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2013 Introduzione allo studio del mito

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commercially, as long as they credit me for the original creation.

Ideato da

Roberto Dottarelli 1

E’ impossibile in così poco tempo dare conto in modo esaustivo della

infinità di studi sul mito, sui riti, sulla magia e sulla religione e delle

diverse impostazioni delle analisi: storiche, religiose, psicologiche,

cognitive, semiotiche, etc. etc.

Dovendo fare alcune scelte, è corretto che io dichiari quali sono le

limitazioni a cui sono andato incontro.

In primo luogo, questa rassegna non è frutto di una ricerca

sistematica, poiché io non sono un esperto di questi temi e,

soprattutto, perché si basa sulle mie conoscenze e sulle fonti

disponibili (quindi la mia libreria ed internet).

E’ sicuramente lacunosa e non specialistica, ma tenta di dare una

visione delle diverse scuole di pensiero e di approccio analitico allo

stesso fenomeno culturale.

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Avendo fatto cenno alle diverse impostazioni di analisi con cui sono

state esaminate queste manifestazioni culturali è bene fare cenno

immediatamente ad un aspetto della filosofia della scienza, che è

utile per spiegare perché a seconda del punto di vista si possa

giungere a conclusioni diverse.

«Ogni conoscenza proviene da una cultura.

La scienza classica era riuscita a neutralizzare questo problema: lo

scienziato – osservatore/sperimentatore - stava sempre fuori dal

campo, come un fotografo.

Le osservazioni erano dunque il riflesso delle cose reali ed ogni

soggettività poteva essere eliminata tramite la concordanza delle

osservazioni e la verifica delle esperienze.»

3 Edgar Morin, IL METODO

L’assenza di un punto di vista oggettivo fa invece emergere la

necessità del punto di vista soggettivo in ogni visione del mondo.

L’ineluttabilità dell’analisi soggettiva non deve per forza farci temere

di precipitare nel relativismo e quindi nell’impossibilità di fare

generalizzazioni.

Tuttavia non si può giungere a nessuna generalizzazione se non ci si

è domandati e se non si è dichiarato da quale punto di vista

osserviamo il fenomeno, quale sia il nostro background culturale e

quale sia il nostro approccio metodologico.

Certo è che queste generalizzazioni non debbano pretendere di avere

valore assoluto.

L’integrazione dell’osservatore nell’osservazione limita la possibilità

che esista un punto di vista assoluto e mette in luce l’irriducibile

molteplicità dei punti di vista, che partecipano alla costituzione di

ogni universo cognitivo.

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Tradizionalmente lo studio del mito viene considerato una branca

degli studi storico-religiosi, per l’isomorfismo dei temi trattati.

Ed all’interno dello studio delle religioni (che sono una

specializzazione degli studi storici), sono stati affrontati anche i temi

del rito (che è una specializzazione del pensiero religioso), del

sacrificio (che è una specializzazione dell’attività rituale), dei tabu

(che in quanto proibizioni sono specializzazioni dell’attività rituale)

e della magia, che è stata considerata a lungo una forma di pensiero

arcaico ed ingenuo, ma che invece è assimilabile al rituale.

Posto che dei diversi punti di vista ne parleremo a tempo debito.

Qui dobbiamo dunque solo dichiarare che il nostro punto di vista è

invece quello della semiotica.

Pertanto il modo in cui analizzeremo miti, riti e tutte le altre forme di

credenza culturale, siano esse di pertinenza religiosa o folklorica,

sarà quello con cui si studiano i sistemi di segni.

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Sistemi di segni

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Storia

Storia delle religioni

Fenomenologia

del Mito

Fenomenologia

del Rito

Fenomenologia

del Sacrificio

Miti Riti Religioni Fiabe Tradizioni folkloriche

Etnografia

Religione Mitologia Ritualità Magia

Sacrifici Tabu

Studiandoli come sistemi di segni, viene meno la possibilità di

considerarli come resoconti storici, come cronache di fatti realmente

accaduti.

I sistemi di segni, in quanto tali non possono non essere veritieri, ma

la verità che raccontano è tale solo sul piano ideologico, parlandoci

della mentalità e dei modi di pensare e di agire, che la comunità che

li aveva adottati e rielaborati nel tempo, riteneva di dover seguire.

Ma ogni cosa a suo tempo ed ora iniziamo con la panoramica degli

studi, all’interno della quale ci soffermeremo su alcune pietre miliari

degli studi etnografici sulla religione; poi su quelle degli studi storici

e fenomenologici sulla religione; quindi su un filone di studi sui

materiali folklorici ed infine sugli studi strutturalisti di Levi-Strauss.

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Gli studi etnografici sulla religione

Iniziamo il nostro excursus dall’opera di uno

scozzese, James Frazer (1854-1941), che pubblicò

nel 1890 un’opera in 12 volumi, Il Ramo d’oro.

L’opera è un capolavoro d’ingegnosità ed

erudizione, dedicata allo studio delle superstizioni

primitive.

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Frazer vi spiegava che, ignorando la scienza, i primitivi avevano

un’idea sbagliata delle cause naturali e basavano la loro conoscenza

sulla «legge di somiglianza» e sulla «legge di contatto».

Se vi era bisogno di pioggia si versava acqua, se si voleva la morte di

una persona si uccideva il suo simulacro.

Secondo Frazer, l’umanità, prima o poi, passa attraverso tre stadi di

sviluppo intellettuale, dalla magia alla religione e da questa alla

scienza.

