LICEO ARTISTICO IDONEITÀ ALLA CLASSE V FILOSOFIA · seconda metà dell’Ottocento, il tedesco...

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LICEO ARTISTICO

IDONEITÀ ALLA CLASSE V

FILOSOFIA

− La filosofia nel Rinascimento e la Rivoluzione Scientifica

− Il pensiero politico dell'età moderna: Hobbes, Locke, Rousseau

− Razionalismo ed Empirismo

− Kant: filosofia, teoretica, etica, estetica

− Lineamenti generali della filosofia idealista

− L'idealismo di Hegel

− Illuminismo

− Romanticismo

LA FILOSOFIA NEL RINASCIMENTO E

LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA

Il fenomeno culturale dell'Umanesimo e del Rinascimento è difficilmente definibile

in modo univoco, perché presenta sia elementi di continuità, sia elementi di novità

rispetto all'epoca medievale precedente, ponendosi più propriamente come un

momento di transizione verso l'età moderna. Proprio questa sua ambiguità ha portato

gli storici a oltrepassare la classica interpretazione, avanzata per la prima volta da

Jacob Burckhardt, di una radicale frattura fra Medioevo e Rinascimento, favorendo la

ricerca dei tratti comuni alle due epoche e rinunciando alle grandi sintesi sul

Rinascimento; viene privilegiata piuttosto l'analisi delle molteplici e a volte

contraddittorie componenti di questa importante stagione culturale.

Per lungo tempo i termini “Umanesimo” e “Rinascimento” sono stati usati

praticamente come sinonimi, per indicare il movimento culturale che, fiorito in Italia

nel Quattrocento, si è poi diffuso in Europa durante il Cinquecento, nel segno di un

rinnovamento radicale della letteratura, dell’arte, della filosofia e della scienza. Nella

seconda metà dell’Ottocento, il tedesco Georg Voigt e lo svizzero Jacob Burckhardt li

distinsero nettamente, vedendo nell’Umanesimo un momento essenzialmente

filologico-letterario incentrato sugli studi umanistici e classici, e nel Rinascimento un

momento filosofico-scientifico, basato su una più matura consapevolezza intellettuale

e su un nuovo modo di considerare l’uomo, la natura e Dio.

La distinzione tra i due concetti, si tornò invece ad avvicinare i due termini,

considerando l’Umanesimo non come separato dal Rinascimento, ma come la prima

parte del suo programma innovatore. Di conseguenza, mentre secondo Burckhardt

l’Umanesimo sarebbe una delle cause del Rinascimento, che solo dopo il

risorgimento delle lettere avrebbe portato a un cambiamento nella visione del mondo,

secondo la linea interpretativa che si rifà a Burdach l’Umanesimo, con il rifiorire

degli studi classici, sarebbe già uno degli effetti dello spirito rinascimentale.

Ovviamente, nell’ambito di quest’ottica critica, il concetto storiografico di

Rinascimento implica un’estensione di significato, poiché cessa di coincidere con il

Cinquecento in senso stretto e finisce per denotare l’intera civiltà culturale del

Quattrocento e del Cinquecento.

Con il termine Umanesimo si è soliti indicare la cultura del '300 e del '400, legata

alle humanae litterae, vale a dire le discipline che si occupano del recupero e

dell'interpretazione dei testi classici dell'antichità greca e romana. L'Umanesimo dà

vita all'età nuova caratterizzata da un modo innovativo di fare cultura e da un marcato

interesse per la vita attiva. In generale gli autori umanisti concentrano la loro

attenzione sull'impegno dell'uomo nelle relazioni pubbliche e nelle funzioni civili. In

questo senso lo studio e la preparazione dottrinale vengono concepiti non come fini a

se stessi, ma come subordinati e indirizzati all'esercizio di attività di interesse

comune.

Così traducendo in pratica le istanze prevalentemente teoriche del Medioevo, si

adoperano per costruire una società nuova, che in una città non più feudale, possa

esprimere, attraverso l'esercizio di tutte le arti, il rinnovamento del pensiero e della

vita dovuto alla riscoperta e alla rilettura dei classici. Il rinnovato interesse per la

letteratura e per la filologia determina nell'Umanesimo un mutamento dell'idea e dei

criteri della verità. Mentre infatti la tradizione Scolastica precedente li individua nella

coerenza interna, logica e formale, delle singole dottrine, l'Umanesimo li sostituisce

con le norme della retorica, che permettono l'uso persuasivo dei luoghi comuni del

discorso.

Autori come Petrarca e Valla si battono per sostituire al modello aristotelico di

scienza, basato sulla brevità della deduzione logica, l'autorità culturale degli oratori

antichi, Cicerone e Quintiliano, additati come i migliori rappresentanti dell'indole più

nobile della classicità. A fianco ai luoghi tradizionali di studio, soprattutto in Italia,

fioriscono centri indipendenti di ricerca letteraria, artistica e filosofica costituiti da

gruppi di specialisti, che si organizzano in accademie, come nel caso fiorentino

dell'Accademia platonica, talvolta facendo capo alle corti di principi e magnati.

In autori come Alberti, Pontano, Pico della Mirandola, Bembo, Castelvetro,

Fracastoro le personalità dell'artista e dell'erudito, accostate a quella del pensatore

puramente contemplativo, permettono la produzione di opere aperte

all'interdisciplinarietà in cui si intrecciano la dimensione speculativa e quella affettiva

e pratica, legata in maggior misura al mondo propriamente "umano" della civiltà e

della politica. Dignità, miseria e fortuna dell'uomo diventano temi ricorrenti, come

nei lavori di Machiavelli, Guicciardini e Sarpi.

La nozione di Rinascimento abbraccia più in generale il periodo compreso fra il XIV

e XVI secolo, caratterizzato da un programma e da un progetto di "rinnovamento"

spirituale, religioso, culturale e politico. Il Rinascimento è innanzitutto un fatto di

cultura, una concezione della vita e della realtà che opera nelle arti, nelle lettere, nelle

scienze, nel costume con l'intenzione di riproporre i modi e le forme di vita

intellettuale e artistica dell'età classica.

Le arti e il nuovo ruolo degli intellettuali muta insieme alla rivoluzione culturale in

corso. Il mondo che si riflette nelle arti figurative, nella letteratura e negli ideali

educativi del Rinascimento è un mondo più spesso enigmatico e inquieto che limpido

e armonioso. Tuttavia, l'espressione delle arti figurative trova in esso uno spazio

straordinariamente ampio di manifestazione in una nuova sintesi di natura e di

proporzione con cui si raffigura l'armonico rapporto tra l'uomo e le cose. La

letteratura stenta a raggiungere un risultato analogo, perché parzialmente impedita dal

divario esistente tra il primato culturale del latino, l'idioma dei modelli letterari, e

l'imporsi del volgare come forma linguistica predominante.

La circolazione degli intellettuali e degli artisti nelle diverse città della penisola

italiana è favorita dalla crescente pratica del mecenatismo: il mecenate si presenta

non solo come benevolo protettore della cultura, ma come soggetto capace di

progettare gli investimenti nel campo delle lettere, delle arti e delle città per dare

espressione ai valori dell'umanesimo. La cultura in generale, e quella filosofica in

particolare, subiscono, durante tutto il Rinascimento, un processo di laicizzazione che

si concluderà nell'età moderna. Infatti, di Aristotele, principale autore studiato nelle

università, vengono privilegiate le problematiche logico-gnoseologiche e fisiche, e di

Platone, vera novità filosofica dell'epoca, vengono accentuati soprattutto

l'antropocentrismo e una concezione naturale della divinità.

Nel XX secolo, riprendendo il punto di vista di Voigt e Burckhardt, lo studioso

tedesco-statunitense Paul Oskar Kristeller elaborò la tesi secondo cui gli umanisti

sarebbero filologi, ma non filosofi, poiché nella loro mania letteraria, sfociante in un

vero e proprio fanatismo antiquario ed estetizzante, avrebbero trascurato il pensiero

speculativo, saltando a piè pari le complesse elaborazioni dottrinali del Medioevo.

Pertanto, secondo Kristeller, solo l’aristotelismo rinnovato del Rinascimento, e non

certo l’Umanesimo, esprimerebbe le idee filosofiche dell’epoca. Questa valutazione

riduttiva dell’Umanesimo venne respinta da altri studiosi, soprattutto da Eugenio

Garin, secondo il quale gli umanisti, pur non avendo elaborato quel tipo di filosofia

che era proprio delle grandi “cattedrali di idee” dell'odiata filosofia scolastica,

avrebbero concretamente filosofato sui vari problemi antropologici, etici, politici,

economici, estetici ecc.

Anzi, secondo questo punto di vista, la stessa filologia umanistica porterebbe già in sé

una nuova filosofia, poiché quel l'appassionata ricerca di manoscritti nelle biblioteche

polverose di chiostri e abbazie – che costituisce uno dei tratti più appariscenti di

quest’età – manifesterebbe di per sé un nuovo modo di rapportarsi al mondo antico e

di concepire l’uomo. Insofferenti alle tenebre medievali, gli umanisti si sentono

irresistibilmente attratti dalla luce della classicità latina e greca, e vedono in essa un

esempio di vita. Pertanto, nel loro umanesimo letterario è già implicito un umanesimo

filosofico fondato sulla duplice convinzione che gli antichi abbiano incarnato al

massimo grado i valori dell’esistenza e che gli studi classici rappresentino uno

strumento indispensabile per ingentilire i costumi e per educare l’uomo,

conferendogli il possesso delle sue capacità autentiche. Tant’è vero che le 'litterae'

vengono dette 'humanae' perché forgiatrici di uomini veri, e le arti vengono definite

liberali perché forgiatrici di individui liberi.

Ora, può sembrare paradossale che proprio mentre stavano gettando le premesse del

mondo moderno, i rinascimentali abbiano sentito la necessità di richiamarsi

all’antico. In realtà, per loro si trattava piuttosto di riappropriarsi di quelle possibilità

che il mondo classico aveva dischiuso agli uomini e che, disconosciute o ignorate dai

secoli bui del Medioevo, dovevano ritornare a essere patrimonio della civiltà. Si

trattava dunque di riprendere il lavoro degli antichi laddove era stato interrotto e di

continuarlo nello stesso spirito, per riportare l’uomo all’altezza della sua vera

natura. Tale fu l’intento comune degli uomini del Rinascimento, per i quali

l’antichità giocò il ruolo di una “norma” o di un ideale da rinverdire nella sua

purezza. Le dottrine più tipiche del Rinascimento – le stesse che fondano la sua

originalità nei confronti del Medioevo – sono quelle circa l’uomo, la storia e la

natura. Ovviamente esse non si trovano tutte e contemporaneamente in tutti gli autori,

ma essendo condivise, nel loro insieme, da un gran numero di scrittori, servono a

delineare molto bene la peculiare “atmosfera filosofica” del Rinascimento.

Il platonismo rinascimentale

Con l'Umanesimo si ebbe una vera e propria riscoperta di Platone, che si

concretizzò nel cosiddetto “platonismo rinascimentale”, sviluppatosi nell'ambito delle

accademie. I motivi per cui si amò l'autore dei Dialoghi e lo si elesse a maestro del

novo pensiero, facendolo divenire “filosofo alla moda”, furono molteplici: in lui si

vide il più artista tra i filosofi e la figura più affascinante della classicità. Ma si

presentava anche come l'antagonista di Aristotele e dell'aborrita filosofia scolastica.

Platone appariva così come il più adatto a esprimere l'inquietudine dell'uomo e la

complessità dinamica del reale. Ma soprattutto si considerò Platone come il filosofo

più vicino allo spirito religioso del cristianesimo e come il più consono ad esprimere

il rapporto tra Dio e mondo in termini di circolarità e amore.

Platone, però, continuò ad essere interpretato in chiave sostanzialmente neoplatonica.

Il platonismo rinascimentale fu un insieme complesso e multiforme di elementi

disparati: planctonici, neoplatonici, orfici, pitagorici, ermetici e cristiani. Di

conseguenza, anche il Rinascimento, nonostante la disponibilità dei testi, fu ben

lontano dal conoscere l'autentico volto del filosofo e il suo platonismo fu

sostanzialmente una forma rielaborata di neoplatonismo cristianeggiante.

L'aristotelismo rinascimentale

Lo sviluppo delle accademie non determinò la fine delle università, che continuarono

la loro opera di ricerca e di insegnamento. Nel loro ambito fiorì l'aristotelismo del

Rinascimento. Secondo Kristeller, questa corrente si configura come un aristotelismo

antiscolastico. Le nuove tendenze filologiche e gli indirizzi speculativi emersi nel

'400 avevano determinato l'esigenza di scoprire il “vero” Aristotele: da ciò la

traduzione filologicamente più corretta dei testi originali e dei commentatori ritenuti

più fedeli a essi, soprattutto Alessandro di Afrodisia e Simplicino.

La rilevanza storica del movimento aristotelico è sostanzialmente duplice:

1. esso contribuì a indirizzare la ricerca sul problema della natura,

configurandosi come manifestazione essenziale della mentalità realistica e

concreta del Rinascimento;

2. difese i diritti della ragione, individuando in essa lo strumento primario

dell'indagine filosofica e dell'osservazione scientifica dei fatti dell'esperienza.

Tuttavia, l'aristotelismo rinascimentale mostra i suoi limiti proprio in relazione a

questi stessi punti che sanciscono la sua importanza storica. Infatti, dando per

scontata la validità scientifica delle dottrine del maestro, i suoi seguaci rinascimentali

continuarono tendenzialmente a spingere la realtà secondo gli schemi della Fisica

aristotelica, ostinandosi a voler contenere i fenomeni della natura mediante nozioni

metafisiche come i concetti di essenza e di causa finale, restando legati a

considerazioni qualitative del mondo.

La concezione rinascimentale dell’uomo

Il nucleo dell’antropologia rinascimentale risiede nella celebre affermazione, attinta

dal mondo classico, secondo cui homo faber ipsius fortunae (l’uomo è fabbro della

propria sorte), mediante la quale gli scrittori del Rinascimento intendono dire che la

prerogativa specifica dell’uomo, cioè la sua “dignità” particolare nei confronti degli

altri esseri, risiede nel forgiare se medesimo e il proprio destino nel mondo.

Nell’orazione De hominis dignitate (Sulla dignità dell’uomo), che può essere

considerata come una sorta di manifesto dell’antropologia rinascimentale,

Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494) presenta l’uomo come «libero e sovrano

artefice di se stesso», cioè come un essere che, avendo una natura plastica e

indeterminata, ha la possibilità di progettare se stesso, assumendo mille forme

diverse. La frattura con il Medioevo risulta qui evidente: mentre l’uomo medievale

si considerava parte di un ordine cosmico già dato, che egli doveva solo riconoscere

intellettualmente e seguire praticamente, l’uomo del Rinascimento ritiene di dover

costruire e conquistare da sé il proprio posto nel mondo. Come si è già accennato,

questa non è che l’espressione filosofica o concettuale di capacità e poteri che l’uomo

aveva attribuito a se stesso già da qualche secolo e che aveva esercitato e continuava

a esercitare in quelle città che furono la culla dell’Umanesimo.

Già nella scolastica, a partire dall'XI secolo, l’uomo aveva rivendicato un’autonomia

sempre maggiore della ragione, cioè della propria iniziativa intelligente, nei confronti

delle istituzioni tipiche del mondo medievale (la Chiesa e l’impero), le quali

tendevano a far apparire come derivanti dall’alto tutti i beni di cui egli poteva

disporre. Nell’Umanesimo rinascimentale, tuttavia, questa autonomia viene affermata

o riconosciuta in modo più radicale, dando luogo a un modo di pensare che

caratterizza gran parte della successiva visione occidentale dell’uomo, fino ai giorni

nostri. Per essere intesa correttamente, l’antropologia del Rinascimento necessita

tuttavia di alcune chiarificazioni.

L’uomo e Dio

Mentre nella filosofia moderna la concezione dell’uomo come soggetto del proprio

destino mondano assume spesso un significato antireligioso e “prometeico” (si ricordi

che Prometeo era l’eroe mitologico che aveva strappato il fuoco agli dei), nel

Rinascimento essa coesiste con la concezione religiosa dell’uomo-plasmatore come

immagine del Dio-creatore. Ciò traspare esplicitamente dall’orazione di Pico della

Mirandola o dallo scritto sulla dignità ed eccellenza dell’uomo di Giannozzo Manetti

(1396-1459): «Dopo che Dio ebbe creato gli uomini, li benedisse e li fece padroni di

tutte le cose create e sovrani e signori assoluti di tutta la terra». Di conseguenza, per i

rinascimentali non si pone l’alternativa “uomo o Dio”, poiché essi pensano all’interno

di una struttura concettuale che riconosce l’uomo e Dio. In questo senso, essi si

trovano in una posizione filosofica che si differenzia tipicamente sia dal futuro

umanesimo ateo (l’uomo senza Dio di Feuerbach, Marx, Nietzsche, Sartre ecc.), sia

dalle forme più estreme della religiosità medievale.

Il riconoscimento di Dio non esclude, tuttavia, che lo spirito della rinascita sia

prevalentemente “antropocentrico” e che si differenzi da quello prevalentemente

“teocentrico” del Medioevo. Con queste formule non si intende la contrapposizione

tra un Medioevo tutto religioso (teocentrismo assoluto) e un Rinascimento tutto

pagano (antropocentrismo assoluto), ma il fatto che, mentre nel Medioevo Dio appare

al centro e l’uomo alla periferia, adesso l’uomo tende ad apparire al centro e Dio alla

periferia, senza che nel primo caso, ossia nell’età di mezzo, si neghino l’uomo e

l’aldiquà, e senza che nel secondo caso, ossia nel Rinascimento, si neghino Dio e

l’aldilà.

L’uomo e la libertà

La celebrazione umanistica della libertà umana, che trova in Pico della Mirandola una

delle affermazioni più eloquenti e radicali, non esclude tuttavia una complementare

consapevolezza dei suoi stessi limiti. Infatti, i rinascimentali, pur ritenendo che

l’uomo forgia se stesso attraverso la virtù, appaiono tutti consapevoli, chi più chi

meno, del fatto che gli individui sono condizionati da una serie di forze reali, casuali

e soprannaturali, che, pur non annullando la libertà, la circoscrivono. Tant’è vero che,

contestualmente all’esaltazione rinascimentale della libertà e delle virtù dell’uomo,

sorgono dispute sui suoi rapporti con la Fortuna, il Caso, la Provvidenza.

Tuttavia, finché il rapporto tra ciò che è in potere dell’uomo e ciò che non lo è verrà

risolto a favore dell’uomo, si sarà ancora nel Rinascimento, mentre quando l’uomo

comincerà ad apparire più dominato che dominante rispetto all’insieme delle forze

che premono su di lui, saranno già cominciati la crisi e il declino del Rinascimento.

La celebrazione del valore dell’uomo e della sua originalità si concretizza anche nelle

tesi dell’uomo come «microcosmo», «copula dell’universo», «nodo della creazione»,

«anello di congiunzione dell’essere», tutte formule equivalenti per dire che l’uomo è

la sintesi vivente del Tutto e il centro del mondo, cioè la creatura in cui si

concentrano le varie caratteristiche degli enti del mondo, avendo egli qualcosa

dell’angelo come della bestia, di Dio come del diavolo, della natura organica come di

quella inorganica. Ma la difesa della dignità dell’uomo e la visione dell’esistenza

come auto-progetto si accompagnano soprattutto al rifiuto dell’ascetismo medievale e

alla concezione della vita come impegno concreto e non come fuga.

Per i rinascimentali, l’uomo non è un ospite di passaggio nel mondo o un pellegrino

in attesa dell’aldilà, ma un essere profondamente radicato sulla terra, destinato in

primo luogo a “giocarsi” la propria sorte in questa vita. Di conseguenza, pur non

rinnegando l’idea cristiana dell’aldilà, i dotti del Rinascimento, coerentemente con la

propria ottica antropocentrica, sottolineano soprattutto l’aldiquà. Da qui discende

l’elogio di ciò che è utile e della vita attiva nei confronti di quella speculativa, della

filosofia morale nei confronti della fisica e della metafisica. Da ciò la rinnovata idea

della felicità come realizzazione armonica e completa delle possibilità umane, e il

riconoscimento del valore del denaro, visto come elemento indispensabile alla vita e

alla conservazione dell’individuo e della società.

Prospettiva storica nel Rinascimento

Nell’Umanesimo si realizza l’esigenza di riconoscere la dimensione storica degli

eventi, che era stata totalmente ignorata nel Medioevo. In questa prospettiva, la

volontà del “ritorno” al mondo classico si configura innanzitutto come l’intento di

ripristinare la sapienza degli antichi nella sua forma autentica, intendendola, cioè,

nella sua realtà storica. Fatti, figure e dottrine, per gli scrittori del Medioevo, non si

presentavano con un volto preciso, individuato e irripetibile, ma avevano quella sola

validità che poteva esser loro riconosciuta nell’universo di discorso in cui quegli

scrittori si muovevano. Da questo punto di vista erano del tutto inutili la geografia e

la cronologia, come strumenti dell’accertamento storiografico: ogni figura o dottrina,

strappata al suo contesto spazio-temporale, si muoveva in una sfera senza tempo, che

era poi quella delineata dagli interessi fondamentali dell’epoca, e si presentava perciò

come “contemporanea” a questa sfera.

Con il suo interesse per l’antico “autentico”, liberato dalle deformazioni trasmesse

dalla tradizione, l’Umanesimo rinascimentale realizza per la prima volta

l’atteggiamento della prospettiva storica, cioè del distacco e dell’alterità

dell’oggetto storico rispetto al presente storiografico. Platonici e aristotelici sono in

polemica nel Rinascimento, ma il loro interesse comune è rappresentato dalla

riscoperta della dottrina genuina dei rispettivi capostipiti, cioè dal ritorno al “vero”

Platone o al “vero” Aristotele, al di là dei travisamenti introdotti dai “barbari”

medievali. L’importanza basilare della prospettiva storica risiede nel fatto che essa

rende possibile il distacco del passato dal presente, fondando perciò allo stesso

tempo:

1. il riconoscimento dell’alterità e dell’individualità del passato;

2. la ricerca dei caratteri e delle condizioni che determinano tale individualità e

irripetibilità;

3. coscienza dell’originalità del passato di fronte al presente e dell’originalità

del presente di fronte al passato.

Il bisogno di scoprire i testi e di ripristinarli nella loro forma autentica, studiando e

collezionando i codici, è accompagnato dal bisogno di rintracciarne l’originario e

specifico significato poetico, filosofico o religioso. Il compito di restaurazione storica

assunto dall’Umanesimo comprende diversi aspetti, strettamente collegati tra loro:

1. la difesa dell’eloquenza classica, cioè il tentativo di riportare la lingua

genuina della classicità alla sua forma originaria, al di là delle deformazioni da

essa subite nel Medioevo;

2. l’intento di scoprire falsificazioni documentarie o errate attribuzioni di

opere scritte;

3. il tentativo di comprendere le figure dei letterati e dei filosofi in riferimento

al loro mondo di appartenenza, nella loro lontananza cronologica.

Senza dubbio l’Umanesimo realizza questo compito in modo solo parziale o

imperfetto, ma, evidenziandone il valore, lo lascia in eredità alla cultura moderna.

L’Illuminismo settecentesco compirà un passo decisivo su questa stessa via, passo

che condurrà alla nascita dell’indagine storiografica moderna.

Dalla prospettiva storica verso nuovi sviluppi teorici

La scoperta della prospettiva storica è, rispetto al tempo, ciò che la scoperta della

prospettiva ottica, realizzata dalla pittura rinascimentale, è nei confronti dello spazio:

la capacità di cogliere la distanza degli oggetti l’uno dall’altro e da colui che li

considera, perciò la capacità d’intenderli nel loro luogo effettivo, nella loro

distinzione dagli altri e nella loro individualità autentica. In questo senso lo stesso

riconoscimento del significato della personalità umana come centro originale e

autonomo di organizzazione dei vari aspetti della vita risulta condizionato dalla

prospettiva. Tale atteggiamento, realizzato dall’Umanesimo rinascimentale per la

prima volta, è alla base dell’importanza che il mondo moderno attribuisce alla

personalità umana.

La conquista della prospettiva, affinando il senso storico, contribuisce anche a

maturare, in alcuni filosofi, l’idea di una continuità dello sviluppo umano, ovvero

l’embrionale concetto della civiltà come di una linea che dal passato, attraverso il

presente, muove verso il futuro, congiungendo gli sforzi delle generazioni. Da questa

intuizione ne germoglia un’altra: cioè che gli uomini del presente risultano

“superiori”, per esperienza e capacità, rispetto agli uomini del passato.

Partito dalla tesi dell’eccellenza degli antichi sui moderni, il Rinascimento perviene

dunque all’opinione opposta di una supremazia dei moderni sugli antichi, simili, i

primi, ai nani sulle spalle dei giganti. Da ciò l’idea baconiana della verità come figlia

del tempo (veritas filia temporis) e del continuo progresso della specie umana.

Il naturalismo rinascimentale

Quando si parla del “naturalismo” come di un carattere specifico del pensiero

rinascimentale nei confronti di quello medievale non si intende dire che per i filosofi

di questa età non vi sia nulla al di là della natura, poiché una tesi del genere si

presenterà in forma esplicita solo nel Seicento con il panteismo di Spinoza.

Parlando di “naturalismo rinascimentale” si vuole piuttosto sottolineare che:

1. l’uomo, per i rinascimentali, non è un ospite provvisorio della natura, ma un

essere naturale egli stesso, che ha nella natura la sua patria;

2. la natura non è l’ombra sbiadita di un mondo ideale, ma una realtà piena,

costituita da un immenso serbatoio di forze vitali, di cui l’uomo è partecipe e in

cui si incarna la potenza di Dio, che in essa trova una sua manifestazione o una

delle proprie sedi (Bruno);

3. l’uomo, come essere naturale, ha sia l’interesse, sia la capacità di studiare la

natura.

Questo naturalismo si concretizzerà nella magia e nella grande filosofia della natura

di Telesio, Bruno, Campanella. Ma, soprattutto, esso rappresenterà uno dei

presupposti teorici generali che stanno alla base della nascita della scienza moderna.

Nel corso del '500 emergono nuove esigenze di interpretare la realtà naturale, a

lungo sottovalutata dal pensiero medievale. La natura viene interpretata come il

principio di vita e di movimento di tutte le cose esistenti; essa stessa viene

concepita come un tutto vivente, organicamente e necessariamente ordinato. Nella

filosofia rinascimentale si delineano varie prospettive naturalistiche che hanno in

comune da una parte un'aperta polemica con l'aristotelismo e la sua immagine della

natura gerarchicamente ordinata sulla base di leggi fisiche immutabili, e dall’altra

l’indagine affidata ai sensi e all'esperienza diretta col compito di indagare e

comprendere la natura nella sua intima struttura vivente e senziente. La natura,

pertanto, è studiata con l'ausilio di pratiche magiche, alchemiche e astrologiche

nell'intento di scoprire e di dominare l'intima connessione fra i fenomeni,

permettendo all'uomo, centro dell'universo, di raggiungere un pieno potere sulla

realtà.

Principale oggetto della polemica è la pretesa di Aristotele di ricavare i principi

della natura dalla ragione e non dalla natura stessa attraverso l'esperienza sensibile.

Le indicazioni dei sensi consentono infatti di ricavare dai fenomeni i principi stessi

che li regolano. L'indagine conoscitiva deve dunque partire dal senso, che attesta

l'esistenza in natura di due "forze agenti": il caldo, forza dilatante e principio del

movimento, e il freddo, forza condensante e principio di immobilità. Tali forze,

incorporee, agiscono su un substrato, la Terra, immobile al centro dell'universo.

L'azione esercitata sulla Terra, pur essendo meccanicistica, risulta però

finalisticamente diretta alla generazione degli esseri, le cui differenze sono

riconducibili a variazioni di quantità, cioè alla diversa intensità dell'azione delle forze

agenti e al prevalere alterno dell'una sull'altra. La sensazione altro non è che la

percezione con cui lo spirito-calore avverte i movimenti in lui suscitati dalle nature

agenti esterne; è il contatto con le cose che provoca i diversi atti conoscitivi. Alla

sensibilità si riduce l'intelligenza; poiché non sempre tutte le qualità di una cosa sono

presenti alla sensibilità, ma accade che qualcuna rimanga nascosta, il percepire

quest'ultima pur nell'assenza è atto proprio dell’intelligenza.

Anche la morale si fonda sul senso: se il contatto delle cose con l'anima-calore la

modifica, il piacere e il dolore che vengono dal contatto sono i principi di bene e male

che fondano l'etica. Bene è ciò che conserva lo spirito-calore, male è ciò che lo

distrugge.

La laicizzazione e l'automatizzazione del sapere

Uno dei risultati storicamente più importanti della cultura del Rinascimento, al di là

dei vari temi accennati, è la nuova concezione del sapere e delle varie discipline.

Come sappiamo, il tratto saliente della civiltà medievale era stato l’universalismo,

ovviamente, tale universalità era stata un’esigenza, piuttosto che un dato di fatto,

costituendo uno specchio ideale in cui l’età di mezzo aveva amato contemplarsi. È

noto, infatti, come la celebrata universalità dell’impero fosse solo un’utopia che

copriva il reale particolarismo della vita feudale, oppure come l’unità della filosofia

cristiana fosse solo un’etichetta dietro cui si celavano lotte accanite tra correnti

opposte, o addirittura, a cominciare dal Duecento, di dubbia natura cristiana.

Nonostante ciò, il Medioevo aveva pur sempre realizzato, per quanto riguarda la

conoscenza, una certa unità dello scibile intorno alla teologia, concependo le varie

discipline come ancillae theologiae (ancelle della teologia), tese a dimostrare la

verità della fede nei diversi campi di studio. Su questi presupposti, il Medioevo

aveva realizzato un’enciclopedia del sapere di tipo piramidale, con la teologia in

cima, nella veste di regina delle scienze.

Il Rinascimento, invece, dopo aver portato a termine la rottura dell’unità politica del

Medioevo, ne spezza anche l’unità culturale, rifiutandone decisamente l’enciclopedia

del sapere di tipo teologico. Parallelamente al rifiuto critico delle filosofie delle

scuole e della loro mentalità sistematica, metafisica e logicistica, si assiste, infatti, a

una tendenziale laicizzazione del sapere, in virtù della quale le varie attività e

discipline umane cominciano a rivendicare ciascuna la propria libertà operativa.

Ciò avviene attraverso un processo lungo e travagliato. La letteratura, ad esempio,

difenderà il principio dell’autonomia dell’arte, considerata non più nel suo rapporto

con il contenuto, ma in sé e nei valori formali di bellezza che le sono propri e che, in

quanto tali, sono già di per sé educativi; il protestantesimo di Lutero darà origine a

una teologia sempre più separata dalla filosofia; Machiavelli difenderà l’autonomia

della politica rispetto alla morale e alla religione; Grozio, nel Seicento, getterà le basi

per un analogo riconoscimento dell’autonomia del diritto; Galilei perverrà, infine,

alla fondazione dell’autonomia della scienza, concepita come attività

autosufficiente, svincolata dai condizionamenti della tradizione metafisica e

teologica.

Questo processo di laicizzazione e autonomizzazione del sapere affonda chiaramente

le proprie radici nella mentalità degli intellettuali, che, non essendo più ecclesiastici,

sono maggiormente portati a riconoscere l’autonomia delle varie attività umane, ossia

ad avvertire l’esigenza che tali attività si svolgano secondo regole proprie,

indipendenti da fini o interessi imposti dall’esterno. Tuttavia, ciò non implica il

carattere a-cristiano o anticristiano della cultura rinascimentale. E questo non

solo perché gli uomini del Quattrocento e del Cinquecento non potevano rinnegare

tredici o quattordici secoli di civiltà cristiana, ma anche perché essi furono per lo più

religiosi e cristiani, seppure in un senso ben diverso da quello medievale, in quanto

più inclini a sottolineare il divino presente nell’uomo e nel mondo.

LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA

La nascita della scienza moderna è un fenomeno complesso, che affonda le proprie

radici nel Rinascimento, di cui eredita la fiducia nelle capacità conoscitive

dell'uomo, l'abbandono di principi trascendenti per spiegare la realtà naturale, la

rivalutazione dei sensi e dell'esperienza diretta, la proposta forte di un sapere non

solo contemplativo, ma pratico e operativo, il rifiuto del principio di autorità

come criterio di verità.

Nella scienza moderna confluiscono le ricerche naturalistiche degli ultimi scolastici,

l'aristotelismo rinascimentale, il platonismo antico e nuovo, la magia e la dottrina di

Telesio. Questi elementi sono integrati dalla scienza mediante la riduzione della

natura a pura oggettività misurabile.

Tuttavia, se nel '500 il concetto di scienza è ancora legato a una visione del mondo di

tipo qualitativo, in cui la natura è vista come un essere vivente, ordinata con suoi

propri fini come un organismo, nel '600 si afferma una concezione della scienza

come un sapere oggettivamente verificabile e pubblicamente controllabile. La

scienza moderna respinge dal proprio ambito conoscitivo qualunque problematica

di tipo metafisico, relativa alle essenze o all'intima struttura delle cose, per analizzare

solo le cause dei fenomeni, alla ricerca di leggi, elaborate sulla base di ipotesi

vagliate da esperimenti, espresse in termini matematici. In particolare, questa

matematizzazione della natura porta a una riforma del metodo d'indagine e

all'adozione di modelli meccanici nella spiegazione della realtà naturale, concepita

come un insieme di corpi in movimento, che porterà all'affermazione del

meccanicismo.

