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LA COMUNICAZIONE CON I GENITORI
DEL BAMBINO PREMATURO:
DALLA PATOLOGIA NEONATALE ALLA RIABILITAZIONE
Odoardo Picciolini, Chiara Vegni , Roberto Cerabolini
Premessa
La nascita prematura rappresenta ancora un evento relativamente frequente: si calcola che l’8-10% delle
nascite avviene prima del termine. Nell’ambito della popolazione dei prematuri sono peraltro i VLBW (very
low birth weight: peso alla nascita inferiore ai 1500 grammi) o ELBW (extremely low birth weight: peso alla
nascita inferiore ai 1000 grammi) o i nati con grave prematurità (età gestazionale inferiore alle 30 settimane)
a rappresentare la popolazione ad alto rischio sia di sopravvivenza che di sequele a distanza.
Il numero elevato è conseguente a infezioni materne con precoce rottura delle membrane, all’incremento
delle gravidanze multiple, effetto della procreazione assistita, e all’interruzione precoce della gravidanza in
situazioni di grave alterazione della crescita fetale.
L’assistenza perinatale rivolta a questi neonati ha mostrato evidenti progressi negli ultimi anni con
conseguente rilevante miglioramento della loro sopravvivenza, che ha raggiunto valori superiori al 90%.
(Fanaroff A, Hack M, 2003).
La possibilità di sopravvivenza, proporzionale a peso ed età gestazionale di nascita, si è spostata sempre più
in basso sia per peso (anche < 500 gr) che per età gestazionale (anche a 24 settimane o meno).
I fattori che hanno consentito questi risultati sono molteplici, dalla centralizzazione delle gravidanze ad alto
rischio alla formazione avanzata del personale di assistenza, alla prevenzione e cura della patologia cardio-
respiratoria neonatale del grave pretermine.
L’utilizzo crescente della terapia steroidea antenatale, la somministrazione di surfattante, le migliorate
tecniche ventilatorie con uso precoce di supporti non invasivi (CPAP nasale), hanno portato alla crescente
sopravvivenza.
Accanto alle misure terapeutiche, che consentono una migliore assistenza per i problemi organici del piccolo
neonato, negli ultimi anni sempre maggiore attenzione è stata dedicata alla gestione degli aspetti emotivo-
comportamentali e al sostegno alle madri: la care neonatale con l’utilizzo della marsupioterapia, con
attenzione alle cure posturali e al precoce attaccamento madre-neonato oltre ad avere incrementato la
possibilità dell’alimentazione naturale e la riduzione dei tempi di degenza, favorisce un più armonico
sviluppo del neonato, con positive ricadute sul suo outcome.(Kangaroo Mother Care Ed it. 2006).
Il grave prematuro che viene dimesso dalle terapie intensive neonatali è un soggetto tuttavia che necessita,
per il rischio evolutivo connesso alle sue caratteristiche e alla patologia che ha presentato in epoca neonatale,
di un follow-up multidisciplinare che ne segua lo sviluppo fisico e psicomotorio nella sua globalità,
favorendone la migliore qualità di vita a breve e lungo termine.
Circa il 10% dei VLBW può presentare una disabilità a distanza (Paralisi Cerebrale, ritardo mentale, deficit
sensoriale grave), mentre il 20% avrà disturbi “minori” dello sviluppo che potranno configurare in età
prescolare e scolare disturbi di attenzione, comportamento ed apprendimento. La frequenza di sequele
aumenta se il bambino alla nascita ha un peso inferiore ai 1000 grammi (disabilità 20%, anomalie minori 40-
50%).(Mercier C 2003, Bhutta AT 2002, Anderson PJ 2004, Marlow N 2004, Friedman H 2005).
Gli esiti psicomotori sono correlati al danno a livello cerebrale, che si manifesta come emorragia e/o
ischemia, la cui gravità dipende dall’estensione e dalla sede della lesione.
E’ opportuno tuttavia sottolineare le difficoltà che conseguono al precoce distacco e allontanamento dalla
madre e alla lunga ospedalizzazione, necessaria per consentire il raggiungimento delle condizioni di stabilità
ed autonomia del piccolo neonato e quindi la possibilità del suo ritorno a casa.
Di tutto questo si deve tener conto per una corretta gestione del bambino e della sua famiglia, una volta
superate le difficoltà iniziali.
La nostra esperienza indica l’opportunità che il piccolo sia inserito in un programma di follow up che si
propone da un lato l’individuazione precoce delle disarmonie dello sviluppo, dall’altro la formulazione di
proposte di intervento, considerando e integrando sia gli aspetti organici, che le difficoltà funzionali dei vari
settori dello sviluppo, da quello somatico a quello psicomotorio ed emotivo
Un servizio di follow up per il grave pretermine deve affiancare l’assistenza del pediatra curante e fungere da
riferimento, guidando il bambino e la sua famiglia, soprattutto in caso di patologia, nel difficile percorso del
programma riabilitativo.
