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INDICE
INTRODUZIONE....................................................................................................... 3
PARTE PRIMA
APPROCCIO TEORICO........................................................................................... 6
CAP. 1FENOMENOLOGIA ED EVOLUZIONE DEL FENOMENO.................................................7
CAP. 2LO STUDIO DEGLI ATTORI POLITICI ...............................................................................20
CAP. 3STUDI ORGANIZZATIVI ......................................................................................................38
CAP. 4PER UNA LETTURA PIU’ SOCIOLOGICA DEL TEMA DELLE RICERCHE SOCIO-
POLITICHE...........................................................................................................................70
CAP. 5L’APPROCCIO EPISTEMOLOGICO.....................................................................................88
PARTE SECONDA
METODOLOGIA ................................................................................................... 111
INTRODUZIONE ..................................................................................................................111
CAP. 1LA PROGETTAZIONE DELLA RICERCA.........................................................................114
CAP. 2LA REALIZZAZIONE DELLA RICERCA ..........................................................................136
2
PARTE TERZA
RICERCA EMPIRICA........................................................................................... 156
CAP. 1I RICERCATORI: LA GAMMA DELLE RICERCHE ........................................................ 157
CAP. 2I RICERCATORI: LOGICHE E PRATICHE D’USO .......................................................... 199
CAP. 3I DECISORI: LA GAMMA DELLE RICERCHE................................................................. 251
CAP. 4I DECISORI: PRATICHE D’USO – LE STRUTTURE ....................................................... 271
CAP. 5I DECISORI: PRATICHE D’USO – IL PROCESSO DECISIONALE................................ 296
PARTE QUARTA
CONCLUSIONI ...................................................................................................... 391
ABSTRACT
(ITALIANO) ............................................................................................................ 399
(ENGLISH) .............................................................................................................. 400
BIBLIOGRAFIA..................................................................................................... 401
3
INTRODUZIONE
Questa ricerca si occupa di alcuni attori sociali particolari, gli attori politici, e di come essi
usano le ricerche socio-politiche che comissionano ad agenti esterni.
Gli attori politici sono stati oggetto di numerosi studi e ricerche. Lo stesso vale per le ricerche
sociali utilizzate dalla politica, particolarmente i sondaggi d’opinione.
Per varie ragioni, che verranno esplicitate nel corso del testo, ritengo che questi lavori non
abbiano esaurito tutti gli interrogativi e gli ambiti d’interesse e che, anzi, ad essi sia possibile
applicare con successo delle prospettive diverse, meno consuete, e più prettamente
sociologiche.
L’uso massiccio di sondaggi telefonici, focus group e altri strumenti è un fatto ormai assodato
della politica al giorno d’oggi.
L'immissione di questi oggetti nel campo della politica si inserisce nella vera e propria
rivoluzione culturale che ha attraversato la politica degli ultimi decenni, con origini
riconducibili a processi di medio-lungo periodo come la mediatizzazione della sfera pubblica,
la secolarizzazione, la scomparsa dei tradizionali partiti di massa, la personalizzazione e
spettacolarizzazione della politica, lo sviluppo del marketing politico-elettorale, la
professionalizzazione della politica
Nel complesso intreccio di relazioni fra i campi della politica, dei media, della cultura che si è
affermato nella modernità, la crescita dell’utilizzo di ricerche nel campo della politica
rappresenta un fenomeno ormai consolidato, che tiene assieme logiche, dinamiche, pratiche e
interessi di più campi.
Le scienze politiche, la sociologia politica e della comunicazione, le stesse discipline, anche
professionali, della comunicazione politica e della metodologia della ricerca hanno in effetti
studiato a lungo questo tema.
Altre conoscenze provengono dalla discussione pubblica, in cui spesso sondaggi e affini sono
protaginisti.
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Cosa resta ancora da dire a riguardo?
Mi sembra di poter affermare che le conseguenze sul sistema politico siano state
abbondantemente trattate dalla letteratura delle scienze politiche. Allo stesso modo, il
dibattito sulle metodologie è andato avanti negli anni, con contributi provenienti soprattutto
dalla statistica sociale.
Che cosa dunque un approccio sociologico può aggiungere a queste considerazioni?
Io credo che sia possibile e di generale interesse una rilettura delle questioni, fatta con le lenti
della sociologia e con gli attrezzi della ricerca qualitativa sociologica.
Molti aspetti sono ancora per molti versi oscuri e poco chiari del fenomeno sociale
dell’immissione nella politica di determinati strumenti di ricerca sociale.
Innanzitutto credo che sia di grande interesse studiare le modalità e le routine attraverso le
quali gli strumenti di ricerca vengono utilizzati nel campo della politica. Non sappiamo
molto, infatti, di cosa avviene nelle war room dei partiti o dei comitati elettorali nel momento
in cui si decide di commissionare un’indagine, oppure di quando se ne analizzano i risultati
oppure di quando si studiano le strategie e i messaggi della comunicazione.
Non credo sia per nulla chiaro come i politici utilizzino le ricerche sull’opinione pubblica. A
partire dalla progettazione dell’indagine, i dubbi sono molti: chi prende l’iniziativa, con quali
obiettivi, con quale procedura, attraverso quale rete di relazioni. La stessa formulazione
dell’indagine è una fase altrettanto ignota: la scelta degli argomenti, chi stila la lista delle
domande, chi segue il procedimento all’interno del partito, con quali rapporti con il vertice.
Per non parlare poi del momento critico dell’utilizzo dei risultati. Qui si innestano una serie
di questioni ampie, che arrivano a sfiorare l’epistemologia degli strumenti, la normativa e
l’etica dei professionisti. Il momento dell’utilizzo dei risultati è infatti il più delicato e quello
a cui, ovviamente, corrisponde il maggior carico di aspettative.
In quale modo le ricerche vengono utilizzate? Che tipo di influenza hanno nell’attività degli
attori politici? Come intervengono nei processi che portano ad assumere delle decisioni? E
che legame hanno con le scelte e le strategie di comunicazione politica?
La ricerca finora non si è occupata di questi aspetti o, al massimo, li ha dati per scontato.
Nei casi invece di ricerche più ampie, è stata la metodologia utilizzata che ha impedito di
accedere al dominio delle pratiche d’uso.
Qualunque sia la loro origine, non credo si debbano sottovalutare queste carenze.
5
La comprensione delle routine delle organizzazioni politiche permette di cogliere molti
aspetti relativi ai significati che si producono nelle interazioni e alle rappresentazioni degli
attori. E queste hanno influenza sostanziali sulle caratteristiche stesse dell’organizzazione,
sulla sua cultura e sui suoi modi di agire.
L’obiettivo di questa ricerca è dunque quello di comprendere meglio quali sono le pratiche
d’uso delle ricerche commissionate da attori politici italiani di diverso ambito d’attività
(partiti, attori locali, staff operanti all’interno di contesti istituzionali) e di diversa
collocazione politica.
La descrizione e comprensione delle pratiche è mirata a cogliere i significati che si producono
nelle interazioni e, in particolare, il senso attribuito dagli attori alle ricerche e al loro utilizzo.
La ricerca inoltre si è posta l’obiettivo di cogliere le interazioni di queste pratiche con alcuni
ambiti particolari dell’attività degli attori politici, e particolarmente quelli della
comunicazione politica e del processo decisionale.
La tesi si avvale di metodologie di ricerca di tipo qualitativo, attraverso interviste in
profondità a due categorie di soggetti: i ricercatori/professionisti (fornitori di ricerche
scientifiche e consulenze), utilizzati come testimoni privilegiati, e i decisori (i politici), i veri
soggetti dello studio.
Viene inoltre proposto un approccio teorico alla questione significativamente differente da
quanto presente in letteratura.
Sono convinto che i dubbi che ancora rimangono nella comprensione del fenomeno
dipendano da una lettura che è ancora carente di un approccio metodologico qualitativo. E
colmare, almeno in parte, questo vuoto è l’obiettivo principale della ricerca qui proposta.
7
CAP. 1
FENOMENOLOGIA ED EVOLUZIONE DEL FENOMENO
L’utilizzo dei diversi tipi di analisi demoscopiche nel campo della politica è un fenomeno
relativamente recente, del quale è interessante analizzare la fenomenologia e l’origine.
1.1 Modernità, sfera pubblica e comunicazione politica
La sfera pubblica nella modernità
Da un punto di vista sociologico è innanzitutto da rilevare come la questione dell’uso delle
indagini demoscopiche nel campo della politica sia stata univocamente connessa alla
relazione fra le élite politiche e l’opinione pubblica, nelle varie forme in cui essa si presenta.
L’esistenza di una sfera pubblica è stata approfonditamente descritta da Habermas (1971). Il
modello proposto dal filosofo e sociologo tedesco assumeva l’esistenza di uno spazio di
incontro fra l’opinione pubblica e le élite politiche, all’interno del quale venivano costruiti e
ri-costruiti i processi finalizzati alla creazione del consenso e del dissenso.
Ma il modello “classico” descritto da Habermas nel corso del secolo scorso viene
profondamente messo in discussione da processi di lungo periodo che portano all’emergere di
un nuovo modello di sfera pubblica sempre più mediale e delle nuove pratiche del fare
politica che esso traina con sé.
I grandi mutamenti della sfera pubblica avvenuti nel XX secolo offrono una cornice di
significato che consente di inquadrare efficacemente una serie di fenomeni complessi, di
natura storico-sociale.
Il lungo e lento processo che ha portato all’avvento delle moderne democrazie, soprattutto
attraverso l’estensione del suffragio e l’avvento di elezioni sempre più libere, è solo una parte
di questo processo.
Piuttosto, senza il rischio di incorrere nel determinismo tecnologico, l’avvento dei mezzi di
comunicazione di massa è uno dei momenti più importanti per la creazione delle nuove forme
di sfera pubblica. Lungi dal rappresentare una semplice conquista tecnica, i mezzi di
8
comunicazione di massa hanno investito pesantemente i modelli sociali di relazione e di
costruzione del sé (Thompson 1998), creando le basi anche per una definizione diversa del
rapporto fra cittadinanza e politica. I mezzi di comunicazione di massa, e segnatamente la
televisione, hanno mediatizzato la sfera pubblica facendo emergere l’importanza decisiva di
forme controllate e razionali di comunicazione politica (Mazzoleni 1998).
Parallelamente, un altro fenomeno di lungo periodo tipicamente sociologico incide nel
contesto in cui operano gli attori politici. Il processo storico di affermazione della razionalità
descritto da Weber ha, nel nostro secolo, come emblematica espressione il processo di
secolarizzazione che Lyotard ha efficacemente descritto con il termine di “caduta delle grandi
narrazioni”. Un mutamento di portata impressionante, che all’interno del campo della politica
ha generato un vero e proprio “mercato” di potenziali elettori mobili (Parisi, Pasquino 1977),
cioè non legati ad alcuna struttura ideologica e, perciò, potenzialmente aperti ad ogni
soluzione di voto. La secolarizzazione dell’elettorato, che in Italia è stata accelerata
definitivamente dalla crisi del 1992-1993, ha portato ad una crescita della competizione
elettorale, da condurre grazie al rinnovamento totale e rivoluzionario delle tecniche di
comunicazione politica.
La “nuova” comunicazione politica e l’apertura a competenze esterne
Quanto descritto sopra ha, ai fini della nostra indagine, la conseguenza di aver fatto nascere la
comunicazione politica, così come la conosciamo oggi.
Non vi è dubbio che, dacché esiste la politica, esistono anche delle pratiche comunicative che
consentono ai governanti di gestire il consenso. Ma è altrettanto vero che i grandi mutamenti
sociali che abbiamo descritto (anzi, appena accennato, a onor del vero) nel paragrafo
precedente, ci consentono di dire che la nascita di uno specifico corpus di pratiche legittimate
e specialistiche di comunicazione politica, tali da poter assumere lo status di “disciplina”, è
una conquista sostanzialmente del secolo scorso (Mazzoleni 1998). E, per giunta, con
connotazioni temporali decisamente differenti: primi decenni del secolo negli Stati Uniti;
secondo dopoguerra per la maggior parte degli stati europei.
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La “nuova” comunicazione politica risente pesantemente dell’influsso e della presenza dei
media, così come lascia intendere la formula della mediocrazia, coniata proprio allo scopo di
sottolineare l’influenza del campo mediale su quello politico. Questa relazione ha delle
conseguenze strutturali sulle attività di comunicazione. L’imposizione di esigenze mediali
quali la personalizzazione, la frammentazione e la spettacolarizzazione (Mazzoleni 1998),
rivoluzionano le pratiche della comunicazione politica, rendendo sempre più indispensabile
un approccio specialistico. Gli stessi cambiamenti intervenuti nel sistema politico, con
fenomeni sempre più intensi di leaderizzazione, vanno nella stessa direzione. Nasce così
quella che Cayrol dipinge efficacemente come «la nuova santa trinità: la televisione, i
sondaggi, la pubblicità» (Cayrol 1986).
Le caratteristiche di questo nuovo modo di comunicare la politica sono ovviamente
molteplici, ma almeno un paio si presentano come particolarmente rilevanti.
Innanzitutto la nuova comunicazione politica è caratterizzata dalla necessità di importare
strumenti innovativi – ma già rodati, affidabili e certi – che sostanzialmente “prende a
prestito” dagli studi delle organizzazioni economiche e dal marketing.
Nasce così il marketing politico-elettorale (Rodriguez 2001), cioè una riorganizzazione, a fini
consapevolmente di persuasione, delle strategie e delle pratiche comunicative, basata su
alcune premesse di fondo. Si fa strada l’idea che l’azione politica possa essere studiata con
modalità simili a quella delle grandi organizzazioni burocratiche (in primis le aziende), intese
secondo la razionalità di stampo weberiano.
D’altro canto la razionalizzazione dell’attività politica porta ad un’altra commistione con il
mondo economico, e cioè all’idea che alla politica possa essere applicato un modello di
analisi di tipo economico-classico: che esista un “mercato” elettorale (Mannheimer, Sani,
1987) comparabile a quello economico e che i candidati, in ultima analisi, possano essere
“venduti” come si vendono i prodotti.
È insomma la cultura stessa del marketing che entra nelle routine del fare politica,
rivoluzionando completamente la scena dell’intera attività politica, non solo di quella relativa
alla comunicazione.
È in questo processo che cominciano ad avere grande importanza le tecniche di analisi
dell’opinione pubblica ed emerge con forza il ruolo-guida del sondaggio d’opinione ed
elettorale, che è senz’altro quello che si afferma con la maggiore rapidità (Natale, Pagnoncelli
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2001). La necessità di costruire strumenti di comunicazione più efficaci e di controllare il
consenso e la relazione con gli elettori porta la politica a spogliarsi dell’improvvisazione e
dell’intuito, al fine di inserire tecniche e metodologie di ricerca con caratteristiche di
scientificità. I politici sentono sempre più l’esigenza di conoscere le caratteristiche dei
pubblici prima di poter decidere. E risolvono questa loro esigenza utilizzando in misura
sempre più massiccia strumenti considerati “scientifici” e dunque in grado di fornire letture
non più arbitrarie.
Ma l’incertezza e la complessità che derivano dalla necessità di saper utilizzare e gestire
queste nuove competenze costringono il campo della politica ad aprirsi non solo alle tecniche,
ma anche agli uomini provenienti da altri campi.
È “l’ascesa dei consulenti politici” (Sabato 1981) nella politica: pollster, campaign manager,
media trainer e varie forme di spin-doctor, che, ancora una volta a partire dagli Stati Uniti,
iniziano a supportare le organizzazioni politiche nella loro ricerca e gestione del consenso.
A dire il vero, non si tratta solo di un’importazione di specialisti, esistono due facce del
fenomeno. Da un lato infatti si assiste alla crescita di un certo livello di professionismo e di
professionisti che iniziano, come detto, a dialogare con il campo della politica. Ma, dall’altro
lato, si assiste ad una progressiva professionalizzazione delle stesse organizzazioni politiche –
favorita dai cambiamenti determinati dalle nuove tecnologie disponibili alla politica (Negrine,
Lilleker 2002) – che provoca un mutamento sostanziale delle forme dei partiti, sempre più
guidati da “esperti” con competenze precise (Norris 2000; Blumler, Kavanagh 1999;
Mancini, 2001).
La situazione italiana
Merita un accenno la particolarità della situazione italiana.
L’Italia non è esente dai fenomeni descritti, ma presenta un sistema politico in cui quegli
stessi fenomeni arrivano con qualche anno di ritardo.
È infatti negli ’80 del secolo scorso che comincia a prendere forma quella necessità di
“scientificità” e di professionismo nella politica che abbiamo descritto sopra. Anche sulla scia
della liberalizzazione forzata del sistema televisivo, molti partiti iniziano un dialogo stretto e
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stabile con aziende e professionisti delle ricerche sull’opinione pubblica, in alcuni casi
dotandosi anche internamente di competenze precise (Rodriguez 2001). Iniziano ad emergere
anche pratiche nuove nella comunicazione politica, con un accenno a forme di populismo
mediatico ancora embrionali, ma che hanno segnato anche l’immaginario collettivo. La figura
del leader socialista Craxi è l’emblema di una gestione del consenso basata su nuovi modelli
di rapporto fra elettori ed eletti e su strategie di comunicazione audaci e innovative, anche se
non sempre efficaci.
Sempre negli anni ’80 prendono forza i primi tentativi di avvalersi di analisi scientifiche
dell’elettorato e del comportamento politici. E quello che era un utilizzo sporadico assume le
caratteristiche di una vera rivoluzione culturale (Rinauro 2002). I partiti iniziano a rivolgersi
ad organizzazioni specializzate, in primo luogo le università, per commissionare pesanti e
complessi rapporti sociologici sulla composizione degli elettorati, sui flussi elettorali, sulle
stato dell’opinione pubblica. Questi primi strumenti sono ben lontani dall’agilità, dalla
velocità, dalla semplicità che consentirà invece al sondaggio telefonico di affermarsi
prepotentemente.
I primi sondaggi iniziano comunque ad emergere verso la fine degli anni ’80, anche grazie al
superamento di alcuni vincoli che li rendevano meno interessanti: le nuove tecnologie
informatiche (in particolare il metodo CATI) e la diffusione definitiva del telefono nelle case
di tutti gli italiani sono le due condizioni che consentono al sondaggio di possedere tutte le
carte in regola per entrare di prepotenza nel campo della politica (Natale, Pagnoncelli 2001;
Natale 2004).
Ma la vera rivoluzione avviene negli anni ’90, sotto la spinta di un fenomeno di
rinnovamento per certi versi unitario e basato su tre tappe: la crisi dei partiti sotto i colpi delle
inchieste giudiziarie, le nuove leggi elettorali di struttura maggioritaria, la “discesa in campo”
di Silvio Berlusconi (Gasperoni 2007; Natale 2004b).
È quest’ultimo soprattutto il momento deflagrante per la comunicazione politica in Italia. La
provenienza stessa del leader di Forza Italia dal mondo della pubblicità e della televisione
commerciale, attraverso il massiccio uso da lui fatto delle strutture di marketing interne della
sua azienda (Poli 2001), consente al leader milanese di mettere in campo un apparato di
strumentazioni, di tecniche, di saperi che mai erano stati utilizzati nella politica italiana. Al di
là di ogni tipo di valutazione politologica, l’innovazione rappresentata da Forza Italia e dal
12
suo leader è di portata rivoluzionaria e cambierà per sempre il modo di fare politica in Italia,
condizionando nel tempo l’azione di tutte le forze politiche di primo piano (Rodriguez 2001).