Con Rivoluzione scientifica si fa riferimento alla fase di straordinario sviluppo della

scienza che abbraccia il periodo compreso tra la data di pubblicazione dell'opera di

Nicolò Copernico Le rivoluzioni degli astri celesti (1543) e quella dell'opera di Isaac

Newton I principi matematici della filosofia naturale (1687), comprendendo la

nascita del metodo scientifico da parte di Galileo Galilei.

Tra Cinquecento e Seicento si assiste in Europa a un rapido progresso delle scienze,

che investe non soltanto l'acquisizione di singole conoscenze, ma soprattutto il

metodo scientifico adottato. Da una scienza fortemente asservita alla tradizione

filosofica aristotelico-scolastica si passa alla formazione della scienza moderna, la

quale progressivamente afferma la propria autonomia dalla filosofia e dalla teologia

ed elabora procedure metodologiche che la caratterizzano in maniera specifica.

Si tratta comunque di un’epoca della storia del pensiero in cui è complesso

distinguere la dimensione scientifica da quella filosofica: il rapporto filosofia –

scienza, predominante in questo periodo, si intreccia in una duplice maniera:

1. da un lato alcune modificazioni apportate alla concezione del mondo saranno a

tal punto radicali da coinvolgere l'immagine globale del mondo e non solo

quella degli scienziati: già accettazione e l'ampliamento della dottrina

copernicana, che andò ad influenzare non soltanto l'ambito scientifico ma

anche quello filosofico.

2. Dall'altro, scienza e filosofia si intrecciano in modo epistemologico: la scienza

moderna è novità non solo per i contenuti che propone, ma anche per il modo

in cui arriva ad elaborarli.

Il problema fondamentale allora diventa essenzialmente metodologico, e quando si

entra nell'ambito metodologico ci si addentra nella sfera filosofica. La filosofia della

scienza non è la scienza (infatti non è necessario essere filosofi per essere

scienziati), ma la riflessione sul valore della scienza non è certo ambito scientifico,

bensì filosofico: quando uno scienziato esamina il metodo scientifico ecco che allora

in quel momento non più scienziato, ma filosofo. Per esempio, non rientrano tanto nel

campo di interesse filosofico i contributi scientifici di Galileo Galilei, quanto

piuttosto la sua riflessione sul metodo scientifico da lui coscientemente applicato

nell'elaborare le teorie. L'epistemologia è quindi quella branca della filosofia che si

occupa delle riflessioni sui metodi scientifici.

Il nuovo modo di concepire la natura

La natura è un ordine oggettivo, poiché essa, scientificamente parlando, costituisce

un oggetto i cui caratteri non hanno niente a che fare con la dimensione spirituale, e

quindi con i fini, i bisogni e i desideri dell'uomo. Mentre il mondo della magia appare

come un organismo in cui ogni cosa possiede un'anima e risulta rapporti di “simpatia”

o “antipatia” con gli altri esseri, l'universo della scienza si configura come un ordine

programmaticamente spogliato di ogni attributo, valore o qualità umana. Solo

“espellendo” l'uomo dalla fisica, risulta possibile studiare scientificamente la realtà

effettiva del mondo circostante.

La natura è un ordine causale, poiché in essa nulla avviene a caso, ma tutto è il

risultato di cause ben precise. Per causalità, secondo le precisazioni di Galilei, si

intende un rapporto costante e univoco tra due fatti, dei quali dato l'uno è fato anche

l'altro e tolto l'uno è tolto anche l'altro. Ad esempio, dati i cento gradi (causa), l'acqua

bolle (effetto); ma tolti i cento gradi, smette necessariamente di bollire. Tuttavia,

delle quattro cause riconosciute da Aristotele (formale, materiale, efficiente, finale),

l'unica scientificamente ammessa è la causa efficiente. Alla scienza, infatti, non

interessa il perché finale o lo scopo di un fatto, ma solo la sua causa efficiente, ossia

l'insieme delle forze che producono quel fatto.

Il nuovo modo di concepire la scienza

La scienza è un sapere sperimentale, perché si fonda sull'osservazione dei fatti e

perché le sue ipotesi vengono giustificare su base empirica e non puramente

razionale. Tuttavia, l'esperienza di cui parla la scienza ne è una semplice e immediata

“registrazione” di fatti, subito inquadrata in una teoria generale, bensì è una

costruzione complessa, su base matematica, che mette capo all'esperimento, cioè una

procedura appositamente costruita per la verifica delle ipotesi. Di conseguenza, la

scienza moderna perviene all'equazione “esperienza = esperimento”, rielaborando

in modo originale il concetto di esperienza.

La scienza è un sapere matematico che si fonda sul calcolo e sulla misura, poiché,

nello sforzo di darsi una veste rigorosa, procede a una matematizzazione dei propri

dati, racchiudendoli in formule precise. Pertanto, la “quantificazione” si configura

come una delle considerazioni imprescindibili da Galilei, che alla deduzione

matematica, assegna un ruolo basilare nella stessa scoperta scientifica.

Ma la scienza è anche un sapere intersoggettivo, poiché i suoi procedimenti vogliono

essere pubblici, cioè accessibili a tutti, e le sue scoperte pretendono di essere

universalmente valide, ossia controllabili, da ognuno. In tal modo, la scienza moderna

si stacca nettamente dalla magia e dalle discipline occulte. Da ciò ne ricaviamo

l'equazione “scienza = sapere universale”, affermata con vigore da Galilei in poi.

Il fine della scienza è la conoscenza oggettiva del mondo e delle sue leggi. Ma

quanto più riesce a essere neutrale e disinteressata, ossia libera da schemi

antropomorfici, tanto più la scienza va incontro a quel fondamentale interesse umano

che è quel dominio dell'ambiente circostante.

Il contesto storico sociale

Tra Cinquecento e Seicento si assiste in Europa a un rapido progresso delle scienze,

che investe non soltanto l'acquisizione di singole conoscenze, ma soprattutto il

metodo scientifico adottato. Da una scienza fortemente asservita alla tradizione

filosofica aristotelico-tolemaica si passa alla formazione della scienza moderna, la

quale progressivamente afferma la propria autonomia dalla filosofia e dalla teologia

ed elabora procedure metodologiche che la caratterizzano in maniera specifica.

A questa grande trasformazione, principiata essenzialmente nel campo

dell'astronomia, si suole dare la definizione di rivoluzione scientifica. Nel Seicento

viene delineandosi una nuova figura di scienziato: elabora teorie scientifiche che

possono essere utilizzate dai tecnici inserendosi così nell’ideale umanistico di una

scienza “realmente utile”, non più puramente contemplativa. L’espressione

“rivoluzione scientifica” o “rivoluzione nella scienza” implica rottura nella

continuità, instaurazione di un nuovo ordine che ha reciso i suoi legami col passato e

non trasmette alcun senso di continuità. E’ nuovo ed è rivoluzionario scoprire principi

scientifici per mezzo dell’esperimento combinato con l’analisi matematica. Prima la

conoscenza era fondata sulla fede e sull’intuizione, sulla ragione e sulla rivelazione,

ora la nuova scienza considera l’esperimento e l’osservazione critica “il fondamento e

la verifica” della conoscenza. E’ il riconoscimento di “uno stato di crisi” che prepara

il terreno che consente a Copernico di abbandonare la teoria tolemaica ed elaborarne

una nuova.

Nasce così il nuovo metodo e la conoscenza dipende soprattutto dall’applicazione di

un metodo adeguato e accessibile a chiunque avesse una comprensione sufficiente dei

nuovi principi dell’esperimento, dell’osservazione e del modo di trarre conclusione

appropriate dai dati. Ciò spiega l’attenzione al metodo accordata da tanti studiosi

come Bacone, Descartes, Galileo, Harvey e Newton. In tale quadro si inserisce la

percezione chiara del “nuovo”, documentata dalla frequenza con cui ricorrono i

termini “nuovo” o “inaudito”; anche in campo geografico si hanno le seguenti

denominazioni: Nuova Spagna, Nuova Francia, Nuova Inghilterra, New Hampshire,

New York.

Nei trattati di chimica e di fisica i termini “esperimento” e “innovazione” vengono

spesso associati come nel Novum organum di Bacone del 1620 e le Nuove scienze di

Galileo del 1638. Il senso del nuovo era in ogni caso assai vivo nella coscienza degli

uomini del Seicento. Lo scienziato che “vide ne l’etereo padiglioni rotearsi più

mondi, e il Sole irradiarsi immoto” è Galileo Galilei, che pone una fiducia esclusiva

nel metodo conoscitivo della scienza: “quanto alla scienza stessa ella non può se non

avanzare” attraverso il dubbio; “il dubitare in filosofia è padre dell’invenzione,

facendo strada allo scoprimento del vero” (Lettera del 3 dicembre 1639 a B. Castelli).

La verità per Galileo è figlia del dubbio, della riflessione che non accetta

acriticamente il sapere del passato ma lo discute e lo giudica; “una verità non

astorica, ma “filia temporis”, che dipende dalla capacità e dalla tenace fatica

intellettuale dell’uomo, il quale, se non può uguagliare per numero di conoscenze

l’intelletto divino, può tuttavia competere con questo per perfezione e profondità di

comprensione.

Questa sicura fiducia nella possibilità della mente umana caratterizza lo scienziato

moderno e lo distingue dai dotti del passato. Gli scienziati del’ 600 ritengono primo

dovere dell’uomo di scienza l’indagine umile e paziente della natura così come si

presenta ai nostri occhi le cui potenzialità possono essere aumentate con l’ausilio di

nuovi strumenti come il cannocchiale. L’osservazione diretta della realtà è da

anteporre alla lettura e allo studio dei testi degli antichi che, come è noto, anche dalle

opere galileiane erano considerati nel XVI e XVII secolo “auctoritates”, maestri

indiscutibili e insuperabili. Ciò vuol dire che la scienza cambia rotta: è indipendente

dal dogma e asservita solamente alla verità che scaturisce dall’osservazione e

dall’esperimento; meglio la natura risponde alla curiosità dell’uomo solo se sa

interrogarla anche agendo su di essa per metterla in condizioni di verificare o

confutare la sua teoria o supposizione.

La teoria eliocentrica ripugnava al senso comune, addirittura J. Bodin affermò che era

assurdo pensare a un movimento rotatorio del pianeta “giacché alla minima scossa

della Terra noi vedremmo crollare città e fortezze, paesi e montagne”, finché

l’astronomo tedesco Keplero non riuscì a formulare leggi matematiche sulle orbite

ellittiche dei pianeti e finché Galileo, servendosi di un cannocchiale, non fornì nuove

prove dell’esistenza di altri corpi celesti. Proprio perché in Galileo è viva questa

fiducia nella ragione umana, che poi esprime in tutte le sue opere, egli occupa un

posto importante nella storia del pensiero filosofico; ma soprattutto “è tutto un nuovo

clima culturale che si riflette in questa convinzione”, e cioè una nuova visione

dell’uomo e della civiltà, una radicale metamorfosi.

Il Seicento è il secolo del metodo e il metodo richiede ordine e rigore; il valore della

ricerca non dipende dalla sua corrispondenza a una supposta verità generale, ma dal

rigore del metodo con cui viene condotta. L’apprendimento scaturisce dalla

sperimentazione e dall’osservazione diretta dei fenomeni che devono seguire un

rigoroso metodo induttivo e non deduttivo. Due sono i cardini del metodo della

scienza secondo Galileo: le “sensate esperienze” e le “dimostrazioni”.

Nel Dialogo sopra i due massimi sistemi lo studioso scrive: “i discorsi nostri hanno

da essere sopra il mondo sensibile, e non sopra un mucchio di carta”, cioè le

esperienze sensibili, le esperienze condotte mediante i sensi costituiscono l’origine

della conoscenza quindi lo scienziato deve guardare i fatti, i fenomeni che sono

oggetto dei sensi: ogni teoria è spiegazione e interpretazione di fenomeni sensibili.

L'altro aspetto fondamentale del pensiero galileiano è rappresentato dal carattere

matematico del sapere scientifico, cioè gli aspetti quantitativi, matematizzabili della

realtà: “La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta

aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non

s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne ‘quali è scritto. Egli è scritto in

lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche,

senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un

aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto”.

IL PENSIERO POLITICO DELL'ETÀ MODERNA:

HOBBES, LOCKE E ROUSSEAU

Se nell’Europa medievale il compito di “spiegare” l’ordine del mondo fu esercitato

quasi completamente dalla Chiesa in lotta contro l’Impero, che definì anche precise

gerarchie sociali, oltre a stabilire e distinguere lo spazio del lecito da quello

dell’illecito, lo stato moderno si approprierà di tale funzione facendola propria. I

rapporti sociali e i confini tra ciò che è lecito e ciò che non lo è si andranno pertanto

definendo in senso politico e non più dal punto di vista religioso. Per far ciò non

basterà più l’arte personale della politica, in quanto non era più sufficiente la

semplice conquista militare e la figura carismatica del re; ora la nuova monarchia

“sovrana” deve trovare strumenti di legittimità, di funzionamento, di imposizione e di

costrizione, in grado di far funzionare con regolarità la macchina statale. Si sviluppa

in questo senso un pensiero filosofico giuridico per giustificare le origini e i

fondamenti dello stato moderno.

Durante il XVII secolo, nello stesso periodo in cui si concretizza e si rafforza l’idea

dell’assoluta sovranità del potere regio, vera e propria incarnazione dello stato, se ne

individuano però anche i limiti e i fondamenti nella concezione di un diritto naturale,

caratteristica propria di tutti gli uomini in quanto tali, che precede quello positivo,

cioè la legislazione regolamentata e dunque codificata dai singoli stati. I diritti

naturali sono posseduti da ciascun individuo fin dalla nascita, mentre i diritti positivi

vengono acquisiti in quanto cittadini di uno Stato.

L’unità dello Stato e l’obbligo politico di obbedire alle leggi emanate dal sovrano

sono i principi fondamentali su cui si costruisce il “corpo politico”. Ciò che fissa il

passaggio dallo stato naturale (costituito dall’originaria “natura degli uomini”) al vero

e proprio stato civile è sempre un patto tra gli individui, un contratto tra sovrano e

sudditi che regola i comportamenti dei cittadini ed al contempo stabilisce l’azione

dello stato, che ha l’obbligo di preservare i diritti naturali degli individui stessi. Il

contratto, libero e volontario, rappresenta il punto di mediazione e di transizione tra

una società regolata dal diritto naturale e la “società civile”, in cui i diritti sono

tutelati dallo stato. Infatti, lo Stato hobbesiano si presenta come un’istituzione fondata

essenzialmente sul consenso dei sudditi.

Lo stato civile moderno non è, come sostenne nell’antichità Aristotele, una istituzione

naturale, bensì una creazione artificiale (cioè un prodotto voluto e costruito dagli

uomini, come lo è una macchina), fondato ed eretto intenzionalmente dagli uomini

sulla base di un “accordo” da essi liberamente stipulato, per ragioni che riguardano

innanzitutto la necessità di auto conservarsi e mantenersi in vita. Hobbes espose la

sua teoria politica, basandosi sulla sua pessimistica concezione della natura umana:

nello stato di natura, da lui descritto come condizione selvaggia e ferina (feroce), gli

uomini sono interessati soltanto al loro personale piacere e vantaggio. Per superare

tale egoismo, pericoloso per l’intero genere umano, due sono i presupposti

fondamentali che Hobbes individua:

1. la bramosia naturale (per cui ognuno pretende di godere da solo e per sé dei

beni comuni);

2. la ragione naturale (grazie alla quale ognuno evita la morte violenta);

Hobbes non nega che gli uomini abbiano bisogno degli altri uomini per vivere; nega

semmai che gli uomini abbiano per natura un istinto che li spinga alla concordia e alla

benevolenza, perché semmai ciascuno si interessa unicamente a se stesso e al proprio

benessere.

Per Hobbes c’è dunque un’uguaglianza di natura fra gli uomini: proprio perché tutti

desiderano la stessa cosa, cioè l’uso esclusivo dei “beni comuni” e dato che di questi

essi intendono servirsene ad ogni costo, l’eguale pretesa da parte di tutti gli individui

genera però una guerra di tutti contro tutti. Lo stato di natura (cioè quella condizione

ipotetica in cui gli uomini sarebbero vissuti prima della nascita della società) è

dunque uno stato di guerra incessante, dove non c'è legge né potere, né distinzione tra

giusto e ingiusto: è uno stato in cui non vi è limite alcuno (ognuno ha un diritto

naturale su ogni cosa), in cui l’unica legge è la “sopraffazione” (homo homini lupus,

l’uomo è un lupo per gli uomini).

Come abbiamo visto, lo stato di natura di cui parla Hobbes è una condizione

insostenibile, in cui gli uomini rischiano di perdere anche il loro bene primario: la

vita. Però l’uomo, obbedendo non solo ai suoi interessi egoistici ma anche alla sua

stessa ragione, individua uno strumento più comodo per la propria sopravvivenza, che

gli permette di uscire da tale condizione insicura e veramente precaria. La ragione

(definita da Hobbes come la capacità umana di quantificare e prevedere mediante

calcoli accurati ciò che per ogni individuo è più conveniente) suggerisce all’uomo di

accordarsi con i suoi simili, quindi di stipulare con loro un patto o accordo: “pactum

unionis” (patto di alleanza), per superare la distruttiva guerra di tutti contro tutti. Su

tali basi, Hobbes fa valere il suo richiamo alla “legge naturale”, che per lui è “il

dettame della retta ragione”, che impone di ricercare la pace come condizione per la

conservazione della vita.

La ragione e la paura di essere sopraffatti dal prossimo spingono quindi gli uomini,

secondo Hobbes, a rinunciare ai loro diritti naturali illimitati, per unirsi e formare una

società. Ma ciò, secondo Hobbes, non è sufficiente a risolvere definitivamente la

naturale disposizione dell’uomo alla guerra competitiva ed al suo radicale egoismo.

Solo una costruzione artificiale, quale è lo Stato, può regolare i naturali rapporti

umani.

La figura dello Stato è rappresentata dal sovrano. Ma, per trasferire l’intero potere

alla sovranità di un’autorità, che costringa tutti gli individui a rispettare gli accordi

pattuiti è necessario, per Hobbes, un secondo “patto” o accordo tra gli uomini: il

“pactum subiectionis” (patto di assoggettamento, mediante il quale ciascuno si

assoggetta completamente ad un’unica autorità), rinunciando ai propri originari diritti

e libertà in cambio della sicurezza della vita e dunque della pace o

dell’autoconservazione. Solo in tal modo i sudditi accettano e riconoscono l'enorme

forza che viene così individuata nello Stato.

La potenza assoluta di questo organismo politico è necessaria a far sì che gli uomini,

naturalmente propensi a perseguire soltanto il proprio interesse, rispettino il patto.

Data la natura egoistica degli uomini tale accordo, per Hobbes, non sarebbe

rispettato, a meno che una potenza superiore e autoritaria non costringa con la

minaccia e con la spada tutti gli uomini (“i patti senza la spada non sono che parole").

La stipulazione del contratto (con il quale gli uomini rinunciano ai loro originari ed

illimitati diritti di natura) porta così alla nascita dello stato e della società civile. In tal

modo l’intero potere si trasferisce su una persona, cioè il sovrano, che assumerà ogni

decisione.

Per Hobbes, però, i due “patti” o contratti (quello di “unione” e quello di

“assoggettamento”) sono stretti unicamente tra i sudditi e non coinvolgono il sovrano;

il sovrano resta fuori dal “patto” ed è l’unico soggetto a mantenere gli originari diritti:

ogni altro individuo è semplicemente suddito. Hobbes stesso al riguardo chiarisce:

“Questa è l’origine di quel grande Leviatano -mostro potentissimo rintracciabile nella

Bibbia - o per usare maggior rispetto, di quel Dio mortale, al quale, dopo il Dio

immortale, dobbiamo pace e difesa: giacché per l’autorità conferitagli da ogni singolo

uomo della comunità, ha tanta forza e potere che può disciplinare, col terrore, la

volontà di tutti in vista della pace interna e dell’aiuto scambievole contro i nemici

esterni”.

Hobbes viene identificato nel teorico per eccellenza dell’assolutismo politico: per il

filosofo inglese l’assolutismo e necessario, perché la scelta è tra la guerra perpetua e

la pace degli uomini. Tale potere incondizionato è accentratore, definitivo ed

immutabile, perché è generato dalla rinuncia che tutti i sudditi fanno delle loro libertà

e diritti, conferendo al sovrano ogni decisione e potere.

Secondo Hobbes il potere del sovrano possiede svariate caratteristiche:

1. il suo potere è indivisibile: qualsiasi divisione del potere centrale ed assoluto

del sovrano potrebbe, per Hobbes, dar luogo a una guerra civile. Il monarca

deve riunire nella sua autorità i tre poteri fondamentali dello Stato: legislativo

(di fare le leggi), esecutivo (di farle applicare) e giudiziario (di amministrare la

Giustizia). Anzi lo Stato deve inglobare in sé anche l’autorità religiosa.

2. Il potere del sovrano non è revocabile, perché appartiene unicamente allo Stato

il giudizio su ciò che è bene e male, solo lo Stato fa le leggi e nessuno le può

contestare: è richiesta in ogni 3 caso l’obbedienza a ciò che il sovrano decide.

Una legge potrà essere cattiva, non necessaria, ma mai ingiusta, proprio perché

giusto e ingiusto sono una conseguenza della legge voluta dal sovrano.

3. Il potere conferito al sovrano deve garantire a tutti i sudditi il diritto a vivere

(cioè a non essere uccisi), lo Stato non può ordinare a un uomo di andare

contro il suo stesso diritto alla vita e alla sopravvivenza. Per questo il

tirannicidio non è ammesso.

Ma il sovrano assoluto ha comunque dei doveri a cui deve comunque sottomettersi:

1. deve procurare ai sudditi sicurezza e sopravvivenza (se un sovrano non fosse

capace di proteggere i propri sudditi, essi sarebbero sciolti da ogni vincolo; se

un sovrano è vinto in guerra, ad esempio, i sudditi hanno il diritto di schierarsi

col vincitore).

2. deve garantire uguaglianza di fronte alla legge

3. deve garantire uguaglianza di istruzione e far prosperare i propri cittadini.

Locke e il liberalismo

Anche Locke, come Hobbes, parte dalla descrizione del supposto stato di natura. Lo

stato di natura secondo Locke si compone di diversi aspetti. Primo fra tutti e la

conoscenza che sia soltanto un'ipotesi, proprio come in Hobbes. E ancora, proprio

come Hobbes, è uno stato di eguaglianza tra gli uomini, ma si discosta dal precedente

pensiero in quanto non prevede un'uguaglianza di forza (in cui ognuno può usare la

propria forza per ottenere ciò che vuole), quanto un’uguaglianza di diritti.

Il regno della libertà e della legge naturale non è perciò uno stato di guerra (come

invece pensava Hobbes). Locke ha una visione non pessimistica della natura umana,

quella di individui illuminati dalla ragione, che indica agli uomini la legge di natura,

ossia che:

1. ognuno ha il diritto di disporre liberamente di sé e delle sue proprietà;

2. nessuno deve sottostare all'arbitrio altrui;

3. ognuno ha tanta libertà quanta ne hanno gli altri (regola di reciprocità);

Essendo lo stato di natura governato dalla legge di natura ed essendo tutti gli uomini

uguali e indipendenti, per Locke nessuno deve danneggiare l’altro nella vita, nella

salute, nella libertà, nella proprietà.

Lo stato di natura, nella visione di Locke, non è necessariamente uno stato di guerra,

come riteneva Hobbes: ma può diventare uno stato di guerra quando una o più parti

ricorrono alla forza. Per questo lo stato di natura non è così roseo come potrebbe

sembrare a prima vista: esso si regge sulla ragionevolezza e sulla buona volontà che

spesso difettano. Per Locke, “la legge di natura insegna a tutti gli uomini, purché

vogliano consultarla, che, essendo tutti uguali e indipendenti, nessuno deve

danneggiare l'altro nella vita, nella salute, nella libertà e nella proprietà”.

Tuttavia, i limiti umani nel seguire i dettami della ragione creano gravi inconvenienti,

che convincono gli uomini a cambiare la loro condizione. Locke spiega con ciò i

motivi per i quali gli uomini sono spinti ad abbandonare lo stato di natura per evitare

lo stato di guerra, generato dall’impossibilità di appellarsi a un giudice che ripari i

torti e prevenga i danni futuri. E’ proprio per evitare tale stato di guerra e per

soddisfare al meglio tutti i propri bisogni che gli uomini si uniscono in società,

abbandonando lo stato di natura: lo Stato, ossia il corpo politico, è il rimedio

necessario agli inconvenienti dello stato di natura. Lo Stato nasce per amministrare la

giustizia, per esercitare, al di sopra delle parti in causa e nel loro interesse, “il potere

esecutivo della legge di natura”.

Il corpo politico può nascere soltanto con il consenso di tutti: quando un certo

numero di uomini si associa, per Locke costituisce un corpo politico in cui la

maggioranza decide per tutti. Infatti, il solo modo in cui un uomo si spoglia della sua

libertà naturale e assume su di sé i vincoli della società civile, consiste nell’accordarsi

con altri uomini per associarsi e unirsi in una comunità, al fine di vivere gli uni con

gli altri in comodità, sicurezza e pace, nel sicuro godimento della sua proprietà e con

una maggiore protezione contro coloro che non vi appartengono. In tal modo, quando

un gruppo di uomini ha, con il consenso di ciascun individuo, costituito una

comunità, ha con ciò fatto di quella comunità un solo corpo.

L'atto di fondazione della società è, come per Hobbes, un patto (o contratto), che

richiede un accordo vincolante per tutti gli individui. Però il contratto che dà origine

alla comunità civile non può in alcun modo favorire, come riteneva Hobbes, un

potere assoluto. L'uomo non deve, con un contratto, rendersi schiavo di un altro. Il

patto, stabilito tra tutti (anzi il sovrano non è escluso da questo):

1. non deve convalidare l’assoggettamento dell'uomo all'incostante, incerta e

arbitraria volontà di un altro uomo. Vita, libertà, proprietà (che sono diritti

naturali) devono essere garantiti: è per questo che viene stipulato il patto (come

si nota, il pensiero lockiano è fortemente radicato nel giusnaturalismo: dottrina

secondo la quale esiste un diritto naturale);

2. impone al cittadino una sola rinuncia, quella di farsi giustizia da solo;

Per Locke l’ingresso nello Stato, cioè nel mondo delle leggi positive, deve

coinvolgere tutti, anche i sovrani creati dal patto. Si entra nello Stato per essere

garantiti da un “potere superiore”, al di sopra delle parti in causa, affinché siano

assicurati quei diritti che nello stato di natura sono a rischio.

Pertanto, Locke delinea un modello di convivenza civile che, se da un lato riprende

l'ipotesi contrattualista di Hobbes, dall'altro ne elimina i tratti assolutistici,

assegnando allo Stato, in una prospettiva liberale, il compito di salvaguardare tutti i

diritti naturali dei cittadini. Infatti, nel dar origine allo Stato, secondo Locke, la legge

di natura resta in vigore e gli uomini non rinunciano ai loro diritti naturali, ma solo a

quello di farsi giustizia da sé. C’è dunque una rinuncia limitata a un solo diritto, ma

fatta da tutti, compreso il sovrano.

Locke definisce la proprietà un diritto fondamentale di ogni uomo e come tale

nessuno ne deve essere privato. La proprietà non è uguale per tutti, ma dato che la

proprietà è un diritto, essa lo è a condizione che l'uomo consideri tra i propri beni non

solo la terra (ossia quei beni che materialmente possiede), ma soprattutto qualcosa di

suo; e siccome un uomo possiede fondamentalmente se stesso, ciò che egli deve

ritenere come sua proprietà è dunque il suo lavoro, in quanto è prodotto da egli stesso

con le sue forze fisiche e con la sua intelligenza. Questo è un elemento di grande

importanza e novità, perché prima di Locke non era stata riconosciuto questo

fondamentale valore al lavoro umano, che comporta il diritto ad un compenso per ciò

che ognuno fa: il frutto del lavoro di un individuo è sua proprietà e nessuno può

sottrarglielo, se non liquidandolo.

Inoltre, per Locke deve esserci un limite a ciò che un uomo dichiara suo: ognuno

dovrà possedere solo ciò che è necessario alla propria sussistenza, niente di più (qui il

filosofo inglese propone in particolare una critica del denaro e del sistema borghese

che andava diffondendosi). Alla società politica compete il potere di stabilire norme

fisse, valide per tutti gli associati (tutti, nessuno escluso), cioè il potere legislativo, il

"potere supremo della società politica".

Quindi riassumendo le caratteristiche che le leggi hanno secondo Lock, potremmo

dire che:

1. sono uguali per tutti;

2. devono essere dirette al bene del popolo;

3. non possono essere imposte senza il consenso del popolo stesso;

4. il potere di promulgarle non può essere trasferito ad altri.

Accanto, subordinato al potere legislativo, c’è il potere esecutivo, quello cioè di far

eseguire queste leggi. Locke pone come norma di prudenza quella di non affidare alle

stesse persone questi due poteri, al fine di evitare pericolosi abusi. Locke afferma

dunque (divisione dei poteri): “Ora, data la debolezza umana, incline a impossessarsi

del potere, per coloro che hanno diritto di fare le leggi può essere troppo grande la

tentazione di impadronirsi anche del diritto di eseguirle, esonerandosi così

dall’obbedienza alle leggi stesse che essi fanno, adattando la legge, sia nella

formulazione sia nell’attuazione, al loro vantaggio e finendo dunque con l’avere un

interesse distinto da quello della comunità e in contrasto con il fine della società del

governo.”

Ma il popolo ha i suoi limiti:

1. delega all’organo legislativo la somma autorità di prescrivere le leggi;

2. ma non aliena da sé il potere.

Il potere del corpo legislativo infatti “è solo un potere fiduciario di delibere in vista di

determinati fini”. Quindi, quando esso non agisce in vista del raggiungimento di quei

fini, può venir destituito da quel popolo stesso da cui ha ricevuto il mandato. In

nessun caso, dunque, la costituzione di una società civile significa che gli uomini si

affidano ciecamente alla volontà assoluta e all’arbitrio di un altro uomo. Ognuno

conserva il diritto di difendersi contro gli stessi legislatori, quando essi manomettano

la libertà o la proprietà dei sudditi.

I limiti del potere stanno perciò nelle esigenze del bene pubblico. Contro la tirannia

(come contro ogni potere politico che ecceda i suoi limiti e ponga l’arbitrio al posto

della legge): il popolo ha il diritto di ricorrere alla resistenza attiva e alla forza. In

questo caso la resistenza non è ribellione, perché è piuttosto la resistenza contro la

ribellione dei governanti alla legge e alla natura stessa della società civile. Con la

ribellione il popolo non può essere accusato, come faceva Hobbes, di tradire il patto

originario, perché questo era già stato violato dall’oppressore e, quindi, considerato

già decaduto.

In linea con il suo giusnaturalismo, Locke sostiene che tutti gli uomini possiedono sin

dalla nascita dei diritti naturali intangibili. Tra i diritti naturali Locke includeva anche

la libertà di culto in tema di religione. Nella sua Lettera sulla tolleranza (1689)

Locke, cristiano fervente ma tollerante, preannunciava in una breve frase la

laicizzazione dello Stato moderno: “Tutto il potere del governo civile riguarda

esclusivamente gli interessi civili, è circoscritto alle cose di questo mondo e non ha

niente a vedere col mondo a venire”. Con ciò Locke ammetteva un ulteriore limite

alla sovranità politica: la salvezza dell’anima è una questione in cui lo Stato non può

permettersi di entrare. A contrasto con la filosofia espressa da Hobbes nel Leviatano

e in coerenza con l’impostazione generale del suo liberalismo, il pensiero di Locke

sulla tolleranza e sulla religione può essere riassunto nei seguenti due punti:

1. la libertà di culto (e più in generale la libertà di pensiero) è un diritto naturale e

inalienabile di ciascun essere umano;

2. le funzioni esercitate dalla Chiesa e dallo Stato sono differenti, così come gli

ambiti ai quali essi si applicano.

Per quanto riguarda il primo punto, Locke considera la religione come una questione

di coscienza che investe unicamente l’individuo: la fede richiede una scelta e

un’adesione interiore, basata sul sentimento, che nessuna legge può pretendere. Voler

imporre la fede con la forza è assurdo perché contrario sia alla religione che al diritto

civile. Lo Stato non può imporre la fede neppure con il pretesto di salvare l’anima dei

cittadini, perché la salvezza si ottiene solo se si crede veramente. La salvezza è una

questione individuale.

In merito al secondo punto, Locke afferma che Stato e Chiesa sono istituzioni

distinte: il primo è un’associazione obbligatoria che serve a garantire i diritti di

ognuno; la seconda è un’associazione liberamente scelta, che può darsi da sola le

proprie leggi, purché non contrastino con quelle dello Stato e non debbano essere

imposte con la forza ai propri membri. Anzi l’appartenenza ad una Chiesa non deve

essere motivo né di restrizione dei diritti, né di privilegio. Nonostante ciò, per Locke

anche la tolleranza deve avere comunque dei limiti: devono essere represse dal potere

politico le religioni che professano dogmi contrari alla società o ai buoni costumi.

