeggiare o tempo piovoso che gli dei si adoperinodi riportare [tornar] al bello’), che mi pare del tutto contraddittoria con la linea del di-scorso. Che senso avrebbe infatti dire: ‘spero che gli dei si sveglino, ecc., e se anche unasola volta lo facessero certo non si preoccuperebbero poi di contrastare il male’?

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Summonte nell’egloga XII e ultima. Ma, ancor più, Selvaggio è colui cheha vissuto la sua giovinezza nel «lieto piano» tra Baia e il Vesuvio e il Se-beto, cioè a Napoli, e ora è però un pastore d’Arcadia, come è avvenu-to a Sincero, anch’egli fuggito in Arcadia per un amore infelice, sì cheattraverso di lui, in forza del suo doppio statuto di cittadino napoleta-no e di pastore arcade, è riproposto il motivo della ‘doppia patria’, o me-glio dell’esilio arcadico che da un certo punto in poi scorre nell’opera esi lega strettamente al tema del ritorno.

Proprio come Sincero. Il pensiero, infatti, va inevitabilmente allaprosa VII, che contiene una vistosa parentesi esplicitamente storica, nel-la quale Sincero/Sannazaro, richiestone da Carino, racconta dei suoi an-tenati originari della Gallia Cisalpina e scesi in Italia nel 1381, al seguitodi Carlo di Durazzo che s’avviava a conquistare il regno di Napoli; qui,essi divennero dei grandi feudatari, ma dopo la morte del successore diCarlo, Ladislao, passato il regno alla sorella, Giovanna II, furono priva-ti di quasi tutti i loro beni6. La fuga di Sincero, quanto a lui, s’accampadunque sullo sfondo di una condizione difficile, entro la quale la fru-strazione amorosa si mescola all’impoverimento della famiglia7. Tutto

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6 Arcadia VII 5-7: «Lo avolo del mio padre da la cisalpina Gallia, benché, se a’ princi-pi si riguarda, da la extrema Ispagna prendendo origine [...] fu oltra a la nobiltà de’ mag-giori per suoi proprî gesti notabilissimo. Il quale, capo di molta gente con la laudevoleimpresa del terzo Carlo ne l’ausonico regno venendo, meritò per sua virtù di possedere laantica Sinuessa, con gran parte de’ campi Falerni e i monti Massici, insieme con la piccio-la terra sovra posta al lito ove il turbulento Volturno prorumpe nel mare, e Linterno, ben-ché solitario nientedimeno famoso per la memoria de le sacrate ceneri del divino Africa-no; senza che ne la fertile Lucania avea sotto onorato titulo molte terre e castella, de lequali solo avrebbe potuto, secondo che a la sua condizione si richiedeva, vivere abondan-tissimamente. Ma la fortuna, via più liberale in donare che sollicita in conservare le mon-dane prosperità, volse che in discorso di tempo, morto il re Carlo e ’l suo legitimo succes-sore Lanzilao, rimanesse il vedovo regno in man di femina. La quale, da la naturale incon-stanzia e mobilità di animo incitata, agli altri suoi pessimi fatti questo aggiunse, che colo-ro i quali erano stati e dal padre e dal fratello con sommo onore magnificati, lei extermi-nando e umiliando annullò, e quasi a extrema perdizione ricondusse».

7 Si ricordi il caso dell’allumiera di Agnano, sottratta alla madre e ai piccoli fratelliSannazaro dopo la morte del padre Cola, nel 1462, e restituita a Iacopo alla metà deglianni ’80. Sul punto cfr. M. Corti, Ma quando è nato Jacobo Sannazaro? ora in Ead., Sto-ria della lingua e storia dei testi. Con una bibliografia a cura di R. Saccani, Milano-Napo-li, Ricciardi, 1989, pp. 233-241, e soprattutto i due importanti lavori di M. Riccucci ai qua-li rimando: il saggio Jacopo Sannazaro e la scelta del genere bucolico, nel vol. collettivo LaCorona d’Aragona ai tempi di Alfonso il Magnanimo [XVI Congresso Intern. di Storia

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ciò comporta che l’Arcadia non abbia nulla a che fare con la vicenda diSincero, né in un caso né nell’altro, e infatti egli marca con la maggiordurezza possibile la propria estraneità a quel mondo con il quale non hae non vuole avere alcunché da spartire, e dal quale vorrebbe infatti fug-gire. Ancora nel corso della sua risposta alle domande di Carino arrivainfatti a dire: «Maximamente ricordandomi in questa fervida adolescen-zia de’ piaceri de la deliciosa patria tra queste solitudini di Arcadia, ove,con vostra pace il dirò, non che i gioveni ne le nobili città nudriti, maappena mi si lascia credere che le selvatiche bestie vi possano con dilet-to dimorare» (VII 18).

Questa piccola deviazione all’indietro vuol significare, infine, che sì,nella prosa VII la storia reale e Napoli e il tema del ritorno sono già en-trate in Arcadia in modo del tutto dichiarato, sia attraverso la forza conla quale Sincero squarcia il proprio travestimento, sia attraverso l’augu-rio di Carino, al principio della prosa VIII:

Rallegrati – mi disse – napolitano pastore, e la turbidezza de l’animo, quan-to puoi, da te discaccia, rasserenando omai la malinconica fronte; ché vera-mente e a la dolce patria e a la donna che più che quella desideri in brevis-simo tempo ritornerai, se ’l manifesto e lieto segnale che gli dii ti mostranonon mi inganna8,

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della Corona d’Aragona. Celebrazioni Alfonsine, Napoli-Caserta, Ischia 18-24 settembre1997], Napoli, Paparo, 2000, II, pp. 1575-1602, e Il «neghittoso» e il «fier connubbio», cit.,indispensabile per le puntuali indicazioni storiche che fornisce. Nel saggio e nel volume,in particolare, la studiosa raccoglie una indicazione della Corti e finisce di dimostrare co-me il ‘ladro’ del quale Sannazaro denuncia i furti dell’egloga VI sia con ogni probabilitàil funzionario di Ferrante Guglielmo Lo Monaco, sovrintendente alle artiglierie dell’e-sercito aragonese, che a partire dal 1465 trasse grandi ricchezze dallo sfruttamento del-l’allumiera che aveva avuto indebitamente in concessione.

8 Queste parole pongono l’irrisolta questione, sulla quale dovrò tornare avanti, delledubbie presenze della donna amata nell’Arcadia, e della finale notizia della sua morte (Ala sampogna 9): in merito Erspamer, Intr., ed. cit., pp. 15-17, è piuttosto riduttivo, credocon ragione. Nel passo citato, Carino parla di un lieto segnale, riferendosi al sogno di Sin-cero, nella sestina che chiude il cap. VII, Come notturno ucel nemico al sole, 25-30: «Ma-donna, sua mercé, pur una sera /gioiosa e bella assai m’apparve in sonno, / e rallegrò ilmio cor, sì come il sole / suol dopo pioggia disgombrar la terra, / dicendo a me: – Vien,cogli a le mie piagge / qualche fioretto, e lascia gli antri foschi». Velli intende che questoinvito acquisti senso solo più tardi, nel quadro dei presagi della morte della donna, mala cosa mi lascia perplesso: preferirei infatti collegare l’invito a lasciare gli antri foschi altema caro a Sincero e da lui appena svolto della superiorità di Napoli sulla rustica e ino-

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ma ciò marca, in quel caso, più la distanza e l’incompatibilità che la so-vrapposizione. Napoli e l’Arcadia sono cose diverse9. Anche nell’eglo-ga X la differenza resta, ma tutto è più complicato. Selvaggio prima difarsi pastore ha vissuto a Napoli dove è approdato dopo l’esperienza diun amore infelice, passando «strane fiumora», e «per pruni, urtiche edumora» e incontrando «crudi orsi, dure genti, aspre costumora». ANapoli l’hanno spinto alcuni vaticini a tutta prima non ben intesi, ma ri-velatisi infine veridici. Nella città, infatti, egli ha appreso tutto quelloche sa: le arti magiche, le virtù di ogni erba e le costellazioni in cielo, lascienza e la poesia... Questi versi, ricchi di allusioni al mondo culturalenapoletano e in particolare all’Accademia Pontaniana, non hanno solola funzione di animare di forte dialettica il dibattito con Fronimo, ma inqualche misura completano, o meglio riempiono di contenuto le nostal-gie di Sincero e introducono il motivo di Napoli come una sorta di Ar-cadia realizzata, con almeno una punta dello stesso disprezzo di Since-ro per quella selvatica e vera. Non avrei dubbio alcuno, infatti, nell’in-tendere in questo modo il v. 39, ove si dice che dinanzi alla scienza e al-la poesia (l’arte febea e la palladia) che trionfano in Napoli «Fauno a udirrimboscasi», e cioè che il rustico Pan, superato e umiliato da tanta arte,torna a nascondersi nei suoi boschi10. Ecco dunque che proprio Napo-li avrebbe realizzato il mito positivo d’Arcadia: lì i valori profondi del-l’Arcadia hanno avuto modo di trionfare, e lì, non tra i monti e i boschi,operano tanti poeti.

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spitale Arcadia, e accostarlo all’allusione di contenuto affine che è nell’egloga X 39: vediavanti, nota 10 (G. Velli, Sannazaro e le «Partheniae Miricae»: forma e significato dell’«Ar-cadia», in Id., Tra lettura e creazione: Sannazaro, Alfieri, Foscolo, Padova, Antenore, 1983,pp. 1-56: p. 55, con rinvio a W.R. Davis, A Map of Arcadia: Sidney’s Romance in its Tradi-tion, New Haven, Yale University Press, 1965, p. 15).

9 Sull’«opposizione primaria» Napoli/Arcadia nella prima redazione dell’Arcadia, eperò anche sulla mancata «distinzione dei luoghi» specie dopo la prosa VII, si veda M.Santagata, L’alternativa arcadica del Sannazaro, in Id., La lirica aragonese. Studi sulla poe-sia napoletana del secondo Quattrocento, Padova, Antenore, 1979, p. 343-374. Si tratta diun saggio molto importante, ed è nel suo solco che s’è mossa la lettura della Riccucci ela mia che più o meno esplicitamente sempre lo presuppone.

10 Questa spiegazione è dubitosamente avanzata anche da Erspamer, ad loc., ma egliper parte sua dichiara di preferire quella già di Carrara, secondo la quale Pan «torna al-le selve per udire quei dotti pastori» (Opere di IACOPO SANNAZARO. Con saggi dell’Hypne-rotomachia Poliphili di FRANCESCO COLONNA e del Peregrino di IACOPO CAVICEO, a cura diE. Carrara, Torino, Utet, 1952, ad loc.).

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Il valore del discorso di Selvaggio non s’esaurisce però in questo, edè invece ben più importante la sua funzione di essenziale cardine dialet-tico attorno al quale ruotano gli sviluppi successivi. A torto quindi cistupiremmo quando, con scatto ulteriore e notevole torsione del di-scorso, Selvaggio prosegue affermando che in ogni caso di gran lungasuperiore a tutti i pastori d’Arcadia è Caracciolo, che però in Arcadianon è mai stato, essendo trattenuto a Napoli da incombenze di tipo po-litico e sociale, e fors’anche familiari:

Costui non imparò putare o metere, ma curar greggi da la infetta scabbia e passïon sanar maligne e vetere (vv. 43-45).

