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Regine malvagie, fattucchiere sbadate e principesse svampite per un intreccio tanto assurdo quanto divertente. Donne fatali si contendono giovanotti poco brillanti, facendo ricorso ad ogni tipo di arma, dalle asce bipenni ai filtri d'amore. Chi la spunterà? E siamo sicuri che valga la pena di affannarsi tanto? Scopritelo, ma ricordate: siamo nel medioevo, e nei castelli ci sono i ragni.
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Lukas den Svarte
~ Quattrofavole ~
Per ricordarsi di non avere paura del buio
III. Favola della strega rossa
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Un modesto spruzzo di colore, semplice semplice, per far
sorridere quanti ne sentono il bisogno. Da leggere con un cuscino
(possibilmente rosso) dietro la testa e le gambe ben stese sul
divano, sul letto o sul pavimento, anche. Quel che conta è il
cuscino, così viene almeno un po’ di voglia di sognare, e se
qualcuno ha anche una vecchia scopa ereditata dalla nonna,
tenetela vicino: potrebbe anche farvi comodo. Sarà che anch’io,
qualche volta, sento il bisogno di dare una spolverata a castelli,
regine e alambicchi fumosi…
Lascia alle spalle i cattivi pensieri,
le paure che voglion metterti nel cuore
non sono altro che i cocci di ieri,
i ricordi spenti di un tempo che muore.
Cogli quel che hanno di più caro
le polveri dei secoli ormai andati:
non credere che il tempo sia avaro
di piccoli sogni quasi dimenticati.
Di piume d’angelo e polvere di fate
preparati a fare ricchissima incetta,
che le fantasie vedrai qui rinate
e nelle tue mani resterà poi la ricetta.
I petali rossi delle rose dell’amore
e le loro spine, che tanto hanno fatto
per far conoscere ancora il loro fiore,
ti rammentino il loro eterno patto:
che amare è dare senza ricevere,
è avere senza dover chiedere.
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La campana suonò un rintocco grave e stonato, poi un altro. Un
incedere rigoroso e militaresco picchiò sui gradini della cattedrale
e lo sferragliare delle corazze rispose altrettanto ritmicamente. La
folla indietreggiò rispettosamente, senza che le guardie fossero
costrette ad allontanare i più azzardati con la minaccia delle
lunghe alabarde. I pennacchi sgargianti degli elmi spiccavano
nella luce del mattino, seguendo diligentemente il cardinale che,
coi suoi chierichetti, apriva il corteo. I fiori erano abbondanti,
come si conveniva, ma non abbastanza da nascondere la salma,
anch’essa in armatura, con la spada stretta nelle mani in una
posizione di eterna fierezza. Gli uomini e le donne che erano
giunti sin lì per assistere alla messa funebre si fecero da parte
senza obiettare: solo i parenti più stretti e i nobili della corte
avrebbero condotto il buon re sino alla sua ultima dimora.
Il cimitero regale, che ospitava sovrani, prelati ed eroici generali,
aprì i suoi smisurati cancelli. I giardinieri avevano curato con
diligenza le piante e i cespugli di rose che ammorbidivano
gentilmente l’aria, le cappelle erano state restaurate e le loro
pietre levigate una per una. Le statue si slanciavano come
leggerissime ballerine: le anime che gli scultori vi avevano infuso
avrebbero allietato il sonno del giusto monarca sino alla fine dei
tempi con canzoni, danze e dolci premure. Il re aveva sempre
detto che non avrebbe voluto un tetto sopra la testa, una volta
morto, per cui fu seppellito all’aperto, anziché nella tomba di
famiglia. In realtà, la regina aveva dovuto insistere perché le
volontà del marito fossero eseguite; non si potevano infrangere le
tradizioni come se niente fosse, le avevano detto. Ma era lei, ora, a
decidere, e tutti nel regno le dovevano cieca obbedienza: il re non
aveva avuto eredi maschi e la sua unica figlia, la principessa
Elisabetta, che stava ora al fianco della madre, era troppo giovane
per poter impugnare lo scettro e portare la corona, anche se solo
un anno ancora le sarebbe bastato per raggiungere la maggiore
età. Ad ogni modo, tutti i cortigiani avevano tirato un sospiro di
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sollievo al pensiero che il regno non fosse finito in mano a quella
scapestrata.
La regina Viviana era sembrata fin da subito la più adatta a quel
ruolo. Aveva tenuto insieme la corte e il paese, quando il re aveva
dovuto assentarsi, e la sua autorità era pienamente riconosciuta.
Con qualche ombra, però: non erano in pochi a pensare che la
regina non fosse estranea alla morte improvvisa del buon re. In
vita era stato un uomo energico e vigoroso ma, colto da una
malattia mai vista prima, lo sventurato sovrano era spirato dopo
sole ventiquattro ore. Prima ancora che si potesse parlare di
avvelenamento, la regina aveva allertato i membri del clero per le
esequie e la nobiltà del regno per la propria incoronazione. I
primi, di fronte all’inaspettata dipartita del monarca, si buttarono
con fervore nei preparativi, ma ben più rapidi ad afferrare la
situazione erano stati i secondi. La regina Viviana era stata, da
nubile, una fanciulla molto contesa e adesso era diventata la più
allettante vedova che si potesse trovare: sposarla significava
diventare re. Se in più ci si aggiungeva il fatto che era ancora una
bella donna, anche se non più giovanissima, non ci voleva molto a
capire che presto ci sarebbe stata una gran ressa di pretendenti
alla sua mano. Questo lei lo sapeva bene.
Intanto che il cardinale mormorava le sue preghiere e
raccomandava il re al Signore, Viviana guardava i presenti da
dietro il velo nero. Gli occhi scuri non si stupirono di notare che
gli sguardi degli uomini erano prevalentemente rivolti a lei
piuttosto che al feretro nella fossa o al sacerdote. Cugini acquisiti,
ragazzi ancora senza barba e vedovi di ogni età cominciavano già a
cercare di conquistarla, quando il corpo del suo legittimo marito
non era ancora stato sepolto. Viviana li evitò tutti, dal primo
all’ultimo, e non a caso posò una mano sulla spalla della figlia.
Elisabetta alzò il viso fresco, ma non disse niente. Accettò il gesto
della madre come un invito a farsi forza o più probabilmente
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smise di pensare a un diadema che aveva visto giorni prima in
città.
Elisabetta non era una ragazza malvagia, ma si era dimostrata…
Superficiale sin dalla nascita. Non riusciva ad andare oltre quello
che poteva indossare o che l’avrebbe divertita: ogni cosa che
esulava da quel campo la annoiava a morte. Compreso, quindi, il
funerale del padre, a cui aveva comunque voluto un gran bene.
Per i suoi canoni, s’intende.
«…e voli d’angeli cantando ti accompagnino al tuo riposo. Amen»
concluse il cardinale, benedicendo un’ultima volta il sovrano e
chiudendo il suo libretto.
«Amen» ripeterono i presenti.
«Amen» rispose in ritardo Elisabetta.
«Amen» fece per ultima Viviana, sollevando il mento.
Guardava esattamente davanti a sé, in direzione dell’unico che
dall’inizio della cerimonia le aveva rivolto solo un formale saluto.
Un giovane moro, che era sempre stato accanto al Conte di
Vallechiara. Senza dire una parola, la regina spostò lo sguardo
sulle guardie che alzavano con attenzione il coperchio del sepolcro
e lo deponevano dove sarebbe rimasto per secoli e secoli.
Gradualmente, nobili e soldati si attardarono per sfiorare con le
dita il nome del buon re inciso sulla piastra di marmo e
congedarsi dalla regina e dal porporato.
Viviana rientrò in casa da sola, dopo aver affidato la figlia al
proprio seguito di damigelle e servitori. Seria in viso, attraversò le
sale svuotate dal lutto, batté i tacchi degli stivali per i corridoi
ingombri solo di dipinti, sculture e armature lucidate, marciò sui
tappeti persiani rifiniti con filo d’oro. Salì le scale di marmo
pregiato, sfilando davanti ai volti imperturbabili degli antenati e
degli uomini illustri, si fece investire dalla luce variopinta delle
vetrate. Passò sotto le due spade dell’eroe e del patriota e
premette con entrambe le mani sulle pesanti porte, che si
aprirono sotto la sua spinta. Sola, nella sala del trono, si diresse
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con decisione verso i due seggi vuoti, sui quali la coppia reale
aveva dettato legge, fatto giustizia, accolto dignitari e alti
mercanti. Si fermò davanti a quello del re, socchiudendo gli occhi;
senza togliersi i guanti di pizzo scuro, vi passò le dita sopra,
lentamente. Viviana non vi indugiò. Come spazientita, si avviò
verso la scalinata a chiocciola che conduceva alle stanze superiori,
lungo quel tragitto familiare che non aveva più nulla da darle
ormai da molto tempo. Girò la maniglia della camera da letto ed
entrò. Con un sospiro, si tolse il cappello e il velo dal viso,
scansando il baldacchino per poterli gettare sul letto. Con le mani
sui fianchi, mosse qualche passo per la stanza, inquieta e pensosa.
«E adesso? Dovrei sentirmi cambiata? Dovrei sentirmi meglio?»
chiese, come se si rivolgesse a qualcuno.
Difatti, dal lato opposto della stanza, una figura esile e minuta si
allontanò dalla parete contro la quale era rimasta immobile. Non
che si nascondesse, ma la sua presenza sembrava un compendio
naturale dell’arredamento, qualcosa di cui quell’ambiente non
avrebbe potuto fare a meno. Era una donna, più anziana di forse
una decina d’anni della regina, coi capelli raccolti in una cuffia
scura. Ben vestita, ma senza sfarzo; dai modi affabili, ma privi
dell’etichetta esclusiva della nobiltà. Una domestica, né più né
meno, le cui mansioni erano quelle di dirigere tutti gli altri
servitori. Una sorta di maggiordomo al femminile, priva però di
quell’aria altezzosa e impeccabile con cui siamo abituati a
immaginarli. Aggirò il letto e scansò a sua volta i veli del
baldacchino, raccogliendo gli indumenti della sua padrona.
«Non vi sentite meglio, forse?» domandò, senza una spiccata
deferenza.
«No.» rispose seccamente Viviana, voltandosi «Affatto».
«Tuttavia avete ottenuto quello che volevate.» la domestica le si
fece incontro «Ora siete una regina, e non soltanto la consorte di
un monarca».
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Viviana socchiuse gli occhi, restando immobile ad attendere che la
servitrice le si facesse appresso e, anche quando l’ebbe davanti,
continuò a restare immersa nei suoi pensieri.
«Mia cara Gerda, com’è strano il moto di questo nostro mondo.»
si sfilò i guanti uno per uno e glieli porse «Gira come una trottola,
così veloce che ci si affanna per seguirlo e poi di colpo… Si ferma e
prende a girare in senso opposto».
Gerda piegò i guanti con cura lì dove si trovava, con la roba ancora
in mano.
«Avete insistito molto per portare a buon fine i vostri propositi. Il
rischio è stato grande, dacché ci siamo esposte solo voi e io, che
sopra chiunque altro vi sono fedele».
«Non mi sto pentendo di quello che ho fatto, Gerda; non ti
illudere che mi nascano dei rimorsi da ragazzina.» stizzita, le
diede le spalle, ma non fece che due passi, prima di tornare di
nuovo a guardarla «Ma adesso cos’ho nelle mani? Potere? È una
parola gloriosa per indicare un mucchio di questioni noiose e
insulse di cui dovrò occuparmi e che prima erano compiti
esclusivamente di mio marito. Né, d’altra parte, posso affidare il
governo di tutto il regno ad un siniscalco.» portò un polpastrello
alle labbra morbide, ragionando sulla cosa «Una regina non è poi
così diversa da una schiava».
«La verità» disse la domestica, sistemando guanti, cappello e velo
al loro posto «è che non sapete godervi un successo, mia regina.
D’altra parte, le vostre parole testimoniano la vostra ancora
giovane età: col tempo vi verrà il senno per apprezzare la vostra
posizione».
Viviana non si irritò per la critica ricevuta, ma si diresse piuttosto
verso lo specchio ovale sul mobile per truccarsi e vi si chinò,
appoggiandovisi con un palmo.
«Giovane.» mormorò, dubbiosa, mentre con un dito andava a
pizzicare una ruga di fianco all’occhio destro «Quanto tempo ci
vorrà perché questa giovinezza sfiorisca del tutto? Te lo dico io:
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poco. Gli anni si possono nascondere, ma non si possono
togliere».
«Sapete bene come la nobiltà si piegherà per ottenere le vostre
grazie. Avrete solo l’imbarazzo della scelta, da qui in avanti».
«Vedovi e scapoli che sperano di mettere le mani su quello che ho
conquistato. Non ho intenzione di condividere con nessuno di loro
ciò che è mio.» fece una smorfia, quindi, prima di riprendere a
parlare «Quando lo capiranno, molti di loro preferiranno puntare
a mia figlia Elisabetta: è giovane, è bella ed è in età da marito…
Lei!» e storse nuovamente la bocca, facendo un gesto di disprezzo
col braccio.
«Una regina non ha ragioni per invidiare la sua unica figlia.
Vedrete presto che le vostre considerazioni sono solo frutto di un
attimo di esitazione.» Gerda chiuse i cassetti dove aveva riposto la
roba, tornando verso la padrona «Come ha preso la morte del
padre?».
«Come vuoi che l’abbia presa? Non avrà ancora realizzato quello
che è successo. A cosa vuoi che arrivi, col cervello bolso che si
ritrova?».
La domestica scrollò le spalle, concedendosi un piccolo sorriso
carico d’ironia.
«È dunque questa la donna che la regina dovrebbe invidiare?
Avevate preso atto sin da principio anche di questo, se ben
ricordate. Non lasciate che l’intelletto si offuschi anche a voi».
«È un rimprovero, Gerda?» torva in faccia, Viviana guardò di
sbieco la domestica.
«Solo l’ammonimento di una donna con più anni di voi, che
serviva la famiglia regnante prima ancora che voi nasceste» le
rinfacciò con un certo orgoglio impertinente quella.
«Finiscila. Non sono dell’umore per sentire delle prediche.» la
regina si pettinò le ciglia davanti allo specchio, sbattendo poi un
paio di volte le palpebre «Piuttosto, cosa mi sai dire del giovanotto
che stava a fianco del Conte di Vallechiara?».
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«Non ci ho fatto caso. So che il Conte di Vallechiara si è un po’
isolato dalla corte, dopo la morte della moglie, tanto che il suo
tesoro ne ha risentito. Tiene solo alla compagnia del figlio, da quel
che si dice».
«Non ti ho chiesto notizie del Conte di Vallechiara, Gerda.» la
interruppe Viviana «Ti ho chiesto notizie sul giovane che gli era
accanto. Può essere che sia suo figlio?».
«Non l’ho nemmeno visto, vi ho detto.» ribatté la domestica, a sua
volta un poco scocciata «Può essere, non lo so. Come faccio a
saperlo?».
«Un bel giovanotto.» disse la regina, drizzandosi «Alto, moro, coi
capelli un poco mossi, e un bel portamento».
«Può essere che sia lui. È l’ipotesi più probabile, dal momento che
il Conte è sempre stato leale alla corona ed era amico del re. Si
sarà sentito in dovere di portare con sé il figlio. Come mai vi
interessa tanto?».
«Secondo te?» la regina tornò a guardare lo specchio, con aria
superba «È un gran bel giovane. Come se ne trovano pochi, in
giro».
Gerda si irrigidì, sebbene si aspettasse una risposta del genere.
«Mia regina, il re è stato appena seppellito, e questo lo sa anche
quel giovane.» le fece notare «È sconveniente per voi iniziare una
relazione».
«Non mi hai appena detto che sono ancora giovane?» replicò
stizzita Viviana «Se anche non fosse vero, sono pur sempre la
regina. Almeno in questo, posso fare quello che voglio».
«Dovete osservare un preciso periodo di lutto, che vi piaccia o
meno. Credete che nessuno sospetti di voi? Se la corte venisse a
sapere di un oltraggio alla memoria del re, non perderebbero
occasione per screditarvi».
«Posso metterli a tacere tutti» disse la regina, già meno sicura.
«E loro possono deporvi. Il vostro trono sarà traballante finché la
faccenda non sarà del tutto chiusa.» insistette la domestica, con il
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suo consueto modo di fare «Tenete il lutto, almeno per alcuni
mesi».
Viviana cincischiò, sfregando assieme le dita di una mano. Si
morse un labbro, emise un mezzo sospiro, quindi batté un
colpetto sul mobile, girandosi quindi sulla sedia.
«E sia. Seguirò la convenzione del lutto come ci si aspetta da me,
ma questa dovrà essere ridotta all’osso. Non aspetterò che la
vecchiaia mi porti via quel che avrei potuto comprare con la mia
giovinezza. Nel frattempo, tu» e sollevò un dito verso la domestica
«dovrai informarti su tutti i possibili pretendenti. In special
modo, sul figlio del Conte di Vallechiara. Il tempo non ti
mancherà».
Gerda annuì, chinando il capo in segno d’obbedienza.
«E ora vai.» riprese la regina, tornando a fissare il proprio volto
«Oggi è giorno di lutto in tutto il regno. Osservalo anche tu e
approfitta di questo giorno di riposo».
«Se non c’è altro…» fece la domestica.
«No. Nient’altro» risposte laconica la regina, disinteressandosi
completamente della servitrice.
Gerda si chinò un’ultima volta, per poi aprire la porta e lasciare la
stanza.
La regina Viviana fu scrupolosa nel seguire il consiglio della sua
servitrice. Col trascorrere dei giorni, si rendeva conto sempre
meglio di come una tresca sarebbe stata fatale, per la sua autorità
ancora vacillante. In molti infatti miravano, di nascosto o alla luce
del sole, al seggio che significava potere assoluto sull’intero regno,
ma Viviana, abile nell’attaccare come nel difendersi, si premurò
bene di non lasciare varchi per usurpatori e rivoltosi. Gli elementi
più pericolosi vennero messi da parte, talvolta incarcerati, in due
o tre casi segretamente eliminati. La regina ci teneva ad apparire
magnanima, per cui non forzò la mano contro di loro: il popolo
sarebbe stato con lei e i nobili che le si dimostrano leali sin da
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principio furono ricompensati lautamente. Trascorsero quattro
mesi, prima che Viviana potesse sentirsi sicura al proprio posto e,
come questo avvenne, quasi rimpianse il clima di sotterfugi e
attentati alla sua autorità. Si scatenarono di colpo, tutti assieme,
non appena il cardinale stabilì che il lutto era finito. Il palazzo si
riempì di una folla di nobili senza moglie; messaggeri ed
ambasciatori facevano avanti e indietro, portando le proposte dei
loro padroni; un vorticare senza fine di pettegolezzi e maldicenze
trascinò con sé le dame di corte. Viviana prese tempo, senza
rifiutare da principio niente e nessuno, tenendo faticosamente a
mente tutte le possibilità che le si aprivano dinnanzi. Elisabetta,
che la regina credeva si sarebbe ritrovata anch’essa circondata,
continuava la sua vita di sempre, ignorata e felice di esserlo. Col
tempo, coloro che avrebbero ricevuto un rifiuto avrebbero provato
a ripiegare su di lei, e questo Viviana non lo voleva. Da un lato, la
regina voleva prendere parte attiva nella scelta del consorte per la
figlia, dal momento che chiunque, anche il più stolto, sarebbe
stato capace di abbindolarla e, eventualmente, usarla contro di lei;
dall’altro, Viviana si riscopriva ancora donna, con tutti i tumulti
che le passioni generano nel suo sesso. Senza ammetterlo, la
regina aspettava, sperando che in quella sala facesse il suo
ingresso un messaggero proveniente da Vallechiara. Ma nessuno,
neanche il Conte, si sognò mai di farle visita e questo in un primo
tempo la rattristò e in un secondo la fece adirare. Del giovane
figlio del Conte, ormai, aveva saputo tutto. Si chiamava Aleandro,
e aveva ventuno anni: dietro istruzione del padre, si limitava a
gestire le proprie terre, senza prendere parte attiva alla vita di
corte, se non era necessario. Se vi era forzato, ed era accaduto, si
presentava come un personaggio schivo, del tutto lontano dagli
interessi di un giovane della sua età e del suo rango. Le dame che
avevano mostrato interesse per lui e avevano presentato le loro
proposte erano rimaste senza una risposta. Si diceva che fosse
rimasto molto scosso dalla morte prematura della madre e
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preferisse, per il momento, mantenere il suo isolamento. La
somiglianza caratteriale col padre saltava all’occhio di tutti.
«Non è possibile!» protestò la regina, una volta rimasta sola con
la servitrice «Non lo accetto! Dovrei forse abbassarmi, io, la
regina, a recarmi al suo castello?».
«Nessuno approverebbe.» la contestò Gerda «Alimentereste solo
le ciance a vuoto delle cortigiane».
«Cosa vuoi che mi importi di loro!» sbottò, alzando un braccio
«Se Aleandro fosse con me, al mio fianco, potrebbero solo
invidiarmi. Lo inviterò qui a palazzo, e lui non potrà rifiutarsi di
venire».
«Non si rifiuterà, è vero.» ammise la domestica «Tuttavia il cuore
di uomini come il Conte di Vallechiara non può essere rubato
senza il loro espresso consenso. Aleandro è il suo ritratto, e per di
più è ancora così giovane: alla sua età, si è capaci di ogni
sciocchezza, anche rifiutare una regina e il suo regno per un
capriccio infantile».
«Oserebbe tanto, secondo te? Ricorda che potrei minacciare lui e
suo padre, se si ostinasse a rifiutarmi!».
«E non lo avreste mai, così. Perché piuttosto sceglierebbero
entrambi la morte e la tortura; se anche arrivaste a farlo cedere,
non avreste mai nulla da lui.» Gerda scosse la testa «Questa
passione è insana, mia regina. Dovreste rinunciarvi, prima che
metta in pericolo la vostra posizione».
«Rinunciarvi!» ripeté Viviana, con gli occhi sgranati e rossa di
rabbia «Non sono arrivata sin qui per sentirmi dire che devo
rinunciare a qualcosa! Se non potrò averlo con le buone, lo
prenderò con la forza!».
«Il cuore di una persona non può essere assoggettato ai voleri di
nessuno» affermò la domestica, sicura di quel che diceva.
Viviana rimase immobile, con le mani artigliate alla propria gonna
ampia e gonfia, il labbro che le tremava d’ira.
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«Si può, invece.» disse, sorridendo con risolutezza «Rimarrà una
faccenda pulita, se ricorrerò alla strega rossa».
Gerda rimase interdetta e le ci volle qualche secondo per
comprendere le intenzioni della padrona.
«La strega rossa?» domandò, mano a mano che rifletteva sull’idea
della regina, che cominciava già a piacerle.
«Sì!» rispose convinta Viviana, puntando a gran passi verso la
domestica «La strega rossa!».
E spalancò le braccia, folgorata dalla sua stessa trovata.
«Ciò che mi viene vietato
potrà esser conquistato,
ciò che mi è proibito
sarà tutto invertito
con la strega rossa!».
«La strega rossa!» ripeté Gerda.
«Per incantesimo o tortura,
la fiamma sacra o impura
arderà soltanto per me,
che presi il posto del re».
«E c’è un preciso perché…».
«Per fare quello che pare a me!».
«Un decreto o un rifiuto
varran meno dello sputo!
Non è per nulla che son diventata
regina vincente ed ammirata!».
«Ammirata e temuta…».
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«Una testa è caduta.
Una sola, che vuoi che sia,
ora che la corona è tutta mia!».
«E ancora non è abbastanza…»
«La corona è una stanza,
non val niente di più:
quella sala laggiù,
dove un trono spogliato
del monarca più amato
giacerà e attenderà
l’uomo che mi prenderà!».
«In un modo o nell’altro…»
«C’è una strega in un antro…».
«Al servizio lei è…»
«Della regina più grande che c’è!
Con unguenti e pozioni
per tante generazioni
ha stabilito la sorte,
ha scongiurato la morte
di principotti e sovrani
toccati dalle sue mani.
Sarà il suo burattino,
lo giocherà come un bambino
con formule e preghiere
di antichissime ere.
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La strega rossa!».
«La strega rossa!».
«Mi darà ciò che è mio…».
«Invocherà ogni Dio…».
«Per demonio che sia,
seguirò questa via!».
«Di Aleandro la volontà
Soltanto lei deciderà;
andrà incontro da sé…».
«Alla regina più grande che c’è!
Sarà come l’ho sognato…».
«Più che desiderato…».
«La strega rossa saprà…»
«Plasmarlo come vorrà».
«Avevo dimenticato
un amore sterminato
e mi straripa il petto
il cuore non mi ha retto
al sentirti così tanto vicino
siamo due in un solo destino!
E verrà da me, con baci e parole…».
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«Non lasciate udire queste parole…».
«Poesia e carezze e voluttà…».
«Ma fate piano, per carità…».
«La carne, la brama e la passione…»
«Bisogna agir con attenzione…»
«Apparterrà soltanto a me…»
«Alla regina più grande che c’è».
«Con la strega rossa».
«La strega rossa».
Viviana si stese sul letto, vinta dalla forza bollente della sua stessa
emozione. Gerda le si fece subito vicina con cautela.
«È bene che non vi rechiate personalmente da lei: mille occhi vi
scrutano ogni istante che trascorrete fuori da questa camera.
Manderò una persona fidata che la convochi al vostro cospetto
senza che nessuno se ne accorga».
Viviana sembrò faticare a comprendere cosa le veniva detto. Alla
fine, però, piegò il capo in un cenno di assenso, prima di lasciar
ricadere il capo all’indietro, come priva di sensi.
Gerda non perse un attimo per eseguire l’ordine della regina,
com’era solita fare. Prese da parte un servo a lei sottoposto, uno
che sapeva sarebbe rimasto zitto, e gli diede l’ordine di recarsi
dalla strega rossa, che da sempre risiedeva in una casetta di sassi,
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situata appena fuori dal cortile del palazzo: non ci sarebbe stato
alcun impiccio nel portarla da Viviana quella sera stessa, ma nel
biglietto che diede al messo, Gerda scrisse espressamente che
doveva presentarsi nove giorni dopo, al calar della notte. Come lo
seppe, Viviana andò su tutte le furie, ma la domestica le spiegò
che in quel tempo avrebbe potuto riflettere con più lucidità su
cosa aveva in mente. D’altronde, in quel momento la regina non
era nelle condizioni di vedere nessuno, né tantomeno ragionare su
cos’è che volesse realmente; nei giorni successivi, poi, avrebbero
avuto luogo numerosi ricevimenti, per cui il palazzo sarebbe stato
costantemente affollato. Gerda aveva scelto la data più
appropriata e vicina nel tempo: meno curiosi c’erano in giro e
meglio era. Per questa ragione, e solo per questa, l’irrequieta
Viviana riuscì a trattenersi.
Ma le cose non sarebbero state semplici. La domestica si rese
conto fin da subito di come la regina non riuscisse a togliersi dalla
testa il giovane Aleandro. Placare una donna innamorata andava
al di là delle sua capacità, come di quelle di chiunque. Frenetica,
Viviana rischiò di tradirsi più d’una volta: cacciò sgarbatamente
quanti, ignari di tutto, si azzardavano a portare le loro proposte e
non si curava degli affari di stato, sostenendo che aveva ben altro
a cui pensare. Più di un ricco mercante, di un nobile scontento e di
un comandante inattivo furono rimandati indietro senza sapere
cosa si sarebbe fatto per risolvere i loro problemi. La regina
attendeva soltanto il giorno prefissato, e a questo punto lo faceva
anche Gerda. Una volta, addirittura, la principessa Elisabetta
l’aveva presa da parte per chiederle che cosa avesse sua madre che
non andava. La domestica si era arrampicata sugli specchi per
trovare una giustificazione. La situazione era allarmante, se
persino Elisabetta arrivava a insospettirsi. Diede disposizioni
perché la regina non fosse mai lasciata sola, per nessuna ragione,
e che ci fossero sempre giullari, musici e poeti disposti ad
intrattenerla in ogni minuto libero. Gerda se li rivide tornare
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indietro uno dopo l’altro: Viviana li aveva allontanati dalle sue
stanze dietro la minaccia dell’impiccagione; uno era stato persino
cacciato dal palazzo e non vi tornò mai più. La regina pretendeva
di star sola proprio per poter pensare in solitudine al suo
Aleandro e nessuno avrebbe dovuto disturbarla.
Fu così che, quando giunse il nono giorno, la domestica poté tirare
un sospiro di sollievo. Viviana, al contrario, fu intrattabile per
tutto il giorno: sin dal suo risveglio, si diffuse in giro la notizia che
la regina era di cattivo umore. I servitori e le guardie badarono
bene di tenersi a distanza da lei, ma per loro fortuna, Viviana non
volle mai uscire dai suoi appartamenti. Trascorse l’intera giornata
ad osservare il ciclo del sole dalle finestre. Lo vide sorgere, salire
alto nel cielo e sparire a poco a poco oltre l’orizzonte, quindi
venne il buio. E trascorse un’ora. Due. Tre. Viviana era fuori di sé.
«Doveva essere qui al calar della notte!» ripeteva, prendendosela
con la domestica.
«La notte è lunga.» provava a scusarsi quella «Starà aspettando il
momento propizio».
Ma anche lei non riusciva a spiegarsi come mai la strega rossa non
si fosse ancora presentata. La regina non era una donna capace di
cadere preda della disperazione; maledisse la strega per tutta la
notte, condannando il suo oltraggio, la sua arroganza, ripetendo
di come si sarebbe vendicata di quell’affronto. Nella sua mente,
tutto le era chiaro: doveva aver capito che il re non era morto per
cause naturali. O magari si sentiva indignata per non essere stata
chiamata per organizzare il suo assassinio. In ogni caso,
quell’appuntamento mancato era sicuramente un segno di
disprezzo della strega nei confronti della regina. Un segno di
tradimento, in altre parole.
Lo stava spiegando per l’ennesima volta a Gerda, rimasta sveglia
solo per via della sua preoccupazione, quando,
contemporaneamente al canto del gallo, qualcuno bussò tre colpi
alla porta, poi altri due. Sia la regina che la domestica si voltarono
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improvvisamente: era il segnale che avevano concordato con la
strega.
«Vai ad aprire» ordinò con voce tremante Viviana a Gerda: tutta
la sua rabbia sembrava essersi sciolta in un’agitazione che la
faceva tremare dalla testa ai piedi.
La domestica si avviò verso la porta e la socchiuse. Sulla soglia,
nella penombra del corridoio, si ergeva la figura della strega,
ferma, rinvolta in una cappa rosso sgargiante, col pesante
cappuccio che le ricadeva sin quasi al mento. Mosse il capo in un
piccolo inchino, scomponendo appena le pieghe rigonfie del
mantello.
«Sono stata convocata?» domandò con voce fioca, tanto che
pareva si dovesse spegnere da un momento all’altro.
«Falla entrare!» intimò da dietro la regina, dopo essersi sporta e
aver scorto soltanto un lembo di quegli abiti così vistosi.
Gerda si fece da parte, restando con la mano sulla maniglia. La
strega rossa parve esitare per alcuni secondi, quindi entrò,
facendo solo pochissimi passi all’interno; la domestica dovette far
attenzione a non urtarla, nel chiudere la porta. Viviana si
soffermò per un attimo ad acconciarsi i capelli, che l’ira aveva un
poco scarmigliati, e respirò a fondo per ridarsi un contegno. Nel
giro di un attimo, era di nuovo padrona della propria freddezza.
Stava per parlare, ma proprio in quel momento la strega si
inchinò nuovamente e con sveltezza, di fronte alla regina. Viviana
si sentì immediatamente a disagio.
«Sono stata convocata?» ripeté la strega, dopo essersi rialzata.
La regina riprese fiato e annuì.
«Ti era stato detto di presentarti al calar della notte» le
rammentò, col tono di chi sapeva di potersi permettere ogni
critica.
La strega si voltò verso la finestra: come spesso avviene, il gallo
aveva sì cantato, ma fuori il cielo era sempre scuro.
«È ancora buio» ribatté.
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Viviana non seppe neanche dire con che tono avesse pronunciato
quelle parole, tanto flebile era la sua voce. Non sapeva se cercava
di scusarsi o se ostentava una calma imperturbabile. Poco
importava: non c’era tempo per stare a discutere.
«Ho bisogno dei tuoi servigi.» disse «Si tratta di una questione
della massima importanza, che pretendo abbia la precedenza su
qualsiasi altra cosa. Inutile dire che è fondamentale la tua
riservatezza su questa faccenda. Nessuno, oltre a noi qui presenti,
deve venirne a conoscenza».
Camminava, mentre parlava, e si voltò verso la strega: il suo volto,
dietro l’ombra del cappuccio, la seguiva senza distrarsi. Viviana la
fissò con un certo scetticismo.
«Pensavo ti fosse stato detto che dovevi dare nell’occhio il meno
possibile, tra l’altro» e ammiccò in direzione del suo mantello, che
di certo non passava inosservato.
La strega allargò un po’ le braccia e restò a guardarsi per un paio
di secondi.
«Mi sembra di essere in incognito» sussurrò, sempre con quella
vocina debole debole.
Viviana fece per replicare, seccata, ma Gerda, lì vicina, le indicò
con lo sguardo di lasciar correre, che era ormai tardi. La regina
ricacciò malvolentieri indietro la propria bile.
«Conosci tu Aleandro, figlio del Conte di Vallechiara?» chiese.
La strega rossa scosse il capo.
«È un giovane che presto sarà introdotto qui a corte. Sei in grado
di preparare un filtro magico, immagino».
La strega annuì con una certa indecisione.
«Filtri d’amore?» precisò la regina.
Questa volta la strega si mostrò sin da subito più convinta, ma
sollevò con attenzione il palmo di una mano, bianco come marmo.
«Si tratta di filtri molto pericolosi» mormorò.
La regina si diresse verso di lei, stringendo le mani sulla gonna.
«Cosa significa che sono pericolosi?» domandò, già irritata.
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La strega mosse un passo indietro nel vedersi caricare a quel
modo e rimase in silenzio per qualche istante.
«Sono molto potenti.» spiegò infine «Una persona a cui viene
somministrato il filtro non riesce più a liberarsi dall’incantesimo
per tutta la vita. Neanch’io potrei sciogliere una magia tanto
forte».
Viviana sgranò gli occhi: una luce vittoriosa le si dipinse
immediatamente in faccia.
«Quindi quella persona sarebbe… Devota all’altra sino alla
morte?» chiese, trattenendo a stento la propria euforia «Senza
possibilità di riscatto, insomma? L’incantesimo non si
interromperà nemmeno per un attimo?».
«Nemmeno per un attimo».
«E non perderà di efficacia col passare degli anni?».
La strega fece segno di no con la testa. Viviana batté assieme le
mani in una nota di trionfo, senza trattenere una risata estasiata.
Guardò radiosa Gerda, quindi puntò il dito verso la strega.
«Perfetto, perfetto. Voglio quel filtro. Tu lo preparerai in modo
che Aleandro si innamori di me senza ripensamenti.» le ingiunse,
quindi ritrasse la mano «Io farò sì che Aleandro lo beva».
«Di voi?» e stavolta la voce della strega si alzò di un’ottava per lo
stupore «Ma il re…».
Viviana la fulminò con un’occhiata rovente, senza rinunciare a un
centimetro di terreno: non avrebbe temuto di affrontare nessuno,
in quel momento.
«Il re è morto.» le ricordò, dura in viso «Da quattro mesi, ormai.