In questo contesto si deve tener conto anche degli altri soggetti che sono strettamente implicati nella nascita
pretermine: in primo luogo della mamma, con i suoi sensi di colpa per non essere riuscita a portare a termine
la gravidanza e a realizzare il suo bambino ideale, che può sentirsi impotente, fino alla depressione, nel
timore di non essere in grado di saper riconoscere e rispondere ai bisogni del suo bambino così piccolo e così
fragile. E del padre, confuso e preoccupato anche per la propria compagna, col dubbio di non averle dato
sufficienti attenzioni durante la gravidanza, che avverte sulle proprie spalle la responsabilità di garantire la
sicurezza della famiglia. Ci sono nonni e parenti che qualche volta entrano in scena con l’intento di sostenere
i genitori affaticati e disorientati, col rischio di rompere i fragili equilibri di una coppia che cerca
faticosamente di adattarsi ad una situazione del tutto nuova.
Il bambino e i suoi genitori iniziano quindi il percorso di follow-up con l’insicurezza di chi non conosce
esattamente il proprio futuro, tanto più se alla nascita si sono presentati eventi patologici rilevanti.
In letteratura molti contributi (Stroul & Friedman, 1996; Winnicott, 1975) indicano l’opportunità che gli
operatori sanitari si pongano al servizio di una famiglia aiutandola per il tempo necessario a promuovere il
cambiamento e la ricostruzione di una maggior adeguatezza. In questa collaborazione tra specialista e
familiari non specialisti si declina la prospettiva della costruzione di un “ambiente terapeutico” (Cerabolini e
Comelli, 2006).
L’incontro di cure
La consapevolezza che un intervento sullo sviluppo del bambino e sulla relazione con i genitori rappresenta
un aspetto centrale nel follow-up del prematuro si è fatta strada nel tempo. Nel corso degli anni ci si è accorti
di come lo sviluppo del bambino e la relazione con i genitori richiedesse un percorso di cure, di
comunicazione e di presa in carico sempre più differenziato, con il coinvolgimento della famiglia. Non siamo
di fronte a una malattia, che si gestisce con linee guida, ma allo sviluppo di bambini ciascuno con le sue
peculiarità e spesso con le proprie diversità, uno sviluppo da comprendere, da osservare e da ascoltare, dei
genitori da aiutare nella acquisizione di competenze.
Lo sviluppo del bambino prematuro porta alla normalizzazione nella maggior parte dei casi. Tuttavia, nel 25-
30 % si manifestano anomalie cosiddette minori dello sviluppo motorio e cognitivo, e nel 10 % esiti
maggiori quali paralisi cerebrale infantile, tanto più frequenti quanto più l’età gestazionale e il peso alla
nascita si abbassano (Bhutta 2002, Wilson-Costello 2005). Il confine tra patologia e normalità non è subito
chiaro, talvolta lo diventa nel corso degli anni, e a volte ci chiediamo se esista davvero.
Ci siamo accorti che occorreva sviluppare competenze e formazione. Competenze nella diagnosi precoce di
nuove disabilità, prima non sperimentate. Abbiamo in carico bambini di 23-24 settimane di età gestazionale e
di 400-500 g. alla nascita sempre più numerosi, di cui solo ora conosciamo gli esiti a lungo termine.
(Marlow, 2004)
I genitori ci fanno delle domande. Rispondere alle loro domande, in modo da facilitare le relazioni ed una
crescita armoniosa senza pregiudicare il legame genitori-bambino non è facile. Le parole dei medici sono
comunque pesanti, ma non devono essere pietre.
Nel gruppo di lavoro sono state inserite nuove professionalità e intrapresi percorsi di formazione per tutti gli
operatori: molti di loro hanno avuto esperienze di gruppi Balint, training psicoanalitico, vissuti corporei.
L’approccio è diventato sempre più un approccio Family Centered Care. (Policy statement of American
Academy of Pediatrics, 2003) Si tratta di un nuovo modo di pensare intorno alle relazioni tra famiglie e
agenti di cure (health care providers). I professionisti Family-centered riconoscono il ruolo vitale che le
famiglie giocano nell’assicurare la salute e il benessere di bambini, ragazzi, adolescenti e membri delle loro
famiglie di tutte le età. I medici Family-centered partono dal presupposto che le famiglie, anche quelle che
vivono in circostanze difficili portano punti di vista forti (strengths) e importanti alle loro esperienze di cura.
Le persone sono trattate con dignità e rispetto. I professionisti comunicano e condividono con i genitori
informazioni complete e obiettive. Viene riconosciuta la forza e la individualità di ogni famiglia, rispettando
i diversi metodi di coping. La parola care è riferita alla famiglia, nell’accezione ampia di persone in relazione
biologica, emotiva o legale.
Una letteratura ormai ampia evidenzia come questo orientamento produca una riduzione dell’ansietà del
bambino e dei genitori, durante i ricoveri (King G., 1999). Si tratta di un modello di erogazione delle cure
che enfatizza l’importanza di fornire informazione, offrire ai genitori il controllo sull’intervento clinico,
rispettare il loro punto di vista, supportandoli nelle decisioni. L’approccio prevede un supporto parent-to-
parent, che, come evidenziato dalla letteratura1, aumenta la fiducia in sé e la capacità di problem-solving dei
genitori, e un supporto family-to-family, che migliora la salute mentale delle madri di bambini con malattia
cronica.