Inutile sottolineare la fallacia di questa visione evolutiva.

Il tema centrale da cui si sviluppa Il ramo d'oro è la vicenda del Rex

Nemorensis, sacerdote di Diana nel tempio di Nemi, sopravvivenza

di un antico culto all'interno del contesto storico dell'antica Roma.

Secondo l'interpretazione di Frazer, egli agisce sulla natura e sulla

fertilità per i suoi poteri simpatici (propri della magia simpatica) e ha

un ruolo sociale fondamentale per la comunità che gli circola

attorno.

Per difenderne l'integrità fisica essa ha stabilito un sistema di tabù

finalizzato a proteggerlo, mentre l'integrità spirituale viene garantita

dal trasferimento simbolico in un'anima esterna (il ramo d'oro).

Al sopraggiungere della decadenza fisica del re-mago, non più adatto

al suo ruolo sociale, la successione viene determinata dall'uccisione

rituale del Rex Nemorensis da parte di uno sfidante, che lo deve

uccidere in duello dopo aver spezzato il ramo del boschetto di Diana.

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Altro tema importante del libro è la teoria che Frazer sviluppa a

proposito del dio morituro; un tema che egli individua all'interno di

numerose religioni, a partire dagli studi di Wilhelm Mannhardt, che

vede la divinità coinvolta in una vicenda in cui perderà la vita, per

poi riacquistarla nuovamente in un momento successivo.

Ne sono esempi le vicende mitiche di Tammuz, Osiride, Dioniso,

Attis, Adone, Baal, Gesù, etc.

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In La religione dei semiti (1894), Robertson-Smith

(1846-1894) ipotizzò che il politeismo dell’antichità

classica, in contrasto col monoteismo dell’Asia era

dovuto al fatto che, in Grecia, come a Roma, la

monarchia aveva ceduto il posto all’aristocrazia,

mentre in Asia era riuscita a mantenere il potere.

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La diversa sorte politica si era riflessa in un diverso sviluppo

religioso.

Egli, sulla scorta di un lavoro precedente di Mclennan, ipotizzò [in

modo infondato] che le tribù semitiche fossero organizzate in clan

matrilineari, ognuno dei quali legato a una creatura totemica.

L’uccisione dell’animale e il consumo della sua carne cruda in un

banchetto sacro rappresentava una comunione nella quale il dio del

clan e coloro che lo adoravano si univano spartendosi la carne e il

sangue della vittima sacra.

Fra le loro opere fondamentali vi è il Saggio sulla natura e la

funzione del sacrificio (1899).

Il libro non è un’analisi storica dell'origine del sacrificio, ma indaga

la dinamica e le strutture di questo rito. Gli autori esplorano il

sacrificio come sacrum facere, rendere sacro, come atto religioso che

comporta la rinuncia di un bene a favore di un essere sovrumano.

Ma questo non basta.

La questione che interessa i due studiosi è la finalità del sacrificio: se

sia semplicemente una forma di do ut des, come asseriva

l'antropologo inglese Edward Burnett Tylor, o piuttosto una specie di

ringraziamento, come scriveva Wilhelm Schmidt a proposito del

sacrificio primiziale, o ancora, secondo quanto sosteneva Durkheim,

legittimazione dell'esistenza del divino in quanto costruzione e icona

del sociale.

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Dopo aver esaminato le diverse impostazioni, Mauss e Hubert

attribuiscono al sacrificio il carattere di «mezzo» per stabilire un

contatto fra il sacro e il profano.

Dato il carattere di potenza ed intoccabilità del sacro, che rischia di

irretire l'uomo, i due sociologi individuano la presenza necessitante

di un mediatore, nella maggior parte dei casi un animale sacrificale,

che faccia da ponte fra il sacro e il profano. Il contatto col sacro

comporta anche un rituale d'entrata e d'uscita, ne è sterile esempio il

segno della croce all'ingresso in una chiesa.

Da ricordare ancora la Teoria generale della magia (1902-3), nella

quale i due etnologi francesi studiarono i rapporti della magia con la

scienza e la religione, giungendo alla conclusione che queste

posseggono analogie con la magia in quanto hanno terreni comuni di

intervento: la natura (scienza e magia) e il sacro (religione e magia).

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In Riti di passaggio (1909), Van Gennep (1873-

1957) spiega che la società umana è assimilabile

a uno spazio delimitato all’esterno e organizzato

al suo interno in una serie di comparti distinti da

precisi margini di divisione.

I riti di passaggio sono i meccanismi cerimoniali

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che guidano e regolamentano la transizione degli individui da un

comparto ad un altro.

Il libro è l’occasione per definire e scorrere in rassegna i riti legati

alla gravidanza e al parto; alla nascita e all’infanzia; all’iniziazione

sociale; al fidanzamento e al matrimonio e, per finire, alla morte.

Van Gennep ne propone anche un'acuta analisi strutturale, dividendo

il rito nelle fasi di "separazione" (es. preparazione del defunto),

"margine" (es. esposizione) e "aggregazione" (es. sepoltura).

Quando Durkheim (1858-1917) iniziò a scrivere di

religione e più precisamente Le forme elementari

della vita religiosa (1912), sua intenzione era di

dimostrare il carattere eminentemente sociale del

fatto religioso e di smentire che ogni individuo

fosse capace di costruire una propria fede.

In questa sua analisi partì dalla distinzione tra sacro

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e profano, intesi come due campi separati della conoscenza umana:

il sacro è un insieme di rituali e di oggetti tenuti distinti dal

profano, con una serie di proibizioni, leggi e prescrizioni, che non

fanno parte della vita di ogni giorno.