Il mio periodo di lutto è finito. Voglio un nuovo marito e tu me lo
procurerai.» le puntò il dito una seconda volta, quindi le diede le
spalle «Va ad occuparti di preparare il filtro».
Gerda girò la maniglia e socchiuse la porta, ma la strega rossa
rimase lì dov’era. Viviana, come se ne accorse, si voltò a guardarla
con aria impaziente ed altezzosa.
«Che cosa c’è?» le chiese, scocciata «Ti ho detto di andartene».
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La strega non disse niente ancora per qualche secondo, col capo
chino, prima di risollevarlo e rispondere.
«C’è un problema, mia regina».
Viviana si girò di scatto, avvicinandosi con ancora maggior impeto
alla strega.
«Problema? Che problema?» con un’ansia improvvisa, cercò le
mani della strega e le trovò, quindi le strinse nervosamente «Tu
devi farmi avere il mio Aleandro!».
«Il filtro.» disse quella, ritraendosi col busto «Non posso
prepararne uno che permetta di innamorarsi di una persona
specifica. La persona che lo ingerisce viene colto da un capogiro,
forse anche uno svenimento; il filtro impiegherà alcuni secondi
per avere effetto: quando Aleandro si sveglierà, offrirà tutto il suo
amore alla prima persona che vedrà».
La regina perse gradualmente forza nelle proprie braccia e lasciò
andare le mani della strega. Si morse il labbro inferiore e portò un
dito alla bocca.
«La prima persona che vedrà.» ripeté fra sé «Questo complica le
cose».
«Non poi molto, se lo sapete.» la rassicurò la strega «Dovete solo
aspettare il momento propizio».
La regina posò le mani sui fianchi e guardò fisso davanti a sé, con
quell’aria severa che assumeva ogni volta che pensava.
«Hai ragione.» concordò infine, tornando sulla strega «Ma quello
è compito mio. Tu occupati del filtro. Lo voglio pronto al più
presto».
La strega rossa si inchinò un’altra volta per dimostrare che
avrebbe obbedito.
«Allontanati in fretta, adesso.» proseguì la regina «Non voglio che
ti vedano» e fece cenno a Gerda di aprire la porta.
La domestica non se lo fece ripetere e subito eseguì l’ordine:
mentre la strega usciva dalla stanza, lanciò un’occhiata dubbiosa
verso la finestra e notò il colore ormai rosato del cielo. Chiuse la
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porta, quindi, e rimasta sola con Viviana, assistette alla sua
esultanza.
«È fatta, è fatta. Che ti avevo detto?» non faceva altro che dire
«Aleandro mi amerà e non avrò mai dubbi su di lui. Non mi
trascurerà, mi circonderà di tutte quelle attenzioni che ho sempre
desiderato».
«Mia regina…» provò a interromperla, ma quella non le porgeva
orecchio neanche per scherzo.
«Farà tutto quello che vorrò, sarà come l’ho sempre desiderato.»
continuava infatti, da sola «Esiste una donna più felice di me?».
«Mia regina, vi prego…».
«Sono ad un passo dall’ottenere tutto quello che si può sognare.
Ricchezza, potere e un uomo giovane e bello innamorato come
nessun altro potrà mai essere».
«Mia regina, ascoltate!» disse Gerda, stavolta con ben più
veemenza, e la regina si interruppe.
In lontananza, all’esterno, si udì il segnale delle guardie che si
davano il cambio sulle mura. Lo stesso segnale coincideva con
quello col quale i servi del castello dovevano mettersi al lavoro.
«Così tardi?» fece la regina, rendendosi conto che era ormai
mattino «E la strega è appena uscita!».
Senza bisogno di altre parole, sia lei che la domestica corsero fuori
dalla stanza e si affacciarono sulle scale: sotto lo sguardo di un
paio di sguatteri incuriositi, la figura intabarrata della strega rossa
si dirigeva verso i primi raggi del giorno. In incognito, secondo
quel che aveva detto.
La strega rossa rientrò nella propria casetta quando la gente era
ormai immersa nelle proprie mansioni e il cielo era di un azzurro
così terso che era un piacere a vedersi. La porticina era piccola e
schiacciata, tanto che dovette piegarsi per passarci attraverso,
rischiando di inciampare in quella specie di cappa che toccava
terra. Una volta dentro, ebbe ancora maggiore difficoltà a
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richiudere la porticina, perché il soffitto, sull’ingresso, era
talmente basso che le toccava procedere piegata sulla vita, con
quel mantello raggomitolato addosso come quello di un beduino e
un braccio proteso all’indietro per ritrovare la maniglia. Sbuffò
mentre sollevava un lembo e avanzava su una gamba sola, sino al
punto in cui poté finalmente raddrizzarsi e con un sospiro
liberatorio portò le mani al cappuccio e lo fece scivolare
all’indietro, chiudendo beatamente gli occhi. Lungi da quel che si
potesse credere, la strega rossa non aveva più di diciott’anni: la
pelle chiara e liscia risaltava come alabastro, fresca e delicata, e gli
stessi lineamenti del viso parevano esprimere la medesima
dolcezza. Nell’aprire la spilla che teneva chiuso il mantello, i
capelli le ricaddero oltre le spalle ed erano così neri e leggeri e
brillanti che davano l’idea di essere intrecciati con la fuliggine
portata dal vento. Le labbra ciliegie mature: chiunque si sarebbe
aspettato che solo a sfiorarle si sarebbe raccolto sulla punta delle
dita il nettare più vermiglio. Riaprì gli occhi stancamente e si
avvolse il mantello attorno a un braccio con un paio di buoni
avvitamenti, preferendo restare col semplice vestito, d’un verde
stinto, che se non altro era della sua misura. A dispetto di quella
che era apparsa col mantello addosso, la strega rossa era di
costituzione esile e bastava vedere con quanta fatica lo reggeva tra
le braccia per capire che genere di ragazza era. Con un ultimo
sbuffo, aprì un baule da un angolo sotto una finestrella e ve lo
ripose. Come alzò gli occhi, chiunque avrebbe notato, così in piena
luce, il riflesso violetto delle sue iridi, che normalmente si
distingueva appena appena. Senza il mantello, la giovane si trovò
però a rabbrividire, per cui staccò un vecchio scialle da un
punteruolo e se lo avvolse attorno alle spalle, quindi si strofinò
piano le braccia. Passò davanti allo scaffale con le boccette e le
erbe utilizzate per i rimedi più comuni, degnandoli solo di uno
sguardo distratto. Si spostò nell’altra stanzetta, quella che era il
vero e proprio antro: decine di volumi erano allineate su mensole
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improvvisate; bottigliette e barattolini, sia pieni che vuoti,
giacevano accatastati su tavoli, nicchie e ripiani. Insomma, non
c’era un angolo libero. Cacciò con un dito un ragnetto dal
calderone spento, accese un paio di candele davanti al piccolo
ritratto di una donna bionda e robusta con indosso la sua cappa
rossa e infine, scansando con una mano un mezzo centinaio di
amuleti, raggiunse la sua scopa fatta di ramoscelli d’erica. Con
essa si mise a spazzare la casa, facendo attenzione ad ogni angolo
che puliva, e talvolta mormorava alcune parole in una strana
lingua, come se si rivolgesse a qualcuno lì nascosto. Alla fine,
sfiorò con la scopa un piattino e raccolse dal vicino tavolo una
bottiglia piena di latte. Ne versò parte del contenuto nel piattino,
poi aggiunse qualche pezzetto di focaccia appena sfornata e si
allontanò di qualche passo, stringendo piano la scopa tra le dita.
«Tutti sistemati, adesso.» disse con un filo di voce «Tutti
sistemati… Beh, per ora. Almeno sino a stasera dovrei arrivarci
tranquilla».
Fece per stiracchiarsi, ancora con la scopa in mano, e si ritrovò col
fare un piccolo balzello avanti, sino a lasciarsi avvolgere, delicata
come una farfalla, dai raggi del mattino che si proiettavano
all’interno del piccolo antro.
«Sì, va ben così, è già mattino,
un altro passo sul mio cammino,
un altro passo sul mio sentiero
quand’ormai il cielo non è più nero.
Sola qui, non son mica una bambina
che piange, chiusa, giù nella cantina.
E sì, va ben così, è tutto ciò che ho,
un’altra vita io non la condurrò…
Tra boccette ed ampolline
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vengon dalla strega rossa
bimbi, uomini e vecchine
con un piede nella fossa!
“Prestatemi un unguento!”
“Il marito m’ha tradita!”
“Un foruncolo sul mento!”
“La fortuna sulle dita!”
Quanti segreti parlan da lontano
attraverso le linee della mano;
scrutar nei sogni di mezz’estate,
cantar sortilegi nelle vallate!
Sì, che va ben così, è tutto ciò che ho,
un’altra vita io non la condurrò.
Sì, va ben così, fino alla notte,
al tuffarsi giù in mare, a frotte,
dei soli d’ogni dì; e la Luna
sola lassù, dietro la nube bruna,
li vedrà uscire dai cespugli,
dalle foreste scosse in subbugli
per ridere ballare, fare scherzetti:
attenti a trattare con i folletti.
Elfi, coboldi e fate,
gnomi, goblin e linchetti,
e neppure ci badate,
tanti sono i folletti!
Ninfe, troll e buffardelli,
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anche quel piccolo nano:
oh, rubacchiava gli anelli
dal tesoro del leprecano!
Mille e più spiriti ogni giorno
vanno a sguinzagliarsi per il mondo,
paion le api di un alveare:
trovan sempre qualcosa da fare.
Ma sì, va ben così, è tutto ciò che ho,
un’altra vita io non la condurrò.
Bussano tutti alle mie porte,
voglion conoscere la loro sorte,
voglion parlare col caro defunto
e del futuro magari un riassunto.
Sola qui, è un’esistenza beata!
Posso star tranquilla e rispettata
né sarà mai di casa la noia:
m’invento magie per ogni gioia.
Sabba, torce, cantilene,
spettri dagli sguardi vacui!
Volerò con le falene,
danzerò coi fuochi fatui!
Draghi, mostri e giganti
dormono nelle caverne;
ne ho incontrati così tanti,
alla luce dalle lanterne.
E quanto ancora c’è da scoprire
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che non vi saprei nemmeno dire,
ma stare su una scopa in sella,
credetemi, non c’è vita più bella».
E, sempre canticchiando, si rimise a spazzare il pavimento, diretta
verso la propria camera, una stanzina angusta, l’unica a cui si
accedeva tramite una porta. Per aprirla, fu sufficiente spingere la
porta con la scopa, solo che la strega rossa ci mise un po’ troppa
energia e questa andò a sbattere rumorosamente contro una
mensolina proprio lì dietro. Si udì una specie di miagolio isterico
mescolato ad un urlo vagamente umano e una figura piccola e
pelosa schizzò giù a razzo, atterrando miracolosamente sul letto
della strega. Dalla mensola, provenne il rumore di qualche
barattolo di vetro che traballava e minacciava di cadere. La strega
rossa si precipitò nella camera e richiuse la porta, restando a mani
aperte davanti ai barattolini per prenderne qualcuno al volo, in
caso di bisogno. Come le parve che non ci fossero rischi, tirò un
sospiro, si asciugò il sudore dalla fronte e si decise a voltarsi con le
mani sui fianchi verso il letto. La creatura che vi era sopra la
fissava in silenzio, con un’espressione colpevole, come quella di
un bambino che non sa bene che scusa tirare fuori per
scapolarsela. A vederlo così, non si sarebbe neanche potuto dire
che razza di bestia fosse: sembrava un incrocio tra un lemure e un
tapiro, con una coda folta e pelosa, da lince. In verità, c’è da dirlo,
era un animale così ridicolo da far persino tenerezza.
«Glosci.» sibilò la giovane, e intanto cominciò a battere un piede
sul pavimento «Quante volte ti ho detto che non devi metterti a
sonnecchiare sulle mensole? Con tutto il posto che c’è, poi!».
La creatura chiamata Glosci si guardò intorno un paio di volte,
quindi si rizzò sulle zampe posteriori e sollevò un dito.
«In primo luogo non stavo sonnecchiando» ribatté, proprio come
un essere umano, solo che la sua voce era stridula e al contempo
sembrava quella di un raffreddato.
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«Non provare a fregarmi, so benissimo che ti metti a dormire
sulle mensole.» insistette la strega «Non voglio nemmeno sapere
perché lo fai, voglio solo che la pianti».
«Ma calcola che, avendo attutito l’urto della porta con il mio
povero muso, ho evitato che tu fracassassi tutti i barattoli»
affermò, aggrappandosi a quella via d’uscita.
Un istante dopo, si udiva distintamente il rumore del vetro che si
rompeva sul pavimento. La strega chiuse gli occhi e si irrigidì,
aprendo le mani come artigli sui fianchi. Glosci rimase con la
bocca ancora mezza aperta e un’espressione vagamente ebete.
«Beh, ne hai rotto solo uno, grazie a me» si corresse.
«Io l’ho rotto, eh?» fece la giovane, riaprendo gli occhi, sul punto
di lanciar fulmini «Non sei stato tu che l’hai urtato buttandoti giù
dalla mensola, sono stata io».
«Non puoi saperlo, Linda.» obiettò la creatura, con convinzione
«È caduto in ritardo. Può essere stato per via di una scossa di
terremoto».
«Appena mi recherò al concilio delle streghe, lo causeremo noi un
terremoto.» ringhiò minacciosa la strega «E appena si aprirà una
voragine ti ci ficcherò dentro a testa in giù, bugiardo d’un
famiglio! Ti rendi conto che tu dovresti consigliarmi e aiutarmi e
invece mi rendi tutto quanto più difficile?».
«Dubito che al tuo primo concilio ti darebbero molto credito.»
replicò Glosci «Più probabile che diano ascolto a me, che sono nel
giro da più tempo».
«Oh, piantala, razza di topo muschiato, e fammi vedere cos’hai
rotto» e si girò, chinandosi sui resti del barattolo e sul liquido
rossastro che si disperdeva sul pavimento.
Il famiglio allungò il collo per poter sbirciare anche lui, ma le
bastò lo strillo di un secondo dopo per capire che aveva proprio
rotto qualcosa che non andava. Linda si aggrappò al letto e fissò
con aria assassina la creatura.
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«Sangue di biscia zuccherato.» disse la strega, snudando i denti
«Lasciato all’aperto per quindici giorni, condito con un pizzico di
rosmarino, due foglie di fragola e, non dimentichiamocela, una
radice di mandragola spremuta. Il tutto cotto a fuoco molto
lento».
«Oh.» Glosci ritrasse lentamente il capo «È buono da bere?».
«Non lo so, non l’ho mai assaggiato. Quel che importa, però, è che
si tratta di uno degli ingredienti fondamentali per preparare un
filtro d’amore e si dà il caso che non ne abbia altro.» sollevò il
pugno chiuso, minacciando di schiacciarci sotto la testa del
famiglio «Ora dammi una ragione per non strozzarti».
Il povero animale sgranò gli occhi e si fece piccolo piccolo.
«Se non fosse stato per me non ti saresti mai presentata in tempo
al castello» rispose fulmineamente, tutto d’un fiato, coprendosi il
muso con le manine nere.
Linda rimase col braccio a mezz’aria, quindi si decise a
riabbassarlo.
«Non parliamone più. Quell’insaccato per cui la regina ha perso la
testa non morirà certo di vecchiaia in capo a qualche giorno»
storse la bocca, raccogliendo con attenzione i vetri dal pavimento.
«Non pensi che si la regina si arrabbierà?» domandò il famiglio,
tornando ad assumere una posa più tranquilla.
«Posso farci qualcosa, se adesso mi manca un ingrediente?»
scrollò le spalle «Si farà passare l’arrabbiatura, se vuole quel
filtro».
«Certo che ha l’aria di essere parecchio irascibile» osservò Glosci.
«Hai visto tutto?».
«Ho usato lo specchio.» e indicò con la testa il grande specchio
ovale sistemato sopra un mobile, proprio di fronte al letto
«Dev’esserci sempre quel problemino con l’audio, però, perché
riuscivo a sentire solo la voce della regina.» e lanciò un’occhiata
canzonatoria alla strega «La tua arrivava appena. C’era mica
qualche disturbo?».
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«Senti, non ho mai avuto a che fare con la gente di palazzo, sinora,
e di colpo mi capita una regina ansiosa tra capo e collo.
Metterebbe soggezione a chiunque!» allargò le braccia, rischiando
di seminare di nuovo i vetri per tutta la stanza, quindi si alzò per
andarli a buttare via «Se in più ci aggiungi il fatto che non mi
ricordavo di quella stupida convocazione…».
«Proprio una convocazione stupida, sì, un po’ come dimenticarsi
di esser state mandate a chiamare dalla regina in persona» e il
famiglio si mise seduto.
«È per via di quel rituale di ieri sera, e lo sai. Mi ha stancata e mi
sono appisolata un momentino, tutto qua» Linda rientrò nella
stanza con uno straccio in mano e si piegò per pulire il sangue di
biscia zuccherato finito sul pavimento.
«Infatti non potevi andare prima a palazzo e dopo occuparti del
rituale».
La giovane rialzò la testa, restando in ginocchio.
«Glosci, ora piantala di farmi la predica, chiaro? Non lo
sopporto.» e tornò a chinarsi «Si è risolto tutto per il verso giusto,
no? Sono arrivata in tempo, nonostante quella storia
dell’incognito, che mi ha portato via mezz’ora».
«Ma che bisogno c’era? Hai solo quel mantello lì».
«Che ne so, volevo fare qualcosa di più…» e smanacciò di nuovo,
colpendo il famiglio sul muso con lo straccio «Spettacolare.
Pensavo alla polvere di quarzo tritata nel succo di mirtilli, così
sarei stata quasi invisibile e quand’ero nella stanza della regina
puff!» e un’altra smanacciata, che mandò per la seconda volta al
tappeto il famiglio, che nel frattempo si era rialzato «Comparire di
colpo in un lampo argenteo! O azzurrino che sia, mi ci sbaglio di
continuo. Solo che mi sono ricordata che non è la stagione dei
mirtilli e la marmellata l’ho finita a forza di mangiarla a colazione,
e così mi sono dovuta adeguare».
«E questo avrebbe, ecco, minato la tua fiducia in te stessa?»
chiese Glosci, sistemandosi i baffi tutti storti.
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«Certo che l’ha fatto! L’ha… C0m’è che hai detto? Minato! Minato,
sì. Guarda che le regine fanno soggezione.» e si rialzò di scatto,
girandosi velocemente su sé stessa, tanto che il famiglio dovette
appiattirsi per evitare di essere colpito una terza volta «Non sai
mai cosa aspettarti, da quelle lì» e parlava come se ne conoscesse
un’infinità, intanto che tornava nella stanza del calderone.
Glosci saltò giù dal letto, seguendola a passetti silenziosi.
«Per una volta hai le tue attenuanti, comunque.» disse «Persona
odiosa».
Linda gli rivolse un’occhiata, quindi si tagliò una fetta di pane.
«Non sta a noi giudicare che genere di persona sia.» premette con
un dito il pane, trovandolo morbido «È quello del fornaio?».
«Sua moglie l’ha lasciato sulla finestra stamattina, mentre stavi
tornando a casa».
«Quella donna è buona proprio come questo pane: non c’è un
giorno in cui non me l’abbia portato, da quando le abbiamo
guarito il figlio dalla polmonite» e sorrise, andando a prendere un
poco di burro da spalmarci.
«Ma hai davvero intenzione di prepararle quel filtro?» continuò
Glosci, contrariato.
«A chi?» fece la giovane, ormai con un pezzo di pane in bocca.
«Alla regina, Linda, alla regina. A chi altri, secondo te?».
«E perché no?» e si strinse nelle spalle, alzando il viso verso il
modesto ritratto della donna vestita con la cappa rossa «La
mamma non l’avrebbe fatto, secondo te?».
«Mi interessa di più sapere quello che farai tu, non quello che
avrebbe fatto lei.» borbottò il famiglio «Il buon re Edoardo è
morto da così poco tempo e lei già pensa a sostituirlo: puoi star
sicura che quella aveva in testa quell’altro tizio già da un pezzo,
forse mentre il re era ancora vivo».
«E con questo?».
«Linda!» Glosci si puntò sulle quattro zampe «Ci sono cose che
sono sbagliate, che non si fanno! Quanto a quell’Aleandro, poi, se
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è figlio del Conte di Vallechiara, sarà poco più di un ragazzo. Ti
sembra una cosa giusta che si innamori della regina?».
La giovane mangiò il suo boccone di pane, quindi riprese a
parlare.
«Vuoi sapere la verità? No, non penso che sia una cosa giusta.
Assolutamente no, sono d’accordo con te. Ma sono disposta a
scommettere che quel babbeo, chiunque sia, non è migliore di lei,
e questo perché è nobile, è ricco ed è per forza pieno di puzza sotto
il naso. Sono tutti fatti così.» e scrollò le spalle una seconda volta,
poi addentò il pane e continuò a parlare a bocca piena «Poi, che
sia una cosa giusta o meno, è una cosa da farsi, se non vuoi che la
regina ci cacci via entrambi o ci spicchi la testa dal collo».
A quel discorso, Glosci il collo se lo massaggiò due o tre volte,
prima di andarsi a sedere in un angolo.
«Ad ogni modo, ora dovrai avvisarla che per preparare il filtro ci
vorrà del tempo» disse, dimenando la coda.
«Le farò avere una lettera. Devo farmi vedere a palazzo il meno
possibile, altrimenti mi riconosceranno».
Non fece che due passi, quindi scagliò un’occhiataccia al famiglio,
come si accorse che fingeva di non guardare il piattino pieno di
latte e focaccia.
«Lascialo stare, Glosci.» gli intimò «Ti ho già detto mille volte che
quello è per i f0lletti».
«Quelli sono dei piccoli ricattatori.» bofonchiò «Non capisco
perché senti il bisogno di accudirli».
«Non accudisco un bel niente. Voglio solo tenermeli amici».
«Blablabla. Begli amici, quei serpentelli».
Linda posò il pane e rimase a fissarlo.
«Ci tieni tanto a trovarti con la coda in fiamme, Glosci? O a
svegliarti una mattina con i baffi tagliati?» gli chiese «Lo sai che lo
fanno».
«Ma gli aumenti sempre le razioni!» piagnucolò quello.
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«E con questo?» la giovane fece un paio d’occhi grandi così «Non
è che ti lascio senza, c’è latte per tutti qui dentro!».
«Ma come ti aspetti che apra una bottiglia di latte da solo, con le
manine che mi ritrovo?» e gliele mostrò, disperato.
Linda sospirò, alzando gli occhi al cielo.
«In parole povere, non vuoi che lasci qualcosa ai folletti perché tu
non riesci a grattarmi il latte quando non ci sono? Bella
ammissione, Glosci, per quanto velata».
Senza aggiungere altro sull’argomento, comunque, stappò la
bottiglia del latte con il pollice e ne versò un bicchiere per il
famiglio.
«Sbrigati, almeno, che devi aiutarmi a pensare a come riempire
quella lettera. Anzi, sarà bene che ci mettiamo subito a scriverla»
e detto questo si alzò, cominciando a gironzolare per la casetta per
ricordarsi dove avesse lasciato le pergamene, la penna e il
calamaio.
La regina Viviana guardava con impazienza lo specchio, intanto
che le damigelle le si aggiravano attorno per pettinarle i capelli,
incipriargli le guancie e occuparsi delle unghie. A tratti storceva il
viso in una smorfia stizzita, lamentandosi perché qualcuna, così
diceva, le faceva male. Gerda stava in disparte e scuoteva la testa:
non potevano farle male, riusciva ad accorgersene anche da lì.
Viviana era tutto un fremito, si dondolava da una parte all’altra
dello sgabello, incrociava le gambe finendo per urtare il mobile e
si ritraeva prima che avessero finito di curare il suo aspetto, col
risultato che, a dispetto della sua fretta, ci volle molto più del
previsto perché fosse pronta. Una volta in piedi, si lamentò perché
il busto era ora troppo stretto ora troppo lenteggiante, perché le
pieghe della gonna rigonfia non la convincevano e l’alto collare le
dava fastidio. Finì per infilarsi da sola i guanti di raso e raccogliere
la corona come avrebbe fatto con uno straccio senza valore,
calcandosela in testa con una sola occhiata verso lo specchio.
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Nell’uscire dalla stanza, lasciò indietro tutte le damigelle,
divorando il corridoio a lunghe falcate. Gerda le fu subito accanto.
«Vi comportate come una pazza» la rimproverò a bassa voce.
«La pazzia di una regina obbliga alla pazzia tutti i suoi sudditi»
ribatté alla svelta Viviana, senza neanche guardarla.
«Che maniera balorda di ragionare».
«Finché sono io che comando, questa è la maniera più sensata di
ragionare» e quasi correva, tanta era la sicurezza con cui
avanzava, e Gerda dietro, che non accennava a mollarla un
secondo.
«È da scriteriati».
«Dì pure innamorati.
Lui mi aspetta giù!
Non un attimo di più!».
«Avete perso il lume».
«Sia lode al santo nume!».
«È il diavolo che vi tenta».
«Neanche questo mi rallenta.
Cupido segna la strada,
ha scelto che io vada».
«Usate criterio».
«Non è adulterio».
«Ma solo per poco».
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«Ma come un fuoco».
«Non deve capire».
«Ne potrei morire».
«Se solo intendesse».
«Se solo s’arrendesse».
«Sarebbe già la fine…».
«Saremmo anime vicine…».
«Tutto rovina nel niente…».
«Librarsi sopra la gente…».
«Oscuro e profondo».
«In volo sul mondo!».
«Siete troppo trafelata».
«Dovrei darmi un’aggiustata?».
«Qualcosina forse stona».
«Ho messo male la corona?».
«È stato il riflesso di un vetro».
«Bisogna tornare indietro».
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«Siamo a due passi dalle porte!».
«Mi sento a un passo dalla morte!».
«Contegno, mia regina, contegno!
Quello che vi è più degno!
Scansate la ciocca dal viso,
provate un piccolo sorriso».
«Mi sento imbarazzata».
«Temuta ed ammirata!
Fredda e distante,
siete una regnante!».
«Chissà perché mai ora
vorrei esser la sua aurora,
vorrei esser ricordata
leggera come una fata».
«La vostra guancia è rovente».
«E la mia voce suadente».
«Se togliete il tremolio».
«Lui dovrà essere mio».
«Con calma.
Con calma».
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Viviana inspirò a fondo, chiudendo gli occhi e chinando il capo.
Quando lo rialzò, fece gli ultimi metri e le guardie le aprirono le
porte della sala del trono, dove venivano tenute le udienze. Riuscì
a sentire le ultime parole del banditore che annunciava il suo
arrivo e il rumore delle ginocchia che si piegavano per renderle
omaggio. Non guardò che davanti a sé, in modo da avere davanti
solo e soltanto il suo trono. Doveva sedersi, respirare l’aria che
c’era solo lì, quando le mani si chiudevano attorno ai braccioli e la
schiena trovava il più saldo degli appoggi. E rimase in silenzio per
un attimo, col capo alzato. Nell’abbassarlo, colse prima Gerda, in
piedi contro la parete opposta, poi gli scranni vuoti. Infine,
proprio davanti a lei, il Conte di Vallechiara col figlio, ancora con
la testa bassa, umilmente prostrati ai suoi piedi. Pur nella sua
posizione, alla regina Viviana si spezzò il fiato. Guardava i riccioli
neri di Aleandro a fatica: la spaventava non riuscir a vedere il suo
volto, come se dal loro ultimo incontro potesse essere cambiato.
Poteva essersi ingannata. Poteva aver travisato. Deglutì, strinse le
dita e si fece forza. Aveva dimostrato di possederne in così tante
situazioni che anche quella non sarebbe dovuta essere da meno.
«Conte di Vallechiara, alzatevi. Siete il benvenuto.» disse, e le
piacque la sicurezza della sua stessa voce «Lo stesso valga per
vostro figlio» aggiunse quindi.
Il Conte obbedì con solerzia; Aleandro, chiaramente meno
abituato a un tale ricevimento, si mosse quando lo vide fare al
padre, controllando ogni suo movimento. Era rimasto dietro a lui
di un paio di passi, sia per rispetto che per essere certo di non
commettere errori. La distanza non bastava certo a nasconderlo
agli occhi di Viviana. Tale e quale a come lo ricordava, capace di
farle battere il cuore all’impazzata più di quanto le fosse mai
capitato nella sua vita. Adesso lo odiava, quel trono che le
imponeva di restare così lontana da lui. Se l’avesse avuto vicino,
non si sarebbe stancata di guardarlo, di osservare ogni particolare
in lui, saziarsi la vista riempiendola solo della sua presenza.
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«Mia regina, abbiamo risposto quanto prima alla vostra
convocazione.» esordì il Conte, strappandola dai suoi sogni ad
occhi aperti «Io e mio figlio siamo ai vostri ordini».
Viviana spostò malvolentieri lo sguardo su di lui, ma ebbe
l’accortezza di non farlo notare. Il Conte di Vallechiara,
nonostante l’età ormai avanzata, era rimasto un bell’uomo, con un
portamento che molti giovani cercavano invano di imitare, una
barba ben curata e le membra ancora salde. La vita, però, gli era
rimasta impressa sulla pelle: i capelli erano sbiancati, le rughe
tracciavano profondi solchi sulla sua fronte e attorno agli occhi,
che un tempo erano stati tanto brillanti quanto quelli del figlio.
Non era un mistero che la morte della moglie, avvenuta da più di
dieci anni, l’avesse segnato. Ad ogni modo, il Conte non avrebbe
mai accettato di far sfoggio in pubblico della sua debolezza.
«Il messo è tornato soltanto ieri, caro Conte. Non c’era bisogno di
precipitarsi qui così in fretta.» disse Viviana, mostrando un
tiepido sorriso «Anche una regina può attendere».
«I miei obblighi verso la corona vengono prima di ogni altra
cosa.» ribatté il Conte «Ci sono molti uomini che possono gestire
gli affari delle mie terre in mia assenza».
La regina si trattenne dal rispondergli. Stando a quel che si diceva,
le casse della Contea di Vallechiara erano in perdita. Con la morte
della moglie, il Conte sembrava aver perso la voglia di tirare
avanti. Probabilmente, in sua assenza avrebbero tirato soltanto un
sospiro di sollievo.
«Il mio amato marito lodava molto la vostra lealtà, Conte.» disse
dunque «Noto con piacere che il suo giudizio era esatto. Avete
dato prova di valore e dedizione in molte altre occasioni».
Proprio in quel momento, le porte si aprirono nuovamente. La
principessa Elisabetta entrò nella sala col suo seguito di ancelle.
Viviana fu lieta di vedere che avevano fatto un ottimo lavoro su di
lei. Un lavoro duraturo, soprattutto. La principessa non era fatta
per i ricevimenti: la annoiavano mortalmente. Capitava spesso
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che finisse per disfare distrattamente l’acconciatura, togliendo un
fermaglio qua e uno là, oppure rovinasse tutto il trucco attorno
agli occhi per strofinarseli tra uno sbadiglio e l’altro. Stavolta le
avevano raccolto i capelli color del grano in una treccia con cui al
massimo avrebbe potuto giocherellare e le palpebre erano state
appena schiarite in modo da far risaltare l’azzurro dei suoi occhi.
Aveva una bella carnagione chiara, per cui il trucco, anche se
sbavato, non si sarebbe notato poi molto.
«Vi prego di scusare mia figlia. Ha l’abitudine di impiegare molto
tempo per prepararsi.» disse Viviana al Conte, quindi invitò la
figlia ad avvicinarsi «Elisabetta, questi sono il Conte di
Vallechiara e suo figlio Aleandro».
«Conoscete il mio nome, altezza?» domandò il giovane, un poco
sorpreso.
Viviana avrebbe voluto mordersi la lingua, ma lo stesso Conte le
venne incontro, voltandosi velocemente verso di lui.
«Porrai le tue domande a tempo debito, Aleandro, se ti sarà
concesso.» gli rinfacciò «O forse la tua curiosità viene prima dei
tuoi doveri verso la tua principessa?».
Aleandro chinò il capo, facendo un passo indietro.
«Avete ragione.» disse, accettando quel rimprovero «Vi chiedo
scusa, padre».
«Non è a me che devi chiedere grazia, ma alla tua regina.» e si
volse verso Viviana, abbassando anch’egli la testa «Vi prego di
scusarlo, maestà. Aleandro non ha una grande esperienza di
ricevimenti».
«Perdonate il mio ammanco, altezza» si affrettò a dire il giovane,
inginocchiandosi nuovamente.
Viviana rimase sul suo trono in silenzio per alcuni istanti. Da
quando il periodo di lutto era finito, era stata adulata in tutti i
modi, ma nessuno, tra tutti i nobili che si erano recati da lei per
corteggiarla, aveva dimostrato la cortesia del Conte, né
l’ubbidienza di suo figlio. Si alzò in piedi, scendendo con
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attenzione i gradini posti dinnanzi al trono e si fermò di fronte ad
Aleandro. Esitò, e non lo fece per reticenza al perdono, quindi
stese la mano verso di lui.
«Alzatevi» gli disse in tono benevolo, senza poter fare altrimenti.
Aleandro sollevò il viso verso di lei e Viviana vi vide riflessa la
stessa fermezza di suo padre.
«Ho il vostro perdono?» le domandò, e mentre parlava la
guardava fissa negli occhi.
Viviana era senza fiato da una manciata di secondi. In quel
momento, avrebbe acconsentito a qualsiasi sua richiesta.
«Lo avete» rispose con fatica, e quando lui per rialzarsi posò la
mano sulla sua, sentì un brivido ghiacciato correrle lungo la
schiena.
Aleandro si ritirò quindi nuovamente in segno di ossequio;
Viviana non sapeva se ringraziarlo o meno.
«Ora posso salutarlo anch’io, mamma?» chiese la principessa, con
la sua solita aria inconsapevole.
La regina si voltò di scatto verso di lei, riprendendosi di colpo.
«Elisabetta!» esclamò, contrariata «Ti sembra questo il modo di
comportarsi? Specialmente quando i nostri ospiti si rivelano tanto
cortesi!».
«Non abbiatevene così a male con lei, mia regina. La spontaneità
è nelle fanciulle come i fiori su una pianta a primavera» la
giustificò il Conte sorridendo.
«Ecco, voi sì che siete molto caro.» fece la principessa ridendo, e
gli porse la mano «Da dove avete detto che venite?».
«Sono il Conte di Vallechiara, mia principessa» rispose, e si chinò
per il baciamano.
«Oh!» fece lei, e portò l’altra mano alla bocca fresca, rattristata
«Mi dispiace molto per vostra moglie».
Viviana serrò gli occhi con forza, diventando rigida come un
bastone. Il Conte ebbe più o meno la stessa reazione.
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«È… È passato tanto tempo, ormai» mormorò, e si vedeva come il
pover’uomo soffriva a veder rispolverato un così brutto ricordo.
«Oh, sì, saranno almeno dieci anni, no?» chiese la principessa,
con la sua solita aria inconsapevole.
«Elisabetta, forse è meglio se vieni a sederti al tuo posto e resti in
silenzio» disse Viviana, inghiottendo la sua rabbia.
«Va bene, va bene. Ho capito» e per tutta risposta si diresse verso
le sue ancelle.
Sotto lo sguardo stupito di tutti, si fece dare un cuscino, lo posò
sul trono di fianco a quello della madre e ci si sedette sopra con
espressione sollevata.
«Non immaginate quanto sia scomodo questo trono» disse per
spiegarsi.
«Molti regnanti hanno detto la stessa cosa, nei secoli passati»
ribatté Aleandro, scherzando.
