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commercially, as long as they credit me for the original creation.
Ideato da
Roberto Dottarelli 1
E’ impossibile in così poco tempo dare conto in modo esaustivo della
infinità di studi sul mito, sui riti, sulla magia e sulla religione e delle
diverse impostazioni delle analisi: storiche, religiose, psicologiche,
cognitive, semiotiche, etc. etc.
Dovendo fare alcune scelte, è corretto che io dichiari quali sono le
limitazioni a cui sono andato incontro.
In primo luogo, questa rassegna non è frutto di una ricerca
sistematica, poiché io non sono un esperto di questi temi e,
soprattutto, perché si basa sulle mie conoscenze e sulle fonti
disponibili (quindi la mia libreria ed internet).
E’ sicuramente lacunosa e non specialistica, ma tenta di dare una
visione delle diverse scuole di pensiero e di approccio analitico allo
stesso fenomeno culturale.
2
Avendo fatto cenno alle diverse impostazioni di analisi con cui sono
state esaminate queste manifestazioni culturali è bene fare cenno
immediatamente ad un aspetto della filosofia della scienza, che è
utile per spiegare perché a seconda del punto di vista si possa
giungere a conclusioni diverse.
«Ogni conoscenza proviene da una cultura.
La scienza classica era riuscita a neutralizzare questo problema: lo
scienziato – osservatore/sperimentatore - stava sempre fuori dal
campo, come un fotografo.
Le osservazioni erano dunque il riflesso delle cose reali ed ogni
soggettività poteva essere eliminata tramite la concordanza delle
osservazioni e la verifica delle esperienze.»
3 Edgar Morin, IL METODO
L’assenza di un punto di vista oggettivo fa invece emergere la
necessità del punto di vista soggettivo in ogni visione del mondo.
L’ineluttabilità dell’analisi soggettiva non deve per forza farci temere
di precipitare nel relativismo e quindi nell’impossibilità di fare
generalizzazioni.
Tuttavia non si può giungere a nessuna generalizzazione se non ci si
è domandati e se non si è dichiarato da quale punto di vista
osserviamo il fenomeno, quale sia il nostro background culturale e
quale sia il nostro approccio metodologico.
Certo è che queste generalizzazioni non debbano pretendere di avere
valore assoluto.
L’integrazione dell’osservatore nell’osservazione limita la possibilità
che esista un punto di vista assoluto e mette in luce l’irriducibile
molteplicità dei punti di vista, che partecipano alla costituzione di
ogni universo cognitivo.
4
Tradizionalmente lo studio del mito viene considerato una branca
degli studi storico-religiosi, per l’isomorfismo dei temi trattati.
Ed all’interno dello studio delle religioni (che sono una
specializzazione degli studi storici), sono stati affrontati anche i temi
del rito (che è una specializzazione del pensiero religioso), del
sacrificio (che è una specializzazione dell’attività rituale), dei tabu
(che in quanto proibizioni sono specializzazioni dell’attività rituale)
e della magia, che è stata considerata a lungo una forma di pensiero
arcaico ed ingenuo, ma che invece è assimilabile al rituale.
Posto che dei diversi punti di vista ne parleremo a tempo debito.
Qui dobbiamo dunque solo dichiarare che il nostro punto di vista è
invece quello della semiotica.
Pertanto il modo in cui analizzeremo miti, riti e tutte le altre forme di
credenza culturale, siano esse di pertinenza religiosa o folklorica,
sarà quello con cui si studiano i sistemi di segni.
5
Sistemi di segni
6
Storia
Storia delle religioni
Fenomenologia
del Mito
Fenomenologia
del Rito
Fenomenologia
del Sacrificio
Miti Riti Religioni Fiabe Tradizioni folkloriche
Etnografia
Religione Mitologia Ritualità Magia
Sacrifici Tabu
Studiandoli come sistemi di segni, viene meno la possibilità di
considerarli come resoconti storici, come cronache di fatti realmente
accaduti.
I sistemi di segni, in quanto tali non possono non essere veritieri, ma
la verità che raccontano è tale solo sul piano ideologico, parlandoci
della mentalità e dei modi di pensare e di agire, che la comunità che
li aveva adottati e rielaborati nel tempo, riteneva di dover seguire.
Ma ogni cosa a suo tempo ed ora iniziamo con la panoramica degli
studi, all’interno della quale ci soffermeremo su alcune pietre miliari
degli studi etnografici sulla religione; poi su quelle degli studi storici
e fenomenologici sulla religione; quindi su un filone di studi sui
materiali folklorici ed infine sugli studi strutturalisti di Levi-Strauss.
7
Iniziamo il nostro excursus dall’opera di uno
scozzese, James Frazer (1854-1941), che pubblicò
nel 1890 un’opera in 12 volumi, Il Ramo d’oro.
L’opera è un capolavoro d’ingegnosità ed
erudizione, dedicata allo studio delle superstizioni
primitive.
9
Frazer vi spiegava che, ignorando la scienza, i primitivi avevano
un’idea sbagliata delle cause naturali e basavano la loro conoscenza
sulla «legge di somiglianza» e sulla «legge di contatto».
Se vi era bisogno di pioggia si versava acqua, se si voleva la morte di
una persona si uccideva il suo simulacro.
Secondo Frazer, l’umanità, prima o poi, passa attraverso tre stadi di
sviluppo intellettuale, dalla magia alla religione e da questa alla
scienza.
Inutile sottolineare la fallacia di questa visione evolutiva.