Un giorno tuttavia, ricorda Selvaggio, Caracciolo sfogò la propriarabbia in un canto ch’egli puntualmente riferisce, occupando la mag-gior parte dell’egloga (vv. 49-185, su 204):

Il qual un dì, per isfogar la rabbia,così prese a cantar sotto un bel frassino,io fiscelle tessendo, egli una gabbia:Proveda il ciel...

Rinviamo solo per un attimo gli specifici contenuti della lunga lamen-tazione del Caracciolo, tutta intesa a deprecare la disastrata situazionenapoletana l’indomani della congiura dei baroni, e osserviamo breve-mente poche cose. La prima è già stata detta: Caracciolo non è un pa-store Arcade, e a differenza di Sincero e Selvaggio è rimasto a Napoli.Ma, seconda cosa, ciò non costituisce né un ostacolo né un discrimine:nel canto, infatti, a quei pastori egli è superiore. E ancora, e soprattut-to, pur non dimorando in Arcadia anche nel suo caso il travestimentobucolico è perfetto: egli canta all’ombra dei frassini intrecciando vimi-ni (vedi già egl. IX 105: il motivo, da Virgilio, Buc. X 72), e quello che di-ce obbedisce altrettanto bene alle regole di quel codice. Egli si preoc-cupa dei greggi e degli armenti che non trovano più pastura, e del fattoche bifolci e pastor abbandonano le loro terre per colpa della miseria edella rapina che dilagano... La divisione delle parti, tra la ‘storia vera’degli antenati dell’autore e di Carlo di Durazzo e Ladislao e GiovannaII, e, dall’altro lato, l’affabulazione bucolica, che era mantenuta nella

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prosa VII, qui sfuma, si fa indistinta, e il passaggio da una dimensioneall’altra diventa fluido, continuo, quasi un labirintico andirivieni entrocui si nasconde gran parte del senso dell’opera. Tant’è – ecco la secon-da clamorosa mossa, dialetticamente prodotta dalla prima – che è pro-prio Caracciolo a piangere la crisi del regno di Napoli come fosse la cri-si e addirittura la morte dell’Arcadia e delle sue divinità: quasi che il re-gno, come abbiamo detto, fosse esso stesso l’Arcadia, o quanto meno neavesse ricalcato passo passo il destino.

Come continua, Caracciolo? I cieli e le stagioni sono mutati tra eclis-si e tempeste, e appare imminente la fine del mondo (v. 92: «io temoun’altra volta – il mondo pera»), e tutto va in rovina:

O faretrate ninfe, – o agresti pani,o satiri e silvani, – o fauni e driadi,naiadi et amadriadi, – o semideeorëadi e napee: – or sete sole;secche son le vïole – in ogni piaggia;ogni fiera selvaggia, – ogni uccellettoche vi sgombrava il petto, – or vi vien meno.E ’l misero Sileno – vecchiarelloNon trova l’asinello – ov’ei cavalca;Dafni, Mopso e Menalca, – ohimè, son morti [...] (vv. 99 sgg.).

Né meglio stanno Priapo, Vertunno, Pomona, e poi, vv. 124 sgg., glidei maggiori, da Pan a Diana a Minerva ad Apollo... L’effetto di questabella tirata è doppiamente lugubre, sia perché questa totalizzante dila-tazione arcadica perfeziona e porta all’estremo tutti i guasti dei qualil’Arcadia primitiva soffre, sia perché a tale Arcadia viene di rimbalzocertificato il fatto che essa ha cessato di esistere, e ciò attraverso la vocedi un personaggio reale assunto come testimone privilegiato del mondostorico esterno che ha compiuto ormai l’intera parabola della propriadecadenza.

Il punto mi sembra importante. Si osservi infatti come il funebre la-mento di Caracciolo per l’universale crollo di ogni valore accolga in sé equasi ripari alla propria ombra l’assai più puntuale lamento per le sortidel regno, evidente in alcune sezioni o inserzioni, per dir così, alle qualitocca di dare fondamento di realtà a quella generale e disperata diagno-si. L’apertura del suo canto è classicamente bucolica, con l’invito rivol-

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to alle proprie vaccarelle affinché vadano a sfamarsi, ma presto si scopreche questa è l’eccezione permessa a pochi, non la regola, che vede man-drie e pastori privati della loro terra e tormentati dalla fame lasciare laloro patria, oppressa da «genti strane, inique, inexorabili» (v. 69), nellequali mi sembra certo si debba riconoscere la vorace torma di funziona-ri catalani richiamati a Napoli dai re aragonesi – nel caso, da Ferrante –del tutto diffidenti, ormai, verso la nobiltà e i ceti dirigenti locali in so-spetto di congiura11. Ma, se questa lettura è giusta, se ne ricava, a ritro-so, che proprio l’esordio di Caracciolo già allude a quella situazione:

Proveda il ciel che qui ver noi non passinomalvage lingue... (vv. 49-50).

Di chi sarebbero, infatti, le malvage lingue? Dato il contesto, certonon i topici lauzengiers della lirica amorosa: direi dunque quelle dei de-latori, spinti da motivi di interesse ad accusare indiscriminatamente dicomplicità filo-baronali chi è ancora abbastanza ricco da cavarsela, purin tanta crisi. E Caracciolo è tra questi, per sua stessa ammissione:

Ringrazie dunque il ciel qualunque ha copïad’alcun suo bene in questa vil miserïa,che ciascun caccia da la manda propïa (vv. 61-63),

ove l’ultimo verso verisimilmente significherà che ormai ciascuno pro-cura con ogni mezzo di salvare il salvabile (anche a costo di accusare glialtri?).

Questo non è che un minimo esempio di ciò che va recuperato per

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11 Per questa interpretazione, che comporta anche un pertinente rimando alla dante-sca «avara povertà di Catalogna» di Par. VIII 77, rinvio al citato L’impossibile Arcadia,pp. 170-17 (?!). Ma vedi già Scherillo, Intr., ed. cit., pp. CLXXXIII-IV, con pertinente rinvioa Plinio, Hist. Nat. XVI 1 e 15, per gli spagnoli che si cibano di ghiande: ne raccoglie l’in-dicazione E. Carrara, Jacopo Sannazaro (1456-1530), Torino-Milano-Firenze-Roma-Napo-li-Palermo, Paravia, 1932, p. 83 (il volumetto è costituito da un’ancora utile analisi e am-pia antologia dell’Arcadia, che amplia di molto il capitolo del vol. La poesia pastorale, Mi-lano, Vallardi, s.a. [1905], pp. 187-200), e poi ancora in Sannazaro, Opere, cit., p. 166 adloc. La rifiuta invece D. Boillet, Paradis perdus et retouvés dans l’«Arcadie» de Sannaza-ro, nel vol. misc. Ville et campagne dans la littérature italienne de la renaissance. II. Lecourtisan travesti, Études réunies par A. Rochon [...], Paris, Univ. de la Sorbonne Nou-velle, 1977, pp. 11-140: pp. 86-87.

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cogliere il significato di questi versi. Qui, mi basta tuttavia osservare chei versi 64-75 condensano l’accusa più esplicita nei confronti di un cetodi nuovi funzionari regi intenti a soppiantare la vecchia nobiltà cittadi-na, pur se filo-monarchica, nei suoi beni e nei suoi privilegi, e non è dun-que possibile intenderli se non uscendo dal testo e interrogando la realtàalla quale Sannazaro, copertamente ma non troppo, si riferisce. Diver-samente, i versi che seguono, sino al 117, riprendono e sviluppano conampiezza il tema della fine di un mondo minuziosamente descritto se-condo tutti i topoi d’Arcadia (da essi è tratto il passo sopra citato), edhanno valore di diagnosi generale, privi come sono, almeno in apparen-za, di puntuali allusioni. Ma poi ancora, i vv. 115-123 interrompono di col-po questo lamento intessuto di rimandi mitici alle rustiche divinità ar-cadiche, e di nuovo imprimono una svolta al contesto e pretendono unaprecisa chiave interpretativa di tipo storico:

E tu, Pale, ti sdegni – per l’oltraggio,ché di april né di maggio – hai sacrificio.Ma s’un commette il vicio – e tu nol reggi,che colpa n’hanno i greggi – de’ vicini?Che sotto gli alti pini – e i dritti abetiSi stavan mansüeti – a prender festaPer la verde foresta – a suon d’avena;quando, per nostra pena, – il cieco erroreentrò nel fiero core – al neghittoso.

Pale «veneranda dea di pastori» e da essi solennemente celebrata (III6 e 24-31) è qui l’ultima della prima serie delle divinità variamente umi-liate e indignate, dopo Sileno, Priapo, Vertunno, Pomona: qui, infatti,le si nega il sacrificio dovuto, ed è questa la colpa (il vizio) che essa nonregge, non tollera. Ma, prosegue Caracciolo, la colpa in verità è di unosolo, il neghittoso, e non è perciò giusto che ne abbiano a soffrire tuttigli innocenti pastori... Che tale neghittoso sia uno dei capi della congiu-ra, e quello più vicino alla corte, cioè il segretario di stato Antonello Pe-trucci, non sembra ci siano più dubbi, dopo la preziosa indicazione diSantagata ripresa e argomentata con ampiezza dalla Riccucci12. Ciò

12 Riccucci, Il neghittoso, cit., in part. pp. 69-72; M. Santagata, L’alternativa arcadica,cit., p. 345.

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comporta che Sannazaro intervenga in modo abbastanza scoperto su unnodo allora, nel 1486, particolarmente delicato, quale quello dei rappor-ti della monarchia con la vecchia nobiltà di seggio, esposta a indiscrimi-nate ritorsioni, e che lo faccia tentando di isolare le personali responsa-bilità del Petrucci rispetto ai comportamenti della nobiltà rimasta fede-le alla corte (in questo modo, i versi: «sotto gli alti pini – e i dritti abeti/si stavan mansüeti» non può che alludere al fatto che tale nobiltà rico-nosceva e accettava la supremazia e la tutela regia). Il procedimento delresto non è nuovo, perché questo addossare la colpa a uno solo è argo-mento già presente nell’egloga VI 126, là dove più scoperta è l’allusioneche Sannazaro fa al latrocinio subìto dalla famiglia, alla quale era stataconfiscata l’allumiera di Agnano per darla in concessione a GuglielmoLo Monaco (ma lo stesso re Ferrante era interessato alla faccenda)13.

Nel caso non si osserverà solo come l’allusione ai propri casi perso-nali sia mantenuta entro i confini d’Arcadia nell’egloga VI, mentre ora,nella X, li oltrepassa e investe la situazione napoletana nel suo comples-so, ma anche come avvenga una levitazione di senso, dal momento ch’ègiocoforza intendere che quella «veneranda dea di pastori», cioè Pale,valga, nel nuovo contesto, per la figura del re, e l’omaggio mancato val-ga per la ribellione dei baroni che Sannazaro riconduce, con evidenteforzatura, alla scellerata iniziativa del Petrucci. E ancora una finezza vanotata, perché quel «mille buon» che «s’infamano» per la colpa di unosolo ci porta a intendere meglio lo spessore dell’allusione appena sopraconsiderata alle malvage lingue dei possibili accusatori pronti a infama-re chiunque per il proprio tornaconto.