Rousseau e la democrazia

Il tema del ritorno alla natura attraversa e sostiene tutti gli scritti del filosofo

ginevrino. Su tale orientamento di pensiero è evidente l’influsso del mito del "buon

selvaggio", diffuso nella letteratura francese, a partire dal Cinquecento quando, in

seguito alle grandi scoperte geografiche, comincia l’idealizzazione dei popoli

primitivi e l’apologia della "vita selvaggia". Quando nel Settecento la vita sociale con

i suoi "costumi corrotti" venne sottoposta alla critica della ragione, il gusto dei

costumi esotici e il fascino di quanto appariva diverso ed estraneo alla civiltà europea

si accentuarono e si diffusero.

Rousseau studiò con passione quel materiale documentario, e le sue analisi

risultarono subito di grande interesse. Infatti, ciò che per gli Enciclopedisti illuministi

era progresso, per Rousseau era regresso e corruzione. Pertanto, la visione di

Rousseau è decisamente pessimistica nei confronti della storia e del suo corso, come

dei suoi prodotti culturali. Al pari di Hobbes e di Locke, anche Rousseau parte dalla

descrizione dello stato di natura. Però egli si diversifica profondamente dalla

tradizione contrattualista del giusnaturalismo ed in particolare nei riguardi di questi

due grandi pensatori, proponendo un differente modello dello stato di natura e

orientandosi pertanto in una direzione molto diversa da loro.

Ad esempio, rispetto ad Hobbes, Rousseau attacca uno dei punti fermi del

giusnaturalismo, non vedendo nel passaggio dalla condizione naturale ferina (cioè

animalesca e feroce descritta da Hobbes) a quella sociale e politica un vero

miglioramento dell’esistenza dell’umanità. L’uomo non è di per sé un lupo per l’altro

uomo. Secondo Rousseau, l’uomo è diventato malvagio ed ipocrita nel corso della

storia.

Per Rousseau lo stato di natura non svela la condizione dell’istinto violento,

dell’affermazione della vitalità senza controllo; è semmai l’allontanamento dell’uomo

dalla sua originaria condizione naturale, cioè dallo stato di natura pre-civilizzato,

indiscutibilmente sereno, tranquillo e fortemente positivo, che ha generato una

irrimediabile contaminazione dell’animo umano, una sorta di fuoriuscita da un

paradiso, che ha portato a un progressivo imbarbarimento, nel quale l’uomo ha finito

per cedere al conflitto col suo simile e allo stato di perpetua insoddisfazione. La tesi

di Rousseau è che «L’uomo è nato libero, ma ovunque è in catene”.

Nel Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza fra gli uomini (1755),

Rousseau analizza l’ineguale sviluppo della società civile, chiarendo quanto segue:

"Il primo che, cintato un terreno, pensò di affermare ‘questo è mio’ e trovò persone

abbastanza ingenue da credergli fu il vero fondatore della società civile." La polemica

di Rousseau è tutta rivolta contro l’origine della società causata da un atto iniquo di

appropriazione privata della terra. La proprietà privata - a differenza di Locke che la

considerava un diritto naturale da trasformare in diritto positivo – per Rousseau

invece non è un diritto di natura ma frutto di un ingiusto patto sociale, che ha dato

luogo ad un falso progresso materiale.

Le leggi nascono dal riconoscimento della proprietà privata, e insieme ad esse nasce

il potere del governo. Questa storia di corruzione e ingiustizie ha avuto inizio per

Rousseau con il nascere della diseguaglianza fra gli uomini, con l’affermazione della

proprietà privata. Dunque, la società civile e politica sorge da uno snaturamento della

condizione umana, poiché con essa si instaura un’innaturale e convenzionale

diseguaglianza che tradisce le esigenze primarie della maggioranza degli uomini: "è

contro la legge di natura […] che un bambino comandi a un vecchio, che un imbecille

guidi un saggio, e che un pugno d’uomini rigurgiti di cose superflue mentre la

moltitudine affamata manca del necessario".

Per il filosofo francese, nello stato di natura (quello stadio del “buon selvaggio"),

l'uomo era felice e libero, i bisogni erano pochi e facilmente soddisfabili; la ragione

non aveva alcuna importanza. L'uomo di natura, descritto da Rousseau, è

originariamente integro, biologicamente sano e moralmente retto: dunque, non

malvagio, non oppressore, non violento, ma essenzialmente giusto (o, meglio ancora,

completamente innocente). L’uomo è diventato malvagio e ingiusto: il suo squilibrio

non è originario ma derivato dall'ordine sociale. Rousseau in tal modo mette in

guardia sul fatto che la disuguaglianza non è inscritta nello stato di natura, se non fino

a quando qualcuno, con un atto dispotico, ha deciso di recintare un ambiente e di

rivendicarlo come suo, escludendo tutti gli altri o decidendo chi potesse usufruirne e

chi no.

E’ dinanzi a questa prima “ingiustizia” che gli uomini decidono di aggregarsi e

costituire un ordine civile e politico, per difendersi dall’arroganza e dalla forza del

più forte. Per fare questo, però, ogni membro ha dovuto sacrificare una porzione di

quelle libertà naturali che caratterizzavano la sua esistenza, per vedersele

riconsegnate in altra forma, spesso in forma cioè “invertita”, ovvero come limiti e

divieti.

Con la proprietà, sottolinea il ginevrino nel Discorso sull’ineguaglianza, iniziano a

nascere ineguaglianze e ingiustizie. Con la proprietà nasce l'ostilità tra gli uomini;

hanno origine lo sfruttamento e la divisione tra ricchi e poveri, così come appaiono le

prime regole di giustizia. Quella di Rousseau è una visione radicalmente pessimistica

della storia, del progresso e del suo corso, tanto che Voltaire squalificò il Discorso

come “un libello contro il genere umano”. Anzi ironizzando sulla tesi di Rousseau,

Voltaire scrisse: “È impossibile dipingere con colori più energici gli orrori della

società umana. Nessuno ha usato tanto ingegno per ridurci a bestie: vien voglia di

camminare a quattro zampe leggendo il vostro libro”. Rousseau tuttavia, contro tutti

gli Enciclopedisti, rovescia l’ottica interpretativa della storia, vista come costante

progresso dagli illuministi, così come testimonia la critica dello stesso Voltaire.

Per Rousseau l’uomo non è di per sé un lupo per l’altro uomo: lo è diventato nel

corso della storia. Lo stato di natura non e lo stato dell’istinto violento,

dell’affermazione della vitalità senza controllo. Lasciata al suo libero sviluppo, la

natura per Rousseau porta al trionfo dei sentimenti, non della ragione, dell’istinto,

non della riflessione, o dell’autoconservazione e nemmeno della sopraffazione.

“Tutto è bene quando esce dalle mani dell’autore delle cose”, come afferma il

ginevrino nell'Emilio (opera fondamentale per la nascita della pedagogia), “tutto

degenera nelle mani dell’uomo”. Rousseau, insomma, ribalta completamente la

prospettiva di Hobbes.

Anche se Rousseau guarda al passato, la sua attenzione è in realtà tutta rivolta

all’uomo presente, corrotto e disumano. Non si può parlare di primitivismo o di culto

della barbarie, soprattutto perché Rousseau conosce i limiti di quello stadio di vita.

Nel Discorso sull’ineguaglianza scrive: "Errando nella foresta senza lavoro, senza

parola, senza domicilio, senza guerra e senza legami, senza alcun bisogno dei suoi

simili, così come senza alcun desiderio di nuocer loro, persino senza mai

riconoscerne alcuno individualmente, l’uomo selvaggio, soggetto a poche passioni e

bastante a se stesso, non aveva che i sentimenti e i lumi propri a quello stato, non

provava che i bisogni veri, non guardava se non quanto aveva interesse di vedere e la

sua intelligenza non faceva maggiori progressi della sua vanità. Se per caso faceva

qualche scoperta, non poteva farne parte a nessuno, in quanto non riconosceva

neppure i suoi figli.

L’arte moriva con l’inventore; non vi era né educazione né progresso, le generazioni

si moltiplicavano inutilmente e, poiché ognuno partiva sempre dal medesimo punto, i

secoli scorrevano e rimaneva inalterata la rozzezza dell’età primitiva, la specie era già

vecchia e l’uomo rimaneva sempre bambino". Il mito del "buon selvaggio" di cui si

avvale Rousseau è soprattutto una sorta di categoria filosofica, una norma di giudizio

in base a cui condannare l’impianto storico-sociale che ha mortificato la ricchezza

passionale dell’uomo, come la spontaneità dei suoi sentimenti più profondi.

Confrontando l’uomo qual era con l’uomo qual è, Rousseau intendeva stimolare gli

uomini a un cambiamento salutare.

A questo proposito Rousseau così risponde nel Contratto sociale: attraverso una

rifondazione della società volta a fare dell’uomo un vero e proprio cittadino, cioè un

individuo che sia capace di eliminare gli interessi del suo io particolare per accogliere

totalmente quelli dell’io comune o collettivo (l'interesse di tutti). L’ordine sociale, pur

non essendo l’ordine naturale, è una necessità: allora nasce il problema di trovare

quella forma di associazione, per la quale ciascuno, unendosi con tutti, non obbedisca

che a se stesso (e possa dunque dirsi ancora libero e uguale agli altri come nello stato

di natura). Questo problema è risolto da un “nuovo patto”, che gli uomini stipulano

tra loro e che è alla base di una rinnovata società politica.

L’analisi condotta nel Contratto sociale prende in considerazione i fondamenti del

potere politico, con l’intento di togliere al dispotismo e all’ineguaglianza ogni

ragione di legittimità. Per Rousseau la forza non può dar luogo al diritto né

l’obbedienza incondizionata può costituire il dovere. Lo Stato ‘secondo natura’,

rispettoso cioè dei diritti naturali dell’uomo, non si fonda sull’ineguaglianza tra chi

comanda e chi è comandato, non può rendere convenzionalmente valido ciò che è in

realtà incompatibile con la natura umana, cioè con il diritto alla libertà.

L’ipocrisia della moderna società civile e del moderno Stato politico va smascherata

con la critica proveniente proprio da quei settori sociali che subiscono il

rovesciamento di valori, a danno della loro stessa vita. E’ la formulazione del “nuovo

patto sociale” che per Rousseau risolverà questo moderno problema. La forma del

patto presentata da Rousseau rinnova radicalmente il concetto di sovranità popolare,

rispetto alla proposta avanzata da Hobbes e da Locke. Il potere sovrano non è più un

“terzo” rispetto agli associati, non è la controparte del popolo, esso è invece il popolo

stesso, ovvero è la comunità che come ente collettivo esprime ed esercita la sua

sovranità - la volontà generale - nell’ambito delle assemblee. Ogni associato, con

questo patto, cede totalmente e senza riserve tutti i suoi diritti alla comunità (all’io

comune).

La situazione, in questo caso, è uguale per tutti: ognuno, dandosi a tutti, non si dà

propriamente a nessuno; ognuno acquista su chiunque altro esattamente lo stesso

diritto che egli cede. Ognuno guadagna dunque l’equivalente di ciò che perde e una

forza maggiore per conservare ciò che ha. Tutti sono legati, senza essere tuttavia

assoggettati ad alcuno (ognuno ha infatti ceduto tutti i suoi diritti, è vero, ma non a un

soggetto "altro da sé “, bensì all'io comune: è come se ognuno degli individui

diventasse un io più grande, nel quale si riconosce pienamente, formato da tutti gli io

che si associano nel patto).

Insomma, le clausole del patto “si riducono tutte ad una sola, cioè l’alienazione totale

di ciascun associato con tutti i suoi diritti a tutta la comunità: di fatto, dando ognuno

tutto se stesso, la condizione è eguale per tutti”. L’individuo ritrova così se stesso in

un corpo morale e collettivo, in un io comune.

Il popolo, anche dopo il patto, resta sovrano: viene creato infatti un "io collettivo” (=

l’insieme dei cittadini), che guida lo Stato grazie a quella che Rousseau chiama

volontà generale. Tale volontà non è la somma, pura e semplice, di volontà

particolari. La volontà generale non è unicamente la volontà della maggioranza: essa

implica un elemento di moralità, poiché è la volontà diretta al bene di tutti, al bene

della comunità. E’ questa sovranità popolare che ricompone e risolve quella

diseguaglianza civile smascherata da Rousseau nel Discorso del 1755.

Il popolo come corpo, il “sovrano”, “l’io collettivo", non potrebbe volere che

l'interesse generale (espresso dalla volontà generale). Però ognuno dei membri dello

Stato può avere invece due tipi di volontà: come uomo individuale è tentato di

seguire il suo proprio interesse; tuttavia l’uomo sociale in lui, il cittadino, deve

ricercare e volere l’interesse generale. Per Rousseau fondamentale è la libertà di ogni

uomo e questa consiste proprio nel far prevalere sulla propria volontà particolare la

propria “volontà generale” (d'altronde, nell’ottica di Rousseau, noi siamo diventati un

io più grande, l'io collettivo): solo in questo modo obbedire al sovrano è obbedire a se

stessi, ossia essere veramente liberi.

Tale “volontà generale” realizza la volontà della comunità e del popolo nel suo

insieme, dunque non può che essere ‘una’ volontà, uguale e compatta in se stessa

ottenuta tramite quel patto fondamentale che, "invece di distruggere l’uguaglianza

naturale, sostituisce, al contrario, un’uguaglianza morale e legittima a quel tanto di

disuguaglianza fisica che la natura ha potuto mettere tra gli uomini i quali, potendo

per natura trovarsi ad essere disuguali per forza o per ingegno, diventano tutti uguali

per convenzione e di diritto".

Alcune caratteristiche della volontà generale sono che:

1. questa è assoluta, pura, immutabile, inalienabile (è rifiutato il principio della

rappresentanza: l'essere collettivo può essere rappresentato solo da se

medesimo) e indivisibile (è rifiutato anche il principio di divisione dei poteri di

Montesquieu);

2. è, infine, retta per definizione, perché per definizione è la volontà che si dirige

verso il bene e l’interesse dell’intera collettività.

Quella ipotizzata da Rousseau è in pratica una democrazia diretta, in cui l’intera

collettività si riunisce fisicamente in assemblea per emanare leggi (espressioni della

volontà generale). Questa, ossia la funzione legislativa, è un tutt’uno con la sovranità

e non può essere delegata. Ciò che invece il popolo può delegare è il governo: e chi è

a capo del governo non è assolutamente padrone del popolo, ma un semplice

funzionario, che può venir destituito in ogni occasione.

In conclusione

Stato di Natura per Hobbes:

1. gli uomini non sono esseri socievoli (bramosia naturale per il piacere e

l’interesse individuali)

2. diritto naturale assoluto di ciascuno su tutte le cose

3. guerra di tutti contro tutti

Patto Sociale per Hobbes:

Come si raggiunge la sicurezza?

1. con un patto tra gli uomini a favore di un terzo (il sovrano)

2. ciascuno cede la propria libertà naturale; solo il sovrano la mantiene

3. lo Stato assoluto garantisce la sicurezza dei sudditi (attraverso la forza e

mediante la legislazione)

Stato di Natura per Locke:

1. socialità naturale (guidata dalla ragione naturale propria di tutti gli uomini) -

uguaglianza di diritti (diritti naturali: vita, libertà, proprietà)

2. tra i diritti fondamentali, si possiede anche il diritto di farsi giustizia da soli

Patto Sociale per Locke: Come garantire vita, libertà e proprietà, se ognuno intende

farsi giustizia da solo?

1. con un patto tra tutti i cittadini

2. i diritti naturali sono conservati (meno quello di farsi giustizia da soli: il potere

di punire è lasciato al sovrano)

3. il potere legislativo (quello più importante) e quello esecutivo devono essere

separati

4. le leggi devono essere rispettose dei diritti naturali e devono mirare al bene

comune, non ostacolando la libertà di nessuno (liberalismo)

Stato di Natura per Rousseau:

1. è uno stato di innocenza e felicità

2. è uno stato di uguaglianza (la diseguaglianza e i conflitti nascono con la società

che fonda la proprietà privata)

3. con la nascita della proprietà vengono alla luce le diseguaglianze (con la

differenziazione tra ricchi e poveri): la società è un modo per confermare tali

diseguaglianze

Patto Sociale per Rousseau: come creare un equivalente civile della libertà

naturale?

1. ognuno cede tutti i suoi diritti all'intera comunità: dandosi a tutti, non ci si dà a

nessuno

2. la volontà individuale è sostituita dalla volontà generale, diretta al bene di tutti

3. il potere di emanare leggi è conservato dall'intero corpo sociale dei cittadini

(democrazia diretta); è possibile però delegare il governo.

RAZIONALISMO ED EMPIRISMO

Il Seicento è un secolo importantissimo nella storia della filosofia perché con esso

nasce la cosiddetta "filosofia moderna", che si protrarrà fino all'Ottocento, mentre col

Novecento entriamo nella filosofia contemporanea. La filosofia moderna si distingue

da quella precedente (quella greca, quella ellenistica e romana, quella medievale e

quella umanistico-rinascimentale) perché cambiano profondamente gli interessi

filosofici prevalenti. Infatti, mentre per le filosofie precedenti gli interessi prevalenti

riguardavano l'"ontologia" (= quella parte della filosofia che studia i fondamenti

dell'essere, o della realtà, cioè i principi e le caratteristiche essenziali, le essenze, i

fini, del mondo e delle cose del mondo) per la filosofia moderna gli interessi

prevalenti riguardano la "gnoseologia" (= quella parte della filosofia che studia la

conoscenza umana, i suoi fondamenti, le sue caratteristiche principali, il suo valore e

i suoi limiti).

Occupandosi del mondo, della realtà e delle cose del mondo, cioè degli "oggetti" del

mondo, le filosofie precedenti avevano carattere oggettivo; occupandosi della

conoscenza e del "soggetto" conoscente, cioè del modo in cui il soggetto (l'uomo)

conosce, la filosofia moderna ha carattere soggettivo. Il Seicento è dominato da due

principali correnti filosofiche:

1. il razionalismo;

2. l'empirismo.

Il razionalismo è una forma moderna di filosofia metafisica rispetto a quella antica.

Con tale termine si intendono tutte quelle filosofie (filosofie razionalistiche) per le

quali il fondamento primo, la base di partenza della conoscenza, è la ragione e non le

sensazioni. I filosofi razionalisti ritengono che la ragione, la mente umana, possieda

entro di sé, fin dalla nascita, idee e principi generali chiamati "idee innate"

(innate=non nate ad un certo momento nella mente individuale ma presenti in essa fin

dalla nascita). Essendo innate, queste idee non derivano dall'esperienza ma sono

indipendenti da essa: si dice che sono idee "a priori" (= che vengono prima e a

prescindere dall'esperienza sensibile).

Le idee innate quindi non sono sensazioni ma sono "intuizioni" che la ragione, la

mente, coglie in quanto presenti entro di sé e che comprende immediatamente senza

bisogno di dimostrazioni perché sono assolutamente evidenti. Sono come i postulati

della geometria (il punto non ha dimensioni; la retta è la distanza più breve tra due

punti; la retta è infinita; due rette parallele non si incontrano mai; ecc.), i quali non

sono dimostrabili ma sono accettati da tutti perché del tutto evidenti.

Quindi, partendo dalle idee innate, che sono di tipo generale, o dai postulati nel caso

della matematica, e procedendo per deduzione, applicando cioè il metodo deduttivo

(passando dal generale al particolare), si giunge man mano, mediante la logica ed il

ragionamento, alla dimostrazione di realtà particolari, di singole cose o fatti o gruppi

di cose o di fatti (nel caso della geometria, partendo dai postulati si giunge, mediante

quei particolari ragionamenti che sono i teoremi, alla dimostrazione delle proprietà

delle figure geometriche particolari). Idee innate sono, ad esempio: l'idea della

coscienza (o anima o "io"), l'idea di perfezione, l'idea di infinito, l'idea di sostanza,

l'idea di spirito, l'idea di materia, eccetera.

Partendo da tali idee innate, di tipo generale, intuitive ed evidenti, che non hanno

quindi bisogno di essere dimostrate, si arriva poi, attraverso il metodo deduttivo ed il

ragionamento, a dimostrare, ad esempio, cos'è l'essenza e quali sono le proprietà della

coscienza, quali sono le proprietà dello spirito, cioè del pensiero, quali sono le

proprietà di fondo della materia nonché le proprietà, il senso ed il fine del mondo

fisico, della natura, dell'essere umano. Infine, poiché secondo i razionalisti le idee

innate da cui parte la conoscenza sono principi primi e idee generalissime evidenti di

per sé, allora le conoscenze che da esse derivano sono non soltanto certe ma anche

complete, esaustive.

Per empirismo si intendono tutte quelle filosofie (le filosofie empiriste) per le quali il

fondamento primo, la base di partenza della conoscenza non è la ragione, la mente,

ma è invece l'esperienza sensibile, cioè le sensazioni. Per gli empiristi le idee innate

non esistono: la mente, quando nasce, non possiede dentro di sé alcuna idea; le idee

verranno dopo, con le esperienze e con la conoscenza. Poiché parte dall'esperienza,

allora per gli empiristi la conoscenza non è a priori ma è "a posteriori" (=che viene

dopo l'esperienza, dopo le sensazioni). Ciò non significa che la ragione non sia

necessaria per giungere a conoscere, anzi è determinante. Infatti, se la conoscenza

comincia dall'esperienza, essa però, per diventare tale, ha bisogno dell'intervento

della ragione, la quale elabora ed organizza le sensazioni, le esperienze,

trasformandole in concetti ed in spiegazioni.

Inoltre, per gli empiristi la conoscenza non procede per deduzione ma per induzione

(=partire dai casi particolari, dalle singole esperienze e sensazioni, per giungere a

spiegazioni più generali). Tuttavia, diversamente dai razionalisti, gli empiristi non

ritengono possibile giungere a conoscenze complete ed esaustive. Secondo il metodo

induttivo è possibile giungere gradualmente a spiegazioni sempre più ampie, giungere

a scoprire cause sempre più generali, ma le spiegazioni e le teorie saranno sempre

parziali, mai complete, non essendo possibile spiegare le cause prime e i fini ultimi

della realtà, cioè l'essenza del mondo e delle cose del mondo, l'essenza dello spirito,

l'essenza della materia, eccetera, in quanto per gli empiristi l'intelletto umano è

limitato.

Il metodo induttivo dell’empirismo, al contrario del razionalismo, non parte da cause

prime (le idee innate) per spiegarne gli effetti, ma parte dagli effetti, dai singoli

fenomeni, per spiegarne le cause, ritenendo però che la mente umana, poiché limitata,

non sarà mai in grado di scoprire le cause prime della realtà (Perché c'è il mondo?

Qual è il suo destino? ecc. A tali cause prime e fini ultimi è impossibile per gli

empiristi trovare una risposta).

Somiglianze tra Razionalismo ed Empirismo

Sopra abbiamo visto le principali differenze tra razionalismo ed empirismo. Essi però

hanno anche taluni punti in comune, modi di pensare fra di loro simili. Infatti, per

entrambi noi non conosciamo direttamente le cose, gli oggetti, ma solo i fenomeni,

ossia ciò che ci appare delle cose, ciò che percepiamo, ossia le immagini, l'aspetto

esteriore delle cose così come la nostra mente ce le rappresenta (rappresentazioni

mentali), però non conosciamo le cose in se stesse. La nostra è solo conoscenza dei

fenomeni (fenomeno in greco significa "ciò che ci appare": ciò vuol dire che non

sappiamo con certezza se le cose in se stesse sono davvero come ci appaiono).

Per entrambi i fenomeni naturali avvengono sempre in maniera meccanica, accadono

secondo rapporti meccanici e necessari di causa-effetto, per cui, data una certa causa,

essa produce meccanicamente e necessariamente un certo determinato effetto e,

viceversa, dato un certo effetto, esso deriva meccanicamente e necessariamente da

una determinata causa.

Così, in generale, si ritiene che tutti i fenomeni accadano secondo leggi naturali

necessarie. È questa una concezione meccanicistica della natura che si contrappone

alla concezione spiritualistica della natura (la natura è governata da un Essere

superiore divino e trascendente); si contrappone altresì alla concezione panteistica

della natura (dentro la natura, dentro ogni cosa naturale, vi è uno spirito divino

immanente che la anima) e si contrappone pure alla concezione organicistica della

natura che si aveva ad esempio nel Rinascimento (la natura è come un immenso

corpo vivente, composto non solo di materia meccanica ma anche di spirito libero,

che sceglie liberamente da sé il modo in cui svilupparsi).

In base alla concezione meccanicistica della natura, il meccanismo secondo cui

accade ogni fenomeno naturale è pertanto misurabile ed è conoscibile mediante il

calcolo ed il metodo matematico (come diceva Galilei). Non ha senso dunque cercare

un finalismo nella natura (essa non agisce in vista di qualche fine o qualche scopo,

ma agisce meccanicamente) e non ha senso ricercare una libertà della natura, suo

svilupparsi liberamente (la natura agisce sempre in base a leggi naturali necessarie,

costante ed uniformi).

Finalismo e libertà possono semmai essere cercati e trovati nello spirito, cioè nel

pensiero umano, nei comportamenti e nelle idee degli uomini e nella storia umana.

Fondatore del razionalismo è Renato Cartesio. Altri importanti razionalisti sono

Spinoza e Leibnitz. Precursore dell'empirismo è Hobbes ed il suo maggior esponente

è Locke. Altri importanti empiristi sono Berkeley e Hume.

KANT: FILOSOFIA TEORETICA, ETICA ED ESTETICA

Immanuel Kant nacque nel 1724 a Königsberg, capoluogo della Prussia orientale, da

una famiglia scozzese. Educato nel Collegium Fridericianum al pietismo, nel 1740

studia matematica, filosofia e teologia all’Università di Königsberg. Si avvicinò alla

fisica newtoniana grazie a Martin Knutzen, suo insegnante. Terminati gli studi fu

precettore presso case patrizie. Nel 1755 ottenne la libera docenza presso l’Università

di Königsberg dove insegnò varie discipline per quindici anni. Nel 1766 divenne

sottobibliotecario alla Biblioteca Reale, e nel 1770 fu nominato professore ordinario

di logica e metafisica.

Criticismo

Il pensiero di Kant è detto criticismo: contrapponendosi al dogmatismo, accettazione

passiva, si propone di vagliare la conoscenza tramite la critica filosofica. Si propone

infatti di interrogarsi circa l’esperienza umana per chiarirne: la possibilità, la validità

ed i limiti. In particolare, su quest’ultimi riflette Kant, stabilendo un confine

invalicabile entro il quale è possibile indagare e fare esperienza, ed è nei limiti che

trovano fondamento e legittimità le facoltà umane: l’impossibilità di trascendere

l’esperienza permette la Critica alla ragion pura, l’impossibilità di raggiungere la

santità, la Critica alla ragion pratica, e l’impossibilità di subordinare la natura

all’uomo, la Critica del giudizio.

Il criticismo può essere storicamente contestualizzato come figlio della rivoluzione

scientifica e della crisi progressiva delle metafisiche tradizionali. Kant si trovava in

questo modo davanti il grande problema di legittimare l’etica, tradizionalmente

fondata sulla metafisica.

Critica della Ragion Pura

La Critica della ragion pura è un’analisi critica dei fondamenti del sapere, che si

propone di indagare circa la scienza e la metafisica. Ai tempi di Kant la metafisica

aveva perso il ruolo importante che aveva un tempo, penalizzata dalle continue

dispute tra i pensatori ed in qualche modo offuscata dai successi della scienza. Anche

quest’ultima però aveva minati i suoi fondamenti dalla filosofia di Hume, che ne

criticò il principio di causalità, risvegliando così Kant a suo dire dal sonno dogmatico

e spingendolo ad una ricerca di una nuova legittimazione della scienza.

Kant era dunque convinto della necessità di un riesame della struttura e della validità

della conoscenza. Il filosofo rifiuta lo scetticismo scientifico di Hume, e si limita a

condividerne quello riguardo la metafisica, di cui si dichiara un innamorato deluso,

poiché nonostante la disposizione naturale che spinge l’uomo ad indagarla non si

potrà mai verificarla.

I giudizi sintetici a priori

Nel corso del seicento si erano distinte due correnti filosofiche che indagavano

riguardo la scienza e con cui Kant è costretto a confrontarsi: da un lato i razionalisti,

che proponevano di fondare la conoscenza su giudizi analitici a priori, che Hume

identificava nelle proposizioni matematiche, universali e necessarie (a priori), il cui

predicato, non ricorrendo all’esperienza, esplicita una caratteristica già contenuta nel

soggetto (predicati esplicativi, non fecondi/sintetici ma analitici); dall’altro gli

empiristi, che fondavano la conoscenza su giudizi.

Per giudizio si intende, da un punto di vista logico-filosofico, il connettere un

predicato con un soggetto. sintetici a posteriori, basandosi sull’esperienza (a

posteriori) riescono ad aggiungere con il loro predicato qualcosa di nuovo al soggetto

(predicati ampliativi, fecondi e cioè sintetici) ma mancano dell’universalità. La

Scienza, pur derivando in parte dall’esperienza, si fonda su principi universali e

immutabili, che sono uguali in tutti gli uomini (per esempio la proposizione “Tutto

ciò che accade ha una causa”).

Kant li chiama giudizi sintetici a priori, poiché non derivano dall’esperienza ma sono

propri della mente di ogni uomo (a priori), ma nonostante ciò sono ampliativi

(sintetici). Superando le interpretazioni precedenti Kant identifica una scienza

fondata sia sull’esperienza, che le garantisce la fecondità della materia, che sui

giudizi sintetici a priori, fecondi nella forma e universali e necessari. L’accusa che

viene rivolta a Hume, nella visione kantiana, è quella di aver confuso i giudizi

sintetici derivati dall’esperienza ed il principio di causalità, che è un giudizio sintetico

a priori, e che è un concetto innato nell’uomo ed universalmente valido.

La Rivoluzione Copernicana

Individuati i giudizi sintetici a priori come di fatto fondanti la scienza, a Kant spetta

di spiegare da dove derivano se non dall’esperienza. Ovvero di dimostrare se il quid

facti del loro uso sia corrisposto da un quid iuris della loro legittimità d’uso. Kant

articola la sua ipotesi gnoseologica di fondo elaborando una nuova teoria che vuole la

conoscenza come sintesi di materia, elemento a posteriori, e forma, elemento a priori:

la materia è la molteplicità caotica delle impressioni sensibili che derivano

dall’esperienza, mentre la forma è la modalità fissa tramite cui la mente umana ordina

queste impressioni.

La visione kantiana ritiene che la mente umana filtri attivamente i dati empirici

attraverso forme innate comuni a tutti i soggetti pensanti. Queste forme sono a priori

rispetto l’esperienza, ed hanno validità universale e necessaria poiché tutti le

applicano allo stesso modo. Per chiarire cosa sono le forme a priori è stato spesso

utilizzato l’esempio delle lenti azzurre, che, comuni a tutti gli uomini, filtrano la

realtà esterna rendendola azzurra. Impostando in questo modo il problema della

conoscenza ne consegue necessariamente:

La rivoluzione copernicana che Kant si vantò di aver operato in filosofia ribaltando i

rapporti tra soggetto e oggetto, come Copernico aveva fatto tra spettatore e stelle in

astronomia. Non è per Kant la mente a modellarsi sulla realtà – tesi empirista che

perde di universalità -, ma la realtà che si modella sulle forme a priori attraverso cui il

soggetto la percepisce. È necessario introdurre una distinzione tra il fenomeno, la

realtà percepita tramite le forme a priori, e la cosa in sé, ovvero la realtà

indipendentemente la percezione.

Partizione della Critica della ragion pura

Kant distingue tre facoltà conoscitive principali:

1. la sensibilità, facoltà con cui gli oggetti ci sono dati intuitivamente attraverso i

sensi e tramite le forme a priori di spazio e tempo;

2. l’intelletto è la facoltà attraverso cui pensiamo i dati sensibili tramite i concetti

puri o le categorie;

3. la ragione è la facoltà attraverso cui procedendo oltre l’esperienza cerchiamo di

spiegare globalmente la realtà.

Questa ripartizione della facoltà conoscitiva è alla base della divisione della Critica

della ragion pura:

1. la dottrina degli elementi, che indaga quali sono gli elementi a priori (puri)

della conoscenza.

2. La dottrina del metodo, che consiste nel determinare l’uso possibile degli

elementi a priori, ovvero il metodo con cui funziona la conoscenza.

La dottrina degli elementi è la parte più estesa della Critica e si ramifica a sua volta in

due sezioni:

1. l’estetica trascendentale studia la sensibilità (αἴσθησις) e le sue forme a priori

dello spazio e del tempo, mostrando anche come su di esse si fondi la

matematica;

2. la logica trascendentale si divide ancora in analitica trascendentale, che studia

l’intelletto e le sue forme a priori (le 12 categorie); e dialettica trascendentale,

che studia la ragione e le sue tre idee su cui si fonda la metafisica.

Il concetto di trascendentale

Kant rielabora il concetto di trascendentale, che nella terminologia scolastica-

medievale indicava le proprietà universali comuni a tutte le cose, e lo collega a quello

di forma a priori: trascendentale non è ciò che oltrepassa l’esperienza bensì che la

precede (a priori) e la rende conoscibile.