«Allora mi domando perché non li facciano ancora come si deve»
borbottò Elisabetta, senza capire l’allusione.
«Come stavamo dicendo poc’anzi,» riprese la regina, tornando sul
proprio trono per troncare la questione «i vostri meriti, Conte,
sono al di sopra di quelli di chiunque altro».
«Vostra altezza esagera.» ribatté il Conte di Vallechiara «Servo
solo come si conviene ad ogni suddito della corona».
«No.» replicò velocemente Viviana, sollevando una mano «No,
caro Conte. Conoscevo i nobili di questa corte uno per uno già
quando era il mio povero marito a governare il regno e, credetemi,
da quando gli sono subentrata mi rendo conto di come stiano
veramente le cose qui dentro. La lealtà di tutti loro è dubbia».
«C’è forse un traditore?» domandò il Conte, allarmato.
Viviana rimase in silenzio alcuni secondi, prima di rispondere.
Era uno spunto su cui riflettere, in futuro.
«Chi può dirlo? La loro fedeltà deriva dalle ricchezze che concedo
loro di possedere. Non potrò mai escluderlo, purtroppo.» scosse
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piano il capo con un sospiro debole «Sono solo una donna, in
fondo. Per di più vedova».
«Mia regina,» il Conte si inginocchiò di nuovo davanti al trono,
col viso fieramente sollevato «la vostra guida è stata ammirevole,
da quando il buon re ci ha lasciati. Il regno non avrebbe potuto
sperare in meglio, e se da parte mia potrò fare qualcosa per
servirvi, non avete altro che da chiedere, per avere il mio braccio a
vostra disposizione».
«Sapevo di poter contare sul vostro appoggio, Conte.» Viviana
sorrise, invitandolo con un gesto a rialzarsi «Siete un uomo
onorevole. Ma un uomo lontano.» e si fece seria «Vallechiara è
una delle terre più distanti e, per quanto so che vi presentereste
con la massima puntualità al mio cospetto, come avete fatto oggi,
non è il posto per un uomo come voi. Né per vostro figlio».
Il Conte apparve sgomento fin dal primo istante e rimase senza
parole; Aleandro, dietro di lui, gli lanciava di continuo sguardi
preoccupati.
«Ho deciso di invitarvi entrambi a palazzo, così che possiate
essere di esempio per tutti gli altri cortigiani» annunciò la regina.
«Maestà, io-» provò a protestare il Conte.
«Naturalmente, ricoprirete un ruolo degno della vostra onesta
persona perché, credetemi, essere onesto, in un mondo come
quello in cui viviamo, significa essere qualcuno scelto in mezzo a
diecimila.» proseguì Viviana, imperterrita «Sarete il mio alto
siniscalco. Presiederete ad ogni udienza ed il vostro consiglio sarà
il primo di cui terrò conto».
«Altezza, io non posso che esserne onorato.» replicò il Conte,
agitato «Ma non sono un uomo di stato: non riuscirei a tener testa
a tutte le questioni del regno».
«Ma lo siete stato.» la regina si alzò dal trono, allontanandosi di
qualche passo «So come vi sentite, ma so anche che genere di
uomo siete. Anzi,» e si voltò verso di lui «lo ricordo. La vostra
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mente è brillante tanto quanto il vostro cuore. A chi dovrei
affidare l’incarico, se non a voi?».
Il Conte rimase in silenzio a lungo, con la fronte corrucciata e le
labbra strette.
«E le mie terre? Che ne sarà di esse?» domandò, malinconico.
«Le faremo gestire ad un uomo di vostra fiducia, ma egli non sarà
nominato Conte di Vallechiara.» rispose la regina «Quel titolo
apparterrà a voi e si trasmetterà, quando sarà il tempo,» girò il
capo verso Aleandro, attenta a modulare ogni sfumatura del
proprio tono di voce «a vostro figlio».
Aleandro fece del suo meglio per nascondere lo smarrimento.
«Proprio per questa ragione,» ribatté il Conte «preferirei che mio
figlio restasse a Vallechiara e lì venisse istruito per governare le
terre che gli appartengono per lignaggio».
Viviana guardò il giovane con attenzione: sentiva il proprio
respiro gonfiare il petto con vigore, fino a quando le dita non le
tremarono.
«Questo non posso permetterlo» rispose, tornando con un certo
sforzo sul Conte.
«Il ragazzo non è pronto per una vita di corte!» insistette quello.
«Neanche voi lo siete.» replicò Viviana, stavolta con durezza
«Vostro figlio è quanto avete di più caro, non è un segreto per
nessuno. Pensate che potreste assolvere appieno al vostro
compito, senza la sua vicinanza? Quanto a lui, avrà modo di
imparare più a palazzo che in qualsiasi altro luogo.» si zittì per un
secondo, quindi addolcì l’espressione del viso e si avvicinò al
Conte, prendendogli delicatamente una mano nelle proprie «Vi
prego, caro amico. Questo regno ha bisogno di voi, adesso. Questo
fardello è così pesante da portare per una donna sola… Sono certa,
Conte, che mio marito sarebbe d’accordo con me nel farvi una
simile proposta che so bene, credetemi, cosa significhi per voi».
Il Conte di Vallechiara rimase fermo, con le labbra appena
dischiuse e gli occhi stanchi, pieni di compassione. La sua cortesia
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gli impediva di non ascoltare la richiesta di una donna che, per di
più, era anche la sua regina. Per la sincera amicizia che l’aveva
legato al defunto re, poi, avrebbe dato volentieri la sua vita.
«Se questo è il vostro volere» mormorò, chinando il capo.
«Lo è. Non c’è niente che desideri di più» e come
involontariamente distolse lo sguardo dal Conte, per posarlo su
Aleandro.
«Mia regina!» si sentì esclamare in quel momento dall’altro lato
della sala.
Un messo era stato introdotto nella stanza: recava nella mano una
busta sigillata che teneva bene in mostra. Fece qualche passo e si
inchinò, restando molti metri dietro a tutti gli altri presenti.
«Che cosa c’è?» domandò Viviana, seccata «Non è questo il
momento per occuparsi della corrispondenza».
«Chiedo venia, altezza, ma mi è sembrato opportuno consegnarvi
questa particolare lettera quanto prima» si scusò il messo.
«E cosa avrebbe mai di così importante? Oh, insomma, portamela
qua e basta» gli ordinò, tornando a sedersi sul trono.
Il messo si affrettò a rialzarsi e a consegnarli la busta, quindi restò
fermo accanto a lei in attesa di altre disposizioni. Viviana prese la
lettera e se la rigirò tra le mani, esaminandola.
«Non conosco questo sigillo.» ammise, guardando il simbolo che
era stato impresso con la cera sulla busta «Da dove viene?».
Il messo si chinò per sussurrarle di chi si trattasse; Elisabetta, che
fino ad allora era rimasta buona, con lo sguardo perso chissà
dove, riaprì gli occhi di scatto.
«La strega rossa?» disse ad alta voce, fissando la madre sbigottita
ed emozionata.
Viviana fu sul punto di stritolare la busta senza nemmeno
leggerla.
«La strega rossa!» ripeté stupito il Conte «A Vallechiara c’è chi
dice che sia solo una leggenda. Dunque esiste davvero».
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«Ma se ha persino una casetta appena fuori dalle mura.» disse
Elisabetta «In città lo sanno tutti dove abita, però è sempre così
affascinante, non trovate? La magia, gli incantesimi, tutte quelle
cose lì…».
«Ma chi è questa strega rossa?» domandò sottovoce Aleandro al
padre, curioso.
«Una fattucchiera al servizio del re. Secondo la leggenda, esiste da
secoli ed i suoi poteri hanno aiutato il sovrano durante i periodi
più caotici. La grande peste del secolo scorso, le guerre che sono
state combattute, le terribili siccità che si sono susseguite: la
strega rossa avrebbe salvato la nostra gente attraverso infinite ere.
Senza di lei, si dice, niente di quello che conosciamo esisterebbe
ancora.» e alzò un dito, guardando il figlio con severità «Ma tu
guardati, Aleandro, da una donna che traffica con gli spiriti e i
demoni. Se la regina vi ha ricorso, non sta a noi indagare perché
l’ha fatto, perché sicuramente non avrà potuto fare altrimenti».
«Proprio per questa ragione,» fece Viviana, a denti stretti, mentre
si faceva nervosamente vento con la busta «gradirei che questa
informazione non trapelasse. Potete immaginare cosa
penserebbero gli altri nobili, se si venisse a sapere in giro».
«Potete star certa che nessuno di noi parlerà.» le garantì il Conte
«Ora comprendo perché avete chiesto con tanta insistenza di
avermi a corte, mia regina, e potete star tranquilla che avete la
mia approvazione. Stando così le cose, anzi, ripartirei subito per
Vallechiara, così da raccogliere i miei averi più stretti ed essere al
più presto al vostro servizio».
Viviana rimase come pietrificata, con la lettera in mano e gli occhi
un poco sbarrati.
«Oh, certo, certo.» si riprese quindi, annuendo «È una
situazione… Tragica, ecco. Non c’è proprio alternativa».
«Con il vostro permesso, allora…» e si inchinò, per essere imitato
con prontezza dal figlio.
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La regina era troppo scossa per poter rispondere qualcosa; in
silenzio, li guardò allontanarsi assieme, mentre un goccia di
sudore le scivolava sulla tempia da sotto la corona.
«È veramente una cosa incredibile» disse Aleandro, quando
furono fuori dalla sala.
«Dì pure allarmante, figliolo» ribatté il padre con serietà.
«E quella strega rossa.» continuò il giovane «Non ne avevo mai
sentito parlare».
«Trattieni la tua curiosità, Aleandro.» lo mise in guardia il Conte
«Noi siamo solo uomini, ricordatelo: è pericoloso confrontarci con
un essere che vive forse dagli albori del tempo, il cui potere è
capace di mutare i cieli e le sorti di una battaglia, facendo piovere
fuoco e sangue dalle nubi. Dai retta a me, figlio mio: non c’è
niente che dovrebbe spaventarti di più di una creatura nata in
grembo al Diavolo stesso!».
«No, due volte al giorno. Una dopo ogni pasto» disse Linda,
sollevando un paio di foglioline una per una.
La donna davanti a lei le seguiva con gli occhietti socchiusi e la
bocca aperta, confusa.
«Cosa c’è che non hai capito, ora?» chiese la giovane.
«Cos’è che devo fare con quelle foglie lì» rispose l’altra.
Linda alzò gli occhi al cielo: era una bella giornata, cominciata col
sole, il buon umore, eppure qualcuno là in alto si divertiva a
tartassarla con i paesani più ottusi che si potessero trovare in giro.
«Le mastichi o le triti e le butti giù con un bicchier d’acqua.» le
spiegò, paziente «È solo un’erba per profumare l’alito. Chiedi pure
a chi vuoi, ce ne sono alcuni che se la colgono da sole».
«Ah, ecco, è proprio quello che mi serviva.» fece la donna, attenta
«Sai, mio marito non fa altro che lamentarsi. Dice che gli sembra
di dormire col guardiano dei maiali».
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«Certo che potrebbe anche girarsi dall’altra parte» borbottò
Linda, porgendole le foglie.
«È quello che gli ho detto anch’io!» disse l’altra, toccando quasi
con riverenza le foglie che aveva sulla mano «Beata te che sei
ancora giovane e non ti devi preoccupare degli uomini. E, ah,
piccolina…» la prese per un braccio con la mano libera, facendosi
più vicina «Non è che potresti farmi un altro favore?».
«Tutto quello che vuoi, purché tu non mi stia così vicina.» disse,
turandosi il naso «Accidenti, tuo marito ha proprio ragione,
però».
«È per mio figlio.» bisbigliò la donna, senza spostarsi di un
centimetro «Hai sentito che è morto quello che curava il terreno
della quercia vecchia?».
«Certo, ci ho parlato giusto l’altra sera.» rispose con naturalezza,
per schiarirsi la voce un attimo dopo, davanti agli occhi sgranati
della donna «Sì, coi suoi parenti, intendo».
«Ma non era solo come un cane?» bofonchiò l’altra.
Linda si guardò intorno in cerca di una via di fuga.
«Beh, insomma, ho parlato con quelli che credevo fossero i suoi
parenti.» disse con un gran sorriso «Saranno stati… Non so,
lontani conoscenti. Ma dimmi cosa ti serve, su».
«È che, sai com’è… Ora quel terreno non ha più nessuno che se ne
occupi… Oh, per farla breve!» e si sporse di nuovo verso la
giovane, sussurrandole all’orecchio «È per il posto di
soprastante».
«Beh, bisognerebbe parlare col proprietario, immagino» ribatté
piano Linda, ritraendosi.
«No, no, per quello è già tutto sistemato! È che io pensavo a
qualcosa come…» e si soffermò qualche secondo a cercare la
parola «Un aiutino. Un piccolo incentivo, sai, giusto per
convincerlo che è il ragazzo giusto».
«Ah, quello».
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«Sì, quello! Una spintarella, magari… È un figliolo valente,
sarebbe proprio il lavoro che fa per lui».
«Qualcosa posso fare, sì.» disse Linda, pensandoci su «Un piccolo
rituale, devo solo aspettare la Luna giusta. O un talismano,
qualcosa da portare sempre addosso».
«Ecco, un talismano.» concordò subito la donna «Così se lo mette
al collo. Meglio che… Che un rituale, come hai detto tu. Sai, non
vorrei offendere nostro Signore, mi capisci…».
«Massì, massì, sta tranquilla.» la rassicurò la giovane «Devo
prepararlo, però. Ne ho un’infinità in casa, ma non ce n’è mai uno
come serve, ogni volta. Non mi ci vorrà molto. Ti avviso che non
faccio ancora miracoli, però».
«Oh, non fa niente, qualcosa farà, ti conosco!» gioì la donna,
congiungendo le mani e guardando in viso la ragazza «Sei una
brava bambina, Linda. Ma devi avere lavoro fin sopra i capelli,
poverina! Veniamo tutti quanti da te!».
«Non me ne parlare, di questi tempi sono veramente esasperata.»
ribatté la strega «Hanno chiesto di me persino a palazzo».
«A palazzo?» fece l’altra, sbalordita.
«Altroché!» rispose Linda, ed era già lì lì per vuotare il sacco,
quando avvertì qualcosa di piccolo e peloso graffiarle una caviglia
con una zampetta.
Abbassando gli occhi, vide Glosci che la fissava con aria
contrariata.
«Ma non posso dirti di più, proprio no, mi spiace.» si affrettò a
dire, chinandosi per prendere in braccio il famiglio «Sai come
sono i pezzi grossi».
La donna annuì brevemente, osservando con scetticismo lo strano
incrocio di creature che la fissava sospetto dalle braccia della
strega.
«A proposito, ho sentito che ne sono arrivati un paio di nuovi»
disse, e non ci voleva un genio per capire che moriva dalla voglia
di spettegolare.
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«Stranieri?» domandò Linda.
«No, un Conte che era già stato a corte, mi pare. Da Vallechiara.»
disse, saettando occhiate verso il palazzo in lontananza «È venuto
per fare il siniscalco e si è portato dietro il figlio. Un ragazzo che
avrà più o meno la tua età. Lo conosci?».
La giovane rimase in silenzio, fissando il viso della donna senza
muovere un muscolo. Ci volle una debole manata di Glosci per
farle capire che lo stava soffocando.
«No.» rispose infine «Mai sentito parlare. Ti preparo il talismano
quanto prima, d’accordo? Devo… Devo tener d’occhio la zuppa».
«Ma certo, cara, certo.» acconsentì l’altra, tutta allegra «Ti porto
un po’ della ricotta che facciamo, la devi assolutamente sentire.
Non ne assaggerai mai una più buona».
«Ne sono sicura» fece a denti stretti Linda, indietreggiando verso
la porta di casa.
«Le foglie allora le mastico? Due volte al giorno?».
«Una per pasto».
«Una per pasto, sì. Grazie, piccolina, anche a nome di mio figlio.
Passa a trovarci, qualche volta, magari quando anche lui è in casa.
È un così bel ragazzo!».
«Non mancherò» ribatté brevemente la giovane, aprendo la
porticina.
Come se la richiuse alle spalle, ancora curva per passare, tirò un
sospirone. Glosci non perse tempo a saltar giù a terra.
«La peggior malalingua di tutto il regno.» disse, infastidito
«Vorrebbe persino che tu andassi a trovarla, sperando che ti
invaghisca di suo figlio solo perché tu possa prepararle tutti gli
infusi possibili e immaginabili per i calli, la sciatica e l’alito
cattivo. E tu stavi per andarle a dire che lavoriamo per la regina.
Non ti piace proprio tenerti la testa sul collo».
«Piantala, sei un famiglio e devi tenermi d’occhio.» lo rimbrottò
Linda «Piuttosto, hai sentito? La regina l’ha già mandato a
chiamare».
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«Assieme al padre.» aggiunse Glosci «Quella donna non ha
proprio alcun ritegno».
«L’importante è preparare il filtro in tempo.» tagliò corto la
giovane «Il sangue di biscia l’ho raccolto, adesso bisogna
aspettare che sia pronto per essere utilizzato. Riguardo a quel
tonno che piace tanto alla regina, speriamo solo che non sia uno
stolto, perché una volta che avrà bevuto il filtro ho paura che ce lo
troveremo tra i piedi di continuo».
Tempo dopo il tonno in questione, assieme al padre, faceva
anticamera in attesa che la regina fosse nuovamente pronta a
riceverli. Era stata preparato per loro un comodo alloggio proprio
nelle vicinanze della sala del trono, provvisto di più servitori di
quanti ne avessero bisogno. Viviana voleva che i suoi ospiti
avessero la miglior sistemazione possibile e, soprattutto, fossero
sempre a sua disposizione nelle immediate vicinanze. Aleandro,
tuttavia, rimpiangeva Vallechiara e la sua libertà; anche suo padre
sembrava pensarla come lui, ma i doveri verso la corona erano per
lui vincoli sacrosanti. Per quanto avrebbe preferito tornare nella
sua terra, tra la sua gente, sarebbe stato disposto a sacrificare ogni
cosa per il bene del regno. Aleandro, che era molto obbediente al
padre, accennava solo di rado al suo malcontento e si teneva nel
cuore la propria nostalgia, senza farne parola con nessun altro.
Era quasi ora di cena. Affacciandosi a una finestra, si potevano
scorgere i camini fumanti delle case e, anche da lì, respirare il
profumo degli umili pasti che venivano cucinati. Lo stomaco di
Aleandro rispondeva rumorosamente a quegli odori: il suo nobile
rango non era bastato a inculcargli il disprezzo per la vita
semplice del popolo. Né a lui né a suo padre.
«A questo punto c’è da aspettarsi che discuteremo con la regina a
tavola» disse il Conte, in piedi davanti alla porta.
Aleandro si voltò a guardarlo, senza togliersi dalla finestra. A lui
più che ad ogni altro era evidente la mutazione che aveva avuto
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suo padre, da che erano arrivati a palazzo. Si era fatto più serio,
più cupo: il ruolo che gli era stato conferito l’aveva turbato,
anziché rallegrarlo. Il Conte, lontano dall’immaginare la vera
ragione della sua convocazione, temeva che la stabilità del regno
fosse in pericolo e lo inquietava il fatto che la regina non l’avesse
ancora messo al corrente di quale pericolo si trattasse. A
differenza del figlio, che era molto meno abituato alle
consuetudini della vita di corte, non si sarebbe però mai azzardato
a chiederle esplicitamente cosa non andasse. Dunque si
preoccupava soltanto di eseguire i compiti che gli venivano
imposti e di rispondere con prontezza alle richieste della regina.
Aleandro provava per lui un senso di apprensione e profonda
pena.
«Mi piacerebbe sapere qualcosa di più su questa regione»
annunciò, per spostare altrove il discorso.
Suo padre girò la testa per guardarlo. Anch’egli si era accorto di
come il figlio non si trovasse bene e se ne doleva, ma gli ordini
erano stati tassativi: Viviana voleva che Aleandro restasse a
palazzo.
«Questo posto non è Vallechiara» replicò allora, per scoraggiarlo.
«È molto più grande.» ribatté il giovane «Tutto quello che posso
fare è solo vederlo attraverso questa finestra. Anche quando siamo
arrivati qui, non ci siamo fermati nemmeno per un attimo. So che
non potevamo tirarci indietro alla chiamata della regina, ma ho
visto questi luoghi e questa gente solo di sfuggita, come un ladro
che scappa. A Vallechiara avevo modo di scendere in paese, di
parlare con gli uomini e le donne che ci servono».
«La gente di qui non è la stessa che vive nella nostra terra» lo
ammonì il Conte.
«Voi credete, padre mio? Io penso invece che non scoprirei grandi
differenze tra la brava gente di qui e quella di Vallechiara».
«Siamo molto lontani da casa e parecchie usanze di questo luogo
ci sono estranee, talune persino avverse: esse influiscono molto
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sul carattere delle persone, le rendono diverse da come ce le
aspettiamo».
«Non posso saperlo, se non esco da queste stanze e non imparo a
conoscerli. Da che siamo qui, non ho mai avuto modo di
allontanarmi dal palazzo».
«Questo luogo ti opprime solo perché ti senti ancora uno
straniero. Presto stringerai le amicizie che ti permetteranno di
restare senza sentirne il peso: ti aiuteranno loro ad ambientarti».
«Dame, cortigiani, nobili di alto lignaggio… Certo, è un gran
viavai. Ma quanti di loro sono affidabili? Quali pronunciano
parole sincere? Perdonatemi, ma sento la mancanza della
compagnia che mi offriva la gente modesta di Vallechiara. Non
foste forse voi a indirizzarmi verso di loro, a dirmi di avere più
fiducia in un contadino che in un ricco signore? Il vostro
insegnamento mi è rimasto impresso, lo porto sempre con me.
Anche in questo luogo».
Il Conte sospirò e chinò il capo. Lentamente, si mise infine a
sedere su una poltroncina e congiunse le mani, chino in avanti.
«Sai bene che non avrei voluto portarti con me, Aleandro: questo
è il palazzo degli intrighi e dei complotti, delle maschere e delle
falsità. Ed è vero, trovare un amico degno tra queste mura è
un’impresa ardua, a dispetto di quello che sembra. Ricorda
sempre: nulla qui è come sembra e ci sono pugnali nei sorrisi degli
uomini».
«A maggior ragione lamento la lontananza della nostra terra e
invidio la povera gente che posso solo scorgere da questa finestra.
La loro vicinanza mi rinfrancherebbe».
Il Conte alzò di nuovo lo sguardo su di lui e lo valutò in silenzio.
La somiglianza tra padre e figlio era evidente persino ai loro occhi,
chiara e lampante. Sapevano di essere in sintonia tra loro, di
condividere le stesse idee. Raramente capitava loro di essere in
disaccordo.
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«Cercherò di inventarmi qualcosa per farti uscire dal palazzo.»
disse, incapace di negargli ciò a cui lui stesso ambiva «Conosco
alcuni affezionati servitori che sarebbero disposti a coprirti».
Aleandro si allontanò dalla finestra per correre incontro al padre.
Lo ringraziò calorosamente e si chinò per baciargli la mano, ma il
Conte gli intimò di fermarsi con un gesto autoritario.
«Non più di un paio d’ore.» aggiunse severo «È bene che tu tenga
di più ai tuoi doveri che ai tuoi desideri».
«Saprò farmele bastare.» ribatté il giovane, rialzandosi «La vostra
concessione è più che generosa: attenderò la giusta occasione
senza scalpitare e farò tesoro del tempo che avrò a disposizione
senza abusarne».
«Taci, ora. Arriva qualcuno».
Si udì infatti bussare alla porta: il maggiordomo invitava il Conte
e Aleandro a prendere posto in sala da pranzo. La regina e la
principessa, disse, li avrebbero raggiunti entro poco.
Elisabetta in realtà era ancora nelle sue stanze, con un nugolo di
damigelle che le ronzavano attorno: chi le sistemava i capelli, chi
le unghie, chi si preoccupava del colorito delle sue gote, chi che il
suo naso non brillasse e chi se ne stava in piedi a leggerle ad alta
voce uno struggente romanzo d’amore che la principessa ascoltava
con un orecchio solo. Neanche Viviana era puntuale, dal momento
che proprio in quel momento irruppe, da sola, nella camera della
figlia. Tutte le damigelle interruppero il proprio lavoro
all’unisono.
«Uscite» ordinò la regina, fermandosi appena oltre la soglia.
«Sono pronta in un secondo, mammina» disse subito Elisabetta,
vedendola riflessa nello specchio davanti a sé; le fanciulle che la
assistevano le rivolsero un’occhiata preoccupata.
«Ho detto “uscite”.» ripeté Viviana «Lasciateci sole».
«Oh, mamma, solo un secondo!» protestò la figlia, girandosi sulla
sedia «Voglio sapere se coso, qua, si sposa.» e alzò il viso verso la
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damigella col libro aperto in mano «Com’è che si chiamava lui? Il
cavalier Panzerotto?».
«Fuori di qui, prima che vi faccia frustare tutte!» scoppiò la
regina, indicando la porta.
Le dame di compagnia mollarono ombretti, smalti e romanzetti
d’appendice e uscirono una dopo l’altra, in un turbine di gonnelle
tenute alzate per affrettare il passo. L’ultima, con accortezza, badò
bene di richiudere la porta.
«Devi sempre essere così triviale?» borbottò la figlia,
avvicinandosi allo specchio col viso «Ora guarda che bel risultato:
sono orrenda. Una via di mezzo tra una nobildonna imbellettata e
una pecoraia».
«Devi sempre essere così ottusa?» la rimbeccò Viviana,
decidendosi ad andarle incontro «Non sarai mai né l’una né
l’altra, col cervello che ti ritrovi. Che bisogno hai di tutte quelle
sciocchine che ti stanno attorno come avvoltoi?».
«Sta per partire un’altra predica?» fece Elisabetta, sbuffando e
cominciando a sventolarsi con uno sgargiante ventaglio di piume.
La regina strinse i pugni e chiuse gli occhi, obbligandosi a restare
calma.
«Sono soltanto venuta a dirti che voglio - anzi, pretendo - che per
una volta tu ti comporti come si deve.» disse, a denti stretti «Non
accetterò di essere messa ulteriormente in imbarazzo da te».
«In imbarazzo?» la principessa sgranò gli occhi «Che ho fatto?».
«A che cosa servirebbe se te lo dicessi? Tanto tra due minuti te lo
sarai già scordato».
«Uffa, ma se non mi dici dove sbaglio io come faccio a
comportarmi meglio? Non sei mai chiara».
Viviana si passò una mano sugli occhi, inspirando
profondamente.
«Elisabetta, questi sono ricevimenti importanti.» provò a
spiegarle «Ogni cosa che tu dici può mutare le sorti di tutto il
regno».
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«Addirittura?» chiese la figlia, sbalordita.
Viviana tirò un sospiro.
«Sì, addirittura.» rispose, scocciata «Quindi mi aspetto che tu sia
conforme al tuo regale ruolo. Che tu sia all’altezza delle
aspettative che ogni cortigiano ripone nella tua autorità che
d’altra parte, fatta eccezione per me, è pur sempre indiscussa.
Ognuno dei nostri sudditi, dal nobile al popolano, deve sentirsi
pienamente rispecchiato nelle tue parole e nel tuo agire.
Capisci?».
Elisabetta teneva le sopracciglia alzate, le labbra dischiuse. Dopo
qualche secondo, scosse silenziosamente il capo in segno di
diniego. La regina cominciò a tremare dalla testa ai piedi e alzò gli
occhi al soffitto.
«Pensa almeno tre volte a quello che stai per dire, quando saremo
di là!» esplose di nuovo «Pensaci una volta, un’altra e poi un’altra
ancora! Devi essere sicura che quello che dici non sia una
stupidaggine delle tue!».
«E se alla terza volta non sono ancora sicura?» domandò
Elisabetta, allarmata.
«Allora sta zitta!».
La principessa rimase come paralizzata, con la bocca stretta,
girata per metà sul suo sgabello. Giocherellò con le dita a vuoto
per prendere coraggio.
«Non è che posso restare qui, allora?» le chiese, speranzosa.
«No.» ribatté seccamente sua madre «Sei una principessa, anche
se hai il senno di una mula».
«Ma dove sta scritto che le principesse devono annoiarsi ai
ricevimenti con funzionari, tesorieri e nobili pancioni? Io volevo
andare a cavalcare, oggi».
«Sta scritto… Non importa dove sta scritto! Lo devi fare, punto e
basta!».
«Io lo voglio vedere scritto da qualche parte, altrimenti non
vengo».
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Viviana si trattenne dal saltarle addosso e strangolarla.
«Elisabetta…» cominciò, a denti stretti.
«Scusa, ma se non è scritto da nessuna parte, mamma» e si girò
verso lo specchio per non doverla guardare.
«Elisabetta».
«Se fosse scritto da qualche parte, tipo su un librone, potrei
tenerlo qua in camera, così saprei sempre cosa deve fare una
principessa».
«Elisabetta, insomma, vedi-».
«Elisabetta-vedi-di-dar-retta, Elisabetta-vedi-di-dar-retta»
cantilenò la figlia, dondolando la testa da una parte all’altra.
Viviana, con la vena gonfia sul collo e in mezzo alla fronte, non si
sarebbe trattenuta un attimo di più.
«Va bene, va bene, ci vengo.» disse però la principessa,
dimenando la treccia con una mano «Ma sappi che a me quel
Conte non mi piace proprio. È troppo vecchio per essere
interessante».
La regina si rigirò sui tacchi con un diavolo per capello.
«Mi basta che tu non dica niente, chiaro? Niente!» le ingiunse,
con le dita delle mani aperte dal nervosismo «Se stai zitta, per una
volta le cose andranno lisce come si deve».
Viviana aveva messo mano, per quell’occasione, ai tesori più cari
che possedesse: una collana di luminosi diamanti, anelli di fattura
finissima, frutto del lavoro dei migliori orefici del regno, e dei
sottili e provocanti orecchini di rubino. Ogni gioiello era stato
pensato per lei, per mettere in risalto quella bellezza che non era
ancora sfiorita, il viso ancora scevro di rughe, il collo liscio, da
cigno. Aveva indossato un abito bellissimo, che al contempo non
sarebbe apparso sgargiante; si era affidata alle mani esperte di
Gerda per il trucco solo perché le proprie insistevano nel tremare,
ma aveva guidato passo passo ogni minima sfumatura che veniva
deposta attorno ai suoi occhi, sulle sue guancie, sulle labbra
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tiepide. Si era adoperata perché tutto, a partire da lei stessa, fosse
perfetto. L’idea di non arrendersi, né alla vecchiaia né a
nient’altro, la spingeva a voler affrontare la fonte del suo affanno.
Infinite volte aveva fantasticato sulle possibilità di averlo per sé
senza bisogno di alcun filtro, di incantarlo soltanto con le sue
grazie: sarebbe stata una vittoria impareggiabile, al di sopra
qualsiasi convenzione. Al di sopra, persino, della magia stessa.
Ma Aleandro non coglieva alcuna allusione, nessun richiamo,
neanche quando la regina osava una posa ammiccante, più
esplicita di quanto richiesto. Tutte le meraviglie con cui aveva
adornato il proprio corpo non avevano sortito altro effetto che
quello di aumentare le distanze tra lui, giovane ancora ineducato
ai vizi come ai privilegi della nobiltà, e lei, così padrona del
proprio ruolo di sovrana. Si era spaventato. Viviana gli leggeva
nello sguardo un evidente senso di smarrimento, di
inadeguatezza. Nulla a che fare con l’inadeguatezza di Elisabetta,
ad esempio, eccetto quella comune incapacità di rendersi conto
della situazione. Quando tutto era così palese, eppure, e Viviana si
domandava come quei due ragazzi potessero non capire, ignorarla
sino a quel punto. Per timore, l’uno, e per stupidità, l’altra. La
capacità di Elisabetta di non riuscire mai a intuire niente la
sgomentava: la portava a chiedersi in che modo qualcuno avrebbe
potuto sopportarla. Eppure come riuscivano a parlare tra di loro,
quei due, separati dalle questioni di cui lei doveva discutere col
Conte. Solo perché in possesso dell’unica cosa che Viviana non
avrebbe potuto riottenere. Solo perché giovani.
La regina faticava ad ascoltare le parole del Conte, anch’egli
ignaro, tutto preso dal suo compito, col cinguettio sottovoce tra
Aleandro ed Elisabetta. Storie di cavalli. Si raccontavano storie di
cavalli. Mentre il Conte passava in rassegna le spese per il
mantenimento dell’esercito e la costringeva a prestargli almeno
un briciolo di attenzione, nonostante Viviana volesse implorarlo
ad ogni secondo di tacere. Era sola, sola come non lo era mai stata
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in nessun momento della propria vita. D’un tratto, si accorse che
Elisabetta la stava chiamando da alcuni secondi. Si voltò verso di
lei, senza riuscire nemmeno a sembrare infastidita.
«Mamma, ma ce l’hai portato tu quel mantellaccio lì in sala da
pranzo?» le domandò la figlia, indicando la parete di fronte a lei.
Viviana alzò gli occhi con aria confusa riconoscendo
all’improvviso una vecchia cappa di un rosso sgargiante contro il
muro. Per qualche ragione, non riuscì a spiccicare una parola
quando questa si mosse.
«Buon Dio, non siamo soli!» esclamò allarmato il Conte di
Vallechiara, girandosi sulla sedia.
Viviana si sentì quasi mancare per lo sfinimento. Si sorresse la
fronte con una mano, chiudendo gli occhi, mentre attorno a lei la
sala precipitava nel caos e tutti quanti saltavano in piedi. La strega
rossa restava ferma dov’era, con il bastone in mano e il cappuccio
abbassato sul viso. E Linda, sotto di esso, si sentiva morire di
vergogna. La regina risollevò la testa come un automa, con gli
occhi spiritati.
«Gerda!» cominciò a gridare, senza ancora staccarsi dal tavolo
«Gerda! Vieni qui, Gerda!».
«Ma non sarebbe più saggio chiamare le guardie?» obiettò il
Conte.
«Gerdaaaa!» si sgolava Viviana, reclinando il capo all’indietro.
«Oddio, la mamma dà i numeri. Il cerusico, occorre il cerusico!»
fece la principessa, portando una mano alla bocca e
indietreggiando di qualche passo, sino a finire contro Aleandro.
«Gerdaaaaaa!».
Quando finalmente la domestica accorse trafelata nella stanza,
rimase ferma per un attimo a guardare senza capire la smorfia
indicibile nel quale si era trasformato il viso della regina. Solo
successivamente si accorse della presenza della strega rossa. I
capelli le si rizzarono sulla testa e il viso le impallidì di botto, ma
si mosse quanto più velocemente possibile per andarle incontro.
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Linda raddrizzò al meglio la testa sotto quel cappuccio troppo
grosso per lei e già si stava schiarendo la voce, quando Gerda la
afferrò per un braccio, tirandola in disparte come si sarebbe fatto
con un animale molesto o un bambino pestifero.
«Volevo solo-» cominciò a dire, senza un gran successo.
«Di qualunque cosa si tratti, non potevate presentarvi in un’altra
occasione?» sibilò a denti stretti Gerda, con la testa piantata nelle
spalle.
Linda si passò la lingua sulle labbra, senza riuscire a spiccicare
parola. Alzò appena il viso, come se la stessa domestica potesse
cavarla d’impaccio, e Gerda alzò un sopracciglio non appena
scorse il bagliore di quel viso giovanissimo dalle guancie rosse
d’imbarazzo.