Nel Canada e negli Stati Uniti vi è una sempre maggiore richiesta di ricovero negli ospedali che adottano tale
modalità di erogazione delle cure. (King G., 1999)
Secondo l’Institute for Family-Centered Care (IFCC, 2002), vi è un crescente impatto della esperienza della
FCC, non solo sugli esiti clinici ed evolutivi a lungo termine, ma anche sulle relazioni famiglia-bambino,
sulla percezione delle cure da parte delle famiglie, e spesso anche sulle relazioni professionali nei gruppi di
lavoro. Infatti, per i professionisti questo metodo porta ad una diversa percezione del peso della disabilità
relativamente al proprio lavoro; ricoveri più brevi per i bambini; riduzione della istituzionalizzazione per
bambini con ritardo mentale; minori cause legali e calo di malpractice. Studi canadesi evidenziano che la
percezione dei genitori su informazione, supporto, comprensione e condivisione sono determinanti per gli
outcomes: la percezione su come ricevono il trattamento e la soddisfazione nei confronti dei servizi di
riabilitazione determina riduzione dello stress e benessere emotivo dei genitori; si modifica la percezione dei
problemi del figlio, in quanto si riducono lo stress, l’angoscia e la depressione con beneficio per i problemi
comportamentali dei bambini; si modifica la percezione dei sistemi di supporto, con l’attuazione di
informazione strutturata, newsletters, centri di accoglienza, gruppi di supporto, che producono un
miglioramento del funzionamento familiare.
Già Winnicott suggeriva ai pediatri, nei loro incontri con le madri, di dare un appoggio-senza-interferenza e
di “...riconoscere una madre buona ed offrirle tutta l’opportunità di maturare in vista del compito che
l’attende. Una madre può fare, e farà, degli errori, ma, se le servono a fare meglio in futuro, questi finiscono
per trasformarsi in un arricchimento” (Winnicott 1975, pag. 195-6).
I genitori possono anche rappresentare una preziosa fonte d’aiuto per l’intervento con il bambino. Scrive
Brafman: ”Molti genitori, una volta ottenuto l’aiuto di cui hanno bisogno, possono mutare il proprio
approccio al bambino e diventare degli agenti molto efficaci che operano per il miglioramento e la
risoluzione dei suoi problemi. Percependo diversamente il bambino, i genitori possono cambiare il modo in
cui lo trattano ...”. (Brafman, 2005, pag. 37-38). Tuttavia “alcuni bambini sono alle prese con problemi che
richiedono un aiuto maggiore di quanto qualsiasi genitore possa fornire e quindi, in una situazione del
genere, dobbiamo tentare di aiutare i genitori a capire e accettare i limiti di ciò che possono fare per il figlio”.
(ivi, pag. 41)
L’apporto che può fornire la famiglia è stato particolarmente approfondito nel campo della riabilitazione, ed
ha condotto gli operatori a ristrutturare il proprio intervento, prestando attenzione all’evoluzione del processo
adattativo che coinvolge l’intero nucleo familiare. (Pierro, 1994). Nella prospettiva ecologica ciò significa
interagire sia col bambino sia con la famiglia “per rendere naturale un percorso evolutivo improbabile (…)
agendo sulle interazioni in atto, modificando alcune caratteristiche dell’ambiente fisico (…) modificando
1 Afferma l’American Academy of Pediatrics (Policy statement, Pediatrics 2003): “Vogliamo realizzare la collaborazione tra genitori e professionisti ai diversi livelli dell’assistenza sanitaria: cura del bambino, sviluppo di programmi, formazione professionale, valutazione ed erogazione dei servizi. Fondamentale è favorire il supporto tra i genitori, così come tutte le iniziative politiche e istituzionali che provvedono al supporto emotivo, sociale ed economico per le famiglie. I bisogni di crescita del bambino e delle famiglie devono esssere considerati in tutti gli ambiti di erogazione delle cure”. Riflettendo su alcuni decenni di lavoro con famiglie, pediatri, professionisti della salute e istituzioni, l’American Academy of Pediatrics ha definito family-centered l’intervento di care basato sulla comprensione che la famiglia è la fonte primaria di forza e supporto per il bambino, riconosce, inoltre, che i punti di vista e l’informazione fornita dalle famiglie, dai bambini e dai giovani adulti sono importanti nella presa di decisione. Il policy statement sottolinea i principi chiave della FCC e i dati della letteratura recente che mette in relazione family-centered care ai migliori esiti di salute. La dichiarazione conclude con specifiche raccomandazioni affinché i pediatri possono integrare la FCC negli ospedali, ambulatori, settings di comunità, così come in sistemi di cura più estesi.
direttamente e indirettamente il modo di interagire dei familiari con il bambino, rendendolo ad essi più
comprensibile e migliorando le possibilità comunicative attraverso la costruzione di codici specifici per
patologia.” (Pierro, 1994a, pag. 20). Nei fatti ciò comporta un complesso intervento interdisciplinare (non
solo multidisciplinare), nel quale non basta moltiplicare il numero degli operatori e degli interventi, ma è
soprattutto necessario il loro coordinamento (ivi, pag. 24).