È in questo momento che anche in Italia viene toccato l’apice dell’analisi dell’opinione
pubblica applicata alla politica (Marturano 1995). L’uso che viene fatto di sondaggi telefonici
e focus group è massiccio ed esasperato, manifestando per la prima volta in Italia, non solo
obiettivi di studio dell’opinione, ma anche di persuasione elettorale, attraverso una politica di
lancio dei risultati di fantomatici sondaggi sui media nazionali, a smuovere gli elettori
indecisi sotto la pressione dell’effetto band wagon (Natale 2004).
Oggi fra le conseguenze più rilevanti di quella rivoluzione vi è la diffusione totale, a tutte le
latitudini della politica e dei media, dello strumento “scientifico” di analisi dell’opinione
(Diamanti 2003): trasmissioni televisive pressoché quotidiane, lunghe inchieste sui giornali e
ovviamente una “guerra” di cifre in occasione delle principali elezioni, come dimostrato dalle
recenti polemiche sulla correttezza dei sondaggi pre-elettorali (compresi quelli “americani”
citati da alcune forze politiche) nelle elezioni dell’Aprile 2006 (Sani 2006; Bosio 2006).
Un approfondimento è possibile sul tema della professionalizzazione.
Mancini (2001) ha segnalato alcune caratteristiche del fenomeno della professionalizzazione
del campo politico in Italia, applicabile sia al campo della comunicazione che a quello delle
ricerche demoscopiche.
Innanzitutto, la professionalizzazione non si presenta secondo un profilo omogeneo, ma viene
a definirsi dall’incontro di due fenomeni differenti. Il professionismo, infatti, riguarda il
ricorso a figure di specialisti esterni generalmente mutuati dal mercato; la
professionalizzazione, invece, è un fenomeno che tocca la natura stessa delle organizzazioni,
modificandone gli apparati (Mancini 2001, pag. 30).
In secondo luogo, l’autore descrive una seconda caratteristica del modello italiano di
professionalizzazione degli attori politici, individuata anche da altri studi (Rodriguez 2001).
L’approccio alle nuove tecniche e l’iniezione di pratiche professionali nell’organizzazione
politica è ancora occasionale e legata a obiettivi specifici, non sistematica e integrata.
La si può dunque assimilare al “modello dello shopping” elaborato da (Mancini 2001). Lo
shopping model infatti descrive un modello in cui sono le situazioni e i bisogni contingenti a
determinare il ricorso a competenze professionali, tipicamente per fare cose che
l’organizzazione non sa fare. Uno stadio dello sviluppo evolutivo delle organizzazioni
politiche ancora lontano dalle fasi di maturazione complete, in cui l’approccio è sistematico e
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integrato, tanto non solo da influire nelle strategie e nelle prassi delle organizzazioni, ma
soprattutto di modificarne la cultura organizzativa.
Questo sviluppo rallentato è visibile anche in una terza caratteristica della
professionalizzazione del campo politico italiano. Spesso, infatti, l’inserimento di pratiche
professionali dall’esterno si incontra con le necessità di mantenere comunque attive alcune
determinanti di natura politica. Ciò, in concreto, si traduce in una sorta di professionismo
endogeno (Mancini 2001, pag. 35). Esso può assumere forme diverse come la crescita di
importanza e la valorizzazione di competenze di figure organiche al partito oppure la ricerca
di un legame di tipo politico e non solo puramente professionale anche con il professionista
esterno. In entrambi i casi, la maturazione del processi d professionalizzazione risulta non
completa e costituisce figure ibride (Plasser 2000; Blumler, Gurevitch 2001).
Modernità, incertezza e avvento degli strumenti “scientifici”
Da un punto di vista di teoria sociologica, l’evoluzione del campo della politica appare
guidata da una necessità profonda, storica, strutturale di professionalizzazione,
specializzazione, oggettività e scientificità da parte delle classi politiche, alle prese con un
mondo che non è più possibile affrontare con le sole armi del fiuto e del talento politico.
A livello generale, l’analisi dei fenomeni profondi che hanno determinato l’avvento di
sondaggi e focus group sulla scena della politica non rappresenta certo un’eccezione nel
panorama della sociologia. In pieno accordo, infatti, con le teorie sulla modernità e sulla
modernità radicalizzata (Giddens, 1994), il lungo excursus storico-sociologico discusso nei
paragrafi precedenti ci mostra come sia la continua crescita del livello di incertezza il
principale protagonista di questo racconto. Non mi sembra il caso di riproporre in questa sede
il lungo e prolifico dibattito sulle caratteristiche e le conseguenze della modernità, che ha
visto contributi di Lyotard, Bauman, Beck, Sennett, solo per citare i più noti. Piuttosto, la
sostanza del discorso sociologico che mi pare sia alla base dell’esplosione delle analisi
dell’opinione pubblica nella politica è da rintracciare in quel circuito di disaggregazione,
crescita dell’incertezza e fiducia nei sistemi esperti che Giddens segnala come centrale della
condizione della modernità radicalizzata.
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1.2 Lo studio delle ricerche socio-politiche
Al di là dell’evoluzione storica e socio-politica di cui si è data una veloce e approssimativa
esposizione (e che, per certe parti, verrà approfondita nei capitoli successivi), lo studio del
fenomeno delle ricerche, del loro uso nel campo della politica e delle conseguenze che questo
ha portato ha avuto grande importanza negli studi sulla comunicazione nel campo politico ed
è stato analizzato sotto punti di vista differenti.
Gli studi metodologici
Gli studi metodologici si sono occupati dei metodi e delle tecniche, analizzandone la “tenuta”
e i punti deboli. Si sono sostanzialmente occupati dell’efficacia di questi strumenti nella loro
pretesa di leggere la realtà sociale.
In particolare, lo strumento che è stato messo maggiormente sotto indagine è il sondaggio
telefonico, sia d’opinione che elettorale, sul quale, dal punto di vista della progettazione e
della conduzione, sono stati sollevati numerosi interrogativi sulla reale efficacia e sul metodo
utilizzato per produrli.
Il dibattito sui metodi di realizzazione si è misurato innanzitutto sui limiti impliciti allo
strumento, che rendono impossibile la realizzazione di sondaggi “scientifici”, riducendo
l’alternativa a sondaggi più o meno “corretti” (Natale 2004).
All’interno dei confini tracciati da questa delimitazione, numerosi autori si sono concentrati
sugli aspetti tecnici e metodologici.
Natale (2004), ad esempio, si concentra sulle specificità del metodo di campionamento delle
indagini telefoniche, mostrando una sostanziale fiducia nelle sue possibilità.
Sullo stesso tema, altri invece (Marradi 1997) mostrano come, da un punto di vista logico e
statistico, il problema del campionamento rimane un punto aperto e dolente per il sistema dei
sondaggi, in quanto le pratiche realmente adottate e adottabili non corrispondono ai parametri
utilizzati per definire la validità della rilevazione e delle analisi.
Un’altra questione fondamentale è quella dei non-rispondenti (Bosio 1997), che si presenta
come un fenomeno in continuo aumento, che mina alla base le possibilità conoscitive del
sondaggio stesso, visto che esclude fette di elettorato potenzialmente interessanti e
significative.
15
Il fenomeno dei non-rispondenti appare tuttora uno dei temi principali da affrontare, visto che
la sua incidenza è in continua crescita, a seguito del minor utilizzo del telefono fisso, della
lontananza dallo stesso di categorie importanti come i giovani e gli immigrati, della
saturazione delle inchieste e promozioni telefoniche, del rinnovato valore attribuito alla
privacy.
Quello che complessivamente emerge, dunque, è una riconsiderazione della validità del
sondaggio, che deve essere posta in relazione con alcuni fattori quali l’assoluta discrezionalità
del ricercatore, le limitazioni date dai limiti tecnici e dai costi di realizzazione, l’importanza
di una adeguata trasparenza e oculatezza nella comunicazione dei risultati.
La prospettiva critica
Sempre da un punto di vista di metodo, esistono studi e posizioni che si sono occupati della
effettiva possibilità, per un sondaggio telefonico, di cogliere un qualche tipo di “opinione
pubblica”. In questo problema si innescano problematiche di ordine generale sulle
caratteristiche stesse dell’opinione pubblica e della sua formazione, che, secondo alcuni
autori, fra cui Bourdieu (1976), non sarebbe “cristallizzabile” in un dato numerico.
La critica di base riguarda la definizione implicita di opinione pubblica come semplice
sommatoria di opinioni individuali, definizione che sta alla base del sistema dei sondaggi e
del metodo di rilevazione.
Secondo gli autori di questo filone critico, ciò non corrisponderebbe alla realtà dei processi di
formazione delle opinioni, per numerosi motivi.
Innanzitutto perché l’idea che tutti gli intervistati abbiano di per sé un’opinione è irrealistica.
La rilevazione su questi individui corre il rischio di stimolare delle pseudo-opinioni, tramite il
meccanismo della desiderabilità sociale (Roccato 2003).
In questo modo un secondo postulato implicito cade, e cioè quello che tutte le opinioni
individuali abbiano lo stesso valore.
Infine il concetto di somma lascia fuori dal campo tutte le forme di interazione fra gli
individui, che invece, da Habermas in poi, sono considerate elementi determinanti nella
16
formazione dell’opinione. I sondaggi attuali, invece, si riducono a semplici “ombre” (Ceri
1997).
Secondo la prospettiva critica, dunque, i sondaggi non farebbero altro che dare l’illusione che
un’opinione pubblica esista, permettendo così la legittimazione o la delegittimazione delle
posizioni politiche sulla base dell’esistenza di questo dato.
Rapporto fra sondaggi e media
Oltre che da un punto di vista metodologico, lo studio sui sondaggi e gli altri strumenti di
ricerca utilizzati dalla politica si è inserito nella dialettica fra opinione pubblica e sistema dei
media, sulla quale verte una lunga tradizione di studi (Lippman 1995; McQuail 2001; Grossi
2004).
Ad una prima separazione fra i due termini, sono poi seguiti una serie di studi importanti che
hanno rimesso al centro del dibattito le reciproche influenze fra media e opinione pubblica
(Grossi 2009), con ricerche quali quelle di McCombs e Shaw sull’agenda setting (1972) e di
Noelle-Neumann sulla spirale del silenzio (1984).
Ma non si tratta solo di un’attenzione determinata dal mondo della ricerca. Le nuove forme
delle democrazie contemporanee, infatti, aumentano l’importanza della relazione con i
pubblici, di cui il controllo dell’opinione pubblica rappresenta una parte via via più rilevante,
come abbiamo visto in precedenza.
D’altro canto, in questo fenomeno non è irrilevante il ruolo giocato dalle trasformazioni
tecnologiche, a partire dall’avvento della televisione, per poi passare alle forme della
neotelevisione (Stella 1999), fino alle innovazioni introdotte dalla rete e dalle nuove
tecnologie digitali. Queste hanno un enorme impatto nel determinare le peculiarità della
mediatizzazione della sfera pubblica, alle quali gli attori politici cercano di adattarsi.
La presenza di sondaggi e altri strumenti sui giornali e nelle trasmissioni televisive è sempre
più in crescita, tanto da rappresentare uno dei fenomeni più presi in considerazione anche
dalla letteratura di stampo sociologico e politologico riguardante il rapporto fra sondaggi e
media.
La presenza dei sondaggi nei media ha due origini.
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In parte, sono i giornali stessi a commissionare ricerche per poi poterle pubblicare (Statera
1997), legittimandone spesso le “verità” grazie a quelli che Diamanti chiama i loro
“sacerdoti” (Diamanti 1997), che diventano uno degli elementi necessari di ogni talk show
politico che si rispetti.
In altri casi, sono gli attori politici a rendere pubblici dati di ricerche, che vengono dunque
riportati negli strumenti di informazioni.
In entrambi i casi, la presenza dei sondaggi nella sfera pubblica risponde alle esigenze degli
stessi mezzi di informazione, che, secondo la più classica delle logiche mediali (McQuail
2001, Wolf 1985) vedono nei dati numerici e, in generale, nei risultati di ricerca delle fonti di
informazioni esclusive e di potenziale interesse per il lettore. Il processo di sedimentazione,
infatti, non avrebbe chance di successo senza l’influenza dei media, dovuta al fatto che i
sondaggi “fanno notizia”.
L’utilizzo dei sondaggi, sia a scopo conoscitivo sia a scopo puramente persuasivo, è uno degli
elementi che contribuiscono alla costruzione dello spettacolo politico (Edelman 1992),
secondo una prospettiva che considera il campo della politica come uno dei tanti settori in cui
si avvera la profezia della scuola sociologica schutziana, di un mondo in cui la realtà dei fatti
è mediata da costruzioni sistematiche che avvengono nella quotidianità della sfera sociale
(Berger, Luckman 1969).
Questa presenza dei sondaggi nella sfera pubblica comporta alcune conseguenze.
E sulla presenza dei sondaggi nella sfera pubblica si è sviluppato un intenso dibattito
scientifico, centrato sulle conseguenze che la pubblicazione dei sondaggi può provocare nel
campo politico (Champagne 2004).
La posizione più critica insiste sulla possibilità che i sondaggi influiscano direttamente
sull’elettorato, orientandolo artificialmente e creando così una distorsione della distribuzione
delle opinioni (Marquis 2005: Draghi 1907).
L’approccio politologico invece ha avuto un’attenzione concentrata sulle conseguenze di
sistema, cioè sull’influenza del fenomeno sulle dinamiche e sulla qualità della democrazia.
Le conseguenze per la qualità della democrazia aprirebbero un dibattito infinito, che è tuttora
al centro della scena politica.
18
Il problema della “cultura del sondaggio”
Collegata a quest’ultimo, vi è la questione dell’uso dei risultati dei sondaggi.
Il problema dell’uso è strettamente legato alla diffusione dei risultati di sondaggi sulla
stampa, che non sempre riesce a cogliere la complessità dei fenomeni, tanto da far notare da
più parti l’importanza di una crescita della cultura dei sondaggi (Pitrone, 1998).
Numerosi autori, infatti, lamentano la mancanza di competenze e sensibilità nell’utilizzo dei
sondaggi.
Si tratta di un tema che, nell’intenzione di chi lo esplicita, coinvolge tutti i possibili
utilizzatori dei sondaggi.
Da un lato, i politici, che manifesterebbero limitate capacità di lettura degli strumenti, ma
anche un interesse troppo centrato su risultati a breve termine e di facile utilizzo, che taglia
fuori la possibilità di prendere in considerazione ricerche più complesse e magari più in grado
di restituire risultati più efficaci di lettura della società.
Dall’altra parte, la mancanza di “cultura del sondaggio” è imputata ai media, ai giornalisti e
commentatori vari (Champagne 2004). In questo caso è sottolineata la generale incapacità di
maneggiare e leggere i risultati, che li espone sia al riportare informazioni non precise o non
capaci di offrire al lettore tutte le coordinate per comprendere adeguatamente la notizia, sia a
una maggiore dipendenza dai fornitori della notizia, che spesso sono i politici stessi. Ma è
anche sottolineata la modalità semplicistica e sbagliata nel rapportarsi con le agenzie di
ricerca, esprimendo una domanda di ricerca poco interessata alla reale comprensione della
realtà.
Questa visione di generale mancanza di cultura d’uso emerge anche dalla presenza di critiche
ai sondaggi stessi, che non si concentrano sui temi indicati da Bourdieu, cioè i dubbi di natura
epistemologica sulla loro efficacia, bensì sui diversi casi di imprecisione dei sondaggi nella
previsione dei risultati elettorali, aspetto che conferma l’uso errato dello strumento e la
generica mancanza di capacità d’uso critico da parte degli utilizzatori, quali appunto il mondo
dei media (Champagne 2004).
19
La credibilità sociale dei sondaggi
Recentemente, alcuni autori si sono posti il problema della considerazione sociale delle
tecniche di ricerca, particolarmente del sondaggio.
Abbiamo visto in precedenza quali siano i fenomeni che portano all’utilizzo massiccio di
questi strumenti nella politica.
Alcuni autori hanno focalizzato le loro analisi anche sulle modalità con cui essi mantengono
un elevato livello di credibilità e reputazione sociali, necessari alla conservazione della
posizione di dominio del campo e del mercato.
Marradi (1997), ad esempio, ha efficacemente mostrato come la tenuta della credibilità dello
strumento derivi dalle modalità con cui i produttori riescono a comunicare la sua affidabilità.
E questo avviene anche con l’utilizzo di un linguaggio particolare, che camuffa le reali
caratteristiche del sondaggio. In particolare, il ragionamento vale per i termini “casuale” e
“rappresentativo”, utilizzati, del tutto a sproposito, come veri e propri feticci che attestano la
validità del campione.
La credibilità dei sondaggi passa poi per la verifica delle loro “prestazioni”, che puntualmente
avviene a seguito dei risultati elettorali (Sani 2006; Bosio 2006; Gasperoni 2007).
Recentemente, questa tenuta sembra iniziare a presentare le prime crepe.
A tal proposito, Pagnoncelli (2009) mostra come esista un problema di legittimazione del
ruolo del sondaggista, dovuta alle pratiche d’uso strumentali accresciute negli ultimi anni. Fra
questi l’uso strumentale a fini di comunicazione e l’uso come “oracolo-bussola”.
Ne deriva che la rappresentazione sociale del sondaggio è fortemente svalutata, tanto che il
termine sondaggista sta a ricercatore come paparazzo sta a fotografo.
«Più in generale ne deriva che la rappresentazione sociale del sondaggio è fortemente
svalutata: il termine sondaggista sta a ricercatore come paparazzo sta a fotografo. Si
sottovaluta il ruolo e il valore euristico delle ricerche; si ignora che la maggioranza dei
sondaggi e delle indagini demoscopiche contribuiscono al progresso sociale ed economico del
Paese, consentendo ai committenti (siano essi aziende o istituzioni) di conoscere meglio il
contesto in cui operano, di mettere a punto le loro strategie, di misurare gli effetti delle loro
azioni, di acquisire elementi utili per comunicare efficacemente e ridurre la distanza che li
separa dai cittadini» (Pagnoncelli 2009, pag. 138).
20
CAP. 2
LO STUDIO DEGLI ATTORI POLITICI
2.1 Introduzione
La crescita del ruolo delle ricerche socio-politiche è legata all’evoluzione di quel complesso
intreccio generato dalle relazioni fra i campi della politica, dei media, della cultura, guidato
da processi sociali riconducibili alle dimensioni istituzionali della modernità.
Per la migliore comprensione dei fenomeni sociali connessi, lo studio degli attori politici
appare come un contributo strategico, utile a una migliore comprensione del fenomeno e della
sua influenza nei contesti e nelle relazioni sociali.
Finora gli attori politici sono stati analizzati principalmente con gli strumenti e i linguaggi
della politologia. Nonostante essi siano a tutti gli effetti organizzazioni sociali come altre,
l’approccio utilizzato per il loro studio è stato poco guidato dai contributi della sociologia.
In questa ricerca ho cercato esplicitamente di superare questo limite, approcciandomi allo
studio degli attori politici indossando le lenti delle categorie delle varie branche della
sociologia.
2.2 Lo studio degli attori politici
La sociologia politica e la scienza politica si sono occupate a lungo dello studio degli attori
politici, della loro fenomenologia, della loro evoluzione, sviluppando alcune categorie e
concetti utili a comprendere i fenomeni connessi.
Gran parte di questi studi però offrono solo in parte elementi interessanti per il tema oggetto
di questa tesi. In primo luogo, si concentrano sull’evoluzione storica degli attori politici: in
chiave empirica, per ricostruirne alcune dinamiche di lungo periodo relative alle
21
caratteristiche strutturali; in chiave teorica, per legarne le caratteristiche all’evoluzione dei
sistemi politici.