«È per via del filtro?» le domandò la donna, piegando il capo.
Linda annuì con entusiasmo.
«Ho tutti gli ingredienti.» rispose, e nella sala si era fatto un tale
silenzio che chiunque riuscì a sentirla «Basta aspettare la luna
giusta. Ho pensato che sua altezza volesse esserne informata.» e
indicò con un dito la regina, che dal suo posto le lanciò una saetta
dagli occhi «Sapete, con questa gente facoltosa non si sa mai come
rapportarsi».
Gerda rivolse uno sguardo a Viviana, riuscendo miracolosamente
a non farsi scappare neanche mezza risatina.
«Ah, ma adesso ho capito!» quasi urlò un istante dopo Elisabetta,
con gli occhi illuminati da un presunto colpo di genio «È la strega
rossa!».
Viviana crollò a faccia in giù sul tavolo - e nessuno la considerò.
«Santissimo Iddio!» fece infatti il Conte, portandosi una mano al
cuore «La strega rossa! È lei!».
«La strega rossa» ripeté a voce più bassa Aleandro.
«Ma da cos’è che se ne accorgono tutti?» bisbigliò Linda
all’orecchio di Gerda.
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«Per tutti i santi!» continuò il Conte, voltandosi verso la regina
«La situazione deve essere dunque veramente drammatica».
«Non immaginate quanto» replicò Viviana, senza neanche
risollevare la fronte.
«Oh, io la trovo una cosa molto affascinante, invece.» commentò
Elisabetta, battendo assieme le mani un paio di volte «Sapete fare
gli incantesimi, quelli che funzionano davvero? E le pietrine coi
segnetti, le collanine con quelle perline strane…».
«Intendete… Degli amuleti?» chiese Linda, perplessa.
«Uh, non lo so. A me dicono sempre che devo fare la principessa.»
bofonchiò l’altra, corrugando la fronte con incertezza «I ciondolini
magici quali sono?».
«Oh, beh… Tipo questo?» e infilò una mano nella tasca, tirando
fuori un amuleto che aveva dimenticato lì un paio di mesi prima.
«Sììì, come quello!» fece Elisabetta, tutta esultante, trotterellando
verso di lei «È magico? Funziona? Posso averlo?».
«Se ci tenete…» borbottò Linda, impreparata, quindi se lo rigirò
nel palmo un paio di volte, prima di porgerlo alla principessa.
Elisabetta prese il ciondolo tra le dita con aria sognante. Un
attimo dopo tornò indietro saltellando, senza esserselo ancora
messo al collo.
«Guarda bello, guarda bello! È un amuleto magico, ti piace? È
mio, me l’ha dato la strega rossa!» trillò in faccia ad Aleandro,
come se non si fosse già capito.
Viviana rialzò la fronte arrossata, mentre un tremito le scuoteva le
membra dalla testa ai piedi. Persino il Conte, intanto, aveva messo
da parte le faccende del governo per dedicarsi essenzialmente alla
propria curiosità.
«È un grandissimo onore incontrare una fattucchiera della vostra
fama. Una fama in grado di vincere anche il timore di un uomo
savio.» diceva, intanto che si piegava in un inchino «Sono il Conte
di Vallechiara: lietissimo di fare la vostra conoscenza».
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La strega rossa taceva, lo sguardo insondabile perso nell’osservare
i presenti. O almeno uno di essi, quello che non sapeva se aiutare
la principessa a mettersi l’amuleto o se concentrarsi su
quell’ospite del tutto inattesa.
«Più di una volta i vostri talenti hanno salvato queste terre dalla
rovina.» continuava il Conte «Il padre di mio padre già mi narrava
dei vostri interventi salvifici, e al contempo mi ricordava come
persino un’armata di diecimila uomini avrebbe dovuto pensare
a…».
Il Conte si interruppe, dal momento che la strega non aveva
ancora battuto ciglio e guardava fisso sempre nella stessa
direzione, cioè verso Aleandro. Guardò a sua volta il figlio, che
sembrava aver scelto di occuparsi dell’amuleto, alla fine. Fece
schioccare la lingua contro il palato, finendo di raddrizzarsi.
«Signora fattucchiera?» disse, per richiamare la sua attenzione.
«Prego?» ribatté Linda, tornando al piano terra.
«È mio figlio Aleandro, quello» la informò il Conte, e lo stesso
giovane si staccò dalla principessa come una molla.
«Felice di fare la vostra conoscenza.» disse subito quello,
piegandosi in un inchino «Vi chiedo perdono per non avervi
onorato come si conveniva fin da subito».
Linda dischiuse le labbra, stringendo le dita attorno al bastone
con quanta forza aveva.
«Avete forse avuto una visione?» domandò apprensivo il Conte.
«Visione?» ripeté la fanciulla, senza capire.
«Una visione riguardante mio figlio. Lo stavate fissando».
Ora anche Aleandro, che non si era accorto di nulla, alzò gli occhi
su di lei. Linda lo guardò in faccia per qualche secondo.
«Un caso.» ribatté quindi, con un sorrisone che a stento
riuscirono a intravedere «C’era… Una bestia brutta».
«Una bestia brutta attorno a mio figlio?» esclamò il Conte, al
colmo della preoccupazione.
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«No, no. Una bestia brutta nel senso di… Un ragno.» si schermò
confusamente Linda «Peloso. Non tanto, intendo. Però… Brutto.
Là dietro» e indicò una colonna nella stessa direzione.
«Un ragno? Dov’è un ragno?» Elisabetta schizzò via dalla colonna
con la reattività di un gatto.
Viviana, con la vena gonfia sulla fronte e i denti serrati, teneva
stretto il braccio di Gerda come se potesse trarne una qualche
forma di autocontrollo.
«Quel che doveva essere comunicato è stato comunicato
interamente?» domandò a Linda, scandendo le parole una per
una.
A parte i balbettii sconnessi di Elisabetta, nella stanza si fece
silenzio. Linda deglutì fin troppo rumorosamente, prima di
annuire.
«Allora Gerda vi accompagnerà alla porta, se non vi spiace.»
stabilì la regina, mollando la presa sul braccio della domestica
«Abbiamo ancora molto da fare, attorno a questo tavolo».
«Ma c’è ancora un ragno da qualche parte» piagnucolò la
principessa, tutta stretta nelle proprie spalle.
«Elisabetta, siamo nel medioevo! E in un castello! È normale che
ci siano i ragni!» ringhiò Viviana.
«I ragni dovrebbero stare solo nelle segrete a tormentare i
prigionieri. O in qualche caverna dove abita un mostro, tutta
piena di teschi.» ribatté la ragazza, stizzita «Come si vede che non
ti fai leggere i romanzi, mamma».
La strega rossa intanto usciva scortata dalla domestica, senza
smettere di rivolgere occhiate all’indietro, per quel che le riusciva
di scorgere da sotto il pesante cappuccio.
Rientrata in casa, Linda si era seduta su uno sgabello con ancora il
mantello indosso: i lembi si erano afflosciati comodamente per
terra, su una striscia di polvere di vecchia data. Guardava davanti
a sé, arrotolandosi di continuo una ciocca di capelli attorno a un
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dito e sciogliendola, per ricominciare daccapo un attimo dopo. A
tratti si interrompeva per un paio di secondi: sollevava le
sopracciglia e muoveva la bocca come per dire qualcosa, senza
tuttavia che riuscisse a uscirne fuori mezza parola.
«Ma insomma, com’è andata?» domandò Glosci per la terza o
quarta volta, in piedi sulle zampe posteriori.
Linda si fermò un’altra volta, fece un’espressione incerta senza
nemmeno guardarlo e si strinse nelle spalle.
«Mah.» rispose infine, con un gesto vago della mano «Così».
«Così come?» insistette il famiglio, confuso.
«Ma così, come vuoi che sia andata?» borbottò la ragazza «Bene.
Sì, cioè… Normale, diciamo. Così, via».
Glosci rimase zitto qualche istante, quindi si grattò la testa con
una delle sue manine, piccole e nere. Saltò giù dal tavolo sul quale
si era sistemato, andando a piazzarsi davanti ai suoi piedi. Linda,
tutta presa a fissare il vuoto, ci mise un minuto buono per
accorgersi che stava cercando di incrociare il suo sguardo.
«Beh?» fece, quando se ne fu resa conto.
«Cos’è che non mi stai dicendo, Linda?» le chiese il famiglio, tutto
sospettoso.
«Niente!» sbottò di colpo la giovane «Perché dovrei nasconderti
qualcosa, scusa?».
«Perché dovresti essere così nervosa, allora?» osservò Glosci.
«Chi ha detto che sono nervosa? Non c’è ragione per cui io sia
nervosa. Tu hai detto che io sono nervosa» ribatté Linda, piccata.
«Lo credo bene. Ti conosco».
«Piantala di fare la coscienza saputella, Glosci, chiaro? Dacci un
taglio».
«Ma se l’altro giorno hai detto che devo tenerti d’occhio!».
«E allora fai conto che non te l’abbia mai detto. Niente. Non ho
mai detto niente» e fece un segno netto con la mano.
Il famiglio si azzittì nuovamente, spostando lo sguardo altrove.
Ma Glosci sembrava esser veramente fatto per compensare
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l’irruenza della sua compagna: lasciò perciò passare qualche
secondo, fece un giro largo, prima di balzare morbidamente sulle
sue ginocchia e accoccolarcisi come un perfetto animale
domestico. Linda sbuffò, guardò in alto, in basso, gli diede anche
un colpetto per farlo scendere. Poi, piano piano, cominciò ad
accarezzarlo, quantomeno per dare un ordine ai propri pensieri e
riprendere un po’ di controllo di sé stessa.
«È che mi è parso di essere capitata in un momento poco
opportuno, oggi.» bofonchiò alcuni minuti dopo, sempre con gli
occhi distanti «C’era un ricevimento, un pranzo d’affari, qualcosa
del genere».
Glosci, facendo finta di nulla, drizzò le orecchie.
«C’era la regina, ed era parecchio nervosa.» continuò Linda
«Urlava, batteva la testa sul tavolo… Non sembrava proprio
tranquilla. Poi c’era anche la principessa, una svampita che non ti
dico. Anche il Conte di Vallechiara, quello famoso. E c’era…».
Si interruppe per un secondo. Glosci sentì il pelo sul proprio dorso
farsi ispido come tanti spilli, ma Linda non se ne accorse neppure.
«Sì, insomma, suo figlio. Quello del filtro. Aleandro, si chiama.»
riprese, solo per fermarsi ancora qualche secondo «È un bel
nome. È un bel ragazzo, anche, sì. Se l’è scelto belloccio, la regina.
Simpatico. Bello, sì. Ha un… Sì, un bel sorriso. Dei begli occhi. Dei
bei capelli...».
E sospirava. Ripeteva qualcosa, muoveva un poco la mano e
sospirava di nuovo, abbassando pian piano lo sguardo. Glosci si
girò di scatto, con gli occhi sgranati.
«Linda, ti sei presa una cotta per il salame di corte?» le domandò
di botto, allarmato.
«Io?» la giovane si ridestò di colpo, rialzando la testa indispettita
«Una cotta io? Per uno così? Ma stai scherzando?».
«Non lo so, ne parli in un modo…» disse il famiglio.
«Io non ne parlo in nessun “modo”! Non lo conosco, non so chi sia
e l’ho visto soltanto una volta! Che ti salta in testa, si può sapere?
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Sono la strega rossa, io! Cosa ti aspetti, che il primo ragazzotto che
arriva a palazzo possa impressionarmi in qualche modo? Io ho a
che fare con le forze dei quattro elementi, Glosci! Con la natura
stessa! Che ti aspetti che possa farmi un… Un nobiletto da due
soldi! È fuori discussione, assolutamente fuori discussione!»
Linda incrociò le braccia al seno, irritata «E non chiamarlo
salame» puntualizzò un attimo dopo.
Glosci non aveva smesso di guardarla per tutto il tempo, a
differenza di lei.
«È che sei tutta rossa in viso» le fece notare, con pazienza.
«Sono rossa perché mi fai arrabbiare!» esclamò la giovane,
sentendosi avvampare ancora di più a quell’osservazione «È
rabbia, hai capito? Non è vergogna, è rabbia. Mi fai arrabbiare,
punto e basta. E scendi, che pesi».
Dietro la spinta delle mani di Linda, Glosci balzò sul pavimento
senza fare una grinza. La giovane saltò in piedi in tutta fretta,
finendo per incespicare nella cappa: il silenzio del famiglio le
giunse più nitido di qualsiasi altro rumore. Strinse i denti,
schivando attentamente il suo sguardo.
«Non voglio sentire un’altra parola sull’argomento.» lo ammonì,
togliendosi il mantello di dosso a fatica «Né oggi né mai. Abbiamo
del lavoro da fare, se te lo fossi scordato, e non mi riferisco né alla
regina né a… Né alla regina, ecco. Va a recuperare dal baule la
roba che mi serve, piuttosto».
«Ma per chi mi hai preso? Per un mulo?» fece Glosci, di rimando
«È già tanto se riesco ad alzare il coperchio, del baule».
Linda sbuffò, levandosi finalmente di dosso la cappa.
«Già, dimenticavo che i famigli danno solo buoni consigli»
borbottò stizzita, andando a recuperare il suo armamentario da
sola.
Glosci, per tutta risposta, si mise a riorganizzare le candele.
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Il manto del destriero di Aleandro era madido di sudore: il
giovane, desideroso di sfruttare il più possibile la piccola evasione
che suo padre gli aveva concesso, aveva spremuto l’animale a più
non posso. I muscoli del cavallo tremavano ancora, quando
Aleandro smontò di sella e lo condusse al passo attraverso le
viuzze del borgo. Camminava e si guardava attorno con le labbra
aperte, incurante degli stivali bianchissimi che si lordavano di
fango ad ogni passo; gli odori che avrebbero fatto storcere il naso
a qualunque figlio della nobiltà lo rasserenavano, la vista delle
povere case del paese gli era più familiare degli arazzi dipinte
nelle sale del palazzo. E la voce gli sgorgò spontanea, attraverso le
labbra:
«Al di là della cinta e della fortezza,
la terra nuda sott’ogni asprezza
che si sbreccia al comando del sole,
prospera o muore dove solo esso vuole,
piacente si sveste o si copre per pudore
sboccia o si raccoglie nel dolore
sotto la sferza empia dell’inverno,
alle cure del paradiso o dell’inferno.
Oltre le mura e la brulla collina,
dal fossato alla brughiera vicina
dove l’occhio si sperde smarrito
e l’animo fiero si ritrova rapito:
Solo il coraggio mi vuole qua
sulla terra scevra di falsità.
Dove il lupo corre sciolto con la notte
e la pioggia batte sulle spoglie grotte,
71
l’aquila spadrona nel cielo nudo
e leva vincente il suo grido crudo.
E tuffarsi con gli occhi aperti
in distese di ghiaccio o deserti,
portato per la cavezza dall’ignoto
con i piedi penzoloni sul vuoto.
Mi empia i polmoni questo vento,
sia la sua l’unica voce che sento
frusciare tra i rami vivi del bosco
attraverso posti che non conosco.
Lo sguardo di un uomo più indietro,
l’orizzonte liscio come il vetro:
il soffio fiero della libertà
sarà tutto ciò che mi rimarrà».
Eppure, inevitabilmente, un senso di inquietudine lo tormentava:
un nodo allo stomaco, qualcosa che gli faceva apparire ogni
contorno come sfocato, fuori luogo. Tutto quanto appariva nel
posto sbagliato. Soprattutto lui stesso. Aleandro ne conosceva
bene la ragione: sapeva che non aveva niente a che fare col suo
lignaggio, col suo ruolo. La sua lingua non balbettava per il timore
delle persone che interrogava, le sue gambe non tremavano per
via del luogo in cui si trovava. Era la meta stessa, in quel
momento, a terrorizzarlo: una casetta dalla porta bassa, con una
finestrella sghemba in un angolo. Il giovane vi tentennò davanti
per qualche minuto, ora allontanandosi, ora avvicinandosi di
nuovo, ora sollevandosi sulle punte per gettare un’occhiata
discreta all’interno. Fece per sfiorare la porticina con i polpastrelli
e questa si aprì da sola con un lento cigolio. Le ombre all’interno
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si confondevano in un mosaico indistinto; Aleandro sporse il viso
oltre la soglia.
«È permesso?» riuscì a stento a sussurrare.
Gli rispose una vibrazione metallica appena accennata. Il giovane
ritrasse la testa di scatto, sbattendo la nuca contro la trave troppo
bassa della porta. Mezzo frastornato, provò a indietreggiare
ancora, ritrovandosi all’esterno. Un ragazzino lo fissava senza
parlare, con gli stinchi nudi che ciondolavano giù da un muretto.
Aleandro fu tentato di rimontare in sella e sparire al galoppo per
la vergogna, ma gli venne il sospetto che così sarebbe apparso
ancora più ridicolo. Facendo finta di nulla, quindi, chinò il capo
ed entrò nuovamente nella casa. La vibrazione non aveva cessato
neanche un istante: accompagnava i suoi passetti titubanti
all’interno della stanza sconosciuta, come il ronzio ossessivo di
mille calabroni. L’aria odorava di incenso profumato, così intenso
da ottundere i sensi. Poi, tutto d’un tratto, cominciarono a
risuonare dei colpi gravi, come se qualcuno stesse suonando un
largo tamburo di pelle. Aleandro guardò la porta che si era
lasciato indietro e lo spiraglio di luce che vi penetrava attraverso.
Aveva percorso sì e no due metri, eppure si sentiva imprigionato
tra quelle pareti soffocanti, sotto quel tetto basso. Se avesse
provato a uscire, ne era certo, la porta si sarebbe richiusa un
attimo prima, da sé, proprio come da sé si era aperta. Allentò il
nodo del fiocco attorno al collo per respirare meglio, andando a
urtare con il gomito contro una mensola che non aveva nemmeno
visto. Aleandro si ritrovò spalmato contro il muro ad arginare
maldestramente la caduta di una fila di boccettine di vetro.
Quando fu sicuro che anche l’ultima non si sarebbe sfracellata al
suolo tirò un sospiro, senza ancora staccarsi dalla parete.
Trattenne il fiato, accorgendosi che sia la vibrazione che i colpi di
tamburo erano cessati. Col mento e i gomiti ancora schiacciati
contro il muro, girò gli occhi verso l’arco che conduceva alla
stanza attigua. Nella luce tenue che filtrava attraverso la stanza si
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stagliava una figura ammantata, il volto celato dietro un pesante
mascherone di legno dai lineamenti deformati in una smorfia
grottesca. Le grosse piume di cui era adorno spiccavano come
un’aureola blasfema, i pendagli d’osso oscillavano ancora,
cozzando l’uno contro l’altro. Rimase ferma alcuni istanti, prima
di stendere un bastone nodoso verso di lui. Aleandro si ritrasse,
smanacciò, balbettò qualcosa, poi la paura ebbe il sopravvento. Si
girò, cominciò a scappare, mentre la figura lo rincorreva
goffamente sotto l’ingombro del mantello. La fuga di Aleandro
culminò nel rumore secco della sua fronte che si schiantava contro
la trave della porta, subito seguito dal tonfo mentre stramazzava
al pavimento. Linda gli corse in soccorso e si piegò su di lui,
togliendosi il mascherone dal viso. Lo guardò con gli occhi colmi
di panico per un istante, osservando l’impronta della trave che
prendeva forma sulla sua fronte.
«Oddio è morto.» mormorò, facendosi coraggio per sfiorarne la
pelle «Ho ammazzato il salame della regina. Gesù, Maria e tutti i
santi, ho ammazzato il salame. O madre terra, rendigli il suo
spirito. Che le forze degli elementi-».
«Ma la pianti di mescolare sacro e profano?» la interruppe Glosci,
zampettando velocemente sino al corpo disteso di Aleandro.
Con fare paziente gli passò le manine sul collo e sulle labbra,
sollevandogli poi una palpebra per volta per guardarlo nelle
pupille.
«C’è speranza, Glosci? Puoi salvarlo? Salvalo, per l’amor di-».
«Ma cosa vuoi salvare, non vedi che respira e che il battito è
regolare? Al massimo c’è il rischio che la botta l’abbia
rimbambito, ma di questo non mi preoccuperei troppo».
«Grazie al cielo.» Linda si portò una mano al cuore, chiudendo gli
occhi «Comunque me n’ero accorta anch’io. Dici che alla regina
piace anche un po’ tonto?».
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«Ti eri accorta di cosa?» ribatté il famiglio, piccato «Ma perché
invece di dire stupidaggini non vai a prendere dell’acqua? O
preferisci tenerlo steso sul pavimento?».
«Vado, vado.» fece Linda, rialzandosi in piedi «Ma questi sono i
compiti che spetterebbero a te, non a me».
«Non mi disturbare mentre effettuo una diagnosi.» disse Glosci,
allargando una narice di Aleandro «Uh, che belle mucose…
Sospetto trauma cranico. Forse dal cerume nelle orecchie potrei
desumere se ci sono stati danni a livello cerebrale…».
«Devi desumere ancora per molto?» la giovane tornò con un
bicchiere d’acqua in mano «Fatti in là».
«Cos’è, non riesci a prendere la mira se ci sono io in mezzo?».
Per tutta risposta, la strega rovesciò il bicchiere sul viso del
giovane, affogando anche il famiglio. Aleandro si riscosse di
scatto, spalancando gli occhi.
«Linda!» protestò Glosci, ritraendosi e passandosi le manine sul
muso bagnato «Era da bere!».
«Oh, perdonatemi se non ho mai fatto il corso di rianimazione
nobili!» replicò la giovane, incrociando le braccia indignata
«Potevi dirmelo, no? C’era il rischio che annegasse, poi? Non mi
pare».
«C-chiedo scusa…» balbettò Aleandro, riuscendo a sollevare un
poco una mano.
Subito l’espressione di Linda si sciolse in un sorriso delicato,
mentre si chinava per sorreggerli la testa.
«Ditemi, caro» sussurrò con voce angelica.
Aleandro spostò lo sguardo come meglio riuscì, individuando la
maschera ancora a terra, accanto a lui. Rabbrividì istintivamente,
facendosi forza per appoggiarsi al palmo di una mano.
«Credo di aver sbagliato porta» mormorò, passandosi una mano
sulla fronte.
«Oh, no, l’avete centrata in pieno.» commentò Linda «Sì, cioè,
volevo dire, dipende da cosa stavate cercando».
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Aleandro socchiuse gli occhi per qualche secondo, come se stesse
sforzandosi di ricordare.
«La casa della… Strega rossa?» domandò, intimorito.
Linda allargò il proprio sorriso da un orecchio all’altro.
«Allora l’avete trovata » rispose, e il sollievo era tutto suo.
Aleandro la fissò con una nota di stupore in viso.
«Voi sareste la strega rossa?» le chiese.
«Potete chiamarmi Linda, caro. Ce la fate a rialzarvi?».
«Credo di sì…».
«Ma certo che ce la fa!» fece sprezzante Glosci, dirigendosi verso
la cucina «Ha solo preso una botta in testa, mica una cannonata».
Aleandro, che si stava rimettendo in piedi, si immobilizzò.
«Ha veramente parlato qualcuno o me lo sono immaginato?»
domandò a Linda, evidentemente ancora rintronato.
«Oh, non badate a Glosci. Parla spesso a vanvera, è fatto così».
«Parla quella che non sa riconoscere un vivo da un morto» le fece
di rimando il famiglio dall’altra stanza.
«Più che altro ha una voce ben strana il vostro Glosci» disse piano
Aleandro, una volta in piedi.
«Trovate? Anche secondo me. È sgradevole, fastidiosa, proprio un
tormento per le orecchie. Dovreste sentirlo quando canta».
«La mia voce è proporzionata alle mie dimensioni.» ribatté Glosci,
affacciandosi sulla soglia «Ma le mie orecchie sono comunque
migliori delle vostre messe insieme. Ora che lo sapete…».
Aleandro sgranò gli occhi nuovamente, muovendo due passi
indietro. Linda lo fermò con un braccio mezzo metro prima che
picchiasse una terza volta la testa contro la trave.
«Ma… Quell’animale parla!» esclamò il giovane, sbalordito.
«Perché è un famiglio. Tutti i famigli parlano.» disse la strega,
indirizzandogli un’occhiata «Beh, magari non quanto lui».
«E che strano animale che è, poi».
«Non più strano di quanto voi lo sembrereste a me» brontolò
Glosci.
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«Oh, potete riferirvi a lui come a un roditore, andrà bene»
continuò Linda, conducendo il giovane sino alla cucina.
«Non che sia proprio esatto» puntualizzò il famiglio.
«Ed è anche pignolo, sì.» fece la strega, mettendo a sedere
Aleandro sulla sedia davanti al tavolo come se fosse un bambino
«È un raro esemplare di Ratto delle Sabine, in effetti».
«Uno degli ultimi» aggiunse orgogliosamente Glosci, quindi si
arrampicò sul tavolo, sdraiandovisi comodamente.
«Io credevo che-» cominciò il giovane.
Il famiglio gli puntò un ditino verso il naso con fare imperioso.
«Nulla di ciò che credi è reale, giovanotto.» disse, puntellandosi
poi sul gomito «Dà retta a chi ha visto più inverni di te».
Aleandro si ritrovò a fissare sconvolto quell’esserino peloso di cui
non aveva nemmeno mai immaginato l’esistenza, eppure
imbevuto di chissà quali poteri, intanto che la leggendaria strega
rossa, che all’apparenza non era più di una ragazza, armeggiava
attorno al tavolo. Tirò un sospiro, crollando la testa in avanti.
Linda gli fu immediatamente addosso con una pezza bagnata in
mano.
«Vi sentite di nuovo male?» gli domandò, apprensiva.
«No, solo-».
«Avete un bozzo in fronte grosso come un uovo, poverino».
«Lo immagino, ma-».
«Avreste bisogno di risposo, volete sdraiarvi?».
«È s0lo la tensione del momento».
Linda studiò quella risposta con aria confusa, prima di rivolgere
un’occhiataccia al famiglio.
«Tutta colpa tua, Glosci!» gli rimproverò, puntandogli un dito
contro.
«Mia?».
«Mi hai spaventato un ospite di riguardo! Non potevi stare
zitto?».
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«Io l’ho spaventato? A momenti si ammazza contro la trave della
porta e tu dici che l’ho spaventato io?».
«Uno shock dopo l’altro possono essere fatali per alcune persone!
E se fosse una mente fragile e sensibile? Ti rendi conto dei danni
irreparabili che potresti avergli causato?».
«Di certo il cranio non l’ha fragile. E poi non mi sembra un
mentecatto».
«Non intendevo in quel senso!».
«Quello che intendevo dire» si intromise Aleandro, riottenendo
subito tutta l’attenzione di Linda «è che non sono abituato a
trattare con certi… Poteri».
«Poteri?» fece la giovane, confusa.
«Parla di te, Linda» le ricordò Glosci.
«Ah. Sìsìsìsì, certo. Poteri, naturalmente. Il mio potere, ecco»
sollevò il dito come se fosse riuscita a fare il punto della
situazione, con un largo sorriso.
«E ammetto che non so nemmeno con quale coraggio sono venuto
fin qui.» riprese Aleandro, abbassando lo sguardo «Ma non saprei
proprio come fare, altrimenti».
«Oh, povero caro» sussurrò lei, con la pezza ancora nelle mani.
«Non so neanche cosa potrebbe costarmi tutto questo. Forse
dovrò versare il mio sangue, coprire il mio corpo di ferite, lordare
la mia anima nel peccato, condannarmi a mortificare le mie carni
e invano, perché le porte dell’Inferno si spalancheranno
ugualmente e dovrò subire le punizioni di diavoli e mostri per aver
osato desiderare tanto sino al giorno del giudizio in cui Dio padre
onnipotente si rifiuterà di concedermi l’assoluzione ultima e…».
Si interruppe, mentre Linda e Glosci lo fissavano in silenzio con
aria ugualmente perplessa. Aleandro si schiarì la voce,
avvicinandosi alla giovane.
«Per farla breve.» disse, posandole le mani sulle spalle «Voi siete
la mia unica speranza».
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«La vostra unica speranza» ripeté lei con un filo di voce, gli occhi
persi in quelli di Aleandro.
«Senza di voi sarei perso, come chi si smarrisce nel deserto»
riprese.
«Senza di me sareste perso» gli fece eco Linda, stritolando la
pezza come se si trattasse del proprio cuore, senza accorgersi di
come stesse gocciolando sul pavimento.
«Questo potrebbe costarmi carissimo, lo so, forse anche-».
«Ditemi solo quello che vi serve» lo esortò lei, prima che l’altro
ripartisse con una seconda sequela di sciagure.
Aleandro distolse lo sguardo, allentando appena la presa sulle
spalle della giovane.
«Potente strega rossa» cominciò lui.
«Potente stre-» fece per ripetere ancora Linda, ma si trattenne
«Sì?».
Aleandro tentennò ancora. La pezza era praticamente asciutta, a
differenza delle mani della giovane e del pavimento. Inspirò due o
tre volte, mentre Linda restava immobile.
«Siete in grado di preparare un filtro d’amore?» domandò infine,
tutto d’un fiato.
«Anche voi?» ribatté Glosci d’istinto.
«Anche io?» fece Aleandro di rimando.
«L’avete detto voi».
«Sìsì! Cioè, lo so, ma… Qualcun altro ve l’ha richiesto,
ultimamente?».
«Eh, uh, beh…» Glosci fece un gesto vago con la manina «Diciamo
che di tanto in tanto lo chiedono. E non è neanche un filtro che
porta all’Inferno, eh. Al massimo quei due-trecento anni di
purgatorio, credo. Dovrei dare un’occhiata al manuale dei vizi
capitali…».
Linda, da parte sua, era rimasta raggelata.
«P-per chi vi serve?» balbettò debolmente.
«È… Importante?» esitò Aleandro, cercando una scappatoia.
79
«Tocca, tocca.» mentì Glosci, con naturalezza «Altrimenti poi
l’incantesimo non funziona. Eh».
Il giovane abbassò gli occhi. In cuor suo, pensava persino se fosse
il caso di tirarsi indietro.
«Potrà apparirvi ridicolo.» mormorò «Ma se si fosse trattata di
una donna comune non avrei mai pensato a ricorrere ad un
sortilegio».
Linda non si mosse nemmeno allora. Non stava nemmeno sulle
spine: era già qualcosa se si ricordava ancora di respirare.
«La principessa Elisabetta» rispose infine Aleandro.
Glosci rimase di sasso. Linda no, o almeno, non per più di un
secondo. Andò verso il calderone a passo spedito, accigliata in
viso.
«Ma… Ho detto qualcosa che non va?» domandò Aleandro,
allarmato.
«No, no» tagliò corto lei, mentre Glosci saltellava verso il
calderone.
«E allora posso chiedervi perché state-».
«Vi preparo qualcosa da bere.» replicò lei con un sorrisone
mentre, non vista, rovesciava nel calderone il contenuto di una
boccetta con un teschio impresso sopra «Non vi va un drink?».
«Non vorrei disturbare…» disse Aleandro, timoroso.
«Nessun disturbo, caro. Ci metto solo un attimo. Sentirete,
sentirete».
«Ehm, Linda…» si intromise Glosci, preoccupato.
«Zitto, mio fedele amico, i famigli non possono berne».
«Temevo che vi foste adirata per qualche ragione» ammise
Aleandro che aveva ripreso ingenuamente fiducia.
«Nooo, io? Figurarsi, perché dovrei? È il mio lavoro. Magari ci
vorrà un pochino, eh. E qualche altra goccia, qui…».
Linda abbandonò il calderone per un attimo, senza neanche
nascondere l’espressione assassina che le era comparsa il viso, di
cui solo Aleandro non si accorse. Glosci, non visto, si affrettò a
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svuotare il contenuto di tutte le boccette di antidoti, dolcificanti e
sciroppi per la gola che trovò nelle vicinanze. Quando Linda si
voltò, lo trovò in piedi sull’orlo del calderone con aria trafelata,
mentre saltellava da una zampetta all’altra per non scottarsi. Saltò
via alla svelta, andando ad accovacciarsi davanti a tutte le boccette
che aveva tirato fuori.
«Pronto così» fece velocemente Linda, andando a pescare con un
mestolo un liquame marrone scuro, quasi nero, dal fondo del
pentolone; sorrise nuovamente, versandolo in un bicchierone di
terracotta «A voi, caro».
Aleandro studiò il liquido con scetticismo, stringendo il bicchiere
tra i polpastrelli.
«Ma… Fa delle bollicine» obiettò timidamente.
«Le deve fare.» rispose velocemente Linda, col mestolo ancora in
mano «È buono così com’è. Su, bevete, bevete».
Aleandro lo annusò sospettoso, avvertendo un pizzicorio al naso,
che tuttavia non gli parve sgradevole. Facendosi coraggio, ne
bevve un sorso, intanto che Glosci lo osservava speranzoso da
dietro il calderone. Si passò la lingua sulle labbra, facendola
quindi schioccare un paio di volte contro il palato.
«È… Frizzante. Ma dolce. Sorprendente.» disse, piacevolmente
impressionato «Ha come un retrogusto di… Non lo so. Le spezie,
forse» e buttò già un’altra sorsata, stavolta più abbondante.
Linda lo fissò con aria stravolta per alcuni secondi, quindi scagliò
un’occhiata rovente al famiglio.
«Sì, beh, non bevetelo tutto di fretta, vi potrebbe… Boh, fare
male» borbottò spazientita.
«In effetti fa venire un po’ di singhiozzo.» commentò Aleandro
«Ma ottima. Dà anche uno strano senso di dipendenza, vi dirò».
«Male, malissimo!» esclamò Linda, spalancando gli occhi «Avete
assolutamente bisogno di prendere dell’aria fresca! Meglio ancora
se tornate a palazzo, in un ambiente più familiare».
«Addirittura? Non mi sembrava…».
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«Date retta a me, che conosco i sintomi.» insistette Linda,
tirandolo sbrigativamente per un braccio «E non temete, il vostro
filtro sarà pronto quanto prima. Siete in ottime mani. Occhio alla
trave della porta, è bassa».
«Ma non vi ho ancora…».
«Non c’è bisogno di nulla, grazie.» la giovane lo spinse
direttamente da dietro la schiena, sbattendolo fuori con la
delicatezza di un orso «Arrivederci e salutatemi tanto la
principessa. Omaggi, auguri e via dicendo».
Aleandro si ritrovò di nuovo fuori, con la casetta della strega
appena dietro di lui. Si girò su sé stesso, guardando la giovane
attraverso lo spiraglio ancora aperto della porta.
«…Ringraziata.» riuscì infine a dire, con un breve inchino «Ci si fa
un’idea del tutto sbagliata di voi fattucchiere. Non mi aspettavo
che foste così… Piacevole».
Linda rimase ferma sulla soglia per un attimo. Infine annuì,
chiudendo piano la porta. Nuovamente al sicuro dietro di essa, vi
si appoggiò, chiudendo gli occhi e controllando il proprio respiro;
quindi spalancò di nuovo gli occhi, portando le mani ai capelli e
avanzando come una tigre infuriata verso la cucina. Glosci
ripuliva incuriosito il fondo del bicchiere di Aleandro.
«Così eccoci nei guai più di prima.» sbottò la giovane,
guardandolo male «E tu l’hai salvato! Io volevo solo avvelenarlo!
La dose non era mortale e tu hai... Sei stato tu, insomma!».
«Se l’avessi avvelenato poi cosa avrebbe detto la regina?»
domandò lui, staccandosi dal bicchiere.