Per rispondere alla domanda sul come fosse nato il sacro,

Durkheim prese in esame la «religione più semplice e primitiva

che sia possibile trovare», che per le sue cognizioni corrispondeva

al totemismo degli aborigeni australiani.

Gli aborigeni vivevano in piccole tribù nomadi, riunite in clan. Una

volta all’anno il clan si riuniva, quando il cibo era abbondante.

Nel corso di questa festa, secondo Durkheim, gli aborigeni

perdevano il controllo delle loro emozioni ed entravano in contatto

«con le potenze sovrannaturali».

Dunque il sacro veniva attuato, concretizzato, grazie all’esistenza del

clan, che era un’estensione sociale, attraverso la quale si manifestava

quella forma primitiva di sacralità.

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In relativo accordo col pensiero di Durkheim, Levy-

Bruhl (1857-1939) considera la morale come scienza

dei costumi, basata su regole di comportamento che,

in un determinato contesto sociale, appaiono obiettive

e necessarie come le leggi della natura.

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Lévy-Bruhl intuisce chiaramente che il pensiero primitivo è basato

sulla religione e che in relazione a ciò tutta la realtà viene pensata

come l'insieme degli effetti di una causa divina come causa prima,

ignorando totalmente le cause reali o "seconde" di origine fisica,

chimica e biologica. Questa base mistica della mentalità arcaica

porta a una partecipazione agli esseri circostanti e a tutta la natura,

ma è impermeabile all'esperienza, perché attribuisce lo svolgersi

degli eventi a forze soprannaturali: ecco perché il primitivo manca di

logica (quale la intende l'uomo civile). Tra le sue opere più ricordate

c’è La mentalità primitiva (1922)

Negli anni ‘50, grazie al Rhodes-Livingstone

Institute diretto da Gluckman, Turner (1920-1983)

condusse ricerche sul campo presso le popolazioni

ndembu dello Zambia, dell'Africa centrale,

concentrandosi in particolar modo sull'assetto

societario ed esaminando inizialmente l'aspetto

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demografico e l'economia, per poi passare alle pratiche religiose. Fu

questo il periodo che lo vide interessato al rituale ed ai riti di

passaggio. Turner rinomina le tre fasi di Van Gennep in "pre-

liminari" (separazione), "liminari" (transizione) e "post-liminari"

(reintegrazione). Tra le sue opere più significative: La foresta dei

simboli. Aspetti del rituale Ndembu, Brescia Morcelliana, 1976 (ed.

orig. New York, 1967) e Il processo rituale. Struttura e anti-

struttura, Brescia Morcelliana, 1972 (ed. orig. Londra, 1969).

Nel 1983, Pietro Scarduelli ha pubblicato Il rito. Dei Spiriti Antenati,

che costituisce un’ottima sintesi dei diversi punti di vista che hanno

scelto il rito come oggetto d’indagine.

Scarduelli parte dalle analisi etologiche, studiando le basi

filogenetiche del rito; prosegue attraverso l’analisi dei processi

cognitivi, comunicativi ed emotivi che si manifestano nei

commportamenti rituali; fino ad approfondire l’influenza che il

comportamento rituale subisce dall’organizzazione sociale e politica,

in modo da giungere a una definizione, che S. non ritiene tuttavia di

valore universale: il rito costituisce l’unico modo per fronteggiare,

risolvendo sul piano simbolico, quelle contraddizioni insite nei

rapporti sociali di produzione che non possono essere risolte in altro

modo, dato il livello di sviluppo delle forze produttive (p. 117).

Nella seconda parte del libro, poi, Scarduelli descrive alcuni rituali

caratteristici di diversi contesti etnografici.

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Gli studi storico-fenomenologici

In Italia, Raffaele Pettazzoni (1877-1959) fu il

primo maestro della Storia delle religioni.

Le indagini da lui svolte, a cominciare dalla

religione degli antichi Sardi, alle religioni

classiche dei Greci, dei Romani, dei Germani e

degli Slavi sono sparse in numerosissimi saggi,

soprattutto nelle riviste da lui fondate, Studi e

materiali di storia delle Religioni (1925), Numen

(1954).

Gli argomenti che gli stettero più a cuore e per i

quali viene ricordato sono: il concetto di dio, la

confessione dei peccati (1922) e i miti e le

leggende dei popoli primitivi (1948).

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Graves (1895 – 1985) ha approfondito, su temi di

natura poetica, lo studio antropologico di James

Frazer. La religione primitiva, secondo Graves, è

legata essenzialmente all'agricoltura, e venera la Dea

Madre Terra come divinità superiore. Da un iniziale

"monoteismo", sono poi scaturite le diverse divinità,

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secondo i tempi, i luoghi, le etnie, le guerre. Così ogni aspetto della

Dea si è di volta in volta personificato, con nomi diversi, rimanendo

facilmente individuabile nelle diverse culture: salta subito agli occhi

per esempio la corrispondenza dei culti greci e romani, sebbene

questo sia dovuto principalmente alla contiguità spaziale e

temporale delle due culture.

Graves, riprendendo Frazer, ipotizza che tutta la ritualità nasca dalla

necessità dell'uomo di essere padrone del ciclo della terra, così da

non lasciarsi soggiogare dalla crudeltà della Natura.

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Poiché le scelte su come, dove, quando, e cosa coltivare erano in

mano ai sacerdoti e non ai contadini, queste venivano conservate e

tramandate per mezzo dei misteri (derivato da mystxs "iniziato").