Il tema centrale da cui si sviluppa Il ramo d'oro è la vicenda del Rex
Nemorensis, sacerdote di Diana nel tempio di Nemi, sopravvivenza
di un antico culto all'interno del contesto storico dell'antica Roma.
Secondo l'interpretazione di Frazer, egli agisce sulla natura e sulla
fertilità per i suoi poteri simpatici (propri della magia simpatica) e ha
un ruolo sociale fondamentale per la comunità che gli circola
attorno.
Per difenderne l'integrità fisica essa ha stabilito un sistema di tabù
finalizzato a proteggerlo, mentre l'integrità spirituale viene garantita
dal trasferimento simbolico in un'anima esterna (il ramo d'oro).
Al sopraggiungere della decadenza fisica del re-mago, non più adatto
al suo ruolo sociale, la successione viene determinata dall'uccisione
rituale del Rex Nemorensis da parte di uno sfidante, che lo deve
uccidere in duello dopo aver spezzato il ramo del boschetto di Diana.
10
Altro tema importante del libro è la teoria che Frazer sviluppa a
proposito del dio morituro; un tema che egli individua all'interno di
numerose religioni, a partire dagli studi di Wilhelm Mannhardt, che
vede la divinità coinvolta in una vicenda in cui perderà la vita, per
poi riacquistarla nuovamente in un momento successivo.
Ne sono esempi le vicende mitiche di Tammuz, Osiride, Dioniso,
Attis, Adone, Baal, Gesù, etc.
11
In La religione dei semiti (1894), Robertson-Smith
(1846-1894) ipotizzò che il politeismo dell’antichità
classica, in contrasto col monoteismo dell’Asia era
dovuto al fatto che, in Grecia, come a Roma, la
monarchia aveva ceduto il posto all’aristocrazia,
mentre in Asia era riuscita a mantenere il potere.
12
La diversa sorte politica si era riflessa in un diverso sviluppo
religioso.
Egli, sulla scorta di un lavoro precedente di Mclennan, ipotizzò [in
modo infondato] che le tribù semitiche fossero organizzate in clan
matrilineari, ognuno dei quali legato a una creatura totemica.
L’uccisione dell’animale e il consumo della sua carne cruda in un
banchetto sacro rappresentava una comunione nella quale il dio del
clan e coloro che lo adoravano si univano spartendosi la carne e il
sangue della vittima sacra.
Fra le loro opere fondamentali vi è il Saggio sulla natura e la
funzione del sacrificio (1899).
Il libro non è un’analisi storica dell'origine del sacrificio, ma indaga
la dinamica e le strutture di questo rito. Gli autori esplorano il
sacrificio come sacrum facere, rendere sacro, come atto religioso che
comporta la rinuncia di un bene a favore di un essere sovrumano.
Ma questo non basta.
La questione che interessa i due studiosi è la finalità del sacrificio: se
sia semplicemente una forma di do ut des, come asseriva
l'antropologo inglese Edward Burnett Tylor, o piuttosto una specie di
ringraziamento, come scriveva Wilhelm Schmidt a proposito del
sacrificio primiziale, o ancora, secondo quanto sosteneva Durkheim,
legittimazione dell'esistenza del divino in quanto costruzione e icona
del sociale.
13
Dopo aver esaminato le diverse impostazioni, Mauss e Hubert
attribuiscono al sacrificio il carattere di «mezzo» per stabilire un
contatto fra il sacro e il profano.
Dato il carattere di potenza ed intoccabilità del sacro, che rischia di
irretire l'uomo, i due sociologi individuano la presenza necessitante
di un mediatore, nella maggior parte dei casi un animale sacrificale,
che faccia da ponte fra il sacro e il profano. Il contatto col sacro
comporta anche un rituale d'entrata e d'uscita, ne è sterile esempio il
segno della croce all'ingresso in una chiesa.
Da ricordare ancora la Teoria generale della magia (1902-3), nella
quale i due etnologi francesi studiarono i rapporti della magia con la
scienza e la religione, giungendo alla conclusione che queste
posseggono analogie con la magia in quanto hanno terreni comuni di
intervento: la natura (scienza e magia) e il sacro (religione e magia).
14
In Riti di passaggio (1909), Van Gennep (1873-
1957) spiega che la società umana è assimilabile
a uno spazio delimitato all’esterno e organizzato
al suo interno in una serie di comparti distinti da
precisi margini di divisione.
I riti di passaggio sono i meccanismi cerimoniali
15
che guidano e regolamentano la transizione degli individui da un
comparto ad un altro.
Il libro è l’occasione per definire e scorrere in rassegna i riti legati
alla gravidanza e al parto; alla nascita e all’infanzia; all’iniziazione
sociale; al fidanzamento e al matrimonio e, per finire, alla morte.
Van Gennep ne propone anche un'acuta analisi strutturale, dividendo
il rito nelle fasi di "separazione" (es. preparazione del defunto),
"margine" (es. esposizione) e "aggregazione" (es. sepoltura).
Quando Durkheim (1858-1917) iniziò a scrivere di
religione e più precisamente Le forme elementari
della vita religiosa (1912), sua intenzione era di
dimostrare il carattere eminentemente sociale del
fatto religioso e di smentire che ogni individuo
fosse capace di costruire una propria fede.
In questa sua analisi partì dalla distinzione tra sacro
16
e profano, intesi come due campi separati della conoscenza umana:
il sacro è un insieme di rituali e di oggetti tenuti distinti dal
profano, con una serie di proibizioni, leggi e prescrizioni, che non
fanno parte della vita di ogni giorno.