Linda sbuffò, mettendosi a sedere a terra, con le braccia attorno
alle ginocchia.
«Per la scema di palazzo, poi. Elisabetta la sciacquetta. Bleah, non
so nemmeno io come ho fatto a…».
Si fermò, sbuffando nuovamente. Glosci la guardava con aria
sibillina.
«A innamorarti di lui?» intuì, divertito.
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«Non dirlo nemmeno per scherzo!» replicò inviperita Linda «È
già la seconda volta che tiri fuori questa storia! Già la seconda! E
ora lui è venuto qui e tu… E lui… E io…».
Si azzittì nuovamente, abbassando lo sguardo con rassegnazione.
Il famiglio tornò al proprio bicchiere con aria soddisfatta.
«Però è buona questa roba.» disse «Glosci-Cola. Potrei chiamarla
così. Non so perché ma suona bene».
«Ma che ne so.» brontolò la giovane «Che ci hai messo dentro?».
«Ah, non si dice. È un segreto. Non lo saprà mai nessuno».
Linda chiuse il discorso, sparendo col viso nelle sue stesse braccia.
Si prese un giorno per ragionarci sopra. A mente lucida, come si
ripromise. Di fatto, passò le ventiquattro ore successive
trattenendosi dal piagnucolare. Si trattava di una questione
importante, diceva, e rompeva un bicchiere per sbaglio. La
faccenda rischiava di diventare un controsenso, e Linda usciva di
casa per una passeggiata, solo per rientrarvi sì e no dieci minuti
dopo. Per la principessa Elisabetta, poi… E a quel punto si
chiudeva in camera sua, non prima di aver scacciato in malo
modo il famiglio.
L’indomani era uno straccio. Glosci la trovò seduta al tavolo,
smunta in viso e con le occhiaie marcate. Facendo finta di nulla, si
arrampicò su per un gambo, sino a che non si ritrovò davanti la
faccia provata della sua padrona. La fissò senza parlare per alcuni
secondi. Linda, per non intercettare il suo sguardo, buttò giù un
sorso del piccolo boccale che aveva davanti. Glosci tirò un sospiro,
sdraiandosi sul tavolo e appoggiando il muso alle manine.
«Devi per forza buttarla così sul tragico?» le domandò.
«Ho solo dormito poco» rispose svogliatamente la ragazza.
«Dì pure che non hai chiuso occhio» disse l’altro.
«Sono una strega. Se la notte non sto sveglia io, chi altri ci
dovrebbe stare?».
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Glosci si rifiutò di ribattere, stavolta. Inspirò una seconda volta,
solo per drizzare i baffi, insospettito.
«Cos’è questo odore? Pizzica il naso» fece, guardandosi attorno.
Un attimo dopo posò gli occhi sul boccale; la giovane lo coprì
prontamente con una mano.
«Linda, che stai bevendo?» le chiese, allarmato «Non è Glosci-
Cola!».
«Niente.» replicò velocissima lei «Acqua. Semplice acqua».
«Acquavite, semmai. A naso mi pare grappa di prugne».
«Il tuo naso si sbaglia».
«Linda, non è ancora ora di pranzo».
«Ti ho detto che è solo acqua!».
«L’ultima volta che hai bevuto mezzo boccale di birra poi ha
piovuto per un mese filato! Hai allagato cinquecento case e
fattorie, in piazza c’erano le trote e si è arenato un capodoglio nel
fienile del vecchio Tobia!».
«Però ho fatto piovere rane, dopo» si giustificò la giovane.
«Per forza, la gente doveva pur sfamarsi! Il capodoglio è finito in
una settimana!».
«E va bene, va bene.» si arrese Linda, allontanando il boccale con
una mano «Finito. Non bevo più, basta che la pianti».
Seguì qualche attimo di silenzio. La giovane si sorresse la fronte
con le mani, chiudendo gli occhi. Glosci approfittò del momento
per infilare di soppiatto la testa nel boccale e sbevazzarsi la
grappa.
«Stai pensando che non dovrei prendermela così, vero?»
domandò Linda, ancora senza riaprire gli occhi.
Glosci ebbe tutto il tempo per tirar fuori la testa senza essere
visto.
«D’altra parte, il filtro per la regina servirà a portarmelo… A farlo
innamorare di lei» continuò la giovane, correggendosi da sola.
«Stavi per dire qualcos’altro o me lo sono immaginato io?» fece il
famiglio.
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Linda lo ignorò di proposito.
«È che adesso mi ha chiesto qualcosa che andrebbe assolutamente
contro a quel che mi ha ordinato la regina.» continuò la strega
«Non posso far contenti entrambi».
«Beh, io direi che la precedenza ce l’ha la regina, no? Un po’ come
ha ragione la nostra testa a voler restare sul collo».
Linda stiracchiò le labbra, abbassando lo sguardo.
«È che non mi sembra giusto…» borbottò con rimpianto.
«Ah, adesso non ti sembra giusto? All’inizio non ti facevi tanti
problemi, eppure.» le rammentò il famiglio «Anzi, se ci pensi
bene, adesso sarebbe tutto più semplice: dare ad Aleandro il filtro
così da farlo innamorare della regina. Non c’è nemmeno bisogno
di inventarsi alcun espediente per convincerlo».
Linda rialzò gli occhi con aria spaventata, anche se solo per un
istante. Distolse lo sguardo un attimo dopo, lasciando Glosci a
guardarla con un’espressione preoccupata. Senza aggiunger altro,
la giovane si alzò dal tavolo, vuotando con noncuranza il boccale
nel calderone. Il famiglio guardò altrove a sua volta, indeciso sul
da farsi.
«Linda, io dovrei essere una specie di buona coscienza, per te.»
disse infine, con un certo rammarico «Posso darti consigli per
farti vivere a lungo o per preparare un incantesimo… Ma non
posso andar contro a ciò che sente il tuo cuore».
«Non te l’ho mai chiesto» mormorò la giovane, restando ferma
davanti al calderone.
«Devi stabilire da sola cosa puoi fare e cosa non puoi. Fossi in te
chiederei a una persona di cui puoi fidarti. Una che ti conosca
come me e sappia consigliarti un sistema per salvare capra e
cavoli, ecco».
«E chi?» Linda sorrise amaramente «Sono una strega, Glosci.
Vivo da sola. A parte te, non c’è nessuno che mi conosca così
bene».
«Beh…» fece il famiglio «In verità qualcuno ci sarebbe».
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La giovane si voltò a guardarlo. Glosci si era fermato accanto al
ritratto della donna bionda, vestita con la stessa cappa rossa che
era solita indossare lei. Linda socchiuse gli occhi, prima di
inarcare le sopracciglia.
«La mamma?» domandò, senza bisogno di ricevere una risposta.
Le nocche della donna batterono un paio di colpetti contro la
porticina, che si aprì un poco con un lungo cigolio. Nessuno,
tuttavia, si presentò sulla soglia. La donna indugiò qualche
istante, prima di radunare il proprio coraggio e spingere la porta
con la mano. Infilò guardinga la testa all’interno di quell’ambiente
sconosciuto, mossa dalla tentazione di poter finalmente sbirciare
nell’antro della strega rossa. Tuttavia si rese conto da sola dei
rischi a cui la esponeva la sua curiosità, per cui prese fiato e si
annunciò.
«Linda? Sei in casa?» domandò, muovendo un passetto
all’interno «Ero passata per quell’amuleto».
Era la stessa donna che qualche giorno prima si era recata dalla
giovane per via dell’alito pesante. La peggiore malalingua del
regno, come l’aveva definita Glosci. Nessuno, in ogni caso, le
rispose.
«La porta era aperta» disse, cominciando ad avere un po’ di
paura. Stava per girarsi, quando scorse dietro l’angolo di una
parete una figura accovacciata a terra, con indosso la tradizionale
cappa rossa. Tirò un sospiro di sollievo, facendosi avanti con
meno esitazione.
«Oh, Linda, meno male che sei qui. Volevo dirti che le erbe hanno
funzionato, ma mio marito ha detto che la puzza doveva venire da
qualche altra parte. Non è che hai-».
Si interruppe. Il corpo di Linda era fermo dove l’aveva visto, a
gambe incrociate davanti a un piccolo braciere che emanava un
fumo denso e dolciastro. Allo stesso tempo, tuttavia, una figura
nebbiosa che ricordava in tutto e per tutto la giovane si sollevava
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da esso, come levitando nell’aria. Si voltò a guardarla con aria
preoccupata, urlando con voce spettrale qualcosa come un “torno
subito!”, ma la donna non fece in tempo a capire cosa stesse
dicendo. Rovesciò gli occhi, crollando all’indietro priva di sensi.
«… insomma, ti dico che avevo chiuso!».
«Come no! È passata attraverso i muri!».
«E allora potevi chiudere tu!».
Linda e Glosci apparvero dal nulla senza smettere di bisticciare.
«Ti rendi conto che siamo nel mondo degli spiriti e che c’è una
tizia svenuta nell’ingresso di casa?» continuò il famiglio, agitato
«Sta diventando una moda!».
«Vorrà dire che d’ora in avanti mi farò pagare il biglietto, cosa ti
devo dire! Un fiorino a svenimento!» gli replicò Linda,
sbracciandosi.
«Buona eternità a voi» fece una voce.
Linda e Glosci si azzittirono. Un uomo pallido e smunto, alto ed
esile come un bastone, li fissava senza scomporsi minimamente.
«Ah, uhm, buondì» borbottò Linda, a disagio.
«Le devo ricordare che non c’è distinzione tra dì e notte,
nell’oltretomba.» spiegò l’ombra, impassibile «La suddivisione del
giorno in fasi ben determinate appartiene al mondo dei vivi. Qui
tutto si sussegue senza una ragione ciclica. Di fatto, nulla si
sussegue, perché nulla accade».
Linda incrociò le braccia, abbassando lo sguardo spazientita.
«Ciò nondimeno, la nostra esistenza non viene meno, ma
prosegue e si intreccia con i flussi sempre più numerosi di uomini
e donne destinati, come ognuno di noi, all’aldilà.» continuò
l’ombra «Tra l’altro, non basterebbe a spiegare la ragion d’essere
di spiriti ed entità che qui dimorano e che forse avrete modo
d’incontrare. Se-».
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«Senti, bello, conosco questo posto meglio di te. Piantala di farmi
la lezione o ti faccio ritornare in vita sottoforma di abete» lo
interruppe Linda, scansandolo con una mano.
«Ciò è nelle vostre possibilità.» ribatté quello «Ma, in quanto
spettro maggiordomo del mondo degli spiriti, se mi è consentito-
».
«No, non è consentito.» tagliò corto Linda, togliendoselo da
davanti «Cavolo, ma è l’aldilà! L’unico posto al mondo - anzi, fuori
dal mondo - in cui puoi passare la vita senza lavorare e tu ti metti
a fare il maggiordomo? Con cosa ti pagano?».
«La soddisfazione di un lavoro ben fatto è un adeguato
pagamento».
«Ah, sì? Allora per soddisfarmi dovrei prenderti a sberle».
«Ciò è nelle vostre possibilità».
«Linda, ci terrei a ricordarti che la durata dell’incantesimo è
limitata» le ricordò Glosci.
«E con questo? Dovrei ignorare tutti i pazzi che mi
importunano?».
«Calcolando che un abitante su due del mondo degli spiriti lo è…»
Glosci fece spallucce «Direi di sì».
«Non mi ci abituerò mai» brontolò lei, con un sospiro scocciato.
È forse il caso di dare una vaga spiegazione del luogo in cui Linda
e il famiglio si erano recati. Immaginate l’aldilà come un grande
continente pieno di città (o anche come una lunga strada piena di
case, non fa differenza, tanto il concetto di spazio non esiste, lì):
per ogni città, o casa che sia, troverete determinate persone, un
po’ come suonando un campanello vi risponde il padrone di casa.
Non ci sono limiti di spazio, se non quello della vostra fantasia, di
conseguenza i suoi occupanti tendono a farne un po’ ciò che
vogliono, anche perché qualsiasi luogo è immediatamente
raggiungibile, basta volerlo. L’unico problema viene dal fatto che
proprio questa libertà risulta eccessiva per qualche anima, al
punto che molti non riescono a darsi un freno e ammattiscono un
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tantino: ciò genera talvolta, come in questo caso, un caos
colossale. Linda, in quanto ancora viva, soffriva più delle anime
gli effetti di una tale confusione.
«Siamo ancora alla piana» disse Linda, guardando il terriccio
rossastro-fucsia-azzurrino-verde-giallo sotto i suoi piedi.
«È sempre quello il punto di partenza.» le rammentò Glosci «Devi
entrare in sincronia con le menti delle anime. Pensare come loro».
«Provare a chiedere non ha senso, vero?».
A quelle parole il viso di un uomo con la barba spuntò come un
fungo davanti ai loro piedi.
«Più in giù c’è l’oro! Oro! Oro! Deve esserci!» esclamò soltanto,
prima di sparire nuovamente sottoterra.
Glosci lo fissò con aria paziente, avvezzo ormai a quelle scene.
«Secondo te?» fece, in risposta alla domanda di Linda.
La giovane provò a camminare qualche minuto, con una mano
alle tempie per concentrarsi e, appunto, pensare con il cervello di
un defunto. Curiosamente, la prima cosa che le venne in mente fu
l’incrocio fra un pesce e una pecora a pallini che, come da copione,
le comparve davanti un attimo dopo.
«Evita di distrarti, se possibile» disse Glosci, mentre la pecora
nuotò via saltellando sulle gambe.
«Al diavolo! Com’è possibile che questo mondo funzioni? Qui
sono tutti matti! Non c’è un senso».
«Il senso basta sceglierlo.» disse il cartello indicatore davanti a lei
«Dov’è che vuoi andare?».
Linda strabuzzò gli occhi, restando per un attimo a bocca aperta.
«Ah, uhm, io…» e alzò gli occhi verso le frecce che indicavano le
direzioni.
Non aveva fatto in tempo a guardarle che divennero qualche
miliardo, troppe perché il cartello potesse reggerle, e crollarono
addosso ai due sollevando un mucchio di polverone bianco, nero e
rosa. Sotto di esse si sentì il sospiro del famiglio.
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«C’è di buono che questa roba non può far male, altrimenti se
fosse per te saremmo già rimasti schiacciati sotto qualche
tonnellata di indicazioni» borbottò.
«Quello lo sapevo anch’io.» ribatté Linda, acida, facendo poi una
pausa «Ma secondo te se morissimo qui dove andremmo a
finire?».
«Perché ti poni la domanda, quando sai che non è possibile?».
«Non so, così. Per parlare».
«Meno domande fai e più possibilità ci sono di non finire sotto un
punto interrogativo gigante. Ti spiacerebbe levarmi questa roba di
dosso, adesso? Sto immaginando di avere un crampo ad una
zampa».
Un attimo dopo le frecce partirono in ogni direzione (ovvero
ognuna nella sua, non fatevi domande o rischiate di ritrovarvi
come Linda). Glosci stiracchiò le membra, intanto che Linda si
rialzava goffamente sotto la cappa.
«Immagino che camminando non arriveremo da nessuna parte.
Non riesco a concentrarmi a quel modo, stavolta» ammise la
giovane, intanto che attorno a lei sfrecciavano qualche centinaia
di maratoneti.
«Ah, “stavolta”?» domandò Glosci, con sarcasmo «Fai prima a
cercare di evocarla direttamente».
«Forse è il caso».
Linda portò le mani alle tempie, chiudendo gli occhi. Un istante
dopo comparve un’imponente figura in grembiule, pentolone e
mestolo.
«Linda! Tesoro!» esclamò quella.
Glosci aggrottò la fronte.
«Non è lei.» disse, perplesso «È quella che stava dopo il
campanile».
«Mi sto solo scaldando» si giustificò velocemente la giovane.
«Ma ti ho preparato le frittelle! E l’arrosto alla brace!».
Una ragazza in armatura comparve accanto alla donna.
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«Oui, mademoiselle?» domandò subito, con un inchino.
«E questa chi è?» chiese Glosci.
«Je suis Jeanne d’Arc» rispose prontamente quella.
«Non dire nulla» disse velocemente Linda, e attorno comparvero
cinque o sei figure che nulla avevano a che fare in comune.
Giovanna d’Arco le guardò con meraviglia, prima di esclamare un
“parbleu!” e sguainare la spada.
«Qui c’è qualche inglese di sicuro» commentò Glosci «Fai prima a
cancellare e ricominciare da capo».
«What?» domandò qualcuno.
Una cinquantina di anime si affollarono tutt’attorno. Una
cominciò a vendere bruscolini, senza peraltro poter essere pagata;
la confusione tutt’attorno non poté far altro che aumentare. Glosci
rivolse un’occhiata dubbiosa alla sua padrona.
«Hai visto se c’è?» gli domandò la strega, ancora con le dita
premute sulle tempie.
«Ehm, veramente…» borbottò il famiglio, impreparato: era troppo
piccolo per vedere al di là delle spalle di tutta quella gente!
«Non riesco a mettere a mettere a fuoco quel che mi servirebbe…»
disse Linda, stringendo le labbra.
«Feu? Le feu?» gridò Giovanna d’Arco, allarmatissima, prima di
correre via.
Gli inglesi, che si erano seduti a prendere il tè (con i bruscolini), le
rivolsero appena un’occhiata, fedeli alla loro flemma. Uno di loro
domandò un altro “what?” molto altezzoso.
«Non disperare, Linda.» la rassicurò Glosci, con filosofia «In
fondo, adesso ce n’è una di meno».
«Non sono il tipo che si dispera» ribatté Linda, convinta.
«Domani in battaglia pensa a me e la tua spada cada col filo
smussato» annunciò un’anima, facendosi avanti.
«Eh?» fece Linda, colpita.
«Dispera e muori» incalzò l’anima.
Due giovinetti biondi e ricci le si affiancarono a quelle parole.
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«Dispera e muori» ripeterono a loro volta.
«Vaaaaaa bene.» rispose Linda, annuendo «Ora però basta».
Allargò le braccia e tutte le anime, compresi i tre spiriti
inquietanti, il venditore di bruscolini, Giovanna d’Arco che
correva lontano, gli inglesi, i bruscolini e il tè vennero
rapidamente e senza proteste inghiottiti dal terreno giallo-verde-
viola-marrone, che infine scomparse a sua volta. Linda e Glosci si
ritrovarono come sospesi nel nulla.
«Direi che avevamo passato il limite» disse la giovane, provata.
«Concordo.» Glosci si accarezzò i baffi, ora più tranquillo «Prova
a pensare a una situazione in cui potrebbe trovarsi».
Linda si sedette su uno sgabello rosso che si materializzò proprio
nel momento giusto sotto di lei e portò due dita alle tempie. Un
istante dopo passarono dal silenzio assoluto a un chiasso da
taverna, e lo stesso sgabello si trasformò in una panca di legno
affollata di ubriachi.
«Linda!» sbottò Glosci, contrariato, mentre la mano di un
omaccione lo scansava per raggiunger un boccale di birra.
«Non dirmi che non va bene. Hai avuto modo di conoscerla
meglio di me» si oppose Linda, da parte sua calmissima.
Attorno a loro uomini, donne e strani esseri bevevano,
mangiavano o urlavano sguaiatamente. Una creatura cornuta
ruggì poco lontano, prima di scavalcare un tavolo e buttarsi
addosso a una specie di orco. Dalle vicinanze giunsero risate
fragorose e urla di incitamento, mentre i due se le davano di santa
ragione. Linda appoggiò le guancie alle mani, ignorando la scena.
«Beh, se ci sono alcune cose che ricordo bene della mamma sono
proprio quelle che detestavo» disse, come a voler fornire una
spiegazione al famiglio.
«Non ti pare di esagerare un tantino?» domandò Glosci.
Linda si girò verso la sua sinistra, in tempo per vedere una specie
di angelo con le ali nere, bello come un dio.
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«Beh, sì…» confessò, alzando un sopracciglio «Forse non le
detestavo così tanto».
Glosci si batté una pacca sulla fronte, senza più speranze.
«Comunque, la volevi?» le chiese la giovane, stendendo solo un
dito per indicare qualcosa «Eccola là».
Il famiglio girò la testa e sbirciò oltre i tavoli. Nel bel mezzo di
quella baraonda, non aveva nemmeno fatto caso che un’orchestra
stava suonando (con degli strumenti a dir poco inusuali, come
tamburi in pelle d’osso, flauti di pietra pomice e violini senza
corde) ed era stata allestita una vera e propria pista da ballo. Lì si
esibivano acrobati, saltimbanchi, pagliacci, mangiatori di fuoco,
mangiatori di spade, mangiatori di stinco di maiale, cani a tre
teste, tacchini a Natale e ballerini più o meno improvvisati.
Noi siamo quelli che nel buio stanno,
quelli che non possono più far danno!
Quelli che erano più di là che di qua,
che si sono fermati dove meglio si sta!
Abbiamo dei balli che sono una bomba,
un rigor mortis a ritmo di tromba,
un tango per quelli con almeno tre mani,
una polka per chi non arriva a domani!
Su, fatti un giro col signore della peste,
il nostro migliore animatore di feste,
per ogni bacillo un cocktail omaggio,
fatti un giro, se ne hai il coraggio!
Matto come me o matto come te,
matto il papa, matto anche il re,
matti il sultano e l’imperatore
matti, matti, matti si muore!
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Bibite adatte per tutti i gusti,
fai un salto a vedere nei fusti
cosa galleggia, se birra o se vino
o magari anche un teschio sopraffino!
Balla coi morti, non avere paura,
non preoccuparti se la vita era dura
qui andrai avanti anche senza mangiare
ma che morte è, se non ti puoi sbronzare?
Dall’altra parte sbarcavi il lunario,
qua ti sei giocato anche il sudario
a dadi col diavolo, che bara, si sa
ma, alla fine, il problema dove sta?
Matto come me o matto come te,
matto il papa, matto anche il re,
matti il sultano e l’imperatore
matti, matti, matti si muore!
Fai un saltello pensando al vicino
che si alzò scornato un bel mattino
e ti bruciò la baracca e la stalla:
tanto lo ritrovi qui dove si balla!
La suocera racchia, lo zio taccagno
cosa vuoi che conti tutto il suo guadagno!
Strilli quanto vuole, pianga tutto il dì,
tanto alla fine ci ritroveremo tutti qui!
Tutti suonati, senza alcuna eccezione,
di matti faremo una grande nazione,
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da mane a sera a ballare e cantare
con spiriti e fate, senza più pensare!
Matto come me o matto come te,
matto il papa, matto anche il re,
matti il sultano e l’imperatore
matti, matti, matti si muore!
Nell’esatto centro della pista si dimenava una donna bionda e
grassoccia, all’apparenza non più giovanissima, ma sicuramente
piena d’entusiasmo. Inconfondibilmente vestita con lo stesso
mantello rosso che indossava Linda. Glosci si accarezzò
nervosamente il pelo sul collo.
«Sei sicura che sia lei?» bofonchiò, a disagio «Magari…».
«Magari è la solita di sempre» lo smentì Linda, quindi si sollevò
l’orlo della pesante cappa e salì poco educatamente in piedi sul
tavolo.
Qualcuno applaudì mentre la giovane saltava agilmente da un
tavolo all’altro, senza preoccuparsi di quanti bicchieri rovesciava o
di quante dita le rimanevano sotto il tacco delle scarpe. Quando
atterrò oltre l’ultima panca, l’attenzione di tutti si era ormai
focalizzata su di lei. Pochi, sparuti imitatori si misero a saltar sui
tavoli allo stesso modo, solo per scivolare o esser scaraventati di
sotto dai commensali meno tolleranti. Gli unici che sembravano
non essersi accorti di nulla erano giusto quelli che ballavano,
come se si fossero trovati in un’altra dimensione (il che, come i
lettori avranno ormai capito, in un mondo del genere non era
affatto da escludere). Linda si fece largo tra anime, diavoli, spiriti
e affini sino a quando non riuscì ad afferrare la donna per una
spalla. Quella si girò allegramente, senza smettere di ballare, solo
per spalancare gli occhi un attimo dopo.
«Linda! Piccola mia!» esclamò con un grandissimo sorriso «Sei
venuta a trovare la tua mammina!».
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«Avevo bisogno di parlarti» disse sbrigativamente la giovane.
«E c’è anche Glosci!» continuò la donna, euforica ed incurante
delle sue parole, intanto che il famiglio si arrampicava sulla spalla
della fanciulla «Piccolo briccone! Vegli ancora su mia figlia, eh? E
dire che pensavo di vederti da queste parti, ormai!».
«Spiacente, ma ho intenzione di restare di là ancora per un
pezzo.» ribatté il famiglio «A meno che non mi investa una
carrozza».
«Oh, voi vivi! Ormai ho rinunciato a capirvi!» fece la donna,
aprendo le braccia; e, ovviamente, non smetteva di ballare un
secondo.
Linda restava rigida come un palo.
«Mamma, ho detto che avevo bisogno di parlarti» incalzò ancora
una volta.
«Un altro giro! Finisco questo e arrivo!» e la donna non aveva
ancora finito di dirlo che volteggiò via.
Glosci, ormai arrivato sulla spalla della giovane, si sporse sino al
suo orecchio.
«Volendo puoi cancellare tutto questo baccanale» le ricordò.
«Per cosa? Perché mi tenga il broncio?» disse Linda, scuotendo
poi il capo.
Riportò quindi gli occhi sulla madre, rassegnata. Un attimo dopo
partì alla carica. La raggiunse, la prese per le braccia e la girò su sé
stessa una volta, poi due, tre. La mamma rise dive divertita, poi
sorrise, poi divenne dubbiosa e alla fine cominciò a non capirci
più niente. A quel punto Linda le posò un dito sulla punta del naso
e, come colta da una forza invisibile, la donna schizzò all’indietro
come un proiettile, atterrando una mezza dozzina di danzatori e
finendo fuori dalla pista. Linda sospirò.
«Come vorrei poterlo fare anche nel mondo reale» disse, prima di
andare a recuperare sua madre.
La trovò che scalciava a gambe all’aria in mezzo a un cespuglio,
ma non c’era da preoccuparsi che si fosse fatta male, visto che
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nell’aldilà questo è impossibile. Linda la prese per il polso per
aiutarla a tirarsi in piedi.
«Scusa, mammina, ma non ho tutto il giorno… O notte, o quel che
è» borbottò la giovane.
La donna, per tutta risposta, cominciò a strillare, fuori di sé. Linda
preferì allora lasciarla nel suo cespuglio e ritrasse la mano.
«Sai che così non otterremo nulla, vero?» le fece notare Glosci.
«E dovrei dargliela vinta, secondo te?» si impuntò la ragazza,
incrociando le braccia «Non ha mica ragione lei!».
«Ma ragione per cosa?» insistette il famiglio, passandosi una
manina sul viso, esasperato.
«Non puoi irrompere così nella mia vita!» urlò intanto la donna,
che ancora sgambettava «Sono tua madre!».
«Sei morta, mamma!» le ricordò Linda, gettandole
un’occhiataccia «Non posso più irrompere nella tua vita, come
dici tu!».
La donna fece silenzio qualche secondo, il tempo di riflettere su
quell’ultima affermazione.
«Non puoi irrompere così nella mia morte, allora!» gridò di
nuovo, correggendosi.
«Mamma, per…» Linda portò le mani alla testa dalla frustrazione,
quando avvertì una mano ferma stringersi attorno al suo polso.
Girò il capo incuriosita, ritrovandosi di fronte una signora
sconosciuta, il cui viso le parve però che avesse qualcosa di
familiare. Per non parlare della cappa rossa che portava, tale e
quale alla sua e a quella di sua madre.
«Non darle ascolto.» disse la signora, rivolgendo poi un cenno del
capo verso la mamma «Lei lo faceva di continuo… Non è così,
piccola maialina?».
«Piantala di chiamarmi così! Lo sai che non lo sopporto!» fece la
mamma, sollevando un pugno chiuso.
«Io ti chiamo come mi pare! Sei mia figlia, per cui abbassa la
cresta!» la donna spostò quindi lo sguardo sul famiglio,
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sciogliendosi in un sorriso «Ciao, Glosci. Sei morto anche tu, alla
fine?».
«Ma non aspettate altro, qui?» domandò il poveretto.
«Nonna?» fece intanto Linda, guardando la signora.
«Ma certo, tesoro.» rispose la signora, con dolcezza «Ora ti
spiacerebbe tirar fuori mia figlia di lì? Vorrei tornare a ballare».
«A… Ballare?» la giovane strabuzzò gli occhi «Ma nonna! È la
prima volta che ti vedo!».
«Appunto! Non ci siamo mai viste, quindi vuol dire che possiamo
continuare così. O vuoi che ti faccia sedere sulle mie ginocchia e ti
racconti di quando la tua mammina aveva sei anni?».
«Sarebbe così… Tenero» sussurrò Linda, incantata.
«Scordatelo, non sono morta per ritrovarmi una nipote che mi
tormenta anche nell’aldilà. Tira fuori la mia maialina da lì, io me
ne torno a ballare» e la piantò lì dov’era senza aggiungere altro.
Linda sollevò un sopracciglio, incerta, quindi guardò Glosci.
«Ci pensi?» gli domandò, con un sorrisone «Ho una nonna!».
«E cosa credevi, che tua madre l’avessero trovata sotto un
cavolo?» disse il famiglio.
«No, ma… È mia nonna.» ripeté Linda, per poi storcere la bocca
«Ed è un’arpia».
«Oh, non crederai di essere tanto meglio, spero.» bofonchiò
Glosci «Se lasciassimo stare le nonne e andassimo a ripescare le
mamme, invece?».
Linda crollò il capo, chiudendo gli occhi un attimo per tornare
padrona di sé. Infine raggiunse nuovamente il cespuglio: la
mamma aveva sempre le gambe all’aria, ma aveva smesso di
dimenarle e di strepitare. Già un passo avanti, si disse. Linda le
batté due colpetti su un ginocchio.
«Che ne dici se cominciamo a trattare, mamma?» le domandò,
sporgendosi per guardare la sua espressione.
«Proprio adesso? Avevo trovato una posizione comoda» rispose
quella, con molta calma.
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Linda la tirò fuori di lì prima che ne nascesse una nuova
questione. La mamma si scrollò di dosso la polvere (che non c’era)
con una mano.
«Mi fa piacere vederti mamma.» disse la giovane «A differenza di
te, a giudicare da quanto strillavi».
«Ma smettila, lo sai che sono sempre contenta di vederti.» ribatté
la donna «Certo, potevi scegliere un momento più opportuno».
«Come no! La prossima volta aspetterò che ti faccia viva tu».
«Venendo al punto…» si intromise Glosci.
«Stai diventando noioso, lo sai?» disse Linda, guardandolo male.
Ma, per una volta, la ragazza decise di dargli retta. Così, tirato un
buon sospiro, snocciolò tutta la storia, colorando qualche
dettaglio per farla apparire più interessante ed escludendone altri
che avrebbero potuto causarle imbarazzo. Bene o male,
comunque, alla fine era riuscita a dare un’idea molto generale
della situazione. Soprattutto, però, aveva fatto molta attenzione a
far passare Aleandro come il buon vecchio salame di corte, e
soltanto quello. Sua madre ascoltò senza interrompere, sino a
quando Linda concluse con un “e questo è tutto”. A quel punto
sorrise, battendo assieme le mani e portandole poi alle guancie.
«La mia bambina si è innamorata!» esclamò, radiosa.
Linda sbiancò di botto. Glosci, che era salito sino alla sua spalla,
scivolò e finì di sghignazzare per terra.
«Io non ho mai detto-» cominciò la giovane.
«Oh, ma si vede. E anche bene.» la interruppe la mamma «Allora,
com’è? A parte salame, intendo. Non avrete solo quello in
comune, spero».
«Non chiamarlo salame!».
«Oh, non ce l’hai chiamato anche tu, prima?».
«Non è un salame! E non lo sono nemmeno io!».
«Alto, moro e coi riccioloni.» s’intromise Glosci, perfido «E
salame».
«Uh, allora somiglierà a tuo padre» osservò la mamma.
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Linda, che aveva già afferrato il famiglio per la coda, si
immobilizzò. Da sempre, sua madre si era rifiutata di parlarle di
quell’uomo che, eppure, doveva pur essere da qualche parte.
«Anche papà era alto, moro e riccio?» domandò, di colpo seria.
«No, nel senso che era un salame» rispose la mamma, per poi
rimettersi a ridere.
Linda la colpì con la prima cosa che le capitò a portata di mano,
cioè Glosci, che per sua fortuna fu abbastanza svelto da
aggrapparsi in tempo alla spalla della donna. La giovane mollò la
presa stizzita, incrociando le braccia e puntando i piedi.
«Ho come il presentimento che questo incantesimo stia per
svanire» disse, molto contrariata.
«Così presto? E io che pensavo fossi venuta per una buona
ragione.» ribatté la donna, accarezzando istintivamente il famiglio
che un tempo era stato il suo «Non volevi un consiglio? Un
parere? Un’idea?».
Linda la fissò con aria estremamente scocciata.
«E quale sarebbe questo consiglio?» le chiese, sperando che fosse
la volta buona.
«Uh, ma è molto semplice.» rispose la mamma, tranquillissima
«Devi dire tutto alla regina».
Linda strabuzzò gli occhi.
«Oh, eccetto il fatto che quel giovanotto ti piace, naturalmente»
aggiunse un attimo dopo.
«Non mi pare che sia quello il problema!» disse la ragazza, agitata
«Ti rendi conto di quello che dici?».
«Stavolta non ha detto che non gli piace» notò Glosci.
«Doppia negazione afferma.» sintetizzò la mamma, sfoggiando
così tutta la sua cultura « Ma certo che devi dirglielo, tesoro.
Perché non provi a pensare a cosa succederebbe?».
Linda alzò un sopracciglio, senza capire. La mamma sospirò,
intanto che metteva a terra il famiglio.
100
«Come la regina verrà a sapere che il suo pupillo si è perso dietro
a sua figlia - che la regina odia - diventerà verde d’invidia e le
proibirà di sposarlo».
«Questo non risolverebbe la questione per niente» si oppose la
ragazza.
«E tu credi che la regina vorrà saperne qualcosa di lui, dopo una
storia del genere? Sei proprio una bambina se lo credi ancora.»
Linda abbassò lo sguardo. In quel momento, le andava bene anche
di passare per una bambina, se questo avesse potuto aiutarla a
salvare Aleandro sia dalla regina che dalla principessa.
«Non può arrivare a odiarlo da un giorno all’altro, però» borbottò,
ancora poco convinta.
«Non può? Ma certo che può!» fece sua madre, ridendo «È una
donna! Come me. E come te. Tutte e tre con un debole per i
salami, oltretutto. Più o meno è per questa ragione che ho spedito
via tuo padre a calci, sai?».
«Pensavo fosse morto» disse Linda, sorpresa.
«Morto? Gli converrebbe, non preoccuparti! Ad ogni modo, la
regina è più ragionevole di quel che sembra. E decisamente molto
emotiva. Come minimo lo spedirà in missione in mezzo al deserto,
fidati.» la mamma posò le mani sui fianchi robusti, chinando il
capo di lato «Ora posso tornare a ballare? Tra l’altro, a giudicare
da come ti stanno scomparendo i piedi, direi che l’incantesimo sia
terminato davvero».
Linda abbassò gli occhi di scatto, mentre i lembi della sua veste si
facevano trasparenti.
«I miei piedi!» gridò, spaventata «Dove sono i miei piedi?».
«Mmm, forse sono già nel mondo dei vivi.» ipotizzò la donna
«Devi starnazzare così tutte le volte che l’incantesimo finisce?».