Le invasioni di popoli pastori-guerrieri provenienti dall'Est hanno

pian piano usurpato la religione dei contadini e imposto i propri dèi

maschili. I miti che raccontano stupri da parte di divinità maschili

(come ad es. Zeus) sarebbero il retaggio mitologico di tali eventi

antropici. Come accade spesso nelle migrazioni, però, è la cultura

invasa ad essere quella più forte, quella che comunque sopravvive e

ingloba la cultura sopravveniente. JHWH è un dio maschile, che ha

spezzato la ciclicità della Storia imposta dalla Dea: un tempo, per

rendere fertili i campi, il compagno della Dea veniva sacrificato ogni

anno per un novello sposo, JHWH invece si impone come unico e

onnipotente Dio. Le opere più famose sono La Dea bianca:

grammatica storica del mito poetico (1948) e I miti greci (1954).

Nato in Ungheria a Timisoara, Kerenyi (1897 –

1973) è considerato uno dei massimi eruditi e

filologi del Novecento.

Studiò il mito come modalità di conoscenza, anche

confrontandosi con le teorie di Carl Gustav Jung.

La costruzione di una "scienza del mito" è il filo

conduttore delle sue opere principali: Kerenyi, in-

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fatti, applicò alla mitologia greca l'ermeneutica, ossia

l'interpretazione del testo, in modo da chiarirne le intenzioni e i

significati consci o inconsci.

Kerenyi tentò di fondare un metodo interpretativo, scrivendo molti

saggi sugli «archetipi» della mitologia greca.

Tra questi saggi vanno ricordati: Prolegomeni allo studio scientifico

della mitologia (1940-1) con Jung e Gli dei e gli eroi della Grecia

(1951 e 1958) da solo.

L'ermeneutica è, in filosofia, la metodologia dell'interpretazione. La

parola deriva dal greco antico ἑρμηνευτική (τέχνη), in alfabeto latino

hermeneutikè (téchne), traducibile come (l'arte della) interpretazione,

traduzione, chiarimento e spiegazione.

Essa naque in ambito religioso con lo scopo di spiegare la corretta

interpretazione dei testi sacri.

In seguito il termine assunse un respiro più ampio tendente a dare un

significato a tutto ciò che è di difficile comprensione.

In questo senso può essere vista come la teoria generale delle regole

interpretative.

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Georges Dumézil (1898 –1986) è stato uno storico delle religioni,

linguista e filologo francese.

Divenne universalmente noto per le sue teorie sulla società,

l'ideologia e la religione degli antichi popoli indoeuropei, sviluppate

comparando tra loro i miti di quei popoli e scoprendovi una struttura

narrativa identica che per Dumézil rifletteva essenzialmente una

stessa visione della società e del mondo, caratterizzata in particolare

da una tripartizione funzionale: la funzione sacrale e giuridica, la

funzione guerriera e la funzione produttiva.

Oltre che nei miti, questa struttura si ritrova, secondo Dumézil,

anche nell'organizzazione sociale di alcuni popoli indoeuropei, a

cominciare dalle caste dell'India.

Uno dei suo libri più famosi è La religione romana arcaica (1974),

nel quale Dumezil presenta un affresco credibile e acuto delle ideo-

logie religiose di Roma a confronto con quelle indo-europee.

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La filologia (dal greco φιλòλογος, composto da φίλος (philos)

"amante, amico" e λόγος (logos) "parola, discorso": "interesse per lo

studio delle parole"), secondo l'accezione comune attuale, è un

insieme di discipline che studia i testi letterari al fine della

ricostruzione della loro forma originaria attraverso l'analisi critica e

comparativa delle fonti che li testimoniano, e con lo scopo di

pervenire, mediante varie metodologie di indagine, ad una

interpretazione che sia la più corretta possibile.

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Mircea Eliade (1907-1986) è uno degli storici delle

religioni fra i più interessanti del nostro secolo.

Giunse esule a Parigi nel settembre del ’45 e ivi

rimase fino al ’57. Fu durante questo soggiorno

francese che pubblicò le sue opere principali, fra le

quali sono da segnalare il Trattato di storia delle

religioni (1948) e Il mito dell’eterno ritorno (1949).

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Il primo costituisce ancora oggi una delle migliori interpretazioni

fenomenologiche delle principali religioni mondiali.

Eliade avvicina e descrive le ierofanie che si palesano a vari livelli

cosmici (Cielo, Sole, Luna, Acque, Pietre, Terra), nei fenomeni

biologici (Donna, Fecondità, Vegetazione, Agricoltura), nei miti e nei

simboli (Spazio e Tempo Sacro).

Gli studi storico – religiosi di Eliade hanno come oggetto i popoli

primitivi. Questo interesse è dettato da una duplice convinzione; che

l’uomo religioso di ogni epoca coincida con l’uomo arcaico e che

conseguentemente le strutture psichiche umane siano costanti in ogni

epoca.

Ciò che per Eliade rientra nel concetto di mito riguarda una serie

ampia di momenti: narrazione orale, riti, atti e gesti. Il mito è il modo

con il quale l’uomo delle culture a livello etnico entra in contatto con

la realtà divina, ontologicamente fondante ogni tipo di realtà umana.

Nella prospettiva eliadiana il mito è inteso come rivelazione di

qualche cosa che è nascosto nei messaggi conservati nei racconti

tradizionali di tutti i popoli. È mitico ogni atto che è svolto su

modello di un evento originario. Creando quella contrapposizione tra

tempo del mito e tempo della storia che Eliade rese popolare a livello

intellettuale nel suo celebre testo del ’49.