Non li identifica però con gli elementi stessi ma con lo studio dei medesimi: sono

trascendentali non tanto le forme a priori, quanto le discipline filosofiche che li

studiano (es. estetica t., analitica t., ecc.).

L’estetica trascendentale

L’estetica trascendentale è la parte della Critica della ragion pura in cui Kant studia la

sensibilità e le sue forme a priori. La sensibilità, dice Kant, è ricettiva poiché non

genera i contenuti ma li accoglie, dalla realtà esterna o da quella interna, per

intuizione. La sensibilità però non è solo ricettiva ma anche attiva, poiché organizza il

materiale delle intuizioni empiriche (sensazioni) tramite lo spazio e il tempo, le forme

a priori (intuizioni pure) della sensibilità.

Spazio e Tempo

Lo spazio (Raum) è la forma del senso esterno, cioè quella «rappresentazione a priori

necessaria che sta a fondamento di tutte le intuizioni esterne», ovvero che permette di

percepire la realtà esterna. Il tempo (Zeit) è la forma del senso interno, cioè la

rappresentazione a priori che sta a fondamento dei nostri stati interni e del loro

disporsi l’uno dopo l’altro. Va inteso anche come percepire di percepire, ovvero ogni

volta che si percepisce un qualcosa, sia con il senso esterno che interno,

quest’operazione viene essa stessa percepita dal tempo e disposta nel nostro interno

secondo un ordine di successione. È ciò che ci fa in qualche modo rendere conto dei

cambiamenti a noi esterni (il rendersi conto che una luce si spenga è causato dalla

percezione di buio, subito dopo quella di luce).

Per questa ragione Kant sostiene che il tempo è la forma universale dell’esperienza,

poiché «tutti i fenomeni in generale, ossia tutti gli oggetti dei sensi, cadono nel

tempo». L’apriorità dello spazio e del tempo viene giustificata da Kant sia con

argomenti teorici generali (nell’esposizione metafisica), sia con argomenti della

considerazione delle scienze matematiche (nell’esposizione trascendentale).

Logica trascendentale

Nella seconda parte della dottrina degli elementi, la logica trascendentale, Kant

presenta un tipo diverso di scienza del pensiero discorsivo (logica), che ha come

oggetto di indagine l’origine, l’estensione e la validità oggettiva, delle conoscenze a

priori che sono proprie dell’intelletto (studiato nell’analitica trascendentale) e della

ragione (studiata nella dialettica trascendentale).

Analitica trascendentale

Secondo Kant sensibilità e intelletto sono entrambi indispensabili alla conoscenza:

«senza sensibilità, nessun oggetto ci verrebbe dato e senza intelletto nessun oggetto

verrebbe pensato. I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti

sono cieche». Per spiegare cosa siano i concetti Kant scrive la prima parte

dell’Analitica trascendentale: l’Analitica dei concetti.

Mentre le intuizioni sono affezioni (cioè passive), i concetti sono funzioni, ovvero

operazioni attive che ordinano o unificano diverse rappresentazioni sotto una

rappresentazione comune. Possono essere empirici, quando sono costituiti da

materiale derivante dall’esperienza, o puri, se contenuti a priori nell’intelletto. I

concetti puri si identificano con le categorie, nel senso aristotelico del termine,

concetti basilari della mente che costituiscono le supreme funzioni unificatrici

dell’intelletto. Essendo ogni concetto il predicato di un giudizio possibile, le categorie

coincidono con i predicati primi.

A differenza delle categorie aristoteliche, che hanno valore contemporaneamente

ontologico e gnoseologico (leges entis et mentis), le categorie kantiane hanno portata

esclusivamente gnoseologica, rappresentando unicamente modi di funzionamento

dell’intelletto (leges mentis) che agiscono quindi unicamente sul fenomeno e non

sull’oggetto. A differenza di Aristotele, che Kant accusa di aver identificato

«rapsodicamente» le categorie, il filosofo tedesco prosegue secondo un principio

sistematico, partendo dal presupposto: pensare è giudicare, ci saranno allora tante

categorie quante sono le modalità di giudizio: fa corrispondere allora ad ogni tipo di

giudizio (identificati secondo la quantità, la qualità, la relazione e la modalità) un tipo

di categoria.

Tavola dei giudizi:

Quantità Qualità Relazione Modalità

Universali

Particolari

Singolari

Affermativi

Negativi

Infiniti

Categorici

Ipotetici

Disgiuntivi

Problematici

Asseroti

Apodittici

Tavola delle categorie:

Quantità Qualità Relazione Modalità

Unità

Pluralità

Totalità

Realtà

Negazione

Possibilità

Inerenza e sussistenza

Possibilità-impossibilità

Pluralità

Esistenza-inesistenza Totalità

Limitazione Comunanza

Necessità-contingenza

Formulata la tavola delle categorie sorge il problema di giustificarne la loro validità

ed il loro uso. È il problema che Kant considera il più difficile della Critica e che

chiama deduzione trascendentale. Per deduzione non si deve intendere il senso

logico-matematico, ma quello giuridico-forense, e Kant allude alla dimostrazione

della legittimità di diritto (quid iuris) di una pretesa di fatto (quid facti).

Il problema della deduzione trascendentale è: perché le categorie, forme soggettive,

debbano avere una validità per gli oggetti esterni e non creati dall’intelletto? Che cosa

garantisce che la natura obbedirà alle categorie mostrandosi nell’esperienza secondo

le nostre maniere di pensarla? Il problema non si pone per le forme della sensibilità,

lo spazio ed il tempo, poiché l’oggetto non può apparire all’uomo se non percepito da

lui tramite esse e sempre allo stesso modo. Ma questo discorso non può essere

applicato anche ai pensieri dell’uomo.

La soluzione che propone Kant può essere così articolata:

1. L’unificazione del molteplice non deriva dalla molteplicità ma da un’attività

sintetica con sede nell’intelletto.

2. Quest’attività è la suprema unità fondatrice della conoscenza, ed è identificata

dal filosofo tedesco con l’identica struttura mentale che accomuna gli uomini,

denominata io penso.

3. L’io penso si attua tramite i giudizi, i quali, come sappiamo sono i modi

concreti con cui si pensa.

4. I giudizi però si basano sulle categorie, le dodici funzioni unificatrici in cui si

concretizza l’attività sintetica dell’io penso.

5. Di conseguenza tutti gli oggetto che vengono pensati vengono

automaticamente categorizzati.

Il che può essere riassunto come: presupponendo tutti i pensieri l’io penso, e agendo

questo tramite le categorie, ne consegue che tutti gli oggetti pensati presuppongono le

categorie. In questo modo si può affermare che la natura fenomenica obbedisce alle

forme a priori del nostro intelletto. Ciò permette a Kant di introdurre la teoria dell’io

legislatore della natura: l’ordine che sta alla base di tutti i fenomeni della natura non

deriva dall’esperienza ma dall’io penso e dalle forme a priori, che ogni uomo applica

sempre uguali ai fenomeni, garantendone l’universalità.

Con questa dottrina raggiunge l’apice il copernicanesimo filosofico kantiano, che

anziché porre nell’oggetto o in Dio la garanzia della conoscenza, fonda l’oggettività

nel cuore stesso della soggettività: la mente umana.

La conoscenza umana è per Kant sempre limitata al fenomeno, poiché la cosa in sé,

che chiama noumeno, non può essere per definizione oggetto di esperienza possibile.

A livello tecnico Kant ha distinto due significati di noumeno:

1. in senso positivo, è l’oggetto di un’intuizione non sensibile, conoscenza a noi

preclusa e possibile solo ad un ipotetico intelletto divino dotato di

un’intuizione intellettuale, ovvero un intuito che coincide con la creazione

delle cose stesse.

2. In senso negativo è il concetto di una cosa in sé come di una x inconoscibile,

che non potrà mai essere oggetto della nostra intuizione sensibile.

La dialettica trascendentale

Se nell’Estetica e nell’Analitica Kant porta a termine la dimostrazione di come sia

possibile il sapere scientifico, la sua ricerca non può che proseguire chiedendosi se la

metafisica possa costituirsi come scienza nella Dialettica trascendentale. Kant ritiene

che la metafisica sia frutto della ragione, a sua volta frutto dell’intelletto, la facoltà

logica di unificare i dati sensibili tramite le categorie: così resta portato

all’unificazione dei dati anche quando questi mancano dall’esperienza.

In particolare, la metafisica è frutto di tre idee trascendentali proprie della ragione,

che è portata per costituzione ad unificare:

1. I dati del senso interno mediante l’idea di anima, totalità assoluta dei fenomeni

interni; I dati del senso esterno mediante l’idea di mondo, inteso come totalità

assoluta dei fenomeni esterni;

2. I dati interni ed esterni mediante l’idea di Dio, inteso come totalità di ogni

totalità e fondamento di tutto ciò che esiste. L’errore della metafisica, conclude

Kant, è quello di trasformare in realtà queste tre esigenze della ragione.

Critica della ragion pratica

La ragione serve a dirigere - per Kant - non solo la conoscenza ma anche l’azione,

egli pone accanto alla ragione teoretica anche una ragione pratica. Il filosofo

distingue quest’ultima in una ragion pura pratica, che opera indipendentemente

dall’esperienza e dalla sensibilità, e una ragion empirica pratica, che opera basandosi

sull’esperienza e sulla sensibilità. La ragion pura pratica corrisponde alla morale, ed è

su questa che si propone di indagare la Critica della ragion pratica. Non è quindi una

critica della ragion pura pratica, poiché nella sua parte pura (cioè universale e a

priori) non necessita di essere sottoposta ad esame, mentre nella sua parte pratica,

legata all’esperienza, può darsi delle massime, delle forme di azioni, e perciò

potrebbe essere immorali.

Morale

La Critica della ragion pratica si basa sulla tesi che esista una legge morale a priori,

valida per tutti e per sempre, propria dell’uomo. Similmente a quanto avveniva per le

conoscenze scientifiche a priori della Critica alla ragion pura, nella seconda critica

Kant è convinto dell’esistenza di una legge etica assoluta, ed il compito del filosofo

non è dedurla, né inventarla, ma semplicemente constatarla. Dunque, non ha dubbi

che esista una legge morale assoluta o incondizionata, presupponendo una ragion

pratica pura (a priori), comune a tutti gli uomini, capace di svincolarsi dalle

inclinazioni sensibili e di guidare la condotta in modo stabile.

L’assolutezza e l’incondizionatezza della morale implica due convinzioni di fondo

strettamente connesse tra loro: la libertà dell’agire, essendo la morale incondizionata

dall’esterno lascia all’uomo la facoltà di autodeterminarsi oltre l’istinto; ed essendo

indipendente da condizionamenti esterni è sempre uguale a se stessa in ogni tempo ed

ogni luogo, ed è dunque universale e necessaria. Nonostante la morale sia slegata

dall’istinto, non può tuttavia prescinderlo: può infatti decondizionarsi da esso tramite

la ragione, pur rimanendo sempre inesorabilmente legata alla sensibilità (animalità e

impulso). Se infatti l’uomo fosse ragione pura sarebbe in uno stato di santità etica, di

perfetta adeguazione alla legge, in cui la morale non avrebbe senso di esistere.

È in questo che si concretizza l’agire morale, in una lotta continua tra ragione ed

egoismo (impulsi sensibili), non esistendo tra legge morale e volontà una spontanea

coincidenza, è necessario che la prima si presenti come imperativo, ovvero un

comando che richieda il sacrificio delle proprie inclinazioni sensibili, e che l’uomo,

per la sua natura imperfetta, potrebbe anche trasgredire.

Principi

Kant nello scrivere la Critica non mette in discussione, consapevole della finitezza

umana, la forza condizionante che de facto i desideri e gli impulsi (istintuali)

esercitano sulla volontà, ma avendo essi un carattere soggettivo e mutevole non

possono fondare la morale, che deve essere invece universale.

L’etica kantiana si configura non come descrittiva, non spiega infatti come l’uomo si

comporta, ma prescrittiva e deontologica, ponendo attenzione su come l’uomo

dovrebbe comportarsi. Inoltre, non riguarda la materia, ovvero un oggetto desiderato,

ma la forma, ovvero qualcosa degno di essere desiderato, e quindi morale,

indipendentemente dalla verificabilità empirica.

I principi pratici, le regole che disciplinano la nostra volontà, sono distinti da Kant in

massime, prescrizioni di valore puramente soggettivo, ed imperativi, prescrizioni di

valore oggettivo, valide per chiunque. A loro volta gli imperativi sono divisi in:

1. Ipotetici, prescrivono come fare per raggiungere determinati fini, nella forma

del se … devi … a loro volta suddivisi in regole dell’abilità, norme tecniche per

raggiungere uno scopo, e consigli della prudenza, mezzi per ottenere benessere

e felicità.

2. Categorici, che ordinano in modo incondizionato il dovere, a prescindere dallo

scopo, nella forma del devi.

Imperativi categorici

Per Kant la legge morale non può essere contingente, ovvero legata ad impulsi

sensibili soggettivi (massime) o circostanze mutevoli (ipotetici): l’unica forma che

può assumere è dunque quella dell’imperativo categorico, che si imponga

indipendentemente dalla persona cui si rivolge, dall'obiettivo che si prefigge e dalla

circostanza in cui si agisce. La legge deve essere un comando con valore perentorio

per ogni persona ed in tutte le circostanze.

Posto che la legge debba avere per forma l’imperativo categorico, universale ed

incondizionato, Kant spiega quale deve essere il suo contenuto: l’agire in modo tale

che la massima, la prescrizione soggettiva, che muove l’azione sia universalizzabile,

ovvero possa essere resa oggettiva, generalizzata e valida per tutti. Ogni azione

dovrebbe essere in qualche modo sottoposta ad un “test della generalizzabilità”.

A questa formula, contenuta nella Critica della ragion pratica, Kant aggiunge nella

Fondazione della metafisica dei costumi (1785) una seconda ed una terza formula:

1. La seconda formula intima di rispettare la dignità propria e degli altri,

invitando a non ridurre nessuno come mezzo del proprio egoismo o per

soddisfare le proprie passioni. Con fine si intende la caratteristica della persona

umana di essere scopo a se stessa, ovvero di essere soggetto e non oggetto.

2. La terza formula infine, che ripete in parte la prima, sottolinea l’autonomia

della volontà che è essa stessa, spontaneamente, a produrre il comando morale,

non frutto di qualcosa di esterno e schiavizzante, o di altri scopi diversi dal

bene per il bene: non sarebbe pienamente morale cioè compiere il bene perché

ciò mi rende felice o mi fa sentire buono.

La formalità e il dovere

Peculiare caratteristica dell’etica kantiana è che la legge morale non spiega cosa

bisogna fare, ma come, supera cioè l’etica della materia e propone una forma,

universale, entro la quale dovrebbero essere svolti tutti i comportamenti dai soggetti

stessi: è il formalismo. L’imperativo categorico viene quindi proposto come motore

su cui fondare ogni norma morale.

Taluni hanno identificato nell’imperativo categorico una potenziale contraddizione

nel sistema etico di Kant: sembrerebbe che il ragionare sulle conseguenze di

un’azione – sottoponendola al test della generalizzabilità – significherebbe in qualche

modo giudicarla secondo criteri utilitaristici. In realtà il “test” è solo di tipo logico

formale, e non si propone di giudicare le conseguenze quanto la razionalità della

massima generalizzata.

Nel suo sistema Kant impone di eliminare da ogni azione le emozioni ed i sentimenti

ed ogni fine che non sia il dovere (Pflicht, necessità di un’azione nel rispetto della

legge) stesso: è il rigorismo del dovere-per-il-dovere. Da questo ragionamento viene

escluso ogni altro obiettivo che spingerebbe a compiere un’azione (felicità, utile, Dio,

ecc.) ponendosi in un’ottica materiale e finalistica.

I postulati pratici

Nella Dialettica della ragion pura pratica Kant prende in considerazione l’assoluto

morale (o sommo bene). La felicità, premette Kant, non può ergersi ad obiettivo del

dovere, perché in tal caso comprometterebbe l’incondizionatezza della legge etica;

ma la virtù, l’intenzione morale in lotta (il dovere), che pure è l'obiettivo del dovere e

costituisce il bene supremo, non appaga l’essere umano (per esempio nell’aspirazione

alla felicità), che tende invece ad un bene più grande, il sommo bene. Questo, cui

appunto la natura umana tende irresistibilmente, è l’unione di virtù + felicità. Non si

pensi che Kant, introducendo il concetto di sommo bene, abbia spostato l’obbiettivo

della morale, il bene supremo, piuttosto si limita a constatare un bisogno dell’uomo

che, pur agendo virtuosamente, non può reprimere in lui il bisogno della felicità.

In questo mondo tuttavia la virtù e la felicità non possono mai essere congiunti,

essendo gli sforzi per raggiungerle opposti, e costituiscono l’antinomia etica per

eccellenza. Gli antichi, nota Kant, avevano tentato di scioglierla proponendo la

felicità nella virtù (gli Stoici) o la virtù nella felicità (gli Epicurei). L’unico modo per

uscirne fuori, conclude Kant, è di postulare l’esistenza di un mondo dell’aldilà, dove

sia possibile far coincidere la virtù con la felicità.

Kant nell’usare il termine postulato si rifà alla matematica classica: i postulati, distinti

dagli assiomi che sono le verità auto-fondate poiché evidenti, sono principi

indimostrabili necessari per rendere possibili determinate entità o verità geometriche.

Così i postulati della ragion pura pratica kantiani sono proposizioni non dimostrabili

che permettono l’esistenza e la possibilità della legge morale, non sono dunque

dogmi ma presupposizioni necessarie nella pratica.

I postulati di Kant sono:

1. l’immortalità dell’anima; poiché solo la santità permette il sommo bene, ed

essa non è realizzabile in questo mondo si deve postulare un tempo infinito che

renda possibile all’uomo di progredire all’infinito verso la santità;

2. l’esistenza di Dio, una volontà santa e onnipotente, che renda possibile la

corrispondenza tra felicità e virtù, ovvero il raggiungimento del sommo bene;

3. la libertà, che è condizione stessa dell’etica nel momento in cui, prescrivendo il

dovere, si deve necessariamente ammettere la possibilità di agire o meno in

conformità ad esso (devi dunque puoi).

Come possono coesistere però il determinismo della prima Critica con la libertà della

seconda? Una stessa azione diventa in Kant determinata nel mondo sensibile e libera

in quanto atto morale, nel mondo fenomenico infatti essa ha una causa nel passato

che la determina, ma nel mondo noumenico è stata frutto di una libera scelta, e

avrebbe potuto essere evitata.

Inoltre, là dove nella Critica alla ragion pura l’uomo non poteva risultare libero

poiché la sua ragione si scontrava con il limite (esterno) dell’esperienza, nella

seconda critica si supera poiché la libertà è postulata nel mondo noumenico

(metafisico).

Kant infine sostiene il primato della ragion pratica sulla pura, poiché essa riesce con i

postulati ad ipotizzare nel metafisico quello che nella prima critica era

completamente precluso all’indagine. Non si pensi tuttavia che i postulati abbiano un

valore teoretico, questione che Kant ci tiene a precisare, ma costituiscono piuttosto

una ragionevole speranza. E la non certezza assoluta dell’esistenza di Dio viene

intesa dal filosofo tedesco come quello spazio necessario alla libertà.

Critica del Giudizio

La Critica del Giudizio parte da un dualismo instauratosi con le prime due Critiche:

da un lato infatti la Critica della ragion pura mostrava un mondo fenomenico e

deterministico conosciuto dalla scienza, dall’altro la Critica della ragion pratica

indicava un mondo noumenico e finalistico postulato dall’etica.

Nella Critica del Giudizio Kant studia il sentimento, così come nella prima critica

aveva analizzato la conoscenza e nella seconda la morale. Esso viene proposto come

una terza facoltà, che chiama genericamente giudizio, quella mediante cui l’uomo fa

esperienza di quella finalità del reale esclusa dalla prima Critica nel fenomeno, e

postulata dalla seconda nel noumeno.

Kant identifica due tipi di giudizi sentimentali: i giudizi determinanti, quelli

conoscitivi e scientifici studiati nella Critica della ragion pura, e i giudizi riflettenti,

che si limitano a riflettere su una natura conosciuta tramite i giudizi determinanti e

appresa tramite le nostre esigenze universali di finalità e di armonia. È di questo tipo

di giudizi che Kant si occupa nella sua terza Critica, i giudizi sentimentali puri,

derivanti cioè a priori dalla nostra mente, e che distingue a loro volta in due gruppi

secondo il diverso rimando al finalismo: il giudizio estetico, con cui viviamo

immediatamente o intuitivamente la finalità della natura, che pensiamo essere bella

per noi, ed è soggettivo; ed il giudizio teleologico, con cui pensiamo tramite

(mediatamente) la nozione di fine alla finalità di un oggetto o di un fenomeno

presente in natura.

Questa divisione dei giudizi sentimentali puri viene ripresa nella struttura stessa

dell’opera, divisa in due parti Critica del giudizio estetico e critica del giudizio

teleologico, entrambe a loro volta divisi in Analitica e Dialettica.

Il giudizio estetico

Il giudizio estetico risponde ad un'esigenza di finalità come se la natura fosse bella

apposta per noi, è frutto della proiezione nell’oggetto di quell’armonia tra le parti

propria del soggetto. Infatti, secondo Kant il bello non è una proprietà ontologica

dell’oggetto ma il frutto dell’incontro tra soggetto e oggetto.

Il giudizio estetico è caratterizzato dall’essere disinteressato, ciò che è bello lo è

perché bello, universale e necessario, poiché in questo giudizio ognuno ha una

pretesa di universalità essendo esso fondato sulla comune struttura della mente

umana.

La tesi kantiana dell’universalità del giudizio estetico può apparire “strana” o

infondata, ma nel sostenerla si basa su una constatazione: “In tutti i giudizi coi quali

dichiariamo bella una cosa, noi non permettiamo a nessuno di essere di altro parere,

senza fondare tuttavia il nostro giudizio sopra concetti, ma soltanto sul nostro

sentimento”.

Per comprendere meglio la tesi bisogna considerare che Kant distingue nettamente il

piacevole, ciò che piace ai sensi della sensazione, che dà luogo ai giudizi estetici

empirici ed è legato alle inclinazioni individuali, dunque è soggettivo e vale la

massima de gustibus non est disputandum; ed il piacere estetico, che muove lo spirito

più che il corpo, e si concretizza nei giudizi estetici puri, causati dalla sola

contemplazione della forma di un oggetto e sono i soli ad avere la pretesa di

universalità.

Affermando l’universalità del giudizio estetico puro, Kant si trova davanti al

problema della deduzione, ovvero della legittimazione di quanto afferma. Egli

sostiene che il giudizio estetico scaturisca dal rapporto dell’immaginazione con

l’intelletto, che mostra l’immagine della cosa adeguata alle esigenze dell’intelletto e

provoca un senso di armonia. Essendo questo meccanismo identico per tutti gli

uomini si spiega l’universalità estetica e si giustifica la presenza di un senso comune

del gusto.

Proseguendo questo ragionamento Kant risolve la cosiddetta antinomia del gusto: non

potendo disputare del giudizio di gusto esso non si fonda sui concetti (Tesi), ma

poiché si pretende la necessaria approvazione altrui è necessario che si fondi sui

concetti (Antitesi). La soluzione che propone Kant è di intendere il termine concetti

in due modi differenti: il giudizio di gusto non si basa sui concetti, non essendo un

giudizio di conoscenza, ma sulla facoltà del Giudizio, comune a tutti gli uomini.

Si attua così la rivoluzione copernicana estetica: il bello, sostiene Kant, non è una

proprietà oggettiva delle cose, ma il frutto dell’incontro di esse con la mente, valida

solo per essa ed in rapporto ad essa, ovvero una proprietà che il soggetto proietta

sull’oggetto e che esiste in virtù del soggetto. Se la bellezza fosse una proprietà

ontologica dell’oggetto (eteronomia) perderebbe di universalità e di libertà, essendo a

noi imposta dalla natura.

LINEAMENTI GENERALI DELLA FILOSOFIA IDEALISTA

La forma di idealismo successiva alla filosofia di Kant rappresenta una

“continuazione” e al tempo stesso una “reazione” al pensiero del filosofo di

Königsberg. Continuazione, perché prosegue nell’affermare la conoscibilità

dell’essere, reazione perché dà libero spazio e ampia creatività allo spirito. Dopo

Kant la posizione dell’idealismo si può riassumere nell’affermazione che «vi è solo

l’io e che ogni altra realtà è opera dell’io». Gli idealisti tedeschi prenderanno in

considerazione solo la Critica della ragion pura, e affermeranno che essa contiene in

sé una profonda contraddizione, segnalando che se tutto ciò che è conoscibile è posto

dal soggetto, allora dovrà esserlo anche la cosa in sé, il «noumeno», affinché noi

possiamo conoscerne l’esistenza. L’intervento del soggetto, del suo spirito, viene così

ulteriormente spostato: dal fenomeno al noumeno. Esso non solo crea la forma del

conoscibile, ma anche il contenuto della conoscenza, crea interamente l’oggetto

conosciuto e vi si identifica.

Opponendosi a Kant, J.G. Fichte (1762-1814) tenta l’unione tra fenomeno e

noumeno, tra teorico e pratico, tra soggetto e oggetto. Se per Kant l’io, il soggetto,

crea il conoscere, per l’idealismo tedesco, il soggetto crea l’essere. Tutta la realtà è

dunque ridotta a pensiero. Se in Platone, accanto al “mondo delle idee” si poneva il

“mondo delle cose”, fatto di altrettanti oggetti quante sono le idee, nell’idealismo

tedesco nulla esiste al di fuori dell’unica Idea; i singoli esseri delle cose non sono che

la modificazione dell’unica sostanza, provvisorie e fenomeniche manifestazioni

dell’Assoluto. Questa identificazione di oggetto e soggetto, di essere e pensiero, di io

e non-io, non è, per gli idealisti tedeschi, immediata. Essa avviene attraverso

un’intrinseca «opposizione dialettica» dello spirito.

Lo spirito si muove in un processo triadico di «tesi», in cui il soggetto pone se stesso,

«antitesi», in cui irriflessivamente si pone l’oggetto e infine «sintesi», in cui il

soggetto, nella sua autocoscienza, riconosce di aver posto in essere l’oggetto. Entro

questo quadro l’idealismo di Fichte (cfr. in particolare i Fondamenti dell’intera

dottrina della scienza, 1794) è detto «idealismo soggettivo», perché l’Io è il principio

di tutta la realtà e di tutta la conoscenza, ed «idealismo etico», perché l’attività prima

dell’Io impone ad ogni individuo il compimento del dovere, cioè la conquista della

propria libertà. Nell’omonimo «idealismo oggettivo» di F.W. Schelling (1775-1854),

l’oggetto (la Natura) non è come per Fichte un ostacolo da rimuovere, ma una realtà

autonoma, inferiore sì allo spirito, ma solo per “grado”.

L’idealismo di Schelling è detto anche «estetico», perché a suo giudizio l’identità-

unità dell’Assoluto può essere colta solo grazie all’intuizione estetica. È interessante

notare come a differenza di Galileo e di Newton, per i quali la natura è concepita

materialmente e dominata dalle ferree leggi della meccanica, per Schelling essa va

intesa come una spiritualità dotata di una inesauribile libera attività.

Nel pensiero filosofico di G.W.F. Hegel (1770-1831) si parlerà invece di «idealismo

assoluto», superamento dell’idealismo di Fichte e di Schelling in virtù della completa

realizzazione del finito nell’infinito. Per Hegel il principio di ogni realtà è infatti la

Ragione, o Assoluto, o Idea, da cui derivano sia il mondo della natura che il mondo

dello spirito. L’idealismo hegeliano è detto anche «logico», perché il suo principio

fondamentale è l’identità di Ragione e Realtà: «tutto ciò che è reale è razionale e tutto

ciò che è razionale è reale» (Prefazione ai Lineamenti di filosofia del diritto, 1821).

L’opposizione alla logica aristotelica, ove pensiero e realtà sono ben distinti, è qui

evidente.

La logica è solo “logica dell’astratto” e non si pone mai identità fra metafisica e

logica. Hegel accetta il concetto di Assoluto come identità di Natura e di Spirito, e la

Ragione viene intesa come unità che contiene in sé tutto il reale. L’Assoluto non è

una “sostanza”, un qualcosa di statico, come lo era per Spinoza (1632-1677), ma è

Pensiero, ovvero sviluppo dialettico. Perciò per Hegel l’unica vera realtà è la realtà

della Ragione, o, che è lo stesso, l’unico vero essere è l’essere del Pensiero e l’unico

vero pensiero è quello dell’essere. Tutto ciò che esiste è una manifestazione

dell’Assoluto.

Così inteso, l’idealismo non poteva non individuare un ritorno ad una filosofia più

umanistica che scientifica; non a caso Popper ha potuto scrivere che «a partire dal

sorgere dell’hegelismo si è determinato un pericoloso abisso tra scienza e filosofia»

(K. Popper, La natura dei problemi filosofici e le loro radici nella scienza, in

Congetture e confutazioni, Bologna 1972, p. 121). L’idealismo tedesco fu, di fatto, un

tentativo di mettere in crisi il rapporto che la filosofia di Cartesio aveva stabilito tra

matematica e filosofia, come quello che Francesco Bacone e Kant avevano stabilito

tra filosofia e scienza naturale.

Nel periodo che va da Kant a Hegel lo sviluppo dell’idealismo si può riassumere in

quattro diverse tappe sintetizzabili nelle seguenti tesi: a) non c’è conoscenza senza

categorie (Kant); b) Non ci sono categorie senza l’autocoscienza che le produce, e

l’autocoscienza produttiva deve essere assoluta (Fichte); c) L’autocoscienza non è

assoluta se non è identità di natura e di spirito (Schelling); d) Questa identità non può

essere cosciente se non è ragione autocosciente, cioè Spirito, che rappresenta il

principio concorde del mondo (Hegel). Pur raggiungendo il suo apice con Hegel,

l’idealismo troverà una sua prosecuzione anche nel pensiero filosofico successivo,

che possiamo raccogliere in due filoni principali.

Il primo di essi è rappresentato dal «neo-idealismo», sviluppatosi in Italia grazie a

Spaventa, Croce e Gentile, in Olanda ad opera di Bolland ed in Inghilterra, nelle

università di Oxford e di Cambridge. Oltre allo studio del rapporto fra fenomenologia

e logica, uno degli scopi principali del neoidealismo italiano fu anche quello di

opporsi al positivismo e alla sua pretesa di spiegare scientificamente tutta la realtà.

Il neoidealismo riconosce solo allo Spirito l’unica realtà assoluta attuantesi nella

storia. Da qui derivano l’immanentismo dello Spirito e l’identità tra storia e filosofia,

che darà poi origine allo storicismo, nelle sue forme varie e complesse, ma comunque

figlie della fenomenologia hegeliana. Per Benedetto Croce (1866-1952) tutto il reale

è vita o storia dello Spirito, nulla è fuori dello Spirito (immanentismo), nulla è fuori

della storia (storicismo). Per Giovanni Gentile (1875-1944), invece il principio di

tutta la realtà è l’Io universale, o Soggetto assoluto, che si attua come Assoluto

Pensiero. Il pensiero non è anteriore al pensare e dunque non nasce da un soggetto

preesistente, quanto piuttosto da un soggetto che è in quanto pensa e che nell’atto del

pensare crea se stesso. L’Io universale è, dunque, attualità pensante (attualismo) e

immanente in tutte le cose (immanentismo).

In Francia, ad eccezione di Octave Hamelin e Leon Brunschvig, l’idealismo non ebbe

un suo sviluppo degno di nota. Situazione un po’ diversa in Inghilterra, dove fiorì,

alla fine dell’Ottocento e nei primi anni del Novecento, una scuola idealista al Balliol

College di Oxford. Ma essa non fu niente di più di un gruppo di singoli studiosi che si

servirono dell’idealismo come filosofia ispiratrice. Tra essi ricordiamo E.J. Mc

Taggart, R.G. Collingwood e F.H. Bradley. La loro funzione fu comunque di una

certa importanza, perché furono proprio questi tre pensatori che segnarono il clima

culturale dell’Inghilterra all’inizio del Novecento quando G.E. Moore e B. Russell,

fondatori della filosofia analitica, iniziavano i loro studi universitari a Cambridge.

La seconda corrente originatasi dall’idealismo post-hegeliano, anziché assumere la

filosofia idealistica, ne subisce un influsso indiretto e con essa, specie nell’opera di

Husserl ed Heidegger, si confronta. Tutta la filosofia di Edmund Husserl (1859-1938)

è dominata dall’idea di scienza. Egli proveniva dal mondo della matematica e i suoi

lavori partono dal tentativo di definire l’ente matematico. Intenzionato a combattere

lo psicologismo, Husserl si interessò molto alla coscienza che per lui è sempre

“coscienza di qualcosa”.

In questa idea di coscienza sta la distinzione tra soggetto e oggetto: il soggetto è il

complesso dei fatti di coscienza, come il percepire, il giudicare, il rappresentarsi, e

l’oggetto è ciò che in questi fatti si manifesta, come suoni, oggetti colorati, ricordi,

immagini. I nostri atti psichici si riferiscono sempre ad un oggetto (non vedo mai “il

verde”, ma solo “un oggetto verde”). Ma ciò non vuol dire che in Husserl vi sia una

visione realista.