Poche ricerche, invece, hanno cercato di affrontare con approfonditi studi empirici le
questioni relative alle routine di comportamento degli attori politici. Di conseguenza sono
ancora molto limitati gli studi che si sono occupati di cosa realmente fanno gli attori politici
degli strumenti che vengono messi loro a disposizione, come, appunto, le indagini
demoscopiche di vario genere.
2.3 Lo studio delle dimensioni organizzative dei partiti politici
Max Weber ha dato la seguente definizione di partito politico: «per partiti si devono
intendere le associazioni fondate su un’adesione (formalmente) libera, costituite al fine di
attribuire ai propri capi una posizione di potenza all’interno di una comunità, e ai propri
militanti attivi possibilità (ideali e materiali) per il perseguimento di fini oggettivi o per il
raggiungimento di vantaggi personali, o per entrambi gli scopi» (Weber 1999, pag. 282).
Raniolo (2006b, pag. 126-127) ha ricavato da questa definizione quattro “dimensioni
cruciali” per l’analisi e cioè gli elementi organizzativo, teleologico (obiettivi, interessi,
ideali), competitivo, istituzionale. Da essi sono discese nel tempo quattro prospettive
principali di analisi dell’oggetto “partito politico”, ciascuna focalizzata (principalmente) su
un elemento di analisi. In ordine, la prospettiva organizzativa, quella sociostrutturale, quella
competitiva e quella istituzionale.
Tenendo buona la suddivisione sopra presentata e senza entrare nel merito delle distinzioni
analitiche (per le quali si rimanda ai testi citati), è chiaro che è di interesse rispetto alle
tematiche trattate in questa ricerca soprattutto la prospettiva organizzativa.
2.4 Le tipologie dei partiti politici e i partiti attuali
La sociologia e la scienza politica si sono cimentate a lungo nell’elaborazione di modelli utili
a descrivere l’evoluzione storica dei partiti e delle loro caratteristiche. Si tratta di un filone di
studi assai ampio per ricerche, categorie e modelli di analisi, prospettive di studio.
Lo studio delle forme organizzative attuali (di cui questa ricerca vuole costituire una parte,
seppur piccola) poggia le proprie basi sulle risultanze complessive di quel filone di studi. Che
22
in effetti ha contribuito a mettere in evidenza alcuni risultati che possono presentare aspetti
interessanti anche per l’assai circoscritto interesse di questo studio sull’uso delle ricerche
demoscopiche nell’azione politica.
Studiosi diversi hanno presentati modellizzazioni differenti dell’evoluzione dei partiti.
Semplificando molto la questione (e senza l’ambizione di ripercorrere per intero il dibattito,
per il quale si rimanda ai testi citati), è possibile riassumere in tre le fasi storiche principali
dell’evoluzione dei partiti: la fase del partito d’élite, la fase del partito di massa, la fase del
partito elettorale (Raniolo 2006b, pag. 139).
Nel suo complesso, questa evoluzione ha messo in luce alcuni elementi di fondamentale
importanza. Riprendendo i quattro elementi della fenomenologia dei partiti sopra ricordati, i
tre modelli infatti si distinguono proprio per il loro posizionamento e per le soluzioni adottate
in merito a ciascuna della quattro questioni fondamentali, tanto da caratterizzarsi fortemente a
seconda dell’interesse attribuito a ciascuna di esse. In ciò, dunque, si evidenza una linea
evolutiva piuttosto chiara, dalla quale è possibile partire per inquadrare correttamente
l’analisi attuale dell’organizzazione politica, anche in un suo aspetto molto specifico come
quello dell’utilizzo di indagini demoscopiche.
Questa evoluzione mostra come la questione dell’organizzazione abbia rappresentato
sostanzialmente un “non-problema” per il partito d’élite. Con l’avvento del partito di massa,
invece, la necessità di integrazione della partecipazione e al contempo di educazione e
formazione di una cultura valoriale e ideologica ha portato la questione della struttura
organizzativa in primo piano. Il modello post-moderno attuale di organizzazione partitica (il
partito elettorale) mostra invece caratteri nuovamente diversi, che tengono conto anche della
mutata realtà contestuale.
Vediamoli nel dettaglio.
- La struttura organizzativa formale (l’apparato burocratico) rappresenta una conquista
essenziale del partito di massa rispetto al partito d’élite. Per il partito elettorale, invece, la
struttura formale ereditata dalle forme precedenti non è più una risorsa, bensì un costo. A
tal proposito, si può parlare di deburocratizzazione (Raniolo 2006b) dei partiti politici. La
funzione culturale-educativa, infatti, perde di importanza rispetto alla liberalizzazione del
mercato politico, che spinge ad una competizione aperta per il consenso di fasce di elettori
mobili sempre più ampie e ponendo in secondo piano la valorizzazione delle appartenenze
create con la strutture educative della socializzazione politica e dell’ideologia. La
23
militanza perde importanza in maniera così decisa che viene comunemente utilizzata la
formula del parties without partisans (Dalton, Wattenberg 2000).
- Emerge il fenomeno della professionalizzazione. Il fondamentale cambiamento di
funzioni pota con sé infatti un netto mutamento delle necessità organizzative. Ora
diventano necessarie competenze non immediatamente disponibili all’organizzazione,
che vanno dunque cercate presso professionisti. La professionalizzazione è dunque uno
dei binari dello sviluppo dei partiti lungo la loro fase evolutiva. Da un punto di vista
organizzativo, è da notare come le necessità di arruolamento di “esperti” esterni abbiano
conseguenze notevoli sulla struttura organizzativa, ancora in gran parte inesplorate.
Abbiamo già ricordato le necessità finanziarie. Ora, per le stesse ragioni, l’utilizzo di
competenze specialistiche tende non solo a sostituire il modello di rappresentanza, ma a
cambiare anche la geometria della leadership, con una forte centralizzazione e
leaderizzazione (Raniolo 2006b). Persone che si sono formate esternamente
all’organizzazione, sono sempre più legate ad essa dalla fedeltà ad un leader. D’altro
canto i costi elevati e l’importanza strategica di queste risorse fanno sì che il loro impiego
sia mantenuto strettamente all’interno delle élite decisionali dei partiti.
- La piena accettazione della competizione aperta nel mercato politico enfatizza
l’importanza di investimenti in comunicazione e controllo dell’opinione pubblica.
- I cambiamenti del contesto sociale sopra accennati (mediatizzazione …) accentuano
l’importanza della comunicazione di massa e di tecniche per il controllo dell’opinione
pubblica nazionale. La professionalizazione è condotta da queste nuove esigenze e si
dirige dunque verso competenze necessarie a questo ambito.
- Le necessità di professionalizzazione, l’insufficienza del volontariato politico, gli elevati
investimenti in comunicazione dovuti alla mediatizzazione della lotta politica (Mazzoleni
1998) fanno emergere una prioritaria questione relativa alle risorse finanziarie. Essa viene
in parte risolta da un elevato livello di dipendenza dalle cariche pubbliche (la
statalizzazione della forma partitica) e da una dipendenza dalle risorse di alcuni gruppi di
interesse (commercializzazione).
L’elemento di maggiore interesse per il nostro oggetto di studi è il riconoscimento che la
dinamica di trasformazione in corso nei partiti ha posto in evidenza “la funzione crescente
svolta all’interno delle loro strutture dagli strumenti di comunicazione politica e della agenzie
di consulenza politico-elettorale” (Tarchi, Morlino 2006, pag. 8).
24
I partiti tendono a trasformarsi in “organizzazioni di campagna elettorale” (Farrell e Webb
2000), con conseguenti importanti modifiche delle gerarchie interne, dei modelli
organizzativi, degli stili di leadership, delle scelte di allocazione delle risorse.
Da un punto di vista delle relazioni con i pubblici, il fenomeno associato riguarda la
progressiva perdita di importanza sostanziale del radicamento territoriale e delle relazioni
orizzontali con la “base”, mentre prende il sopravvento una modalità di comunicazione più
verticale e basata sull’utilizzo dei media di massa.
Si tratta di un punto interessante anche in relazione ai nostri interessi. Se infatti intendiamo la
comunicazione come un processo a due vie fatto di informazione e ascolto organizzati, la
modifica sopra descritta della geometria della comunicazione potrebbe rendere conto di un
analogo spostamento anche nella dimensione dell’ascolto, sempre più basato su strumenti
“verticali” (come appunto le indagini demoscopiche) piuttosto che sul più classico rapporto
con elettori e iscritti garantito dal radicamento territoriale.
2.5 Le fasi della comunicazione politica
È ormai unanimemente riconosciuta la fondamentale importanza della comunicazione politica
(Bulli 2006) per chiunque voglia avvicinarsi a studiare le dinamiche esistenti nel campo della
politica, indipendentemente dal fatto che sia mosso da interessi di natura sociologica,
politologica, organizzativa.
Già nell’evoluzione dei modelli analitici di studio degli attori politici sopra ripercorsa è
emerso il ruolo preponderante delle funzioni comunicative per lo sviluppo degli attori politici.
I tentativi di individuare modelli di studio, analitici o evolutivi, hanno riguardato anche
questo specifico aspetto.
Farrell e Webb (Farrell, Webb 2002) hanno elaborato un interessante modello di evoluzione
della comunicazione politica, che tiene conto anche del ruolo svolto dai professionisti esterni.
In particolare, hanno evidenziato tre fasi dell’evoluzione della comunicazione nella politica,
la fase premoderna tipica delle prime forme di lotta politica; la fase moderna, quella della
25
“rivoluzione televisiva”; la fase postmoderna, caratterizzata dalla “rivoluzione delle
telecomunicazioni”1.
Le distinzioni riguardano diversi aspetti delle competenze tecniche, del tipo di risorse
impiegate e delle evoluzioni tematiche.
Il contesto della campagna elettorale e del tipo di competizione, innanzitutto, cambia
caratteristiche nel corso del tempo. Ciò comporta modifiche anche nelle tecniche di approccio
alla campagna da parte delle organizzazioni politiche. Se all’inizio gli apparati erano costituiti
in maniera improvvisata e di durata limitata, con l’evoluzione della competizione, le strutture
ampliano notevolmente le dimensioni e la durata della propria azione. Nella fase
postmoderna, caratterizzata dalla cosiddetta campagna permanente (Blumenthal 1982), anche
gli staff elettorali mantengono continuo il livello di mobilitazione e di impegno competitivo.
Cambia in misura notevole anche l’utilizzo delle tecniche di comunicazione mediale e non. In
questo settore è l’evoluzione tecnologica a determinare il cambiamento delle forme d’azione
e di organizzazione. L’avvento della televisione prima e successivamente quello delle nuove
tecnologie comunicative hanno modificato il panorama degli strumenti a disposizione della
politica e delle tecniche necessarie a questa per svolgere efficacemente la propria funzione
competitiva.
Dal punto di vista delle strategie, il modello propone una graduale evoluzione verso una
maggiore complessità e differenziazione.
Di particolare importanza, in questo senso, è la strategia competitiva. Se nella fase
premoderna la raccolta del consenso era essenzialmente basata su gruppi di interessi
precostituiti e specifiche categorie sociali, il passaggio alla modernità comporta la sostanziale
accettazione della logica del mercato politico, per cui i singoli partiti rompono gli argini del
consenso tradizionale, per rivolgersi a tutto l’elettorato potenziale. Nella fase postmoderna si
raffina il cambio di strategia e subentrano sostanziali strategie di segmentazioni dei pubblici
e di personalizzazione della proposta, volti a rendere più efficace la soluzione competitiva ad
ampio raggio. Sostanzialmente, si riproduce a livello degli attori politici l’evoluzione già
studiata a livello di attori economici, con l’avvento di un’età basata sul marketing
(Grandinetti, 2002).
1 Esistono in letteratura numerosi modelli descrittivi dell’evoluzione della comunicazione politica (Blumler,Kavanagh 1999; Norris 2000). Il modello che qui si presenta è stato scelto per le sue affinità con il fine dellaricerca.
26
Ma il punto di vero interesse dell’analisi svolta da Farrell e Webb è l’evoluzione nell’uso
delle risorse. Il tipo di campagne elettorali già visto sopra comporta una precisa evoluzione da
campagne locali a campagne nazionali, fino alle campagne postmoderne, caratterizzate da un
approccio integrato e svolto tramite un controllo centrale e azioni mirate sul territorio.
Parlando di risorse, entrano in campo le competenze specialistiche detenute dai professionisti.
L’evoluzione descritta sopra verso una maggiore professionalizzazione viene qui analizzata
con maggiore precisione. Se nella fase moderna l’uso di consulenti è sporadico e di tipo
generalista, i nuovi obiettivi e scenari competitivi della fase moderna impongono un uso
maggiore e più esteso. Ma il vero salto di qualità avviene nella fase postmoderna, laddove le
necessità di segmentazione e personalizzazione dei messaggi comportano un uso massiccio di
consulenti, specializzato secondo competenze e integrato nel personale della campagna.
Un processo analogo avviene per la particolare risorsa costituita dal “feedback” cioè dalle
comunicazioni provenienti dall’elettorato. Se nella fase premoderna era la “base” a farla da
padrona, l’avvento della fase moderna presuppone ancora uno stretto rapporto con la base, ma
con strumenti nuovi di conoscenza della stessa, in quanto la territorializzazione dei partiti non
è più sufficiente a soddisfare le necessità conoscitive imposte dal nuovo contesto competitivo.
Ma il vero salto di qualità avviene nella comunicazione politica postmoderna, laddove ancora
una volta è la segmentazione a dettare le necessità di utilizzare nuovi e più specifici
strumenti. Nell’azione di feedback si vede dunque la crescita e la differenziazione che Farrell
e Webb attribuiscono all’uso delle indagini demoscopiche da parte degli attori politici, con
una prima fase (nella modernità) di utilizzo embrionale e non specialistico e una seconda
invece dove le indagini demoscopiche vengono utilizzate in maniera raffinata e secondo
obiettivi e necessità più dettagliate e precisamente orientate.
Una prospettiva che può essere utilmente impiegata, nell’analisi del materiale empirico,
anche per osservare a che stadio di questa evoluzione si collocano gli attori politici italiani,
come esso sia compatibile con lo stadio dell’evoluzione organizzativa e del contesto
competitivo e come gli stessi interpretino eventuali difformità.
L’evoluzione descritta da Farrell e Webb riproduce (sotto la lente della comunicazione
politica) i tre stadi di sviluppo dei partiti che abbiamo sopra ricordato. L’approdo finale, nella
fase postmoderna, presuppone un modello di partito e di comunicazione basato fortemente
sulla segmentazione (indotta dalla competizione elettorale in un mercato aperto), un partito
che diventa macchina da campagna (campaign organizations).
27
Pertanto è anche il tipo di rappresentanza a cambiare. È l’avvento della democrazia dei
pubblici (Raniolo 2006b).
Ovviamente, quanto esposto sopra non è immune da visioni non allineate e da considerazioni
critiche.
La critica di Crouch (2003), ad esempio, prende seriamente in considerazione le competenze
professionali sulla conoscenza dell’opinione pubblica come una delle caratteristiche primarie
del modello contemporaneo di partito politico. Da un lato questo fenomeno potrebbe essere
considerato un segnale positivo di apertura delle élite al proprio contesto di riferimento: il
cambiamento impresso nel sistema politico avrebbe generato nuove forme di conoscenza
dell’elettorato (proprio o potenziale), ma senza mutare sostanzialmente la capacità di
rappresentanza dei partiti stessi. Sostanzialmente quanto sostenuto dalla teoria mainstream
prodotta per contestualizzare l'uso di sondaggi e altre tecniche demoscopiche.
Ma ciò, secondo Crouch, non rappresenta la realtà delle cose. Quella che un tempo era una
conoscenza diretta (tramite la struttura organizzativa del partito) viene ora mediata da
tecniche impersonali, il cui funzionamento presuppone una “concezione passiva della
partecipazione” e una visione della “cittadinanza contro”. Ciò che ci vuol fare intendere
Crouch è che la necessità di aprirsi a tecniche demoscopiche non è (o non è solo) dettata da
un cambiamento del sistema di rappresentanza, ma costituisce essa stessa un elemento che
porta a presupporre un tale modello di rappresentanza, basato, appunto, su partecipazione
attiva e cittadinanza “contro”.
Si tratta di un’osservazione non banale, utile anche nella ricerca in questione. Qui, infatti,
viene messa pesantemente in discussione l’idea che l’indagine demoscopica sia uno
strumento (neutro) utile per misurare un fenomeno (reale).
In generale, di particolare interesse per il nostro tema è il fatto che l’evoluzione sopra
descritta conduce i partiti ad individuare nuove risorse strategiche, differenti dal passato, che
si affermano dunque nell’arena della competizione.
Fra queste risorse, non vi è dubbio che un ruolo importante è dato dalle competenze e dalle
abilità utili a orientarsi nel mercato politico, e in particolare le competenze tipiche della
“nuova” comunicazione politica e del controllo dell’opinione pubblica. Poiché tipicamente si
tratta di competenze specialistiche e difficilmente acquisibili da un partito, il soddisfacimento
di queste esigenze passa necessariamente per un investimento in professionalità esterne.
28
Questo è, in fin dei conti, il nucleo principale del ragionamento di sistema che gli studi sugli
attori politici hanno elaborato relativamente all’emergere di questa nuova forma di
professionismo politico, di cui le indagini demoscopiche rappresentano una parte.
Come si vede, si tratta non solo di un fenomeno contingente o dettato da decisioni arbitrarie,
ma piuttosto di un risultato di lungo periodo dell’evoluzione dei partiti politici, anche e
soprattutto in considerazione di esigenze di tipo organizzativo mutate rispetto ai contesti
passati.
2.6 Un’attenzione più prettamente sociologica: lo studio delle pratiche
In letteratura esistono numerosi contributi sullo studio delle ricerche socio-politiche e, in
particolare, dei sondaggi d’opinione.
Queste ricerche sono però in gran parte figlie di un’attenzione unidirezionale al settore,
soprattutto di natura metodologica (sui metodi e sulle problematiche tecniche), oppure
professionale (su come debbono essere utilizzati) (Thurber, Nelson 2000).
La letteratura sopra ricordata ha certo affrontato aspetti importanti relativi alle ricerche socio-
politiche. Tuttavia, ritengo che un’attenzione esclusiva agli aspetti metodologici e alle
prescrizioni di utilizzo provenienti dal mondo professionale non colga pienamente quello che
invece può rappresentare il maggior elemento di interesse per le scienze sociali, e cioè lo
studio delle pratiche e della costruzione del senso di esse, che attualmente si presenta
alquanto limitato.
L’affiancare allo studio “teorico” proveniente dall’attenzione metodologica e a quello
“normativo” proveniente dall’attenzione professionale una maggiore attenzione verso le
pratiche è una necessità sentita anche dagli stessi studiosi.
Un esempio emblematico è rappresentato dal volume curato da Paolo Ceri (1997), che
rappresenta, pur ormai datato e bisognoso di aggiornamento, il principale contributo empirico
allo studio delle ricerche socio-politiche nel campo della politica. Pur partendo dal caso
italiano, il contributo di questo lavoro rappresenta emblematicamente le potenzialità e i limiti
degli attuali modelli di ricerca sociale sul tema, anche internazionali.
29
Dal volume di Ceri, emerge con forza la necessità di rivolgere la ricerca futura verso una
maggiore attenzione alle pratiche d’uso. Ed emerge altresì come questa sia conseguente anche
ad un’attenta valutazione dello stato dell’arte delle ricerche sui sondaggi e sul loro rapporto
con il campo della politica.