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Se Pettazzoni fu il padre degli studi storico-religiosi in Italia, Ernesto

de Martino (1908-1965) è stato indubbiamente l’etnologo italiano

più prolifico, provocatorio e famoso.

de Martino non fu tra gli allievi di cattedra di Pettazzoni e sarebbe

problematico includerlo in un ideale albero genealogico della Scuola

di Roma; tuttavia è indubbio che i due condivisero una sorta di

“alleanza” di interessi, di metodo, di sensibilità scientifica.

A partire dalla fine degli anni ’40 (contemporaneamente ad una

profonda riflessione teorica sul rapporto tra religioni, storicismo e

fenomenologia), de Martino sposta la sua attenzione verso i

contadini del Sud italiano, il loro folklore e le loro manifestazioni

rituali.

Scritto negli anni della II guerra mondiale e pubblicato nel 1948, Il

mondo magico è il libro nel quale de Martino elabora alcune delle

idee che rimarranno centrali in tutta la sua opera successiva.

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Qui de Martino costruisce la sua interpretazione del magismo come

epoca storica nella quale la labilità di una "presenza" non ancora

decisa viene padroneggiata attraverso la magia, in una dinamica di

crisi e riscatto. Il rito aiuta l'uomo a sopportare una sorta di "crisi

della presenza" che esso avverte di fronte alla natura, sentendo

minacciata la propria stessa vita. I comportamenti stereotipati dei riti

offrono rassicuranti modelli da seguire, costruendo quella che viene

in seguito definita come "tradizione".

Da ricordare anche Morte e pianto rituale (1958), in cui de Martino

indaga la persistenza, nelle realtà marginalizzate della Lucania, del

pianto funebre, rito antichissimo e diffuso prima del Cristianesimo in

tutta l’area mediterranea. Anche il pianto rituale nasce a fronte della

crisi del cordoglio e dell’esigenza di elaborare culturalmente il lutto,

de-storificando l’evento luttuoso, vissuto dagli individui, per

riportarlo ad una dimensione ideologica, mitico-rituale.

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Allievo del Pettazzoni, Angelo Brelich (1913-1977) è l’esponente di

punta di un interesse storico e laico allo studio delle culture religiose.

La religione di Roma antica fu il suo assiduo e pressoché esclusivo

oggetto di studio dalla pubblicazione di Die geheime Schutzgottheit

von Rom (La divinità tutelare segreta di Roma) e di Vesta, usciti a

Zurigo nel 1949 nella collana "Albae Vigiliae" diretta dal Kerényi,

fino alle Tre variazioni romane sul tema delle origini (Roma 1955).

Il comparativismo emerse pienamente nei due corsi universitari dal

1953 al 55 sui calendari festivi, e rimase presente, quando il B. lasciò

la religione romana per la greca. Il tema di questi corsi fu l'eroe

greco, sottraendolo alla filologia classica per consegnarlo alla storia

delle religioni; la ricerca si tradusse in un ponderoso lavoro dal titolo

Gli eroi greci. Un problema storico-religioso (Roma 1958).Tra le

altre opere, Introduzione alla storia delle religioni (1965), I Greci e

gli dei (1985), Come funzionano i miti (2003).

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Jean-Pierre Vernant (1914 – 2007) è stato uno

storico, storico delle religioni e antropologo

francese. Studioso dell'età classica, si è occupato

in modo particolare della mitologia greca.

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Nella sua opera più conosciuta, Le origini del pensiero greco (1962),

viene modificata radicalmente l'interpretazione della storia e della

prima filosofia greca avvalendosi degli studi antropologici di

Georges Dumézil, Claude Lévi-Strauss e Ignace Meyerson.

L'autore cerca di trovare le cause del passaggio dal pensiero

mitologico greco a quello razionale filosofico.

Secondo Vernant il motivo di questo cambiamento va ricercato nel

mito stesso oltreché nella stessa storia sociale, giuridica, politica ed

economica dei greci.

Il cammino verso la ragione, sostiene Vernant, porterà nello stesso

tempo alla nascita della democrazia greca.

Risalendo alle origini della civiltà greca nell'età micenea derivata

dalla dominazione degli Ittiti l'organizzazione sociale faceva capo ad

una gerarchia al cui vertice era il re come depositario di un potere

assoluto esercitato nel palazzo, centro di ricchezza e di potenza

militare. Il re è nello stesso tempo capo politico e supremo sacerdote;

egli stabilisce con precisione il tempo dei riti ed è assistito da una

casta sacerdotale, ma in effetti il suo è un potere esclusivo e

carismatico, solo lui personalmente è in contatto, attraverso riti

misteriosi e segreti, con la divinità.

Con l'invasione dorica tutto questo cambia.

Al palazzo comincia a sostituirsi la città come centro del potere dove

prevalgono nuove forze sociali. Anche la religione risente di questo

mutamento. Quelli che erano gli dei, segni efficaci che influivano

sulla vita reale, divennero semplici immagini; i simboli religiosi

tendono a diventare banali rappresentazioni del sacro.

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Anche nella vita politica nascono santuari segreti e sorge una

burocrazia sacrale che custodisce i talismani da cui dipendono i

destini della città. Questo spiega perché accanto alla religione

pubblica si affianca quella dei misteri dove ci si reimpossessa del

sacro e si ritrova il contatto mistico con la divinità attraverso il

segreto. La funzione religiosa non viene più assegnata dal re.