A partire dalla pubblicazione delle Idee per una fenomenologia pura e una filosofia

fenomenologica (1913), Husserl comincia a porsi il problema di cosa sia la realtà, e

afferma che, per risolvere la domanda, bisogna porsi in un atteggiamento di

“sospensione di giudizio” (epoché) rispetto a tutto ciò che, fino adesso, è stato detto

dalle varie scienze o dalle varie scuole filosofiche.

Ovvero, dalla persuasione dell’esistenza del mondo non bisogna dedurre nessuna

proposizione filosofica, perché alla base di ogni riflessione che voglia essere

filosofica va posto solo ciò che è intuito, ciò che è evidente di per sé. L’unica cosa di

cui siamo certi è l’esistenza, non tanto del mondo esterno, ma della coscienza.

Husserl si interrogherà ancora attorno a questo tema e nei suoi ultimi scritti vi sono

tracce di un certo tipo di idealismo nella visione del rapporto tra sapere scientifico e

sapere filosofico.

Queste sfumature idealiste sono evidenti, in particolare, quando si oppone agli

sviluppi causati dalla visione positivistica (e neopositivistica) della scienza, intesa

come rifiuto di ogni filosofia (cfr. La crisi delle scienze europee e la filosofia

trascendentale, 1954). Ma di fatto Husserl non definirà esattamente in cosa consista

questa sua “coscienza”, rendendo difficile la sua collocazione nel panorama

idealistico. Anche se definito da alcuni come idealista a causa del suo recupero della

filosofia di Cartesio e in parte di Kant, Husserl va in realtà oltre il realismo e

l’idealismo, ed anche ammettendo un suo rapporto con la filosofia idealistica esso

non fu comunque né conflittuale né risolutivo.

Fu, piuttosto, Bertrand Russell (1872-1970), nella prima fase del suo pensiero

filosofico, che cercò nell’idealismo una soluzione al suo problema cardine, la ricerca

dei fondamenti della matematica, con la domanda circa la realtà del numero. Ma la

posizione idealista durò ben poco perché all’inizio del Novecento l’abbandonerà per

abbracciare, in opposizione, prima un realismo estremo ispirato a Alexius Meinong

(1853-1920), e poi un realismo più moderato. La modifica della posizione di Russell

circa l’idealismo avverrà in seguito alla critica che G.E. Moore (1873-1958) farà in

La confutazione dell’idealismo (1903) della proposizione esse est percepi di

Berkeley. Moore, muoverà alla proposizione idealista una critica non tanto sul piano

della logica o della metafisica, quanto piuttosto sul piano della significanza

linguistica facendo vedere come l’affermazione esse est percipi, di fatto non

significhi alcunché, dando origine in tal modo a quella importante corrente filosofica

che dominerà il Novecento, la «filosofia analitica», anch’essa un prodotto derivante,

pur indirettamente dalla critica all’idealismo.

Chi, invece, si confronterà in modo sistematico e profondo con l’idealismo tedesco

sarà Martin Heidegger (1889-1976), impegnatosi nel suo percorso filosofico a ridare

alla filosofia la purezza incontaminata delle origini. Il tentativo di Heidegger è quello

di ripulire il pensiero filosofico dalle scorie in esso inseritesi a causa dei metodi e

delle finalità della scienza. Riprendendo in esame il concetto di scienza, come

formulato da Fichte, Schelling ed Hegel, che avevano assegnato alla sola filosofia la

possibilità della razionalità, egli ribadisce che la filosofia non si interessa e non può

interessarsi alla scienza positiva, perché la filosofia stessa è la vera scienza, la vera

via per giungere al sapere assoluto. Al pari degli idealisti tedeschi, con Heidegger la

filosofia torna ad essere la regina indiscussa del pensare.

Lungo tutto il suo articolato itinerario filosofico, l’argomento specifico dell’idealismo

resta dunque il “principio di immanenza”. Esso consiste nell’enunciare il dato

secondo cui l’atto del soggetto (dell’io) non produce nulla al di fuori di sé, ma si pone

all’interno stesso del soggetto che lo ha posto. Secondo gli idealisti non si può

pensare un essere esistente fuori del pensiero; appena una cosa è pensata, per il fatto

che è pensata è presente nel mio io e non più all’esterno. Questa posizione fu ritenuta

da Berkeley talmente evidente da imporsi di per sé: «Certe verità sono così

immediate, così ovvie per la mente che basta aprire gli occhi per vederle.

Tra queste credo sia anche l’importante verità che tutto l’ordine dei cieli e tutte le

cose che riempiono la terra, che insomma tutti i corpi che formano l’enorme

impalcatura dell’universo non hanno alcuna sussistenza senza una mente, e il loro

esse consiste nel venir percepiti o conosciuti» (Trattato sui principi della conoscenza

umana, § 6).

Il concetto di immanenza si oppone direttamente a quello di trascendenza, che

nell’ambito strettamente gnoseologico coincide con la prospettiva realista, cioè nella

possibilità di conoscere qualcosa di esterno al soggetto stesso. L’idealismo coincide

con la negazione di questa trascendenza gnoseologica. L’idealismo cioè nega che la

coscienza possa uscire dai propri limiti e riconoscere come esistente una realtà

esterna da sé. La conclusione idealista è dunque immediata: ciò che è conosciuto

deve essere nel pensiero e un oggetto che non fosse nel pensiero non sarebbe

conosciuto, dunque non possiamo conoscere realtà esterne al pensiero.

Il filosofo americano C.S. Peirce (1839-1914) rendeva così questo concetto: «Se mi si

domanda se esistono realtà interamente indipendenti dal pensiero, chiederei a mia

volta che significa e può mai significare tale espressione. Quale idea si può applicare

a ciò di cui non si ha idea? Poiché se possediamo una qualche idea di tale realtà,

stiamo parlando dell’oggetto di tale idea, che così non è indipendente dal pensiero.

Evidentemente è del tutto fuori del potere della mente avere un’idea di qualcosa che è

completamente indipendente dal pensiero: questa idea dovrebbe tirare se stessa fuori

da se stessa. Ora poiché tale idea non c’è, la predetta espressione non ha significato»

(C.S. Peirce, The logic of 1873, in Collected Papers,Cambridge 1966, vol. II, p. 211).

Le sue forti risonanze gnoseologiche, specie per ciò che riguarda il rapporto fra idea e

realtà, permetteranno all’idealismo di accompagnare buona parte dell’elaborazione

dello stesso pensiero scientifico. Ciò non avverrà solo all’interno di un confronto

filosofico con il realismo, ma coinvolgerà la scienza in quanto tale: si pensi ad

esempio ai rapporti fra realtà e modelli, ai fondamenti della matematica, o infine al

rapporto fra teoria ed esperimento, la cui problematicità apparirà evidente nelle

diverse interpretazioni filosofiche date alla meccanica quantistica. Si rende dunque

necessaria un’analisi della prospettiva idealista anche nell’ambito delle scienze.

L'IDEALISMO DI HEGEL

I Capisaldi del Sistema

Per poter seguire proficuamente lo svolgimento del pensiero di Hegel risulta

indispensabile aver chiare, sin dall’inizio, le tesi di fondo del suo idealismo:

1. la risoluzione del finito nell’infinito;

2. l’identità fra ragione e realtà;

3. la funzione giustificatrice della filosofia.

Finito e infinito

Con la prima tesi Hegel intende dire che la realtà non è un insieme di sostanze

autonome, ma un organismo unitario di cui tutto ciò che esiste è parte o

manifestazione. Tale organismo, non avendo nulla al di fuori di sé e rappresentando

la ragion d’essere di ogni realtà, coincide con l’Assoluto e con l’Infinito, mentre i

vari enti del mondo, essendo manifestazioni di esso, coincidono con il finito.

Di conseguenza, il finito, come tale, non esiste, perché ciò che noi chiamiamo finito è

nient’altro che un’espressione parziale dell’Infinito. Infatti, come la parte non può

esistere se non in connessione con il Tutto, in rapporto al quale soltanto ha vita e

senso, così il finito esiste unicamente nell’infinito e in virtù dell’infinito. Detto

altrimenti: il finito, in quanto è reale, non è tale, ma è lo stesso infinito.

L’hegelismo si configura quindi come una forma di monismo panteistico: vale a dire

teoria la quale esiste un’unica realtà divina (monismo) di cui il mondo visibile

costituisce la realizzazione o la manifestazione. (nella concezione cristiana invece

Dio è trascendente,c’è una distinzione ontologica fra il Creatore e il mondo creato).

Tuttavia, il panteismo di Hegel si differenzia da quello moderno (di Giordano Bruno

e di Spinoza) perché per Bruno e per Spinoza l’Assoluto è una Sostanza statica che

coincide con la Natura, per l’idealista Hegel invece l’Assoluto si identifica con un

Soggetto spirituale in divenire, di cui tutto ciò che esiste è un “momento” o una

“tappa” di realizzazione.

Infatti, dire che la realtà non è “Sostanza”, ma “Soggetto”, significa dire, secondo

Hegel, che essa non è qualcosa di immutabile e di già dato, ma un processo di auto-

produzione che soltanto alla fine, cioè con l’uomo (= lo Spirito), giunge a rivelarsi

per quello che è veramente: “Il vero - scrive Hegel nella Prefazione alla

Fenomenologia dello Spirito - è l’intero. Ma l’intero è soltanto l’essenza che si

completa mediante il suo sviluppo.

Dell’Assoluto devesi dire che esso è essenzialmente Risultato, che solo alla fine è ciò

che è in verità ...”

Ragione e realtà

Il Soggetto spirituale infinito che sta alla base della realtà viene denominato da Hegel

con il termine di Idea o di Ragione, intendendo con queste espressioni l’identità di

pensiero ed essere, o meglio, di ragione e realtà. Da ciò il noto aforisma, contenuto

nella Prefazione ai Lineamenti di filosofia del diritto, in cui si riassume il senso stesso

dell’hegelismo: «Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale».

Con la prima parte della formula, Hegel intende dire che la razionalità non è pura

idealità, astrazione, schema, dover-essere, ma la forma stessa di ciò che esiste, poiché

la ragione “governa” il mondo e lo costituisce. Viceversa, con la seconda parte della

formula, Hegel intende affermare che la realtà non è una materia caotica, ma il

dispiegarsi di una struttura razionale (l’Idea o la Ragione) che si manifesta in modo

inconsapevole nella natura e in modo consapevole nell’uomo.

Per cui, con il suo aforisma, Hegel non esprime la semplice possibilità che la realtà

sia penetrata o intesa dalla ragione, ma la necessaria, totale e sostanziale identità di

realtà e ragione. Tale identità implica anche l’identità fra essere e dover-essere, in

quanto ciò che è risulta anche ciò che razionalmente deve essere. Tant’è vero che le

opere di Hegel sono costellate di osservazioni piene di ironia e di scherno a proposito

dell’ “astratto” e moralistico dover-essere che non è, dell’ideale che non è reale.

E tutte quante insistono sul fatto che il mondo, in quanto è, e così com’è, è razionalità

dispiegata, ovvero ragione reale e realtà razionale - che si manifesta attraverso una

serie di momenti necessari che non possono essere diversi da come sono. Infatti, da

qualsiasi punto di vista guardiamo il mondo, troviamo ovunque, secondo Hegel, una

rete di connessioni necessarie e di “passaggi obbligati” che costituiscono

l’articolazione vivente dell’unica Idea o Ragione. In altri termini, Hegel, secondo uno

schema tipico della filosofia romantica, ritiene che la realtà costituisca una totalità

processuale necessaria, formata da una serie ascendente di “gradi” o “momenti”, che

rappresentano, ognuno, il risultato di quelli precedenti ed il presupposto di quelli

seguenti.

La funzione della filosofia

Coerentemente con il suo orizzonte teorico, fondato sulle categorie di totalità e di

necessità, Hegel ritiene che il compito della filosofia consista nel prendere atto della

realtà e nel comprendere le strutture razionali che la costituiscono: “Comprendere ciò

che è, è il compito della filosofia, poiché ciò che è, è la ragione”.

A dire come dev’essere il mondo, la filosofia arriva sempre troppo tardi; giacché

sopraggiunge quando la realtà ha compiuto il suo processo di formazione. Essa,

afferma Hegel con un paragone famoso, è come la nottola di Minerva che inizia il suo

volo sul far del crepuscolo, cioè quando la realtà è già bell’e fatta. La filosofia deve

dunque “mantenersi in pace con la realtà” e rinunciare alla pretesa assurda di

determinarla e guidarla. Deve soltanto portare nella forma del pensiero, cioè

elaborare in concetti, il contenuto reale che l’esperienza le offre, dimostrandone, con

la riflessione, l’intrinseca razionalità.

Questi chiarimenti delineano il tratto essenziale della filosofia e della personalità di

Hegel. L’autentico compito che Hegel ha inteso attribuire alla filosofia (e ha cercato

di realizzare con la sua filosofia) è la giustificazione razionale della realtà, della

presenzialità, del fatto. Questo compito egli l’ha affrontato con maggiore energia

proprio là dove esso sembra più rischioso: cioè nei confronti della realtà politica,

dello Stato (infatti può sembrare ovvio che il mondo naturale sia razionale, in quanto

regolato da leggi necessarie, mentre è più difficile riconoscere che qualsiasi

costruzione storica dell’uomo sia l’espressione di una necessità razionale, e che

quindi debba essere accettata così com’è)

Il dibattito critico intorno al “giustificazionismo” hegeliano

Hegel in un passo dell’Enciclopedia ha precisato che la sua filosofia non può essere

scambiata per una banale accettazione della realtà in tutti i suoi aspetti, perché non

vanno inclusi nel concetto di “realtà” gli aspetti superficiali e accidentali

dell’esistenza (ma come possa esistere l’accidentale in una realtà razionale e

necessaria resta oscuro).

A partire da questa precisazione taluni critici hanno negato il carattere

giustificazionista della filosofia hegeliana: un filone interpretativo che va da Engels a

Marcuse (pensatori della “sinistra rivoluzionaria”), pur ammettendo gli aspetti

conservatori del pensiero hegeliano, ha tuttavia cercato di mostrare come esso possa

venir letto in modo dinamico e rivoluzionario. Infatti, secondo tali autori l’aforisma

di Hegel significherebbe in sostanza che il reale è destinato a coincidere con il

razionale, mentre l’irrazionale è destinato a perire (si tratterebbe insomma

dell’affermazione di un progresso necessario).

Ora, questa lettura di Hegel rappresenta, più che un’interpretazione, una correzione di

Hegel alla luce degli ideali rivoluzionari dei suoi autori. In conclusione, ci sembra

che i testi di Hegel documentino in modo chiaro e inequivocabile il suo

atteggiamento fondamentalmente giustificazionista nei confronti della realtà.

Idea, Natura e Spirito

Le parti della filosofia Hegel ritiene che il farsi dinamico dell’Assoluto passi

attraverso i tre momenti dell’Idea “in sé” (tesi), dell’Idea “fuori di sé” (antitesi) e

dell’Idea che “ritorna in sé” (sintesi). Tant’è vero che il disegno complessivo

dell'Enciclopedia hegeliana è quello di una grande triade dialettica. L’Idea “in sé” o

Idea “pura” è l’Idea considerata in sé stessa, a prescindere dalla sua concreta

realizzazione nel mondo.

Da questo angolo prospettico, l’Idea, secondo un noto paragone teologico di Hegel, è

assimilabile a Dio “prima della creazione della natura e di uno spirito finito”, ovvero,

in termini meno equivocanti (visto che l'Assoluto hegeliano è un infinito immanente,

che non crea il mondo, ma è il mondo) al programma o all’ossatura logico-razionale

della realtà. L’Idea “fuori di sé” o Idea “nel suo esser altro” è la Natura, cioè

l’estrinsecazione o l’alienazione dell’Idea nelle realtà spazio-temporali del mondo.

L’Idea che “ritorna in sé” è lo Spirito, cioè l’Idea che dopo essersi fatta natura torna

“presso di sé” nell’uomo. Ovviamente, questa triade non è da intendersi in senso

cronologico, come se prima ci fosse l’Idea in sé e per sé, poi la Natura e infine lo

Spirito, ma in senso ideale. Infatti, ciò che concretamente esiste nella realtà è lo

Spirito (la sintesi), il quale ha come sua coeterna condizione la Natura (l’antitesi) e

come suo coeterno presupposto il programma logico rappresentato dall’Idea pura (la

tesi).

A questi tre momenti strutturali dell'Assoluto Hegel fa corrispondere le tre sezioni in

cui si divide il sapere filosofico:

1. la logica, che è “la scienza dell’Idea in sé”, cioè dell’Idea considerata nel suo

essere implicito (= in sé) e nel suo graduale esplicarsi, ma a prescindere, come

si è visto, dalla sua concreta realizzazione nella natura e nello spirito;

2. la filosofia della natura, che è “la scienza dell’Idea nel suo alienarsi da sé”;

3. la filosofia dello spirito, che è la scienza dell’Idea, che dal suo alienamento

ritorna in sé”.

Ecco un primo schema generale (cui seguiranno altri più analitici):

1. LOGICA

a) Dottrina dell’essere

b) Dottrina dell’essenza

c) Dottrina del concetto

2. FILOSOFIA DELLA NATURA

a) Meccanica

b) Fisica

c) Organica

3. FILOSOFIA DELLO SPIRITO

a) Soggettivo

i) Antropologia

ii) Fenomenologia

iii) Psicologia

b) Oggettivo

i) Diritto

ii) Morale

iii) Eticità

c) Assoluto

i) Arte

ii) Filosofia

iii) religione

La Dialettica

Come si è visto, l'Assoluto, per Hegel, è fondamentalmente divenire. La legge che

regola tale divenire è la dialettica, che rappresenta, al tempo stesso, la legge

(ontologica) di sviluppo della realtà e la legge (logica) di comprensione della realtà.

Hegel non ha offerto, della dialettica, una teoria sistematica, limitandosi, per lo più,

ad utilizzarla nei vari settori della filosofia. Ciò non esclude la possibilità di fissare

qualche tratto generale di essa.

Nell'Enciclopedia Hegel distingue tre momenti o aspetti del pensiero:

1. l'astratto o intellettuale;

2. “il dialettico o negativo-razionale”;

3. “lo speculativo o positivo-razionale”.

Il momento astratto o intellettuale consiste nel concepire l’esistente sotto forma di

una molteplicità di determinazioni statiche e separate le une dalle altre. In altri

termini, il momento intellettuale (che è il grado più basso della ragione) è quello per

cui il pensiero si ferma alle determinazioni rigide della realtà, limitandosi a

considerarle nelle loro differenze reciproche e secondo il principio di identità e di

non-contraddizione (secondo cui ogni cosa è sé stessa ed è assolutamente diversa

dalle altre).

Il momento dialettico o negativo-razionale consiste nel mostrare come le sopraccitate

determinazioni siano unilaterali ed esigano di essere messe in movimento, ovvero di

essere relazionate con altre determinazioni. Infatti, poiché ogni affermazione

sottintende una negazione, in quanto per specificare ciò che una cosa è bisogna

implicitamente chiarire ciò che essa non è, risulta indispensabile procedere oltre il

principio di identità e mettere in rapporto le varie determinazioni con le

determinazioni opposte (ad es. il concetto di “uno”, non appena venga smosso dalla

sua astratta rigidezza, richiama quello di “molti” e manifesta uno stretto legame con

esso. E così dicasi di ogni altro concetto: il particolare richiama l’universale, l’uguale

il disuguale, il bene il male ecc.).

Il terzo momento, quello speculativo o positivo-razionale, consiste invece nel

cogliere l’unità delle determinazioni opposte, ossia nel rendersi conto che tali

determinazioni sono aspetti unilaterali di una realtà più alta che li ri-comprende o

sintetizza entrambi (ad es. si scopre che la realtà vera non è né l’unità in astratto né la

molteplicità in astratto, bensì un’unità che vive solo attraverso la molteplicità).

Globalmente e sinteticamente considerata, la dialettica consiste quindi:

1. nell’affermazione o posizione di un concetto “astratto e limitato”, che funge

da tesi;

2. nella negazione di questo concetto come alcunché di limitato o di finito e

nel passaggio ad un concetto opposto, che funge da antitesi;

3. nella unificazione della precedente affermazione e negazione in una sintesi

positiva comprensiva di entrambe.

Sintesi che si configura come una ri-affermazione potenziata dell’affermazione

iniziale (tesi), ottenuta tramite la negazione della negazione intermedia (antitesi).

Riaffermazione che Hegel focalizza con il termine tecnico di Aufhebung il quale

esprime l’idea di un “superamento” che è, al tempo stesso, un togliere (l’opposizione

fra tesi ed antitesi) ed un conservare (la verità della tesi, dell’antitesi e della loro

lotta). Puntualizzazioni circa la dialettica:

1. Come si può notare, la dialettica non comprende soltanto il secondo

momento (quello che Hegel chiama dialettico in senso stretto) ma la totalità

dei tre momenti elencati.

2. La dialettica non fa che illustrare il principio fondamentale della filosofia

hegeliana: la risoluzione del finito nell’infinito. Infatti, essa ci mostra come

ogni finito, cioè ogni spicchio di realtà, non possa esistere in se stesso

(poiché in tal caso sarebbe un Assoluto, ovvero un infinito autosufficiente)

ma solo in un contesto di rapporti. Infatti, per porre se stesso il finito è

obbligato ad opporsi a qualcos’altro, cioè ad entrare in quella trama di

relazioni che forma la realtà e che coincide con il tutto infinito di cui esso è

parte o manifestazione. E poiché il tutto di cui parla Hegel, ovvero l’Idea, è

una entità dinamica, la dialettica esprime appunto il processo mediante cui

le varie parti o determinazioni della realtà perdono la loro rigidezza, si

fluidificano e diventano “momenti” di un’Idea unica ed infinita. Detto

altrimenti, la dialettica rappresenta la crisi del finito e la sua risoluzione

necessaria nell’infinito: “ogni finito ha questo di proprio, che sopprime se

medesimo. La dialettica forma, dunque, l’anima motrice del progresso

scientifico... in essa, soprattutto è la vera, e non estrinseca elevazione sul

finito”.

3. La dialettica ha un significato globalmente ottimistico, poiché essa ha il

compito di unificare il molteplice, conciliare le opposizioni, pacificare i

conflitti, ridurre ogni cosa all’ordine e alla perfezione del Tutto.

Molteplicità, opposizione, conflitto sono senza dubbio reali secondo Hegel,

ma solo come momenti di passaggio. In altri termini, il negativo, per Hegel,

sussiste solo come un momento del farsi del positivo e la tragedia, nella sua

filosofia, è solo l’aspetto superficiale e transeunte di una sostanziale

commedia (nel senso letterale di vicenda avente un epilogo positivo).

4. Appurato che pensare dialetticamente significa pensare la realtà come una

totalità processuale che procede secondo lo schema triadico di tesi, antitesi

e sintesi, ci si può chiedere se la dialettica hegeliana sia a sintesi aperta o a

sintesi chiusa. Infatti, poiché ogni sintesi rappresenta a sua volta la tesi di

un’altra antitesi, cui succede un’ulteriore sintesi e così via, sembrerebbe, a

prima vista, che la dialettica esprima un processo costitutivamente aperto.

In verità, Hegel pensa che in tal caso si avrebbe il trionfo della “cattiva

infinità” ossia un processo che, spostando indefinitamente la meta da

raggiungere, toglierebbe allo spirito il pieno possesso di se medesimo. Di

conseguenza, egli opta per una dialettica a sintesi finale chiusa, cioè per una

dialettica che ha un ben preciso punto di arrivo: “Mentre nei gradi intermedi

della dialettica prevale la rappresentazione della spirale, nella visione

complessiva e finale del sistema prevale la rappresentazione del circolo

chiuso, che soffoca la vita dello spirito, dando al suo progresso un termine,

al di là del quale ogni attività creatrice si annulla, perché, avendo lo spirito

realizzato pienamente se stesso, non gli resta che ripercorrere il cammino

già fatto... L’impetuosa corrente sfocia in uno stagnante mare, e

nell’immobile specchio trema la vena delle acque che vi affluiscono ... ”

(Guido De Ruggiero).

5. E in effetti, tutti i filosofi che si sono rifatti in qualche modo all’hegelismo

(da Engels a Croce e ai neomarxisti) hanno criticato l'idea di uno “stagnante

epilogo” della storia del mondo, recuperando invece l’idea di un processo

che risulta costitutivamente aperto. Inoltre, più che sul momento della

“conciliazione” o “sintesi”, tali filosofi hanno insistito sul momento dell’

“opposizione” e della “contraddizione ”, ossia su ciò che Hegel, nella

Fenomenologia, chiama “il travaglio del negativo”.

La critica alle filosofie precedenti

Hegel e gli illuministi

La filosofia di Hegel implica un oggettivo rifiuto della maniera illuministica di

rapportarsi al mondo. Infatti, gli illuministi, facendo dell’intelletto il giudice della

storia, sono costretti a ritenere che il reale non è razionale, dimenticando così che la

vera ragione (= lo Spirito) è proprio quella che prende corpo nella storia ed abita in

tutti i momenti di essa. Invece la ragione degli illuministi esprime solo le esigenze e

le aspirazioni degli individui: è una ragione finita e parziale, ovvero un “intelletto

astratto”, che pretende di dare lezione alla realtà e alla storia, stabilendo come

dovrebbe essere e non è, mentre la realtà è sempre necessariamente ciò che deve

essere.

Hegel e Kant

Kant aveva voluto costruire una filosofia del finito, e l’antitesi fra il fenomeno e il

noumeno, fra il dover essere e l’essere, tra la ragione e la realtà, fa parte integrante di

una tale filosofia. Nel campo conoscitivo l’uomo è limitato alla sfera dei fenomeni, le

idee della ragione sono soltanto ideali regolativi, che spingono la ricerca scientifica

all’infinito, verso una compiutezza che essa non può raggiungere mai. Anche nel

dominio morale, la santità, cioè la perfetta conformità della volontà alla legge della

ragione, è il termine di un progresso all’infinito. In una parola, l’essere non si adegua

mai al dover essere, la realtà alla razionalità.

Secondo Hegel, invece, questa adeguazione è in ogni caso possibile e necessaria

(tutta la filosofia di Hegel costituisce una mediazione tra finito e infinito, cioè un

metodo per accedere, sia razionalmente sia moralmente, all’Assoluto). A Kant Hegel

rimprovera anche la pretesa di voler indagare la facoltà di conoscere prima di

procedere a conoscere: pretesa che egli assimila all’assurdo proposito “di imparare a

nuotare prima di entrare nell’acqua”.

Hegel e i romantici

Il dissenso di Hegel nei confronti dei romantici verte essenzialmente su due punti. In

primo luogo, Hegel contesta il primato del sentimento, dell’arte o della fede,

sostenendo che la filosofia, in quanto scienza dell’Assoluto, non può che essere una

forma di sapere mediato e razionale. In secondo luogo, Hegel contesta gli

atteggiamenti individualistici dei romantici (o, per meglio dire, di una parte dei

romantici), affermando che l’intellettuale non deve narcisisticamente ripiegarsi sul

proprio io, ma tener d’occhio soprattutto l’oggettivo “corso del mondo”, cercando

d’integrarsi nelle istituzioni sociopolitiche del proprio tempo.

In realtà Hegel, pur non rientrando nella “scuola romantica” in senso stretto, risulta

profondamente partecipe del clima culturale romantico, del quale oltre a numerosi

motivi particolari (il concetto della creatività dello Spirito, dello sviluppo

provvidenziale della storia, della spiritualità incosciente della natura ecc.) condivide

soprattutto il tema dell’infinito, anche se ritiene che ad esso si acceda

speculativamente e non attraverso vie “immediate”.

Hegel e Fichte

Hegel accusa Fichte di aver ridotto l’infinito a semplice meta ideale dell’io finito. Ma

in tal modo il finito, per adeguarsi all’infinito e ricongiungersi con esso, è lanciato in

un progresso all’infinito che non raggiunge mai il suo termine. Ora questo progresso

all’infinito è, secondo Hegel, il falso o “cattivo infinito” o l’infinito negativo; non

supera veramente il finito perché lo fa continuamente risorgere, ed esprime soltanto

l’esigenza astratta del suo superamento.

Di conseguenza, Fichte si troverebbe ancora, dal punto di vista di Hegel, in una

filosofia incapace di attingere quella piena coincidenza tra finito e infinito, razionale

e reale, essere e dover-essere, che costituisce la sostanza dell’idealismo.

La Fenomenologia dello Spirito

La Fenomenologia dello Spirito (1807) è la prima opera in cui Hegel espone il suo

pensiero “maturo”, quel pensiero di cui abbiamo già presentato i fondamenti e il

metodo (vedi sopra: i capisaldi del sistema e la dialettica). Il termine Fenomenologia

(dalla parola greca phainomenon = ciò che si manifesta, che appare) significa “Studio

delle manifestazioni” dello Spirito. (Si tenga presente che il termine “fenomeno” in

Hegel non comporta una distinzione kantiana tra apparenza e cosa in sé

inconoscibile: infatti posta l’identità tra pensiero e essere, tra ragione e realtà, nulla

può sfuggire alla coscienza).

Nella Fenomenologia dello Spirito Hegel vuol descrivere il percorso della coscienza

verso il sapere assoluto, vale a dire l’itinerario dalla coscienza comune alla piena

coscienza filosofica. “La coscienza comune è la coscienza dell’uomo che vede il

mondo come un insieme di oggetti e soggetti indipendenti gli uni dagli altri senza

rendersi conto che il mondo costituisce un’unità e che anche la differenza tra il

soggetto cosciente e le cose va compresa all’interno dell’unità razionale

dell’Assoluto.

La coscienza filosofica è invece quella che vede le cose e gli eventi come la

frammentaria manifestazione del Tutto, e considera una semplice illusione la

possibilità di identificarle separatamente. Alla coscienza comune il mondo appare

come un arcipelago composto da moltissime isole - gli uomini, gli oggetti, gli eventi -

separate le une dalle altre. La coscienza filosofica scopre invece che le isole sono le

cime di monti sottomarini, che formano un’unica catena montuosa che si eleva dal

fondo del mare. Allo sguardo del filosofo dietro la differenza compare la comune

radice di ogni essere”.

L’itinerario dalla coscienza comune alla coscienza filosofica è segnato da una serie di

tappe (che Hegel chiama figure) che costituiscono fasi della storia dell’umanità, fasi

che il singolo individuo deve ripercorrere (per elevarsi alla coscienza filosofica, al

punto di vista dell’assoluto). Ma queste tappe sono anche “manifestazioni

dell’assoluto” perché, come abbiamo già detto, tutti gli eventi della storia non sono

altro che momenti necessari del divenire dell’assoluto, della totalità infinita.

Quindi la fenomenologia descrive la via che conduce l’individuo al sapere assoluto

(in questo senso la Fenomenologia dello Spirito può essere intesa come un

BildungsRoman: un romanzo di formazione, nel quale il protagonista, attraverso il

duro tirocinio di un’esperienza sofferta, supera le originarie convinzioni e giunge alla

verità), ma descrive anche, e soprattutto, la via attraverso la quale l’Assoluto stesso

giunge all’autocoscienza (l’Assoluto si autoconosce attraverso il filosofo)

La Fenomenologia dello Spirito è costituita da 6 tappe fondamentali:

1. COSCIENZA

2. AUTOCOSCIENZA

3. RAGIONE

4. SPIRITO

5. RELIGIONE

6. SAPERE ASSOLUTO

Le prime tre tappe descrivono l’innalzamento dalla coscienza individuale finita alla

ragione come consapevolezza filosofica. Le successive tre tappe descrivono il

dispiegarsi della coscienza che ha conquistato il punto di vista dell’Assoluto.

Siccome lo svolgimento della filosofia come “conoscenza dal punto di vista

dell’Assoluto” viene riproposto in modo più sistematico nelle opere successive di

Hegel, prendiamo in considerazione solo i primi tre momenti.

1. COSCIENZA:

Nel primo momento della Coscienza questa si rivolge a un oggetto che è

considerato esterno rispetto ad essa.

2. AUTOCOSCIENZA:

La seconda tappa dell’itinerario fenomenologico è costituita dalla

“autocoscienza” che, attraverso i singoli momenti, impara a sapere che cosa

essa sia propriamente. L’autocoscienza si manifesta, dapprima, come

caratterizzata dall’appetito e dal desiderio, ossia come tendenza ad

appropriarsi delle cose e a far dipendere tutto da sé, a “togliere l’alterità che

si presenta come vita indipendente”.

Ma l’autocoscienza necessita di altre autocoscienze in grado di darle la

certezza di essere tale: l’uomo acquista coscienza di sé, si afferma come

autocoscienza, solo se riesce a farsi riconoscere da altri uomini, da altre

autocoscienze (dice Hegel: “l’autocoscienza raggiunge il suo appagamento

solo in un’altra autocoscienza”).