Sannazaro interviene in un campo delicato, abbiamo detto, ma dopoessersi spinto a parlare della congiura e di uno dei suoi capi, e dopo averinvocato una più serena discriminazione fra colpevoli e innocenti, eccoche torna ad applicare il modulo compositivo già visto, che consiste ap-punto nell’alternare l’immediata urgenza allusiva della polemica contratti dedicati a una ricognizione più generale dello ‘stato del mondo’ edei suoi mali. Così, lasciato il neghittoso, ripiglia il motivo delle divinitàirate, ma ne alza il livello. Là, nella precedente serie, si arrivava a Pale e,attraverso l’articolazione Pale/re Ferrante, alla congiura e al Petrucci.Ora, attraverso una progressione non lineare ma sicura, il tema della ri-

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13 Vedi sopra, nota 5.

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nuncia o impossibilità del canto (Pan, Marsia e Apollo) s’intreccia conil tema del potere e della violenza, arrivando a Marte, a Nettuno chescaccia e percuote le minori divinità del suo seguito, e infine alla Giu-stizia che ha definitivamente abbandonato la terra portando con sé labilancia, simbolo della sua funzione14 (va detto che, in questa serie, Net-tuno sembra essere un’altra delle controfigure del re, nei suoi rapporticon la nobiltà cittadina). Ed è precisamente la forza di questo climaxascendente che a questo punto costringe il poeta a uscire allo scopertoe a dichiarare, almeno, a che gioco sta giocando:

Gran cose in picciol velo – oggi restringo:io ne l’aria dipingo, – e tal si stende,che forse non intende – il mio dir fosco (vv. 157-159).

Questi versi hanno suscitato qualche difficoltà d’interpretazione15,ma il senso generale mi pare chiaro: ‘in breve spazio sto concentrandocose molto gravi, e lo sto facendo in maniera difficilmente percepibile,per vaghe allusioni, sì ch’è possibile che qualcuno, pur impegnandosinell’interpretazione del testo (si stende = ‘si sforza’, ‘cerca di arrivare’),non penetri l’oscurità del mio dire’. Si tratta di una avvertenza al letto-re, quasi un ‘a parte’, molto importante che investe il testo a ritroso, spe-cie in quelle sue evidenti e però non sempre chiaramente decifrabilipunte polemiche, e che lo condiziona nel suo farsi. Di qui in avanti, in-

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14 Astrea che al sopraggiungere dell’età del ferro se ne fugge in cielo insieme con lasorella Pudicizia (da Arato, 133 sgg.: si veda Ovidio, Met. I 149-150; Fast. I 249-250; Virgi-lio, Georg. II 473-474; Giovenale, VI 19-20) è ricordata anche da Dante che chiosa Virgi-lio, Buc. IV 6: «iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna» in Mon. I 11, 1-2: «‘Virgo’ nam-que vocabatur Iustitia quam etiam Astream vocabant». È però nel medioevo che la bi-lancia diventa stabile emblema della giustizia. Restoro d’Arezzo, La composizione delmondo I 5 (ed. Morino, p. 9), parla della bilancia zodiacale (settembre) come «figura deiustizia», «segno de iustizia»: e la Giustizia è caratterizzata dalla bilancia, per fare dueesempi celeberrimi, negli affreschi di Giotto nella Cappella degli Scrovegni, a Padova, oin quelli di Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo pubblico di Siena.

15 Si veda la nota ad loc. di Erspamer, ed. cit., p. 189. Io interpreto, come suggeriscePestarino, rec. cit., pp. 153-154, tal come prolettico del relativo con valore di indefinito,ma mi stacco dalla sua come dalle precedenti proposte. In particolare, mi pare inaccet-tabile quella dello stesso Erspamer, di fare soggetto di intende la donna/Astrea del v. 156(parrebbe seguirlo Marino, nella sua traduzione). Nella prima redazione il v. 159 suona-va: «che forse non intende ognie mio detto».

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fatti, sino alla fine del canto di Caracciolo, la realtà la vince sul travesti-mento, nel senso che ogni residuo equivoco sulle intenzioni dell’autorecade e il linguaggio bucolico si fa trasparente:

Or quando maine pensâr tanti guai – bestemmie antiche?Gli ucelli e le formiche si ricolgonode’ nostri campi il desïato tritico;così gli dïi la libertà ne tolgono (vv. 160-164).

Non c’è stata maledizione antica che sia riuscita a prevedere la realtàdel male presente: torme di parassiti spogliano la nobiltà cittadina deisuoi beni (con variazione del motivo già visto sopra, relativo all’invasio-ne dei voraci funzionari catalani), e i re (gli dïi) in questo modo ottengo-no di spogliarla della sua libertà. Ancora una volta direi innegabile l’at-to d’accusa verso la monarchia, che sembra rivelare un Sannazaro assaimeno filo-aragonese di quanto si sia sempre creduto16: in questa sede,tuttavia, mi importa osservare come la trasparenza del travestimento nonimplichi automaticamente che tutto sia perfettamente chiaro. In altri ter-mini: chiaro è – Sannazaro stesso s’è sentito in obbligo di dichiararlo –che il suo linguaggio significa altro, ma che cosa davvero egli intenda di-re non lo è altrettanto. In questa parte finale del canto di Caracciolo re-sta per esempio l’oscura allusione, quasi un indovinello, del v. 174:

Un’orsa, un tigre han fatto il fier connubbio.

La Riccucci pensa che qui si alluda al matrimonio tra Giovannanto-nio Petrucci, secondo figlio del segretario di stato Antonello, con Sve-va figlia di Barnaba Sanseverino conte di Lauria, avvenuto il 20 novem-bre 1485. Può essere, tanto più che questo matrimonio ebbe un forte edevidente significato politico, essendo stato concepito come un impor-tante pegno di fedeltà tra Antonello e gli altri baroni ribelli17: in ogni ca-

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16 Ho considerato più ampiamente la questione in L’impossibile Arcadia, passim.17 Riccucci, Il neghittoso, cit., pp. 72-80. Cfr. E. Perito, La congiura dei baroni e il con-

te di Policastro, con l’edizione completa e critica dei sonetti di G.A. De Petruciis, Bari, La-terza, 1926, pp. 129 sgg.: «Il primo atto veramente manifesto e pubblico come partecipa-zione alla congiura da parte del Conte fu il suo matrimonio con Sveva...», ecc.: e si ricor-di che vari esponenti della famiglia Sanseverino nella congiura ebbero un ruolo di primo

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so, che qui l’indice sia puntato sull’innaturale alleanza tra alcuni altissi-mi funzionari del regno e una buona parte della nobiltà, è cosa affattoverisimile, ed è proprio inseguendo questa pista che si può afferrare lasostanza, se non tutti i particolari, della conclusione integralmente po-litica di Caracciolo:

Pastor, la noce che con l’ombre frigidenoce a le biade, or ch’è ben tempo trunchesi, pria che per anni il sangue si rinfrigide.Non aspettate che la terra ingiunchesidi male piante, e non tardate a svellere,finché ogni ferro poi per forza adunchesi.Tagliate tosto le radici all’ellere,ché se col tempo e col poder s’aggravano,non lasseranno i pini in alto excellere (vv. 177-185).

Di là dall’evidenza delle immagini restano alcuni dubbi sul senso diun appello che appare abbastanza articolato: si tratta infatti di troncareil noce, svellere le male piante, tagliare le radici all’edera. Che vuol di-re? Ripensando alla congiura, dovremmo essere nella fase che seguì l’ar-resto dei colpevoli, nell’agosto del 1486, cioè in quella della repressioneche, dopo le prime clamorose condanne a morte, proseguì per anni. Inquesto contesto il verbo ‘troncare’ (trunchesi) non può avere altro sen-so, da parte di un Sannazaro nonostante tutto fedele ai suoi re, se nonquello relativo alla necessità di stroncare, appunto, la rivolta e di ‘tron-care’ la testa ai colpevoli (cioè esattamente quello che avvenne). Ma è

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piano, da Antonello principe di Salerno a Roberto, comandante delle truppe dei ribelli.Qualche dubbio è però possibile. Da una parte l’orsa potrebbe far pensare agli Orsini,anch’essi coinvolti nella congiura (due figlie di Antonello sposarono degli Orsini), tantopiù che proprio il più ricco e potente feudatario del regno, Giovanni Antonio Orsiniprincipe di Taranto, poi fatto uccidere da Ferrante, aveva guidato la ‘prima congiura deibaroni’, negli anni immediatamente seguenti la morte di Alfonso il Magnanimo, nel 1458;dall’altra, la personalità di Giovannantonio non sembra meritare l’appellativo di tigre,più comprensibile, semmai, se riferito al figlio maggiore, Francesco, vera anima nera del-la congiura e unico (gli altri sono stati semplicemente decapitati) ad essere pubblicamen-te sgozzato e squartato in quattro pezzi, appesi poi alle quattro principali porte della città(Perito, La congiura, cit., pp. 25-26 e 43). C’è anche un sonetto di Giovannantonio, ilLXIV, Nato Alexandro, si al vaticinare, rivolto al padre, nel quale proprio al fratello mag-giore Francesco è fatta risalire la principale responsabilità della rovina della famiglia.

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curioso che l’appello non sia rivolto alla casa regnante che in ogni casostava provvedendo, e duramente, per conto suo, ma ai pastori, quasi cheil ceto nobiliare fosse esortato a liberarsi sollecitamente da sé delle suemale piante e soprattutto dalla principale, quel noce nel quale si dovràdunque identificare il capo (o i capi) della congiura. Sannazaro, insom-ma, dopo aver invitato il re a distinguere meglio i colpevoli dagli inno-centi, ora invocherebbe proprio gli innocenti ad uscire dalla loro sospet-ta ambiguità e a riconquistare finalmente un ruolo politico svolgendouna più decisa azione di sostegno nei confronti della monarchia, allaquale probabilmente alludono quei pini ai quali deve essere permessodi eccellere: già sopra, del resto, al v. 119, gli alti pini e i dritti abeti allacui ombra i pastori stavano mansueti designavano quasi certamente i rearagonesi. E in questa luce andrebbe letta la contrapposizione tra il no-ce e i pini, e le loro rispettive ombre: benefiche e protettive queste, efredde e nocive quelle18. E, infine, sarebbe anche più chiaro il puntod’arrivo di Sannazaro che, di là dalle molte e gravi riserve, vede l’unicasoluzione della crisi in un nuovo patto che leghi in nome della pace i rearagonesi e la nobiltà locale, e che, di più, concepisce tale patto come ilsolo modo a disposizione della nobiltà per uscire dalla tenaglia – la mo-narchia e i grandi feudatari ribelli – che la stava distruggendo. Si trattadi un’utopia, certo, vissuta con passione ma astratta, impraticabile, per-ché il ceto della nobiltà di seggio alla quale Sannazaro si rivolge non haalcun potere né economico né politico, e nella crisi del regno non ha al-tra alternativa che stringersi alla corte, che ne garantisce l’identità e lafunzione sociale nel momento stesso che l’assoggetta a sé e lo burocra-tizza e lo spoglia di ogni autonomia e privilegio. Ed è questa la contrad-dizione senza uscita nella quale Sannazaro si dibatte: la contraddizioneche carica di inutile e disperato pathos l’appello a mobilitarsi contro i

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18 È un noce che noce alle biade, secondo la falsa etimologia data da Isidoro, XVII 7,21: «Nux appellata quod umbra vel stillicidium foliorum eius proximis arboribus no-ceat». Consiglia poi di non dormire all’ombra nociva del noce Alessandro Neckam, Delaud. div. sap. 111-112: «Sub nuce cui dives praebet natura iuglandem / ne somnum capias,spissior umbra nocet». Fonte è Plinio, Hist. Nat. XVII 89 e 91: «Iam quaedam umbra-rum proprietas: iuglandum gravis et noxia, etiam capiti humano omnibusque iuxta satis[...] Iuglandum quidem pinorumque et picearum et abietis quaecumque attingere nondubie venenum» (ma Sannazaro, com’è evidente, non accoglie la condanna nei riguardidell’ombra del pino). Vedi anche Boccaccio, Ameto XXVI 34: «frigida noce» (Marino,ed. cit., pp. 362-363).