«Le mie mani! Non ho più le mani!» continuava intanto Linda,
fuori di sé «Santo cielo, e adesso come farò a grattarmi il naso?».
«Lo strofinerai contro un muro. Ciaociao, tesoro, torna a
trovarmi!».
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Pochi istanti dopo, l’intera figura di Linda e Glosci erano sparite.
Viviana camminava avanti e indietro per la grande camera, ora
congiungendo le mani dietro la schiena, ora torturandosi le dita
una per una. A tratti guardava fuori dalla finestra, senza riuscire a
stimare quanto tempo mancasse ancora all’alba. Non c’era un
posto che trovasse abbastanza comodo per restarvi seduta (o
almeno ferma) né esisteva qualcosa che potesse distrarla in alcun
modo. Addirittura, colta da un improvviso fastidio, si tolse
persino la corona di testa e la gettò sul letto. Gerda, seduta su uno
sgabello in un angolo della stanza, la guardò con aria annoiata.
«Non sopportate più il peso della corona, adesso?» le domandò
ironicamente.
«Non è ancora arrivata.» replicò stizzita la regina, per tutta
risposta «Come minimo si farà viva solo quando tutto il castello
potrà vederla, come sempre».
«Stavolta credo invece che farà un’eccezione. Per una volta che si
è persino annunciata con una lettera…» e la domestica ammiccò
verso la busta che Viviana aveva lasciato davanti allo specchio.
La regina non rispose, né smise di fare avanti e indietro per la
stanza. Senza più parlare, impiegò almeno cinque minuti a
cambiarsi di dito gli anelli che aveva, in quasi tutte le
combinazioni possibili. Nello stesso momento in cui si apprestava
a ricominciare, si udirono battere quattro colpi alla porta. Viviana
si arrestò di colpo, facendo poi un veloce cenno a Gerda. La
domestica obbedì senza fiatare, come aveva sempre fatto e, come
aprì la porta, si ritrovò la strega rossa ritta sulla soglia.
«Entrate» disse subito Gerda, sapendo di assecondare i desideri
della sua padrona, e si fece da parte.
Linda, col cappuccio rosso tirato fin sul viso e il bastone nella
destra avanzò lentamente all’interno della stanza. Viviana lanciò
un’occhiata alla corona, ma le risultava troppo fuori portata
perché facesse in tempo a rimettersela in testa. Le sembrò di
102
essere nuda di fronte a quella che, a tutti gli effetti, era una sua
suddita.
«Spero sia importante.» parlò con durezza fin da subito, così da
essere certa di far pesare la sua autorità regale «Hai il filtro con
te?».
Linda strinse la mano attorno al bastone per farsi coraggio.
«Ci sono delle… Complicazioni» mormorò, cercando di non
apparire nervosa.
«Complicazioni? Come sarebbe a dire?» ringhiò la regina «Avevi
detto di aver tutti gli ingredienti!».
«Il filtro c’è.» si affrettò a rispondere Linda «Cioè, lo preparerò
domani notte. I problemi sono… Di altra natura».
«Se tu hai il filtro, qualsiasi problema sarà spazzato via» tagliò
corto Viviana.
La giovane tentennò ancora qualche secondo, poi inspirò a fondo
e riaprì bocca.
«Si tratta di vostra figlia» riuscì a dire, con un filo di voce.
La regina la guardò con stupore, prima di corrugare la fronte in
un’espressione seccata.
«Mia figlia?» domandò con asprezza «Che altro ha combinato
quella maledetta stupida?».
Linda realizzò che, se non altro, la mamma non si era sbagliato
nel rapporto tra la regina e la principessa. Questo la rassicurò
quanto bastava per raccontare anche a lei quel che era successo,
facendo ancora più attenzione a non rivelare alcun particolare che
potesse cacciarla da sola in qualche guaio. Alla fine del breve
racconto, Viviana sembrava un fantasma. Pallida in viso,
indietreggiò sino a farsi cadere a sedere sul bordo del letto. Molto
poco regalmente, si sarebbe potuto dire. Strinse le dita sulle
coperte pregiatissime, crollando il capo in avanti. Gerda le si fece
vicina: nessuno, a parte lei, aveva mai visto la regina in quello
stato. Viviana però disdegnò il suo aiuto con un gesto della mano;
rialzò la testa, guardando con aria convinta la strega.
103
«Se questo è ciò che Aleandro vuole, non sarò io a impedirglielo.»
disse con sicurezza «E dubito che Elisabetta avrà qualcosa da
obiettare. Se avesse un po’ di cervello, forse, ma non è il suo
caso».
Seguirono alcuni attimi di silenzio, che Linda si sentì in dovere di
spezzare.
«Quindi rinunciate al filtro?» domandò, speranzosa.
«E perché mai?» fece invece Viviana, sorprendendola «Ti ho
ordinato un filtro d’amore e me lo porterai. Ma questo
matrimonio si farà, dal momento che andrà bene ad entrambi.
Mia figlia è in età da marito e se Aleandro chiederà la sua mano…
Anzi, non ci sarà bisogno che la chieda. Gliela concederò io
stessa».
Sia Gerda che Linda la fissavano senza riuscire a credere a una
parola. Viviana si rialzò dal letto come se nulla fosse, risistemando
le pieghe della gonna.
«Hai fatto bene ad avvisarmi, strega.» disse, di nuovo padrona di
tutto il suo contegno «Ora, se non c’è altro, puoi andare».
La giovane era rimasta impietrita lì dov’era. Le ci volle qualche
secondo (e il braccio di Gerda ad accompagnarla) per venire
scortata verso la porta. Quando fu di nuovo sulla soglia, si voltò
indietro, mostrando senza accorgersene la sua espressione
smarrita, dipinta su quel viso così giovane. Viviana fece appena in
tempo a notarlo che Gerda chiuse la porta, lasciandola con
un’espressione di meraviglia sul volto. La domestica attese dietro
l’uscio chiuso alcuni secondi per essere sicura che la strega se ne
fosse andata, prima di spostare lo sguardo su di lei.
«Da quando vi preoccupate del bene di vostra figlia prima che del
vostro?» le domandò senza mezzi termini.
«Non essere insolente, Gerda» la rimproverò l’altra, tornando a
sedersi sul letto con molta più naturalezza.
104
«E voi non mentitemi.» insistette la domestica «Sarei cieca se non
mi fossi accorta che state tramando qualcosa e state sicura che
prima della fine avrete bisogno di me».
Viviana tacque per qualche secondo, passandosi ripetutamente le
mani tra i capelli per ravvivarli.
«Non hai sentito? Aleandro arde d’amore per Elisabetta.» disse
«Credi forse che sia una bugia?».
«Nient’affatto. Mi sembra strano che voi non ve ne siate accorta
da sola, più che altro».
«Quindi si sposeranno. È tutto molto semplice».
«No che non lo è. Non rinuncereste a lui per nulla al mondo.»
obiettò Gerda, certa di non sbagliare «Perché volete il filtro,
allora? Di certo non per darlo a vostra figlia».
«Il filtro è per Aleandro.» rispose seccamente la regina «Hai
sempre detto che per me sarebbe sconveniente sposarlo, no?
Ebbene, sarà Elisabetta a sposarlo e a salvare le apparenze».
«Volete usare vostra figlia come facciata?» Gerda spalancò gli
occhi, sgomenta «È vostra figlia!».
«E con questo?» Viviana la guardò sprezzante «Aleandro sposerà
Elisabetta, ma amerà me. La gente non saprà mai la verità e io
non dovrò dividere il potere con nessuno. Direi che meglio di così
non potrebbe andare».
«Ma pensate allo scandalo se si venisse a sapere! Se il popolo-».
«Se Elisabetta è stupida, non aspettarti che il popolo sia migliore
di lei.» la interruppe la regina «Non si accorgeranno mai di
niente, né lei né loro».
Gerda si passò una mano sulla fronte.
«Spero che ritroverete il senno. State esagerando» disse, cercando
di farla ragionare.
«Non ho chiesto il tuo parere» Viviana storse la bocca in una
smorfia mentre lo diceva, quindi intrecciò le dita e vi appoggiò
sopra il mento.
105
La domestica non disse altro, tornando al suo sgabello. Forse
avrebbe potuto andarsene finalmente a letto solo chiedendolo, ma
intuiva dallo sguardo della regina che doveva esserci dell’altro.
Qualcosa che, a giudicare dalle premesse, a dir poco la turbava.
D’un tratto infatti Viviana rialzò gli occhi, cercando lo sguardo
dell’altra donna.
«Ti sei accorta della strega?» le domandò di punto in bianco.
Gerda comprese in un attimo a che cosa la regina si riferisse.
«Che cosa intendete?» domandò, fingendo di non saperlo.
«Quando è uscita le è scivolato un poco il cappuccio all’indietro.»
continuò l’altra «Ha l’aspetto di una ragazza molto giovane.
Dell’età di Elisabetta, direi».
«Forse è davvero una ragazza» osservò Gerda.
«Eppure la strega rossa è al servizio del regno da secoli. Possibile
che… Ma non importa.» scosse il capo con decisione «Hai notato
come parlava di Aleandro?».
«Non ci ho fatto caso» mentì la domestica, distogliendo lo
sguardo.
«Lo ama. Ne sono certa.» Viviana risollevò il viso, distorto dall’ira
«Ha provato a non farmelo capire, ma è giovane. È giovane e lo
ama».
«Adesso state-».
«Non ripetermi che sto esagerando, Gerda!» ribatté aspramente
la regina «Solo un idiota non se ne sarebbe accorto!».
«Anche se fosse, qual è il problema?» la domestica provò a
placarla, mantenendosi calma a sua volta «Aleandro non potrebbe
mai provare niente per una strega vecchia di secoli».
«È bella. È bella ed è giovane» ripeté la regina, stringendo le mani
a pugno.
«Ma è ugualmente una strega. E lui un nobile».
Viviana sembrò riprendere il controllo di sé stessa. Abbassò lo
sguardo, dischiudendo le labbra per trarre un lungo respiro.
106
«Ad ogni modo, è a conoscenza dei miei piani.» mormorò «Ed è
pericolosa. Solo il Diavolo sa di quali poteri può essere dotata».
La regina spostò l’attenzione sul letto, sino alla corona che vi
giaceva ancora sopra. La guardò a lungo, prima di distogliere
nuovamente lo sguardo.
«Quando mi avrà consegnato il filtro, dovrà sparire» aggiunse, per
poi serrare le labbra.
Gerda rimase in silenzio e immobile, badando che nulla tradisse il
suo orrore per quel nuovo delitto. Non fece una piega, aspettando
con pazienza il momento in cui Viviana le ordinò di uscire dalla
camera e di andare a riposarsi.
La regina non esitò nemmeno un giorno nell’offrire la mano della
figlia al giovane Aleandro. La notizia delle nozze fece il giro del
regno: non erano ancora stati avviati i preparativi che già
giungevano lettere di congratulazioni da ogni famiglia nobile. Il
popolo, allo stesso modo, non perse tempo a festeggiare la notizia
e nei villaggi di confine come nelle grandi città la gente si affrettò
a celebrare l’evento.
Il Conte di Vallechiara, ora più che mai obbligato a restare a
palazzo, seguiva con attenzione il succedersi degli eventi. Dall’alto
della sua stanza, fissava attraverso le finestre ora la distesa
attorno al castello, ora il luogo dove si sarebbe celebrato il
matrimonio. La regina aveva scelto per l’occasione la meravigliosa
corte sulla scogliera in cui tutti i precedenti monarchi, lei
compresa, si erano uniti in matrimonio. Aveva cominciato sin da
subito a trasportarvi statue e ornamenti di valore, come a voler
essere sicura che non si potesse rimandare la cerimonia. Il Conte,
che con le mani dietro la schiena fissava ancora la corte, abbassò il
capo con un sospiro; proprio in quel momento, Aleandro entrò
nella stanza. Suo padre si voltò velocemente.
«Hai perso l’abitudine di bussare?» domandò, austero.
107
Aleandro, che aveva già la bocca aperta per dire qualcosa, si
ritrovò a mordersi un labbro, quindi chinò la testa.
«Perdonatemi, padre» si sbrigò a dire.
«Ah, lascia perdere.» fece però subito il Conte, che come si sarà
capito non era certo avvezzo ad essere severo «Immagino tu sia su
di giri, con questo matrimonio per la testa».
«A dir poco.» rispose il figlio con un sorriso, raddrizzandosi «È
stato così anche per voi?».
L’uomo stiracchiò un sorriso che lo fece apparire più anziano di
quanto non fosse e scrollò le spalle.
«Non saprei dirti, figliolo. Io e tua madre… Beh, diciamo che fu
solo meno… Improvviso. Ma immagino che questo sia un’ulteriore
giustificazione per te».
«Se lo dite voi, mi sento più che scusato, allora.» ribatté
allegramente Aleandro «Ero venuto ad avvisarvi che la regina vi
ha concesso un periodo di licenza dalle faccende di stato. Sino al
matrimonio».
«Licenza?» ripeté l’uomo, confuso «Intende dire che non dovrò
più occuparmi di niente?».
«Più o meno. A dire il vero, vi chiede di aiutarla
nell’organizzazione della cerimonia».
Il Conte corrugò la fronte, restando come impalato. Aleandro non
aveva perso un briciolo della sua felicità: mai, prima di allora, suo
figlio gli era parso così ingenuo. Si passò due dita sugli occhi,
voltandosi istintivamente verso la finestra.
«Ha richiesto urgentemente la mia presenza qui a palazzo.»
cominciò a dire, con tono dubbioso «Ha accennato a serie
minacce per il regno, di cui tra l’altro non sono ancora stato messo
al corrente. E adesso la regina scalpita perché tu sposi sua figlia e
non si preoccupa di nient’altro se non del matrimonio» scosse il
capo con fermezza «Qui c’è qualcosa che non torna, figlio mio».
«Se mi è permesso dire la mia, forse vedete il male dove non c’è.»
commentò Aleandro, che per nulla al mondo avrebbe voluto veder
108
turbato il proprio ottimismo «Credevo che la notizia vi avrebbe
reso felice, ma non riesco a vedervi soddisfatto».
«Soddisfatto? Sì, lo sarei, se fossi convinto che tutto fosse
normale. Hai idea di quanto a lungo vengano programmati i
matrimoni nelle famiglie regali?» il Conte lo guardò in viso,
cercando di farlo ragionare «Comprendi che questo matrimonio,
farà di te, prima o poi, il nuovo re?».
«Appunto per questo non capisco come facciate a non gioirne»
fece il giovane, sorpreso.
L’uomo sospirò, avvicinandosi di qualche passo.
«Aleandro, Aleandro… Proprio non ti rendi conto di cosa dici?»
gli chiese «Dov’è finito quel figlio che ho fatto sgattaiolare fuori da
palazzo? Quel ragazzo che rimpiangeva la vita semplice di
Vallechiara, lontano dagli intrighi della corte?».
Aleandro distolse lo sguardo, raccogliendo distrattamente un
frutto da una cesta.
«Non m’interessa diventare re, padre. È di Elisabetta che mi
importa, e solo di lei.» disse dopo qualche esitazione «Ma ciò non
vuol dire che, a suo tempo, non sarò un buon re».
«L’ultimo buon re non ha vissuto a lungo.» gli ricordò con
amarezza il Conte.
«Lo dite come se la sua morte non fosse stata naturale» fece
Aleandro, sempre più stupito dal comportamento del padre.
«Ho avuto tempo per riflettere, figlio mio, abbastanza per farmi
nascere qualche legittimo dubbio. Ma non parliamo di questo.
Perché non parliamo piuttosto dell’unica cosa che ti interessa,
come dici tu?».
«Elisabetta?» il giovane ricominciò immediatamente a sorridere,
giocherellando con il frutto «Cosa volete sapere?».
«Oh, non voglio sapere granché, in realtà. È solo che non mi avevi
mai accennato di questa tua passione per la principessa».
«Lo so.» convenne Aleandro «E avete ragione, è stata improvvisa.
Ma vi assicuro che è autentica.»
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«Sorprendente. Non avrei nemmeno detto che tu la conoscessi
così bene. Ad ogni modo, in questi giorni avrete occasione di
rimediare, giusto?».
«Non proprio.» rispose il giovane «La regina ha stabilito che io ed
Elisabetta non dobbiamo più incontrarci prima delle nozze».
Il Conte lo fissò perplesso, colpito da quella nuova stranezza.
«Mi sembra un’assurdità» si ritrovò a confessare.
«Non è un’assurdità! Insomma, la regina ha deciso così e…
Insomma, non è importante. Vi garantisco che i miei sentimenti
sono autentici. Ho…» si interruppe, abbassando lo sguardo
«Avevo persino chiesto aiuto per poterla conquistare».
«Chiesto aiuto? Che genere di aiuto? E a chi?».
Il giovane si accorse di aver rivelato più di quello che avrebbe
voluto. Stranamente, solo in quel momento si ricordò di cosa
aveva chiesto alla strega rossa; improvvisamente si domandò se
quanto fosse avvenuto avesse a che fare con lei e si sentì colpevole.
«Oh, a…» mormorò, tenendosi sul vago «Una ragazza».
«Vuoi dire che una ragazza ti avrebbe aiutato a sposare la
principessa?» il Conte rise di gusto «Non sapevo neanche che
avessi stretto amicizia con le damigelle di corte. E perché lo
avrebbe fatto, poi? Ti considerano un buon partito tanto quanto la
principessa».
«Non è una damigella.» borbottò sbrigativamente Aleandro
«Cioè, insomma, non del tutto. Diciamo che ha a che fare con la
corte».
«Una serva, allora?».
Il giovane abbassò lo sguardo: per quel poco che sapeva della
strega rossa, quel termine decisamente gli sembrava inadatto.
«No, nulla del genere.» disse soltanto «È così importante per voi
sapere di chi si tratta?».
«Per carità, ci mancherebbe altro.» fece l’uomo, alzando le mani
«E ti avrebbe aiutato?».
110
«Più di quel che avrei immaginato, a quanto pare. Le ho chiesto di
aiutarmi e la regina stessa è giunta ad offrirmi la mano di sua
figlia».
«Beh, di sicuro la tua amica è una che sa il fatto suo, allora. E una
nobilissima persona, che sia di sangue blu o meno.» disse il Conte,
che era ben lontano dal sospettare che si stesse parlando di una
strega «Spero che tu l’abbia ringraziata, almeno».
Aleandro rialzò gli occhi. Aveva ascoltato le parole del padre e
sentito crescere dentro di sé qualcosa che sapeva di rimorso. Un
groppo gli serrò la gola, costringendolo a prendersi qualche
secondo per rispondere.
«A dire il vero no.» ammise «Pensate che dovrei?».
«Buon Dio, sì, assolutamente!» esclamò il Conte «Anzi, se mi
fosse possibile vorrei offrirle anche i miei ringraziamenti e, perché
no, anche qualcosa di più. Non ti avevo mai visto così felice».
Ma Aleandro, di colpo, si era rabbuiato. Era come se non solo
qualcosa, ma tutto, fosse profondamente sbagliato. Il loro
trasferimento a corte, la richiesta che aveva fatto alla strega rossa
e infine un matrimonio senza preavviso. Ma, giusto o sbagliato
che fosse, era stato lui stesso a mettere i piedi su quel sentiero.
«Dovrete permettermi di sgusciare fuori un’altra volta, allora»
disse al padre, e quello gli batté una solidale pacca su una spalla.
Linda, né serva né damigella, pelava le patate. Strega o no, non
aveva mai trovato un modo più efficace per farlo, né aveva grande
interesse a inventarselo in quel momento. E nemmeno poteva dire
che pelare patate avesse un senso, visto che aveva già fatto due
montagne, una di patate e una di bucce. Glosci le faceva
compagnia, seduto sull’unico angolo libero rimasto sul tavolo.
Guardò rattristato la giovane, per poi spostarsi gli occhi sul sacco
ormai afflosciato.
«Cosa succederà quando le avrai finite?» le domandò.
111
«Non lo so. Non mi interessa.» ribatté la giovane, atona «Passerò
a qualcos’altro».
«Di certo le cipolle non possono peggiorare la situazione» fece il
famiglio, alludendo agli occhi gonfi della sua padrona.
«Smettila, Glosci.» Linda tirò su col naso, protendendo poi una
mano verso di lui «Passami un altro fazzoletto».
Il famiglio guardò oltre l’orlo del tavolo, in direzione del tappeto
di fazzoletti sul pavimento, quindi balzò giù. Quando tornò, le
porse un lembo di stoffa bianca. La giovane la prese, soffiandosi il
naso con potenza; un attimo dopo sollevò appena le sopracciglia.
«Ma… Non è un fazzoletto.» borbottò, tirandolo a sé «È un
lenzuolo».
«I fazzoletti erano finiti» si difese timidamente il famiglio.
Linda lo guardò per qualche secondo, prima di stringersi nelle
spalle e rimettersi a pelare le patate. Glosci le si fece più vicino.
«Coraggio, dai. Non puoi continuare così.» provò a dire «Non fai
altro che piangere da giorni».
«Sto superando il momento critico» ribatté debolmente la
ragazza.
«È quello che ripeti da quando hai cominciato».
Linda strinse i denti, cercando di pelare quelle patate con più
efficienza, solo per ritrovarsi a singhiozzare dopo due secondi
scarsi. Glosci alzò gli occhi al cielo, lasciando che la giovane si
sfogasse per l’ennesima volta.
«Non doveva andare così.» piagnucolò Linda, battendo spossata
due colpetti sul tavolo «La mamma aveva detto che non sarebbe
andata così. Lei doveva lasciarlo andare e… E…».
«E invece le cose sono andate diversamente.» concluse per lei il
famiglio, senza sapere cos’altro dire «Ma con tutti i giovanotti che
ci sono dovevi proprio prenderti una cotta per quell’Aleandro?».
«Non è una cotta» replicò con voce rauca la giovane, cercando di
riprendere in mano la patata.
112
«No che non lo è. Magari fosse solo una cotta! Ti sarebbe già
passata.» Glosci le prese il viso nelle manine, cercando di far sì
che lo guardasse «Linda, era solo il ragazzo sbagliato. Ne troverai
altri».
«Io non voglio trovare nessuno.» fece lei, riagguantando il
lenzuolo «Tanto nessuno vorrà mai una strega, figlia di un’altra
strega, che sarà sempre e solo una strega. Mentre lui… Lui sarà
principe e poi re. Con la… Sua Elisabetta!» e buttò via il lenzuolo
in un impeto d’ira.
Glosci stava per dire qualcosa, quando improvvisamente si udì
bussare alla porticina. Linda sussultò, solo per ripiombare
nell’apatia un attimo dopo.
«Digli che non ci sono, chiunque sia.» bofonchiò, riprendendo il
lenzuolo «Devo finire di pelare queste maledette patate».
«Neanche per sogno!» ribatté prontamente il famiglio,
afferrandola per le guancie prima che potesse far qualcosa e
cominciando a schiaffeggiarla rapidamente «Svelta, svelta,
svelta!».
Linda smanacciò per levarselo di torno come si fa con una mosca
fastidiosa, ritrovandosi però a doversi appoggiare contro lo
schienale. Nel frattempo, alla porta bussarono nuovamente.
«E ha anche fretta.» commentò Linda, prima di alzare la voce per
farsi sentire «Arrivo!».
Si sollevò con estrema fatica dalla sedia, passandosi la manica del
vestito sul viso per asciugarsi le lacrime; poi, a passi lenti, si
diresse stancamente verso la porta e la aprì. Una figura
incappucciata stava in piedi sulla soglia, intabarrata in un pesante
mantello.
«Cerco la strega rossa.» fece una voce femminile da sotto il
cappuccio
«Posso entrare?».
113
«Oh, uhm…» Linda restò impreparata «In genere la gente non
vuole entrare nel mio antro. È… Tenebroso. Ed è in disordine. Se
poteste ripassare…».
«No» rispose subito la donna, entrando nella casetta senza
aspettare un invito.
La giovane non provò nemmeno a fermarla, limitandosi a
sospirare stancamente. La donna incappucciata restò quindi
ferma, aspettando che Linda chiudesse la porta. Come lo fece,
avanzò speditamente di qualche passo, guardandosi attorno. Si
fermò davanti al tavolo ingombro, posandovi sopra lo sguardo.
«Patate» disse soltanto.
«Ve l’avevo detto che c’era disordine» mormorò Linda,
seguendola svogliatamente.
«È una questione della massima importanza» tagliò però corto la
donna, abbassandosi il cappuccio sulle spalle.
La giovane si immobilizzò, ritornando improvvisamente padrona
di sé.
«Ma voi…» balbettò, sbigottita «Siete la domestica della regina».
«Chiamami Gerda.» disse velocemente quella «E tu sei Linda,
vero?».
«Come fate a…?».
«Conoscevo tua madre.» rispose la domestica, spostando lo
sguardo verso il ritratto della donna con la cappa rossa «Non che
fossimo grandi amiche, ma, beh, probabilmente sono l’unica a
corte a sapere chi fosse veramente la strega rossa. E chi lo sia
adesso.» si voltò verso la giovane, esaminandola in viso «Hai un
aspetto terribile».
«Sto superando il momento critico.» si affrettò a rispondere Linda
«Ma come-».
«Non ho tempo per rispondere alle tue domande. Sono uscita dal
palazzo di nascosto.» senza esitazioni, si sedette su una bassa
panca, proprio sotto la finestrella della casa «Siediti».
114
La giovane la guardò con un misto di meraviglia e inquietudine. Si
avvicinò alla donna, solo perché Glosci la precedesse, con un’aria
seria sul musetto.
«Anch’io mi ricordo di te.» disse, fermandosi davanti a Gerda «E
no, proprio non posso dire che eri un’amica di sua madre».
«L’animale parlante della strega rossa.» commentò la domestica,
senza impressionarsi «Sei sempre tu o sei il figlio del
precedente?».
«Tuo nonno sarebbe un bambino in confronto a me. E neanche il
nonno di tuo nonno non arriverebbe ai miei anni.» il famiglio
guardò Linda, per nulla allegro «Non fidarti di lei. Se volessi
sapere qualcosa su tuo padre, è a questa donna che dovresti
chiedere».
«Mio padre?» la giovane cominciava a non capirci più nulla.
«È una storia vecchia, animale parlante.» disse Gerda, desiderosa
di cambiare discorso «Sia io che la tua padrona siamo rimaste con
un pugno di mosche, alla fine».
«E di certo sia tu che lui avete imparato che non è saggio
prendersi gioco della strega rossa.» Glosci socchiuse gli occhi
«Bada a quello che dici, dunque, perché stavolta non sarei io a
trattenere la sua mano dal darti la giusta punizione».
«Punizione?» si intromise Linda, che non apprezzava la piega del
discorso «Ma di che cosa stiamo parlando si può sapere?».
Gerda sospirò, posando le mani sulle ginocchia.
«Tuo padre lasciò tua madre per me quando scoprì che era
incinta. E tua madre si vendicò» rispose brevemente la domestica.
«Non come avrebbe potuto, ricordatelo sempre.» puntualizzò il
famiglio «A te non fu fatto niente, e solo perché fui io a calmare la
sua rabbia».
«Mentre lui è dovuto scappare chissà dove, lo so. Ma non sono qui
per questo.» la domestica si voltò verso Linda «Sono venuta per
dirti che la regina medita di ucciderti, ragazza».
La giovane si irrigidì, impallidendo.
115
«Uccidermi?» riuscì solo a domandare, incerta.
«Ucciderti come ha già fatto con re Edoardo.» aggiunse Gerda con
un’espressione grave «Con il mio aiuto».
«Tu hai ucciso il re?» esclamò Glosci, sbigottito.
La domestica annuì col capo, senza segni di pentimento.
«Tutti lo ricordano come il buon re, ma essere un buon re non fa
di lui un buon marito.» continuò la domestica «Solo io e la regina
sappiamo che uomo fosse all’interno delle mura di casa. Non
biasimerò la mia regina per averlo assassinato».
«E ti aspetti che adesso daremo ascolto a un’assassina?» fece
Glosci, per nulla convinto «Chi ci dice che le tue parole siano
oneste?».
«Viviana vuole eliminare la tua padrona solo perché ama
Aleandro.» Gerda parlò senza esitare, sollevando una mano per
impedire a Linda di ribattere inutilmente «Nessuno può essere
incolpato per amare una persona, né tantomeno ucciso. Sia la
politica che la magia non hanno niente a che fare con questo.
Quanto ad Aleandro, posso solo dire che farà presto ad accorgersi
dell’errore che sta commettendo».
«La tua dolce regina ha intenzione di uccidere anche lui, quindi?»
domandò Glosci, sprezzante.
Gerda lo guardò con altrettanta durezza.
«Viviana non potrebbe torcergli un capello nemmeno volendo. È
il suo amore, come lo è della tua padrona. A differenza di lei, si
sente soltanto più legittimata a proteggerlo con qualsiasi mezzo».
A quel punto, Glosci si decise a tacere. Linda, da parte sua, era
rimasta impietrita. La delusione e la disperazione che aveva
provato in quei giorni sembrava condurre in un incubo ancora
peggiore.
«Ad ogni modo, puoi salvarti.» ricominciò Gerda, guardando la
giovane «La regina dovrà aspettare sino al matrimonio per
mettere in atto i suoi piani: avrai tutto il tempo che ti serve per
scappare».
116
«Scappare?» riuscì a dire Linda, dopo quel lungo silenzio «Non
saprei nemmeno dove andare».
«Se fossi in te, comincerei a pensarci fin da subito.» la domestica
si alzò in piedi senza attendere oltre «Un’ultima cosa: la regina si
chiede da giorni quanto dovrà aspettare per avere il suo filtro».
«Può aspettare tutta l’eternità, per quel che ci riguarda» replicò
aspramente Glosci.
«Se le consegnerò il filtro, potrò giustificare il mio
allontanamento da palazzo.» disse Gerda «Inoltre, se non glielo
consegnerete, prima o poi potrebbe inviare delle guardie qui e
usarvi molti meno riguardi».
Glosci guardò Linda con apprensione. Prima che potesse dire
qualcosa, la giovane si diresse verso l’altra stanzetta.
«Eccolo.» disse quando ritornò, con in mano una fiaschetta di
vetro contenente un liquido di un rosso vivace «Basterà che lo
faccia bere ad Aleandro e questi si innamorerà della prima
persona che vedrà».
«Non dovresti darglielo» disse il famiglio, preoccupato.
Linda scrollò le spalle, porgendolo alla domestica. Gerda lo prese
con cura tra le mani, facendolo poi sparire tra le pieghe del
mantello.
«Devo andare, adesso» disse velocemente, tirandosi di nuovo il
cappuccio sulla testa.
Fece qualche passo verso la porta, fermandosi solo quando vi fu
davanti. Né Linda né Glosci avevano ancora riaperto bocca. Gerda
si voltò a guardarli con aria angustiata.
«Io amavo tuo padre, Linda.» mormorò, come per cercare una
giustificazione «Esattamente come Viviana ama Aleandro».
«Li amate di un amore malato, fatto di invidia e gelosia» disse
Glosci, senza muoversi da dov’era.
Gerda chinò il capo, prima di uscire dalla casetta.
Linda restò ferma ad osservare la porta. Lentamente, poi, spostò
lo sguardo verso il famiglio.
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«Ma si vede così tanto che… Insomma, di Aleandro?» gli
domandò.
«Quella donna ti ha appena detto che la regina ha intenzione di
ucciderti e tu pensi a quel salame.» Glosci la guardò stancamente
«Fai tu».
Linda socchiuse gli occhi, valutando attentamente quel
particolare.
«Suppongo che adesso dovrei cadere nello sconforto» mormorò,
come se non ci fosse nessun’altra alternativa.
«Vuoi dire che non lo farai?» fece il famiglio, sbalordito.
«È nei momenti di difficoltà che bisogna tirare fuori il coraggio e
la determinazione.» affermò quel solenne proposito con molta
convinzione «Sono la strega rossa. Da secoli i regnanti scendono a
patti con me».
«O con tua mamma, tua nonna, tua bisnonna…» la corresse
Glosci.
«Fa lo stesso. La regina è venuta da me.» tagliò corto Linda «Non
sarò io a farmi impaurire da una donna solo perché indossa una
corona».
Aveva appena finito di dirlo che si sentì bussare alla porta e la
giovane fece un salto di mezzo metro dallo spavento. Glosci la
guardò molto preoccupato.
«È solo la porta.» disse «Perché non vai a vedere chi è, invece di
parlare a vuoto?».
Linda si riscosse di botto, scuotendo la testa con decisione, come a
dire “adesso te la faccio vedere io”. Per prevenzione, comunque,
stese il braccio sino a raggiungere il bastone.
«Chiunque tu sia, sappi che non sono dell’umore adatto.» disse
con voce stentorea, mentre girava la maniglia «Al primo scherzo ti
scaglierò all’Inferno con il mio…».
E solo allora si accorse che invece del bastone aveva preso la scopa
e che ritto sulla soglia, con un’espressione molto indecisa, stava
Aleandro.
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«Con la vostra scopa?» domandò debolmente il giovane,
indicandola.
«Ma con ramoscelli d’erica» rispose lei con un filo di voce.
Sulla faccia, le era rimasto uno sguardo idiota.
«Vi ho disturbata?» disse Aleandro, comunque turbato «Forse
dovrei ripassare. Mi è sembrato che-».
«Nononononononono.» si affrettò a ribattere Linda, mettendo le
mani avanti per gesticolare «Non stavo minacciando di morte voi.
No, ecco, affatto. Tutti ma non voi».
«Minacciate tutti di morte?» fece il giovane, allarmato.
«Nooo, io? Tutti? Solo… Qualcuno! Per legittima difesa, capite.
Minaccia contro minaccia, ecco. Magari un po’ di malocchio, di
quello che non fa…» e qui le scivolò la scopa di mano, che rovinò
rumorosamente sul pavimento facendole sfuggire un urletto
«…mmmale. Ci sono, eh, ci sono. Che non fa male. Poco. Forse.
Cioè, tanto, ma da poco. Il malocchio eh, non la… Scopa».
Aleandro restò a fissarla sulla soglia mentre lei si soffiava su un
dito a cui evidentemente doveva essersi fatta male, chissà come,
con la scopa. Un attimo dopo, le dita di Linda cominciarono a
tremare vistosamente, come anche il suo sorriso teso.
«State bene?» le chiese il giovane, vedendola così scossa «Posso-
».
«Venite dentro» disse rapidamente la ragazza, facendogli un
rapido cenno e togliendosi dalla porta: chiunque, vedendola, si
sarebbe accorto di come i suoi nervi erano stati messi a dura
prova.
Aleandro gettò un’occhiata incuriosita alla montagna di patate e al
lenzuolo in mezzo all’altra stanza.
«È per un incantesimo?» non riuscì a trattenersi dal chiedere.
«Che?» domandò Linda, senza capire.
«Le…».
«Le patate?».
«Ecco, sì. E il lenzuolo».
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La giovane lo guardò stranita.
«Voi non pelate patate?» gli chiese, solo per correggersi un attimo
dopo «Cioè, lo so che voi non pelate patate. Voi siete… Nobile, sì. I
nobili non pelano patate, già. I quasi re, poi».
«Oh, scusate, allora.» ribatté Aleandro, accortosi della figuraccia
«Sì, insomma, no, io non le pelo, ma, ehm, sì, qualcuno lo fa.
Solo… Non credevo che anche le streghe pelassero patate».
Linda riprovò a stiracchiare un sorriso, mentre si sedeva sulla
panca, facendo cenno al giovane di imitarlo.
«Anche le streghe mangiano.» rispose «E i quasi re?».