Con l'iniziazione ai misteri aperti a tutti, si cominciano ad affermare i

principi dell'egualitarismo della futura democrazia. Con i pensatori

di Mileto la religione è completamente desacralizzata. Essi tentano

una nuova visione scientifica del cosmo che risente però ancora degli

influssi religiosi. La nuova cosmologia è ancora figlia della

cosmogonia. Gli elementi naturali, l'archè, sostituiscono le divinità,

ma permane il problema di spiegare come dal caos si sia poi formato

l'universo ordinato ed è su questo tema che si affannerà la filosofia

seguente.

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Allievo del Pettazzoni, Dario Sabbatucci (1923-2004) ha insegnato

Storia delle religioni all’Universita "La Sapienza" di Roma,

occupandosi soprattutto del mondo antico, con particolare attenzione

alle pratiche religiose nella Repubblica romana e alle culture del

vicino oriente e del Mediterraneo, offrendo interpretazioni nuove e

originali dei miti e dei riti.

Tra le sue numerosissime opere: Introduzione alla storia delle

religioni (1965), Lo stato come conquista culturale (1975), Il mito, il

rito e la storia (1978), Sui protagonisti dei miti (1981), I Greci e gli

dei (1985), La religione di Roma antica (1988), Come funzionano i

miti (2003).

Nel corso del seminario, ci soffermeremo su alcune delle sue più

importanti intuizioni sulle religioni classiche dell’area mediterranea e

medio orientale.

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Marcel Detienne (1935) è uno storico e storico delle religioni belga,

specializzato nello studio dell'antica Grecia.

Insieme a Jean-Pierre Vernant e Pierre Vidal-Naquet, Detienne ha

cercato di applicare un approccio antropologico, influenzato dallo

strutturalismo di Claude Lévi-Strauss, allo studio della Grecia

classica e arcaica.

Tra le sue opere da me preferite ci sono I giardini di Adone (1972),

in cui Detienne mette in evidenza l’opposizione tra Adone e

Demetra, tra le erbe aromatiche e il grano, tra eccitazione individuale

e norma sociale, utilizzando le tecniche caratteristiche dello

strutturalismo. Ancora da ricordare Dioniso e la pantera profumata

(1977), affascinante analisi della cultura greca e Apollo con il

coltello in mano (1998), grandioso affresco sul culto apollineo ed in

particolare sul suo legame con il sacrificio.

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Gli studi funzionalisti sui

materiali folclorici

La Morfologia della fiaba (1928) è la prima opera

scritta da Vladimir Ja. Propp, cui seguirà circa vent’anni

dopo Le radici storiche dei racconti di fate (1946).

In un campo in cui dominava l’impressionismo, la

scarsa rigorosità e l’ambiguità logica e terminologica,

40 G. Bravo, PROPP E LA MORFOLOGIA DELLA FIABA

il giovane Propp sentì l’esigenza di metodi più precisi e di un

linguaggio più formale, nel porsi alla ricerca delle componenti

funzionali del racconto.

Di ogni funzione Propp dá una definizione precisa, in genere di una

sola parola (ad esempio, allontanamento, lotta, vittoria, nozze) e una

notazione simbolica (generalmente una lettera dell’alfabeto latino o

cirillico). Ad esempio lo schema:

e3 q1 X1 Y1 W ↑ L1 V1 Rm4 ↓ n°

indica: 3 figlie di un re vanno a passeggio (e3), si attardano in un

giardino (q1), un drago le rapisce (X1); viene emesso un bando con

richiesta d’aiuto (Y1); rispondono 3 eroi (W), che partono alla ricerca

(↑); combattono col drago (L1); lo vincono (V1 ) e liberano le

fanciulle (Rm4); ritornano (↓) e ricevono una ricompensa (n°). In

dettaglio L significa «lotta» e 1 è la sub-specie «in campo aperto»

Il risultato del lavoro svolto da Propp consiste nell’aver dimostrato

che le fiabe formano un’unica serie di varianti dell’identico schema

narrativo.

Alla ricerca delle origini sociali e culturali della fiaba Propp dedica

la seconda sua opera, nella quale giunge alla conclusione che il

soggetto e la composizione del racconto di fate sono derivati dai cicli

di racconti collegati ai rituali d’iniziazione e a quelli delle

rappresentazioni della morte, proprie delle popolazioni tribali.

41

Rit

ual

e

G. Bravo, PROPP E LA MORFOLOGIA DELLA FIABA

42

Gli studi strutturalisti sul mito

E’ soltanto con Levi-Strauss (1908-2008) che la

mitologia viene osservata per la prima volta come

un oggetto semiotico, come un linguaggio, in cui

un certo materiale significante ha la funzione di

trasmettere un certo significato.

Considerare il mito come un oggetto semiotico

significa ritenere che il suo senso non è in quello

che viene raccontato, ma in ciò che attraverso esso

43 G. Ferraro, IL LINGUAGGIO DEL MITO

viene raccontato.

Una prima esemplificazione possiamo prenderla dal suo studio

dedicato negli anni 1958-59 ad un mito tsimshian (costa canadese del

Pacifico) noto come «Le gesta di Asdiwal».

Il particolare interesse del mito sta nel fatto che esso possiede al suo

interno più ordini o livelli o codici, che risultano articolarne il

contenuto su più piani distinti, ma interrelati.