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baroni ribelli e che, in ultima analisi, rende ragione della cupa e tragicaatmosfera nella quale l’opera intera è immersa19.

A questo punto il canto di Caracciolo cessa, e tocca a Selvaggio, chel’ha riferito fedelmente ai pastori, di chiudere l’egloga. Lo fa esaltandola qualità poetica di ciò che tutti loro hanno ascoltato, certo non infe-riore a quella dei mitici pastori dell’antica Arcadia, e continua:

E se non fusse che ’l suo gregge affrenaloe tienlo a forza ne l’ingrata patrïa,che a morte desïar spesso rimenalo,verrebbe a noi, lassando l’idolatrïae gli ombrati costumi al guasto secolo,fuor già d’ogni natìa carità patrïa (vv. 189-194).

Il coperto accenno al gregge che trattiene Caracciolo a Napoli (già inapertura, v. 44, Selvaggio aveva dichiarato che sua preoccupazione prin-

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19 Tornando ai versi, la spiegazione appena data mi sembra la più semplice e logica, ead essa alla fin fine mi sembra di dover aderire nonostante qualche residua perplessità,centrata soprattutto sul fatto, ripeto, che appare quanto meno bizzarro e addirittura im-proponibile chiedere alla nobiltà cittadina legata alla corte e dunque, di per sé, assoluta-mente impotente di stroncare i baroni ribelli, ai quali tra l’altro era in mille modi legata.Proprio per questo nel saggio precedente, L’impossibile Arcadia, cit., pp. 171-172, avevoazzardato un’altra ipotesi, che mi permetto di riferire: «il senso di questi passi tornereb-be piano e coerente se si interpretasse che, una volta lasciato il neghittoso al suo inevita-bile destino, e cioè nelle mani del re, la nobiltà potrebbe tornare a sperare di eccellere li-beramente e con pluralità di uomini solo se si liberasse insieme dell’ombra oppressivadella monarchia (il noce, che, se si preferisce, più che sradicato potrebbe essere energi-camente potato) e della folla dei suoi avidi fuzionari (le male erbe e le ellere). Ma è ne-cessario che lo faccia sùbito, fin che ha l’ardore e la forza necessaria: in caso contrariol’esercizio prolungato del potere da parte dei suoi nemici finirebbe per soffocarla del tut-to». Avevo mandato questo testo alla Riccucci che assai gentilmente (e di ciò la ringra-zio) ne ha tenuto conto in un suo intervento a un convegno su Sannazaro, a Parigi, nelgiugno 2006, del quale mi ha a sua volta mandato il testo dattiloscritto (Un circuito bu-colico tra Ferrara e Napoli). Qui, la studiosa conferma l’ipotesi che i pastori in questionesiano da identificarsi con la famiglia reale e in particolare con Alfonso, invitato diretta-mente a reprimere la rivolta: ma la cosa, per quanto astrattamente possibile, non corri-sponde agli usi dell’Arcadia e in particolare al contesto, nel quale i pastori sono sempre,senza dubbio alcuno, i nobili napoletani. Azzardo per azzardo, potrei allora suggerire ad-dirittura qualcosa di opposto, e cioè di intendere che il noce da tagliare sia Alfonso: quel-l’Alfonso durissimo contro i baroni ribelli che al suo posto avrebbero voluto Federico,cioè proprio il personaggio regale al quale Sannazzaro era strettamente legato e che si di-stingueva da Ferrante e Alfonso per il suo atteggiamento filo-baronale.

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cipale era quella di «curar greggi da la infetta scabbia»: forse con ricor-do del Grex infectus et suffectus della Buc. VII di Petrarca?) è stato ri-condotto da Santagata e poi dalla Riccucci al processo allora in corsoper l’eredità – si concluderà a suo favore nel 1487 – contro il fratellastroGaleazzo. La cosa è del tutto verisimile, ma è innegabile che qui Sanna-zaro faccia di Caracciolo, in nome della sua statura morale, una sorta diprofeta inascoltato, animato da una carità patria che il secolo guasto pro-prio non ha, e che proprio in nome di questa carità gli metta in bocca larequisitoria più dura e politicamente articolata sulle condizioni del re-gno, particolarmente credibile perché viene, appunto, da chi in patriavive e opera. Né mi pare irrilevante quello che lo stesso Santagata ha os-servato ad altro proposito: il suo tendenziale, represso atteggiamentoanti-aragonese che uscirà alla luce al tempo dell’invasione di Carlo VIII,quando in sonetti assai violenti esalterà il sovrano francese e la riacqui-stata libertà20. Il personaggio, insomma, era perfetto per rappresentarequel fascio di contraddizioni in cui anche Sannazaro (e, ricordiamo, an-che il De Jennaro) è involto, contraddizioni evidenti ogni volta che sitocchi il nervo scoperto della politica aragonese in rapporto con la vec-chia nobiltà di seggio: del resto, è banale ma inevitabile osservare che ri-sulta ad ogni effetto impossibile esaltare la casa regnante, anche nelleforme più scontate degli obblighi encomiastici, nel momento stesso incui si denuncia lo sfacelo del regno. Ed è dunque spia notevolissima diquesta lacerazione il fatto che in tutta l’Arcadia il filo-monarchico San-nazaro non si lasci andare che a una minima e frigida espressione di en-comio per «la recolenda memoria del vittorioso re Alfonso di Aragona»,cioè Alfonso il Magnanimo (VII 9), quando occasioni per celebrare Fer-rante e Alfonso non sarebbero certo mancate. Di qui, vorrei ancora in-sinuare qualcosa che, ammetto, rischia d’essere un po’ troppo sottile. Sitratta di quella idolatria dalla quale Caracciolo si libererebbe se gli riu-scisse di abbandonare Napoli e di venire in Arcadia (v. 192: «verrebbe anoi, lassando l’idolàtrïa»), che Erspamer chiosa: ‘nel senso figurato e ge-nerico di vizio, peccato’. Sarà pure così: ma come non pensare che ripe-tutamente ai re aragonesi si allude come dei, qui nell’Arcadia e altrove(per esempio, la metafora è addirittura pervasiva nel linguaggio liricodel Cariteo)? E dunque, non sarà che la parola nasconda una punta po-

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20 Santagata, Joan Francesco Caracciolo, cit., pp. 34-38.

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lemica particolarmente adatta all’anti-aragonese Caracciolo che ‘venen-do a noi’ si libererebbe da un’eccessiva, totalizzante, obbligata, o comealtro si voglia, soggezione alla monarchia?

II

La prima redazione dell’Arcadia non era evidentemente compiuta, ed èper noi difficile immaginare l’opera priva dei due ultimi capitoli e delcongedo A la sampogna. Ma in qualche modo l’egloga X, con il suo spo-stamento dall’Arcadia a Napoli, ha in sé gli elementi portanti della con-clusione, e Sannazaro riprendendo il suo testo sei, sette anni dopo21, mo-stra di riprenderli e di svilupparli in chiave, appunto, conclusiva. Bre-vissimamente. Sincero, nella prosa XI, comincia facendo un passo in-dietro rispetto al canto di Caracciolo e si riallaccia alle parole di Selvag-gio che evocava le bellezze di Napoli attraverso la magica virtù dei no-mi: il Sebeto, Baia, il Vesuvio, e ne esaltava gli splendori d’arte e di poe-sia (XI 5-6); ne conferma l’eccellenza negli «studî de la eloquenzia e dela divina altezza de la poesia», e ricorda in particolare Caracciolo «nonpicciola gloria de le volgari Muse», continuando così: «la canzone delquale e se per lo coverto parlare fu poco da noi intesa, non rimase peròche con attenzione grandissima non fusse da ciascuno ascoltata» (e po-co sotto, allo stesso proposito: «Ma finito il cantare, e da diversi in di-versi modi interpretato...»). In tal modo Sannazaro non smentisce quan-to ha fatto dire a Caracciolo, ma lo mette per dir così tra parentesi, e puòfarlo anche perché l’elogio di Sincero è affidato al ricordo della Napolidi ieri della quale egli conserva l’immagine nella memoria («ricordan-domi... tornaro a la memoria... per memoria... A questa cogitazione siaggiunse il ricordarmi»), sì che non entra direttamente in contraddizio-ne con il diverso quadro della Napoli presente dipinto da Caracciolocon tinte così scure.

I pastori erano frattanto rimasti in cima al colle, attorno alla tomba

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21 Vedi sopra, nota 1, e ancora la messa a punto di G. Villani, Arcadia, in Letteraturaitaliana. Opere. I. Dalle origini al cinquecento, Torino, Einaudi, 1992, pp. 869-887: p. 871

(ma dello stesso anche il saggio complessivo Per l’edizione dell’«Arcadia», cit., e già Vel-li, Sannazaro e le «Partheniae Miricae», cit., pp. 33-41).

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di Massilia22: Ergasto a questo punto li invita a restare per celebrare l’in-domani il primo anniversario della morte della madre con sacrifici e gio-chi. Così avviene: all’alba successiva altri pastori giungono e, celebrati isacrifici, danno inizio ai giochi diretti da Ergasto. Tutto il resto dellaprosa è occupato dalla descrizione delle singole gare (corsa, giavellotto,due diverse forme di lotta23, tiro al bersaglio), sino alla fine, ed è palese-mente ispirato, spesso alla lettera, ai giochi funebri in onore di Anchisenel quinto dell’Eneide, ma anche ai giochi per Patroclo, Iliade XXIII, ea quelli per Ofelte, in Stazio, Thebais VI. Alla fine in bocca a Opico èmesso un omaggio alla nostra tradizione bucolica e si ricordano gli au-tori che Sannazaro avrebbe superato: Francesco Arsocchi sotto il nomedi Crisaldo; Girolamo Benivieni sotto quello di Tirreno; Petrarca sottoquello di Silvio; Boccaccio sotto quello dei fratelli Idalogo e Ameto, el’unico che invece gli è rimasto superiore, Leon Battista Alberti, nasco-sto sotto il nome di Tirsi24; poi, Ergasto intona un canto funebre perMassilia nel quale la natura tutta è invitata a piangere, ritmato a mo’ diritornello dal verso: «Ricominciate, Muse, il vostro pianto» che muta in-fine, nel contesto di una sorta di trascrizione arcadica della parte finaledel Triumphus Eternitatis di Petrarca, nella contraria esortazione: «Po-nete fine, o Muse, al vostro pianto» (vv. 3, 21, 42, 69, 84, 114, e infine 141).