«Oh, beh, “quasi re”…» Aleandro rise nervosamente, a disagio
«Non chiamatemi a quel modo, vi prego. Sono nobile solo per una
fortunata coincidenza, figurarsi se voglio pensare di essere un
“quasi re”. Sono solo un uomo. Un giovane uomo».
Linda abbassò lo sguardo, annuendo fra sé.
«Allora io…» disse piano «Io potrei essere solo una ragazza, per
voi?».
Aleandro la guardò con un certo stupore, prima di distendere le
labbra in un sorriso.
«Beh, ma voi non siete solo una ragazza.» rispose, volendole fare
un complimento «Voi siete la strega rossa, signora di grandiosi
portenti. Io, poi, lo so meglio di chiunque altro: senza di voi non
avrei mai potuto conquistare il cuore della principessa
Elisabetta».
Linda avvertì un improvviso tonfo al cuore. Gli occhi, prima
socchiusi, si aprirono con aria grave, posandosi quindi sul
giovane.
«Chiedo scusa?» fece soltanto, fissandolo senza gentilezza.
«Mi riferisco al modo in cui avete accolto la richiesta che vi feci
giorni fa.» continuò intanto il giovane, troppo allegro per
accorgersi del cambiamento d’umore di Linda «Sono venuto
apposta per ringraziarvi. E, ovviamente, pagarvi. O restituirvi il
favore. Dovete scusarmi, non sono pratico di… Trattative con le
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streghe. E, ecco, se si potesse… Sapere cosa avete fatto. Mi sento
un po’ in colpa, sapete, e-».
«Io non ho fatto niente.» lo interruppe di botto la ragazza, scura
in viso «Cioè, voi credete che io abbia… Fatto innamorare la
principessa di voi?».
Aleandro parve improvvisamente interdetto.
«Non è stato così?» domandò, rendendosi conto solo adesso
dell’espressione di Linda.
«Oh, assolutamente no, mio caro.» rispose l’altra, scuotendo
lentamente il capo, così da non lasciar spazio a dubbi «Dovete
credermi una povera scema a pensare che io possa anche solo
approvare questo… Questo…».
Rinunciò a trovare una parola adatta, stringendo le mani con
forza sul bordo della panca per mantenere la freddezza. Aleandro
era rimasto senza parole, con la bocca aperta e gli occhi smarriti.
«Ma se volete così tanto ringraziare qualcuno, potrete sempre
rivolgervi alla regina, mio ingenuo e nobile ragazzo.» riprese
Linda, caricando le parole di disprezzo «Non avete la benché
minima idea di cosa abbia in serbo per voi. Non siete felice?
Presto sarete il novello sposo della principessa più stupida della
storia del regno. Di certo vi farà sentire a vostro agio».
Aleandro la fissò dapprima allibito, prima di farsi serio.
«A quanto pare, tutti hanno le idee più chiare di me.» disse «C’è
forse qualcosa che potete dirmi?».
La giovane lo squadrò per alcuni secondi, riabbassando quindi il
capo.
«Che non dovreste fidarvi della regina, né di nessun altro a
palazzo.» rispose infine «Il re non è morto accidentalmente. E,
come lui, altri morranno».
Aleandro rimase immobile ad ascoltarla, mentre sentiva la propria
schiena bagnarsi di gelido sudore.
«Come fate a saperlo?» le domandò «Avete partecipato alla sua-».
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«Oh, no.» lo interruppe Linda, sollevando un palmo con un
debole sorriso «Non ne sapevo niente fino a oggi. Io sono soltanto
il prossimo nome sulla lista, a quanto pare».
«Sulla lista di chi?» insistette Aleandro «Della… Regina?».
La giovane sfuggì il suo sguardo, sino a chiudere gli occhi quando
annuì piano.
«Come? Quando? E perché?» le chiese subito l’altro.
«Fate domande a cui non so rispondervi.» disse Linda, rialzando
il viso «E non voglio. L’unica cosa che mi interessa» e qui si voltò
a guardarlo «è che ascoltiate attentamente ciò che ho da dirvi.
Cercate la vostra felicità, celebrate il vostro matrimonio, se
proprio dovete, ma andatevene da qui. Allontanatevi da quella
donna, perché la morte sarebbe poca cosa, in confronto a quel che
potrebbe capitarvi. E io… Io non posso prendere parte a tutto
questo».
Aleandro rifletté per alcuni istanti su quelle parole, prima di
fissarla con decisione.
«Non posso tirarmi indietro.» disse «Se davvero esiste un male
così grande è mio dovere affrontarlo, dal momento che me ne
avete messo al corrente».
«Non potete farci niente» Linda scosse la testa, rassegnata.
«Che io possa o non possa non importa, dal momento che avete
messo la vostra vita nelle mie mani.» Aleandro le prese la sua,
facendola sussultare «Per quanto non sappia niente di voi, se non
racconti frammisti a leggende, non permetterò mai che vi venga
fatto del male. Non finché sarò padrone del mio corpo e della mia
mente».
La giovane indugiò ancora qualche secondo, prima di ritrarre
lentamente la propria mano. Quelle ultime parole non avevano
fatto altro che accrescere la sua amarezza, proprio perché sapeva
che il suo corpo e la sua mente sarebbero stati liberi ancora per
poco. E per mano sua, per di più.
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«Ci tenete davvero a fare qualcosa per me?» gli domandò, con
voce fioca.
Aleandro assentì.
«Tutto quello che mi chiederete» rispose, con una fiducia che
nemmeno lui sapeva da dove venisse.
La giovane si alzò in piedi, accarezzandosi con delicatezza le
braccia.
«Andate via di qui, dunque.» disse «Ma quando avrete varcato
quella soglia, ricordatevi di Linda, e di lei soltanto. Lasciate
dentro questa casa il rosso del suo mantello».
Aleandro stava per replicare, quando un lampo di quegli occhi
violetti, improvvisamente taglienti, lo ridussero al silenzio. Come
imbambolato, si alzò a sua volta dalla panca, barcollando appena
nel riscoprire il soffitto così vicino alla sua testa.
«Andate» disse Linda, senza muoversi dalla sua posizione.
«Siete-» fece per dire il giovane.
«Andate» ripeté l’altra, indicandogli con un cenno del capo la
porta.
Aleandro parve improvvisamente incerto. Sembrava che gli
pesasse uscire da lì, allo stesso modo come lo inquietava il modo
di fare della strega. Dischiuse le labbra per parlare, senza riuscire
ad emettere un suono, intanto che la giovane distoglieva del tutto
lo sguardo da lui. A quel punto, ancora impacciato, Aleandro si
diresse verso la porticina e uscì più frettolosamente di quanto si
sarebbe aspettato lui stesso.
Rimasta sola, Linda si guardò attorno con circospezione. Si
diresse verso il calderone senza parlare, trovando Glosci ad
aspettarla.
«Come mai questa volta non ti sei intromesso?» gli domandò
come lo vide.
Il famiglio rispose con un’alzata di spalle.
123
«Parli come se avessi sentito la mia mancanza.» ribatté quello,
che sembrava non dar troppo peso a quanto accaduto «Piuttosto,
non sono sicuro che mi piaccia la tua espressione».
«Taci.» lo zittì subito la giovane «Nessuno metterà un dito
addosso alla strega rossa. A qualsiasi costo. Ho tutto il tempo per
sventare qualsiasi piano la regina possa aver messo in atto.
Ricorrerò al libro nero, se sarà il caso».
«Non scherzare, Linda.» la ammonì Glosci «La domestica
potrebbe aver mentito, non ci si può fidare di quella donna. E
Aleandro… Beh, anche lui potrebbe fare qualcosa, dopo quello che
gli hai detto».
«Oppure no.» obiettò l’altra «Gli incantesimi del libro nero vanno
usati solo in caso di emergenza, non è così che mi hai sempre
detto? Se questa non è un’emergenza come la chiami?».
«La magia di quel libro ti porterà via tutto quello che hai».
«Io non ho niente! Niente e nessuno!» gridò di colpo Linda.
Il famiglio si ammutolì, chinando il capo. La giovane inspirò a
fondo un paio di volte, prima di incamminarsi a sua volta verso la
porticina.
«Vado a fare due passi. Pensa tu a rimettere in ordine» disse
soltanto, prima di uscire senza aggiungere altro.
Glosci, senza perdere tempo, corse fino allo specchio nella camera
della sua padrona.
Elisabetta si attorcigliava pigramente una ciocca dei lunghi capelli
biondi attorno a un dito, seduta sul bordo del suo letto. Di tanto in
tanto rivolgeva un’occhiata dubbiosa ai due o tre fogli di
pergamena su cui il ciambellano di corte aveva minuziosamente
trascritto tutte le parole che avrebbe dovuto dire e i gesti che
avrebbe dovuto fare. Lo stesso canovaccio su cui a turno sua
madre e le sue ancelle si erano esasperate per giorni pur di
farglielo imparare. Dopo l’ennesimo disastroso tentativo, il
ciambellano l’aveva definita “fatua”: Elisabetta ignorava il
124
significato di quella parola, ma si ricordava di aver sentito parlare
di certi fuochi fatui, che qualcuno (ma non riusciva a ricordare
bene chi) si occupava di accendere la notte nei cimiteri.
Ovviamente le era oscuro anche il motivo per il quale questo
misterioso essere la notte non se ne stesse a letto a dormire come
tutte le persone perbene, tuttavia non le piaceva affatto l’idea che
il ciambellano avesse usato quell’aggettivo. E quella,
naturalmente, era adesso la sua unica preoccupazione, mentre
fuori era ormai buio e il giorno del matrimonio si avvicinava. E
non solo quello: infatti, un’ombra più nera della notte stessa si
stagliò contro la finestra, coprendo la luce della luna. Ma di questo
la principessa era come al solito ben lungi dall’accorgersene, così
l’ombra nera dovette bussare al vetro per catturare la sua
attenzione. Elisabetta alzò lo sguardo, scorgendo la sagoma sul
balconcino; senza porsi troppi problemi, si alzò per andare ad
aprire, come d’altronde insegnava la buona educazione (avete mai
letto su qualche manuale di buone maniere che non si deve aprire
a qualcuno che bussa solo perché lo fa di notte, fuori da una
finestra e senza essersi fatto annunciare? Nemmeno Elisabetta,
infatti) e quando si ritrovò di fronte Aleandro, uno splendido
sorriso le comparve immediatamente sulla bocca.
«Oh, siete voi!» disse, evidentemente compiaciuta per quella
sorpresa «Desiderate qualcosa?».
«Oh, beh…» fece Aleandro, che aveva ancora addosso tutto
l’affanno della scalata «Ho voluto fare una sorpresa alla mia
futura sposa».
«Oh, che tenero che siete.» fece Elisabetta, congiungendo le mani
felice «La conosco?».
Aleandro piegò di lato il capo con un mezzo sorriso che si perse
rapidamente in un’espressione perplessa.
«Non dovevo sposare voi?» le domandò, dopo qualche attimo di
esitazione, visto che lei non accennava a dire altro.
125
«Me? Oh, già, sì, è vero!» esclamò la principessa, dandosi un
colpetto sulla fronte «Dovete scusarmi, sapete: con tutta questa
confusione per il matrimonio una povera ragazza finisce per
dimenticarsi tutti i dettagli».
Il giovane non poteva certo dirsi felice di essere passato da “quasi
re” a “dettaglio”, ma fece buon viso a cattivo gioco.
«Potreste farmi entrare, adesso?» le domandò quindi «Non vorrei
che qualcuno mi vedesse».
«Ah, giusto, visto che volevate fare una sorpresa… Ma non so se
posso farvi entrare da lì.» Elisabetta lo fissò dubbiosa «Sapete, c’è
la porta per far entrare la gente».
«Non penso che sia quello il problema più grande» mormorò
Aleandro.
«Vi farei sentire mia madre quanto strepita ogni volta che faccio
qualcosa che va contro le sue mille regole. Elisabetta-vedi-di-dar-
retta, Elisabetta-vedi-di-dar-retta. È un tale tormento. Non so se
tra le sue regole ce ne sia qualcuna che vi riguardi. O che riguardi
un giovanotto sul mio balcone di notte, ecco».
Aleandro realizzò che era meglio se non ricordava alla principessa
che loro, stando al volere della regina, nemmeno dovevano
vedersi.
«Sono sicuro che non ci sia alcun problema» mentì, con un
sorrisone affabile.
«Oh, allora se lo dite voi mi fido» disse subito Elisabetta, e si
decise a spalancare la finestra per far entrare il futuro marito.
Aleandro, che si era arrampicato fin lassù badando a non farsi
vedere da nessuno, poté tirare finalmente un sospiro di sollievo.
«Su.» lo incitò intanto la principessa, guardandola con aria vivace
«Mi devo coprire gli occhi?».
Il giovane corrugò la fronte.
«Coprire gli occhi?» domandò, senza capire.
«Sì, gli occhi.» ripeté Elisabetta, col solito entusiasmo «Per la
sorpresa, no?».
126
Aleandro si ritrovò a corto di parole.
«Era questa la sorpresa» dovette ammettere alla fine.
«Questa quale?» fece la principessa.
«Questa qui. Questa… Stanotte».
«Sì, stanotte e qui, d’accordo. Ma dov’è la sorpresa?».
Il giovane rimase di nuovo in situazione di stallo.
«Ho paura di essermela dimenticata nella mia stanza.» disse alla
fine, molto incerto «Che stupido. Ve la-».
«Oh, non preoccupatevi, anch’io mi scordo tutto di continuo.» lo
rassicurò lei «Volete tornare a prenderla?».
«No.» si affrettò a rispondere lui «Cioè, a ben pensare, è meglio se
la tengo per il giorno della cerimonia».
«Ottima idea! Che bello, così almeno ci sarà una sorpresa, invece
che un’altra noiosa cerimonia e basta. Ma fate sì che sia una bella
sorpresa, eh. Mi raccomando. Adoro le belle sorprese».
Aleandro decisamente non aveva le stesse aspettative riguardo al
proprio matrimonio.
«Non siete impaziente, mia cara?» le domandò allora.
«Per la sorpresa? Se devo aspettare-».
«No, intendevo per il matrimonio» la corresse il giovane.
«Ah, per quello?» Elisabetta si portò un’unghia alle labbra,
resistendo dal mangiucchiarsela solo per via del sapore terribile
dello smalto «Eh, uhm, ssssì. Ci sarà il ballo, dopo. Mamma ha
chiamato la mia orchestra preferita, però ha anche detto che non
posso… Ecco, che non devo bere, per cui metà del divertimento se
ne va così. Insomma, io lo farei più festoso, un matrimonio. Meno
pompa e più allegria, ecco. Voi no?».
«Beh, io…».
«Cioè, io non ci ho mai pensato, eh.» puntualizzò subito la
principessa, andando a sedersi sul bordo del letto «Però mi è
venuto in mente adesso. Magari se chiediamo tutti e due può darsi
che ci accontentino».
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Aleandro la guardò mentre con espressione pensosa dondolava le
gambe nel vuoto come una bambina. Si passò una mano fra i
capelli sulla nuca, a disagio.
«Sì, ecco, magari…» balbettò «Certo che noi due non abbiamo mai
avuto modo per conoscerci veramente, eh?».
«Oh, ma io sono semplice.» rispose lei con una leggera risata
«Tutti quelli che mi vedono una volta capiscono come sono fatta.
Proprio bolle e sapone, come si dice».
«Sì, beh, acqua e sapone, veramente».
«Quello.» concordò la principessa, indicandolo con un dito «E poi
ce ne sarà di tempo per conoscersi».
«Già…» mormorò Aleandro, chinando il capo «Dopo. In genere
non dovremmo conoscerci un po’ anche prima di sposarci?».
Elisabetta gli rispose con una scrollata di spalle.
«E che differenza fa? Prima o dopo, di tempo a disposizione ce n’è
quanto uno vuole».
Il giovane non riusciva in alcun modo a seguire la logica della
principessa, sempre ammesso che ce ne fosse. Mosse qualche
breve passo verso di lei.
«Elisabetta, io… Credo di dovervi parlare» disse debolmente,
mentre sempre più dubbi si affacciavano nella sua mente.
«Oh. E non stiamo già parlando?» domandò lei, confusa.
«Di una cosa importante, diciamo».
«Oh, aspettate, ho capito. È una delle cose serie di cui parla
sempre mamma.» Elisabetta si alzò in piedi, sistemandosi
velocemente le pieghe del vestito e fermandosi proprio davanti a
lui «Le cose serie non si possono ascoltare stando sedute sul letto,
capite».
Aleandro dischiuse le labbra con aria imbambolata, quando
improvvisamente scorse con la coda dell’occhio un movimento
vicino alla finestra. Un’ombra leggera e silenziosa, in qualche
modo simile a un gatto e in qualche altro completamente
differente. Girò il capo appena in tempo per riconoscere in essa il
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famiglio della strega rossa con una fiaschetta a tracolla, che era
appena saltato sul balconcino della principessa. Fece per dire
qualcosa, ma Glosci, dando prova dei sui riflessi, si portò un
ditino alla bocca per intimargli il silenzio e, neanche un secondo
dopo, era di nuovo saltato via verso chissà quale altro appiglio.
«Aleandro?» lo chiamò Elisabetta, seguendo poi il suo sguardo
«Cosa c’è sulla finestra?».
«Niente.» si sbrigò a rispondere lui, tornando a guardarla «Un…
Rapace notturno, credo. Nulla di cui preoccuparsi. Mi sono
distratto».
«Lo vedo che vi siete distratto. Siete persino più distratto di me!»
commentò lei, divertita «Dovevate dirmi quella cosa seria».
Aleandro la fissò in silenzio per qualche istante. Sapeva cosa
voleva chiederle: di sua madre, di suo padre e di qualsiasi
progetto potesse esserci dietro il loro matrimonio, ma ormai
poteva essere sicuro che Elisabetta non ne avrebbe preso parte, né
poteva condurre qualche indagine con discrezione. Di certo
chiunque se ne sarebbe accorto subito, se la principessa avesse
cominciato a fare domande sulle intenzione di sua madre! E,
tuttavia, la comparsa del famiglio della strega rossa, quella stessa
notte, non poteva che provare che qualcosa di oscuro era all’opera
e che sia lui che l’ingenua Elisabetta in qualche modo ne
avrebbero fatto le spese. Di qualsiasi cosa si trattasse, sentiva che
spettava a lui soltanto venirne a capo prima che fosse troppo
tardi.
«Me la sono scordata» rispose perciò alla principessa, scuotendo
il capo.
«Di nuovo?» fece lei, colpita «State diventando imbarazzante».
«Vi chiedo scusa, principessa.» replicò lui, indietreggiando verso
la finestra «È meglio se torno nella mia stanza, adesso. Il… Fresco
della sera mi manda in confusione, evidentemente».
«Forse fareste meglio a non bere neanche voi al matrimonio,
allora» gli suggerì la futura sposa.
129
Aleandro annuì nervosamente, esitando parecchie volte e
profondendosi in saluti e brevi inchini più del necessario, prima di
saltare il balcone e ritrovarsi a dover discendere in qualche modo
la parete del palazzo.
Glosci rientrò con altrettanta aria furtiva nella casetta, attraverso
la finestrella che aveva lasciato appositamente socchiusa. Aveva
appena posato la fiasca sulla prima mensola a disposizione che un
odore inconsueto, come di un forte incenso, gli giunse al naso.
Insospettito, fece attenzione a non dire niente, perché non
ricordava che Linda avesse in programma di realizzare alcun
incantesimo, quella sera. Mosse appena pochi passi, tuttavia, che
come fu nella stanza del calderone la sua padrona gli si parò
davanti per sbarrargli la strada.
«Linda!» esclamò, sobbalzando «Che cosa-».
Ma la giovane non lo fece nemmeno terminare. Il suo viso gentile
era celato da un’espressione cupa e lugubre che non lasciava
preannunciare nulla di buono. Quando poi il famiglio riconobbe il
grosso grimorio nero, capì che cosa l’aveva fatta cambiare.
«Scusami, amico mio.» disse lei, con voce spenta «È solo una
soluzione temporanea».
Linda non fece altro che aprire il libro che una sorta di litania
risuonò nella casetta e tutto quanto fu buio, come se la notte
avesse inghiottito ogni cosa. Glosci riuscì a chiamare il suo nome
ancora una volta, un attimo prima che il libro si richiudesse da
solo, facendo arretrare la giovane di un passo, come se avesse
ricevuto uno spintone. La litania, la notte e Glosci stesso erano
spariti, risucchiati dalle pagine del libro. Linda non disse niente:
strinse il libro con più forza tra le braccia, senza che nulla, né
dolore né sollievo, fossero ancora comparsi sul suo viso. Dischiuse
appena le labbra, abbastanza per pronunciare con voce flebile due
versi di una filastrocca.
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«Venga la notte, si spenga il sole,
è il mio tormento che lo vuole».
«Mia figlia vuole che sia in pieno giorno.» disse Viviana,
passandosi il piccolo ventaglio da una mano all’altra, intanto che
percorreva il cortile «Io avrei preferito la sera, la trovo molto più
suggestiva. Ma, come ben capirete, è pur sempre il suo
matrimonio. Acconsentire a qualche richiesta mi pare dovuto».
Il Conte, che la seguiva a pochi passi di distanza, annuì, senza
accennare una protesta. Non c’era traccia sul suo volto di
preoccupazione o di disagio per quel ruolo che gli era stato
affidato: come sempre, ubbidiva senza fiatare, mettendo gli
obblighi verso la corona davanti a tutto, compresi i suoi dubbi di
padre. Accanto a lui, Aleandro nascondeva molto peggio il suo
nervosismo. Ormai non aveva più dubbi che la regina avesse in
mente qualcosa, specialmente dopo quelle ultime parole: che
Elisabetta insistesse per anche solo una minima variazione in quel
matrimonio era fuori discussione! Questo, di per sé, ad Aleandro
sembrava parecchio deprimente, ma al momento sapeva di
doversi preoccupare più della regina che della principessa.
«Il nostro sposo è piuttosto taciturno, oggi.» lo punzecchiò
Viviana, voltandosi a guardarlo «Forse comincia ad avvertire un
poco di tensione? Il gran giorno è imminente, in fondo».
Aleandro restò a fissarla, badando a non distogliere lo sguardo per
nessuna ragione, come se da esso dipendesse chissà cosa. La
regina si limitò a piegare appena il capo di lato.
«Neanche una parola.» commentò brevemente, con un piccolo
sorriso divertito «Vi facevo più convinto».
«Aleandro, rispondi.» lo incitò il padre «La regina ti ha-».
«Ho sentito.» lo interruppe fin troppo duramente il figlio,
posandogli una mano sul braccio «Vostra maestà permette una
richiesta anche allo sposo?».
131
«Aleandro!» lo richiamò subito il padre.
«Tranquillizzatevi, Conte.» disse con calma Viviana «E voi
chiedete pure. Non avete ancora fatto una sola richiesta, eccetto la
mano di mia figlia».
«Avrei preferito limitarmi a quella, per mia indole.» ribatté il
giovane, con fierezza «Ho lasciato che fosse mio padre, di cui mi
fido ciecamente, a stilare la lista degli invitati da parte nostra. Ma
mi rendo conto che ho omesso un nome per me importante».
Viviana alzò un sopracciglio, senza capire.
«Tutto qui?» domandò «Volete aggiungere un nome alla lista
degli invitati?».
«Esattamente».
«Non vedo dove sia il problema.» Viviana aprì il ventaglio «Posso
chiedervi di chi si tratta? Un altro amico d’infanzia da
Vallechiara?».
«Un’amica. Non d’infanzia» rispose Aleandro, vago.
«Oh, capisco.» fece la regina, sfoggiando un sorrisetto teso,
mentre di riflesso cominciava ad agitare il ventaglio «Una…
Vecchia fiamma, se posso azzardare?».
«Mia regina…» mormorò il Conte, impacciato a sua volta.
Aleandro, da parte sua, non aprì bocca. Viviana spostò lo sguardo
altrove per nascondere la smorfia di disappunto.
«Il vostro silenzio vale più di mille parole, mio caro. Dovreste
essere più discreto.» disse, con un tono più amaro di quanto
volesse, solo per aggiungere velocemente «Per mia figlia,
intendo».
«Maestà, mio figlio non ha vecchie fiamme, come le definite voi.»
si intromise nuovamente il Conte «Una storia simile sarebbe cosa
nuova anche per me, che sono suo padre. Non pensate male di
lui».
«Non lo sto facendo.» ribatté pronta Viviana «E sia, in ogni caso,
vi è concesso portare questa vostra… Amica. Ma, in ogni caso, mi
occorre conoscerne il nome».
132
Aleandro inspirò una buona boccata d’aria.
«Linda» rispose quindi, badando che la sua voce non tremasse.
La regina richiuse il ventaglio, guardandolo seria per qualche
attimo.
«Linda, certo. E poi?» domandò «Presso quale casato dovremo
spedire il suo invito?».
«Presso nessuno.» disse il giovane «Non appartiene alla nobiltà».
Il Conte lo guardò senza dire niente, ma all’improvviso l’aria
divenne così tesa che si sarebbe potuto tagliarla con un coltello.
Viviana storse la bocca, infastidita.
«Una popolana, dunque?» gli chiese, sprezzante «Mio caro, si
tratta del matrimonio della principessa di questo regno».
«È la mia unica richiesta» continuò Aleandro, senza smuoversi.
Seguirono alcuni secondi di silenzio, in cui il giovane e la regina si
fronteggiarono senza parlare. D’un tratto, quindi, il Conte si sentì
in dovere di intervenire.
«Altezza, quel che mio figlio si è scordato di dire è che la dama in
questione, per quanto non appartenga alla nobiltà, è una signora
di mirabili maniere.» disse, impeccabile come sempre «È figlia di
una cara amica della mia defunta moglie, una donna che riveste
importanti ruoli di ambasceria presso la nostra Vallechiara. Una
dignitaria, insomma, avvezza alle consuetudini di palazzo e agli
affari di stato».
Viviana corrugò la fronte, scettica.
«E vostro figlio si sarebbe scordato tutto questo?» domandò,
cercando di valutare dallo sguardo dell’uomo se stesse dicendo la
verità.
«Il ragazzo è irrequieto per via del matrimonio, lo vedete anche
voi.» rispose con naturalezza il Conte che, abituato alla vita di
corte, aveva imparato a mentire come pochi «Mi faccio garante io
per lui. Anzi, riconosco che è stato un mio errore quello di
trascurare una persona degnissima e cara al mio Aleandro come la
brava Linda».
133
La regina restò a fissarlo ancora per qualche attimo, prima di
sospirare piano e riprendere a sventolarsi.
«E sia, dunque.» concluse, benché scocciata «Mi fido di voi,
Conte. Datemi il suo indirizzo, allora, ma non posso garantirvi che
il messo farà in tempo».
«Non disturbatevi.» disse Aleandro «Gliela farò recapitare da un
uomo di mia fiducia. Sono certo che ce la farà».
Viviana socchiuse gli occhi, nuovamente dubbiosa, ma acconsentì.
«Fate a modo vostro, dunque, Aleandro.» concluse, aprendo e
richiudendo il ventaglio «Tornate entrambi alle vostre stanze.
Capisco che abbiate… Una certa urgenza».
Stavolta Aleandro fu il primo a inchinarsi, e il padre dovette
imitarlo un attimo dopo; quindi indietreggiarono, dando le spalle
alla regina solo dopo molti passi a gambero. Non appena
varcarono la soglia del palazzo, il Conte, visibilmente scosso, si
rivolse al figlio.
«In nome di Dio, si può sapere cos’è questa storia?» gli domandò,
guardandolo torvo «Chi è questa Linda? Da dove salta fuori?».
«La ragazza che mi ha aiutato, padre» rispose con calma il
giovane.
«Questo l’avevo già capito. Ma ti avevo detto di ringraziarla, non
di invitarla al tuo matrimonio. A quel modo, poi! Non so
nemmeno io perché ti ho coperto. O meglio, ho paura di saperlo,
ma questo non va affatto d’accordo con i matrimoni, tantomeno
con quelli reali. Adesso, figliolo, devi dirmi tutto, prima che la
situazione precipiti».
Aleandro abbassò il capo. La tentazione di rivelare tutta la storia
al padre era forte, ma sapeva bene che il risultato sarebbe stato
solo quello di mettere nei guai anche lui. No, era un problema suo,
ormai, e avrebbe dovuto affrontarlo da solo, a costo di affrontarne
le conseguenze per tutta la vita.
134
«Farò tutto ciò che è in mio potere perché non precipiti.» disse
infine, guardando il vecchio genitore «Solo questo posso
promettervi».
«Ma perché, Aleandro? Che cosa hai intenzione di fare?».
«Io? Più niente, ormai, ma temo che la regina stessa abbia
intenzione di fare qualcosa. Ora, vi prego, fidatevi di me: datemi
un uomo fidato che possa consegnare l’invito e mantenere il
silenzio».
Il Conte si morse un labbro, prima di abbassare gli occhi e
accarezzarsi la barba canuta con la mano.
«Tra mezz’ora avrai il tuo uomo.» disse, senza nascondere la sua
preoccupazione «Spero solo che tu sappia quello che fai».
Aleandro annuì, dirigendosi verso la sua stanza senza aspettare
oltre.
«Lo spero anch’io» mormorò fra sé, una volta solo.
Linda, con i palmi appoggiati a terra e i capelli che le ricadevano
davanti al viso, assorbiva a grandi boccate il denso fumo
aromatico che si sollevava dal braciere, sbattendo ripetutamente
le palpebre ogni volta. Mano a mano che i suoi sensi si
ottundevano, la sua vista si apriva sempre di più sul regno degli
spiriti. Attraverso le braci, la strega rossa vedeva attraverso i
mondi, sentiva i sussurri dei morti e degli spiriti nel loro debole
crepitare, nel sibilo del fumo che saliva fino alle sue narici. Linda
chiuse gli occhi per qualche istante, mentre sentiva le proprie
membra vacillare, ma mantenne saldi i contatti col proprio corpo.
Quando li riaprì, il fumo era come pieno di volti familiari, le loro
figure sembravano sorgere dal braciere e fluttuare nella stanza.
Linda risollevò la testa, sentendosi come intontita e si raddrizzò
un poco aiutandosi con una mano. La giovane non perse tempo.
«Vi ho convocati solo per dirvi che ho intenzione di ricorrere al
libro nero.» disse, sfidando con uno sguardo le figure evanescenti
di fronte a lei «Ho già compiuto il primo passo».
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Un brontolio cupo si sollevò dalle forme spettrali, facendosi via
via più forte di intensità.
«Può darsi che debba ricorrere anche al vostro aiuto quanto
prima.» continuò Linda, imperterrita «Che lo vogliate o no».
«Nessuno di noi approva questa tua scelta» fece una voce
maschile, la cui eco vibrò nella stanza ancora per molti secondi
dopo che ebbe parlato.
«Siete obbligati ad aiutarmi.» proseguì la giovane «Conosco i
vincoli per costringervi a farlo, se necessario: non obbligatemi».
Seguirono altri mormorii di disapprovazione, fino a quando una
nebbia in particolare si fece più vicina ed imponente. Linda
riconobbe subito sua madre anche in quell’aspetto.
«Che cosa è successo?» domandò lo spirito della donna «Dov’è
Glosci? Lui non può averti dato il suo consenso».
A quelle parole Linda dovette chinare il capo, per nulla fiera di
quanto aveva fatto.
«Glosci è nel limbo.» rispose infine «Vi resterà sino a quando
questa situazione non si sarà risolta, poi sarà libero».
«E se tu non lo risolvessi, Linda?» insistette la donna, allarmata
«Ti rendi conto che resterebbe confinato nel libro? Lascia perdere
tutto subito, qualsiasi cosa sia accaduta! Stai sbagliando tutto!».
«Non mi hai nemmeno chiesto cosa sia successo!» ribatté subito
la giovane, con rabbia «Nessuno di voi l’ha fatto!».
Il rumoreggiare degli spettri si spense di colpo, ammutoliti dall’ira
della ragazza. Persino sua madre non riuscì a replicare. Linda
sollevò da terra un foglio di pergamena recante il sigillo regale,
mettendolo in bella mostra davanti agli spiriti.
«Questa è arrivata stamani. L’invito per il matrimonio di Aleandro
e della principessa Elisabetta.» disse, scandendo bene ogni parola
«La regina ha intenzione di uccidermi ed è chiaramente disposta a
farlo anche durante una cerimonia sacra. Ma io mi difenderò, a
qualsiasi costo: troppo mi è stato strappato da quella donna,
prima ancora che avessi osato anche solo chiedere qualcosa. Il
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sangue del mio cuore ferito laverà le sue colpe e le mie! E voi
dovrete obbedirmi!».
Gli spiriti restarono in silenzio ancora qualche attimo. Alla fine,
l’ombra della mamma si fece avanti una seconda volta.
«Linda, ascoltami. Non sai quello che stai facendo.» la ammonì
«Rifletti bene, dev’esserci un’altra soluzione».
Linda strinse gli occhi e le labbra.
«La soluzione è una sola» disse, e con un gesto stizzito della mano
smosse le braci, disperdendo nel nulla le figure spettrali
«Il mio respiro è in mano alla sorte:
vendetta, a costo della morte!».
Viviana, dalla finestra della sua stanza, guardava la folla di nobili
e damigelle che affollava la corte, la trafila di splendidi vestiti e
spade scintillanti di cui erano coperti, il sole che vi rifletteva sopra
i suoi raggi generosi. Mentre si preparava per il matrimonio e
Gerda era la sola ad occuparsi di lei, a far sì che la regina fosse
ancora più meravigliosa che la principessa, Viviana inghiottiva
quell’amaro boccone poco alla volta.
«A quanto pare, tutto è andato come progettavate» disse la
domestica, che aveva notato il suo stato d’animo.
La regina, con le braccia aperte per aiutare Gerda a vestirla, scosse
appena il capo in segno di diniego. Gli occhi le brillavano, sul
punto di riversare una pioggia di lacrime.
«L’uomo che amo sta per sposare un’altra.» ribatté con voce roca
e il respiro rotto «Niente è andato come progettavo».
«Dimenticate che “l’altra” è vostra figlia» le ricordò la domestica
«E, soprattutto, dimenticate il filtro».
«Il filtro, sì. Un amore rubato, che in chissà cosa lo trasformerà.»
Viviana volle chiudere gli occhi, lasciando modo di scivolare via a
una sola lacrima «E di nascosto, poi. Come criminali».
137
«Potete sempre lasciar perdere. Il mondo è pieno di bei giovani
come lui.» provò ancora a dissuaderla Gerda «Pensate a vostra
figlia, a come sarebbe al riparo dagli scandali… A come sarebbe
felice, anche».
«E io?» ringhiò la regina, per tutta risposta «E io come sarei?
Dovrò sacrificare la mia felicità per una ragazzina che non sa
ancora cosa sia l’amore? Che forse non lo saprà mai?».
Gerda preferì lasciar perdere, limitandosi a vestirla e agghindarla
senza aggiungere altro. Viviana, intanto, scosse di nuovo il capo,
stavolta con più risoluzione.
«Se questo è l’unico modo perché sia mio, che sia.» disse,
inspirando a fondo «Avrò ciò che il mio cuore brama. Non esiste
regola a cui l’amore debba sottostare, né oggi né mai».
«Lascerò il mio dolore come pegno,
così che il mio spirito ne sia degno.
Ogni sacrificio mi sarà ben accetto,
ogni bene, ogni speranza, ogni affetto».