L’uomo però non rispetta l’altro nella sua diversità, ma vuole

appropriarsene, vuole ridurlo a una cosa propria (perché, come abbiam

detto, l’autocoscienza si manifesta come tendenza a far dipendere tutto da

sé) e di conseguenza nasce in maniera necessaria una lotta tra i due uomini

la cui posta in gioco è proprio il riconoscimento. Il riconoscimento deve

passare attraverso un conflitto (e non attraverso l’amore cfr. pensiero

giovanile di Hegel), solo attraverso “la lotta per la vita e per la morte”

l’autocoscienza può realizzarsi.

Ma poiché ogni autocoscienza ha bisogno strutturalmente dell’altra la lotta

non deve aver come esito la morte di una delle due, ma il soggiogamento di

una all’altra. Nasce, così, la dialettica tra “padrone” e “servo” (che

corrisponde, nella storia, alla civiltà antica), che Hegel descrive in pagine

divenute famosissime, e che è effettivamente fra le cose più profonde e più

belle della Fenomenologia. Il “padrone” ha rischiato nella lotta la sua vita e

nella vittoria è diventato, di conseguenza, padrone.

Il “servo” ha avuto timore della morte e, nella sconfitta, per aver salva la

vita fisica, ha accettato la condizione di schiavitù ed è diventato come una

“cosa” dipendente dal padrone. Il padrone usa il servo e lo fa lavorare per

sé, limitandosi a “godere” delle cose che il servo fa per lui. Ma, in questo

tipo di rapporto, si sviluppa un movimento dialettico, che finirà col portare

al rovesciamento delle parti. Infatti, il padrone finisce col diventare

“dipendente dal servo”, perché può appropriarsi delle cose solo attraverso il

lavoro del servo (il padrone rimane inerte).

Il servo invece, per mezzo del lavoro, finisce per diventare indipendente,

perché impara a dominare se stesso (autodisciplina) e impara a dominare le

cose trasformandole, imprimendo in esse una forma che è il riflesso

dell’autocoscienza. La figura della dialettica Padrone-Servo è stata

apprezzata soprattutto dai marxisti, i quali hanno visto in essa un’intuizione

dell’importanza del lavoro e della dialettica della storia, nella quale, grazie

all’esperienza della sottomissione, si generano le condizioni per la

liberazione.

Resta tuttavia una differenza fondamentale tra Marx ed Hegel: infatti la

figura hegeliana non si conclude con una rivoluzione sociale o politica, ma

con la coscienza dell’indipendenza del servo nei confronti delle cose e della

dipendenza del padrone nei confronti del lavoro servile. Un’altra figura

celebre dell’Autocoscienza è quella della Coscienza infelice, che descrive la

condizione della coscienza tipica della religione ebraica e del Cristianesimo

medievale.

La coscienza infelice è la coscienza che vive se stessa come coscienza

finita, mortale, che per esistere deve ancorarsi a una realtà assoluta, infinita,

del tutto estranea alla coscienza stessa (= Dio trascendente). In questa figura

c’è quindi una profonda scissione tra l’autocoscienza dell’uomo (finita,

mutevole) e l’oggetto della coscienza, la realtà vera, assoluta, infinita, a cui

la coscienza tende senza mai poterla raggiungere. Nella figura della

Coscienza infelice ogni accostamento dell’uomo alla Divinità trascendente

significa una mortificazione, un’umiliazione, un sentire la propria nullità, e

da ciò deriva appunto l’infelicità.

Nel Cristianesimo si cerca poi di rendere accessibile il Dio trascendente per

mezzo del Dio incarnato (Gesù Cristo); tuttavia, secondo Hegel, la pretesa

di cogliere l’Assoluto in una figura storica è destinata al fallimento, perché

Cristo, vissuto in uno specifico e irripetibile periodo storico, risulta pur

sempre lontano, e quindi per la coscienza rimane separato, estraneo. Di

conseguenza, anche con il cristianesimo, la coscienza continua ad essere

infelice e Dio continua a configurarsi come un “irraggiungibile al di là che

sfugge”.

3. RAGIONE:

L’autocoscienza era il momento in cui la coscienza aveva preso se stessa

come oggetto, ma il suo culmine nella coscienza infelice mostra

l’impossibilità di comprendere se stessa restando entro i limiti di sé. La

Ragione nasce nel momento in cui la Coscienza, abbandonato il vano sforzo

di unificarsi con Dio, si rende conto di essere lei stessa Dio, il Soggetto

assoluto, in altri termini acquisisce “la certezza di essere ogni realtà”.

E’ questa la posizione propria dell’idealismo: l’unità di pensiero ed essere.

Questa “certezza di essere ogni realtà” sorge nel Rinascimento, si sviluppa

durante l’età moderna e ha il suo culmine nell’Idealismo. Il “cammino

“della Ragione si conclude con il superamento del punto di vista

individuale: la coscienza comprende che ogni atto della vita individuale si

situa dentro una realtà storico-sociale che lo fonda e lo rende possibile, e

quindi la ragione si realizza concretamente nelle istituzioni storico-politiche

di un popolo e dello Stato; ma con questo entriamo nel mondo dello Spirito,

per il quale, come abbiam già detto, rimandiamo alla Filosofia dello Spirito

esposta nelle opere successive.

Il Sistema

Nella Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio troviamo l’esposizione

sistematica di tutti i momenti costitutivi dell’assoluto, nel loro ordine necessario. La

Fenomenologia dello Spirito ci ha mostrato come la coscienza empirica giunge al

Sapere assoluto. Il sistema ci mostra l’Assoluto visto da quel punto di vista che la

Fenomenologia ha guadagnato. Su questo piano è tolta ogni differenza tra certezza

(elemento soggettivo) e verità. L’esposizione segue il ritmo triadico di tesi (Idea in

sé), antitesi (Idea fuori di sé, cioè natura), sintesi (Idea che ritorna in sé, cioè Spirito)

e si divide in Logica, Filosofia della Natura, Filosofia dello Spirito.

La Logica

In quanto “scienza dell’idea pura, cioè dell’Idea nell’elemento astratto del pensiero”,

la Logica (alla quale Hegel ha dedicato l’opera Scienza della logica e la prima parte

della Enciclopedia delle scienze filosofiche) prende in considerazione la struttura

programmatica o l’impalcatura originaria del mondo. Tale “impalcatura” si specifica

in un organismo dinamico di concetti o di categorie i quali, in virtù della identità fra

pensiero ed essere, costituiscono altrettante determinazioni della realtà.

La logica di Hegel quindi è molto diversa dalla logica tradizionale, di derivazione

aristotelica: infatti quest’ultima veniva presentata come “organon”, puro strumento o

metodo del pensiero, a cui era giustapposta la realtà esterna; la logica di Hegel invece

esprime la realtà stessa nella sua essenza. Pertanto, risulta evidente come la logica (=

lo studio del pensiero) e la metafisica (= lo studio dell’essere) siano per Hegel la

stessa cosa (la posizione antimetafisica dell’Illuminismo e di Kant viene quindi

respinta da Hegel).

Hegel afferma anche che la logica è «l’esposizione di Dio, com’egli è nella sua eterna

essenza prima della creazione della natura»; i termini Dio e creazione vanno però

intesi diversamente rispetto a ciò che essi significano nel contesto della dottrina

cristiana: infatti la creazione per Hegel è il processo in cui Dio stesso si trasforma e si

arricchisce, e il “Dio dopo la creazione” (di cui si occuperà la filosofia dello Spirito)

è qualcosa di superiore rispetto al “Dio prima della creazione”. L’Idea di cui tratta la

Logica in ogni caso non è da concepire come una sorta di realtà unica e compatta, ma

come Sviluppo e Processo dialettico.

I concetti o categorie esposti nella Logica sono successive definizioni dell’Assoluto,

progressivamente più ricche, e l’Idea è la totalità dei concetti determinati e dei nessi

che li legano e il loro passare dall’uno all’altro in cerchi sempre più alti. La Logica

hegeliana si articola dialetticamente in dottrina dell’essere, dottrina dell’essenza e

dottrina del concetto; ognuna di queste articolazioni presenta ulteriori triadi interne,

che non è possibile trattare analiticamente. Prendiamo quindi in considerazione solo

l’incipit della Logica, la triade “Essere, Nulla, Divenire”: il punto di partenza della

logica è il concetto dell’essere, il concetto più generale perché assolutamente

indeterminato, astratto, privo di ogni possibile 8 contenuto.

Ma appunto perché privo di determinazioni, l’essere richiama il suo opposto, il nulla,

e fa tutt’uno con esso. La sintesi di questa prima opposizione, di essere e nulla, è il

divenire: nel divenire infatti ciò che non è viene ad essere e viceversa (già gli antichi

definivano il divenire come passaggio dal nulla all’essere). Il divenire tuttavia non

unisce l’essere e il nulla in un’identità astratta ma in un rapporto dialettico, in cui

ciascuno dei due passa nell’altro. Tutte le categorie della logica (sia della logica

classica, sia della logica trascendentale kantiana) vengono ricostruite con questo

procedimento dialettico.

Per concludere prendiamo in esame la discussione (contenuta nella Dottrina

dell’essenza) dei principi logici di identità (A = A) e di non-contraddizione (A non è

non-A) di cui Aristotele aveva fornito la prima enunciazione: secondo Hegel questi

principi rappresentano il punto di vista dell’intelletto astratto e unilaterale, ma non il

punto di vista della ragione, che è il solo punto di vista della verità. La vera identità,

secondo Hegel, non è A = A, ma deve essere intesa “come identità che include le

differenze”, vale a dire come sintesi che dialetticamente si realizza togliendo

l’opposizione e conservando in sé gli opposti.

Quanto al principio di non-contraddizione Hegel obietta che la contraddizione

inerisce necessariamente alla concretezza e alla vita: «Il muoversi non consiste se non

in un esplicarsi e mostrarsi della contraddizione. Qualcosa è dunque vitale solo in

quanto contiene in sé la contraddizione» (tutto ciò naturalmente rimanda alla

Dialettica)

La Filosofia della Natura

Il testo fondamentale della filosofia della natura di Hegel è la seconda parte

dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio. Come abbiamo già detto la

Natura è l’Idea “fuori di sé” o Idea “nel suo esser altro”, cioè l’estrinsecazione o

l’alienazione dell’Idea nelle realtà spazio-temporali del mondo. Ispirandosi a Fichte,

Hegel afferma che anche la natura è Idea, cioè qualcosa che è compreso in quella

totalità processuale (in divenire) che è l’Assoluto; non è una realtà estranea,

irriducibile allo Spirito.

Tuttavia, la Natura è “l’idea nella forma dell’essere altro”, nella forma dell’esteriorità

che è inadeguata all’Idea. Pertanto, Hegel insiste molto sul momento di negatività

costituito dalla Natura: “La natura, considerata in sé, nell’idea, è divina; ma nel modo

in cui essa è, l’essere suo non risponde al suo concetto: essa è, anzi, la contraddizione

insoluta. Il suo carattere proprio è questo, di esser posta, di esser negazione; e gli

antichi hanno infatti concepito la materia in genere come un “nonens”. Così la natura

è stata anche definita come la decadenza dell’Idea da sé stessa, poiché l’Idea, in

quella forma dell’esteriorità, è inadeguata a se stessa.” Hegel parla anche di una

“impotenza della natura” che pone dei limiti anche alla comprensione filosofica della

natura stessa.

Quindi Hegel non condivide l’entusiasmo dei Rinascimentali e soprattutto dei

Romantici per la natura. Alla tesi secondo cui in un piccolo evento naturale come in

un fiore o in una pagliuzza possono farsi conoscere la verità e Dio, Hegel

contrappone la tesi secondo cui il più piccolo evento dello Spirito ci fa conoscere la

verità e Dio in modo incomparabilmente superiore, e che perfino il male compiuto

dall’uomo è addirittura infinitamente superiore ai moti degli astri e alla innocenza

delle piante, in quanto il male è un atto di libertà, la quale costituisce l’essenza dello

Spirito.

La filosofia della Natura si articola in:

1. meccanica, che studia lo spazio, il tempo, la materia e il movimento;

2. fisica, ove dalla rigidità dei corpi inerti si passa ai fenomeni magnetici,

elettrici e chimici;

3. organica, che tratta della natura vegetale e animale.

Nell’esposizione della filosofia della Natura Hegel attinge alle conoscenze della

scienza dei suoi tempi, tuttavia essa rappresenta un ritorno ad una concezione

pregalileiana della scienza, alla persuasione di poter cogliere l’essenza dei fenomeni

naturali, in forte polemica con la “riduzione al quantitativo” attuata da Galileo,

Cartesio e Newton.

LA FILOSOFIA DELLO SPIRITO

La filosofia dello Spirito è lo studio dell’Idea che, dopo essersi estraniata da sé,

sparisce come natura, cioè come esteriorità e spazialità per farsi puro spirito,

autocoscienza e libertà. Lo Spirito è l’idea che ritorna a sé dalla sua alterità. L’Idea,

intesa come “impalcatura logica del mondo”, era una possibilità astratta, lo Spirito è

la vivente attualizzazione e autoconoscenza dell’Idea.

Come momento dialetticamente conclusivo, ossia come risultato del processo

dell’Assoluto, lo Spirito è la più alta manifestazione dell’Assoluto. Scrive Hegel:

“L’assoluto è lo spirito: questa è la più alta definizione dell’assoluto. Trovare questa

definizione e comprenderne il significato e il contenuto è stata la tendenza di ogni

cultura e di ogni filosofia; a questo punto ha mirato coi suoi sforzi ogni religione e

ogni scienza; solo questo impulso spiega la storia del mondo”.

Anche la filosofia dello Spirito è strutturata in maniera triadica, e quindi divisa in tre

momenti: 1) un primo in cui lo Spirito è sulla via della propria autorealizzazione e

autoconoscenza: Spirito soggettivo, 2) un secondo in cui lo Spirito si autorealizza

pienamente come libertà: Spirito oggettivo, 3) un terzo in cui lo Spirito si

autoconosce pienamente e si sa come principio e come verità di tutto, ed è come Dio

nella sua pienezza di vita e di conoscenza: Spirito Assoluto.

LO SPIRITO SOGGETTIVO

Lo spirito soggettivo è lo spirito individuale (dell’uomo singolo, ancora legato alla

finitudine), considerato nel suo lento e progressivo emergere dalla natura, attraverso

un processo che va dalle forme più elementari di vita psichica alle più elevate attività

conoscitive e pratiche. La filosofia dello spirito soggettivo si divide in tre parti:

antropologia, fenomenologia e psicologia.

Nella antropologia viene considerata quella fase aurorale della vita cosciente che

nell’uomo si manifesta come carattere, temperamento, disposizioni psicofisiche

connesse all’età e al sesso, abitudini: la vita spirituale è ancora “invischiata” nella

natura e ne conserva in gran parte la meccanicità, la passività. Nella fenomenologia

viene riproposto il percorso “Coscienza”, “Autocoscienza”, “Ragione” già visto

nell’opera La fenomenologia dello Spirito. Nella psicologia vengono studiate le

attività proprie dello spirito, cioè la conoscenza (attività teoretica), l’attività pratica e

il volere libero. Il volere libero rappresenta il culmine dello Spirito soggettivo:

l’anima dell’uomo aspira alla libertà, ma si scontra con il limite della propria

finitezza, della propria individualità.

Per essere libero, l’uomo deve superare la propria individualità e finitezza, deve

quindi entrare in relazione con il mondo e gli altri uomini: per farlo non può restare

nella forma dello Spirito soggettivo. Si passa quindi allo Spirito oggettivo.

Precisazioni sul concetto di libertà. Il momento dello Spirito oggettivo costituisce per

Hegel la realizzazione della libertà umana. E’ quindi opportuno precisare che cosa

intende Hegel per libertà. La libertà per Hegel è la piena realizzazione dell’uomo,

realizzazione che si ottiene quando si raggiunge la consapevolezza di essere parte e

manifestazione dello Spirito infinito.

Lo Spirito è libero perché è Totalità infinita, e nulla gli è esteriore in modo da poterlo

condizionare. L’uomo è libero quando comprende che nella sua vita individuale e

finita si esprime lo Spirito infinito. Si osservi che la nozione di libertà che qui

utilizziamo non ha nulla a che vedere con la nozione di libero arbitrio, che

presuppone la sostanziale indipendenza della persona umana dalla trama necessaria

delle relazioni che costituiscono l'ordine del mondo (ad esempio: ho la possibilità di

agire come voglio, nonostante le influenze che subisco dal mondo esterno).

L’idea diametralmente opposta di Hegel è che la persona è libera quando supera la

propria finitezza e individualità riconoscendo e accettando di appartenere a una trama

necessaria di relazioni.

LO SPIRITO OGGETTIVO

Per oggettività dello Spirito Hegel intende le istituzioni, esteriori all’individuo, nelle

quali l’uomo concretamente vive. Esse sono oggettive perché si presentano al singolo

uomo come una realtà data, come qualcosa di concretamente esistente in modo

oggettivo. Ad esempio, venendo al mondo, l’uomo si trova a far parte di una

famiglia, che è per lui qualcosa di dato, un ente della realtà. In effetti si tratta di una

forma molto particolare di oggettività, perché la famiglia non ha alcuna esistenza

senza gli individui (soggetti, dunque) che la compongono.

L’oggettività dello Spirito è così formata dall’estraniazione degli stessi soggetti: le

istituzioni, ad esempio la famiglia, sono l’oggettivazione dell’uomo stesso in una

realtà che non ha più i tratti soggettivi dell'uomo ma ha regole e caratteristiche sue

proprie. Queste istituzioni, in quanto oggettive, si presentano all’uomo come dotate di

caratteri che sfuggono alla volontà del singolo: hanno letteralmente leggi oggettive,

indipendenti dalla volontà dei soggetti, benché siano costituite da soggetti. Hegel

distingue tre momenti della Filosofia dello Spirito oggettivo, il diritto, la moralità e

l’eticità.

IL DIRITTO

Il soggetto trova dinanzi a sé la legge, come istituzione esteriore che regola attraverso

norme di comportamento le sue relazioni con il mondo. La legge definisce ciò che è

legittimo fare da ciò che non lo è, e dunque inevitabilmente limita l’assolutezza della

volontà del singolo. Tuttavia, nel concreto della vita il diritto permette di fatto una

maggiore libertà all’uomo, rendendo possibile la vita di relazione e dunque

concretamente fattibili cose che, altrimenti, sarebbero sì teoricamente possibili, ma

nei fatti del tutto irrealizzabili (si pensi alla vita quotidiana in assenza di regole: un

caos, non un’effettiva libertà). Momento iniziale del diritto è la proprietà. La

proprietà è il compimento dell’uomo (o, il che è lo stesso, la sua libertà) in una cosa

esterna.

Hegel dunque teorizza il diritto alla proprietà privata come una necessità dello Spirito

per la realizzazione della propria libertà. (Si ponga attenzione a questo punto, che

Marx analizzerà accuratamente da una posizione fortemente critica.). Dalla proprietà

si passa al contratto (riconoscimento reciproco del diritto di proprietà) che pone

l’uomo in relazione con altri uomini. Il momento del diritto, tuttavia, permette solo

una forma esteriore di libertà (una libertà nei comportamenti, non nella coscienza

dell’uomo), e la legge è sempre vissuta come qualcosa che dall’esterno si impone al

singolo, sebbene ciò accada per garantirgli una concreta libertà d’azione.

L’uomo non può infatti pienamente identificarsi con la legge, perché essa è pur

sempre esteriore alla sua coscienza. Alla legge manca qualcosa, manca cioè la

possibilità che l’uomo vi si identifichi: ciò equivale a dire che la legge è esteriore, le

manca l’interiorità, le manca la moralità. Momenti dialettici del diritto sono la

proprietà che pone l’uomo in rapporto con le cose (quindi Hegel afferma il diritto alla

proprietà), il contratto attraverso cui la proprietà viene riconosciuta dagli altri uomini,

e che quindi pone l’uomo in rapporto con gli altri uomini, il delitto, che è la

negazione del diritto, e la pena, che ristabilisce il diritto, reintegra il colpevole nel

diritto; perché la pena sia efficace occorre però che il colpevole non soltanto sconti la

pena, ma riconosca interiormente la propria colpa, in tal modo però si passa dalla

sfera dell’esteriorità a quella dell’interiorità, e si passa quindi dal diritto alla moralità.

LA MORALITA’

La moralità collega l’azione esteriore dell’uomo alla sua interiorità. Nel momento

della moralità Hegel studia il complesso delle leggi interiori della coscienza.

L’ambito della moralità è del tutto diverso da quello del diritto, perché la fonte di

quest’ultimo è un’autorità istituzionale che regola solo l’aspetto esteriore dell’azione

degli uomini senza occuparsi del loro mondo interiore. Per la moralità invece è

essenziale l’intenzione con cui un’azione viene compiuta e il bene come valore

morale è il suo fine.

La moralità di Hegel quindi corrisponde all’etica kantiana, che è “formale”, perché dà

importanza solo all’intenzione della volontà, non al contenuto, non alla realizzazione

effettiva. Tuttavia, Hegel considera ancora insufficiente la moralità e critica l’etica

kantiana, rimproverandole di essere vuota e unilaterale, di “chiudere l’uomo nel suo

interno”. I termini della questione sono questi.

Moralità e diritto si contrappongono dialetticamente come legge esteriore e legge

interiore. Né l’uno né l’altro dei due momenti, da solo, permette che nell’azione si

esprima l’unità della persona, cioè lo Spirito nella sua integrità e concretezza. Perché

questo accada è necessario il momento di sintesi tra diritto e moralità, cioè l’eticità.

L’ETICITA’

Nell’eticità la volontà buona si realizza concretamente, diventa qualcosa di esistente.

Le norme esteriori del diritto e le norme interiori della moralità sono conciliate

nell’azione etica. Si tenga presente che la distinzione tra moralità ed eticità non è

tradizionale, viene introdotta solo da Hegel.

Col termine eticità Hegel intende riferirsi a tutte quelle istituzioni che permettono

tanto una libertà esteriore quanto una libertà interiore, istituzioni dunque nelle quali

l’uomo può trovare piena soddisfazione alle sue esigenze di realizzazione e di libertà,

perché in esse può identificarsi: può viverle come proprie, pur mantenendo esse il

loro rigoroso carattere di oggettività. Le istituzioni dell’eticità cui si riferisce Hegel

sono la famiglia, la società civile e lo Stato.

LA FAMIGLIA

La prima istituzione dell’eticità è la famiglia, che permette la libertà per i suoi

membri nella sfera della vita privata. Nella famiglia l’aspetto naturale (la “relazione

dei sessi”) viene elevato alla sfera spirituale, infatti gli impulsi naturali vengono

conciliati con i dettami razionali e la volontà individuale viene conciliata con le leggi

dello Stato (quindi si realizza la sintesi tra diritto e moralità, infatti la famiglia è

sintesi di un moto interiore, l’amore, che si realizza esteriormente in una struttura

giuridica, il matrimonio).

L’elemento fondante della famiglia è l’amore, la famiglia poi si articola nei momenti

del matrimonio, del patrimonio e dell’educazione dei figli. L’abbandono della

famiglia da parte dei figli costituisce la negazione della famiglia, da cui scaturisce la

società civile.

LA SOCIETA’ CIVILE

Il secondo momento dell’eticità è la società civile, cioè quell’insieme di istituzioni

nelle quali l’individuo può entrare in relazione con altri uomini sulla base del proprio

interesse (che è l’elemento fondante della società, come l’amore lo era della

famiglia). Nella società civile gli uomini trovano soddisfazione ai propri bisogni, pur

restando estranei gli uni agli altri e pur essendo la società civile essenzialmente

antagonistica e conflittuale.

La società civile svolge quindi una funzione di mediazione dei bisogni e degli

interessi contrapposti, permette cioè che l’incontro-scontro di interessi individuali

porti alla soddisfazione dei bisogni di tutti i soggetti sociali (per esempio il mercato

permette che i bisogni contrapposti dei venditori e dei compratori trovino

soddisfazione proprio incontrandosi); scrive Hegel: «l’egoismo soggettivo si converte

nel contributo all’appagamento dei bisogni di tutti gli altri, - nella mediazione

dell’individuo per mezzo dell’universale, in quanto movimento dialettico; così che,

poiché ciascuno acquista, produce e gode per sé, appunto perciò, produce e acquista

per il godimento degli altri.»

La società è costituita dai rapporti economico-sociali ma anche dal sistema giuridico-

amministrativo che permette di coordinare le attività e gli interessi individuali. Hegel

analizza molti aspetti della vita sociale, quali la divisione del lavoro e la divisione

della popolazione in classi sociali, l’amministrazione della giustizia e il diritto

pubblico, la polizia e la sicurezza sociale, le corporazioni di mestiere.

LO STATO

La famiglia e la società civile sono entrambe istituzioni parziali, che permettono la

soddisfazione del bisogno etico dell’uomo solo in ambiti particolari (nella sfera

privata la famiglia, nella sfera pubblica, ma conflittuale, la società civile). Entrambe

non possono tuttavia sussistere come istituzioni se non all’interno dello Stato, che per

Hegel è la sintesi globale dell’eticità.

Lo Stato infatti è una specie di “famiglia in grande” in cui l’uomo può realizzare

pienamente la sua libertà. Lo Stato infatti non si limita a coordinare gli interessi

particolaristici (come avveniva nella società civile) ma pone un principio di unità e di

appartenenza superiore, e perciò convoglia tutti i particolarismi verso un bene

collettivo; in altri termini possiamo dire che lo Stato è l’istituzione in cui la libertà

dell’uomo viene realizzata non perché l’uomo vi trova il soddisfacimento dei propri

bisogni individuali ma perché vi riconosce un valore superiore (l’ethos del popolo), e

condivide il riconoscimento di questo valore superiore con tutti i suoi concittadini.

Questa concezione etica dello Stato, visto come incarnazione suprema della moralità

sociale e del bene comune, si differenzia nettamente dalla teoria liberale dello Stato

(vedi Locke) come strumento indirizzato a garantire la sicurezza e i diritti degli

individui. Infatti, per Hegel una teoria di questo tipo comporterebbe una confusione

tra società civile e Stato, ovvero una riduzione dello Stato a semplice tutore degli

interessi particolaristici della società civile.

Lo Stato di Hegel si differenzia anche dal modello democratico, vale a dire dalla

teoria della sovranità popolare (vedi Rousseau), in quanto il popolo, al di fuori dello

Stato, è soltanto una moltitudine informe. A simili “astrazioni”, Hegel contrappone la

teoria secondo cui la sovranità dello Stato deriva dallo Stato medesimo, perché lo

Stato non è fondato sugli individui, ma sull’idea di Stato, ossia sul concetto di un

bene universale: pertanto non sono gli individui a fondare lo Stato, ma lo Stato a

fondare gli individui, sia dal punto di vista storico-temporale (lo Stato è “prima” degli

individui, che nascono nell’ambito di uno Stato già esistente), sia dal punto di vista

ideale, in quanto lo Stato è superiore agli individui (così come il tutto è superiore alle

parti che lo compongono; in termini hegeliani lo Stato è una realtà “concreta” e la

persona singola è una realtà “astratta”).

Detto questo, risulta chiaro perché Hegel rifiuta anche la teoria contrattualistica

(secondo cui la Stato deriverebbe da un contratto scaturito dalla volontà degli

individui), e la teoria giusnaturalistica (secondo cui i diritti naturali esisterebbero

prima e oltre lo Stato: per Hegel il diritto esiste solo nello Stato e grazie allo Stato).

Lo Stato hegeliano è assolutamente sovrano, ma non per questo è dispotico: infatti

Hegel ritiene che lo Stato debba operare solo per mezzo delle leggi, debba essere,

quindi, uno Stato di diritto; inoltre identifica la “costituzione razionale” dello Stato

con la monarchia costituzionale moderna. Tuttavia, Hegel non intende costruire un

modello politico di Stato, quanto piuttosto rendere ragione della natura profonda

dello Stato, che resta tale indipendentemente dalle realizzazioni concrete degli Stati e

dalle loro eventuali imperfezioni e inadempienze.

Leggiamo il testo di Hegel: «Lo Stato, in sé e per sé, è la totalità etica, la

realizzazione della libertà; ed è finalità assoluta della ragione, che la libertà sia reale.

Lo Stato è lo Spirito che sta nel mondo, e si realizza nel medesimo con coscienza,

mentre, nella natura, esso si realizza soltanto in quanto altro da sé, in quanto spirito

sopito. Solamente in quanto esistente nella coscienza, in quanto consapevole di se

stesso, come oggetto che esiste, esso è lo Stato. (...) L’ingresso di Dio nel mondo è lo

Stato; il suo fondamento è la potenza della ragione che si realizza come volontà.

Nell’idea dello Stato non devono tenersi presenti Stati particolari, istituzioni

particolari; anzi, si deve considerare per sé l’idea, questo Dio reale. Ogni Stato, lo si

dichiari anche cattivo secondo i principi che si professano, si riconosca questo o quel

difetto, ha sempre in sé, specialmente se appartiene alla nostra epoca civile, i

momenti essenziali della sua esistenza. Ma poiché è molto più facile scoprire un

difetto, che intendere l’affermativo, si cade facilmente nell’errore di dimenticare, al

di sopra dei suoi singoli aspetti, l’organismo interiore dello Stato stesso. Lo Stato non

è un’opera d’arte; esso sta nel mondo, e quindi nella cerchia dell’arbitrio,

dell’accidentalità e dell’errore; un comportamento cattivo lo può svisare da molti lati.

Ma l’uomo più odioso, il reo, un ammalato e uno storpio, sono sempre ancora uomini

viventi; l’affermativo, la vita, esiste, malgrado il difetto; e questo affermativo

importa, qui.»

Emerge da questa pagina una esplicita divinizzazione dello Stato; come vita divina

che si realizza nel mondo, lo Stato non può trovare nelle leggi della morale un limite

o un impedimento alla sua azione; inoltre non può esistere un organismo superiore

allo Stato che possa giudicare le pretese degli Stati e regolare i rapporti tra gli Stati. Il

solo giudice o arbitro fra gli Stati è lo Spirito universale, cioè la Storia, la quale ha

come suo momento strutturale la guerra. Muovendosi in un orizzonte di pensiero

completamente diverso dal cosmopolitismo pacifista dell’Illuminismo, Hegel

attribuisce alla guerra non solo un carattere di necessità e inevitabilità, ma anche un

alto valore morale. Infatti, come «il movimento dei venti preserva il mare dalla

putredine, nella quale sarebbe ridotto da una quiete durevole», così la guerra preserva

i popoli dalla fossilizzazione alla quale li ridurrebbe una pace perpetua.

LA FILOSOFIA DELLA STORIA

Se lo Stato è la Ragione che fa il suo ingresso nel mondo, la Storia, che nasce dalla

dialettica degli Stati, è il dispiegarsi di questa stessa Ragione nel tempo; nella storia si

realizza la coincidenza fra reale e razionale: tutto va come deve andare. Certo dal

punto di vista degli individui le cose spesso non vanno come dovrebbero, ma la

filosofia della storia non va pensata dal punto di vista degli individui bensì

dell’assoluto, e allora si capisce che la storia si svolge secondo un disegno razionale.

Hegel dice che la razionalità della storia coincide con il concetto cristiano di

Provvidenza, cioè di un governo divino del mondo.

Tuttavia, la Provvidenza cristiana ha un’origine trascendente e non può essere

completamente decifrata e compresa dall’uomo. Invece la razionalità della storia

hegeliana è immanente e la ragione filosofica può comprenderne il fine e i mezzi. Il

fine della storia del mondo è che «lo spirito giunga al sapere di ciò che esso è

veramente, e oggettivi questo sapere, lo realizzi facendone un mondo esistente,

manifesti oggettivamente se stesso».

Questo spirito che si manifesta e realizza in un mondo esistente, cioè nella realtà

storica, è lo spirito del mondo che si incarna, si particolarizza negli spiriti dei popoli

(e quindi negli Stati) che si succedono all’avanguardia della storia. Infatti, nella

competizione fra i popoli ottiene la vittoria quel popolo (e quello Stato) che ha

concepito il più alto concetto dello Spirito (come abbiamo detto sopra, il solo giudice

o arbitro fra gli Stati è lo Spirito universale, cioè la Storia, la quale ha come suo

momento strutturale la guerra).

Abbiamo detto che lo Spirito oggettivo è la progressiva realizzazione della libertà.

Questa libertà si realizza nello Stato: quindi il fine supremo della storia è una

realizzazione sempre più perfetta della libertà per mezzo dello Stato, realizzazione

che avviene in tre momenti: 1) il mondo orientale, nel quale uno solo è libero, 2) il

mondo greco-romano, nel quale alcuni sono liberi, 3) il mondo cristiano-germanico,

nel quale tutti gli uomini sono liberi.

I mezzi della storia sono gli individui con le loro passioni: Hegel ammette l’esistenza

di individui cosmico-storici o eroi, come Alessandro Magno, Giulio Cesare,

Napoleone, capaci di “fare la storia”, tuttavia questi uomini agiscono per fini

particolari, ma c’è un’ astuzia della ragione che si serve delle loro passioni irrazionali

e particolari per realizzare un progresso universale: non loro hanno fatto la storia, in

realtà, ma in essi è vissuto lo Spirito e ha utilizzato la loro azione per il proprio

obiettivo universale (e quando essi hanno realizzato il loro compito, vengono

“scartati” dalla storia: Giulio Cesare ucciso, Napoleone esiliato a Sant’Elena ecc.)

Commento: Lo storicismo perfetto di Hegel intende il divenire come un progresso

continuo in cui la forma successiva è per forza migliore di quella precedente.