Il capitolo XII, ultimo, si apre con la notte che scende e con i pasto-ri che si dispongono al riposo. Sincero, turbato e pensieroso, s’addor-menta, ma un sogno angoscioso pieno di immagini di morte lo fa risve-

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22 Prosa X: vedi sopra, nota 3.23 È cosa nota, ma va pur sempre ricordata, che Ergasto per la gara di lotta mette in

palio «un bel vaso di legno di acero, ove per mano del padoano Mantegna, artefice so-vra tutti gli altri accorto e ingegnosissimo, eran dipinte molte cose», minuziosamente de-scritte da Sannazaro (prosa XI 35-38): una bellissima ninfa che allatta un satiretto, e deifanciulli che giocano con delle maschere da teatro. La scena dei fanciulli corrispondeperfettamente a una copia di Girolamo Mocetto di un disegno di Mantegna, conservataal Louvre (vedila ora riprodotta a p. 1 dell’ed. Marino). Vedi O. Kurz, Sannazaro andMantegna, in Studi in onore di Riccardo Filangeri, Napoli, L’Arte Tip., 1958, II, pp. 277-283; P. Holberton, Poetry and painting in the time of Giorgione, London, Warburg Insti-tute, 1989, pp. 296-300.

24 Per queste identificazioni vedi E. Saccone, L’Arcadia: storia e delineamento di unastruttura, in Id., Il “soggetto” del ‘Furioso’ e altri saggi fra Quattro e Cinquecento, Napo-li, Liguori, 1974, p. 14; Velli, Sannazaro e le «Partheniae myricae», cit., pp. 6-8, nota 4, perTirsi; Erspamer, ad loc., per Tirreno.

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gliare nel cuor della notte: s’inoltra allora per la campagna, sino alle fal-de di un monte e a un fiume impetuoso. Qui gli appare una bellissimafanciulla che lo guida alla grande grotta dalla quale quel fiume scaturi-sce, ed entrambi s’inoltrano in essa. Comincia qui, §§ 15 sgg., il viaggiosotterraneo di Sincero, ispirato anche in molti particolari a quello di Ari-steo in Virgilio, Georg. IV 317-386 (ma pure a vari passi delle Naturalesquaestiones di Seneca): egli incontra dapprima un gruppo di ninfe cheintrecciano un ricamo che rappresenta la vicenda di Orfeo ed Euridice,da lui intesa come ulteriore sinistro presagio; proseguendo per entro lagran cavità sotterranea la ninfa che lo guida gli mostra la comune sor-gente dalla quale si dipartono grandi e famosi fiumi (Tanai, Danubio,Meandro, Peneo, Caistro, Acheloo, Eurota, Tevere, Liri, Volturno);giungono poi, attraverso monti e pianure «non altrimenti che qui sovrala terra essere vedemo» (§ 25) nei pressi di un gran fuoco, là dove giac-ciono i Giganti ribelli. Non vanno però oltre, in questa direzione, per-ché Sincero non potrebbe tollerare la vista e il calore del gran crogiuo-lo dal quale hanno origine i vulcani; s’avvicinano invece ai resti di cittàe campagne distrutte dalle eruzioni, e a Pompei, secondo una tradizio-ne sprofondata tutt’intera nel corso di un terremoto e ancora visibile làsotto apparentemente intatta (§ 34: «E già in queste parole eramo benpresso a la città che lei dicea, de la quale e le torri e le case e i teatri e itempli si poteano quasi integri discernere»)25. Finalmente si comincia avedere la piccola corrente del Sebeto: a questo punto la ninfa «tutta pie-tosa» abbandona Sincero lasciandolo libero di proseguire da solo. Egligiunge così in presenza del vecchio dio del fiume26 circondato dalle sueninfe, e le scopre tutte in lacrime «senza ordine o dignità alcuna gittateper terra» (§ 38): alle sue richieste, incongruamente ancora legate aun’immagine felice e positiva di quelle divinità fluviali, due ninfe, an-ch’esse in lacrime, l’accompagnano all’uscita della caverna, là dove il Se-beto si divide in due corsi, e si fanno riconoscere, una come ninfa del

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25 Stazio, Silv. IV 4, 78-84: «Haec ego Chalcidicis ad te, Marcelle, sonabam / littori-bus, fractas ubi Vesuvius erigit iras, / aemula Trinacriis volvens incendia flammis. / Mi-ra fides! Credetne virum ventura propago / quum segetes iterum, quum jam haec deser-ta virebunt, / infra urbes populosque premi, proavitaque toto / rura abiisse mari?». Ma-rino, notes compl., p. 379, ha aggiunto il pertinente rinvio a Seneca, Quaest. Nat. VI 1, 8.

26 Per l’immagine del dio e l’arco dei riferimenti possibili vedi Vecce, Una chiosa, cit.,pp. 438-439.

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ramo che s’inoltra in Napoli, e l’altra come ninfa della sottostante fon-te detta della Bolla, alle falde della collina di Poggioreale27. Ora, Since-ro prova un profondo senso di smarrimento che diventa desiderio dimorte, e maledice il momento nel quale ha abbandonato l’Arcadia, espera di star sognando. Ma intanto giunge alla Bolla, e poco oltre incon-tra due pastori Barcinio (il Cariteo) e Summonte che stesi al tiepido so-le si accingono a cantare. Rinviata dunque l’entrata in città, Sincero sidispone ad ascoltarli, dopo aver osservato «che da essi conosciuto nonera, tanto il cangiato abito e ’l soverchio dolore mi aveano in non mol-to lungo tempo transfigurato» (§ 50)28.

Oggetto dell’egloga che segue, e chiude l’Arcadia, è il lungo compian-to per la morte di Filli moglie di Meliseo: si tratta di Adriana Sassone,moglie del Pontano morta nel 1490, e di Pontano stesso che si attribui-sce il nome di Meliseo nell’egloga omonima nella quale ne piange lascomparsa29. Nell’egloga, nella quale Sannazaro segue da vicino quella

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27 Vedi ancora a Vecce, Una chiosa, cit., pp. 439 sgg., per una più precisa definizionedei luoghi (ma vedi pure Marino, notes compl., pp. 380-381). A queste pagine rinvio an-che per la proposta di spiegazione di un passo particolarmente ostico: Sincero tornatoalla superficie guarda alla sua destra e scorge il «già detto colle, famoso molto per la bel-lezza dell’alto tugurio che in esso si vede, denominato da quel gran bifolco africano, ret-tore di tanti armenti, il quale a’ suoi tempi, quasi un altro Anfione, col suono de la soa-ve cornamusa edificò le eterne mura de la divina cittade» (prosa XII 47). Si tratterebbe,per Vecce, della villa di Poggioreale costruita per Alfonso di Calabria entro il 1490, eAlfonso stesso sarebbe il gran bifolco africano, così detto per la sua vittoria sui Turchi adOtranto, il quale ebbe dal padre, re Ferrante, l’incarico di restaurare e allargare le muradi Napoli. Confesso di non avere soluzioni migliori, ma non sono del tutto convinto (peresempio, perché a’ suoi tempi? e non ‘in questi tempi’, visto che anche il lavoro attornoalle mura si compie nei primissimi anni ’90?).

28 È questo un tratto curioso se solo si pensa che fu il Summonte a curare l’edizionedel 1504, e che lo fece in stretto contatto con il Cariteo, come egli stesso dice nella lette-ra di dedica al cardinale Luigi d’Aragona (nell’ed. Erspamer, pp. 49-51), e che tutto ciòavvenne in stretto contatto con l’autore, seppur allora in Francia. Marino, Intr., ed. cit.,p. XXXII, segnala giustamente la pregnanza del termine transfigurato, che, sulle orme diSeneca, indicherebbe qui «la transformation du fou en sage» (ma vale comunque il rin-vio a Petrarca, Rvf 23, 42). Certo esso indica una profonda trasformazione del personag-gio, sia per l’esperienza del dolore che per quella dello straordinario viaggio sotterraneo,dal quale egli ricava un’aura di separatezza e di superiorità che lo staccano, ormai, dalladimensione cittadina e ‘locale’ degli amici. In tal senso, non si può escludere che attra-verso quelle parole si alluda anche all’esperienza dell’esilio.

29 La si legge, con il titolo: Meliseus a quo uxoris mors deploratur. Collocutores Ciceri-

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del Pontano, si alternano nella prima parte le voci di Barcinio e Sum-monte (vv. 1-60); canta poi Barcinio, che cita a memoria i versi di Meli-seo (vv. 61-177), e infine riprende lo scambio tra Barcinio e Summonte,che a sua volta cita largamente i versi di Meliseo (vv. 178-325).

Ho riassunto, forse malamente e certo sommariamente, i due ultimicapitoli dell’Arcadia perché mi sembra necessario predisporre una sor-ta di immediata griglia di riferimento per le considerazioni che seguo-no. Le quali mirano in sostanza a modificare il giudizio corrente chevuole quei capitoli fuori tono, intimamente estranei al primo ‘Libro pa-storale’ e soprattutto li intende come capitoli frutto di una parentesi diquiete e serenità, tra la congiura dei baroni e le successive vicende delregno, dall’invasione di Carlo VIII al crollo definitivo. L’analisi e la con-danna più radicali sono quelle di Maria Corti, che a proposito degli ul-timi due capitoli ha parlato di «altra opera con altra scrittura [...] persi-ste uno iato: le aggiunte non rivelano, a parer nostro, un prosieguo disviluppo, bensì una crisi della struttura unitaria dell’opera»30. A ripro-va della crisi, la studiosa deplora l’«autentico cimitero femminile» checonclude l’opera («tre tombe sono decisamente troppe. Esse mettonoin crisi l’equilibrio di un romanzo bucolico»), e aggiunge ancora: «Leaggiunte della seconda redazione pilotano l’Arcadia direttamente inmezzo alla società degli uomini di lettere. Come dire che il Sannazaro,dopo essere stato mirabile innovatore all’interno del genere bucolico,ormai cede da un lato al modello di un bucolicismo cortigiano umani-stico fine secolo, cioè alle lusinghe di una finzione predeterminata a ce-lebrare un milieu letterario-politico, dall’altro a un interiore mutarsi diprospettive artistiche. [...] Il Sannazaro sta proprio facendo le valigie, siprepara più o meno consapevolmente ad approdare alle coste delle sueopere future», ecc. E resta in qualche modo all’interno di questo sche-ma anche Santagata, che insiste sul mutamento dei contenuti: «La Pro-

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scus et Faburnus pastores, in Poeti latini del Quattrocento, a cura di Francesco Arnaldi,Lucia Gualdo Rosa, Liliana Monti Sabia, Milano-Napoli, Ricciardi, 1964, pp. 372-382 (laricca sezione dedicata al Pontano è a cura della Monti Sabia).

30 M. Corti, Il codice bucolico e l’«Arcadia» di Iacobo Sannazaro, in Ead., Metodi e fan-tasmi, Milano, Feltrinelli, 1969, pp. 283-304: p. 302 (da queste pagine finali del saggio so-no tratte anche le citazioni che seguono). Debbo aggiungere che mi pare di condividerele riserve che a questo pur importante saggio muove Velli, Sannazaro e le «Partheniae my-ricae», cit., per es. pp. 51-52 nota 36.