D’altra parte, la valutazione delle competenze familiari è sempre necessaria per comprendere la condizione
di un bambino. Il fatto che questi compia progressi appropriati all’età nei vari stadi dello sviluppo parla non
soltanto delle sue doti, ma indica anche che i genitori sono stati capaci di aiutarlo a realizzare quelle
conquiste.
L’esperienza milanese dell’Unità Operativa di Neonatologia e Terapia Intensiva della Fondazione
IRCCS Policlinico, Mangiagalli, Regina Elena
La nostra esperienza è relativa all’intervento su bambini a rischio neuroevolutivo, durante la degenza e dopo
le dimissioni (percorso di follow-up e interventi riabilitativi). La casistica è di 200 bambini all’anno, tra
bambini prematuri, bambini con patologie neurologiche, bambini con sindromi. (Picciolini O, 2002)
Dopo la dimissione l’intervento ambulatoriale si sviluppa tramite 2 strutture integrate:
• Servizio di Follow-up Neonato a rischio che effettua il monitoraggio neuropediatrico
• Servizio di Abilitazione e Riabilitazione a partenza neonatale che organizza gli interventi specifici
sul bambino e la famiglia.
L’intervento
neuroevolutivo, a carattere multiprofesionale, comprende:
• valutazione dello sviluppo neurofunzionale
• intervento abilitativo e riabilitativo
• supporto alle competenze genitoriali
L’incontro di cure tra operatori, bambini e genitori si sviluppa attraverso luoghi e tempi diversi, in cui si
incrociano le aspettative e le speranze, le competenze, i successi e anche le impotenze degli attori della cura,
come è rappresentato dalla tabella 1:
Luoghi e tempi dell'incontro di cure
I luoghi e le fasi dell’intervento
1. Prima assistenza e decision making
Il primo momento è l’assistenza in sala parto, momento difficile per il medico in quanto l’outcome
neuroevolutivo complessivo dei VLBW (Very low birth weight), pur essendo notevolmente migliorato
rispetto a 10 anni fa, evidenzia esiti ancora alti (Vegni C, 2004)
In uno studio su 41 bambini nati presso la nostra Unità Operativa, nel periodo 2000-2004, con EG ≤ 26
settimane (extremely preterm o EPT) e valutati a 2 anni, osserviamo che il 15 % presenta anomalie maggiori
(paralisi cerebrali infantili ed altre disabilità gravi), il 45% anomalie minori (impacci, clumsiness, deficit
cognitivi, disturbi di apprendimento e socializzazione), mentre il 40% degli EPT ha uno sviluppo normale.
Per questo i medici si chiedono quanto e fino a quando assistere (Orzalesi, 2005).
Un’indagine conoscitiva su un ipotetico caso di
grave sofferenza neonatale in un neonato pretermine
e sul conseguente comportamento del medico e
sull’influenza dei genitori è stata condotta a livello
europeo (EURONICS 2002), intervistando medici
di alcuni paesi europei (Francia, Germania, Italia,
Lussemburgo, Olanda, Regno Unito, Spagna,
Svezia), sulla condotta da assumere in un caso
simulato di nascita gravemente prematura.
Era proposto il caso seguente: “Una donna entra in
travaglio alla 24a settimana compiuta. Nessun
segno di distress fetale. Peso stimato 560 gr. Alla
nascita Indice di Apgar a 1 minuto: 1”. Alla
domanda “Che comportamento assumeresti in sala
parto subito dopo la nascita?”, rispondeva
“Comunque nessuna assistenza” il 63% dei medici olandesi, il 18% dei francesi, il 4% dei medici italiani.
Alla successiva domanda “Terreste in considerazione la scelta eventuale dei genitori di non fornire alcuna
assistenza al neonato?” rispondeva “Sì” il 40% dei medici in Gran Bretagna, il 20% circa in Spagna,
Germania e Francia, il 6% in Italia.
La simulazione clinica proseguiva: “Alcuni giorni dopo le condizioni del neonato peggiorano. Una eco
cerebrale dimostra un’emorragia massiva unilaterale, una dilatazione dei ventricoli con interessamento del
parenchima cerebrale periventricolare. I genitori del neonato vengono informati.” Alla domanda
“Continuereste l’assistenza senza coinvolgere nella scelta i genitori del neonato?” rispondeva “Si”, il 36%
dei medici in Italia, il 20% in Spagna, il 3% in Inghilterra e Francia.
Infine si proponeva: “Immaginiamo che assecondando le scelte dei genitori sia stata presa la decisione di
interrompere l’assistenza, somministrate farmaci col proposito di accelerare la morte del neonato?” ; a
questa domanda rispondevano affermativamente il 38% dei medici in Francia, il 12% in Olanda, e nessuno in
Italia.
Ciò indica quanto sia complesso il decision making, come non solo l’aspetto tecnico, ma le radici culturali, le
problematiche etiche, unitamente al ruolo dei genitori condizionano le scelte cliniche.
2. L’intervento nelle prime fasi di vita: la Care
Il nostro primo contatto con il neonato è vicino alla culla.