44 G. Ferraro, IL LINGUAGGIO DEL MITO

Al livello geografico, il racconto rispetta i dati effettivi della realtà

del paese (fiumi, villaggi, isole). Lo stesso può dirsi anche del livello

economico: la carestia, che caratterizza l’inizio del mito, corrisponde

alla realtà dell’esistenza degli Tsimshian nel periodo più freddo

dell’inverno, prima dell’arrivo dei salmoni.

Non meno reale era la distinzione tra le varie fonti di sostentamento

(la caccia in montagna, la pesca, la caccia di mare) di cui parla il

mito.

Quanto al livello sociologico non si può dire che il mito rispecchi gli

usi effettivi degli Tsimshian.

Prima però di entrare nel dettaglio è tempo di narrare brevemente il

contenuto del mito.

Esso inizia nel momento in cui due donne, madre e figlia, restate

entrambe vedove in seguito a una grave carestia invernale, decidono

di ritrovarsi insieme.

45 G. Ferraro, IL LINGUAGGIO DEL MITO

Segue il matrimonio della più giovane con un personaggio

misterioso e dotato di grandi poteri magici: dalla loro unione nasce

Asdiwal che, diventato adulto in poco tempo, è il protagonista del

racconto.

Egli prende in moglie la bellissima Stella della Sera, figlia del Sole,

con la quale va inizialmente a vivere in cielo. Ritornato poi sulla

terra, perché spinto dalla nostalgia, Asdiwal viene abbandonato dalla

moglie, che ne ha scoperto una tresca con una ragazza del villaggio.

Egli si sposta più ad ovest, in un altro villaggio dove sposa la figlia

del capo locale. Ma anche questo matrimonio ha vita breve, perché,

umiliati durante una gara di caccia, i cognati abbandonano Asdiwal

portandosi via la sorella.

Tuttavia Asdiwal trova subito una nuova sposa. Anche questa però ha

quattro fratelli, invidiosi delle capacità venatorie del cognato: per

ripicca lo abbandonano su uno scoglio in mezzo al mare.

46 G. Ferraro, IL LINGUAGGIO DEL MITO

Aiutato dai trichechi, l’eroe riesce a tornare a riva, dove trova ad

attenderlo la moglie e il figlio avuto da quest’ultimo matrimonio.

Spinto da un’irresistibile nostalgia per i luoghi della sua infanzia,

Asdiwal, in seguito, lascia anche questa moglie e torna col figlio

verso est, sulle montagne dov’era nato.

Ma è proprio su una di queste montagne che Asdiwal sorpreso dalla

neve, senza le sue racchette magiche, incapace di salire e di

scendere, resta immobile, trasformato in una statua di pietra.

* * *

Sul piano sociologico, l’inizio del mito corrisponde all’uso reale.

Madre e figlia infatti sono separate perché quest’ultima col

matrimonio ha lasciato i genitori ed è andata a vivere nel villaggio

del marito (regola di residenza patrilocale).

Tuttavia nei tre matrimoni attuati da Asdiwal si segue una regola

residenziale matrilocale, diversa da quella praticata dagli Tsimshian.

47 G. Ferraro, IL LINGUAGGIO DEL MITO

Solo alla fine del racconto si ristabilisce una situazione di

patrilocalità, quando Asdiwal torna col figlio nei suoi luoghi

d’origine.

Ecco gli andamenti espressi dal mito:

1° schema: patrilocalità → matrilocalità → patrilocalità

2° schema: separazione → tentativi di unione falliti → separazione

3° schema: immobilità → movimento → immobilità

4° schema: carestia → benessere → (eccesso di cibo)

Il mito quindi individua nella patrilocalità (cioè in un’organizzazione

della vita comunitaria orientata prevalentemente sulla base delle

attività maschili) una condizione vantaggiosa, ma eccessivamente

statica, incapace di mediare i vari aspetti della vita o di trovare una

soluzione agli sbalzi stagionali tra i periodi di abbondanza e di

carestia.

48 G. Ferraro, IL LINGUAGGIO DEL MITO

Una conduzione femminile dell’economia domestica e della vita

sociale, quale deriverebbe dall’adottare una regola di residenza di

tipo matrilocale, potrebbe comportare una gestione più equilibrata

delle risorse ed una maggiore mutevolezza dell’esistenza; ma si

scontrerebbe con alcuni insormontabili problemi di convivenza tra

gli uomini dei diversi gruppi familiari.

Tuttavia anche la soluzione patrilocale comporta i suoi rischi in

termini di conflitti familiari, tanto da portare (come nel finale di

questo racconto) alla rottura dei legami coniugali.

Il mito sembra quindi indirizzare la scelta verso una soluzione in cui

la condizione patrilocale sia temperata attraverso compromessi con

le esigenze matrilocali: il che era, appunto, ciò che avveniva nella

realtà sociale degli Tsimshian.

Un’interpretazione che dipinge questo mito come una sorta di

affascinante studio della sociologia indigena.

49 G. Ferraro, IL LINGUAGGIO DEL MITO

Ma questa interpretazione non aiuta a comprendere altri elementi che

non possono essere privi di significato: ad esempio la relazione

alto/basso del primo matrimonio di Asdiwal con la Stella della Sera o

l’episodio in cui l’eroe viene aiutato dai trichechi. Nel primo caso

Asdiwal viene recuperato dal Sole con una rete da pesca, quasi fosse

un salmone; nel secondo caso egli torna a riva dallo scoglio stando

dentro lo stomaco di un tricheco, come se fosse un pesce.