In questo lavoro, fin dalle premesse è evidente che la questione relativa alle pratiche d’uso
rientra nel dato per scontato, mentre l’analisi è soprattutto volta a indagare le metodologiche e
le tecniche di realizzazione delle ricerche da un lato e le interconnessioni con il campo dei
media dall’altro.
Sugli utilizzi, tutta l’attenzione è concentrata sull’uso che ne fanno i media e sulle
conseguenti azioni del campo della politica volte a girare a proprio vantaggio le logiche
mediali.
Pur argomentando come la presenza di questi strumenti sia sempre più rilevante nel campo
della politica e nelle routines stesse delle organizzazioni politiche, le pratiche di questo uso
non sono poste al centro di descrizioni o analisi approfondite e originate da specifiche
attenzioni empiriche.
Questa carenza all’interno del volume di Ceri rappresenta emblematicamente il segno
distintivo di gran parte della ricerca italiana e non sulle ricerche socio-politiche e le loro
interazioni con il campo della politica.
La consapevolezza di questi limiti rappresenta di per sé un buon motivo per occuparsi delle
pratiche d’uso, ma non l’unico.
L’attenzione tipicamente messa nell’analisi dell’uso dei sondaggi fatto dal campo mediale ha
portato alla descrizione di numerosi fenomeni di commistione di interessi e di uso
strumentale, che vengono normalmente considerati come “pericoli” o comunque usi impropri
della ricerca demoscopica. Ceri li riassume con il paradosso dei risultati «considerati veri
perché utili, invece di essere considerati utili perché veri» (Ceri 1997, pag. 10).
L’uso strumentale del sondaggio si ha quando «subordina la propria funzione informativa e
conoscitiva alla funzione comunicativa» (Ceri 1997, pag. 10).
È chiaro che lo sviluppo della pratica della ricerca demoscopica si evidenzia man mano che
aumenta il peso politico della televisione. Come dice Ceri, «la Sondocrazia è figlia della
Videocrazia» (Ceri 1997, pag. 275).
Ma è anche vero che questa visione manifesta un’ulteriore incompletezza. Essa infatti
presuppone che gli effetti di costruzione sociale siano sostanzialmente quelli riconducibili
30
alle logiche di utilizzo proprie del campo mediale. L’uso strumentale del sondaggio avviene a
scopo “comunicativo”, cioè attraverso effetti controllabili nelle pratiche di comunicazione.
Tolte di mezzo le storture determinate dalla strumentalità dell’uso comunicativo, il sondaggio
può dunque tornare a rappresentare una realtà “utile perché vera”.
Ma questa è una visione incompleta, derivante proprio dall’aver messo al centro dell’interesse
l’uso fatto dai media.
Sono infatti ipotizzabili altri effetti di costruzione sociale o di uso consapevolmente
strumentale, non per forza legati alla comunicazione. Ad esempio relativamente alle decisioni
politiche oppure ancora insite nelle stesse pratiche metodologiche di produzione dei
sondaggi. E questi aspetti sono esattamente quelli che possono venire alla luce con una
ricerca focalizzata sulle pratiche d’uso.
D’altro canto, la sensazione di una diffusa carenza di attenzione alle pratiche, non è presente
solo nello specifico settore di studio che si occupa di ricerche socio-politiche.
Quantomeno, gli stessi limiti si possono ritrovare anche allargando leggermente il cerchio
dell’attenzione, entrando nel dominio degli studi sulla comunicazione politica.
Gli studi sulle ricerche socio-politiche – e in particolare sui sondaggi d’opinione – sono
spesso inseriti nel più vasto campo della comunicazione politica. Essi rappresentano infatti
uno degli elementi di evoluzione degli attori politici che possono rientrare all’interno delle
pratiche sviluppate dagli attori politici contemporanei e racchiuse nel concetto di
comunicazione politica.
È interessante notare come la necessità di un rinnovamento degli approcci di studio sia sentita
anche nel più ampio settore della comunicazione politica.
Uno dei più recenti lavori di revisione critica dello stato attuale della disciplina è svolto da
Rodriguez (2009).
L’autore individua una frattura nel campo di studi della comunicazione politica fra
l’affermazione di concetti provenienti dallo studio teorico e la loro pratica, assai più variegata
e lacunosa, resa tale da varie influenze di contesto.
Anche la comunicazione politica dunque appare guidata più dalle teorie e dalle prescrizioni
che emergono dalla manualistica professionale che non da una forte attenzione alle pratiche
reali, alle loro specificità, alle ambiguità, alle attribuzioni di senso.
31
Esattamente come avviene per lo studio di sondaggi e affini.
Credo sia una lacuna importante da colmare. Il dimenticarsi delle pratiche, infatti, disperde
innanzitutto l’interesse sociologico che può essere ritrovato in questi ambiti di studio.
Così come, infine, trovo molto significativo che l’esigenza di una maggiore attenzione alle
pratiche sia sentita anche nel campo degli studi più prettamente politologici, come ad
esempio quelli sugli attori politici. È interessante a questo proposito notare che anche uno dei
più recenti contributi sullo studio dei partiti individua esplicitamente questa necessità
sostenendo l’opportunità di un maggiore e più specifico approfondimento empirico delle
routine, delle logiche, delle culture organizzative dei partiti italiani (e di altri eventuali attori
politici, ovviamente), così come di «dedicare un’attenzione specifica allo sviluppo degli
strumenti di consulenza e comunicativi» (Tarchi, Morlino 2006, pag. 10), quali appunto, fra
gli altri, le indagini demoscopiche.
I brani e le considerazioni citate sopra aprono dunque una serie di interrogativi sullo stato
attuale delle ricerche sugli attori politici, con particolare riferimento, in questo caso, ai partiti
politici e alle loro pratiche comunicative.
Si pone pertanto la questione di una modifica del paradigma di ricerca utilizzato finora, sola
strada funzionale a colmare le lacune empiriche individuate dagli stessi studiosi circa le
pratiche organizzative degli attori politici.
È una sfida affascinante e per certi versi nuova.
La mia proposta al riguardo è semplice.
Si tratta di applicare con maggiore pregnanza, coraggio, forza gli strumenti e i concetti del
filone degli studi organizzativi anche al campo della politica.
Nella ricerca accademica, soprattutto italiana, si è affermata nel tempo una marcata
separazione fra scienza politica e sociologia.
Secondo tale prassi, alla sociologia è riconosciuta una specifica legittimità di analisi,
particolarmente centrata sui metodi delle scienze sociali, sulle teorie sociali, sullo studio
empirico di alcune sfere della differenziazione sociale (la salute, la religione, i fenomeni
culturali, i media…) e sugli studi di alcune strutture sociali che si collocano nel cosiddetto
livello “meso” (Collins 1992), su tutte le organizzazioni.
32
La scienza politica, invece, mantiene totale autonomia di analisi sulle strutture del campo
politico, compresi gli attori come i partiti politici. E al suo interno – per merito di questa
delimitazione di campo – si sono affermate nella prassi anche specifiche legittimazioni di
teorie e metodi non sempre coincidenti con quelli accettati dalle altre sfere della
differenziazione sociale, che, come si diceva, sono convenzionalmente messe a punto
all’interno della discussione sociologica.
Questa distinzione sociologia/scienza politica mi sembra assai poco fondata e sostenibile.
Pur riconoscendo che ogni sfera della differenziazione sociale (o ogni “campo”) va analizzata
tenendo conto delle proprie peculiarità di contesto, mi pare evidente che fare riferimento a
teorie, modelli e metodi che si affermano in un campo disciplinare più ampio può
rappresentare un accrescimento da un punto di vista della fondatezza metodologia, della
profondità teorica, dell’acume analitico.
Le esperienze non italiane, peraltro, dimostrano esattamente questo.
All’estero, la scienza politica rimane senz’altro una disciplina che si giova di contributi e
sensibilità anche “altre” rispetto alla sociologia. Ma lo studio empirico del campo della
politica nelle sue articolazioni di rapporti con la società è inserito a tutti gli effetti nell’ambito
delle diverse sociologie.
La denominazione sociologia politica, in questo caso, è utilizzata non a sproposito e dando
pieno valore ad entrambi i termini che la compongono.
Questo discorso è ancora più valido per lo studio degli attori politici.
Particolarmente, lo studio dei partiti e delle forme che assumono i vari processi che li vedono
coinvolti nell’attuale condizione di modernità non può prescindere dai modelli analitici e
dalle prassi metodologiche messe a punto dalla sociologia, con particolare interesse per le
sociologie delle organizzazioni, della comunicazione, del linguaggio.
Lo stallo attuale in cui versa la ricerca italiana sugli attori politici e lo scarso interesse che
suscita è forse sintomo di un approccio non avanzato, mentre invece esiste all’estero una
crescita visibile di interesse per lo studio dei partiti, che si nutre per l’appunto di metodologie,
obiettivi e strumenti differenti da quelli utilizzati attualmente in Italia e, a differenza di questi,
33
maggiormente integrati con gli approcci di altre discipline quali gli studi organizzativi, la
sociologia qualitativa ed etnografica, gli studi linguistici, gli studi di comunicazione.
Realizzando questa congiunzione, si potrebbero ottenere degli accrescimenti importanti delle
nostre conoscenze empiriche, approfondendo le conoscenze raggiunte allo stato attuale dallo
studio politologico degli attori politici ad esempio in tre settori di interesse.
- Lo studio dei partiti italiani contemporanei intesi come organizzazioni (tenendo conto
delle specifiche logiche dettate dalle condizioni attuali): processi decisionali, logiche
organizzative, processo di costruzione della cultura organizzativa, sensemaking, ruolo del
professionismo politico, pratiche di socializzazione e di riproduzione, rappresentazioni
sociali interne ed esterne.
- Lo studio delle culture politiche di appartenenza, con particolare riferimento al rapporto
con l’opinione pubblica e alla concezione relativa alla comunicazione politica, all’ascolto
organizzato, alle politiche di voice e choice (Hirschman 2002). Da interfacciare con lo
studio del radicamento socio-territoriale di queste organizzazioni (studio delle subculture
politiche).
- Lo studio del linguaggio politico: cornici valoriali, simbolismi, emozionalità/razionalità,
ma anche studi linguistici e semiotici.
L’applicazione di questo cambio di prospettiva si porrebbe inoltre in linea con alcune
tendenze emergenti nella sociologia politica internazionale.
Come si diceva infatti, in alcuni contesti di ricerca, internazionali ma non solo, si assiste in
questi anni ad un ritorno di interesse vero lo studio degli attori politici.
E questo ritorno di interesse è in gran parte guidato da una modifica dell’approccio di ricerca.
Dal punto di vista dei campi di indagine, questi nuovi approcci si pongono più esplicitamente
come obiettivi quelli dello studio delle pratiche, dei comportamenti reali, dei significati che
gli attori attribuiscono alle proprie azioni.
Questo cambiamento degli interessi porta ad alcune conseguenze.
Da un lato, si accentua l’attenzione verso il frame del “partito come organizzazione”,
portando così le stesse ricerche ad attingere di più ai concetti, alle categorie, alle questioni
provenienti dagli studi organizzativi.
34
Dall’altro, la metodologia tende a cambiare e, coerentemente con l’approccio generale e con i
mutati obiettivi, attinge con maggiore evidenza ai metodi, alle tecniche e, ovviamente, alle
determinanti epistemologiche tipiche delle ricerche qualitative.
In questo modo, l’evoluzione a cui si è assistito all’interno dei due campi degli studi
organizzativi e della sociologia comprendente entra in più stretto contatto con i campi di
studio delle scienze politiche, conducendo così ad un loro significativo aggiornamento e ad
una più stretta saldatura tra sociologia e politica.
Si possono portare alcune testimonianze significative a riguardo.
La collettanea curata da Florence Haegel (2007) è un primo esempio.
Il volume raccoglie numerosi contributi recenti, provenienti principalmente da giovani
studiosi, tutti centrati sullo studio dei partiti francesi e che testimoniano una ripresa
dell’interesse verso la sociologia degli attori politici.
La particolarità del volume è quella di presentare contributi che si occupano di tematiche
differenti ed emergenti dello studio dei partiti politici, con inoltre una presenza significativa e
determinante di studi provenienti da ricerche qualitative. A questo riguardo, di particolare
rilievo sono alcuni scritti provenienti da ricerche condotte tramite etnografie, un approccio
qualitativo focalizzato sullo studio dei partiti come organizzazioni e, in particolare, della
dimensione culturale di queste collettività.
Fra i vari contributi, il più vicino ai nostri interessi e all’approccio che anche qui si vuole
utilizzare è quello di Carole Bachelot, la quale, fra i vari risultati di grande interesse del suo
lavoro, sottolinea due punti significativi.
Innanzitutto pone con forza il tema di come la sociologia politica precedente abbia avuto
soprattutto un’attenzione all’organizzazione di tipo “modellizzatrice”, che ha messo in
secondo piano le pratiche reali e il senso ad esse attribuito dagli attori (Bachelot 2007, pag.
144). Bachelot evidenzia inoltre una difficoltà nel definire empiricamente il concetto di
culture partisan, per la mancanza di una proficua tradizione di discussioni e di studi. Nel
complesso, una visione assai simile alle motivazioni che hanno portato all’elaborazione di
questa ricerca, del suo tema e del metodo utilizzato per condurla.
Dall’altro lato, dalla sua ricerca emerge un altro punto interessante, e cioè che esiste una
disparità fra i comportamenti e il senso attribuito alle rappresentazioni di essi, fenomeno che
mostra con grande evidenza un livello di costruzione sociale delle rappresentazioni dei
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comportamenti tale da far ritrovare, all’interno dell’affermarsi delle culture partitiche, parte
dei processi di esteriorizzazione e interiorizzazione descritti da Berger e Luckmann (1969).
Anche in questo caso, una visione assai simile all’ipotesi che regge questo lavoro, che si basa
appunto sulla necessità di porre in discussione la visione mainstream dell’attività degli attori
politici, attraverso uno studio maggiormente centrato sulle pratiche.
Un secondo contributo recente che può risultare significativo nel mostrare come sia possibile
il rinnovamento dello studio sui partiti è il rapporto di una lunga ricerca di Florence Faucher-
King (2005).
In questo caso, pur provenendo dalla scuola francese, la ricercatrice si è occupata del sistema
partitico inglese.
L’aspetto più interessante, ancora una volta, è la capacità di mostrare come un rinnovato
approccio relativo agli interessi di studio, alla metodologia e finanche alla prospettiva
epistemologica possa realmente ed efficacemente apportare risultati nuovi e per nulla scontati
nello studio dei partiti, capaci di dare nuova linfa a quel settore della sociologia politica.
Nello studio della Faucher-King, la prospettiva e la metodologia utilizzate sono di
provenienza antropologica. E il focus della ricerca è sui rituali delle organizzazioni partitiche,
in particolare le grandi conferences annuali tipiche dei partiti britannici, viste come occasioni
per applicare uno studio antropologico relativo alla formazione di vari aspetti della cultura
partitica, dalla legittimazione del potere e della leadership, fino alla costruzione di una
simbologia capace di personificare le dominanti della cultura organizzativa.
In questo studio la Faucher-King mostra come siano proprio i rituali a strutturare e costruire
le organizzazioni, sia a livello macro della costruzione delle leadership e dell’individuazione
dell’agenda, che al livello micro delle relazioni individuali e situate, della stratificazione
interna dell’organizzazione, dell’apparato simbolico e del linguaggio, della costruzione di
significati condivisi.
La prospettiva è ovviamente debitrice di quella della definizione della situazione, con Erving
Goffman come riferimento teorico principale, anche se inserito in un ampio insieme di legami
e relazioni con numerosi contributi provenienti dalla scienza politica e dalla sociologia.
Nel complesso, dunque, si tratta di un lavoro che mostra efficacemente come un maggiore
legame fra sociologia, particolarmente la sociologia comprendente, e scienza politica possa
produrre un rinnovamento dello studio dei partiti, utile a comprendere meglio l’evoluzione
contemporanea di queste particolari organizzazioni.
36
Infine, il terzo punto è dedicato ai casi italiani.
Non sono molti, in effetti, i casi di utilizzo di ricerche qualitative a supporto di indagini
decisamente orientate verso lo studio degli attori politici.
Fra i contributi recenti si possono annoverare sostanzialmente due casi.
Il primo riguarda i lavori di Navarini (Navarini 1999; Navarini 2001).
L’autore si è dedicato allo studio della dimensione rituale nella politica, utilizzando una
metodologia totalmente qualitativa e, in certi casi, etnografica, basandosi principalmente si un
apparato concettuale centrato sulla tradizione sociologica (di derivazione durkheimiana) di
studio dei rituali come occasione di costruzione dei significati simbolici condivisi di un
gruppo o di una organizzazione.
Il recente testo di Cerulo (2009), invece, è frutto di una lunga ricerca etnografica applicata al
campo della politica, uno dei primi casi nella ricerca italiana e dunque per questo
particolarmente significativo.
Cerulo sceglie di occuparsi di attori politici differenti: non più l’organizzazione partitica, ma
il singolo politico “di professione”, che sostanzialmente coincide con il politico eletto a
cariche istituzionali, di vario livello e che se ne occupa a tempo pieno. E la scelta dell’oggetto
di studio è strettamente legata anche alla metodologia scelta, che, oltre che posizionarsi
decisamente nella ricerca qualitativa e in particolare in quella etnografica, si caratterizza
come shadowing, cioè il seguire passo passo la giornata dell’individuo oggetto di studio.
Le scelte relative all’oggetto di studio e al metodo di ricerca derivano dall’approccio scelto
dall’autore, che è quello della sociologia della vita quotidiana, pur sempre inserita nel
paradigma costruttivista-comprendente.
L’interesse maggiore per il lavoro di Cerulo è, come si è detto, il fatto che sia uno dei
pochissimi casi di ricerca sociologica etnografica applicata alla politica in Italia. E la scelta
della metodologia e dello stesso approccio della vita quotidiana sono sintomi di
un’insoddisfazione di fondo verso lo stato della ricerca italiana sugli attori politici, che è lo
stesso feeling dal quale nasce anche la ricerca oggetto di questa tesi.
In secondo luogo, i risultati del lavoro di Cerulo rappresentano una fonte importante per la
comprensione delle pratiche quotidiane del politico di professione, dalla costruzione sociale
del senso comune fino alla gestione dei rapporti fra ribalta e retroscena.
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Passaggi assai significativi, che mostrano appunto come l’osservazione della pratiche possa
aggiungere molto alla nostra conoscenza degli attori politici, in linea con quanto portato a
sostegno della ricerca che qui si presenta.
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CAP. 3
STUDI ORGANIZZATIVI
3.1 Introduzione
Al termine del capitolo precedente ho sostenuto la necessità di rivedere le modalità
d’approccio finora utilizzate per studiare gli attori politici, attraverso una più decisa
contaminazione della scienza politica con strumenti e concetti provenienti dagli studi
organizzativi.
In questo capitolo, intendo mettere a fuoco questo punto.
Già Panebianco ricordava in maniera categorica l’importanza degli studi organizzativi:
«qualunque altra cosa siano i partiti e a qualunque altro tipo di sollecitazioni possano
rispondere, essi sono prima di tutto organizzazioni e pertanto l’analisi organizzativa deve
precedere ogni altra prospettiva» (Panebianco 1982, pag. 10).
Dire che i partiti sono organizzazioni e che vanno studiati come tali può sembrare una
banalità, soprattutto se pensiamo alla pervasività della presenza di organizzazioni nella nostra
società, che avrebbero ormai assorbito ogni angolo della vita sociale (Strati 2004).