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sa X, con una palese incongruenza se non si tiene conto del più che de-cennale intervallo che la separa dall’egloga precedente, cancella defini-tivamente dall’orizzonte del testo la Napoli infelice del Caracciolo persostituirvi il quadro di una città prospera sotto tutti i punti di vista»31.

Non mi pare sia così. Per cominciare, la Napoli infelice di Caraccio-lo non è sostituita da una Napoli felice e prospera, ma semmai dal ricor-do che Sincero ha portato con sé di una Napoli felice e prospera, comegià ho accennato: e questa Napoli perduta è probabilmente la medesi-ma alla quale anche Caracciolo pensa con nostalgia mentre denuncia ilmale presente. Ad essere precisi, poi, a Napoli Sincero neppure ritorna,visto che egli ritarda il suo ingresso in città per ascoltare il canto fune-bre di Barcinio e Summone con il quale l’Arcadia si chiude, e, cosa an-cora più curiosa, a ben vedere neppure un rigo è dedicato alla città co-sì come si mostra ora, agli occhi di Sincero finalmente sbucato fuori dal-l’enorme caverna. Ma andiamo con ordine.

Nei confronti della ‘prima’ Arcadia i capitoli XI e XII hanno l’eviden-te funzione di strutture conclusive. Le parole di Selvaggio e poi di Carac-ciolo nell’egloga X colpiscono nell’intimo Sincero – il Sincero, ricordia-mo, che soffre per l’esilio in Arcadia – perché riattualizzano in lui, senzaalcuna incongruenza, il ricordo della bella patria lontana, sì che il suoviaggio di ritorno finirà per apparirci del tutto conseguente e risolutivodella tensione che si è andata accumulando. Da questo punto di vista, di-rei anche che non è dubbio che la lunga parte dedicata ai giochi funebrisia, a suo modo, un altrettanto lungo saluto all’Arcadia (in ciò la Corti haragione) e al suo ethos, e che le finali parole di Opico (prosa XI 63):

Allora era io fra’ pastori, allora era io fra’ gioveni conosciuto; ora sovra di meil tempo usa le sue ragioni. Voi dunque, a cui la età il permette, vi exercitatene le prove giovenili; a me e gli anni e la natura impongono altre leggi,

suonino appunto come esplicita dichiarazione che quell’esperienza erafinita, e che altro cammino si addiceva al maturo autore32. Il quale può

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31 Santagata, L’alternativa arcadica, cit., p. 371. 32 Una leggera allusione a questo tema è anche nell’egloga X 39, e probabilmente nel-

la sestina VII, 25-30: vedi sopra, note 8 e 10. Sulla successiva svolta religiosa della poesiadi Sannazaro, anche per influenza di Egidio da Viterbo, si legga l’importante messa apunto di C. Vecce, Maiora numina. La prima poesia religiosa e la Lamentatio di Sannaza-ro, in «Studi e problemi di critica testuale», 43, 1991, pp. 49-94.

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dunque riguardare in prospettiva la propria opera, tirarne le somme e in-fine celebrare se stesso per aver superato tanti predecessori, dall’Arsoc-chi a Benivieni a Petrarca a Boccaccio (ma non l’Alberti, se il pastore Tir-si è proprio lui, come ha ben argomentato Velli)33. Chiusi dunque i con-ti con l’Arcadia Sannazaro si volge, nel capitolo XII, all’ultimo grandemotivo che davvero può risolvere l’opera, quello del ritorno, e lo fa, sipuò ben dire, alla grande. Che l’idea del viaggio sotterraneo sia ripresasoprattutto dalle Georgiche IV 317-386, spesso riecheggiate assai da vici-no, non indebolisce il testo e tanto meno lo espone ai rischi di un «bu-colicismo cortigiano umanistico» (in questo caso la Corti ha davvero tor-to). Al contrario: proprio questo grandioso e inaspettato finale, infatti,continua ad apparire come la grande invenzione che finisce per riassu-mere in maniera profonda e originale il senso complessivo dell’opera.

Di nuovo, occorre dire, non tutto è chiaro, parte per l’obiettiva diffi-coltà di decifrare compiutamente il linguaggio allusivo di Sannazaro,parte per la sua affascinante densità di significato: come ha ben dettoVelli, infatti, le sue «microstrutture hanno indubitabilmente la funzio-ne di condensare, riprendere, prefigurare il senso del tutto»34. Ma lofanno spesso in maniera ambigua, ricca di possibili implicazioni e va-rianti, quasi che all’autore non interessi tanto dar conto di una vicendama piuttosto delle emozioni, dei turbamenti che la vicenda ha lasciatonel momento in cui si allontana e scompare: quasi che i fatti siano na-scosti dietro il velo misterioso del sogno, e in primo piano s’accampi li-bera la visionaria e indefinita verità dei sentimenti.

E Sincero sogna, infatti, la notte che segue ai giochi, e il suo sogno(XII 5-8) è uno dei più intensi e veri, se mi si permette la parola, dellanostra letteratura. Egli si trova dapprima perso in una solitudine mai vi-sta. Poi, tale solitudine si riempie di sepolcri vuoti: vuole allora gridarema non riesce a emettere suono alcuno; vuole fuggire, ma non può muo-vere un passo. Indugia ora ad ascoltare una sirena che piange su unoscoglio: ma un’onda lo travolge e gli toglie il respiro sì che crede di mo-rire. Ma ecco che ritrova a terra, tagliato alle radici «con le frondi e i fio-ri e i frutti sparsi per terra», un albero d’arancio già coltivato con ognicura, e alcune ninfe in lacrime gliene dichiarano la morte, «De la qual

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33 Vedi nota 27.34 Velli, Sannazaro e le «Partheniae myricae», cit., p. 51.

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cosa dolendomi io forte, e dicendo sovra lo amato troncone: – Ove dun-que mi riposerò io? Sotto qual ombra omai canterò i miei versi? – mi erada l’un de’ canti mostrato un nero e funebre cipresso, senza altra rispo-sta avere a le mie parole».

Immagini e presagi di morte, lacrime, e l’intollerabile dolore che pro-voca il risveglio. Ma è possibile essere più precisi? Ricordando, peresempio, che la sirena in lacrime non può non farci pensare alla sirenaPartenope, e cioè a Napoli? Ma perché piange? Per la sua propria rovi-na descritta da Caracciolo, e quella della dinastia regnante? anche là viera un albero che doveva essere troncato, onde si instaurerebbe qui unanuova opposizione tra l’albero dall’ombra nociva e questo, l’arancio,che assicurava al poeta l’ombra soccorrevole e protettrice... O non saràinvece, quel pianto, il presagio della morte di Filli, pianta da Meliseonell’egloga che chiude il capitolo e l’opera tutta? O il presagio dellamorte della donna amata da Sincero, della quale sapremo solo alla fine,nel congedo (e dunque, a rigore, fuori dall’opera)?35 Credo che sceglie-re sia assai difficile, anche perché, poco o tanto, sentiamo che a sceglie-re in maniera rigida e unilaterale perderemmo qualcosa, a tal punto ilsogno opera per condensazione di simboli36. Il sogno, quindi, trasformadue volte il lauro apollineo e poi petrarchesco, in arancio e in cipresso,quasi a dire che nel deserto senza vita e tra le tombe vuote la voce delpoeta si spegne e che l’onda del presente lo inghiotte e lo soffoca, mache infine essa potrà tornare a farsi sentire solo come funebre canto dimorte: come testimone di ciò e di chi non è più.

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35 Velli, Sannazaro e le «Partheniae myricae», cit., p. 2-4 nota 3, che ha additato la fon-te dell’immagine dell’albero di arancio troncato nella egloga X, Laurea occidens del Bu-colicum carmen di Petrarca, ove ad essere abbattuto è naturalmente l’alloro (ma vedi an-che, già segnalato dallo Scherillo, Claudiano, Rapt. Pros. III 74). E qui ancora Velli ri-manda all’egloga II, Argus, a proposito del lamento per Androgeo, prosa V 23 sgg. Car-rara si dice certo che l’arancio tagliato rimandi alla morte della donna amata, come di-mostrerebbe, poco avanti, la tela ricamata con la vicenda di Orfeo ed Euridice (Sanna-zaro, Opere, cit., pp. 192 e 196, note). Vedi ancora avanti, nota 41, per la possibilità di rav-visare un altro riferimento alla donna amata.

36 Debbo più di un suggerimento al volume di Vittorio Gajetti, Edipo in Arcadia. Mi-ti e simboli nell’Arcadia del Sannazaro, Napoli, Guida, 1977, tentativo di integrale lettu-ra psicanalitica dell’opera, alla luce soprattutto di Jung, che non ha avuto fortuna ma che,di là dall’intenzione totalizzante e chiaramente forzata, riesce in ogni caso stimolante.Circa il sogno, vedi qui il cap. Il sogno dell’albero tagliato, pp. 91-106.

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Ed è proprio così che avviene. Sincero abbandona l’Arcadia che in-nalza il suo canto sulla tomba di Massilia e celebra giochi funebri in suoonore, e affronta il viaggio finale non già sull’onda di una spinta positi-va, per riemergere alla vita, ma appunto costretto dalle angosciose pro-fezie del sogno e fatto certo ormai che quello che egli sta riavvolgendoè il nero e funebre filo della morte. Il dolore lo sveglia, infatti, e in pre-da al dolore egli vaga per il bosco e il monte sinché non gli appare laninfa che lo porta alla caverna e lo accompagna per il gran viaggio sot-terraneo.

A questo punto sarebbe necessaria una lettura minuziosa di tale viag-gio, per gustarne la suggestiva e potente ricchezza simbolica37, ma inquesta sede mi limiterò a pochi passi e a poche osservazioni puntuali,che spero utili a fissare alcune connessioni significative ed a orientarel’interpretazione.

1. Una volta entrato nella grotta dalla quale il fiume scaturisce Sincerovede alcune ninfe che con fili d’oro «intessevano in una tela di meravi-glioso artificio, ma a me, per lo argomento che in sé contineva, augurioinfelicissimo di future lacrime» (§ 16). Si tratta infatti della vicenda diOrfeo ed Euridice, che Sincero così ancora commenta: «Ahi lasso, equali percosse, vedendo io questo, mi sentii ne l’animo, ricordandomide’ passati sogni! E non so qual cosa il core mi presagiva che, benché ionon volesse, mi trovava gli occhi bagnati di lacrime, e quanto vedeva in-terpretava in sinestro senso» (§ 18). Esplicitamente tale argomento è ri-portato al sogno precedente («ricordandomi de’ passati sogni»), e, pro-prio come il sogno, esso lascia il protagonista in lacrime. Il sogno e la te-la ricamata hanno infatti lo stesso valore di presagio infausto, con l’uni-ca differenza di un aumento, ora, di consapevolezza: il mito orfico ha

37 Il racconto del viaggio basta e avanza, da solo, per confutare ogni lettura riduttivadei due capitoli aggiunti a quella che sarebbe la ‘vera’ Arcadia, ravvisata dalla Corti concuriosa ingenuità nell’«universo delle pastorelle danzanti sui “pratelli delicatissimi” del-la prima Arcadia»: come altrettanto inaccettabile è il suo tentativo di riportare ogni no-vità nell’ambito esclusivo di un diverso ideale linguistico (Il codice bucolico, cit., pp. 303-304). Per contro osservo ancora, di passaggio, che si potrà criticare sin che si vuole gliaspetti più temerari del tentativo di Gajetti, ma che si deve riconoscere che la sua anali-si tenta almeno di corrispondere alla stupefacente e, viene da dire, irresistibile provoca-zione verso una lettura di tipo psicoanalitico che il testo sembra imporre ad ogni passo.