Aleandro si guardava allo specchio con indosso gli abiti della
cerimonia e non li vedeva nemmeno. Era il suo volto che
controllava continuamente, piuttosto che le pieghe del vestito:
ogni suo lineamento era proteso verso quello che sapeva non
sarebbe stato un giorno come gli altri. L’ansia per l’imminente
matrimonio era l’ultimo dei suoi problemi. Suo padre, dietro di
lui, lo fissava con aria apprensiva.
«Immagino che sarei egoista se ti dicessi che non volevo che
questo giorno arrivasse» disse dopo qualche minuto che il figlio
aveva terminato di vestirsi.
«Non volevate che mi sposassi?» domandò Aleandro, con
freddezza.
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«Non oggi.» rispose l’uomo, in tutta onestà «Non con quella
fanciulla, almeno».
«Perché è la principessa o perché è lei?» continuò il giovane.
Il Conte sospirò, abbassando gli occhi al pavimento.
«Perché non la ami abbastanza da sposarla» rispose infine.
Stavolta Aleandro si fermò a guardarlo, con la scusa di allacciarsi i
polsini.
«È comunque quello che sto facendo.» disse il giovane, senza dar
segno di sentirsi in qualche modo offeso per la schiettezza del
padre «Quindi forse è abbastanza, invece».
Il Conte sospirò nuovamente, posando il mento sul pugno chiuso.
Aleandro non aggiunse altro: sapeva che suo padre aveva ragione,
che l’aveva avuta fin dall’inizio, ma sapeva anche molto cose che
lui invece ignorava. A sufficienza perché, matrimonio o no, non
potesse tirarsi indietro e sfuggire alle proprie responsabilità. Se
anche avesse significato rinunciare alla propria vita, Aleandro
non poteva venir meno alla sua parola: sposare Elisabetta e
salvare, anche se ancora non sapeva come, la povera Linda da un
destino spietato. Come avrebbe potuto dormire con la coscienza
pulita sapendo di non aver fatto niente per un’innocente e, già che
c’era, per il suo stesso popolo?
«Sarà bene avviarci verso la scogliera.» disse, rivolto al padre
«Che la sposa si faccia aspettare è tradizione, ma è bene per noi
arrivare in anticipo, così da… Essere pronti».
E soprattutto, come pensò, cercare di avere la situazione sotto
controllo fin da subito.
«Ti stringerò come mio fardello,
d’acciaio duro sarà il mio anello;
dama giustizia prenderò in isposa:
qui, dentro me, la tua pace si posa».
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Elisabetta era ferma come una statua di sale: uno stormo di
damigelle le armeggiava attorno, tirandola da una parte all’altra
per farle entrare il vestito, le distribuiva gioielli che rivedevano la
luce dopo chissà quanti anni; altre le sistemavano i capelli e la
spruzzavano di essenze profumate, altre ancora si preoccupavano
di truccarle il viso con la massima precisione e i colori che più
potessero far risaltare la sua bellezza. Elisabetta, in mezzo a quel
marasma a cui doveva essere abituata, guardava la propria
immagine nello specchio con un crescendo di paura mista a
sorpresa. Nemmeno lei sapeva da dove proveniva quell’ansia che
sino a pochi giorni prima non aveva conosciuto: passava così in
rassegna gli eventi che si erano succeduti, con un’angoscia del
tutto nuova per lei, che aveva assistito persino alla dipartita del
padre senza battere ciglio. Qualcosa, dentro di lei, stava
cambiando improvvisamente, con un sommovimento degno di un
terremoto. Mentre le ornavano il bel collo con una collana di oro e
diamanti, Elisabetta distolse lo sguardo e sollevò una mano,
ordinando alle sue ancelle di fermarsi.
«Il talismano che mi ha dato la strega rossa.» disse, con un filo di
voce «Dov’è? Trovatelo, presto, voglio indossarlo».
Le damigelle si guardarono tra loro assolutamente impreparate.
Una di esse, la più anziana, si fece coraggio e le parlò
«Altezza, quel ciondolo è orribile a vedersi».
«Non mi interessa quello che pensi!» la zittì subito Elisabetta
«Voglio quel ciondolo e lo voglio ora!».
«Ma, principessa, non potete indossarlo con un abito del genere.»
continuò pazientemente la damigella «Sarebbe un pugno in un
occhio. Pensate a come anche tutti gli altri gioielli perderebbero di
luminosità».
«E allora non lo indosserò in bella mostra, ma datemi quel
dannato… Amuleto, ecco!» insistette Elisabetta «Fatelo sparire in
una piega dell’abito o scivolare nel corsetto, quello che volete, ma
io non uscirò di qui senza di esso».
140
Le altre damigelle guardarono la più anziana senza sapere cosa
fare. Quella, dopo aver tentennato qualche istante, fece loro cenno
di recuperarlo. Elisabetta, sebbene agitatissima, ne trasse un
evidente sollievo. Mentre le ancelle tornavano ad occuparsi di lei
come di una bambola, la giovane vide il proprio volto nello
specchio sparire dietro le loro mani e, per la prima volta, si rese
conto di come quella dell’amuleto fosse l’unica decisione che
aveva preso in merito a quel matrimonio.
«Presa per mano dal destino,
ti resterò per sempre vicino,
i sogni di mille dolcissimi baci
in mano ai desideri rapaci».
Dentro la casetta di Linda il silenzio era assoluto. Nessuna
vibrazione, nessun calderone ribollente, nessun sibilo proveniente
dal fuoco. Tutto taceva, dando a intendere che la strega non era in
casa. Tuttavia, qualcuno batté due colpetti all’uscio e la porticina,
con un debole cigolio, si aprì verso l’interno. La donna dall’alito
pesante e nota malalingua si ritrovò a tremare sulla soglia
nonostante il piacevole tepore del sole. L’ultima volta che era
entrata aveva assistito a un fenomeno tutt’altro che normale e ora
l’idea di ripetere l’esperienza non le andava affatto.
«Linda?» chiamò, affacciandosi timidamente alla porta.
Nessuna risposta. La donna deglutì, mentre un sudore gelido le
correva giù per la schiena. Senza nemmeno sapere con quale
coraggio lo faceva, mosse un passetto all’interno. Intravide fin da
subito un lembo del mantello rosso attraverso l’apertura che
conduceva all’altra stanza della casetta, esattamente come la volta
precedente. Per terrorizzata cha fosse, tirò un sospirone e si
avvicinò alla giovane.
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«Sei in casa: che fortuna! L’ultima volta… Ma lasciamo stare.
Volevo chiederti, visto che è giorno di festa, se ti andava di venire
a fare un brindisi da noi. Sai, mio figlio ha ottenuto quel posto di
soprastante!».
Linda non si mosse. Restava seduta sul pavimento, con la cappa
indosso sino al cappuccio, di spalle alla sua ospite. La donna la
fissò qualche secondo, già molto più nervosa.
«Oh, ehm, scusa. Magari non hai voglia.» si affrettò a dire, per
nulla tranquilla «Se vuoi anche un altro giorno, magari-».
La donna abbassò lo sguardo improvvisamente: la cappa della
strega sembrava non finire a terra come uno straccio qualsiasi, ma
anzi si dissolveva in una specie di fumo scarlatto, come una
smisurata gonna di tulle. In quel momento, Linda si voltò a
guardarla: i capelli si muovevano sotto il fruscio di un vento
intangibile, gli occhi, solitamente di quel loro inconsueto violetto,
erano due finestre bianche e accecanti aperte sul nulla; dalle
labbra sanguigne e dischiuse le sfuggì un sussurro che pareva
provenire direttamente dall’oltretomba. La donna cacciò un urlo e
corse via a rotta di collo, ringraziando tutti i santi di non essere
svenuta una seconda volta.
Lo splendore della cerimonia era semplicemente abbagliante.
Aleandro, arrivato prima di tutti, ne rimase basito: mai aveva
assistito a un simile tripudio di colori e meraviglie. C’erano fiori a
non finire, molti dei quali di specie che non aveva nemmeno mai
visto; rigogliosi rampicanti si inerpicavano su colonne di candido
marmo, come a voler circondare i novelli sposi e i fortunati
ammessi alla cerimonia di una bellezza così ammaliante da non
lasciar spazio all’amarezza. Magnifiche statue, opera dei più
grandi artisti che il regno aveva conosciuto nei secoli, erano state
condotte lì per unire allo splendore della natura quello
dell’ingegno e della fantasia degli uomini. Dèi e angeli offrivano il
loro favore e la loro benedizione: la potenza degli uni si univa
142
felicemente alla misericordia degli altri. L’arco nuziale, cinto di
rose e gigli, lo attendeva come un traguardo che culminava quello
scenario di meraviglie. A completare il tutto vi erano il cielo terso
e il mare aperto, su cui si sollevava appena una brezza leggera,
quanto bastava per riempire i loro polmoni della sua immensità.
Aleandro sarebbe rimasto ad ascoltare la sua voce in eterno, quel
giorno. Ci vollero le trombe d’argento dei musici per distogliere la
sua attenzione. Fu allora che giunsero le donne che tutti quanti
stavano aspettando. Prima venne la regina, strappando occhiate
di stupore e invidia a tutti gli invitati: la sua bellezza, non ancora
sfiorita, e la sua maestosità erano esaltate splendidamente
dall’abito dorato, dal portamento impeccabile, dalla corona e dallo
scettro saldamente nelle sue mani, che eppure apparivano tanto
leggere e gentili. Sotto lo sguardo e la riverenza di tutti, prese
posto sulla poltrona d’onore, l’unica di fianco all’arco nuziale.
Gerda non l’accompagnava, stavolta: a lei spettava il compito di
dirigere i rinfreschi, che erano già stati disposti a breve distanza
dalle panche per gli invitati. A lei, soprattutto, era affidato il filtro.
Infine venne Elisabetta, la principessa. Arrivò su un cavallo
bianco, seduta di fianco sulla sella, rivestita di un abito candido
come la neve che la faceva sembrare scesa direttamente dal cielo.
Pur senza le doti della madre, Viviana dovette subire l’onta di
vedere come nuovamente tutti gli occhi erano soltanto per lei, per
quella bellezza giovanissima e ormai irraggiungibile, per la
freschezza della sua pelle e l’innocenza dei suoi occhi, per la luce
che sembravano emanare i suoi capelli e la dolcezza delle sue
labbra e del suo sorriso. Chiunque, di fronte a una tale spettacolo,
non avrebbe potuto che sentirsi sciogliere nella sua sola
contemplazione. Solo Viviana, Aleandro e la stessa Elisabetta
sapevano cosa volesse dire la paura anche in quel momento.
Mentre raggiungeva a passi misurati lo sposo e gli invitati
seguivano ogni sua mossa, la giovane sentiva il proprio cuore
martellarle nel petto. Aleandro aspettò di averla accanto per
143
rivolgerle un sorriso gentile e porgerle la sua mano. Quando
Elisabetta vi ebbe posato sopra la sua, il sacerdote, fatto un cenno
alla regina, diede inizio alla cerimonia.
La strega rossa in quel momento tornava visibile, appena qualche
metro oltre i cancelli che separavano il palazzo dal villaggio. I
lembi del mantello rosso parevano sfumare nell’aria, il volto era
celato dal cappuccio: in una mano stringeva il bastone; sotto
l’altro braccio reggeva il pesante grimorio nero. Non furono pochi
quelli che si accorsero di lei: infatti, non era ancora trascorso un
minuto che due guardie le si pararono davanti. Linda mostrò loro
l’invito senza fiatare. Quando le dissero che non poteva
presentarsi ugualmente agghindata a quel modo, la giovane aprì il
libro e mormorò poche parole in un linguaggio arcano. Un attimo
dopo, le due guardie caddero come sacchi di patate, prive di
conoscenza. Altri si fecero avanti lungo il suo tragitto e tutti fecero
la stessa fine. Linda mosse appena le labbra in un bisbiglio:
«Venga la notte, si spenga il sole,
è il mio tormento che lo vuole».
Alzò poi gli occhi al cielo terso. In un attimo, come se le nuvole
avessero preso a rincorrersi a velocità folli, nubi scure comparvero
lunga la linea dell’orizzonte, sopra il mare, e un vento improvviso
sferzò la terra.
Sulla scogliera, il vento improvviso causò dapprima stupore e
risate, poi il suo feroce alzarsi costrinse il sacerdote a
interrompersi. Gli uomini correvano dietro ai cappelli, le donne si
sforzavano di tenere ferme le grandi gonne. Il cielo, che sino a un
minuto prima era sgombro, venne addensato da nubi
pesantissime, il mare gonfiò sotto il soffio della tempesta. I petali
delle piante venivano ghermiti dal vento, i veli di cui erano
adornate le colonne garrivano come bandiere, sul punto di
144
lacerarsi. Tutta la bellezza e persino la luce sparirono con la
rapidità del pensiero. Lo scenario meraviglioso del matrimonio si
trasformò in una baraonda di urla e maledizioni, mentre sempre
più invitati schizzavano via dai loro posti in cerca di un riparo.
Viviana, di fronte a quello sconquasso, si alzò in piedi, solo per
doversi appoggiare ad una colonna un attimo dopo: il vento
fortissimo arrivò persino a farle scivolare la corona via dal capo.
Fu allora che agli occhi dei presenti comparve la strega rossa,
l’unica che sembrava non risentire di quella tempesta. Solo il
cappuccio le scivolò alle spalle, mettendo in mostra il suo viso
altrettanto giovane, altrettanto bello.
«Chiedo scusa per il mio ritardo» disse soltanto, mostrando
l’invito nella mano sinistra.
Viviana, stretta alla sua colonna, guardò quell’invito sbalordita: le
bastò solo un secondo, tuttavia, per capire cosa fosse accaduto.
Fissò Aleandro che cercava di riparare Elisabetta dal vento
chinandosi su di lei e gridò con quanta rabbia aveva in corpo. La
voce del tuono, tuttavia, superò di gran lunga la sua. La strega
rossa avanzò in mezzo agli invitati senza timore, fermandosi a
qualche metro dall’altare.
«Avete osato troppo, regina!» esclamò, guardando Viviana con
quegli occhi incandescenti e la sua voce sempre provenire dal più
profondo degli Inferni «Avete sfidato la strega rossa e la sua
magia! Non uno dei vostri soldati è riuscito a fermarmi, né le
mura del vostro castello hanno potuto tenermi lontana da voi!
Parlate, dunque! Qual è la mia colpa? Cosa vi fa pensare di poter
sconfiggere e uccidere la strega rossa?».
Viviana stinse le dita attorno alla colonna con più forza, senza
riuscire a spiccicare parola. Linda batté il bastone a terra, alzando
il viso verso il cielo.
«Il mio respiro è in mano alla sorte:
vendetta, a costo della morte!
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Dell’aria, del mare e spiriti dei cieli,
dei vivi e dei morti squarciate i veli:
tra i nostri mondi il varco è aperto
versate la mia ira sul suolo scoperto!»
Il cielo, da scuro e minaccioso, si fece ancora più buio: le nuvole
gonfiarono enormemente, come sul punto di schiacciarsi sulla
terra e soffocarla; le onde batterono la scogliera col vigore di una
fiera scatenata, arrivando a bagnare lo stesso arco nuziale. Poi,
gradualmente, le nubi si illuminarono di lampi e si distorsero in
forme spaventose, sino a che i volti terribili di uomini torvi vi
emersero, con lo stesso aspetto imperioso che avevano le statue
degli antichi dei. Creature d’aria e d’acqua volarono dalle nuvole
sin sulla superficie dell’acqua, nereidi e tritoni emersero dalle
schiume delle onde, assediando la scogliera. Quando gli spiriti
della tempesta parlarono con la voce del tuono, tutti i presenti
cominciarono a urlare a più non posso. Nobili e soldati, sacerdoti
e camerieri, tutti gridavano e correvano in ogni direzione,
scavalcandosi e rovesciando panche e tavoli, abbandonando sul
posto tutto ciò che era d’impaccio. Attorno alla strega rossa il
vento si faceva ancora più forte, facendo brandelli dei ricchissimi
abiti e delle insegne in alto sui torrioni. Nel cielo, intanto, il volto
più regale e spaventoso parlò, affiancato dal coro degli spiriti.
«Tremate alla nostra venuta, o viventi,
tingete il giorno dei vostri lamenti!
Non per portavi pace siamo venuti,
ma con la collera, per essere temuti!
Banditi dagli inni e dalle preghiere,
ricordi di ormai remotissime ere,
eccoci a voi col nostro carico di rancore
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per darvi un assaggio del vero terrore!».
Quanti avevano esitato a scappare, a quelle parole si dispersero in
tutte le direzioni. Viviana, cercando di seguire il loro esempio, si
allontanò dalla colonna di corsa, ma la terra si spaccò davanti ai
suoi piedi, facendola cadere all’indietro prima che precipitasse
nella voragine che si apriva proprio dinnanzi a lei. Aleandro, da
parte sua, sentì Elisabetta farsi pesante tra le sue braccia:
voltandosi verso di lei, vide che la fanciulla aveva perso i sensi.
Mentre la gente fuggiva da quel luogo apocalittico, Linda restava
ferma dov’era, ritta col suo bastone, a fissare compiaciuta la
regina. In alto, lo spirito parlò nuovamente.
«Ci hai richiamato qui, ragazza mortale.» disse «Coloro che
cadranno oggi giungeranno a noi in sacrificio. Sventura sui tuoi
nemici, dunque: io e i miei compagni siamo ministri del Fato!».
«Sacrificio?» gridò Aleandro, per farsi sentire dalla giovane «Che
cosa stai facendo? Vuoi sporcarti le mani nella colpa?».
«Quale colpa?» urlò di rimando Linda «Quella di aver punito una
donna malvagia, disposta a uccidere un’innocente e a derubare la
sua stessa figlia del proprio marito? Quale male, donna meschina,
ti ha fatto l’amore, da odiarlo a tal punto?».
Viviana, rialzatasi, la fissò con odio cocente.
«Il mio amore è pari al tuo!» gridò la regina, fuori di sé dalla
rabbia «Il tempo mi è stato nemico! Se fossi stata più giovane,
tutto questo non sarebbe successo! Il tempo mi ha portato via
tutto ciò che avevo!».
«Il tempo non è amico di nessuno!» ribatté Linda, con foga «È
l’unica vera giustizia che ci è rimasta! La sua… E la mia! Preparati,
dunque, ad affrontare il giudizio di questi spiriti, perché ad essi io
consegnerò te e tutti quanti mi si pareranno innanzi!».
Linda batté nuovamente il bastone a terra, e il vento aumentò
ancora di più, così come le nuvole e i volti che mi emergevano si
fecero più vicini alla terra, al punto che quasi potevano sfiorarla.
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La giovane aprì quindi il grimorio, mentre attorno a lei, gli ultimi
invitati scappavano via in cerca di scampo. Aleandro reagì
d’impulso. Depose a terra il corpo inerte di Elisabetta e corse
verso Linda come un lampo. La strega fece appena in tempo a
rialzare gli occhi che il giovane le si gettò addosso, facendole
cadere il librone di mano. Subito il vento sembrò perdere
sensibilmente di forza. Aleandro strinse la ragazza per le spalle,
mentre lei lo fissava a bocca aperta, incapace di muovere un solo
muscolo. Avrebbe potuto liberarsi in qualsiasi momento, usare su
di lui un incantesimo come aveva fatto per molti altri: ma
qualcosa la tratteneva, lasciandola immobile come un fantoccio
tra quelle braccia che sentiva per la prima volta strette attorno al
suo corpo. Lentamente, i suoi occhi persero quella sinistra
luminosità, ritornando del loro colore: due provati, stravolti,
curiosi occhi viola. Aleandro allentò la presa su di lei fino a
rilasciarla, quindi si alzò in piedi. Intanto che la sua
determinazione e le sue energie si dissipavano, Linda tremava
come se tutto il freddo che aveva scatenato le si fosse riversato
dentro. Gli effetti dell’incantesimo andavano svanendo, ma
vedeva ancora i volti degli spiriti sopra di loro. Sapeva cosa voleva
dire e, singhiozzando debolmente, la giovane si voltò a guardare il
libro a terra, chiuso. Mentre le lacrime le rigavano il viso, protese
una mano verso di esso, senza riuscire a raggiungerlo. Aleandro
non fece nulla per impedirlo, limitandosi a controllarla.
«Glosci…» sussurrò, con voce rotta «Aiutami…».
Linda riabbassò il braccio, senza forze. Un istante dopo, le pagine
del libro cominciarono a tremolare e a brillare: poi, di botto, si
aprì a metà e il piccolo animale, il famiglio, il raro esemplare di
Ratto delle Sabine, balzò fuori come una molla, atterrando con
una capriola sulle piastre di pietra. Glosci si passò una manina
sulla fronte, sollevato, prima di voltarsi di scatto verso la sua
padrona e correre tra le sue braccia. Aleandro, che aveva assistito
a tutta la scena, era rimasto a bocca aperta: guardava ora il piccolo
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animale che faceva di tutto per stringere come poteva la giovane
ormai impotente, mormorandole parole di incoraggiamento e
chissà cos’altro. D’un tratto, tuttavia, la tonante voce dei cieli si
fece udire di nuovo.
«Siamo stati evocati qui per una ragione.» disse lo spirito «Non ce
ne andremo senza il nostro sacrificio».
Linda interruppe per un attimo di piangere, solo per ricominciare
subito dopo. Aleandro alzò il viso al cielo, girandosi su sé stesso.
«Non c’è bisogno di alcun sacrificio!» esclamò in risposta alla
richiesta dello spirito «Andatevene! Non c’è più nessun bisogno di
voi!».
«Non puoi darci ordini, mortale.» ribatté lo spirito, inflessibile
«Né conosci le leggi che ci governano. Né tu né io, re di questi
spiriti, possiamo fare qualcosa per cambiarle: non ce ne andremo
di qui sino a quando non ci sarà stato offerto un tributo».
Linda alzò gli occhi come meglio poté, quindi riabbassò il capo.
«Prendete lei, allora!» gridò Viviana, che era di nuovo stretta alla
sua colonna «Prendetela e andatevene! È lei l’unica colpevole
qui!».
Aleandro la fissò con sgomento. La strega, intanto, si era messa in
ginocchio come meglio poteva. Allontanò il famiglio da sé con
gentilezza, senza voler rialzare il viso.
«Ho fatto una sciocchezza troppo grossa a volerti confinare.»
mormorò, con un sorriso triste «Guarda che disastro ho
combinato. È giusto che qualcuno paghi per questo… E devo farlo
io. Ma tu non hai colpe, e lo sai».
«E ti aspetti che stia qui a vederti sacrificare da sola?» le
domandò Glosci, in tutta calma «Sono il tuo famiglio. Di
professione veglio sulle streghe rosse scriteriate già da qualche
secolo: tu non sei né meglio né peggio di loro. Non posso mica
separarmi da te così.» e le saltò in braccio come se nulla fosse,
preoccupandosi anche di mettersi comodo «Quando sei pronta, lo
sono anch’io».
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Linda lo guardò in silenzio, prima di rimettersi a piangere
silenziosamente, senza tuttavia perdere il suo tiepido sorriso. Alzò
gli occhi alle nuvole e rivolse solo un cenno allo spirito, prima di
chinare il capo. Aleandro voltò gli occhi, vedendo tutti quei volti
farsi inesorabilmente vicini. Guardò Linda, il piccolo animaletto
parlante accoccolato tra le sue braccia e si voltò a fissare
Elisabetta, ancora inconsapevole, a terra.
Gli spiriti erano solo a pochi metri quando si girò di scatto,
correndo come un pazzo. Viviana se lo vide arrivare addosso senza
il minimo preavviso. Fece appena in tempo a immaginare che cosa
volesse fare che lo sentì impattare contro di lei. Un attimo dopo,
sotto i suoi piedi non c’era più il solido terreno e Viviana si ritrovò
in aria, oltre la scogliera. Guardò in basso di scatto, quindi gridò,
mentre vedeva le onde implacabili farsi immediatamente vicine e
le braccia di ninfe marine e tritoni aprirsi per accoglierla nel loro
abbraccio. Nel momento stesso in cui il suo corpo scomparve tra
le acque, gli spiriti del cielo si arrestarono, ormai sopra il corpo
inerme della strega, e il loro re si voltò verso Aleandro, ancora in
piedi sulla scogliera.
«Il sacrificio è stato compiuto.» disse lo spirito, con aria solenne
«Il tuo patto è stato onorato, ragazza mortale».
Poi, rapidamente com’erano comparsi si ritirarono nel cielo e si
dispersero improvvisamente ai quattro angoli del mondo,
lasciando un cielo ancora cupo, ma non più minaccioso, come
appena dopo l’ultimo rovescio della tempesta. Persino il vento si
acquietò, lasciando al suo posto solo quella brezza che l’aveva
preceduto.
Aleandro, dopo aver tirato il fiato, guardò le due fanciulle a terra,
la principessa e la strega: in quella scelta, lo sapeva, si sarebbe
consumato il suo destino. A passi decisi, infine, si diresse verso
Linda. Quando arrivò, la giovane si decise a risollevare il viso e
chiunque avrebbe potuto dire che era di nuovo la piccola e incerta
ragazza avvolta in un mantello troppo grosso per lei. Aleandro si
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inginocchiò attentamente di fronte a lei, restando a osservarla per
qualche attimo. Linda, comprensibilmente, non sapeva che cosa
fare, o dire: l’unica cosa che le riuscì bene fu quella di tremare
come una foglia. Alla fine Aleandro sospirò pesantemente e si
guardò intorno.
«Vedi qualcuno che sta guardando?» le domandò, abbassando il
capo.
La giovane riuscì a malapena a gettare un paio di occhiatine a
destra e a sinistra, incapace di rispondergli.
«Io non guardo!» fece Glosci, da sotto le sue braccia,
restandosene rintanato lì dov’era.
Aleandro sorrise, rialzando la testa. Poi, senza perdere altro
tempo, le prese il viso nella destra con delicatezza e si sporse per
posarle un bacio sulle labbra, mentre Linda spalancava gli occhi
tipo un pesce palla. Ora, io vorrei raccontarvi che fu un bacio
lungo e intenso, ma il fatto è che appena lei riuscì a realizzare quel
che stava succedendo, si trovarono costretti a interrompersi.
«A-hem.» fece infatti il Conte di Vallechiara, schiarendosi la voce
«Non per disturbarvi…».
«Nononono, nessun disturbo» sussurrò Linda con un filo di voce,
senza nemmeno rendersi conto di quel che diceva.
«Nooo, perché disturbare?» fece invece Aleandro, con sarcasmo,
rimettendosi in piedi «Ma dov’eravate finito?».
«Hai presente quella folla urlante? Io ero sotto.» rispose il Conte,
spostando poi lo sguardo sulla ragazza «Ma immagino che abbiate
qualcosa da dirmi, tu e … La strega rossa».
«Linda» lo corresse il figlio.
«Linda, sì» ripeté la giovane, che aveva ripreso a tremare.
«Glosci» disse invece il famiglio, saltando fuori dalle sue braccia
con aria soddisfatta.
«Oh.» balbettò il Conte, alquanto impreparato «Linda, sì… Chissà
perché ma dovevo immaginarlo. E adesso, uhm… Adesso che
farete?».
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Linda guardò Aleandro come per ripetergli la stessa domanda. Il
giovane si grattò la testa, chiaramente senza troppe idee.
«Non lo so.» rispose sinceramente, voltandosi quindi verso di lei
«Proviamo a vedere come va a finire?».
«Ah, beh, io, uhm, cioè…» Linda cominciò a gesticolare a vuoto,
impreparata «Direi di sì. Cioè, assolutamente sì. Alla grande,
ecco».
«Eh. È un inizio.» commentò il Conte, vivamente perplesso «Ma,
Aleandro, ti ricordi che ti stavi sposando, mezz’ora fa?».
«Sì, certo… Mezz’ora fa» sottolineò il giovane.
«E hai anche ucciso la regina».
«Che voleva uccidere lei e chissà quanti altri. E ha ucciso il re,
prima. E, se ho ben capito…» e qui guardò Linda con una certa
incredulità «Voleva… Me?».
«Certo che è proprio un salame.» fece Glosci, che non riusciva a
capacitarsi della sua ingenuità «Eroismo a parte, eh. Quello glielo
concedo. Solo quello, però».
«Hai comunque ucciso la tua regina.» riprese il Conte, con aria
più grave «Questa… È una colpa gravissima, te ne rendi conto?».
Aleandro si posò le mani sui fianchi, guardando in direzione della
scogliera.
«Esiste una soglia che non possiamo passare, se non vogliamo
trasformarci in bestie.» disse, socchiudendo gli occhi «Io so di
non averla passata. Lei avrebbe potuto dirlo?».
Il Conte chinò il capo in avanti, accarezzandosi la barba con una
mano.
«C’è di buono che sembra non ci siano testimoni, a parte noi»
mormorò, rassegnato all’idea di dover coprire ancora una volta il
figlio.
«Vi sbagliate» fece però una voce alle loro spalle.
Gerda venne avanti col volto scuro, intercettando
immediatamente lo sguardo di tutti.
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«Io ho visto tutto.» disse la donna, fermandosi davanti al Conte
«Ma non ne farò parola con nessuno, se è questo il vostro timore.
Viviana è… Era mia amica, prima che la mia regina. Se andassi in
giro a dire cos’è accaduto, voi la accusereste subito per l’omicidio
del re Edoardo e per quello che aveva tentato qui. Non voglio che
questo accada».
Aleandro la squadrò con attenzione in viso.
«Volete che manteniamo il silenzio in cambio del vostro
silenzio?» domandò il giovane «È questo che volete?».
Gerda annuì, incrociando le braccia.
«Viviana scelse di non infangare suo marito quando avrebbe
potuto.» spiegò la domestica «Adesso mi sembra giusto che voi
facciate lo stesso con lei».
Frattanto, il Conte si era spostato per vedere in che condizioni si
trovava Elisabetta, di cui nessuno sembrava volersi interessare.
Vistala in salute, benché svenuta, si affrettò a cercare qualcosa nei
dintorni per farla rinvenire e subito gli balzò agli occhi una
fiaschetta che doveva essere arrivata lì dal tavolo dei rinfreschi.
Senza perdere tempo, quindi, la stappò e, sollevata la testa della
fanciulla, le fece mandar giù un sorso. Linda, che osservava la
scena da qualche secondo, fece appena in tempo a fare
un’espressione allarmata e a lanciare un urlo che ormai il danno
era stato fatto. Subito il Conte si voltò verso di lei senza capire.
«Che succede?» domandò, guardando l’espressione della giovane,
e in un attimo anche quella di Gerda fu all’incirca la solita: proprio
nel momento in cui Elisabetta, fra i colpi di tosse, riapriva gli
occhi.
Il Conte abbassò gli occhi su di lei con aria apprensiva,
accarezzandole la fronte e badando che la giovane fosse padrona
di sé stessa. La cosa che lo colpì immediatamente, tuttavia, fu il
lampo incredibilmente vivo che passò negli occhi di Elisabetta.
«Il filtro…» riuscì a malapena a dire Linda.
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La principessa in compenso sbatté le palpebre un paio di volte e
guardò a lungo l’uomo.
«State bene?» gli domandò quello, curandosi prima di tutto della
salute della ragazza.
«Bene? Certo che sto bene!» fu la rapida risposta di Elisabetta,
che subito gli cinse il collo con le braccia e, tutta felice, gli posò un
bacio su una guancia «Sto sempre bene quando vi vedo!».
«Ah… Veramente?» domandò il Conte, inebetito.
«Ma certo, certissimo! Vi spiace se mi alzo? Sto meglio in piedi
che mezza sdraiata per terra».
Glosci, nello sbigottimento generale, era l’unico che osservava la
scena con soddisfazione.
«Meglio di come speravo» disse, incrociando le zampe tutto
contento.
«Speravi cosa?» esclamò Linda, spaventatissima «Ha bevuto il
filtro per lui!».
«Naa, non proprio quel filtro.» rispose il famiglio «Ci ho fatto una
piccola aggiunta di nascosto».
Aleandro si voltò a guardarlo.
«Quella sera che ti ho visto sul balcone…» disse, ricordandosi di
quel particolare.
«Esatto. Vedi che non sei poi così salame?».
«Ma si può sapere che accidenti hai combinato?» fece Linda, che
ancora non ci capiva niente.
«Cosa vuoi che ci abbia fatto? Ho aggiunto qualche ingrediente.»
Glosci fece spallucce, tutto tranquillo «Ho visto dove Gerda aveva
messo il filtro tramite lo specchio, sono andato a palazzo di notte e
ho compiuto la mia perfida missione di sabotaggio. Ora il filtro
funziona un po’ come… Un’improvvisa botta di amore materno. O
paterno, ecco. Divertente, non ti pare?».
«Vuoi dire che adesso Elisabetta vuole bene al Conte come a un
padre?» domandò la giovane, indicando la principessa che non
faceva altro che abbracciare il padre di Aleandro.
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«Precisamente. Cosa credevi, di saper creare filtri solo tu?» fece il
famiglio, in un moto d’orgoglio «Dilettante. Ho qualche secolo di
esperienza più di te, ricordatelo».
«Beh, se non altro a qualcosa sarà servito.» fece Aleandro,
affiancandosi a Linda «Qualcuno dovrà pur governare. Non
possiamo lasciare il regno in mano a Elisabetta».
«Posso prepararle un filtro per sviluppare l’intelligenza.» fece la
strega, in un lampo di genio «Non ho mai provato, ma magari…»
Tutti e tre, compresa Gerda, la guardarono subito malissimo.
Linda, per una volta, scelse di optare per il silenzio. Il conte,
intanto, si trovava alle prese con una ragazza svampita che non
voleva staccarglisi di dosso a nessun costo. Aleandro si lasciò
andare ad una piccola risata.
«Dici che si accontenterà di avermi come fratello?» domandò a
Linda, divertito dalla scena.
La strega rossa inarcò un sopracciglio, prima di stringerglisi a un
braccio con fare possessivo.
«Sarà meglio per lei» bofonchiò, già gelosa.
Aleandro alzò gli occhi al cielo, prima di passarle il braccio attorno
alle spalle. Qualcosa gli diceva che Linda non avrebbe mai
imparato la lezione ma, d’altronde, chi ci riesce veramente?
Negli abissi marini, Viviana guardava la propria coda da sirena
con aria dubbiosa.
«Quindi, se ho capito bene, sono “condannata” a fare la ninfa
marina per l’eternità?» fece, alzando gli occhi verso il tritone che
le stava davanti.
«Guarda che è un lavoro duro.» le ricordò quello «Devi guidare le
onde, fare la guardia alla barriera corallina, ogni tanto cantare per
attirare i marinai…».
«Un lavoraccio, insomma.» commentò lei, ironica «Probabilità di
invecchiamento? Zero, giusto?».
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«Sei morta.» ribatté il tritone, stancamente «Da quando in qua i
morti invecchiano?».
«Oh, questo è quello che volevo sentire.» Viviana provò la sua
pinna ondeggiando da una parte all’altra del fondale marino,
prima di spostare gli occhi sull’altro «Sei libero a cena,
belloccio?».
Il tritone si appoggiò al suo tridente, esasperato. Le ninfe non
cambiavano mai, non importava da dove venissero. Un po’ come
le streghe, rosse o azzurre che siano. Ma… Guai se non ci fossero!
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«Il cuore di una persona non può essere
assoggettato ai voleri di nessuno» affermò
la domestica, sicura di quel che diceva.
Viviana rimase immobile, con le mani
artigliate alla propria gonna ampia e
gonfia, il labbro che le tremava d’ira.
«Si può, invece.» disse, sorridendo con
risolutezza «Rimarrà una faccenda pulita,
se ricorrerò alla strega rossa».
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