Le domande che l’operatore si pone sono “Quale processo il bambino sta cercando di portare a termine?
Quale è il progetto del caregiver che osserva il bambino accanto alla culla? “What is the infant attempting to
accomplish?, What has the professional caregiver planned next for the infant?”(Als, 1996).
L’intervento si sviluppa attraverso le competenze di un team multidisciplinare comprendente neonatologo,
fisiatra, terapista della riabilitazione, psicomotricista, logopedista, psicologo.
Accanto ad un primary professional team, che si occupa delle cure primarie al neonato, della sua
sopravvivenza, e della stabilizzazione, poi, esiste un developmental team, che si occupa dello sviluppo delle
funzioni adattive del neonato: care e intervento abilitativo, con la possibilità di avvalersi di tecniche
specifiche.
La care ha lo scopo di:
- promuovere la stabilità del sistema neuro vegetativo e dei parametri vitali: frequenza cardiaca, respiratoria,
saturazione di ossigeno;
- facilitare l’organizzazione e la stabilità degli stati comportamentali, con periodi di sonno alternati a periodi
di veglia quieta;
- facilitare la maturazione del sistema motorio, attraverso metodi di handling e holding, ricercando la
flessione e la simmetria del capo sul tronco, la posizione sul fianco con adeguato sostegno alla parte
posteriore del corpo;
- favorire lo sviluppo delle competenze alimentari: suzione non nutritiva e poi alimentazione per os anziché
per gavage.
Anche l’ambiente di cure svolge un ruolo importante nella maturazione neurocomportamentale del bambino:
il neonato è contenuto nel nido e avvolto nel wrapping (telino), poi vestito con calzine e body. Altre misure
sono finalizzate alla protezione degli stimoli invasivi: riduzione della luce con telo coprincubatrice, tono di
voce basso e attenzione ai rumori ambientali da parte degli operatori; contenimento cutaneo attraverso la
mano dell’operatore durante l’assistenza.
L’intervento abilitativo si avvale anche di tecniche specifiche quali il massaggio, l’ascolto della voce
materna (Tomatis A 2002), la marsupioterapia o kangaroo mother care (Kangaroo Mother Care, 2006),
tramite la quale si ricerca il contatto pelle a pelle madre-bambino.
3. Il coinvolgimento dei genitori
Mentre continua l’intervento con il neonato si approfondisce l’intervento con il genitore. Parte integrante
della care è promuovere l’interazione con i genitori,ai quali vengono trasmessi gli accudimenti “abilitativi”: i
genitori sono guidati nel contatto attraverso le mani, eseguendo movimenti lenti con il bambino in postura
raccolta; sono guidati nelle prime esperienze alimentari del bambino e durante l’igiene. Tutte le cure, anche
le procedure per la riduzione del dolore sono svolte con il coinvolgimento dei genitori,
Infine si organizzaano momenti specifici di incontro degli operatori di supporto alle competenze genitoriali
(Fonagy P 1997).
Da circa 4 anni si svolgono gruppi con i genitori. Ogni 15
giorni il neonatologo, il fisiatra, la fisioterapista, la
psicologa e l’infer-miere incontrano i genitori dei bambini
ricoverati: partecipano in media 12-14 genitori.
Il gruppo risponde al bisogno di sapere e diventare più
competenti, da parte dei genitori. L’obiettivo è aiutare i
genitori a sentirsi sostenuti nel percorso di cure del
proprio bambino, sperimentando una condivisione della
propria esperienza con altri genitori, valorizzare la
presenza della madre in reparto e infine arricchire la
comunicazione personale-genitori.
Il metodo prevede incontri su temi specifici di carattere
informativo, ma l’ascolto delle domande esplicite ed
implicite che emergono dagli interventi dei partecipanti e
l’attenzione a favorire lo scambio tra genitori, costituiscono lo strumento privilegiato per tutti gli operatori
presenti alla riunione.
I genitori propongono le angosce e le preoccupazioni per la salute del loro bambino; la loro competenza
genitoriale viene messa a dura prova dalla necessaria dipendenza dagli esperti ai quali è affidata la cura del
proprio figlio. Le madri riportano nei loro racconti il sentimento di grande colpa per non aver potuto portare
a termine quell’adeguato contenimento del proprio bambino che costituisce la naturale aspettativa di tutte le
madri.
I temi affrontati risultano di grande rilevanza
nel sostenere il padre e la madre
nell’assunzione della loro genitorialità.
Riguardano principalmente: genitore ideale e
genitore reale, l’impotenza nella terapia
intensiva neonatale, le nuove responsabilità
nella terapia postintensiva, la dimissione e la
separazione dall’ambiente di cure e dagli
operatori, il ruolo genitoriale e la modalità per
essere un genitore competente, la crescita del
bambino e il significato da attribuire ai suoi
comportamenti.
Il gruppo dei genitori che si incontra in modo
stabile favorisce l’avvicinamento al bambino
reale.