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infatti la funzione di stabilire un rapporto più chiaro tra l’oscura simbo-logia del sogno e la realtà esistenziale del protagonista che si trova di-nanzi agli occhi la chiave, per dir così, per interpretare il senso profon-do di ciò che ha sognato. In particolare, egli può porre una analogia co-sciente tra il proprio calarsi nel mondo sotterraneo e la discesa di Orfeoagli Inferi, e ne preannuncia l’esito: come Orfeo è tornato a Euridice so-lo per perderla una seconda volta, definitivamente, così Sincero saràprotagonista di un ritorno a Napoli e al proprio mondo che consiste es-senzialmente nella perdita di ciò a cui egli ritorna.

2. Proseguendo nel viaggio sotterraneo, Sincero e la ninfa attraversanola gran concavità dalla quale hanno origine i fiumi della terra, ed è quiche il tema del ritorno al quale già si è alluso attraverso Orfeo torna adaffacciarsi, nelle parole della ninfa che avverte: «E perché so che tu de-sideri vedere i tuoi, i quali per aventura ti son più vicini che tu non avi-si...» (§ 23: corsivo mio). Al che Sincero la prega di mostrargli il picco-lo Sebeto: ma non è ancora il momento, ed ha invece gran risalto l’im-magine inquietante e grandiosa di una verticale pluralità di mondi:«continuando il camino andavamo per quel gran vacuo, il quale alcunavolta si restringea in angustissime vie, alcuna altra si diffundea in aper-te e larghe pianure; e dove monti e dove valli trovavamo, non altrimen-te che qui sovra la terra essere vedemo [...] Meraviglierestiti tu – dissela ninfa – se io ti dicesse che sovra la testa tua ora sta il mare?» (§§ 25-26). E poco oltre, là dove stanno i giganti fulminati da Giove, ardono igrandi fuochi che alimentano i vulcani... Non sarebbe facile esauriretutti gli spunti che queste parole suggeriscono, in diverse direzioni. Li-mitiamoci a dire che l’inaspettata vicinanza tra l’Arcadia e Napoli chestupisce Sincero ha qui la sua possibile spiegazione, se si intende chel’Arcadia sannazariana è diventata non l’altrove lontano del mondo rea-le ma il suo doppio, e soprattutto ciò che lo genera e infine l’accoglie:la sua origine e la sua verità. Da lì, dalla gran cavità che sta sotto la cro-sta superficiale, nasce l’acqua e il fuoco che corrono per la terra, e lì fi-nisce ciò che muore. Sotto i massi liquefatti e arsi delle eruzioni:

chi sarà mai che creda che e populi e ville e città nobilissime siano sepolte?Come veramente vi sono, non solo quelle che da le arse pomici e da la ruinadel monte furon coperte, ma questa che dinanzi ne vedemo, la quale senzaalcun dubbio celebre città un tempo nei tuoi paesi, chiamata Pompei e irri-

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gata da le onde del freddissimo Sarno, fu per sùbito terremoto inghiottita dala terra, mancandoli credo sotto ai piedi il firmamento ove fundata era. Stra-na per certo e orrenda maniera di morte, le genti vive vedersi in un puntotorre dal numero de’ vivi! Se non che finalmente sempre si arriva a un ter-mino, né più in là che a la morte si puote andare. – E già in queste paroleeramo ben presso a la città che lei dicea, de la quale e le torri e le case e i tea-tri e i templi si poteano quasi integri discernere... (§§ 32-33).

C’è un che di leopardiano in queste parole, quasi il trionfo della cru-da e indifferente Natura sulle genti vive: certo, il viaggio verso la fine diogni illusione fa qui un bel passo avanti, perché mi pare innegabile chequel quasi integro profilo di torri, case, teatri e templi anticipi e sosti-tuisca quel profilo di Napoli che Sincero dovrebbe vedere appena emer-ge dalla caverna, e del quale non fa invece parola. Se è vero che la vicen-da di Orfeo preannunciava l’esito della quête di Sincero, non è meno ve-ro che lo sprofondamento di Pompei preannuncia la rovina di Napoli:Pompei è Napoli38. E i segni della tristezza e del lutto aumentano.

3. La ninfa non accompagna Sincero sino alla fine della caverna, ma so-lo sino al punto dal quale costui può seguire il corso del Sebeto e usci-re infine all’aperto per conto suo. E nel momento in cui lo abbandonaessa mostra di aver pietà della sua momentanea gioia: infatti, manda fuo-ri un gran sospiro e si volge a lui tutta pietosa (§ 35). Con ciò non pian-ge, ma invece piangono a dirotto e scompostamente, poco lontano, leninfe che stanno attorno all’immagine del dio fluviale (si muore molto,nell’Arcadia, ma, specie nel finale, si piange anche molto): «E dintornoa lui con disusato mormorio le sue ninfe stavano tutte piangendo, e sen-za ordine o dignità alcuna gittate per terra non alzavano i mesti volti»(§ 38). A tale miserando spettacolo Sincero comincia a rendersi conto chele infauste previsioni si stanno avverando, e reprime dentro di sé il pri-mo moto di ripulsa verso il proprio viaggio: «E già fra me cominciai aconoscere per qual cagione inanzi tempo la mia guida abandonato miavea; ma trovandomi ivi condotto, né confidandomi di tornare più in-dietro, senza altro consiglio prendere, tutto doloroso e pien di sospetto

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38 Vedi già Marino, Itinéraires, cit., p. 260: Sincero «en effet, il n’a plus besoin de gui-de, car il sait que la mort existe non seulement en Arcadie mais aussi à Pompei, c’est-à-dire à Naples».

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mi inclinai a basciar prima la terrra...» (§ 39). Non ha il coraggio, dun-que, di prendere alcuna decisione alternativa, tanto meno di tornare in-dietro come pure per un momento pensa di fare, e segue la via che gli èstata tracciata, pur comprendendo ormai d’essere stato lasciato solo di-nanzi all’amara meta del cammino. Invoca allora il dio del fiume che glisia propizio, al che due delle ninfe che stanno attorno al dio «con lacri-mosi volti» lo prendono in mezzo e, finalmente, lo accompagnano all’u-scita. Sarebbe questo il momento di descrivere, di esaltare Napoli, dicommuoversi per esservi tornato... Nulla di ciò. La città è solo indiret-tamente e quasi accidentalmente designata come il luogo della ninfaPartenope, «la tua singulare fenice» e dei corsi d’acqua che scendonoper le pendici del colle di Poggioreale e si posano ai suoi piedi39. Non so-lo. La tensione negativa che a partire dal sogno si è andata accumulan-do e che il protagonista ha puntualmente segnalato in se stesso oraesplode in un improvviso e solo apparentemente immotivato scoppio divuota, assoluta disperazione:

Lettore, io ti giuro [...] che io mi trovai in tal punto sì desideroso di morireche di qualsivoglia maniera di morte mi sarei contentato. Et essendo a memedesmo venuto in odio, maladissi l’ora che da Arcadia partito mi era, e

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39 Che la singulare fenice sia la ninfa Partenope e dunque Napoli mi pare probabile alconfronto con le due altre possibilità, cioè che si tratti di Filli oppure, come voleva Car-rara, la donna amata da Sincero (Sannazaro, Opere, cit., p. 201 nota: ma egli non fa alcunrimando né s’impegna circa l’identità della donna; vedi Erspamer, ad loc.). Ma tutto ilpasso (§ 43) resta di dubbia interpretazione, potendosi ugualmente parafrasare (ma è poipossibile incrociare le due diverse letture): ‘quella è la ninfa del Sebeto che bagna l’ama-ta dimora della donna che tu ami (lo amato nido de la tua singulare fenice) [...] io sono laninfa della Bolla che tu troverai sotto le pendici del monte – Poggioreale – dove ora ladonna si posa’, oppure: ‘quella è la ninfa del Sebeto che bagna Napoli, amata dimora del-la ninfa Partenope [...] io sono la ninfa della Bolla che tu troverai sotto le pendici di Pog-gioreale, là dove ella, cioè la ninfa del Sebeto e cioè il fiume stesso, termina la sua disce-sa’. Erspamer è per la seconda soluzione, il che comporta che sia eliminata la possibilitàdi vedere ancora una volta ricordata nel corpo dell’opera la «picciola fanciulla» amatada Sincero (prosa VII 9). Se invece si intendesse al primo modo, come più spesso si è fat-to, si dovrebbe anche cogliere la forte ambiguità profetica del linguaggio di Sannazaroche, definendo la donna amata, petrarchescamente (Rvf 321, 1), come fenice, alluderebbealla sua morte e alla sua resurrezione ed eternità poetica, mentre alla sua tomba allude-rebbe quel si posa. Ma occorre allora aggiungere che tale luttuoso significato resta oscu-ro allo stesso protagonista, e si chiarirà solo fuori dall’opera, nel congedo A la sampogna:vedi avanti, nota 47.

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qualche volta intrai in speranza che quello che io vedeva e udiva fusse pursogno, maximamente non sapendo fra me stesso stimare quanto stato fusselo spazio ch’io sotterra dimorato era (§§ 44-45).

In tal punto vale evidentemente per ‘allora’, ‘in quel momento’: il mo-mento nel quale Sincero esce alla vista dell’amata città. Ma poi qualco-sa cambia, qualcosa che pare sottintendere tempi più lunghi: quelli ne-cessari per venire in odio a se stessi, e quelli necessari a contenere il qual-che volta e a offrire una serie di occasioni reali al vedere e all’udire (udi-re che cosa? le parole della ninfa sono cosa passata). E poi, quel non sa-per stimare la durata della dimora sotterranea, che può ben rinviare tan-to alla sintetica brevità del sogno (nel contesto, in ogni caso, un bruttosogno!), quanto invece, al contrario, alla durata che oppone due diver-si modi di essere della realtà: il suo passato e il suo presente, quello cheora Sincero ha sott’occhio (più avanti, nell’egloga XII, v. 117, Meliseoproclama che, dopo la morte di Filli, «Napoli tua non è più Napoli», fa-cendoci ricordare quel «penso a Napoli comm’era, penso a Napolicomm’è», della bellissima canzone Monastero e Santa Chiara...). Insom-ma, se resta del tutto legittimo interpretare il testo alla lettera, come l’i-stantanea reazione d’un momento, non per questo vien meno la possi-bilità di leggervi un moto di disperazione nei confronti di una realtà mu-tata, inattesa e deludente, alla quale il protagonista s’avvicina «tra pen-sieri, dolore e confusione tutto lasso e rotto e già fuori di me» (§ 46), eche non ha il coraggio di descrivere così come non ha il coraggio di tor-nare indietro, quando la ninfa, lasciandolo solo, rimette al protagonistal’intera responsabilità di scegliere se interrompere il viaggio o prosegui-re (e questa sarà appunto la ragione per la quale la ninfa non l’accom-pagna sino all’uscita della caverna). Ne tace, invece, in maniera troppovistosa perché noi possiamo permetterci di ignorare tanto clamoroso si-lenzio e le sue possibili ragioni40. Ma c’è un altro elemento che va sotto-lineato con forza. Il protagonista, abbiamo visto, confessa di non riusci-re ad opporsi a quello che sembra il suo destino, e però, all’uscita dallacaverna, è assalito dalla disperazione e dal desiderio di morte. Ebbene,

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40 Né intacca questo silenzio la menzione della villa di Poggioreale, l’alto tugurio cheSincero scorge alla sua destra dopo aver raggiunto la sorgente della Bolla (vedi sopra, no-ta 31).