Per rispondere alla domanda sul come fosse nato il sacro,
Durkheim prese in esame la «religione più semplice e primitiva
che sia possibile trovare», che per le sue cognizioni corrispondeva
al totemismo degli aborigeni australiani.
Gli aborigeni vivevano in piccole tribù nomadi, riunite in clan. Una
volta all’anno il clan si riuniva, quando il cibo era abbondante.
Nel corso di questa festa, secondo Durkheim, gli aborigeni
perdevano il controllo delle loro emozioni ed entravano in contatto
«con le potenze sovrannaturali».
Dunque il sacro veniva attuato, concretizzato, grazie all’esistenza del
clan, che era un’estensione sociale, attraverso la quale si manifestava
quella forma primitiva di sacralità.
17
In relativo accordo col pensiero di Durkheim, Levy-
Bruhl (1857-1939) considera la morale come scienza
dei costumi, basata su regole di comportamento che,
in un determinato contesto sociale, appaiono obiettive
e necessarie come le leggi della natura.
18
Lévy-Bruhl intuisce chiaramente che il pensiero primitivo è basato
sulla religione e che in relazione a ciò tutta la realtà viene pensata
come l'insieme degli effetti di una causa divina come causa prima,
ignorando totalmente le cause reali o "seconde" di origine fisica,
chimica e biologica. Questa base mistica della mentalità arcaica
porta a una partecipazione agli esseri circostanti e a tutta la natura,
ma è impermeabile all'esperienza, perché attribuisce lo svolgersi
degli eventi a forze soprannaturali: ecco perché il primitivo manca di
logica (quale la intende l'uomo civile). Tra le sue opere più ricordate
c’è La mentalità primitiva (1922)
Negli anni ‘50, grazie al Rhodes-Livingstone
Institute diretto da Gluckman, Turner (1920-1983)
condusse ricerche sul campo presso le popolazioni
ndembu dello Zambia, dell'Africa centrale,
concentrandosi in particolar modo sull'assetto
societario ed esaminando inizialmente l'aspetto
19
demografico e l'economia, per poi passare alle pratiche religiose. Fu
questo il periodo che lo vide interessato al rituale ed ai riti di
passaggio. Turner rinomina le tre fasi di Van Gennep in "pre-
liminari" (separazione), "liminari" (transizione) e "post-liminari"
(reintegrazione). Tra le sue opere più significative: La foresta dei
simboli. Aspetti del rituale Ndembu, Brescia Morcelliana, 1976 (ed.
orig. New York, 1967) e Il processo rituale. Struttura e anti-
struttura, Brescia Morcelliana, 1972 (ed. orig. Londra, 1969).
Nel 1983, Pietro Scarduelli ha pubblicato Il rito. Dei Spiriti Antenati,
che costituisce un’ottima sintesi dei diversi punti di vista che hanno
scelto il rito come oggetto d’indagine.
Scarduelli parte dalle analisi etologiche, studiando le basi
filogenetiche del rito; prosegue attraverso l’analisi dei processi
cognitivi, comunicativi ed emotivi che si manifestano nei
commportamenti rituali; fino ad approfondire l’influenza che il
comportamento rituale subisce dall’organizzazione sociale e politica,
in modo da giungere a una definizione, che S. non ritiene tuttavia di
valore universale: il rito costituisce l’unico modo per fronteggiare,
risolvendo sul piano simbolico, quelle contraddizioni insite nei
rapporti sociali di produzione che non possono essere risolte in altro
modo, dato il livello di sviluppo delle forze produttive (p. 117).
Nella seconda parte del libro, poi, Scarduelli descrive alcuni rituali
caratteristici di diversi contesti etnografici.
20
In Italia, Raffaele Pettazzoni (1877-1959) fu il
primo maestro della Storia delle religioni.
Le indagini da lui svolte, a cominciare dalla
religione degli antichi Sardi, alle religioni
classiche dei Greci, dei Romani, dei Germani e
degli Slavi sono sparse in numerosissimi saggi,
soprattutto nelle riviste da lui fondate, Studi e
materiali di storia delle Religioni (1925), Numen
(1954).
Gli argomenti che gli stettero più a cuore e per i
quali viene ricordato sono: il concetto di dio, la
confessione dei peccati (1922) e i miti e le
leggende dei popoli primitivi (1948).
22
Graves (1895 – 1985) ha approfondito, su temi di
natura poetica, lo studio antropologico di James
Frazer. La religione primitiva, secondo Graves, è
legata essenzialmente all'agricoltura, e venera la Dea
Madre Terra come divinità superiore. Da un iniziale
"monoteismo", sono poi scaturite le diverse divinità,
23
secondo i tempi, i luoghi, le etnie, le guerre. Così ogni aspetto della
Dea si è di volta in volta personificato, con nomi diversi, rimanendo
facilmente individuabile nelle diverse culture: salta subito agli occhi
per esempio la corrispondenza dei culti greci e romani, sebbene
questo sia dovuto principalmente alla contiguità spaziale e
temporale delle due culture.
Graves, riprendendo Frazer, ipotizza che tutta la ritualità nasca dalla
necessità dell'uomo di essere padrone del ciclo della terra, così da
non lasciarsi soggiogare dalla crudeltà della Natura.
24
Poiché le scelte su come, dove, quando, e cosa coltivare erano in
mano ai sacerdoti e non ai contadini, queste venivano conservate e
tramandate per mezzo dei misteri (derivato da mystxs "iniziato").