4. La dimissione
Il momento della dimissione è molto delicato per i genitori, in quanto da una parte viene a mancare la
struttura ospedaliera che è stata vissuta come protettiva per la sopravvivenza fisica del bambino e, dall’altra,
sentono rinnovata la sofferenza di genitori che non sono stati capaci di portare a termine la gravidanza,
fornendo al bambino le condizioni più adeguate alla crescita.
I fili che hanno tenuto i loro bambini in vita, che li hanno nutriti, sono diventati una realtà mentale da cui è
difficile separarsi, sono ancora nella mente dei genitori.
I medici rassicurano, ma talvolta allontanano, o per sensi di colpa o per la sofferenza prodotta in loro dalle
comunicazioni. L’accompagnamento dei genitori è fondamentale. Per questo prima della dimissione del
neonato dal reparto, le stesse persone che seguiranno il bambino al follow-up incontrano i genitori.
I genitori hanno la possibilità di conoscere già in reparto gli operatori che svolgeranno gli interventi, che in
tal modo forniscono una garanzia di continuità nell’ aiuto alla crescita.
5. Il percorso di follow-up
Il Servizio di follow-up è uno strumento di diagnosi, prognosi e di intervento con la funzione di:
• definire tempestivamente la normalità e le anomalie di sviluppo,
• comunicare ai genitori le valutazioni e rassicurali, quando possibile,
• supportarli nella comprensione dei disordini osservati – predisporre gli interventi di modulazione e
riabilitazione, rivolti alla coppia madre-bambino
Ai genitori viene restituito l’insieme della valutazione, in colloqui congiunti, da due o più figure
professionali presenti negli incontri delle visite di controllo (fisiatra, psicomotricista, fisioterapista,
psicologa).
Gli interventi precoci e la riabilitazione sono parte integrante del follow-up, strumento non solo per
individuare, ma anche per affrontare i disordini di sviluppo del prematuro.
La valutazione clinica ha indirizzato la
metodologia di lavoro man mano che ci mostra-va
il tipo e la qualità delle ano-malie, osservate.
I risultati hanno guidato la messa a punto dei
metodi di osser-vazione, svilup-pando negli anni
ipotesi e strategie di intervento per il bambino e la
famiglia, consen-tendo, infine, di definire le
caratteristiche del lavoro interdisciplinare, i ruoli e
le funzioni del team multiprofessionale attualmente
presenti.
Si è sviluppato un modulo di intervento per bambini
con disabilità. Sono stati sperimentati nuovi
interventi di prevenzione, quali i gruppi mamma-
bambino.
6. L’intervento mamma-bambino
La nascita prematura può determinare una compromissione delle funzioni di autoregolazione e di
attaccamento, che giocano un ruolo primario nello sviluppo neurosensoriale ed emotivo del bambino.
Il bambino presenta un corpo ed una mente non attrezzata a far fronte all’impatto con le stimolazioni esterne
e interne, che gli provocano sensazioni catastrofiche (pianti incontenibili, crisi respiratorie, vomiti, etc..). I
nostri interventi sono rivolti ad aiutare le madri a mettersi in relazione con i messaggi non verbali del
bambino, cercando di trovare insieme a loro, attraverso l’interazione di gioco, la premessa per una apertura
fiduciosa del bambino verso il mondo esterno.
In questa esperienza si modellano le nuove capacità e le rappresentazioni mentali che costituiscono il nucleo
della fiducia di base, primo codice del sapere. Il lavoro trasformativo, proposto dagli operatori, è lento e
difficile perché le
esperienze originarie
hanno fatto percepire alla
mente del bambino un
tipo di
rappresentazione di sé e del mondo poco rassicurante che lui sente come unica e immodificabile. Così i
comportamenti causati dalle sue iniziali delusioni rischiano di divenire le modalità con cui affronterà le
esperienze evolutive successive: inibizione o instabilità.
Beebe e Lachman (Beebe B, Lachmann FM 2002) rilevano che la qualità della coordinazione interattiva
madre-bambino a 4 mesi è predittiva dell’attaccamento e dello sviluppo percettivo e cognitivo a 2 anni.
Sulla base di questi concetti un gruppo di 36 bambini VLBW, nati nel 2001, esenti da anomalie maggiori,
sono stati randomizzati in due gruppi (n=18), paragonabili per peso alla nascita ed età gestazionale (Giannì
2006). Nel gruppo di intervento la coppia madre-bambino partecipava ad incontri di gruppo, 2 volte al mese,
nel primo anno di vita, condotti da una psicologa ed una psicomotricista. L’intervento era basato sulla
regolazione
delle emozioni e sulla promozione delle competenze percettive e cognitive all’interno della interazione
madre-bambino. Il gruppo di controllo non effettuava alcun intervento. Entrambi i gruppi sono stati valutati
con la Griffiths Mental Development Scale, a 12, 24 e 36 mesi. A 36 mesi di età, i bambini del gruppo di
intervento, confrontati con il gruppo controllo, hanno evidenziato punteggi significativamente più alti nelle
scale personale-sociale, coordinazione occhio-mano e ragionamento pratico.
I risultati suggeriscono che l’intervento agisca favorendo lo sviluppo della identità, della rappresentazione
simbolica e della capacità di astrazione nel bambino, confermando le ipotesi di partenza. Nonostante la
necessità di effettuare ulteriori studi, con campioni più numerosi, un intervento precoce sulla qualità della
interazione madre-bambino sembra possa incidere positivamente sull’outcome neuroevolutivo del VLBW.