E’ evidente che la storia così concepita diventa un “tribunale” in cui chi prevale ha

sempre ragione; col risultato di giustificare ogni cosa: il male è cancellato, così come

è cancellata la responsabilità individuale. E le lacrime e il sangue dei vinti?

Finiscono, per usare un’espressione di Lenin, nella “pattumiera della storia”, come un

momento dialettico necessario ma destinato ad essere superato dal potere vincente. E

il criterio di giudizio storico non sarà il bene o il male, ma l’essere “contro la storia”

o “nel senso della storia”, cioè essere ultimamente dalla parte del vincitore.

Lo Spirito Assoluto

Lo Stato è “l’ingresso di Dio nel mondo”, il culmine dello Spirito oggettivo, ma esso

rimane pur sempre un elemento parziale, finito, del Tutto. Occorre ancora giungere

alla comprensione dello Spirito come Totalità. Lo spirito assoluto è il momento il cui

l’Idea giunge alla piena coscienza della propria infinità o assolutezza (cioè del fatto

che tutto è Spirito e che non vi è nulla al di fuori dello Spirito).

Ma questo auto-sapersi dello Spirito non è un’intuizione mistica, ma un processo

dialettico rappresentato dall’arte, dalla religione e dalla filosofia. Queste sono,

dunque, tre attività attraverso le quali noi conosciamo l’Assoluto e l’Assoluto

conosce se stesso. Sono però tre attività poste su livelli diversi. Infatti, soltanto la

filosofia può ambire al sapere assoluto, perché essa sola utilizza lo strumento

adeguato all’oggetto da conoscere: la razionalità dialettica.

L’arte e la religione hanno lo stesso contenuto della filosofia, lo Spirito assoluto, ma

lo presentano in forma inadeguate: l’arte nella forma dell’intuizione sensibile e la

religione nella forma della rappresentazione.

L’Arte

Hegel attribuisce all’arte una funzione conoscitiva (come i Romantici), l’arte

permette infatti di arrivare, attraverso le forme sensibili, all’intuizione dell’Assoluto.

Infatti, l’esperienza estetica è l’esperienza di un’unità profonda tra soggetto e

oggetto; pertanto l’arte, attraverso la mediazione di un elemento sensibile (qualcosa

di materiale, come una statua, un quadro, un suono) coglie intuitivamente

quell’identità tra Spirito e Natura che la filosofia idealistica afferma concettualmente.

Il limite dell’arte consiste nel fatto che la forma dell’intuizione sensibile non è in

grado di render conto del dispiegarsi dialettico dell’Assoluto.

Hegel dialettizza la storia dell’arte in tre momenti: arte simbolica, arte classica e arte

romantica. L’arte simbolica (tipica dei popoli orientali) è caratterizzata dallo

squilibrio tra contenuto e forma, nel senso che la forma prevale sul contenuto. L’arte

classica è caratterizzata da un armonico equilibrio tra contenuto spirituale e forme

sensibili. L’arte romantica è caratterizzata da un nuovo squilibrio tra forma e

contenuto, nel senso che il contenuto prevale sulla forma, qualsiasi forma spirituale

viene ormai avvertita come insufficiente a esprimere la ricchezza dello Spirito.

Per questo l’arte romantica prelude alla Morte dell’arte, cioè all’abbandono dell’arte

per trovare una più adeguata espressione della spiritualità nella religione e nella

filosofia; la “morte dell’arte” non significa l’estinzione di qualsiasi attività artistica,

ma il fatto che per l’uomo moderno l’arte non costituisce più il vertice della vita

spirituale, non è più (come invece era per gli antichi) il bisogno supremo dello spirito.

La Religione

La religione è la seconda forma dello spirito assoluto, quella in cui l’assoluto si

manifesta nella forma della rappresentazione interiore, che è il modo tipicamente

religioso di pensare Dio, e che sta a metà strada fra l’intuizione sensibile dell’arte e il

concetto razionale della filosofia (rappresentazione è, per esempio, l’immagine di un

Dio creatore, con cui la coscienza religiosa esprime l’Assoluto).

Anche la religione ha uno sviluppo storico, dalle antiche religioni naturali, in cui Dio

è visto come forza naturale, alle religioni dell’individualità spirituale (giudaica, greca

e romana), in cui Dio appare in sembianze umane, al Cristianesimo, in cui Dio appare

come “puro spirito”. Per Hegel la religione cristiana è la “religione assoluta”, perché

14 essa esprime attraverso i suoi dogmi le stesse verità della filosofia: per esempio la

Trinità esprime la triade dialettica di Idea, Natura e Spirito, Gesù Cristo uomo-Dio

esprime l’identità di finito e infinito, ecc. Tuttavia, anche il cristianesimo presenta i

limiti di ogni religione, cioè l’incapacità della forma rappresentativa di esprimere

adeguatamente l’Assoluto.

Il limite della rappresentazione religiosa consiste nel fatto che essa intende le sue

determinazioni come giustapposte, cioè slegate, sconnesse. Per esempio, non c’è un

nesso logico (secondo Hegel) tra la Trinità divina, la creazione, la provvidenza ecc.

In altri termini, la religione non è in grado di pensare dialetticamente lo Spirito, vale a

dire di cogliere la ricchezza e la necessità delle sue articolazioni: per la religione

l’Assoluto rimane misterioso. Pertanto, l’unico sbocco coerente della religione è la

filosofia, che ci parla anch’essa dell’Assoluto, ma nella forma finalmente adeguata

del concetto.

La Filosofia

Nella filosofia lo Spirito giunge alla piena e concettuale coscienza di se stesso,

chiudendo il ciclo cosmico. Hegel ritiene che anche la filosofia sia una formazione

storica, ossia una totalità processuale che si è sviluppata attraverso una serie di gradi

o momenti concludentesi necessariamente nell’idealismo. In altre parole, la filosofia

è nient’altro che l’intera storia della filosofia giunta finalmente a compimento con

Hegel.

Di conseguenza, i vari sistemi filosofici che si sono succeduti nel tempo non devono

essere considerati come un insieme disordinato e accidentale di opinioni che si

escludono a vicenda, in quanto ognuno di essi costituisce una tappa necessaria del

farsi della verità. «La filosofia che è ultima nel tempo insieme un risultato di tutte le

precedenti e deve contenere i principi di tutte: essa è perciò la più sviluppata, ricca e

concreta»: l’ultima filosofia è quella di Hegel. E’ nella filosofia di Hegel che

l’Assoluto si autoconosce, totalmente e definitivamente.

CARATTERI GENERALI DELL’ILLUMINISMO

L’illuminismo è un fenomeno culturale che si diffuse in Europa intorno al XVIII

secolo (1700);esso riguarda tutti i campi della cultura ,spaziando dalla letteratura alla

filosofia. L’illuminismo si evidenziò specialmente in Francia dove vigeva ancora

l’assolutismo monarchico o comunque in tutti quei paesi dove il popolo si sentiva

maggiormente oppresso dalle autorità sia politiche che religiose e chiedeva maggiore

uguaglianza e libertà. L’illuminismo viene inteso come la capacità e l’impegno

dell’uomo di utilizzare pubblicamente e liberamente la propria ragione. Questa non è

una frase priva di senso ma per gli illuministi il fatto che l’uomo utilizzi la propria

ragione è molto importante in quando secondo essi nel passato l’uomo era stato

subordinato alla ragione altrui soprattutto a quella delle autorità, rimanendo cosi in

uno stato di minorità.

Il filosofo Kant infatti dando una definizione di illuminismo afferma che esso deve

intendersi come la capacità dell’uomo di uscire da questo stato di minorità. La

minorità non è dovuta però ad una mancanza di intelligenza da parte dell’uomo, in

quanto l’uomo per via della sua stessa natura è dotato di ragione ed è questo che gli

permette di distinguersi dagli animali, ma nel passato l’uomo non ha avuto il

coraggio di utilizzare la propria ragione lasciandosi influenzare da quella altrui.

Da ciò deriva il fatto che gli illuministi si battano contro il medioevo e le sue

tradizioni, contro la religione e i suoi dogmi ovvero con tutto quello che ha ostacolato

il libero pensiero dell’uomo. Il moto degli illuministi è sapere aude cioè abbi il

coraggio di utilizzare la tua intelligenza.

Da questa battaglia degli illuministi contro l’ignoranza dell’uomo(cioè il buio) deriva

la nascita di un tipo di intellettuale diverso. Il filosofo non è più considerato come un

uomo al di sopra degli altri il cui scopo è quello di ricercare la verità, ma per la prima

volta diventa un uomo tra gli uomini che si mette cioè a disposizione degli altri. Egli

compie delle osservazioni e cerca di cambiare la realtà non solo per giovare a se

stesso ma soprattutto per giovare agli altri.

L’illuminismo si afferma contemporaneamente all’ascesa della borghesia. Infatti, tra

l’illuminismo e il ceto sociale borghese che dal 500 stava cercando di espandersi sia

politicamente che economicamente esiste uno stretto rapporto. Si può dire infatti che

l’illuminismo sia l’arma impiegata dalla borghesia per ascendere al potere. In quegli

anni infatti era in corso una vera e propria lotta per il potere tra borghesia e

nobiltà/clero.

Per questo vedendo che molti concetti dell’illuminismo erano studiati contro i

privilegi e soprattutto contro la religione, i dogmi, e le tradizioni la borghesia si

servi di questi concetti per acquisire più potere e limitare invece quello secolare del

clero e della nobiltà. Inoltre questo rapporto risulta evidente anche dal fatto che i

maggiori illuministi discendevano da famiglie borghesi e anche dal fatto che a

differenza dell’età comunale che aveva celebrato l’intellettuale laico e

dell’umanesimo che aveva onorato il filosofo amante dei classici, L’illuminismo si

differenzia per via del fatto che conferisce una grande importanza al il filosofo che si

mette a disposizione degli altri uomini e al mercante; spesso queste due figure si

fondono in una sola (mercante-filosofo).

L’illuminismo si può definire come una continuazione del Rinascimento; infatti a

volte viene anche denominato come “il secondo Rinascimento” in quanto riprende

moti temi cari ai rinascimentali. Infatti, il Rinascimento è la prima epoca in qui si

manifesta un vero e proprio distacco con il passato. I rinascimentali e poi anche gli

illuministi manifestano un vero e proprio rifiuto verso il passato soprattutto verso il

Medioevo dove la superstizione e l’ignoranza era padrona. Rifiutano i dogmi e tutto

ciò che attacca la dignità dell’uomo e la sua libertà; mettendo l’uomo al primo posto e

facendolo diventare il padrone del mondo. Nonostante tutte queste caratteristiche in

comune non si può dire che il Rinascimento e l’illuminismo siano due movimenti

identici.

Tra i due infatti intercorre un periodo di tempo veramente vasto che vede l’ascesa

della borghesia ,la rivoluzione scientifica e lo sviluppo del pensiero empirista e di

quello razionalista. L’illuminismo che avviene dopo questo periodo di innovazioni è

sicuramente storicamente più completo e opera un distacco molto più radicale con il

passato e mostra non solo il rifiuto verso il passato ma anche verso concezione

medievale di Dio. Gli illuministi non negano infatti la sua esistenza ma rispetto ai

rinascimentali gli conferiscono minore importanza relegandolo in una sfera ben

lontana dal mondo umano. Dio non è partecipe della vita degli uomini e non si può

intromettere nei loro problemi e loro decisioni. Senza Dio l’uomo è quindi davvero la

misura di tutte le cose. E il padrone della sua vita e del suo destino, perché per la

prima volta è un essere autonomo. Quindi si può dire che l’illuminismo vada oltre il

Rinascimento.

L’illuminismo ereditò quelle che furono le principali innovazioni della Rivoluzione

scientifica infatti spesso esso viene considerato il prodotto stesso di queste

innovazioni mentre la Rivoluzione scientifica rappresenterebbe il punto di inizio

dell’Illuminismo. Questo rapporto esistente tra Scienza a Illuminismo risulta evidente

dal fatto che presentano numerosi aspetti comuni. L’illuminismo infatti come la

Scienza combatte contro la superstizione, contro la teologia e i dogmi imposti dalla

religione e in particolare modo contro la metafisica in quanto entrambi hanno una

totale fiducia nella ragione e nell’esperienza mentre la metafisica crede di poter

scoprire la vera essenza delle cose andando al di là del mondo fisico e

dell’esperienza.

Inoltre, entrambi professano la libertà di ricerca e di pensiero. L’illuminismo infine

crede in un sapere che sia allo stesso tempo vero e utile e che sia costantemente

verificato dal metodo scientifico e dalla ragione per questo combatte contro tutto ciò

che può attaccare e ostacolare la scienza.

Illuminismo, Razionalismo ed Empirismo

L’illuminismo si sviluppò in un periodo che risente la presenza di due filosofie

opposte ovvero quella empirista e quella razionalista ;proprio per questo motivo si

può dire che l’Illuminismo sia stato in parte influenzato da queste filosofie, in modo

diverso.

− Il razionalismo il cui fondatore fu Cartesio considera vero solo ciò che appare

evidente davanti alla ragione, considerando tutte le altre cose che invece non

sono dimostrabilità come delle verità antirazionali. Gli illuministi credono in

questo concetto in quanto la loro filosofia si basa appunto sull’uso autonomo

della ragione.

− Però gli illuministi si manifestano anche a favore degli empiristi in quanto essi

ritengono che la ragione sia inizialmente come una tabula rasa, priva di

qualsiasi conoscenza e che quindi per poter acquisire le conoscenze debba

dipendere dall’esperienza anche se questa ha un limite. La ragione si nutre

dell’esperienza. Quindi in sostanza gli illuministi credono in un sapere assoluto

che è limitato dall’esperienza umana. Gli illuministi però rispetto agli empiristi

nutrono una maggiore fiducia verso la ragione umana. Nonostante essi

credono che tutto debba essere verificato dalla ragione credono nei sentimenti e

credono nella loro esistenza autonoma. Infatti, il sentimento e la psiche umana

sono qualche cosa che non può essere controllato neanche dalla ragione

umana, è un qualche cosa di autonomo, direttamente responsabile della felicità

e dell’infelicità dell’ uomo.

Gli illuministi pongono una critica serravate verso la metafisica e in particolar modo

su due principali concetti quello di sistema e quello di spirito di sistema.

Innanzitutto, gli illuministi vanno contro la metafisica in quanto essi nutrono una

totale fiducia verso l’esperienza e la ragione considerando tutti ciò che non è

dimostrabile dall’esperienza e dalla ragione falso. Mentre la metafisica si propone di

scoprire la reale essenza delle cose andando al di là dell’ esperienza.

Gli illuministi criticano poi il sistema in quanto esso è un qualche cosa di strutturato

cioè che ha un ordine preciso a cui poi i fenomeni della terra si devono adattare. Gli

illuministi invece a questo sistema contrappongono l’osservazione metodica della

realtà e la formulazione di conoscenze che devono però essere costantemente

valutate dalla ragione e dall’esperienza per poter essere considerate vere. Mentre allo

spirito di sistema oppongono l’esigenza sistematica che si basa sulla

riorganizzazione e sul collegare le conoscenze per poter formare un sapere unico. Il

risultato di quest’esigenza sistematica è L’enciclopedia.

Dal momento che gli illuministi rifiutano l’idea di sistema, rifiutano anche l’idea di

scoprire la vera essenza delle cose e soprattutto di verificare i rapporti tra sostanza e

anima e sostanza e corpo. Il loro compito è semplicemente quello di dimostrare che

esiste una verità uguale per tutti e cioè che alla base del mondo vi è Dio, il quale però

è solo una forza ordinatrice che è concepibile solo tramite la ragione.

Critica alle religioni positiviste

L’illuminismo appare fortemente critico anche nei confronti delle religioni positive

ovvero quelle religioni che nascono dalla superstizione e dall’ignoranza. In particolar

modo verso le grandi fedi dell’umanità quali cristianesimo, ebraismo e islamismo

reputando e denominando i loro portavoce ovvero Gesù, Mosè e Maometto “i tre

impostori”. L’avversità degli illuministi nei confronti della religione si deve a tre

principali cause:

a) gli illuministi credendo nel pensiero razionalista secondo cui può essere

considerato vero solo ciò che è dimostrato dall’esperienza, rifiuta il concetto di

rivelazione considerando i dogmi imposti dalla religione come verità

antirazionali. Rifiutando anche il tema centrale del cristianesimo secondo cui

Dio sarebbe morto in croce sacrificandosi per la salvezza degli uomini. Davanti

alla ragione questa appare semplicemente una tavoletta.

b) Gli illuministi credono che la religione sia la causa dei mali dell’umanità e

ostacoli il progresso economico e scientifico. In quanto con la diffusione di

dogmi numerosi e diversi nascono due mali contrapposti :il fanatismo e

l’intolleranza. Anziché unire i popoli quindi essa gli dividerebbe con le sue

false verità conducendoli verso l’ignoranza.

c) Gli illuministi credono che la ragione abbia a cuore la felicità degli uomini

mentre la religione disturbi questa felicità con pensieri negativi come quello

della morte, del peccato e del castigo.

Gli illuministi pubblicarono numerosi opuscoli contro la religione che venivano

fatti circolare segretamente tra gruppi di uomini colti. Da questi opuscoli appare

evidente che gli illuministi si attaccano specialmente al fatto che se i religiosi non

hanno avuto una reale testimonianza del divino non possono allora essere certi del

fatto che la loro religione sia stata davvero fondata da Dio.

Gli illuministi svilupparono due tendenze religiose diverse: un orientamento deista e

una tendenza atea. Il deismo non crede in una religione fondata dalla superstizione

ma in una naturale ed immutabile basata su delle verità comuni ad ogni uomo come

ad esempio l’esistenza di dio. Gli uomini non devono mettere in discussione questa

verità in quanto alla base del mondo vi è necessariamente Dio che però viene

semplicemente inteso come una forza ordinatrice che può essere concepita solo dalla

ragione. Le religioni che invece aggiungono a queste verità universali altre verità che

non sono dimostrabili causano due mali contrapposti ovvero il fanatismo e

l’intolleranza.

I due maggiori rappresentanti dell’ateismo sono invece il sacerdote Meslier e il

filosofo materialista Dholbach. L’ateismo crede che la religione sia un fenomeno

che non nasce dalla ragione ma solo dalla curiosità e dalla paura e che sia subordinata

alla politica nel senso che la religione sarebbe lo strumento utilizzato dalle autorità

per sottomettere i popoli. Gli atei inoltre credono che dio sia una falsa percezione

della mente creata dalla suggestione, mentre per loro la realtà si realizza

concretamente solo attraverso la natura.

Comunque, l’intento degli illuministi non è quello di combattere e annientare la

religione in quanto essi credono sempre e comunque che ognuno sia libero di

professare una qualsiasi fede religiosa.

L’ILLUMINISMO ITALIANO

In Italia la diffusione della cultura illuministica si sviluppa in ritardo rispetto agli altri

paesi europei. Ciò è dovuto al differente contesto storico-culturale della penisola.

L'arretratezza economica, l'immobilità delle istituzioni, l'instabilità politica dovuta

alla catena delle guerre di successione, l'assenza di una borghesia dotata di

consistente peso economico-sociale, l'assolutismo delle dinastie regie, la pesante

atmosfera controriformistica, il prevalere di una cultura umanistica e storico-erudita,

dimentica della tradizione scientifica galileiana, producono per lungo tempo una

situazione di stasi sociale ed intellettuale (la cui unica eccezione è costituita dal

Vico).

Solo con la pace di Aquisgrana (1748), che assicura al paese un arco quarantennale di

pace, la situazione generale della penisola comincia a dare segni di risveglio. In

campo politico, Milano, Parma, Firenze e Napoli, grazie alle nuove dinastie

riformatrici degli Asburgo, dei Lorena e dei Borboni, che si ispirano ai "dispotismi

illuminati" europei, avviano una serie di riforme in senso antifeudale ed anticlericale.

Per ciò che riguarda la cultura, da un lato si ha lo studio e la divulgazione di

importanti opere d'Oltralpe (compresa la traduzione della Enciclopedia), dall'altro si

ha la creazione di una cattedra di economia a Napoli e la fondazione del giornale

milanese , Il Caffè, nel cui ambito abbiamo la comparsa di un libro di valore europeo:

Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria.

Invece negli altri stati italiani, soprattutto nel Piemonte e nello Stato pontificio, la

situazione tende a rimanere stagnante e le tendenze autoritarie dei governanti

impediscono una consistente diffusione del pensiero illuministico, anche se non

riescono a frenare l'eco delle nuove idee. Pur non essendo privo di debiti verso il

pensiero inglese, l'Illuminismo italiano - che non è fatto di " grandi solitari " ma di

figure di media statura impegnate in problemi sociali e cariche pubbliche - appare

strettamente connesso a quello francese ed ha come sua caratteristica l'apertura verso

problemi morali, giuridici ed economici.

Perciò l'importanza dell'Illuminismo deve "essere rintracciata prevalentemente sul

piano politico, dove esso rappresenta una vigorosa reazione al disinteresse per la cosa

pubblica e alla separazione della cultura dalla società... Più empiristico di quello

tedesco, meno speculativamente penetrante di quello inglese, meno radicale di quello

francese, l'Illuminismo italiano non è per questo impedito dallo svolgere la sua

specifica funzione, organicamente commisurata alle esigenze della società del tempo

e capace di creare una temperie culturale vivace ".

In Italia, come detto, i due centri in cui l’Illuminismo trova terreno più fertile per la

sua diffusione sono Napoli e Milano: a Napoli lo spirito dell'Illuminismo trova i suoi

precursori soprattutto in Ludovico Antonio Muratori (1672-1750) e in Pietro

Giannone (1676-1748). Il primo, storico ed erudito di fama europea, autore degli

Annali d'Italia (1744-1749) e delle Riflessioni sopra il buon gusto nelle lettere e nelle

arti (1708), è importante per la polemica contro i ritardi della cultura italiana del

tempo e per aver stabilito alcuni principi della metodologia storiografica critico-

scientifica: la messa tra parentesi della tradizione, l'accertamento della realtà dei fatti

e dell'autenticità dei documenti, il rispetto dell'oggettività storica.

Il secondo, autore della Istoria civile del Regno di Napoli (1723), mostra come il

potere ecclesiastico abbia, per via di successive usurpazioni, limitato e indebolito il

potere politico e come sia interesse di questo ridurre lo stesso potere ecclesiastico nei

puri limiti spirituali. Il Giannone si attendeva dalla sua opera tra l'altro "il

rischiaramento delle nostre leggi patrie e dei nostri propri istituti e costumi”. Una

figura che appartiene più all'Illuminismo francese che all'italiano è quella del

napoletano abate Ferdinando Galiani (1728-1787) che fu per dieci anni (1759-1769)

segretario dell'Ambasciata del Regno di Napoli a Parigi e dominò i salotti intellettuali

della capitale francese con il suo spirito e il suo brio. Galiani fu specialmente un

economista.

Il suo trattato Della moneta (1751) è diretto a criticare la tesi del mercantilismo che la

ricchezza di una nazione consista nel possesso dei metalli preziosi. Le sue idee

filosofiche, non esposte in forma sistematica, ma gettate qua e là come motti di

spirito, sono contenute nelle Lettere (scritte in francese) e sono in tutto conformi alle

idee dominanti nell'ambiente francese in cui Galiani è vissuto. Nei filosofi i quali

affermano che tutto è bene nel migliore dei mondi, Galiani vede degli atei patentati

che, per paura di essere arrostiti, non hanno voluto terminare il loro sillogismo. Ed

ecco qual è questo sillogismo. "Se un Dio avesse fatto il mondo, questo sarebbe senza

dubbio il migliore di tutti; ma non lo è, neppur da lontano; dunque non c'è Dio".

A questi atei camuffati bisogna rispondere, secondo Galiani, nel modo seguente:

"Non sapete che Dio ha tratto questo mondo dal nulla? Ebbene, noi abbiamo dunque

Dio per padre e il nulla per madre. Certamente nostro padre è una grandissima cosa,

ma nostra madre non vale niente del tutto. Si prende dal padre, ma si prende anche

dalla madre. Ciò che vi è di buono nel mondo viene dal padre e ciò che vi è di cattivo

viene dalla signora nulla, nostra madre, che non valeva gran che" (Lett. all'Abate

Mayeul, 14 dicembre 1771). Dal sensismo francese deduce il fondamento delle sue

dottrine economiche Antonio Genovesi (1712-1769) che fu il primo in Europa a

professare nelle università la nuova scienza dell'economia: ricopri infatti, dal 1754, la

cattedra di lezioni di commercio nell'Università di Napoli.

Genovesi riconosce come principio motore, sia degli individui sia dei corpi politici, il

desiderio di sfuggire al dolore che deriva dal bisogno inappagato e chiama tale

desiderio interesse, considerandolo come ciò che sprona l'uomo, non solo alla sua

attività economica, ma anche alla creazione delle arti, delle scienze e ad ogni virtù

(Lez. di commercio, ediz. 1778, 1, p. 57). Genovesi è anche autore di opere

filosofiche: Meditazionifilosofiche sulla religione e sulla morale (1758); Logica

(1766); Scienze metafisiche (1766); Diceosina ossia dottrina del giusto e dell'onesto (

17 76).

Nelle Meditazioni egli rifà a suo modo il procedimento cartesiano; ma riconosce il

primo principio non nel pensiero ma nel piacere di esistere. Questo indirizzo che

sembra derivato da Helvétius non impedisce a Genovesi di difendere le tesi dello

spiritualismo tradizionale: la spiritualità e l'immortalità dell'anima, il finalismo del

mondo fisico e l'esistenza di Dio. A Montesquieu si ispirava Gaetano Filangieri

(1752-1788) nella sua Scienza della legislazione (1781-1788), che mette a partito

l'opera del filosofo francese per dedurne ciò che si deve fare per l'avvenire, cioè per

trarne i principi e le regole di una riforma della legislazione di tutti i paesi. Dalla

riforma della legislazione, Filangieri si attende il progresso del genere umano verso la

felicità e l'educazione del cittadino. Ispirato da questa fiducia ottimistica nella

funzione formatrice e creatrice della legge, il Filangieri delinea il suo piano di

legislazione.

Nel quale è notevole una difesa dell'educazione pubblica, difesa che muove dal

principio che solo essa può avere uniformità di istituzioni, di massime e di sentimenti

e che per ciò soltanto la minor parte possibile dei cittadini va lasciata all'educazione

privata. La dottrina di Vico delle tre età e dei corsi e ricorsi storici è ripresa nello

spirito dell'Illuminismo da Mario Pagano (1748-1799) nei Saggi politici dei principi,

progressi e decadenza della società (1783-1785). Ma a Pagano è estranea

completamente quella problematicità della storia che domina l'opera di Vico.

Il corso e ricorso delle nazioni è per lui un ordine fatale, dovuto più a cause fisiche

che a cause morali. Pagano considera il mondo della storia come un mondo naturale,

le cui leggi non sono diverse da quello fisico. L'altro centro dell'Illuminismo italiano

fu Milano dove una schiera di scrittori si riunì intorno a un periodico, Il Caffè, che

ebbe vita breve ed intensa (1764-1765). Il giornale, concepito sul modello dello

Spectator inglese, fu diretto dai fratelli Verri, Pietro e Alessandro, e vi collaborò fra

gli altri Cesare Beccaria. Alessandro Verri (1741-1816) fu letterato e storico. Pietro

Verri (1728-1797) fu filosofo ed economista. In un Discorso sull'indole del piacere e

del dolore (1773) Pietro Verri sostiene il principio che tutte le sensazioni, piacevoli o

dolorose, dipendono, oltre che dall'azione immediata degli oggetti sugli organi

corporei, dalla speranza e dal timore.

La dimostrazione di questa tesi è fatta dapprima per ciò che riguarda il piacere e il

dolore morale, riportati a un impulso dell'anima verso l'avvenire. Il piacere del

matematico che ha scoperto un teorema deriva, per esempio, dalla speranza dei

piaceri che lo aspettano in avvenire, dalla stima e dai benefici che la sua scoperta gli

apporterà. Il dolore per una disgrazia è similmente il timore dei dolori e delle

difficoltà future. Ora poiché la speranza è per l'uomo la probabilità di vivere nel

futuro meglio che nel presente, essa suppone sempre la mancanza di un bene ed è per

ciò il risultato di un difetto, di un dolore, di un male. Il piacere morale non è che la

rapida cessazione del dolore ed è tanto più intenso quanto maggiore fu il dolore della

privazione o del bisogno.

Il Verri estende poi la sua dottrina anche ai piaceri e ai dolori fisici, facendo vedere

come molte volte il piacere fisico non è che la cessazione di una privazione naturale o

artificiale dell'uomo. All'obiezione che la tesi si può invertire, sostenendo con eguale

verisimiglianza che ogni dolore consiste nella rapida cessazione del piacere, il Verri

risponde che una simile generazione reciproca non si può dare, perché "l'uomo non

potrebbe cominciare mai a sentire né piacere né dolore; altrimenti la prima delle due

sensazioni di questo genere sarebbe e non sarebbe la prima in questa ipotesi, il che è

un assurdo" (Discorso, 6). Verri giunge a confermare la conclusione che Maupertuís

aveva tratto dal suo calcolo, e cioè che la somma totale dei dolori è superiore a quella

dei piaceri. Difatti la quantità del piacere non può mai essere superiore a quella del

dolore perché il piacere non è che la cessazione del dolore. " Ma tutti i dolori’ che

non terminano rapidamente sono una quantità di male che nella sensibilità umana non

trova compenso e in ogni uomo si dànno delle sensazioni dolorose che cedono

lentamente" (ivi, 6).

Anche i piaceri delle belle arti hanno la stessa origine: a loro fondamento ci sono

quelli che Verri chiama dolori innominati. L'arte non dice nulla agli uomini che sono

tutti presi dalla gioia e parla invece a coloro che sono occupati dal dolore o dalla

tristezza. Il magistero dell'arte consiste anzi nello " spargere le bellezze consolatrici

dell'arte in modo che ci sia intervallo bastante tra l'una e l'altra per ritornare. alla

sensazione di qualche dolore innominato, ovvero di tempo in tempo di far nascere

delle sensazioni dolorose espressamente, e immediatamente soggiungervi un'idea

ridente, che dolcemente sorprenda e rapidamente faccia cessare il dolore" (ivi, 8). La

conclusione è che "il dolore è il principio motore di tutto l'uman genere".

Da questi presupposti muove l'altro discorso di Verri Sulla felicità. Per l'uomo è

impossibile la felicità pura e costante, ed invece è possibile la miseria e l'infelicità.

L'eccesso dei desideri sulle nostre capacità è la misura dell'infelicità. L'assenza dei

desideri è piuttosto vegetazione che vita, mentre la violenza dei desideri può essere

provata da ognuno ed è talvolta uno stato durevole. La saggezza consiste nel

commisurare in ogni campo i desideri alle possibilità e perciò la felicità non è fatta

che per l'uomo illuminato e virtuoso.

IL ROMANTICISMO

Nella sua accezione più ristretta il termine “Romanticismo” indica il movimento

letterario nato in Germania, all’interno del cosiddetto circolo di Jena, negli ultimi

anni del XVIII secolo. Diffusosi in tutta Europa nei primi decenni del XIX esso trova

la sua cifra nell’esaltazione del “sentimento” contro il primato della ragione

illuminista.

Questa accezione limitata del Romanticismo rischia di evidenziare soltanto l’aspetto

artistico o letterario del movimento, mettendo in ombra altri fattori, di tipo più

squisitamente filosofico.1 Sarebbe più corretto allora parlare di “Fenomeno

Romantico” nei termini di una situazione mentale generale, di un atteggiamento

romantico, che si riflette nella letteratura come nella filosofia, nella politica come

nella musica o nella pittura, di cui fa parte integrante l’Idealismo post-kantiano.

Inteso in questo senso più ampio il Romanticismo si pone, storicamente, come grande

movimento culturale, sorto in relazione a determinate situazioni socio-politiche (il

fallimento della Rivoluzione, il cesarismo napoleonico, la Restaurazione, i moti

nazionali e così via) ed individuabile in alcune “tendenze” che connotano in generale

la Weltanschauung (la visione del mondo) romantica, ricca di contraddizioni, di

ambivalenze e coesistenze, riconducibili però ad un medesimo orizzonte

complessivo, nel quale si muovono gli artisti, i letterati e i filosofi della prima metà

dell’ottocento europeo. A titolo di esempio, le due componenti tipiche del

Romanticismo, l’esaltazione artistica del sentimento da un lato e la celebrazione

idealistica hegeliana della “ragione dialettica” dall’altro, sono posizioni soltanto

apparentemente contrapposte, poiché scaturiscono entrambe da un analogo

atteggiamento, tipico della cultura romantica: la polemica contro l’Intelletto

illuministico. Si tratterà allora di rintracciare alcune note ricorrenti della concezione

romantica che indicheranno certi autori i quali, pur nelle loro peculiarità, possono

essere definiti come romantici (Goethe, Novalis, Shelling e Schlegel, Fichte,

Shleiermacher), contro altri che, ad esempio, avevamo catalogato come illuministi

(Voltaire, D’Alambert, Diderot e Rousseau).