Le invasioni di popoli pastori-guerrieri provenienti dall'Est hanno
pian piano usurpato la religione dei contadini e imposto i propri dèi
maschili. I miti che raccontano stupri da parte di divinità maschili
(come ad es. Zeus) sarebbero il retaggio mitologico di tali eventi
antropici. Come accade spesso nelle migrazioni, però, è la cultura
invasa ad essere quella più forte, quella che comunque sopravvive e
ingloba la cultura sopravveniente. JHWH è un dio maschile, che ha
spezzato la ciclicità della Storia imposta dalla Dea: un tempo, per
rendere fertili i campi, il compagno della Dea veniva sacrificato ogni
anno per un novello sposo, JHWH invece si impone come unico e
onnipotente Dio. Le opere più famose sono La Dea bianca:
grammatica storica del mito poetico (1948) e I miti greci (1954).
Nato in Ungheria a Timisoara, Kerenyi (1897 –
1973) è considerato uno dei massimi eruditi e
filologi del Novecento.
Studiò il mito come modalità di conoscenza, anche
confrontandosi con le teorie di Carl Gustav Jung.
La costruzione di una "scienza del mito" è il filo
conduttore delle sue opere principali: Kerenyi, in-
25
fatti, applicò alla mitologia greca l'ermeneutica, ossia
l'interpretazione del testo, in modo da chiarirne le intenzioni e i
significati consci o inconsci.
Kerenyi tentò di fondare un metodo interpretativo, scrivendo molti
saggi sugli «archetipi» della mitologia greca.
Tra questi saggi vanno ricordati: Prolegomeni allo studio scientifico
della mitologia (1940-1) con Jung e Gli dei e gli eroi della Grecia
(1951 e 1958) da solo.
L'ermeneutica è, in filosofia, la metodologia dell'interpretazione. La
parola deriva dal greco antico ἑρμηνευτική (τέχνη), in alfabeto latino
hermeneutikè (téchne), traducibile come (l'arte della) interpretazione,
traduzione, chiarimento e spiegazione.
Essa naque in ambito religioso con lo scopo di spiegare la corretta
interpretazione dei testi sacri.
In seguito il termine assunse un respiro più ampio tendente a dare un
significato a tutto ciò che è di difficile comprensione.
In questo senso può essere vista come la teoria generale delle regole
interpretative.
26
Georges Dumézil (1898 –1986) è stato uno storico delle religioni,
linguista e filologo francese.
Divenne universalmente noto per le sue teorie sulla società,
l'ideologia e la religione degli antichi popoli indoeuropei, sviluppate
comparando tra loro i miti di quei popoli e scoprendovi una struttura
narrativa identica che per Dumézil rifletteva essenzialmente una
stessa visione della società e del mondo, caratterizzata in particolare
da una tripartizione funzionale: la funzione sacrale e giuridica, la
funzione guerriera e la funzione produttiva.
Oltre che nei miti, questa struttura si ritrova, secondo Dumézil,
anche nell'organizzazione sociale di alcuni popoli indoeuropei, a
cominciare dalle caste dell'India.
Uno dei suo libri più famosi è La religione romana arcaica (1974),
nel quale Dumezil presenta un affresco credibile e acuto delle ideo-
logie religiose di Roma a confronto con quelle indo-europee.
27
La filologia (dal greco φιλòλογος, composto da φίλος (philos)
"amante, amico" e λόγος (logos) "parola, discorso": "interesse per lo
studio delle parole"), secondo l'accezione comune attuale, è un
insieme di discipline che studia i testi letterari al fine della
ricostruzione della loro forma originaria attraverso l'analisi critica e
comparativa delle fonti che li testimoniano, e con lo scopo di
pervenire, mediante varie metodologie di indagine, ad una
interpretazione che sia la più corretta possibile.
28
Mircea Eliade (1907-1986) è uno degli storici delle
religioni fra i più interessanti del nostro secolo.
Giunse esule a Parigi nel settembre del ’45 e ivi
rimase fino al ’57. Fu durante questo soggiorno
francese che pubblicò le sue opere principali, fra le
quali sono da segnalare il Trattato di storia delle
religioni (1948) e Il mito dell’eterno ritorno (1949).
29
Il primo costituisce ancora oggi una delle migliori interpretazioni
fenomenologiche delle principali religioni mondiali.
Eliade avvicina e descrive le ierofanie che si palesano a vari livelli
cosmici (Cielo, Sole, Luna, Acque, Pietre, Terra), nei fenomeni
biologici (Donna, Fecondità, Vegetazione, Agricoltura), nei miti e nei
simboli (Spazio e Tempo Sacro).
Gli studi storico – religiosi di Eliade hanno come oggetto i popoli
primitivi. Questo interesse è dettato da una duplice convinzione; che
l’uomo religioso di ogni epoca coincida con l’uomo arcaico e che
conseguentemente le strutture psichiche umane siano costanti in ogni
epoca.
Ciò che per Eliade rientra nel concetto di mito riguarda una serie
ampia di momenti: narrazione orale, riti, atti e gesti. Il mito è il modo
con il quale l’uomo delle culture a livello etnico entra in contatto con
la realtà divina, ontologicamente fondante ogni tipo di realtà umana.