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quella forma di viltà e la «qualsivoglia maniera di morte» corrispondo-no troppo bene ai sentimenti che turbano la partenza di Sincero, infeli-ce innamorato, da Napoli per il volontario esilio d’Arcadia:

Dunque per ultimo rimedio di più non stare in vita deliberai; e pensandomeco del modo, varie e strane condizionio di morte andai examinando; e ve-ramente o con laccio, o con veleno, o vero con la tagliente spada avrei finitili miei tristi giorni, se la dolente anima, da non so che viltà sovrapresa, nonfusse divenuta timida di quel che più desiderava (prosa VII 1).

Almeno una cosa è chiara: l’arrivo in Arcadia s’accompagna allo stes-so stato d’animo che accompagna il ritorno a Napoli. Con una differen-za: che là il rapporto di causa ed effetto è dato e lineare, mentre qui lascrittura di Sannazaro lo sovverte, e procede per anticipazioni, per pre-monizioni, alimentando una condizione di suspence vagamente onirica,venata di mistero... In ogni caso, anche Napoli sta ora diventando unluogo d’esilio, mentre la felicità o il suo pallido fantasma esiste solo inciò che si lascia, non in ciò verso cui, con la morte nel cuore, ci si volge.

Questo rovesciamento del rapporto Arcadia/Napoli e l’anticipatafrustrazione finale non vanno da soli, ma comportano un coerente ro-vesciamento di prospettive. Abbiamo sottolineato come, sia pur allusi-vamente, i canti d’Arcadia fossero stati talvolta presentati come inferio-ri a quelli prodotti in Napoli da una eletta schiera di poeti41: ora, in mo-do altrettanto leggero, il rapporto s’è capovolto, perché pare di capireche ora siano quelli d’Arcadia a porsi come modello. Quando Sinceroincontra Barcinio e Summonzio e vede che si accingono a cantare, si fer-ma per ascoltarli,

benché con le orecchie piene venisse de’ canti di Arcadia, pur, per udirequelli del mio paese e vedere in quanto gli si advicinassero, non mi parve di-sdicevole il fermarmi (§ 49).

Ma dopo averli ascoltati rinuncia ad ogni idea di confronto e azzar-da un elogio di Napoli che si riallaccia a quello già sentito in bocca a Sel-vaggio. Il tono è tuttavia diverso, ribassato, e soprattutto velato da quel-lo che sembra più l’elogio della stagione passata che della presente:

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41 Vedi sopra, nota 10.

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mi piace sommamente con attenzione avergli uditi [i canti di Barcinio e Sum-monzio], non già per conferirli con quelli che di là ascoltai, né per porre que-ste canzoni con quelle, ma per allegrarmi del mio cielo, che non del tutto va-cue abbia voluto lasciare le sue selve; le quali in ogni tempo nobilissimi pa-stori han da sé produtti, e dagli altri paese con amorevoli accoglienze e ma-terno amore a sé tirati. Onde mi si fa leggiero il credere che da vero in alcuntempo le Sirene vi abitasseno, e con la dolcezza del cantare detinesseno que-gli che per la lor via si andavano (§ 51-52)42.

Questo è tutto, ripeto: e certo non è molto. Né l’egloga che seguecambia direzione o pone rimedio rispetto a un finale così elusivo: al con-trario, il pianto funebre per la moglie del Pontano aggiunge un’ulterio-re tomba al cimitero e finisce per confermare anche per questa via che«Napoli tua non è più Napoli», nel segno della presente rovina, della di-sillusione e della perdita.

III

Il congedo A la sampogna meriterebbe anch’esso lungo discorso, ma inquesta sede basta dire che esso raccoglie e fissa in forma esemplare il te-ma che, evidente o sotterraneo, corre per tutta quest’ultima parte, nel-la quale l’opposizione Arcadia/Napoli sembra posta solo per poterla at-tenuare e infine cancellare. Se per Sincero l’Arcadia è il luogo dell’as-senza, tale si rivela anche Napoli, prima di tutto per Pontano che pian-ge l’amata Filli e poi per Sincero stesso che attraverso le parole di Cari-teo e del Summonte partecipa al suo dolore riducendo anch’egli la città(assente!) a luogo della memoria. Nel congedo, poi, apprendiamo chela «picciola fanciulla» (prosa VII 9) per amore della quale egli aveva ab-bandonato Napoli e che a Napoli dobbiamo supporre sia rimasta è puressa immaturamente e repentinamente morta43 (non so se sia stato os-

42 Diversamente, Santagata dà significato integralmente positivo al passo, che prove-rebbe l’attuale prosperità di Napoli e cancellerebbe la preoccupazione di Sincero circal’inaridirsi della sua tradizione poetica (L’alternativa arcadica, cit., p. 371).

43 A la sampogna 6 e 9. Si sa che il punto è assai delicato, ma non pare che, almeno daun punto di vista narrativo, questa donna possa essere diversa da quella «picciola fan-ciulla», della quale curiosamente più non si parlerebbe nel corso dell’opera (vedi in par-ticolare Erspamer, Intr., ed. cit., pp. 15-17), a meno che non la si voglia ritrovare nel sim-bolo dell’arancio e nella singulare fenice della prosa XII 43 (vedi sopra, note 39 e 43).

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servato che così, in successione, la donna nell’Arcadia muore come ma-dre – Massilia –, come moglie – Filli – e in quest’ultimo caso come aman-te), mentre le dolenti considerazioni che seguono sarebbe difficile attri-buirle alla sola Arcadia o alla sola Napoli, perché esse valgono ormai perl’una e per l’altra, senza distinzione alcuna, denunciando semmai la fi-ne del mondo che le conteneva entrambe:

Le nostre Muse sono extinte, secchi sono i nostri lauri, ruinato è il nostroParnaso, le selve sono tutte mutole, le valli e i monti per doglia son divenu-ti sordi. Non si trovano più ninfe o satiri per li boschi, i pastori han perdu-to il cantare, i greggi e gli armenti appena pascono per li prati e coi lutulen-ti piedi per isdegno conturbano i liquidi fonti, né si degnano, vedendosimancare il latte, di nudrire più i parti loro. Le fiere similmente abandonanole usate caverne, gli uccelli fuggono dai dolci nidi, i duri e insensati alberiinanzi a la debita maturezza gettano i lor frutti per terra, e i teneri fiori perle meste campagne tutti communemente ammarciscono. Le misere api den-tro ai loro favi lasciano imperfetto perire lo incominciato mele. Ogni cosa siperde, ogni speranza è mancata, ogni consolazione è morta (§§ 10-11).

È ben possibile che il congedo sia stato scritto negli anni dell’esiliofrancese, quando il crollo della monarchia aragonese era ormai definiti-vo e quando un siffatto giudizio poteva naturalmente incarnarsi in unindiviso e totalizzante travestimento arcadico capace di investire à re-bours l’intera stagione precedente e di dare poeticamente conto dellasua fine44. Ma non è dubbio, d’altra parte, che sia perfetta la coerenza

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44 Non entro in una questione probabilmente irrisolvibile in un senso o nell’altro permancanza di dati certi, ma personalmente mi sentirei di concordare con chi tende a spo-stare la data del congedo a ridosso dell’edizione Mayr del 1504, per la quale può esserestato composto. Me lo fa pensare il tono generale, l’allusione al malvagio accidente, le ri-ghe finali del passo appena sopra citato, davvero tombali rispetto a una stagione ormaichiusa... Così pensava anche Carrara, per il quale il malvagio accidente non si riferisce al-la caduta del regno ma precisamente alla pubblicazione non autorizzata del 1502 (Sanna-zaro, Opere, cit., p. 15 e p. 216 nota 5: al proposito, si veda anche G. Folena, La crisi lin-guistica del Quattrocento e l’«Arcadia» di I. Sannazaro, Firenze, Olschki, 1952, pp. 11-12, ela cauta nota di Erspamer, ed. cit., p. 238), ed è ora merito di Marino l’aver aggiunto unelemento significativo: fonte principale di questo congedo sono i Tristia di Ovidio. Sìch’egli osserva: «Peut-être faut-il voir comme un signe de Sannazaro, le choix qu’il fit deplacer à la fin de son livre plusieurs citations des Tristes, ce poème de l’exil, à un momentoù lui même se savait peut-être – nous l’ignorons – sur le point de partir en exil, sansavoir mis la dernière main à son livre» (notes compl., p. 384).

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con ciò che sta prima, e cioè con l’Arcadia tutt’intera, della quale quel-le parole suonano come la conclusione più logica e appropriata: comel’inevitabile punto d’arrivo del lungo discorso attraverso il quale Sanna-zaro, in verità, ha sempre subìto ed ha sempre reagito alle vicende delregno. Di più, a questo punto, al voltar dell’ultima pagina, è forse pos-sibile aggiungere qualcosa alla speciale natura del travestimento arcadi-co messo in opera da Sannazaro, con particolare riferimento alla sua te-nuta interna e alle sue ragioni poetiche e morali.

Torniamo solo per un attimo al reportage di Caracciolo, nell’eglogaX. In buona sostanza egli, descrivendo ai pastori d’Arcadia la situazio-ne di Napoli come quella di un’Arcadia decaduta, introduce nell’Arca-dia medesima la nozione della sua propria decadenza e comincia insom-ma a pareggiare su questa base quello che ad essa appartiene e quelloche le è esterno. Potremmo dire addirittura che, nel linguaggio allusivoe profetico che Sannazaro adotta sistematicamente in questi ultimi ca-pitoli, la Napoli di Caracciolo appare per più di un aspetto come il de-stino del mondo arcadico, e che le parole del congedo danno conto del-la chiusura definitiva di una separazione che ha finito per perdere ogniragion d’essere. Sprofondata nel passato e viva solo come immagine del-la memoria, l’amata Napoli aragonese non ha maggior consistenza del-la mitica Arcadia, e all’Arcadia ha dunque finito per sovrapporsi econfondersi, lungo una linea di sviluppo alla quale l’opera intera obbe-disce, dal principio alla fine. E il mondo altro non è, ormai, che l’Arca-dia che non c’è più. In questo paradosso insieme esistenziale e moralesta la radice, credo, dello speciale carattere, in Sannazaro, del travesti-mento arcadico e pastorale, e di quella che chiamerei la sua intima ne-cessità. Il mondo che non c’è più, infatti, è anche l’unico abitabile, l’u-nico che possa accogliere, riconoscere e dare cittadinanza alla sostanzasentimentale della vita, e che nello stesso tempo possa definirne i con-tenuti come assenti, come perduti per sempre. Il travestimento è tuttoquesto: l’alieniloquium capace di stringere insieme verità e finzione, dalmomento che la verità non è altro, appunto, che la finzione che restitui-sce alla vita ciò che ha finito di esistere e che pure ne conserva l’irrinun-ciabile, segreta sostanza che solo, ormai, la fa degna di essere vissuta.

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