In realtà le implicazioni non sono così scontate.
Fra le principali, vi è anche quella secondo la quale la pervasività delle organizzazioni le
porta ad essere «il contesto di relazioni sociali quotidiane in cui si creano le modalità e stili
della convivenza civile» (Strati 2004).
L’importanza della presenza delle organizzazioni nella vita sociale, inoltre, non si risolve a un
livello macro, di sistema, ma influisce nel campo dei contesti di vita quotidiana, modellando
così le relazioni sociali.
Nonostante la riconosciuta importanza delle organizzazioni, per quanto riguarda i partiti
politici a ciò non è seguito un adeguato riscontro negli interessi delle ricerche empiriche,
come sottolineato da diversi studiosi (Raniolo 2006, pag. 20).
Le implicazioni della necessità di studiare i partiti come organizzazioni sono rimaste poco
esplorate dagli attuali studi sugli attori politici.
39
L’attenzione che gli studi sui partiti politici hanno mostrato per l’influenza dell’elemento
organizzativo si è infatti concentrata solo su alcuni aspetti di questo fenomeno e non ha
attinto pienamente al patrimonio consolidato dagli studi organizzativi negli ultimi anni.
Nel frattempo, gli studi organizzativi hanno visto una rapida e costante evoluzione dei
paradigmi, dei modelli e dei concetti della loro disciplina2.
L’applicazione di questi strumenti conoscitivi al campo della politica è stata finora non molto
cercata e non ha prodotto risultati di rilievo.
Proprio per questo, è possibile pensare che da quella feconda contaminazione possano
nascere ambiti ulteriori per l’analisi dei partiti e per l’applicazione di modelli e metodologie
differenti da quelli finora utilizzati in misura prevalente per il loro studio.
3.2 Il tema delle ricerche socio-politiche nell’analisi organizzativa dei partiti
Innanzitutto occorre individuare dove si colloca il tema di questa ricerca – e cioè l’uso delle
ricerche socio-politiche – nel contesto degli studi organizzativi.
Per questo, abbiamo cercato di comprendere quali siano gli elementi costitutivi delle
organizzazioni, per individuare così in quale ambito inserire il nostro tema.
Fra le molte analisi prese in considerazione che puntano ad individuare gli elementi
costitutivi delle organizzazioni, quella fatta da Raniolo (2006) è forse la più interessante, in
quanto è l’unica che nasce esplicitamente come un tentativo di applicare le categorie degli
studi organizzativi alle ricerche sugli attori politici.
Partendo dalle premesse sopra ricordate sull’importanza dell’approccio organizzativo e sulla
sostanziale insufficienza della sua applicazione alla ricerca politica, infatti, lo studioso si
propone di superare le difficoltà incontrate dalle analisi precedenti relativamente
all’integrazione fra le esigenze dello studio degli attori politici e gli strumenti offerti
dall’analisi organizzativa.
Raniolo individua quattro questioni organizzative fondamentali: il problema dell’azione
collettiva e della partecipazione (come e perché si entra nell’organizzazione?), il problema
2 Per una visione completa dello sviluppo degli studi organizzativi, si è fatto riferimento principalmente a Scott(1994), Collins (1992), Strati (2004), Bonazzi (1999), Gagliardi (a cura di, 1995), Friedberg (1994).
40
del coordinamento (come ci si rapporta con l’organizzazione?), il problema della
mobilitazione delle risorse (come ci si rapporta con le risorse organizzative indispensabili
all’azione partitica e alla sopravvivenza della stessa organizzazione?), il problema dell’azione
strategica (come ci si rapporta con l’ambiente esterno?).
Secondo la prospettiva mainstream, l’utilizzo dei sondaggi e delle altre ricerche
demoscopiche è relativo alla costruzione di un canale fra il campo dell’opinione pubblica e
quello della politica (Mazzoleni 1998).
Traducendo questo tema con il linguaggio ed i concetti sopra individuati, appare evidente che
il ruolo delle indagini demoscopiche negli attori politici si situa, da un punto di vista
analitico, principalmente nell’ambito del rapporto fra organizzazione e ambiente.
Si ottiene un risultato analogo applicando un’altra categorizzazione degli elementi costitutivi
delle organizzazioni.
Scott (1994), infatti, evidenzia quattro elementi costitutivi dell’organizzazione: la struttura, la
tecnologia, gli scopi, i partecipanti. Essi formano a pieno titolo gli elementi
dell’organizzazione.
Ma esiste un quinto elemento che, pur non essendo interno all’organizzazione, ne costituisce
un elemento costitutivo perché è in rapporto ad esso che si definiscono anche tutti gli altri: si
tratta dell’ambiente.
Anche in questo caso, dunque, sarebbe proprio il tema ambientale a rappresentare il maggior
legame con la nostra ricerca.
Possiamo dunque sostenere che l’applicazione dei due modelli di Raniolo e Scott, pur con le
diversità del caso, porta a risultati simili, individuando nei rapporti con l’ambiente l’ambito
degli studi organizzativi che riveste il maggior interesse per il tema delle ricerche nel campo
della politica.
È su questo punto, dunque, che si è concentrata la ricognizione della letteratura e
l’individuazione di concetti e categorie utili a descrivere il fenomeno dell’uso delle ricerche
nella politica da un punto di vista organizzativo.
Ma prima occorre comprendere meglio quali siano le varie concezioni dell’organizzazione
presenti sulla scena del dibattito internazionale e l’eventuale evoluzione in corso.
41
Si rendono necessarie due premesse.
La prima premessa riguarda il tipo di materiale presente in letteratura. Gli studi che andremo
a trattare, infatti, in gran parte non hanno mai riguardato direttamente il tema di questa
ricerca, e cioè gli attori politici e l’uso che questi fanno di indagini demoscopiche. Perlopiù
offrono modellizzazioni generali, concetti analitici, al massimo qualche applicazione pratica
o studio di caso che può essere messo in relazione con il nostro oggetto. Per quanto non
specifici, nondimeno questi contributi hanno offerto una base di partenza necessaria per
l’analisi empirica.
Seconda premessa. Non ricostruiremo filologicamente l’intero dibattito esistente in letteratura
su ciascun tema: non è questa la sede adatta, né sarebbe in alcun modo utile. Ci limiteremo a
passare in rassegna alcuni lavori scelti sulla base della loro utilità per la nostra indagine,
cercando di illustrarne gli elementi più interessanti e di valutarne criticamente la portata e
l’utilità ai nostri fini.
3.3 Concezione di organizzazione, sistema aperto e ruolo dell’ambiente
Esistono vari criteri per categorizzare e rendere conto dell’enorme mole di lavori che sono
stati dedicati alle organizzazioni nel corso degli anni.
Strati (2004), a questo proposito, è particolarmente efficace nell’evidenziare le differenti e
ugualmente valide modalità con cui si possono esplicitare le differenze esistenti fra le diverse
ricerche: dalla suddivisione per scuole a quella per paradigmi, dall’attenzione alle tematiche
ad approcci più originali come quelli basati sulle visioni metaforiche dell’organizzazione.
La definizione del campo degli studi organizzativi non è affatto una questione
autoreferenziale, ma aiuta a comprendere l’evoluzione del dibattito, delle ricerche, delle
analisi, dei risultati.
Da questo punto di vista, è particolarmente efficace la ricostruzione operata da Scott (1994).
Il suo lavoro infatti ha il pregio di mettere in evidenza come i binari dell’evoluzione degli
studi organizzativi abbiano condotto verso una visione del concetto di organizzazione in cui
acquistano grande importanza temi che sono centrali proprio per l’analisi di quel tipo
particolare di organizzazioni che sono gli attori politici.
Secondo la sua ripartizione delle varie teorie, si possono configurare tre grandi prospettive.
42
Più che indicare una evoluzione implicitamente valutativa, queste scuole segnano il passaggio
attraverso concezioni differenti della definizione di organizzazione e della conseguente
focalizzazione della ricerca su determinati elementi costitutivi.
La prima è la cosiddetta prospettiva del sistema razionale. Le varie definizioni date dagli
autori che si riconoscono in questa concezione (March, Simon, Etzioni, Blau) sottolineano
due caratteristiche strutturali, e cioè la «combinazione tra la specificità relativamente elevata
degli scopi e la formalizzazione relativamente elevata» (Scott 1994, pag. 43). Pur fra
differenze che distinguono i diversi studi, l’attenzione è posta sulle strutture interne
all’organizzazione, considerate come «strumenti deliberatamente disegnati per l’efficiente
realizzazione dei fini» (Scott 1994, pag. 74). È l’aspetto normativo a farla da padrone, così
come lo studio della razionalità dei comportamenti e dei vincoli e delle limitazioni delle sue
possibilità di applicazione.
Gli studiosi che sono fatti confluire nella prospettiva del sistema naturale, invece, focalizzano
la loro attenzione su altri aspetti del fenomeno organizzativo, con particolare interesse per il
comportamento reale dei membri, per i conflitti fra individui e organizzazione. Le
organizzazioni diventano «sistemi organici permeati da una forte carica rivolta alla
sopravvivenza e alla conservazione del sistema in quanto tale», cioè veri sistemi sociali
formati da gruppi che tentano di adattarsi e sopravvivere ai contesti. Una lotta che sfocia in
una ricerca continua di un equilibrio che non sempre è coincidente con il fine della
organizzazione e con la formalizzazione di una struttura utile a perseguire questo fine.
Con maggiore precisione analitica, le organizzazioni secondo questa prospettiva sono
«collettività i cui partecipanti condividono un interesse alla sopravvivenza del sistema e si
impegnano in attività collettive, strutturate informalmente, per garantire tale sopravvivenza»
(Scott 1994, pag 45).
Entrano in questo modello, ad esempio, le osservazioni di Michels (1966) e la sua legge
ferrea dell’oligarchia e i lavori di Brunsson (1985) sull’irrazionalità dei processi decisionali
(contrapposta alla razionalità degli esiti).
La prospettiva del sistema aperto, invece, amplia esplicitamente i confini d’indagine,
inserendo con forza l’elemento contestuale, e cioè l’ambiente in cui l’organizzazione opera ed
è inserita.
43
Le tre diverse prospettive, infatti, trattano il tema ambiente in maniera sostanzialmente
differente. Il sistema razionale, concentrato sui processi interni, semplicemente non tocca la
questione. Il sistema naturale, presenta una maggiore varietà di posizioni, comunque limitate.
È con la prospettiva del sistema aperto, invece, che l’ambiente diventa a pieno titolo una delle
dimensioni costitutive dell’organizzazione. Secondo questa concezione «l’ambiente plasma,
sostiene e permea le organizzazioni», la struttura dunque non è più né formale né un’entità
organica, bensì «un sistema di attività interdipendenti che connettono coalizioni instabili di
partecipanti; tali sistemi sono radicati nell’ambiente in cui operano, dipendono da continui
interscambi con esso e ne sono costituiti» (Scott 1994, pagg. 45-46).
Le tre prospettive sopra descritte rappresentano, certo, un’evoluzione storica negli studi sulle
organizzazioni. Un’evoluzione però che non cancella totalmente le conoscenze precedenti,
ma che precede per successive rifocalizzazioni del problema, che contribuiscono a
evidenziare nuovi spazi di complessità senza per questo necessariamente sconfessare teorie e
impostazioni precedenti.
Per comprendere meglio questo punto, si può dare conto di alcuni tentativi di inserire le
prospettive precedenti in modelli non evolutivi.
Per esempio, un tentativo importante (Thompson 1967) ha cercato di associare a ciascuna
prospettiva un livello decisionale dell’organizzazione stessa: al livello tecnico si
applicherebbe la prospettiva razionale, al livello manageriale si applicherebbe quella
naturale e al livello istituzionale si applicherebbe quella del sistema aperto. In sostanza, il
modello di Thompson «prevede che le organizzazioni si sforzino di essere razionali sebbene
siano sistemi naturali aperti» (Scott 1994, pag. 127).
Diverso il tentativo dello stesso Scott (1994).
La sua ricognizione degli studi precedenti individua due dimensioni fondamentali della
variazione dei modelli organizzativi.
Il primo riprende la ripartizione storica fra sistemi razionali e sistemi naturali.
Il secondo invece prende le mosse dalle novità introdotte dalle ricerche più recenti,
proponendo così una distinzione analitica fra sistemi aperti e sistemi chiusi.
L’intreccio fra queste due dimensioni va a costruire una griglia analitica di quattro modelli
idealtipici di organizzazione, nei quali è possibile ricondurre i vari studi, teorie e modelli
proposti negli anni dall’analisi organizzativa.
44
Linee attuali degli studi organizzativi
Indugiare nell’individuazione di uno o più file rouge nella ricerca sulle organizzazioni non è
esercizio fine a sé stesso, ma deve essere considerato come uno strumento per identificare e
chiarire alcuni punti utili alla attuale ricerca sulle organizzazioni.
Da questo punto di vista, possiamo affermare che alcuni elementi acquistano chiarezza.
La grande frattura evidenziatasi con la crisi del paradigma razionalista e positivista non ha
fatto emergere un nuovo paradigma alternativo di riferimento, ma, come ben argomentato da
Strati (2004), “la frammentazione paradigmatica”. «Si può notare così che, sotto la stessa
denominazione di organizzazione, non si è studiato un identico fenomeno sociale, ma che, al
contrario, si sono analizzati aspetti e dimensioni dell’organizzazione che sono differenti e non
immediatamente confrontabili fra di loro» (Strati 2004).
Emerge comunque un modello di organizzazione meno strutturata (Collins 1992, Gagliardi
1995). Una descrizione efficace mostra come «A poco a poco, si perviene così ad una visione
più astratta, complessa e conflittuale dell’organizzazione o, se si preferisce, molto meno
coerente … L’organizzazione è disincantata, non è altro che un contesto d’azione in cui si
intrecciano e si gestiscono rapporti di cooperazione, di scambio e di conflitto fra attori aventi
interessi divergenti.» (Friedberg 1994, pag. 46).
Emerge inoltre in modo netto il ruolo dell’ambiente e l’apertura del sistema (Strati 2004).
Infatti, una seconda grande frattura paradigmatica riguarda il passaggio da una focalizzazione
interna a una esterna, avvenuto con la “scoperta” dell’importanza dell’ambiente (Berg,
Gagliardi 1995; Scott 1994; Collins 1992).
Si tratta di un punto che porta conforto alla tesi che gli studi organizzativi possano contribuire
a una migliore comprensione degli attori politici.
Emergono inoltre nuovi modi di intendere la stessa ricerca sulle organizzazioni.
Riprendendo le tesi espresse da Clegg e Hardy nel volume collettaneo Handbook of
Organization Studies, la ricerca sulle organizzazioni si sta arricchendo di nuovi interessi.
45
In un primo periodo, infatti, la concezione univoca era quella dell’organizzazione come
organizations, cioè le «realtà oggettive, confrontabili fra di loro sulla base della ricerca
empirica», studiate per far emergere l’influenza di ogni variabile sulle forme organizzative.
Le nuove prospettive di ricerca evidenziate da Scott, invece, hanno progressivamente fatto
emergere almeno due nuove concezioni delle organizzazioni.
La prima è l’organizzazione come organizing, cioè centrata sul processo dell’organizzare,
«costituito dalle pratiche organizzative situate e radicate nelle culture organizzative, dalle
attività dedite alla creazione di senso dell’agire organizzativo, dalla negoziazione delle
simbologie organizzative, dalla comunicazione organizzativa …» (Strati 2004).
La seconda, invece, è l’organizzazione come organization, cioè il discorso sulle
organizzazioni, la «costruzione sociale e collettiva – ad opera di accademici,
consulenti/ricercatori, studenti ed operatori del contesto organizzativo in esame – del discorso
teorico sulla natura (delle organizzazioni)» (Strati 2004).
Anche in questo caso, ci troviamo di fronte a evoluzioni degli studi organizzativi che vanno
nella direzione di quanto indicato in questa ricerca.
Entrambi i nuovi modi, introdotti sopra, di intendere il concetto di organizzazione, si prestano
particolarmente per lo studio delle indagini demoscopiche all’interno degli attori politici, che
manifestano importanti questioni sia attinenti alle routine che sovrintendono il processo
concreto dell’organizzare (organizing), sia alla costruzione sociale operata da professionisti,
operatori, membri delle organizzazioni (organization).
La prospettiva del sistema aperto
Per l’importanza attribuita al tema delle relazioni ambientali, la prospettiva del sistema aperto
è senz’altro la più adeguata per interpretare le organizzazioni politiche con le categorie degli
studi organizzativi.
Infatti, le origini storiche e culturali della prospettiva del sistema aperto hanno radici
profonde e complesse, tanto da rappresentare a tutti gli effetti un cambio di paradigma non
limitato agli studi organizzativi, ma esteso alle radici epistemologiche della conoscenza
sociale e, di conseguenza, ampliabile a discipline e ambiti di studio più vasti.
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Essa, applicata alla teoria organizzativa, non si limita alla decostruzione progressiva di
concetti precedenti, ma sposta realmente l’attenzione analitica dalla struttura ai processi,
dall’organizzazione all’organizzare.
Particolarmente utile, poi, è non solo la nuova attenzione ai contesti ambientali, ma anche
l’innovatività del ruolo attribuito a questi.
L’influenza ambiente-organizzazione cessa di essere unidirezionale e scontata. Diventa
invece un punto interessante di studio perché mostra le possibilità di intervento delle stesse
organizzazioni nei meccanismi di regolazione dello scambio organizzazione-ambiente, nella
piena ottica “sistemica” adottata dalla prospettiva del sistema aperto.
La prospettiva del sistema aperto ha dunque posto alcuni concetti e riflessioni di grande
importanza per questa ricerca.
Se caliamo la teoria nella prassi del nostro specifico ambito di indagine, infatti, possiamo
notare che l’attore politico rappresenta un’organizzazione con caratteristiche peculiari.
Per questo tipo di organizzazione, il rapporto con l’ambiente esterno è non solo
fondamentale, ma rappresenta uno degli scopi principali, una delle sue ragioni d’essere.
Ed è esattamente questo il passaggio in cui si inseriscono le indagini demoscopiche. Per lo
studio di questi soggetti, dunque, i risultati delle prospettive più recenti sembrano essere
fondamentali.
L’importanza dell’ambiente per le organizzazioni politiche
Abbiamo già visto come, con la prospettiva del sistema aperto, le organizzazioni siano
strettamente e biunivocamente correlate con gli ambienti in cui sono inserite: «il modo in cui
un’organizzazione si pone in rapporto al suo ambiente – anzi, la natura stessa del suo
ambiente – è notevolmente influenzato dalle caratteristiche strutturali dell’organizzazione, e
queste a loro volta sono fortemente caratterizzate dall’ambiente. Le forze esterne danno
forma ai meccanismi interni e viceversa» (Scott 1994, pag. 155).
L’ambiente in vari modi influenza le caratteristiche delle organizzazioni, così come queste
ultime possono influenzare le caratteristiche ambientali.
47
Dal punto di vista di questa ricerca, ciò è pienamente evidente.
Un’organizzazione politica, per sua stessa natura, ha come obiettivo la ricerca del consenso,
che ne costituisce la risorsa essenziale. Ma il consenso politico “vive” stabilmente
nell’ambiente e l’organizzazione non può non rapportarsi con esso per ottenere la risorsa del
consenso. Questo scambio, poi, avviene in varie forme: il voto, la partecipazione fisica ad
iniziative, le sottoscrizioni anche economiche. Ma l’essenza di ciò è che l’organizzazione non
può esistere se non all’interno e strettamente correlata al suo ambiente, da dove trae la linfa
vitale per la sua esistenza.