Nella prospettiva eliadiana il mito è inteso come rivelazione di
qualche cosa che è nascosto nei messaggi conservati nei racconti
tradizionali di tutti i popoli. È mitico ogni atto che è svolto su
modello di un evento originario. Creando quella contrapposizione tra
tempo del mito e tempo della storia che Eliade rese popolare a livello
intellettuale nel suo celebre testo del ’49.
30
Se Pettazzoni fu il padre degli studi storico-religiosi in Italia, Ernesto
de Martino (1908-1965) è stato indubbiamente l’etnologo italiano
più prolifico, provocatorio e famoso.
de Martino non fu tra gli allievi di cattedra di Pettazzoni e sarebbe
problematico includerlo in un ideale albero genealogico della Scuola
di Roma; tuttavia è indubbio che i due condivisero una sorta di
“alleanza” di interessi, di metodo, di sensibilità scientifica.
A partire dalla fine degli anni ’40 (contemporaneamente ad una
profonda riflessione teorica sul rapporto tra religioni, storicismo e
fenomenologia), de Martino sposta la sua attenzione verso i
contadini del Sud italiano, il loro folklore e le loro manifestazioni
rituali.
Scritto negli anni della II guerra mondiale e pubblicato nel 1948, Il
mondo magico è il libro nel quale de Martino elabora alcune delle
idee che rimarranno centrali in tutta la sua opera successiva.
31
Qui de Martino costruisce la sua interpretazione del magismo come
epoca storica nella quale la labilità di una "presenza" non ancora
decisa viene padroneggiata attraverso la magia, in una dinamica di
crisi e riscatto. Il rito aiuta l'uomo a sopportare una sorta di "crisi
della presenza" che esso avverte di fronte alla natura, sentendo
minacciata la propria stessa vita. I comportamenti stereotipati dei riti
offrono rassicuranti modelli da seguire, costruendo quella che viene
in seguito definita come "tradizione".
Da ricordare anche Morte e pianto rituale (1958), in cui de Martino
indaga la persistenza, nelle realtà marginalizzate della Lucania, del
pianto funebre, rito antichissimo e diffuso prima del Cristianesimo in
tutta l’area mediterranea. Anche il pianto rituale nasce a fronte della
crisi del cordoglio e dell’esigenza di elaborare culturalmente il lutto,
de-storificando l’evento luttuoso, vissuto dagli individui, per
riportarlo ad una dimensione ideologica, mitico-rituale.
32
Allievo del Pettazzoni, Angelo Brelich (1913-1977) è l’esponente di
punta di un interesse storico e laico allo studio delle culture religiose.
La religione di Roma antica fu il suo assiduo e pressoché esclusivo
oggetto di studio dalla pubblicazione di Die geheime Schutzgottheit
von Rom (La divinità tutelare segreta di Roma) e di Vesta, usciti a
Zurigo nel 1949 nella collana "Albae Vigiliae" diretta dal Kerényi,
fino alle Tre variazioni romane sul tema delle origini (Roma 1955).
Il comparativismo emerse pienamente nei due corsi universitari dal
1953 al 55 sui calendari festivi, e rimase presente, quando il B. lasciò
la religione romana per la greca. Il tema di questi corsi fu l'eroe
greco, sottraendolo alla filologia classica per consegnarlo alla storia
delle religioni; la ricerca si tradusse in un ponderoso lavoro dal titolo
Gli eroi greci. Un problema storico-religioso (Roma 1958).Tra le
altre opere, Introduzione alla storia delle religioni (1965), I Greci e
gli dei (1985), Come funzionano i miti (2003).
33
Jean-Pierre Vernant (1914 – 2007) è stato uno
storico, storico delle religioni e antropologo
francese. Studioso dell'età classica, si è occupato
in modo particolare della mitologia greca.
34
Nella sua opera più conosciuta, Le origini del pensiero greco (1962),
viene modificata radicalmente l'interpretazione della storia e della
prima filosofia greca avvalendosi degli studi antropologici di
Georges Dumézil, Claude Lévi-Strauss e Ignace Meyerson.
L'autore cerca di trovare le cause del passaggio dal pensiero
mitologico greco a quello razionale filosofico.
Secondo Vernant il motivo di questo cambiamento va ricercato nel
mito stesso oltreché nella stessa storia sociale, giuridica, politica ed
economica dei greci.
Il cammino verso la ragione, sostiene Vernant, porterà nello stesso
tempo alla nascita della democrazia greca.
Risalendo alle origini della civiltà greca nell'età micenea derivata
dalla dominazione degli Ittiti l'organizzazione sociale faceva capo ad
una gerarchia al cui vertice era il re come depositario di un potere
assoluto esercitato nel palazzo, centro di ricchezza e di potenza
militare. Il re è nello stesso tempo capo politico e supremo sacerdote;
egli stabilisce con precisione il tempo dei riti ed è assistito da una
casta sacerdotale, ma in effetti il suo è un potere esclusivo e
carismatico, solo lui personalmente è in contatto, attraverso riti
misteriosi e segreti, con la divinità.
Con l'invasione dorica tutto questo cambia.
Al palazzo comincia a sostituirsi la città come centro del potere dove
prevalgono nuove forze sociali. Anche la religione risente di questo
mutamento. Quelli che erano gli dei, segni efficaci che influivano
sulla vita reale, divennero semplici immagini; i simboli religiosi
tendono a diventare banali rappresentazioni del sacro.
35
Anche nella vita politica nascono santuari segreti e sorge una
burocrazia sacrale che custodisce i talismani da cui dipendono i
destini della città. Questo spiega perché accanto alla religione
pubblica si affianca quella dei misteri dove ci si reimpossessa del
sacro e si ritrova il contatto mistico con la divinità attraverso il
segreto. La funzione religiosa non viene più assegnata dal re.