6. La comunicazione di patologia
Si tratta di un processo, che si costruisce attraverso momenti successivi nel Servizio di Abilitazione e
Riabilitazione. Dobbiamo partire dalle aspettative del genitore: che relazione immaginava con il suo
bambino, e che bambino sta ora osservando?
La comunicazione di patologia interessa l’area della relazione genitore-bambino, rompendone l’equilibrio,
modifica le aspettative del genitore nei riguardi del figlio, mortifica l’immagine di sé come genitore
competente, ferisce ciascun membro della coppia nella sua capacità di generare un figlio sano. Per il genitore
il bambino reale si fa diverso dal bambino fantasticato, e la malattia del bambino evoca bisogni di
dipendenza totale. La comunicazione col genitore può essere centrata sul danno (il danno ipotizzato, l’esame
strumentale, i segni di allarme, i rischi per lo sviluppo) oppure sul genitore (come sarà il mio bambino,
camminerà, parlerà, cosa saprà fare, come sarà il mio rapporto con lui, come sarò io, le mie difficoltà, la mia
accettazione...). Non può non tenere conto di com’è il genitore: (chiede troppo, non chiede nulla, nega, è
troppo angosciato, troppo distante, troppo conflittuale, troppo depresso; oppure è preoccupato, triste, ma
sufficientemente capace di chiedere e di porsi in relazione con il bambino e con il personale...) né
dell’operatore, con la sua esperienza professionale, le sue competenze, la cultura e i valori, la formazione
personale, il bisogno di trasmettere contenuti, il bisogno di essere terapeuta.
Le difficoltà che ha il genitore le possono avere anche il medico o l’infermiere; sono difficoltà di ascolto,
difficoltà a tacere, difficoltà a comprendere di cosa ha bisogno quel genitore, difficoltà a offrire un
contenimento (uno spazio e un tempo per esprimere il dolore, potersi arrabbiare, essere indirizzati, trovare
soluzioni).
E’ importante ascoltare ed astenersi dal giudizio, saper aspettare se il genitore non è pronto. Saper
selezionare ciò che il genitore può recepire, ciò che il genitore desidera sapere o non sapere in quel
momento. Tutte le comunicazioni che facciamo non devono minacciare il legame madre–bambino.
7. La consegna della diagnosi
Alla base della comunicazione della diagnosi vi è la presa in carico clinica: solo in un rapporto di fiducia la
diagnosi può essere comunicata.
Quando i meccanismi adattivi dei genitori stentano a funzionare, possono crearsi molte difese in loro, che
rendono difficile non tanto accettare quanto capire e condividere. La rabbia e il dolore non facilitano la
compliance.
Il genitore deve sentire che dall’altra parte c’è competenza, accoglienza, comprensione, condivisione,
soluzioni possibili. Il genitore deve percepire che sarà sostenuto nella storia dolorosa che sta iniziando, che
vi sarà condivisione nel percorso, che pur nella sofferenza si possono ricercare soluzioni, che vi è un gruppo
di professionisti in grado di aiutare il bambino nella sua crescita.
Il professionista deve modularsi sulla capacità del genitore di riceverla: la diagnosi deve essere data quando
ci sentiamo pronti a proporre soluzioni e quando il genitore sembra capace di ricercare soluzioni. Possiamo
“consegnarla” se il genitore è in grado di comprenderla ed elaborarla, se diventa per lui uno strumento per
costruire, non quella storia che il genitore si aspettava, ma un’altra storia possibile. Come il padre di Giorgio,
che rivolgendosi al bambino di un anno, dice: “Il dottore ci sta dicendo che dovremo masticare proprio tante
tavolette di neuroni”.
Altre volte il genitore non è in grado di accogliere la diagnosi. La mamma di Lisa: “Dottore come va la mia
bambina?”,Dottore: “La sua bambina..…”. Mamma di Lisa: “La mia amica mi dice che sembra una bambina
del tutto normale, Lei cosa ne dice?”. Dottore: “La sua …”. Mamma: “Io la vedo bene, è allegra, fa di tutto”.
Il genitore potrà solo essere accompagnato nell’avvicinarsi alla diagnosi. Potremo essere specchio delle sue
parole, a volte vi sarà un’accettazione se sapremo ricevere i suoi attacchi e le sue negazioni. Altrimenti la
diagnosi diventa un cuneo che si frappone tra noi e il genitore, ma soprattutto tra il genitore e il bambino.
In questi casi il bambino sarà un bambino impoverito non tanto dalla patologia, ma dall’assenza di
riconoscimento., e sarà anche molto difficile l’integrazione delle parti di sé, la ristrutturazione delle
aspettative, delle abitudini e delle attitudini.
Non possiamo cambiare la pci, ma possiamo aiutare il bambino a cambiare, il bambino cresce, cambia
comunque; è indispensabile avere in mente che i genitori hanno bisogno di tempo per trasformare il bambino
immaginario nel bambino reale (Ferrari A 2005).