Una conseguenza di ciò è che per le organizzazioni politiche è ancor più vera la possibilità di
influenza reciproca fra organizzazione e ambiente, anche in termini “reali” di modifica di
caratteristiche fisiche o concrete. Ad esempio (ma è solo un esempio), una modifica
dell’ambiente (es. un avvenimento politicamente dirimente) può determinare un aumento o
un calo di voti, con conseguenze precise e “reali” sulle caratteristiche dell’organizzazione.
Viceversa, un’organizzazione politica può influire sulle caratteristiche dell’ambiente; anzi,
ciò corrisponde quasi ad una mission dei partiti. Si pensi ad esempio (e anche questo è solo
un esempio) ad un partito al governo, che con la sua attività può cambiare le condizioni
normative o addirittura incidere su fenomeni sociali di grande o limitata rilevanza.
Ovviamente il rapporto fra organizzazioni e ambiente non è limitato allo scambio
informativo, ma si presenta anche come una reale influenza reciproca. Se dunque non ci sono
molti dubbi sul fatto che esiste un’influenza reciproca organizzazione-ambiente, che agisce e
influisce su caratteristiche reali, ciò che è meno scontato è che questa influenza può assumere
caratteristiche più sfumate e agire più sul piano simbolico. Molto spesso ovviamente le due
azioni si sorreggono reciprocamente, ma è bene evidenziare che la leva su cui fa perno il
principio di influenza non è solamente quella delle modifiche di stati reali, ma che questi
possono essere causati anche da influenze di natura informativa-simbolica (Gagliardi 1995).
Già a prima vista e senza entrare nel merito delle diverse teorie che sotto passeremo in
rassegna, possiamo riassumere quanto detto, mostrando come l’intreccio fra le organizzazioni
politiche e l’ambiente può svilupparsi in due direzioni.
Da un lato, è l’ambiente che influenza le organizzazioni politiche, portando al suo interno
delle risorse, per esempio informative, che provocano reazioni da parte delle organizzazioni.
48
Ma dall’altra parte, è l’organizzazione stessa che influisce sull’ambiente, ponendosi
l’obiettivo, attraverso l’azione politica, di modificare le condizioni della società, che
rappresenta uno dei fini costitutivi proprio delle organizzazioni politiche.
In entrambe queste direzioni, è da studiare il ruolo svolto dalle ricerche socio-politiche. Nel
primo caso attraverso le modalità di raccolta delle informazioni tramite le quali avviene
l’influenza ambientale. Nel secondo caso, attraverso l’utilizzo di queste ricerche nelle
modalità con cui si esprimono le strategie e il processo decisionale.
3.4 L’influenza dell’ambiente sulle organizzazioni: l’attivazione
Gli studi organizzativi hanno trovato modi diversi di dare conto del problema delle relazioni
con l’ambiente.
La teoria delle contingenze, ad esempio, ha concentrato l’attenzione su come le condizioni
ambientali modellino diverse forme di organizzazione. Le teorie ecologiche, invece, hanno
sostenuto che le condizioni ambientali selezionino le organizzazioni sulla base della loro
capacità di adattamento (Collins 1992, pag. 601-602; Scott 1994, pag. 168).
Senza entrare nel dettagli dell’analisi di quelle teorie, che presentano variazioni e complessità
di cui in questa sede non si può dare conto, è evidente come esse continuino a rimanere
nell’ottica di un ambiente considerato come nettamente separato dall’organizzazione e come
oggettivo e reale nel suo porsi in relazione.
Un netto cambio di prospettiva è invece avvenuto negli studi più recenti sulle organizzazioni,
che hanno iniziato a porre in chiave diversa il tema delle relazioni con l’ambiente.
Per quanto riguarda gli attori politici, il modo di interpretare la relazione ambiente-
organizzazione è chiaramente orientato a una visione in linea con questo cambio di
prospettiva.
Nel caso degli attori politici, infatti, la relazione ambiente-organizzazione si configura,
utilizzando la terminologia di Raniolo (2006), come una visione processuale, attiva.
Secondo questa visione, l’ambiente esterno è composto da diverse “arene” e non da una realtà
monolitica.
Con l’applicazione della visione attiva del rapporto organizzazione-ambiente, l’analisi
organizzativa degli attori politici viene decisamente posta nell’ambito della nuova prospettiva
indicata principalmente a partire da Weick (1997): la separazione fra organizzazione e
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ambiente esterno non è netta e immutabile, ma frutto di una continua negoziazione di natura
sociale, in cui le possibilità di influenza e di rappresentazione sono molteplici e “attivabili”
anche da parte dell’organizzazione.
Nei prossimi paragrafi, dunque, ci siamo concentrati sull’analisi di questi concetti e sulle
conseguenze che la letteratura sul tema ha isolato, che hanno portato dei contributi notevoli
alla comprensione del ruolo delle ricerche nelle organizzazioni politiche.
Karl Weick e l’ambiente “attivato”
Relativamente al tema dei rapporti organizzazione-ambiente, i concetti introdotti da Karl
Weick hanno rappresentato un passaggio significativo negli studi organizzativi.
Egli infatti per la prima volta porta la discussione sul rapporto ambiente-organizzazioni al di
fuori della cornice cognitiva dell’adattamento, proponendo invece un ruolo attivo per le
organizzazioni nel rapportarsi con l’ambiente.
La prospettiva proposta da Weick è allo stesso tempo rivoluzionaria e utilissima.
Il suo è un lavoro completo, che mescola elementi teorici a risultanze empiriche,
particolarmente di impostazione etnometodologica.
Nei lavori successivi (Weick 1997), infatti, le teorizzazioni sull’attivazione ambientale
vengono inserite in una più complessiva concezione del fenomeno organizzativo volta a
destrutturare il paradigma razionalista, per andare viceversa alla ricerca delle ambiguità e
delle contraddizioni che, secondo Weick, rappresentano delle presenze significative e per
certi versi indispensabili della realtà del comportamento delle organizzazioni. Al centro viene
posto il concetto di sensemaking, l’attività compiuta per dare senso a ciò che avviene o è
avvenuto, per districarsi nelle ambiguità dell’organizzazione mantenendo la percezione di una
coerenza d’azione.
Con questo lavoro, il suo pensiero traccia una visione complessiva dell’organizzazione (quasi
un paradigma autonomo all’interno degli studi organizzativi), in cui l’iniziale analisi del
rapporto organizzazione-ambiente viene intrecciata con importanti intuizioni sul processo
decisionale e sull’azione strategica, fondamentali per il focus d’interesse di questo lavoro.
Tralasciando le questioni più generali e teoriche, la posizione di Weick offre argomenti
importanti e innovativi anche per lo studio dei rapporti fra organizzazione e ambiente.
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Il concetto di enactment è l’elemento che per Weick spiega il rapporto fra organizzazione e
ambiente e fra soggetto e ambiente, dando conto di come costruiamo le nostre percezioni e di
come il rapporto fra organizzazioni e ambiente non sia unidirezionale, ma comporti una
reciproca influenza.
Come spiega lo stesso Weick, l’attivazione (enactment) riguarda il «mettere a fuoco alcune
parti dei flussi di esperienza per dedicarvi maggiore attenzione» (Weick 1969).
Sostanzialmente indica «che, nella vita organizzativa, le persone spesso producono parte
dell’ambiente che affrontano» (Weick 1997, pag. 31).
Come spiega Scott (1994, pag. 174), «l’organizzazione fa qualcosa di più che osservare e
interpretare: essa modifica l’ambiente». Gli studi di Weick mettono in luce come «l’ambiente
sia creato, grazie a regole dell’attenzione e ad interpretazioni che è l’organizzazione stessa ad
attivare» (Strati 2004).
Con vari esempi, Weick illustra un concetto molto forte, e cioè che l’ambiente non si dà come
un oggetto «monolitico, singolare, stabilito, esistente in maniera distaccata ed esterna».
Piuttosto sono le persone con le loro azioni e con le loro (consapevoli o inconsapevoli)
strutture dell’attenzione che selezionano, categorizzano, interpretano e rappresentano
l’ambiente e la loro relazione con esso.
Non c’è una vera separazione fra organizzazione e ambiente, e perciò non è possibile
considerare completa la visione dell’adattamento data dalle precedenti teorie sui rapporti
organizzazione-ambiente. Questa è solo una parte della storia, il suo completamento è dato
dalla soggettività delle persone e delle organizzazioni e dalla loro possibilità di costruire i
contesti ambientali.
Non solo è un concetto molto forte. Esso infatti acquista maggiore interesse perché si presta
perfettamente ad una discussione sul ruolo delle ricerche socio-politiche nelle routines
organizzative.
Infatti, il processo di attivazione ambientale è un aspetto troppo spesso trascurato nell’analisi
reale delle organizzazioni.
Dal punto di vista di questa ricerca, la prospettiva mainstream non lo enfatizza di certo.
Piuttosto, i concetti di Weick ben si adattano ad alcune delle formulazioni apportate dai critici
dell’efficacia delle indagini demoscopiche che abbiamo sopra visto, come ad esempio
Bourdieu.
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Se questa visione è vicina ad una descrizione efficace della realtà (come gli esempi proposti
da Weick e l’attuale dibattito sulla concezione di organizzazione sono disposti a confermare),
dal punto di vista degli attori politici, sarebbero proprio questi ultimi ad attivare l’ambiente
circostante (sia esso il campo degli elettori, della pubblica opinione, della competizione
politica, di quelle stesse organizzazioni costituite dalle società di consulenza e di ricerca) e
non (solo) viceversa.
In questa attività, un’ipotesi da verificare riguarda gli stessi sondaggi e gli altri strumenti di
analisi dell’opinione. Che non si configurerebbero più solo come attività volte a conoscere
l’ambiente, quanto piuttosto come strumenti (anche) di costruzione di questi contesti
ambientali.
Approfondimenti sul concetto di attivazione ambientale
Altre ricerche, anche in una prospettiva differente da quella di Weick, hanno messo in luce
come la possibilità di attivazione dell’ambiente sia un fenomeno complesso.
Le possibilità di attivazione dell’ambiente, oltre a poter essere inconsapevoli, possono essere
anche vincolate da condizioni specifiche della struttura organizzativa e dei contesti, che
strutturano la percezione degli attori, creando delle strutture dell’attenzione (March, Olsen
1976; Scott 1994, pagg. 174-5).
Non è questa la sede per un approfondimento specifico sui numerosi studi che hanno trattato
l’argomento. È sufficiente accennare al fatto che il concetto di strutture dell’attenzione mette
in luce come l’attivazione dell’ambiente sia determinata anche dalla struttura organizzativa e
dalle logiche che in essa si producono, che influenzano l’azione dei singoli membri.
In relazione agli attori politici, ciò che interessa è che le strutture dell’attenzione possono
essere messe in relazione con le pratiche adottate dalle organizzazioni per reperire le
informazioni, come ad esempio il ruolo svolto dalle indagini demoscopiche e dalle altre
ricerche socio-politiche, che contribuiscono a determinare quelle strutture organizzative che
influiscono sull’attivazione ambientale.
E queste strutture producono conseguenze notevoli per l’organizzazione politica.
52
La stessa esistenza di queste pratiche strutturate di raccolta delle informazioni (come lo sono
appunto le ricerche demoscopiche nelle organizzazioni politiche), e il fatto che esse
convoglino regolarmente informazione, producono delle conseguenze nella percezione
dell’ambiente da parte dell’organizzazione. Questa attività, infatti, «…incentra su di esse
l’attenzione dell’organizzazione. La raccolta di certe informazioni occupa il tempo e
l’attenzione dell’organizzazione, ciò che necessariamente riduce il tempo e l’attenzione da
rivolgere altrove.» (Pfeffer, Salancik 1978).
In buona sostanza, ciò significa che le pratiche strutturate di raccolta di informazioni non
avrebbero solo a che fare con la necessità da parte dell’organizzazione di rapportarsi con un
ambiente esistente oggettivamente, ottenerne informazioni (oggettive anch’esse) strategiche e
operare utilizzandole per i fini dell’organizzazione. Le procedure di strutturazione
dell’attenzione e di attivazione dell’ambiente ci mostrano invece che le pratiche di raccolta di
informazione non sono affatto tecniche per una conoscenza oggettiva, ma attività svolte
(consapevolmente o inconsapevolmente) per ottenere un certo tipo di percezione (soggettiva)
della realtà esterna, la quale poi è trattata come dato reale ed è utilizzata dall’organizzazione
per rapportarsi nuovamente all’ambiente, contribuendo così a “crearlo” non solo nelle
percezioni ma anche nei fatti.
«Le organizzazioni sono viste come interdipendenti con l’ambiente in sensi diversi. La
percezione ambientale dei partecipanti e le strutture d’attenzione sfociano in una
rappresentazione dell’ambiente che è il prodotto sia dei caratteri dell’ambiente che dei sistemi
d’informazione dell’organizzazione. L’ambiente influisce direttamente sui risultati
organizzativi che, a loro volta, influiscono sulle percezioni e decisioni successive. L’ambiente
influenza l’organizzazione, ma anche l’organizzazione modifica e seleziona il proprio
ambiente» (Scott 1994, pag 182).
Un'altra conseguenza interessante riguarda le modalità strutturali di riduzione della
complessità ambientale.
Nella loro attività di attivazione ambientale, infatti, le organizzazioni riducono la complessità
degli stimoli ambientali affidandosi a dei riferimenti fissi, che diventano portavoce (Callon
1986) o relè (Crozier, Friedberg 1977), cioè elementi che «legati all’organizzazione da
relazioni di scambio e di potere più stabili, finiscono per personificare totalmente degli interi
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segmenti ambientali e per divenirne, quindi, i “rappresentanti” nei confronti
dell’organizzazione» (Friedberg 1994, pag. 66).
Questi portavoce, ovviamente, potranno sfruttare il loro ruolo preminente per inserire
nell’organizzazione i propri interessi.
Applicando il concetto alle organizzazioni politiche, è facile notare come esso possa
descrivere in maniera credibile (anche se da verificare) il ruolo delle strutture organizzative
nate dalla relazione con le agenzie esterne di rilevazione dell’opinione pubblica.
Ma fenomeni simili, sempre dettati dalle strutture dell’attenzione, si possono trovare anche
più propriamente all’interno dell’organizzazione.
Infatti, la competenza e la capacità di ottenere informazioni diventa una forma di potere da
spendere nell’organizzazione, a favore di quei soggetti che ne sono depositari, più o meno
esclusivi.
E, anche in questo caso, l’aspetto forse più interessante è la piena consapevolezza di questo
fenomeno.
Per esempio, relativamente al fatto che quella detenuta dagli esperti, e basata sulla
competenza, è una forma di potere che si esercita solo se applicata.
E dunque può portare alla paradossale situazione per cui, per mantenere il potere che deriva
dalla competenza, è necessario che il bisogno dell’organizzazione per il quale la competenza
è decisiva permanga e non venga completamente eliminato (Friedberg 1994, pag. 213).
Anche in questo caso, è facile pensare ad un’applicazione al caso degli attori politici.
3.5 L’influenza delle organizzazioni sull’ambiente: le strategie
La argomentazioni fin qui ripercorse hanno messo in luce come, nella prospettiva del sistema
aperto, il rapporto fra struttura e ambiente si configuri come un processo di
interstrutturazione (Friedberg 1994, pag. 67), in cui l’organizzazione si rapporta e incide in
diverse maniere sull’ambiente, ma anche viceversa.
Come abbiamo visto, infatti, anche le organizzazioni si impegnano in attività volte a
modificare l’ambiente che le circonda (Friedberg 1994; Scott, 1994; Collins 1992).
E ciò è ancora più vero per le organizzazioni politiche, che hanno nella loro stessa ragion
d’essere la necessità di ottenere dai vari ambienti esterni condizioni sempre più favorevoli per
la loro esistenza e attività.
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L’altro asset, dunque, del legame fra organizzazione e ambiente è dato dalle pratiche con cui
le organizzazioni cercano esse stesse di modificare l’ambiente, mettendo in atto delle
strategie.
La separazione concettuale fra strategia e tattica è stata approfondita da De Certeau: « […]
Per strategia intendo il calcolo dei rapporti di forza che diviene possibile a partire dal
momento in cui un soggetto di volontà e di potere è isolabile in un ambiente. Essa presuppone
un luogo che può essere circoscritto come proprio e fungere dunque da base a una gestione
dei suoi rapporti con un’esteriorità distinta. La razionalità politica, economica o scientifica è
stata costruita su questo modello strategico. Intendo al contrario per tattica un calcolo che
non può contare su una base propria, né dunque su una frontiera che distingue l’altro come
una totalità vivibile. La tattica ha come luogo solo quello dell’altro. Si insinua, in modo
frammentario, senza coglierlo nella sua interezza, senza poterlo tenere a distanza. Non
dispone di una base su cui capitalizzare i suoi vantaggi, prepararsi a espandersi e garantire
un’indipendenza in rapporto alle circostanze.» (De Certeau 2001, p. 15).
Senza addentrarci nei dettagli della categorizzazione teorica presentata da De Certeau, dal
brano possiamo cogliere l’importanza della relazione con l’ambiente circostante. Le strategie,
infatti, rappresentano proprio la modalità attiva con cui l’organizzazione cerca di porsi in
relazione con l’ambiente.
Nella storia degli studi organizzativi, è un tema che ha interessato particolarmente la teoria
delle contingenze (si veda ad esempio Pfeffer, Salancik 1978), la quale, pur applicando una
prospettiva per molti aspetti poi superata, ha portato l’attenzione sul tema delle strategie e
sulla descrizione di queste ultime.
Il tema delle strategie di relazione con l’ambiente è assai interessante anche per lo specifico
caso delle indagini demoscopiche.
Queste, infatti, secondo la prospettiva mainstream avrebbero una delle loro funzioni
principali nel costituire le basi informative e conoscitive per le decisioni strategiche volte alla
massimizzazione dello scambio ambiente-organizzazione, particolarmente in relazione alla
risorsa “consenso”.
È questo il secondo lato dell’utilizzo delle indagini demoscopiche: il loro utilizzo non
starebbe solo nel fornire uno strumento di conoscenza dell’ambiente, ma anche uno strumento
concreto per costruire strategie e corsi d’azione.
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E, come già avvenuto per il primo, è un aspetto da chiarire e approfondire attraverso la
ricerca empirica. È ipotizzabile, infatti, che questa concatenazione causale sia discutibile e
quantomeno passibile di approfondimenti e varianti.
Approfondiremo dunque alcuni aspetti della letteratura sul tema delle strategie, soprattutto
per mostrarne le possibilità di applicazione all’oggetto di questa ricerca, e cioè all’uso delle
indagini socio-politiche da parte degli attori politici
Competizione vs. identità
La concezione attiva (Raniolo 2006) dell’organizzazione nel relazionarsi con le diverse arene
configura l’esistenza di strategie differenti, cioè corsi d’azione deliberati rivolti a raggiungere
specifici obiettivi.
Ma rimangono aperte le possibilità per visioni meno rigide del concetto di strategia, che
tengano maggiormente conto dell’imprevedibilità dell’azione, delle negoziazioni continue
presenti all’interno delle organizzazioni e anche di strategie costruite a posteriori per
legittimare le azioni organizzative più che volte al reale perseguimento di fini.
In ogni caso, le strategie dei partiti, secondo Raniolo (2006), avrebbero – ed è questo il punto
per noi più interessante della sua analisi – un ruolo determinante nel determinare la posizione
che l’organizzazione andrà ad assumere all’interno del dilemma tra due logiche diverse:
quella della competizione e quella dell’identità.