Con l'iniziazione ai misteri aperti a tutti, si cominciano ad affermare i
principi dell'egualitarismo della futura democrazia. Con i pensatori
di Mileto la religione è completamente desacralizzata. Essi tentano
una nuova visione scientifica del cosmo che risente però ancora degli
influssi religiosi. La nuova cosmologia è ancora figlia della
cosmogonia. Gli elementi naturali, l'archè, sostituiscono le divinità,
ma permane il problema di spiegare come dal caos si sia poi formato
l'universo ordinato ed è su questo tema che si affannerà la filosofia
seguente.
36
Allievo del Pettazzoni, Dario Sabbatucci (1923-2004) ha insegnato
Storia delle religioni all’Universita "La Sapienza" di Roma,
occupandosi soprattutto del mondo antico, con particolare attenzione
alle pratiche religiose nella Repubblica romana e alle culture del
vicino oriente e del Mediterraneo, offrendo interpretazioni nuove e
originali dei miti e dei riti.
Tra le sue numerosissime opere: Introduzione alla storia delle
religioni (1965), Lo stato come conquista culturale (1975), Il mito, il
rito e la storia (1978), Sui protagonisti dei miti (1981), I Greci e gli
dei (1985), La religione di Roma antica (1988), Come funzionano i
miti (2003).
Nel corso del seminario, ci soffermeremo su alcune delle sue più
importanti intuizioni sulle religioni classiche dell’area mediterranea e
medio orientale.
37
Marcel Detienne (1935) è uno storico e storico delle religioni belga,
specializzato nello studio dell'antica Grecia.
Insieme a Jean-Pierre Vernant e Pierre Vidal-Naquet, Detienne ha
cercato di applicare un approccio antropologico, influenzato dallo
strutturalismo di Claude Lévi-Strauss, allo studio della Grecia
classica e arcaica.
Tra le sue opere da me preferite ci sono I giardini di Adone (1972),
in cui Detienne mette in evidenza l’opposizione tra Adone e
Demetra, tra le erbe aromatiche e il grano, tra eccitazione individuale
e norma sociale, utilizzando le tecniche caratteristiche dello
strutturalismo. Ancora da ricordare Dioniso e la pantera profumata
(1977), affascinante analisi della cultura greca e Apollo con il
coltello in mano (1998), grandioso affresco sul culto apollineo ed in
particolare sul suo legame con il sacrificio.
38
La Morfologia della fiaba (1928) è la prima opera
scritta da Vladimir Ja. Propp, cui seguirà circa vent’anni
dopo Le radici storiche dei racconti di fate (1946).
In un campo in cui dominava l’impressionismo, la
scarsa rigorosità e l’ambiguità logica e terminologica,
40 G. Bravo, PROPP E LA MORFOLOGIA DELLA FIABA
il giovane Propp sentì l’esigenza di metodi più precisi e di un
linguaggio più formale, nel porsi alla ricerca delle componenti
funzionali del racconto.
Di ogni funzione Propp dá una definizione precisa, in genere di una
sola parola (ad esempio, allontanamento, lotta, vittoria, nozze) e una
notazione simbolica (generalmente una lettera dell’alfabeto latino o
cirillico). Ad esempio lo schema:
e3 q1 X1 Y1 W ↑ L1 V1 Rm4 ↓ n°
indica: 3 figlie di un re vanno a passeggio (e3), si attardano in un
giardino (q1), un drago le rapisce (X1); viene emesso un bando con
richiesta d’aiuto (Y1); rispondono 3 eroi (W), che partono alla ricerca
(↑); combattono col drago (L1); lo vincono (V1 ) e liberano le
fanciulle (Rm4); ritornano (↓) e ricevono una ricompensa (n°). In
dettaglio L significa «lotta» e 1 è la sub-specie «in campo aperto»
Il risultato del lavoro svolto da Propp consiste nell’aver dimostrato
che le fiabe formano un’unica serie di varianti dell’identico schema
narrativo.
Alla ricerca delle origini sociali e culturali della fiaba Propp dedica
la seconda sua opera, nella quale giunge alla conclusione che il
soggetto e la composizione del racconto di fate sono derivati dai cicli
di racconti collegati ai rituali d’iniziazione e a quelli delle
rappresentazioni della morte, proprie delle popolazioni tribali.
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Rit
ual
e
G. Bravo, PROPP E LA MORFOLOGIA DELLA FIABA
E’ soltanto con Levi-Strauss (1908-2008) che la
mitologia viene osservata per la prima volta come
un oggetto semiotico, come un linguaggio, in cui
un certo materiale significante ha la funzione di
trasmettere un certo significato.
Considerare il mito come un oggetto semiotico
significa ritenere che il suo senso non è in quello
che viene raccontato, ma in ciò che attraverso esso
43 G. Ferraro, IL LINGUAGGIO DEL MITO
viene raccontato.
Una prima esemplificazione possiamo prenderla dal suo studio
dedicato negli anni 1958-59 ad un mito tsimshian (costa canadese del
Pacifico) noto come «Le gesta di Asdiwal».
Il particolare interesse del mito sta nel fatto che esso possiede al suo
interno più ordini o livelli o codici, che risultano articolarne il
contenuto su più piani distinti, ma interrelati.