E poi: cosa comporta essere caregivers di un soggetto “diverso” non solo dal punto di vista biologico, ma
anche rispetto alle aspettative? Come promuovere la costruzione di competenze adattive, accettando
consapevolmente i limiti? Come non fare del male con le nostre parole, non pregiudicare la costruzione di un
legame di attaccamento madre-bambino?
Ci sembra necessario, in primo luogo, proporre domande aperte, stimolare la narrazione, ricercare, infine,
una collusione riparativa che aiuti i genitori a superare i sensi di colpa del rifiuto.
L’accompagnamento dei genitori tiene conto di come è il genitore, segue il genitore nelle tappe della
consapevolezza e della evoluzione clinica del bambino.
A volte la gestione dell’incertezza costituisce una dura prova in primo luogo per il medico, in particolare nei
casi in cui non ci sono ancora certezze sulla prognosi dei disturbi presentati dal bambino. Allora,
fronteggiare l’ansia del genitore che chiede con insistenza certezze, che non sa accettare né attendere, può
rivelarsi difficile, perché il medico può sentir intaccata la propria competenza e la propria reputazione
professionale. Ma non basta la modificabilità del paziente e della famiglia, anche l’ambiente di cure deve essere strutturato
in maniera da favorire negli operatori il senso di appartenenza al gruppo di cura.
E’ il contatto precoce degli operatori con il genitore, quando inizia il confronto con il bambino reale, che
permette al genitore di non perdersi d’animo. E’ l’esistenza di un gruppo che condivide il progetto sui diversi
aspetti del bambino, che fa sentire il genitore sostenuto, curato e capace. E’ la possibilità di usufruire di tipi
di trattamento diversificati (non solo rieducativo) con professionisti interni e/o messi in rete, che fa sentire al
genitore che sta facendo quanto è possibile per il proprio bambino.
E’ fondamentale l’abilitazione dei genitori, anche attraverso il supporto associativo fra genitori che permette,
lentamente, lo sviluppo di una vita relazionale e sociale e ne consolida il legame con il luogo di cure.
E questa è riabilitazione.
7. Il volontariato
In tale prospettiva può rivelarsi utile il ricorso a relazioni di aiuto, fornite attraverso il sostegno di volontari
che, intervenendo a domicilio dopo un’adeguata preparazione, offrono ai genitori una condivisione
dell’impegno di accudire il bambino, la possibilità di un rapporto confidenziale, l’opportunità di dedicare più
tempo agli interessi e alle relazioni esterne, spesso mortificate dai carichi d’impegno e dalle attenzioni
ansiose rivolte al figlio. Tale intervento concede, in primo luogo, momenti di respiro ai genitori,
alleggerendo il loro costante impegno nella cura di un figlio con esigenze “speciali”. Si può, così, migliorare
la qualità di vita del nucleo familiare, grazie ad una miglior organizzazione dei genitori, e degli eventuali
fratelli, nell’impiego del tempo libero.
Per quanto fortemente sentito, il bisogno di “respiro” è particolarmente difficile da ammettere da parte dei
genitori, per via del sovraccarico di responsabilità, dei sensi di colpa e del bisogno di potersi fidare della
persona che si rende disponibile ad accudire il figlio, fiducia che talvolta non viene accordata neppure a
badanti o baby sitter.
Per essere accolto, il volontariato proposto a questi genitori deve perciò possedere caratteristiche “forti”, sia
per quanto riguarda la formazione e la supervisione dei volontari, sia per la disponibilità continuativa dello
stesso volontario per un tempo consistente (mesi o qualche anno), anche se limitato a uno-due interventi
settimanali.
In tal modo, anche questo intervento di carattere sociale, interfacciato con l’équipe sanitaria e riabilitativa,
può fornire un importante contributo nel facilitare le condizioni di vita del bambino e del suo nucleo,
attenuare il rischio dell’emarginazione sociale, contribuire allo sviluppo psicologico del bambino.
Conclusioni
L’intervento comporta da parte dei professionisti abilità tecniche specifiche e personali competenze
relazionali che richiedono formazione e training specifici per operare in un gruppo di lavoro
multiprofessionale.
E’ la consapevolezza della stretta relazione tra valutazione (competenze prognostiche), intervento
(competenze riabilitative) sviluppo ed outcome (conoscenze sull’evoluzione somatica e neurofunzionale,
cognitiva ed emotiva del bambino), che garantisce la competenza complessiva e l’armonia del team
multiprofessionale.
Il gruppo si pone come contenitore dei problemi di sviluppo del bambino e delle ansie e delle attese dei
genitori. Il suo lavoro aiuta a completare ciò che si è interrotto con la nascita prematura, a riparare le
disarmonie, a sviluppare fiducia e capacità di comprendere.
Dopo il primo contenitore (utero materno), contenitore della vita, che ha interrotto troppo presto la sua
funzione, e il secondo (la terapia intensiva neonatale), che assicura la sopravvivenza e la maturazione
biologica, il gruppo di follow-up si pone come un terzo dispositivo, proiettato verso il futuro, di facilitazione
della crescita e delle funzioni adattive e mentali.
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