Il riferimenti è ad alcuni concetti elaborati in alcuni studi classici di teoria
dell’organizzazione, e in particolare ai lavori di Gagliardi (1985). Quest’ultimo parla di due
logiche d’azione strategica fondamentali: l’accreditamento e l’individuazione.
Declinate secondo le peculiarità degli attori politici, le due logiche si trasformano in
competizione, cioè un tipo di relazione volta a raggiungere vantaggi specifici dalla relazione
con l’ambiente, e identità, cioè la creazione di solide relazioni interne come base per l’azione
collettiva e per il mantenimento e la conservazione dell’identità culturale. La prima è la faccia
efficiente, «ciò che i partiti sono, o dicono di essere»; la seconda è la faccia espressiva, «ciò
che essi fanno in concreto».
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Ciò che non è stato ancora affrontato dalla ricerca (sociologica, politologica, organizzativa)
riguarda le routines alle quali gli attori politici si affidano per seguire i loro obiettivi (più o
meno consapevoli) di posizionamento rispetto alle due logiche sopra esposte. Infatti, a
differenza di quanto avvenuto per altre realtà organizzative, nel caso degli attori politici
scarseggiano le ricerche che si pongono come obiettivo la comprensione di questi corsi
d’azione e di conseguenza rimane ancora da descrivere la gran parte delle modalità attuative
messe in campo dagli attori politici per i loro obiettivi di competizione e di identità.
In particolare, è interessante comprendere quale sia la gamma di possibilità (e le concrete
modalità) di utilizzo delle indagini demoscopiche all’interno di queste routines, ragione per
cui questo concetto è stato utilizzato durante l’analisi del materiale empirico raccolto.
Raniolo attribuisce al dilemma fra logica dell’identità e logica della competizione un ruolo di
primissimo piano nelle dinamiche della vita interna ai partiti, una sorta di “dualità
costitutiva”.
Due logiche non monolitiche e autoescludenti, ma piuttosto in grado di interagire
continuamente e di evolvere nel tempo per spostare l’azione del partito verso quella più
adatta al momento.
Hirschman (2002), fra gli altri, ha mostrato questa interconnessione.
Pur partendo da una prospettiva debitrice di una visione razionalista, nella sua tripartizione
fra exit, voice e loyalty Hirschman mostra come la logica dell’identità non sempre sia opposta
a quella della competizione.
Ad esempio, l’idea del giusto equilibrio fra exit, voice e loyalty mostra come il perseguimento
di una strategia di identità può essere la base di una buona efficacia della strategia di
competizione, e viceversa.
Complessità organizzativa della strategia
Altre analisi mostrano significativamente come quello della strategia sia un problema
strutturalmente complesso all’interno delle organizzazioni.
La strategia, infatti, non si situa solo a livello manageriale: l’elemento politico e di potere
pervade tutti i contesti d’azione dell’organizzazione (Friedberg 1994, pag. 65)
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Pur concordando con la necessità di mantenere la considerazione della concezione di strategia
nell’analisi delle organizzazioni, Friedberg non condivide la netta separazione fra elementi
decisionali e altri non decisionali, cioè fra un livello politico e uno organizzativo delle
organizzazioni (Friedberg 1994, pag 64).
Questo punto concorda efficacemente con la visione delle organizzazioni come sistema
aperto, che abbiamo già dichiarato come la più consona, a nostro avviso, a comprendere lo
stato attuale delle organizzazioni e del loro rapporto con gli ambienti in cui sono inserite.
Infatti, la nozione di strategia considerata da Friedberg presuppone un’influenza di tutti i
livelli degli attori organizzativi, e delle modalità in cui questi livelli interpretano e
interagiscono negozialmente con i relativi ambienti di riferimento.
Ne derivano due conseguenze.
La prima è che non esiste un ambiente in cui un’organizzazione è inserita, ma una serie di
ambienti, distribuiti anche su livelli diversi e interrelati diversamente ai vari livelli
dell’organizzazione.
La seconda è che la considerazione dell’esistenza nei processi strategici dell’influenza di più
livelli organizzativi comporta il necessario inserimento nel modello analitico anche delle
interrelazioni negoziali fra i diversi livelli interni all’organizzazione, i cui interessi e obiettivi
non sono più considerabili “a prescindere” dai rapporti con gli ambienti esterni, ma al
contrario entrano a farne parte a pieno titolo (Friedberg 1994, pag. 65).
D’altro canto, la prospettiva culturale mostra chiaramente come anche l’azione manageriale
sia in realtà ricca più di contenuti simbolici che materiali, illuminando così di luce nuova
anche le modalità di espressione del potere nei vari livelli, siano essi quello politico o quello
organizzativo (Pfeffer 1995). Acquistano dunque importanza tutta una serie di pratiche finora
poco considerate negli studi organizzativi, come cerimonie, miti, che richiedono nuove
categorie di analisi.
La visione del sistema aperto acquista maggiore chiarezza. I confini fra organizzazione e
ambiente sfumano; i pubblici di riferimento non sono più riconducibili all’intera
organizzazione, ma a singoli livelli, gruppi, attori; e fra gli ambienti di ciascuno di essi
rientrano anche gli altri.
Questi contributi hanno risvolti importanti anche per le possibilità di applicazione all’ambito
di questa ricerca.
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Per l’uso delle ricerche socio-politiche, infatti, abbiamo un’ulteriore conferma di come possa
essere considerata valida l’ipotesi che abbiamo più volte ripercorso in queste pagine. E cioè
che sia possibile pensare all’uscita dal classico schema che vede i sondaggi come strumenti
usati dall’organizzazione per conoscere i pubblici che compongono il suo ambiente, per
proporre invece un modello più complesso in cui essi sono utilizzati più o meno
consapevolmente anche per negoziare con l’ambiente o per creare processi di enactment che
arrivano a costruirlo.
D’altro canto, essi sono utilizzati anche nelle interrelazioni con altri membri, gruppi o livelli
dell’organizzazione, al fine di condizionare (anche in questo caso più o meno
consapevolmente) le interrelazioni interne.
Infine, come esplicitamente indicato in Pfeffer (1995), le indagini d’opinione diventano
soprattutto strumenti di un’azione simbolica: «il questionario simbolizza l’importanza delle
convinzioni e delle preferenze individuali; le nuove riunioni istituiscono nuovi contesti; la
formulazione di ordini del giorno su argomenti non considerati dalle inchieste richiama
l'attenzione sul cambiamento e su ciò in cui il cambiamento di concretizza» (Pfeffer 1995,
pag. 386).
La “conformità delle procedure”, invece, merita un discorso più approfondito. Si tratta della
dipendenza delle organizzazioni da attori che “premono sulle organizzazioni affinché
svolgano attività in modi specifici” (Scott 1994, pag. 252).
Le ricerche in letteratura trattano principalmente di due grandi attori in grado di imporre la
conformità alle procedure: lo Stato e i gruppi professionali. Queste ricerche ne descrivono le
modalità, evidenziato come la codifica delle procedure sia a tutti gli effetti una forma di
potere e di controllo razionalizzata e istituzionalizzata.
Questi osservatori hanno inoltre notato come spesso le procedure stesse siano oggetto di
costruzione sociale e funzionino come un potente legittimante dei gruppi in grado di imporle,
più che un effettivo ausilio ai compiti delle organizzazioni.
La valutazione rispetto a questo fenomeno è comunque controversa. Se da un lato, infatti, la
conformità alle procedure rappresenta, come abbiamo visto, un artificio che produce miti e
cerimonie più un miglioramento delle prestazioni organizzative, dall’altro occorre dire che
anche in questi termini vi è comunque una importante funzione di stabilizzazione e di
legittimazione delle stesse organizzazioni che le adottano, particolarmente in contesti ad alta
conflittualità.
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Un’ipotesi interessante potrebbe mettere in relazione la conformità alle procedure (e le
diverse direzioni a cui essa può condurre, come esposto) al caso delle organizzazioni
politiche e dell’utilizzo da loro fatto di indagini demoscopiche.
In questo caso, la grande produzione di tipo normativo e la stessa attività svolta dai
professionisti appare come un evidente tentativo di suggerire (se non imporre) alle
organizzazioni politiche strategie di conformità alle procedure che valorizzino i prodotti e le
consulenze di questi stessi professionisti. L’analisi empirica dovrebbe essere in grado di
valutare lo stato reale di queste relazioni e l’eventuale presenza e gli effetti di questo
(presunto) tentativo di razionalizzazione e standardizzazione delle procedure organizzative di
relazione con i pubblici.
D’altro canto, è anche vero che le stesse organizzazioni politiche e, in certi casi, anche singoli
membri più o meno in vista di esse, potrebbero “subire attivamente” la conformità delle
procedure, riconoscendo la legittimità delle pretese dei professionisti e sfruttandola per
conferire maggiore efficacia ad alcuni obiettivi dell’organizzazione o dei singoli. In questo
caso, dunque, la combinazione di strategie, distribuzione di risorse e potere, gestione delle
relazioni organizzazione-ambiente produrrebbe un fenomeno quantomeno singolare. Anche
questa comunque è un’ipotesi da verificare in sede di analisi e, nel caso risultasse fondata, da
approfondire e descrivere dettagliatamente.
Il ruolo dell’informazione
Nella trattazione delle questioni legate alle strategie, un ruolo centrale è affidato alla risorsa
organizzativa costituita dall’informazione (Collins 1992; Scott 1994; Friedberg 1994).
Quello dell’informazione è, ancora una volta, un tema intuitivamente applicabile agli attori
politici.
La visione mainstream delle ricerche socio-politiche è esplicitamente legata alla gestione
organizzativa dell’informazione, considerata come un elemento scarso e strategicamente
rilevante, da trattare razionalmente per l’individuazione dei corsi d’azione più efficaci.
Il problema delle risorse e dell’informazione, dunque, mette in campo il tema della
consulenza e della priorità ad essa assegnata nell’allocazione dei mezzi umani e materiali
all’interno delle organizzazioni di azione politica.
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La questione fondamentale in questo ambito è il livello di autonomia organizzativa (Raniolo
2006, pag, 46) di cui godono gli attori politici rispetto al contesto nel determinare la presenza
e l’utilizzo di risorse organizzative strategiche come possono essere, per l’appunto, le
competenze specialistiche.
D’altro canto, la considerazione del tema dell’informazione mostra con più chiarezza il
legame fra questi argomenti e il processo decisionale, un ambito di studi a cui, per la sua
complessità, abbiamo dedicato l’intero paragrafo conclusivo del capitolo.
In questo paragrafo, invece, intendiamo mostrare come il modello di gestione
dell’informazione proveniente dalle ricerche demoscopiche proposto dalla visione
mainstream sia in linea con i paradigmi più superati degli studi organizzativi.
In particolare, la visione del sistema aperto, mette in campo una nuova concezione delle
organizzazioni, una nuova prospettiva epistemologica, una nuova teoria dell’attore che
portano conseguenze dirette anche nella considerazione del ruolo svolto dall’informazione
nella definizione delle strategie.
I risultati della ricerca più recente sulle organizzazioni, infatti, mostrano usi differenti
dell’informazione, dei quali si può valutare l’applicabilità al campo della politica.
Il concetto di partenza è quello della razionalità limitata. È un concetto molto fortunato, che
ha ispirato numerose ricerche.
Qui però tratteremo solo alcuni spunti, quelli più legati al nostro interesse.
Il ruolo dell’informazione, ad esempio, è centrale nella prospettiva della razionalità limitata.
Come evidenziano ad esempio certi lavori di Cyert e March (1963), questa prospettiva rimane
pienamente all’interno di una visione razionale delle organizzazioni, ma mostra come le
informazioni a disposizione dei decisori non sono infinite e non sono neutre, ma
«condizionate da mappe cognitive preesistenti forgiate in base ad esperienze pregresse,
interessi, convinzioni e aspirazioni di vario genere» (Bonazzi 1999, pag. 38). Sono inoltre
influenzate da variabili strutturali, come il fatto che sono raccolte da unità specializzate e
differenti da quelle in cui ha sede il potere decisionale, per cui possono rispondere a obiettivi
e logiche diversi.
61
La prospettiva culturale (Gagliardi 2005), invece, ha portato numerosi contributi ad una
visione differente e più complessa, che vanno nella direzione di rivedere il ruolo
dell’informazione all’interno delle organizzazioni.
In questo senso, Broms e Gahmberg – riprendendo il concetto di autocomunicazione – hanno
mostrato come alcuni strumenti informativi utilizzati nelle organizzazioni sono più utili per la
loro presenza in sé, che non per il loro contributo informativo, quasi come un mantra che
spinge l’organizzazione a certi comportamenti. E spesso, notano, ciò avviene sulla base di
miti organizzativi da raggiungere, ricchi di elementi a-razionali come la fede e la speranza
(Broms, Gahmberg 1995, pag. 291). In questo senso, alcuni casi trattati in letteratura –
particolarmente le indagini di Meyer (Meyer, Rowan 1977) – individuano dei “miti razionali”
coerenti con questa visione, cioè procedure codificate simbolicamente che scandiscono le
varie fasi che un’organizzazione deve attuare per raggiungere un determinato obiettivo.
Su basi simili, anche March e Olsen (1976) hanno mostrato come le informazioni abbiano
spesso più un valore rituale che non informativo.
Uno sviluppo successivo molto interessante ai fini del nostro tema (Feldman, March 1981)
mostra come la risorsa informativa non sia affatto limitata. Piuttosto, le organizzazioni
spendono molte risorse anche economiche nel reperimento sistematico di informazioni, salvo
poi non usarle affatto o solo in minima parte, mostrando come molta informazione non ha
attinenza con le decisioni, o viene raccolta dopo, o viene disattesa, o è eccessivamente
ridondante o, ancora, ambigua.
Le spiegazioni più razionali porterebbero a pensare che le organizzazioni non siano in grado
di elaborare le informazioni, e maggiori informazioni possono acuire il problema. Oppure che
le informazioni raccolte siano sistematicamente non pertinenti, per scarsità di coordinamento
fra i vari membri.
Ma i due autori portano un tentativo di spiegazione che vada oltre, portando alcune variabili
strutturali, anche molto interessanti.
Ad esempio, un problema può essere che i centri di raccolta sono separati da quelli
decisionali (è il caso delle agenzie esterne), per cui possono avere logiche differenti, uno
portato alla ridondanza e l’altro invece con maggiori necessità di selezione.
Un problema analogo è che spesso (soprattutto se interni o con collaborazioni lunghe) la
specializzazione del settore può portare a una sua burocratizzazione e dunque alla perdita di
62
significato delle informazioni raccolte, utili magari ad altri scopi come monitoraggi generali o
addirittura la legittimazione stessa dell’attività di raccolta informazioni.
Un altro aspetto interessante è che la ridondanza di informazioni può nascondere un elemento
di potere, cioè una selezione strumentalmente accurata di informazioni con il fine esplicito di
orientare l’organizzazione verso alcune scelte piuttosto che verso altre. Un fenomeno che può
portare all’attuazione di varie logiche, come ad esempio strategie di difesa da parte dei
decisori, che prendono in considerazione solo informazioni raccolte attraverso canali fidati e
ignorando le altre.
Oltre a questo, subentra un elemento simbolico, e cioè la convinzione che il processo
decisionale, per essere legittimo e oculato, debba basarsi sulla raccolta di informazioni, che
diventa pertanto un’attività più visibile e presente possibile, causando una ridondanza
inefficiente. E questa logica di legittimazione può influire anche sulla struttura
dell’organizzazione, creando ad esempi uffici o strutture specifici.
Ciò ovviamente non è un fenomeno solo negativo, ma può contribuire all’efficienza
dell’organizzazione grazie, ad esempio, alla maggiore legittimazione dei suoi decisori.
Ma è evidente che nella gestione delle informazioni entra anche un tema legato a una
dimensione di potere.
Ne è un esempio lampante la ricerca di Simon (1958), in cui, fra le altre cose, è stata scoperta
l’importanza degli staff di esperti all’interno delle organizzazioni, anche quando questi non
rientrano nelle linee gerarchiche stabilite. Con evidenti ricadute sull’applicabilità al caso delle
ricerche socio-politiche, nelle quali proprio le attività di relazione con l’opinione pubblica
possono acquisire un ruolo specialistico simile alle figure di staff.
3.6 L’influenza delle organizzazioni sull’ambiente: i modelli decisionali
Lo studio dei modelli decisionali costituisce, per certi aspetti, un filone a sé stante della
letteratura sulle organizzazioni, assai ricco e variegato, nonché fortemente intrecciato con
presupposti teorici fondamentali, fra cui l’ampia discussione sulla teoria dell’attore3, di
generale interesse per l’intera sociologia e per le scienze umane.
Ma come abbiamo visto, quello dei processi decisionali è un ambito di studio che si rivela
strettamente intrecciato anche al tema dell’ambiente.
63
E, soprattutto, alla parte più attiva del duplice legame che lega le organizzazioni i loro
ambienti, e cioè quello in cui l’organizzazione mette in atto pratiche utili a modificare i propri
ambienti.
Queste pratiche, abbiamo visto, possono passare per strategie, che utilizzano in maniera
diversa le fonti di informazione, anche dando vita a fenomeni non voluti di notevole
interesse, che sopra abbiamo brevemente ricordato.
L’elaborazione delle strategie ha un’evidente interconnessione con il problema di come
realmente vengono prese le decisioni, nei vari aspetti che possono riguardare: il rapporto fra
decisioni individuali e decisioni organizzative, con le relative specificità; il legame con le
risorse che possiamo chiamare strategiche, come l’informazione cui abbiamo già accennato;
le modalità, i percorsi, le pratiche con cui si arriva effettivamente a mettere in campo i corsi
d’azione, secondo le differenti visioni della teoria dell’attore.
Per tramite di questi passaggi, il tema del processo decisionale e dei modelli elaborati per
descriverlo ha un’influenza diretta sull’oggetto di questa ricerca.
Per due ragione sostanziali. La prima è che la stessa visione mainstream assegna
esplicitamente alle ricerche socio-politiche (quasi “programmaticamente”, con una evidente
caratterizzazione normativa) un ruolo determinante nel processo decisionale delle
organizzazioni. La seconda, perché la comprensione di come i corsi d’azione vengono
costruiti porta conseguenze dirette nella capacità di comprendere le organizzazioni politiche
e, di riflesso, il ruolo in esse svolto dalle ricerche.
Per questa ragione, all’interno di questi studi si possono trovare alcune indicazioni
interessanti anche per l’oggetto di questa ricerca.
La letteratura sui modelli decisionali delle organizzazioni si può considerare come legata dal
filo conduttore di una progressiva messa in discussione del concetto della piena razionalità.
Le discussioni sulla razionalità costituiscono un dibattito ricchissimo e impossibile da
ricostruire.
Per quanto riguarda le organizzazioni, possiamo individuare un percorso, al termine del quale
tirare alcune conclusioni e approfondire alcuni aspetto che si sono ritenuti più utili per il caso
in esame.
3 Per una ricognizione generale dei temi e delle prospettive della teoria dell’attore, si veda Giglioli (1989).
64
Il punto di partenza è il concetto di razionalità limitata introdotto da Simon (1958). L’idea
che la decisione non possa scaturire da processi razionali assoluti per una serie di vincoli
(Bernardi, Bertin 2005, pag. 28) è un’idea rivoluzionaria, che per prima apre la strada a una
revisione dei processi decisionali per avvicinarli alla realtà sostanziale rispetto a quella
formale
La teoria del garbage can supera la concezione della razionalità (per quanto limitata) della
decisione, mostrando invece varie possibilità di processi decisionali non guidati da
razionalità. L’attenzione in questo caso è sul processo di decisione, mentre il ruolo
dell’informazione (e dunque della sua raccolta e del suo utilizzo) rimane in secondo piano.