44 G. Ferraro, IL LINGUAGGIO DEL MITO
Al livello geografico, il racconto rispetta i dati effettivi della realtà
del paese (fiumi, villaggi, isole). Lo stesso può dirsi anche del livello
economico: la carestia, che caratterizza l’inizio del mito, corrisponde
alla realtà dell’esistenza degli Tsimshian nel periodo più freddo
dell’inverno, prima dell’arrivo dei salmoni.
Non meno reale era la distinzione tra le varie fonti di sostentamento
(la caccia in montagna, la pesca, la caccia di mare) di cui parla il
mito.
Quanto al livello sociologico non si può dire che il mito rispecchi gli
usi effettivi degli Tsimshian.
Prima però di entrare nel dettaglio è tempo di narrare brevemente il
contenuto del mito.
Esso inizia nel momento in cui due donne, madre e figlia, restate
entrambe vedove in seguito a una grave carestia invernale, decidono
di ritrovarsi insieme.
45 G. Ferraro, IL LINGUAGGIO DEL MITO
Segue il matrimonio della più giovane con un personaggio
misterioso e dotato di grandi poteri magici: dalla loro unione nasce
Asdiwal che, diventato adulto in poco tempo, è il protagonista del
racconto.
Egli prende in moglie la bellissima Stella della Sera, figlia del Sole,
con la quale va inizialmente a vivere in cielo. Ritornato poi sulla
terra, perché spinto dalla nostalgia, Asdiwal viene abbandonato dalla
moglie, che ne ha scoperto una tresca con una ragazza del villaggio.
Egli si sposta più ad ovest, in un altro villaggio dove sposa la figlia
del capo locale. Ma anche questo matrimonio ha vita breve, perché,
umiliati durante una gara di caccia, i cognati abbandonano Asdiwal
portandosi via la sorella.
Tuttavia Asdiwal trova subito una nuova sposa. Anche questa però ha
quattro fratelli, invidiosi delle capacità venatorie del cognato: per
ripicca lo abbandonano su uno scoglio in mezzo al mare.
46 G. Ferraro, IL LINGUAGGIO DEL MITO
Aiutato dai trichechi, l’eroe riesce a tornare a riva, dove trova ad
attenderlo la moglie e il figlio avuto da quest’ultimo matrimonio.
Spinto da un’irresistibile nostalgia per i luoghi della sua infanzia,
Asdiwal, in seguito, lascia anche questa moglie e torna col figlio
verso est, sulle montagne dov’era nato.
Ma è proprio su una di queste montagne che Asdiwal sorpreso dalla
neve, senza le sue racchette magiche, incapace di salire e di
scendere, resta immobile, trasformato in una statua di pietra.
* * *
Sul piano sociologico, l’inizio del mito corrisponde all’uso reale.
Madre e figlia infatti sono separate perché quest’ultima col
matrimonio ha lasciato i genitori ed è andata a vivere nel villaggio
del marito (regola di residenza patrilocale).
Tuttavia nei tre matrimoni attuati da Asdiwal si segue una regola
residenziale matrilocale, diversa da quella praticata dagli Tsimshian.
47 G. Ferraro, IL LINGUAGGIO DEL MITO
Solo alla fine del racconto si ristabilisce una situazione di
patrilocalità, quando Asdiwal torna col figlio nei suoi luoghi
d’origine.
Ecco gli andamenti espressi dal mito:
1° schema: patrilocalità → matrilocalità → patrilocalità
2° schema: separazione → tentativi di unione falliti → separazione
3° schema: immobilità → movimento → immobilità
4° schema: carestia → benessere → (eccesso di cibo)
Il mito quindi individua nella patrilocalità (cioè in un’organizzazione
della vita comunitaria orientata prevalentemente sulla base delle
attività maschili) una condizione vantaggiosa, ma eccessivamente
statica, incapace di mediare i vari aspetti della vita o di trovare una
soluzione agli sbalzi stagionali tra i periodi di abbondanza e di
carestia.
48 G. Ferraro, IL LINGUAGGIO DEL MITO
Una conduzione femminile dell’economia domestica e della vita
sociale, quale deriverebbe dall’adottare una regola di residenza di
tipo matrilocale, potrebbe comportare una gestione più equilibrata
delle risorse ed una maggiore mutevolezza dell’esistenza; ma si
scontrerebbe con alcuni insormontabili problemi di convivenza tra
gli uomini dei diversi gruppi familiari.
Tuttavia anche la soluzione patrilocale comporta i suoi rischi in
termini di conflitti familiari, tanto da portare (come nel finale di
questo racconto) alla rottura dei legami coniugali.
Il mito sembra quindi indirizzare la scelta verso una soluzione in cui
la condizione patrilocale sia temperata attraverso compromessi con
le esigenze matrilocali: il che era, appunto, ciò che avveniva nella
realtà sociale degli Tsimshian.
Un’interpretazione che dipinge questo mito come una sorta di
affascinante studio della sociologia indigena.
49 G. Ferraro, IL LINGUAGGIO DEL MITO
Ma questa interpretazione non aiuta a comprendere altri elementi che
non possono essere privi di significato: ad esempio la relazione
alto/basso del primo matrimonio di Asdiwal con la Stella della Sera o
l’episodio in cui l’eroe viene aiutato dai trichechi. Nel primo caso
Asdiwal viene recuperato dal Sole con una rete da pesca, quasi fosse
un salmone; nel secondo caso egli torna a riva dallo scoglio stando
dentro lo stomaco di un tricheco, come se fosse un pesce.