Le origini letterarie del Romanticismo sono generalmente ricondotte al movimento

dello Sturm und Drang (Tempesta ed impeto), uno dei più importanti movimenti

culturali tedeschi, la cui nascita si fa convenzionalmente risalire intorno al 1775. Il

nome si deve al dramma Wirrwar (Caos), pubblicato, nel 1776, da Friedrich

Maximilian Klinger (1752-1731), uno degli esponenti del movimento, a cui

aderirono anche i giovani Goete e Novalis. Lo Sturm und Drang contribuì, assieme al

Neoclassicismo, alla nascita del Romanticismo tedesco. Durante gli ultimi decenni

del secolo XVIII si sviluppò in Europa, soprattutto, in Germania e in Inghilterra e in

Italia, un clima in totale opposizione al contemporaneo neoclassicismo. Di questo

clima, definito pre-romantico, fanno parte Thomas Grey (Elegia scritta in un cimitero

campestre), James MacPherson (Canti di Ossian ), Vittorio Alfieri, Ugo Foscolo e

Alessandro Verri, oltre ai poeti dello Sturm und Drang.

Il Circolo di Jena.

Cuore e centro propulsore del movimento, il circolo letterario di Jena venne fondato

dai fratelli Fridrich e August Wilhelm Schlegel, nel 1795. Vi presero parte poeti

come Novalis (Friedrich von Hardenberg), ed una delle menti più rappresentative del

Romanticismo tedesco, come Shiller. A Berlino Friederich Shlegel fonda la rivista

“Athenaeum”, intorno alla quale si muoveranno il poeta Hoelderlin ed i filosofi

Shleiermacher, Fichte, Shelling e lo stesso Hegel, in seguito molto critico nei

confronti del cenacolo.

Caratteri generali del Romanticismo

L’atteggiamento che caratterizza maggiormente il Romanticismo tedesco è

l’aspirazione all’Assoluto. Questa affermazione lapidaria, somiglia molto ad una

formula vuota, da imparare a memoria. Va da sé, però, che per dare a questa

“formula” l’aspetto di un’affermazione sensata è indispensabile capire che cosa

intendiamo con il termine “Assoluto”. “Assoluto”, “Infinito”, “Sconfinato”, sono

termini ricorrenti nella produzione letteraria e filosofica del periodo che stiamo

prendendo in esame. E si riferiscono tutti all’insofferenza nei confronti

dell’ineludibile limite a cui è sottoposta, a vari livelli, la natura dell’uomo.

L’insofferenza per il limite propria dell’uomo romantico, mai pago della realtà così

com’è, lo spinge a vivere in uno stato di tensione volta a trascendere i suoi

orizzonti e definita dal termine tedesco Streben, con cui si esprime una concezione

della vita come sforzo incessante, tentativo continuo di superare qualsivoglia

ostacolo sia materiale sia spirituale (che si manifesta anche come struggimento,

anelito, inquietudine). Odisseo, Eracle e Giasone sono i simboli di questa ricerca

insoddisfatta, impegnati come sono in lotte con forze immani e divine. Così come al

centro della riflessione di Kant stava il concetto di limite, il Romanticismo si propose,

in modo simmetricamente contrario, il superamento di ogni limite certo: l’infinito non

è mai raggiungibile, ma è tuttavia avvicinabile in ciò che tende all’infinità; nelle sue

derivazioni può essere l’illimitato, l’immenso, l’incommensurabile, l’interminabile,

l’inesauribile, lo smisurato, lo sterminato, l’innumerevole, l’eterno, il trascendente,

l’indefinito, lo sconfinato. Attraverso questa cifra è possibile interpretare le diverse

componenti di questo multiforme movimento che improntò di sé diversi aspetti della

cultura nella prima metà dell’ottocento europeo.

Il primo, e più rilevante, di questi atteggiamenti è il ripudio della ragione. Per

ripudio non intendiamo il rifiuto della ragione in Toto, ma soltanto della ragione di

tipo illuministico-scientistico perché, ad esempio, Hegel, come vedremo, invece

ritiene che la ragione (di tipo dialettico) sia l’unico mezzo idoneo a cogliere la reale

essenza delle cose. La ragione sotto accusa è quella empiristico scientifica dei

Philosophes, incriminata in primo luogo del tradimento napoleonico e ritenuta

soprattutto anche incapace di comprendere la realtà profonda dell’uomo,

dell’universo ed, in alcuni autori, di Dio. Altre strade ed altri fini si prefigge la

generazione di poeti e pensatori che compongono la schiera composita degli aderenti

al Romanticismo.

Svalutata la ragione come strumento conoscitivo della realtà più profonda dell’uomo,

è innalzato il sentimento a valore predominante. Questo sentimento, qualcosa di

diverso e di più profondo del sentimento comunemente inteso, si presenta come un

insieme di emozioni vitali potenziate e nutrite dalla riflessione filosofica, al cui

confronto la ragione empirica e sistematica scade a pallido riflesso:

“Il pensiero è solo un sogno del sentimento” (Novalis).

Per questo motivo il sentimento è ritenuto, esso soltanto, in grado di “risalire le

sorgenti primordiali dell’essere”(= trovare il vero senso dell’esistenza).

“l’uomo è un dio quando sogna, un mendicante quando riflette” (Hölderlin).

La filosofia, però ( ma non la ragione scientifica), è al contempo ritenuta atto

costitutivo della poesia, componente essenziale, per alcuni romantici, e di

questo “sentimento”:

Il filosofo poeta, il poeta filosofo, è un profeta (Schlegel).

Dall’esaltazione del sentimento deriva il culto della poesia e dell'arte in generale,

vista come “sapienza del mondo” e “porta aurorale” della conoscenza, ossia come ciò

che precede, anticipa il discorso logico e nello stesso tempo lo completa. Al poeta si

conferiscono doti sacerdotali e profetiche che fanno di lui un esploratore

dell’invisibile, con poteri d’intuizione superiori a quelle dell’uomo comune che sa

servirsi solo della ragione logica:

“Il poeta […] rappresenta l’irrappresentabile, vede l’invisibile, sente il non sensibile”

(Novalis).

“Soltanto l’artista può indovinare il senso della vita” (Novalis).

La poesia da Novalis è intesa nel suo significato etimologico di Poiein (= fare, in

senso creativo), per cui essa produce la realtà, quella vera, quella al di là della

banalità del quotidiano.

La poesia e l’arte in generale assurgono nei romantici come Schelling, a valore

divino, capace di attingere le profondità originarie e rivelare l’Assoluto (eccolo qua)

quale bisogno inestinto ed inestinguibile dell’uomo, di fronte al quale la ragione si

deve necessariamente fermare. In molti autori l’arte rappresenta il modello

ermeneutico per eccellenza, la principale chiave di lettura della realtà, la sola che

consenta di operare quel travalicamento dei limiti conoscitivi ed esistenziali nei quali

si sente imprigionato l’animo romantico che consenta di operare il salto.

“ Il mondo è un’immensa opera d’arte generata dal poeta cosmico, l’Assoluto, di cui

il poeta umano è un riflesso” (Shelling).

“E’ nostro, o poeti, restare a capo scoperto sotto la tempesta del dio” (Hoelderlin)

“Ciò che resta lo stabiliscono i poeti” (Hoelderlin).

L’arte possiede gli stessi attributi della divinità, “l’infinità” e la “creatività”. L'uomo

razionale aveva confini, l’uomo morale ha la libertà, il poeta deve avere libertà

sconfinata. All’artista si riconosce la possibilità e la licenza di una libertà senza

confini e senza regole. La regina delle arti in questo periodo è considerata però la

musica, questa è la parola privilegiata per svelare il mistero dell’esistenza.

“La musica, è la più romantica di tutte le arti, il suo tema è l’Infinito. Essa è il

misterioso sanscrito della natura espresso in suoni” ( E.T.A. Hoffmann).

“La musica di Beethoven […] risveglia quel desiderio infinito che è l’essenza del

Romanticismo” (ETA Hoffmann).

Le stesse idee si ripresenteranno in Schopenhauer, il quale individuerà nella

musica la rivelazione della Realtà, scritta in forma di suoni. “Strumento

privilegiato di conoscenza”, “organo dell’infinito”, la musica è anche uno dei

modi per evadere dalla sofferenza umana.

Accanto all’arte, la Religione. Intesa come vago panteismo o come adesione ad una

confessione positiva, storica, la religione soddisfa molte delle domande dei

Romantici. Sapere immediato e immediata risposta alle domande dell’esistenza, il più

delle volte essa nasce come intimo bisogno di “dare un senso” alle cose, alla

sofferenza, al dolore ed alla morte. Spesso prende la forma di un sentimento

inesplicabile di divino, riconosciuto nella natura stessa, negli aspetti più misteriosi di

questa o più sconvolgenti, quando si trasforma in bellezza allo stato puro, quale ad

esempio un tramonto sereno sulle montagne, o nella ferocia travolgente di una

tempesta sul mare. Allora diventa il “sublime”, di cui aveva perlato Kant. Molte altre

volte tale bisogno religioso si trasforma nella ricerca di una fede codificata. Tipico è

il caso di Schlegel, che, dopo un iniziale momento immanentistico, si avvicina al

cattolicesimo, preferendolo al protestantesimo, anche e soprattutto in virtù del suo

complicato apparato esteriore, del suo cerimoniale sfarzoso e liturgico, della musica

dei canti (apprezzato dunque soprattutto da un punto di vista estetico). Si pensi allo

scrittore francese François-René de Chateaubriand, (considerato il padre del

Romanticismo francese) che nel suo Genio del Cristianesimo (1802) difenderà le

“meraviglie” ed i ”misteri” della religione, i riti, i culti, i sacramenti, le feste, le

istituzioni degli ordini e dei conventi.

Nello Streben, ansia o sentimento dell’infinito, si manifesta l’insofferenza per ogni

tipo di vincolo, assieme al desiderio di trascendere la realtà quotidiana, tipici della

cultura letteraria e filosofica del primo Ottocento. Questa concezione della vita come

inquietudine, aspirazione incessante, si traduce anche nel Sehnsucht, un

“desiderio” insopprimibile verso qualcosa di impossibile. È chiaro che in virtù

dell’indole, alcuni cederanno, con un sentimento di frustrazione, di fronte a questa

aspirazione non realizzata e di conseguenza la loro visione del mondo sarà venata di

Pessimismo. Di questa visione pessimistica Le ultime lettere di Jacopo Ortis di

Foscolo ne rappresentano uno splendido esempio. Il pessimismo cosmico di Leopardi

poggia su basi analoghe: l’uomo aspira all’infinito (nella conoscenza, nella capacità,

nella salute e nella vita stessa per intenderci) non potendosi spingere mai oltre al

finito la sua vita è tormentata dal dolore e dalla sofferenza. Esiste però anche un

Romanticismo Ottimista, quello convinto che l’uomo possa raggiungere questo

infinito. Di questa tendenza Hegel rappresenta il caso più lampante. Egli è convinto

che l’uomo possa, avvalendosi della ragione, raggiungere l’infinito ed è in questo uno

dei filosofi più ottimisti della storia, tanto da arrivare a dire che ogni negativo è

anche positivo. Anche Fichte e Schelling partono da premesse ottimistiche, sebbene

per loro l’Infinito sia raggiungibile esclusivamente con strumenti extra-razionali. Nel

Fichte, della tarda maturità, solo la fede consentirà un rapporto immediato con

l’Assoluto, mentre in Schelling questo rapporto sarà da ricercarsi attraverso il

fenomeno artistico.

Questo anelito verso l’infinito genera anche la Tendenza all’evasione, il desiderio di

vivere esperienze fuori dell’ordinario= Da ciò la predilezione romantica per le

atmosfere fantastiche e per tutto ciò che è espresso nei termini di meraviglioso,

atipico, irregolare, lontano, misterioso, magico, fiabesco, primitivo, notturno,

lugubre, spettrale. Un’attrazione per tutto ciò che va al di là del quotidiano, insomma,

del consueto, del normale, dell’usuale. Hoffmann è il poeta di questa tendenza. I

fratelli Grimm in questo periodo trascrissero e pubblicarono le fiabe della tradizione

tedesca. Non dimentichiamo Hoelderlin, che dipinge il paradiso perduto della Grecia,

quando gli dei camminavano di fianco agli uomini. Novalis che vagheggia il

Medioevo cristiano o Byron che sogna di perdersi nell’azzurro del Mediterraneo.

Collegata al motivo dell’evasione è quella del viandante che ricerca l’irraggiungibile.

Completamente diverso dal viaggiatore illuminista, curioso dei costumi stranieri e

delle diverse istituzioni politiche, il viandante romantico erra inquieto alla ricerca di

un’illusione continuamente vagheggiata, mai raggiunta né raggiungibile. Ricordiamo

il “Viandante su mare di Nebbia” di Caspar Friedrich, il famoso quadro, manifesto

dello spirito romantico, nel quale un personaggio di spalle guarda, verso un orizzonte

infinito, un paesaggio affascinante ma ostile immerso in una nebbia che genera un

senso di inadeguatezza. Il quadro, fa sì che lo spettatore provi una sorta di sublime

paura di fronte a ciò che non riesce a misurare sia dal punto di vista sentimentale che

visivo. A questo, del viandante, si accompagnano i due temi dell’armonia perduta

(l’uomo si sarebbe allontanato da una non ben precisata età dell’oro nella quale

avrebbe vissuto in totale armonia con madre natura) e quello della “nostalgia di

medioevo”. Il medioevo è vissuto quale esempio di società rispettosa della natura e

dei suoi cicli, in aperta polemica con la moderna società industriale ed il

“macchinismo” che in quegli anni si andava affermando, inteso, in senso romantico,

come sfruttamento e deturpamento dell'ambiente naturale.

L’amore costituisce un altro dei temi prediletti dei poeti e filosofi romantici.

“Vita e amore sono la stessa cosa […] c’è tutto nell’amore, amicizia, gioia, sensualità

e passione…”(Schlegel).

La Globalità, la ricerca di una sintesi tra anima e corpo, spirito e istinto,

sentimento e sensualità è la prima caratteristica dell’amore romantico. Schlegel

con la sua Lucinde esprimerà questo carattere dell’amore ed al tempo stesso la

ricerca di una donna nuova, emancipata dal paradigma matrimoniale, la quale,

abbandonati falsi pudori, sappia personificare, come la greca sacerdotessa

Diotima esaltata nel Convito platonico, il modello di una donna superiore,

capace di amare con la pienezza del proprio essere, senza freni alla passione ed

alla quale viene riconosciuta vera parità con l’uomo.

”Solo in te io vidi vera superbia e vera femminile umiltà”.

La ricerca dell’unita assoluta degli amanti è la seconda caratteristica

dell’amore romanticamente inteso, in modo che ciò che è due possa diventare

uno.

La tendenza dell’amore a caricarsi di significati simbolici e metafisici è la

terza, e forse la più rilevante, caratteristica. L’Amore tra uomo e donna, fisico e

spirituale, è visto come simbolo dell’universale Armonia, della congiunzione

uomo-natura, finito-infinito, uno-tutto. Ciò significa che nell’amore, l’assoluto

è già trovato, già raggiunto più che cercato.

Il romanticismo contribuisce anche al riconoscimento del valore della “personalità

individuale” e del suo groviglio di problemi (amore, dolore, morte) io, persona,

soggetto, accanto a genio ed eroe, diventano parole ricorrenti. La personalità è

esaltata soprattutto, quando è eccezionale. Il culto della personalità e del genio

nascono in questo periodo. Figure come Paganini e Liszt, come Garibaldi o Byron ne

sono l’emblema. L’eroe romantico per eccellenza viene ad essere identificato con

Prometeo, il Titano primordiale che rubò il fuoco agli dei per rischiarare la notte degli

uomini e per questo fu punito duramente. La sua personalità eccellente ha sfidato

l’ordine della natura, ha oltrepassato i limiti stabiliti ed ha rischiato in prima persona.

Questa tendenza alla celebrazione della personalità individuale, questa cultura del

genio, si sostanzia con altre determinazioni di un motivo che, solo apparentemente,

sembra ad essa contrapposto.

Il concetto romantico di Popolo, inteso come totalità organica, come un’unica

persona indivisibile che pensa e che sente, si sviluppa in questo periodo e coesiste con

quello di “individualismo”. A ben guardare però la stessa idea di uno spirito comune,

sviluppata in opposizione al vago cosmopolitismo illuminista, è già di per sé un

motivo individualistico, se intendiamo il popolo appunto come “personalità” unica

rispetto alle altre “personalità nazionali”. A questo concetto romantico di “spirito di

un popolo”, presente anche nella saga popolare delle fiabe dei Grimm, si lega l'idea

risorgimentale di Nazione, intesa in senso etnico, linguistico e religioso. E’ questa

un’idea di stampo politico e filosofico, sostenuta con forza da Fichte, nei suoi

“Discorsi alla nazione tedesca” e si è diffusa come reazione al dominio napoleonico,

prima, ed all'ordine, imposto all'Europa dal congresso di Vienna, poi. Uno dei motivi

che spinse i Grimm a trascrivere le fiabe della tradizione, retaggio culturale comune

dei popoli di lingua tedesca, fu il desiderio di aiutare la nascita di un’identità

germanica.

La Natura. L’amore per la natura affonda le radici nello Sturm und Drang e si

alimenta della “riscoperta” dello Spinozismo. Un frammento di Goethe s’intitola la

natura:

“Natura! Noi siamo da essa circondati e avvinti, senza poter da essa uscire e senza

poter entrare in essa più profondamente. Non invitati e non avvertiti, essa ci avvince

nel giro della sua danza e ci attrae nel vortice, finché, stanchi, non cadiamo tra le sue

braccia… noi viviamo nel mezzo di essa e le siamo estranei… Noi operiamo

costantemente su di essa e tuttavia non abbiamo su essa nessun potere … Anche

l’innaturale è natura: chi non la vede ovunque, non la vede veramente in nessuna

parte … non conosce passato e futuro, il presente è la sua eternità”.

Questo sentimento di ammirazione estatica per la grande madre, tipicamente

romantico, si esprime in una nuova concezione che si definisce ancora una volta per

antitesi nei confronti di quella emersa dall’illuminismo, promotore dalla Rivoluzione

Scientifica. Come sappiamo, da Galileo in poi la natura era considerata elusivamente

da un punto di vista meccanicistico, vale a dire, come insieme di relazioni

matematiche retto da leggi meccaniche escludenti ogni riferimento a presunti “fini” o

“scopi”. Questo aveva prodotto il rifiuto della concezione aristotelica e medievale,

del cosmo inteso come organismo vivente, retto da appetiti e pulsioni. Riprendendo

la visione greco-rinascimentale della Physis, i romantici ripristinano, in chiave anti

illuministica, una filosofia della natura di tipo organicistico (= la natura è una totalità

organica nella quale le parti esistono in funzione del tutto), animistico (= la natura è

una forza dinamica animata e vivente), finalistico (= la natura è una realtà strutturata

secondo determinati scopi, immanenti o trascendenti), spiritualistico (= la natura è

qualcosa di spirituale, uno spirito in fieri) e soprattutto dialettico (organizzata

secondo coppie d’opposti, di forze formate da un polo positivo ed uno negativo).

Quindi, come reazione alla dis-antropomorfizzazione ed alla de-spiritualizzazione del

cosmo effettuate dalla scienza moderna, i romantici ritengono opportuno ripristinare

(corsi e ricorsi della storia) l’antico collegamento tra l’uomo e la natura, asserendo

che entrambi posseggono la medesima struttura spirituale, il che autorizzerebbe alla

interpretazione psicologica dei fenomeni fisici ed a quella fisica dei fenomeni

psichici. Stabilendo quest’eguaglianza i romantici vedono nell’uomo una sintesi

esemplare del mondo, il compendio vivente del Tutto.

Da ciò consegue la anti-illuministica teoria della conoscenza: conoscere per i filosofi

romantici equivale a discendere in noi stessi, conoscere noi stessi per trovarvi in

chiave analogica la spiegazione dei fenomeni. Il poeta Shiller esprimerà in chiave

poetica quello che Shelling, il maggior filosofo della natura romantico, presenterà in

senso speculativo:

Tutto ciò che è in me e fuori di me è soltanto il geroglifico di una forza a me affine.

Le leggi della natura sono i segni cifrati che l’Essere pensante ha combinato insieme

per farsi comprensibile all’uomo. Ad ogni stato dell’anima corrisponde una qualche

immagine della creazione fisica […] un’attività piena di animazione viene da noi

detta “fuoco”; il tempo è una “corrente” che trascina con sé; l’eternità è un

“circolo”; il segreto si nasconde nel “buio” della notte e la verità ha sede nel

“sole”. Perfino il destino dello spirito umano è preannunciato nell’oscuro oracolo

della creazione: l’avvento della primavera, di ogni primavera che fa uscire dal

grembo della terra i germogli delle piante, mmi da elementi per interpretare

quell’imbarazzante enigma che è la morte e confuta l’incubo angoscioso che è per

me il sonno eterno. La rondine che d’inverno appare intirizzita e che in marzo

vediamo rianimarsi, il morto bruco che, rinato, torna a levarsi nell’aria come

farfalla, ci offrono una pertinente allegoria della nostra immortalità.

Il recupero di filosofi della natura “magica”, come Bruno, Telesio e Campanella, o

pensatori organicistici come Spinoza, influenzarono il pensiero dei poeti e dei filosofi

che respiravano questa atmosfera. Figure del passato come la platonica anima mundi

orientarono anche gli studi scientifici. Gli scienziati di quest’epoca (tra cui

Alessandro Volta, Giuseppe Domenico Botto, Jacobi e Amedeo Avogadro, patriota

risorgimentale che ricoprì a Torino la cattedra di “Fisica Sublime”), dunque, non si

interesseranno tanto di meccanica (come invece avevano fatto gli scienziati del

Seicento e del settecento), accantonata in quanto emblema del meccanicismo

illuminista, quanto di Elettricità ed Elettromagnetismo, i campi meno facilmente

riducibili alla meccanica. Lo studio dei campi magnetici e dell’elettricità sono

accomunati dal fatto che entrambi suggeriscono una sorta di quella vitalità della

natura ricercata dai Romantici: da Talete in poi, del resto, il magnete, con la sua

capacità di attirare il ferro, era spesso stato concepito come vivente e animato.

La Storia. L’interesse, o per meglio dire il culto, per la Storia è un altro aspetto del

Romanticismo. Nell’età del Romanticismo e della restaurazione avanzava una nuova

concezione della storia in grado di smentire quella illuminista, la quale era basata

sulla capacità degli uomini di costruire e guidare la storia con la forza della ragione.

Per gli illuministi, il soggetto della storia è l’uomo, per i Romantici invece risulta

essere una forza superiore all’uomo. La storia umana sembra essere diretta e guidata

da una provvidenza che supera gli accorgimenti politici e che dirige verso mete ignote

la grossa nave dell’umanità. Le vicende della rivoluzione francese e il periodo

napoleonico avevano dimostrato che gli uomini si propongono di perseguire alti e

nobili fini ma essi si frantumano dinanzi alla realtà storica; il secolo dei lumi era

tristemente tramontato nelle stragi del Terrore e il suo sogno di libertà era naufragato

nella tirannide napoleonica. Questo contribuisce, in questo periodo, a generare l’idea

che a tirare le fila della storia non siano gli uomini, bensì una potenza extra-umana,

concepita come forza, immanente o trascendente, per cui, sia che la vogliamo

ricondurre al Dio, cattolicamente inteso da Schlegel e da Chateaubriand, o

all’Hegeliano Spirito del mondo, la Storia appare come il prodotto di un intervento

provvidenziale. È questa Provvidenza che agisce nella storia secondo un suo disegno.

Di questo disegno ogni avvenimento, bello o brutto, costituisce l’anello di una catena

processuale complessivamente positiva. Questa concezione provvidenziale della

storia, presente in Manzoni ad esempio, risulta essere una visione ottimistica degli

avvenimenti storici, anche quelli più disastrosi, perché essi sono guardati come parte

di un disegno complessivo.

Questa nuova concezione romantica della realtà storica è agli antipodi di quella

illuminista. La pretesa degli illuministi francesi di rifiutare alcuni momenti della

storia umana in nome di valori validi universalmente (pace, benessere, libertà,

dignità) viene interpretata dei romantici come una pretesa a-storica di leggere gli

avvenimenti del passato alla luce del presente. Tale pretesa significa, primo, intentare

un processo alla provvidenza (che nella storia si manifesta) e, secondo, significa

misconoscere l’individualità e l’autonomia delle singole epoche storico-culturali che

hanno ognuna una specifica ragion d’essere in relazione alla totalità della storia.

Questo spiega perché lo storicismo romantico si accompagni per lo più ad una forma

di Tradizionalismo che tende a giustificare ed addirittura santificare l’accaduto

storico come espressione di una volontà superiore.

L’illuminismo francese aveva guardato al mondo in maniera umanistica ed è stato

una filosofia critica e riformatrice, che voleva liberarsi del passato, poiché in esso

scorgeva errori, pregiudizi, superstizioni e violenze, in particolare il Medio evo

ritenuta l’età della fame, della peste, dell’ignoranza e della superstizione.

Il Romanticismo tedesco, che guarda alla storia con schemi provvidenzialistici, si

configura come filosofia conservatrice, che carica di valore dogmatico (nello steso

modo in cui taccia di dogmatismo a-storico l’illuminismo) le istituzioni basilari del

passato, la famiglia, i ceti sociali, la monarchia, la chiesa ed il culto. E rivaluta nello

stesso tempo periodi giudicati oscuri dall’illuminismo come il Medio evo, che

diviene il periodo privilegiato.

L’illuminismo cosmopolita, tendeva a ritenere validi e ad applicare ovunque gli stessi

valori in cui credeva, senza tener conto delle differenze culturali dei diversi popoli, e

quindi a giudicare solo in nome di astratti principi e non di concrete realtà.

Il romanticismo è l’età in cui fioriscono le identità nazionali. In reazione

all’universalismo propugnato dagli Illuministi, si rivalutano le unità collettive, le

distinzioni tra popoli e tra culture. Nasce l’idea che “ciò che è giusto a Parigi può non

esserlo a Napoli”, questo a sottolineare quanto sia assurda l’universalità astratta degli

Illuministi. È buffo, però, che per affermare ciò, ed affermarlo in questo modo, i

Romantici utilizzino un’espressione tratta da un convinto illuminista come Vincenzo

Cuoco. Non è vero affermano che ciò che la ragione addita come giusto sia giusto

ovunque e comunque, senza tener conto delle condizioni materiali effettive (storico-

culturali) in cui ci si trova.

L’illuminismo è l’età delle macchine, della passione per gli Automati e della nascente

società industriale, della fede nel progresso scientifico inarrestabile.

Il Romanticismo, è l’età del rigetto di tale progresso. All’età della meccanizzazione

industriale e del “falso” progresso, che snaturano l’uomo costringendolo a ritmi

innaturali, all’abbrutimento, alla miseria contrario il romantico oppone il Medio evo.

Un medio evo idealizzato, che diventa l’era in cui vigeva la perfetta armonia

dell’uomo con la natura, in cui si lavorava con i ritmi delle stagioni, l’era ideale delle

imprese cavalleresche e della fede in Dio.

All’astrattismo universalistico dei Philosophes, i romantici si fregiano dunque di

sostituire uno “storicismo concreto”, al quale si connette la filosofia Politica, ricca di

contraddizioni ed opposti. Abbiamo visto che è di questo periodo il concetto

emergente di “Nazione”. All’idea di una libera “volontà generale”, risultato di un

patto (il contratto sociale di Rousseau) per mezzo del quale gli individui si associano

liberamente in virtù di un’esigenza comune e razionale, si sostituisce gradualmente

l’idea di “sentimento di appartenenza”, di “spirito del popolo”, della “nazione”, intesa

in senso di “organismo”, in senso aristotelico (in cui il tutto è superiore alle parti), al

quale gli individui che lo compongono si sentono legati, in virtù della comune razza,

della comune origine, della lingua e della religione. E proprio sul concetto di Nazione

possiamo notare le più clamorose incongruenze e le opposizioni tipiche del periodo

romantico.

In una prima fase, a dire il vero, gli ideali politici romantici tedeschi, come quello

proprio dello Sturm und Drang, non dissentono troppo da quelli illuministi francesi e,

risentendo della fiammata filo-rivoluzionaria, si fanno portatori di istanze anti-

statalistiche. I promotori dello Sturm und drang (Shiller e Goethe), salutata con gioia

la rivoluzione francese, si esprimono in forme di radicalismo repubblicano, di

ribellismo anarchico (Schelling) o a-moralismo antiborghese (lo Schlegel della

Lucinde), Fichte nelle lezioni sulla missione del dotto afferma addirittura che lo scopo

di ogni governo è di “render superfluo il governo” (lo vedremo meglio trattando

Fichte).

In una seconda fase però il Romanticismo tedesco, comincia ad elaborare schemi

politici sempre più conservatori. Partito dall’anarchismo, il Romanticismo tedesco

perviene al culto della Tradizione e dell’Autorità, finendo inevitabilmente per

convergere nell’alveo della Restaurazione. La filosofia politica del Romanticismo

tedesco, in altre parole, tende sempre più a svilupparsi in direzione statalistica e

statolatrica, lungo una linea teorica che da Novalis e da Schlegel arriva fino alla

teorizzazione dello Stato Etico di Hegel.

Una certa anima individualistica e libertaria del Romanticismo originario però,

continuò ad essere attiva soprattutto in Francia, in Italia ed in Inghilterra,

coniugandosi a proposte di tipo liberale e democratico. Per cui se da un lato, in

Europa, Romantico può essere sinonimo di “conservatore” e “statalista”, dall’altro

diventa l’equivalente di “liberale” e “patriota”, lo possiamo vedere in Giuseppe

Mazzini, massimo esponente della cultura romantica italiana.

Così mentre in Germania assistiamo alla corsa verso la restaurazione, quale reazione

all’invasione napoleonica lungo la quale si fa strada il mito della “nazione

missionaria”, cioè l’idea colonialistica del popolo “civilizzatore (celebrando sin da

Herder e da Fichte il “primato” della nazione tedesca e gettando le basi per la

successiva esaltazione nazionalistica del nazismo), negli altri paesi europei,

soprattutto in Italia, il culto della Nazione fa tutt’uno con il liberalismo (= la

salvaguardia dei diritti individuali), con la democrazia (= la teoria del popolo

detentore di sovranità), e con il patriottismo (= il desiderio di diventare una nazione

unita ed indipendente).

Conclusioni

Alla luce di quanto considerato finora possiamo adesso affermare, da un punto di

vista filosofico ed a titolo di riassunto, che i romantici, contrariamente a Kant, che

aveva costruito faticosamente e con rigore scientifico una filosofia del limite, cercano

in ogni modo ed ovunque, nell’arte, nella religione, nella bellezza, nell’amore, nella

natura e nella storia, l’oltre- limite, ossia quel qualcosa che rifugge le leggi

dell’ordine e della misura. L’infinito si qualifica come il protagonista principale

dell’universo culturale romantico.

Caratteristica dei poeti e dei filosofi tedeschi, è l’interpretazione dell’infinito in

termini di natura- divinizzata, su modello spinoziano. Nel primo Schelling, e

soprattutto in Hoelderlin, Schlegel, Hegel e Goethe, la “totalità”, è intesa come

totalità della natura divinizzata, alla quale l'anima romantica tende in un desiderio di

fusione, di compenetrazione. Un desiderio di assoluto che si coniuga con il panteismo

dei maestri rinascimentali, da Bruno a Spinoza. L’infinito è la natura nella quale

l’anima del “Romantico” cerca di fondersi.

“Essere uno col tutto, questa è la vita degli dei, questo è il cielo dell’uomo. Essere

uno con tutto ciò che ha vita, fare ritorno, in una beata dimenticanza di sé, nel tutto

della natura, questo è il vertice dei pensieri e delle gioie, questa è la sacra vetta del

monte, la sede dell'eterna quiete, ove il meriggio perde la sua afa e il tuono la sua

voce e il mare infuriato assomiglia all'ondeggiare d'un campo di spighe”. (Hölderlin) .

Fondamentale però per i Romantici resta quella concezione che vede l’infinito in

termini di Trascendenza rispetto al finito e considera l’infinito come Dio. Solitamente

la tendenza, negli autori romantici, è quella di passare dal modello panteistico a

quello trascendentistico.

L’accezione dell’infinito più eloquente in termini filosofici è in ogni modo quella di

infinito-come-Assoluto, come tensione spirituale. Espungendo dalla filosofia il

concetto che i due principi cardine della realtà (soggetto e oggetto) e della

conoscenza (forma e contenuto) siano irrimediabilmente separati, ossia ammettendo

che il soggetto non organizza semplicemente, con le forme a priori , il materiale che

riceve dall'esterno ma lo produce (come tenterà di dimostrare l’idealismo), allora il

mondo che vedo, per il fatto che sono io stesso a produrlo, potrò conoscerlo

perfettamente, totalmente, assolutamente, senza limite alcuno, con la conseguenza

che la ragione (e non l'intelletto) diviene, in senso anti kantiano, lo strumento

gnoseologico per eccellenza. In questo modo secondo gli idealisti, come vedremo,

l’uomo può e deve tendere all’infinito.

Al di là dei termini filosofici, questa tensione si può tradurre come un tentativo, una

vertigine, un’ebbrezza che colora di sé tutte le esperienze fondamentali dell’uomo,

desideroso di trascendere le barriere del finito, di andare oltre lo spazio, il tempo, il

dolore, la caducità e la morte.