Ci si rende conto ancora una volta che i vari elementi della

narrazione sono combinati in maniera non casuale, ma la logica

complessiva che li unisce sfugge ancora a Levi-Strauss, che

finalmente ha la giusta intuizione.

Come per i singoli episodi del mito, che, se presi separatamente

risultavano assolutamente incomprensibili e che, una volta messi in

relazione tra loro, sono diventati significanti, forse anche i miti

devono essere confrontati tra di loro, alla ricerca di elementi comuni.

50 G. Ferraro, IL LINGUAGGIO DEL MITO

Si potrebbe, ad esempio, confrontare questo con altri miti tsimshian,

in cui compare l’episodio del matrimonio con una donna celeste, o

quello del viaggio alla dimora dei trichechi. C’è, ad esempio, un altro

mito tsimshian che racconta di come un uomo-salmone venne

trasformato in pietra: esso potrebbe gettare nuova luce sulla

connessione tra il finale delle gesta di Asdiwal e i due episodi in cui

l’eroe è presentato come un pesce.

Levi-Strauss tuttavia non proseguì con questo tipo di analisi, ma

intraprese un’opera decisamente più impegnativa.

Più di duemila pagine, oltre milletrecento racconti mitici presi in

esame, una vastissima raccolta d’informazioni etnografiche (riti,

usanze, disegni, pratiche culinarie) e naturalistiche sono alla base

delle Mythologiques. La maggior parte dei dati etnografici sono

introdotti allo scopo di aiutare la comprensione dei miti, situandoli

all’interno del loro contesto socio-culturale ed economico.

51 G. Ferraro, IL LINGUAGGIO DEL MITO

Le simmetrie messe in luce tra miti di popolazioni estremamente

lontane e diverse tra loro appaiono in tutto il loro significato.

Si resta inevitabilmente perplessi scoprendo che un mito del Mato

Grosso viene chiarito grazie ad un racconto nordamericano e ci si

può chiedere come sia possibile che un indio del Mato Grosso,

certamente all’oscuro delle mitologie di popoli così lontani, possa

comprendere il senso dei racconti della sua stessa tradizione.

Lo stesso Levi-Strauss, che pur con tanta decisione ha scelto di

travalicare ogni confine geografico e culturale, oscilla a questo

proposito tra opinioni diverse.

Nelle prime pagine de Il crudo e il cotto (1964) egli dichiarava il suo

scrupolo a limitare la sua indagine ad una «regione geografica e

culturale ben circoscritta», all’interno della quale possano essere

ragionevolmente postulati nessi reali di ordine storico e geografico.

52 G. Ferraro, IL LINGUAGGIO DEL MITO

Ma nelle Origini delle buone maniere a tavola (1968), Levi-Strauss

ritiene più utile affidare invece ai miti stessi il compito di indicare

l’area alla quale può risultare utile estendere l’indagine. Se dunque i

particolari di certi miti sudamericani non possono essere chiariti in

base ad altro materiale sudamericano, non è inaccettabile far ricorso

alle mitologie nordamericane, quando queste risultino in grado di

offrire a quei racconti un senso e una coerenza logica, tanto più se

questa operazione offrirà frutti significativi seguendo un percorso

inverso.

Ma arrivati a questo punto la questione dei rapporti storici si pone in

termini radicalmente diversi.

Infatti gli studi levi-straussiani dimostrano che i contatti tra le

diverse unità etno-culturali che abitano o che hanno abitato il

continente americano devono essere stati più frequenti e profondi di

quanto non si creda.

53 G. Ferraro, IL LINGUAGGIO DEL MITO

Ciò che a Levi-Strauss preme in particolare è di contrastare l’idea,

che egli collega specialmente all’opera di Boas (ma per il nostro

areale mi verrebbe da fare il nome di Brelich), secondo la quale i

miti non sarebbero che agglomerati informi di segmenti tra loro

indipendenti. In tal caso i processi di diffusione e di organizzazione

interna dei racconti sarebbero stati casuali ed avrebbero ben presto

perso la loro coerenza narrativa complessiva.

Invece, secondo Levi-Strauss, ogni mito appartiene ad una totalità

coerentemente organizzata, cosicché quando un segmento subisce un

processo di diffusione presso una diversa popolazione, esso rimane

logicamente coerente con la matrice originaria.

In ultima analisi, Levi-Strauss non riesce a fornire una spiegazione

esauriente sul perché ciò accada, ma si potrebbe rigirare la medaglia,

sostenendo che sono le osservazioni dell’antropologo francese che

dovrebbero essere spiegate dagli storici e dagli altri antropologi.

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Non rimane molto tempo. Così va sottolineato ancora che il valore di

un elemento mitico non è intrinseco, ma dipende dal sistema di

relazioni nel quale è inserito e dunque può essere messo in luce solo

a patto che l’analisi sappia far emergere tali relazioni.

Ciascun componente del mito va inserito in un contesto che sia in

grado di precisarne la funzione ed il senso.

Alla formazione di tale contesto può contribuire sia altro materiale

mitologico, sia materiale etnografico e storico.

Nel corso delle due prossime lezioni, proveremo a svolgere questo

compito nel tentativo di dare un senso ad un mito boscimani, ripreso

da Angelo Brelich proprio per sottolinearne il suo essere avulso dalla

cultura di quella popolazione.

Cercheremo invece di dimostrare come esso si sia mantenuto

coerente sia alla costellazione mitica da cui proveniva, sia come

fosse coerente con i modi di vita dei Boscimani.

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A martedi prossimo