Ci si rende conto ancora una volta che i vari elementi della
narrazione sono combinati in maniera non casuale, ma la logica
complessiva che li unisce sfugge ancora a Levi-Strauss, che
finalmente ha la giusta intuizione.
Come per i singoli episodi del mito, che, se presi separatamente
risultavano assolutamente incomprensibili e che, una volta messi in
relazione tra loro, sono diventati significanti, forse anche i miti
devono essere confrontati tra di loro, alla ricerca di elementi comuni.
50 G. Ferraro, IL LINGUAGGIO DEL MITO
Si potrebbe, ad esempio, confrontare questo con altri miti tsimshian,
in cui compare l’episodio del matrimonio con una donna celeste, o
quello del viaggio alla dimora dei trichechi. C’è, ad esempio, un altro
mito tsimshian che racconta di come un uomo-salmone venne
trasformato in pietra: esso potrebbe gettare nuova luce sulla
connessione tra il finale delle gesta di Asdiwal e i due episodi in cui
l’eroe è presentato come un pesce.
Levi-Strauss tuttavia non proseguì con questo tipo di analisi, ma
intraprese un’opera decisamente più impegnativa.
Più di duemila pagine, oltre milletrecento racconti mitici presi in
esame, una vastissima raccolta d’informazioni etnografiche (riti,
usanze, disegni, pratiche culinarie) e naturalistiche sono alla base
delle Mythologiques. La maggior parte dei dati etnografici sono
introdotti allo scopo di aiutare la comprensione dei miti, situandoli
all’interno del loro contesto socio-culturale ed economico.
51 G. Ferraro, IL LINGUAGGIO DEL MITO
Le simmetrie messe in luce tra miti di popolazioni estremamente
lontane e diverse tra loro appaiono in tutto il loro significato.
Si resta inevitabilmente perplessi scoprendo che un mito del Mato
Grosso viene chiarito grazie ad un racconto nordamericano e ci si
può chiedere come sia possibile che un indio del Mato Grosso,
certamente all’oscuro delle mitologie di popoli così lontani, possa
comprendere il senso dei racconti della sua stessa tradizione.
Lo stesso Levi-Strauss, che pur con tanta decisione ha scelto di
travalicare ogni confine geografico e culturale, oscilla a questo
proposito tra opinioni diverse.
Nelle prime pagine de Il crudo e il cotto (1964) egli dichiarava il suo
scrupolo a limitare la sua indagine ad una «regione geografica e
culturale ben circoscritta», all’interno della quale possano essere
ragionevolmente postulati nessi reali di ordine storico e geografico.
52 G. Ferraro, IL LINGUAGGIO DEL MITO
Ma nelle Origini delle buone maniere a tavola (1968), Levi-Strauss
ritiene più utile affidare invece ai miti stessi il compito di indicare
l’area alla quale può risultare utile estendere l’indagine. Se dunque i
particolari di certi miti sudamericani non possono essere chiariti in
base ad altro materiale sudamericano, non è inaccettabile far ricorso
alle mitologie nordamericane, quando queste risultino in grado di
offrire a quei racconti un senso e una coerenza logica, tanto più se
questa operazione offrirà frutti significativi seguendo un percorso
inverso.
Ma arrivati a questo punto la questione dei rapporti storici si pone in
termini radicalmente diversi.
Infatti gli studi levi-straussiani dimostrano che i contatti tra le
diverse unità etno-culturali che abitano o che hanno abitato il
continente americano devono essere stati più frequenti e profondi di
quanto non si creda.
53 G. Ferraro, IL LINGUAGGIO DEL MITO
Ciò che a Levi-Strauss preme in particolare è di contrastare l’idea,
che egli collega specialmente all’opera di Boas (ma per il nostro
areale mi verrebbe da fare il nome di Brelich), secondo la quale i
miti non sarebbero che agglomerati informi di segmenti tra loro
indipendenti. In tal caso i processi di diffusione e di organizzazione
interna dei racconti sarebbero stati casuali ed avrebbero ben presto
perso la loro coerenza narrativa complessiva.
Invece, secondo Levi-Strauss, ogni mito appartiene ad una totalità
coerentemente organizzata, cosicché quando un segmento subisce un
processo di diffusione presso una diversa popolazione, esso rimane
logicamente coerente con la matrice originaria.
In ultima analisi, Levi-Strauss non riesce a fornire una spiegazione
esauriente sul perché ciò accada, ma si potrebbe rigirare la medaglia,
sostenendo che sono le osservazioni dell’antropologo francese che
dovrebbero essere spiegate dagli storici e dagli altri antropologi.
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Non rimane molto tempo. Così va sottolineato ancora che il valore di
un elemento mitico non è intrinseco, ma dipende dal sistema di
relazioni nel quale è inserito e dunque può essere messo in luce solo
a patto che l’analisi sappia far emergere tali relazioni.
Ciascun componente del mito va inserito in un contesto che sia in
grado di precisarne la funzione ed il senso.
Alla formazione di tale contesto può contribuire sia altro materiale
mitologico, sia materiale etnografico e storico.
Nel corso delle due prossime lezioni, proveremo a svolgere questo
compito nel tentativo di dare un senso ad un mito boscimani, ripreso
da Angelo Brelich proprio per sottolinearne il suo essere avulso dalla
cultura di quella popolazione.
Cercheremo invece di dimostrare come esso si sia mantenuto
coerente sia alla costellazione mitica da cui proveniva, sia come
fosse coerente con i modi di vita dei Boscimani.