La teoria della contingenza, invece, presuppone l’idea che la forma organizzativa sia «la
risposta che determinati attori sociali (tipicamente dei manager) danno ad un ambiente
preesistente» (Bonazzi 1999, pag. 96), sostanzialmente considerato come oggettivo e reale. In
questo modo, non è più pensabile una one best way, ma le decisioni migliori (anche da un
punto di vista razionale) scaturiscono dalla contingenza della situazione (Bernardi, Bertin
2005, pag. 28).
Un passaggio successivo, invece, rimette in gioco i presupposti delle teorie razionali
precedenti
La teoria della contingenza viene criticata fortemente da varie posizioni, che potremmo
definire azionaliste (Bonazzi 1999), che criticano la premessa fondamentale che sia possibile
distinguere decisione da azione (Bernardi, Bertin 2005, pag. 30). Il risultato è un
ampliamento dell’ambito di studio alla strategie e alla cultura organizzativa.
Nel complesso, comunque, rimane il sostanziale basso interesse per il ruolo
dell’informazione.
La vera svolta è compiuta da Karl Weick, con il suo rifiuto dell’oggettivismo e del modello
razionale, entrando in un assunto soggettivista «secondo cui bisogna partire dai processi
mentali con cui i soggetti attribuiscono senso alla realtà» (Bonazzi 1999, pag. 143). È il
passaggio dal decision making al sensemaking.
Weick e il sensemaking retrospettivo
La prospettiva descritta da Karl Weick rappresenta una rivoluzione negli studi sulle decisioni
organizzative, un vero cambio di paradigma.
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Due sono i principali aspetti di questo cambio paradigmatico.
Innanzitutto, nella visione di Weick, l’organizzazione è fatta di persone in relazione, è «satura
di soggettività» (Varchetta 1997). Sono le donne e gli uomini con le loro azioni e interazioni,
intenzionali o meno, a costruire l’organizzazione e a fare la differenza, sulla base della loro
identità.
Solo che l’identità non è monolitica, ma è costruita nelle relazioni. «Spostarsi tra le
interazioni significa spostarsi tra le definizioni di sé» (Weick 1997, pag. 19). Noi definiamo
ciò che è all’esterno in base alla nostra identità, ma le situazioni esterne contribuiscono
anch’esse a definire la nostra identità. E ciò è la fonte della necessità del sensemaking.
Qui Weick si accoda a certe visioni à la Goffman. La possibilità di scelta fra un set di ruoli è
alla base della manifestazione della nostra identità e, di conseguenza, della nostra percezione
dell’esterno. Ma è l’ambiente stesso a guidarci in questa definizione. «Traggo indicazioni sul
significato della situazione dal sé che sembra essere il più appropriato per affrontarla, e molto
meno da quello che sta succedendo là fuori» (Weick 1997, pag. 23).
Un secondo aspetto, per certi versi rivoluzionario, è il passaggio dal concetto di decision
making a quello di sensemaking. Non solo un passaggio terminologico, infatti l’idea, che
traspare dal linguaggio, del sensemaking è che è retrospettivo, cioè avviene prestando
attenzione e ricostruendo azioni già compiute.
È ovviamente un’idea che scardina il pensiero logico-deduttivo che sta alla base del modello
razionale, ma anche la logica stessa non razionale del modello naturale. L’idea di base è che
la realtà non è mai uguale alla nostra previsione di essa. Pertanto non posso sapere ciò che
penso di una mia azione finché non la osservo compiuta.
Ma esiste un aspetto importante della retrospettività del sensemaking. Essa lavora
nell’ambiguità: l’esperienza passata possiede molti significati, non uno solo. E l’ambiguità,
che non è un’eventualità, ma una proprietà costante delle relazioni nelle organizzazioni.
Weick, con un calzante esempio, la descrive così: «Quando ci troviamo entrambi in una
situazione ambigua, io posso vederla e descriverla in un modo, tu puoi vederla altrimenti, e
possiamo avere l’impressione di essere d’accordo su come percepire tale situazione perché vi
è spazio per usare una varietà di interpretazioni e per consentire l’uno con l’altro, o avere un
sentimento di consenso reciproco. Così andiamo avanti in quello ce stiamo facendo.» (Weick
1969).
66
Pertanto, non sono necessarie più informazioni, «Non è questo ciò di cui hanno bisogno
coloro che si trovano sopraffatti dall’ambiguità. Al contrario, hanno bisogno che i valori, le
priorità e la lucidità rispetto alle preferenze li aiutino a chiarire quali sono i progetti che
contano» (Weick 1997, pag. 27). In questo, ovviamente, ricostruzioni parziali o semplificate
possono rendere più efficaci le azioni, in quanto il raggiungimento di un’impressione di
razionalità e causalità può interrompere il processo di sensemaking retrospettivo.
Si tratta di un punto ovviamente molto importante per uno studio, come questo, centrato sulle
ruotines poste in essere dalle organizzazioni per il reperimento di informazioni ai fini delle
decisioni.
Qui Weick ci dice che l’utilità di queste attività non sta nella loro capacità di chiarire una
situazione e, di conseguenza, di aiutare a prendere decisioni.
Inoltre, l’accento sulla necessità di semplificazione per l’efficacia dell’azione organizzativa
suggerisce un’interrogazione su come questa semplificazione possa essere attivamente
auspicata e ricercata. «La dominante retrospettiva nella costruzione di senso è una delle
ragioni più importanti per cui gli studiosi di sensemaking trovano dispendiose e fuorvianti
tutte le previsioni, pianificazioni degli imprevisti, programmazioni strategiche e simili
magiche investigazioni sul futuro, se sono scollegate dall’azione riflessiva e dalla storia»
(Weick 1997 pag. 30).
È evidente che, per quanto riguarda le organizzazioni politiche, al visione proposta da Weick
si colloca pienamente nel tema del ruolo svolto dalle ricerche socio-politiche. E lo fa con un
approccio del tutto alternativo rispetto alla visione mainstream, che porta alle estreme
conseguenze molti dei concetti che abbiamo fin qui introdotto.
La discussione del sensemaking proposta da Weick prosegue a lungo, articolando un modello
di analisi completo e ricco.
In questa sede ci limiteremo a selezionare alcune conseguenze della sua impostazione che
toccano da vicino anche il tema di questa ricerca.
Un primo aspetto da sottolineare è che il sensemaking è un’attività continua, processuale,
fatta di flussi. Ma la difficoltà delle persone e delle organizzazioni di gestire situazioni
complesse fa sì che le migliori occasioni per un sensemaking efficace siano gli eventi, le
interruzioni dei flussi.
67
È importante dunque andare a studiare come le persone e le organizzazioni interrompono
arbitrariamente questi flussi, per farne occasioni salienti per il sensemaking. Un’ipotesi è che
sondaggi e altre ricerche possano svolgere anche un ruolo simile a questo.
Una conseguenza esplicita di questa concezione del sensemaking tocca anche la panificazione
strategica. Abbiamo già visto come Weick sia scettico nei confronti di queste soluzioni. La
sua critica si fa più esplicita laddove mostra che non è importante la correttezza di una
strategia (e, di conseguenza, una precedente conoscenza e definizione della realtà su cui
basarla) corretta, quanto piuttosto il possederne una. «è possibile che, quando sei confuso, che
qualsiasi vecchio piano strategico possa andare bene. I piani strategici assomigliano molto
alle mappe. Essi mobilitano e orientano le persone. Una volta che queste cominciano ad agire
(enactment), generano risultanti tangibili (indicazioni) in qualche contesto (sociale), e questo
le aiuta a scoprire (retrospezione) che cosa sta succedendo (continuo), che cosa deve essere
spiegato (plausibilità) e che cosa si dovrebbe fare poi (miglioramento dell’identità)».
Una formulazione non lontana dal teorema di Thomas o profezia che si auto-adempie: «Una
volta messo in moto, il sensemaking tende a confermare la fiducia attraverso gli effetti che ha
sulle azioni che rendono concreto quello che precedentemente era stato puramente
immaginato» (Weick 1997, pag.57-58).
D’altro canto, la visione alternativa della pianificazione si scontra con una realtà in cui il
paradigma dominante rimane quello del decision making, con conseguenze sulle modalità di
legittimazione degli esperti che possono essere estese anche ai professionisti che si occupano
di ricerche socio-politiche: «L’unico neo è che la reputazione degli strateghi si basa sulla loro
capacità di previsione, quando in realtà stanno mettendo a frutto la loro capacità di giudizio
retrospettivo. Una ben sviluppata capacità di visione a posteriori non è un talento
sensazionale, né particolarmente raro, forse per questo gli strateghi rifuggono quel modo di
rappresentare il loro contributo.» (Weick 1997, pag. 84).
Questo aspetto del sensemaking si poggia su un’ultima caratteristica interessante, il fatto cioè
che i processi di sensemaking sono basati sulla plausibilità, non sull’accuratezza. Non
essendoci “là fuori” un oggetto da conoscere, da registrare, non è pertinente parlare di
accuratezza o correttezza nella creazione di senso. Ciò che importa è semmai «la pragmatica,
la coerenza, la ragionevolezza, la creazione, l’invenzione e la scelta dei mezzi» (Weick 1997,
pag. 59).
68
Weick esplicita anche le ragioni di questa necessità; fra le altre, il fatto che il sensemaking
agisce sul brevissimo periodo, e dunque la velocità è un aspetto fondamentale.
Inoltre, la capacità di generare attività plausibili di sensemaking dipende molto anche da
alcune variabili organizzative, per esempio in riferimento alla capacità di reperire
informazioni. Questo lascia intravedere un ulteriore raffinamento del ruolo peculiare (e non
scontato) svolto dalle le ricerche socio-politiche all’interno delle organizzazioni politiche. Il
discorso fatto sulla necessità di velocità come una delle ragioni che portano a preferire la
plausibilità alla accuratezza confermerebbe l’importanza di queste ricerche, la cui velocità è
senza dubbio uno dei fattori che ne hanno alimentato il successo all’interno delle
organizzazioni politiche.
Fra le occasioni che possono portare all’attivazione del sensemaking, alcune sono
particolarmente intressanti. Su tutte, la definizione dei problemi è la più vicina al ruolo
attribuito classicamente alle ricerche socio-politiche nei partiti, ai quali viene appunto chiesto
di individuare la percezione delle problematiche da parte dell’opinione pubblica per orientare
verso esse l’azione organizzativa.
Riprendendo la sua visione dei rapporti organizzazione ambiente, Weick, invece, sostiene che
i problemi hanno un ampio contenuto di costruzione sociale. «I problemi, essendo costrutti,
sono costruiti e imposti, ma non nella completa indifferenza per il contesto e i suoi vincoli.
Le costruzioni di problemi sono inventate e imposte nell’interesse di mandare avanti i proprio
progetti.» (Weick 1997, pag. 98).
E anche l’ambiguità è una fonte di incertezza. E anch’essa mostra l’inutilità di avere
maggiore informazione. «Il problema dell’ambiguità non è una visione imperfetta del mondo
reale, rimediabile con maggiori informazioni. Il problema è che l’informazione può non
risolvere gli equivoci.» (Weick 1997, pag 101).
L’incertezza mostra invece un problema diverso, cioè l’impossibilità di determinare le
conseguenze future di un’azione.
Questa occasione dovrebbe comportare la necessità da parte dell’organizzazione di ottenere
maggiori informazioni. In realtà, Weick è convinto che questo sia solo un aspetto della
questione, che nasconde un’attività di sensemaking volta a capire come le informazioni sono
arrivate. «E il modo in cui le notizie sono arrivate spesso implica quello che l’organizzazione
dovrebbe fare come passo successivo.» (Weick 1997, pag 105).
69
Anche in questo caso, è chiaro come siano rilevanti le conseguenze di questa impostazione
sul ruolo svolto dalle ricerche nei contesti delle organizzazioni politiche.
70
CAP. 4
PER UNA LETTURA PIU’ SOCIOLOGICA DEL TEMA DELLE
RICERCHE SOCIO-POLITICHE
4.1 Un approccio mainstream
Abbiamo sopra stabilito l’importanza di una maggiore attenzione alle pratiche reali della
comunicazione politica e dell’uso delle ricerche socio-politiche.
Ma questa acquisizione di consapevolezza, necessaria, non è sufficiente per delineare una
prospettiva di ricerca coerente.
Negli anni si è affermata una visione di senso comune relativa alle ricerche socio-politiche,
ampiamente affermata e sulla quale sostanzialmente sono arrivati a convergere tutti gli attori
che nei vari contesti che hanno a che fare con le ricerche socio-politiche: dai media, ai
ricercatori, alla politica.
È una visione, io credo, che in realtà porta con sé numerosissimi aspetti da approfondire e che
invece normalmente vengono dati per scontato.
Semplificando molto, questa visione di senso comune considera i sondaggi e gli altri metodi
di ricerca strumenti per accrescere la conoscenza, basati su metodi oggettivi e scientifici.
Gran parte dell’elaborazione analitica prodotta (con particolare riferimento al caso italiano)
per la comprensione dei fenomeni legati all’uso degli strumenti demoscopici nella politica,
deriva dal mondo professionale.
L’unico aspetto del tema che è stato oggetto di una specifica attenzione da parte delle scienze
sociali è stato lo studio di un problema particolare connesso all’uso delle indagini
demoscopiche nella politica, l’uso strumentale finalizzato ad influenzare il clima di opinione.
Si tratta di un punto chiaramente interessante, sul quale si sono concentrate le attenzioni di
sociologi e studiosi della comunicazione pubblica, producendo numerosi contributi
relativamente alle varie tecniche di questo uso strumentale, al suo rapporto con le altre
tecniche comunicative utilizzate dai vari attori, alla relazione con il sistema mediatico, alla
problematica sempre presente degli effetti di queste azioni sul clima di opinione e, in secondo
luogo, sui processi della scelta di voto (si veda il capitolo 1).
71
Si tratta comunque, di una prospettiva minoritaria e, soprattutto, che si concentra su una
particolare modalità di utilizzo delle tecniche demoscopiche da parte degli attori politici,
finalizzata non all’ascolto dei pubblici, bensì alla comunicazione agli stessi. E proprio per
questa ragione, si tratta di un tema sul quale ho scelto di non approfondire l’analisi,
focalizzando piuttosto l’interesse sulle ricerche demoscopiche come strumento di conoscenza
più che di persuasione.
Uscendo dunque da questo punto di vista settoriale e tornando al nostro interesse, si può
tranquillamente sostenere che gran parte dei contributi su sondaggi e altre tecniche
demoscopiche sono prodotti dallo stesso mondo professionale.
Questi contributi si occupano per gran parte dell’uso “interno” – non strumentale, ma
conoscitivo – di sondaggi e altre tecniche demoscopiche. Da questo punto di vista,
coincidono con l’interesse principale di questo lavoro e pertanto questo genere di studi sono
entrati ampiamente nelle riflessioni di questa ricerca.
Ma la questione che voglio sottolineare è che, nonostante il loro interesse per la nostra
ricerca, soprattutto come base analitica di partenza, è possibile affermare che in quei lavori il
problema viene affrontato da un punto di vista parziale, che lascia ampio spazio ad ulteriori
approfondimenti e a contributi provenienti da approcci di studio differenti.
Essi infatti possono essere suddivisi in due categorie. Da un lato, la maggior parte di questi
lavori utilizzano un approccio “normativo”, concentrandosi su come dovrebbero essere
utilizzate le ricerche socio-politiche. In questi lavori – che spesso hanno la forma del manuale
– il contributo empirico è pressoché nullo (Thurber, Nelson 2000). Essi mantengono un
interesse sociologico in quanto la loro analisi può offrire elementi interessanti del quadro dei
valori e dei modelli di riferimento di quella specifica comunità professionale. Ma è evidente
che sono di poco aiuto nella descrizione delle pratiche organizzative d’uso e nella
comprensione del senso attribuito.
Dall’altro lato vi sono alcuni lavori (meno numerosi) che utilizzano un approccio più
“esplicativo”, più centrato su come sono utilizzate le ricerche dagli attori politici. E dunque
più in linea con l’interesse anche di questo lavoro. Purtroppo, in questo secondo caso, nella
quasi totalità dei lavori presi in considerazione, la dimensione empirica è metodologicamente
poco soddisfacente, in quanto essi risultano troppo derivati da opinioni ed esperienze
72
personali e offrono dunque il doppio limite di una difficile verificabilità di una bassa
possibilità di estenderne l’applicazione.
Nel complesso, dunque, la letteratura esistente sul tema dell’uso delle ricerche da parte degli
attori politici è per molti versi poco soddisfacente e ampiamente migliorabile.
Ma vi è un ulteriore punto che merita attenzione. Un punto, a mio parere, che da un lato aiuta
a comprendere le ragioni della situazione sopra descritta relativa alla letteratura esistente,
dall’altro offre una visione chiara del ruolo che un’analisi più specificamente sociologica può
ritagliarsi nello studio di questi fenomeni.
Infatti, sia che si tratti di esposizione di tecniche di marketing, sia di contributi maggiormente
analitici sulle routines degli attori politici in ambito di comunicazione politica, questi lavori
condividono una serie di assunti di massima, che vanno a costituire quella che potremmo
chiamare una sorta di “visione mainstream” dell’uso delle analisi demoscopiche da parte
degli attori politici.
Semplificando potremmo esporla in una serie di assunti.
1. L’opinione pubblica “esiste”: è un’entità, misurabile e descrivibile.
2. Le scienze statistiche e la metodologia delle scienze sociali hanno messo a punto alcuni
strumenti utili a descrivere l’opinione pubblica.
3. Questi strumenti rappresentano una risorsa strategica per l’azione politica delle
organizzazioni politiche, soprattutto per quanto riguarda le attività di comunicazione e di
marketing politico.
4. I risultati delle ricerche demoscopiche vengono utilizzati in vario modo dalle
organizzazioni politiche per definire scelte di impostazione strategica delle azioni
comunicative, che si concretizzano nell’apertura di canali di comunicazione basati su una
maggiore conoscenza dei pubblici e, di conseguenza, in grado di aggiungere efficacia
all’azione politica.
Questi assunti sono in gran parte impliciti e rappresentano senz’altro una modellizzazione
grezza che non tiene conto delle sfaccettature con cui ogni autore ha costruito il suo modello
di studio.
73
Ritengo però che possano essere utili se utilizzati come una sorta di idealtipo della visione
mainstream, con il quale tutti i contributi di questa prospettiva si confrontano e rispetto ad
esso si posizionano.
La semplificazione adottata per costruire il modello ha comunque due pregi. Il primo è
quello, come si vedrà, di rendere più evidenti gli elementi che lo distanziano da altre
prospettive.
In secondo luogo, rende abbastanza evidenti le premesse epistemologiche e metodologiche
che stanno alla base di questo pensiero.
Infatti, in quel modello la realtà è rappresentata come un “fatto”, con caratteristiche di
stabilità e di indipendenza dall’interpretazione dei diversi soggetti che con essa interagiscono.
Inoltre, presuppone (di conseguenza) la scientificità e l’oggettività di alcuni strumenti di
conoscenza, cioè di quelli basati su un certo metodo adottato nel mondo della scienza. In
terzo luogo, presuppone una altrettanto precisa teoria dell’attore, in cui la razionalità è
l’elemento fondamentale nel processo decisionale (senza entrare nel complesso dibattito sulla
scelta di voto e, più precisamente, sul tipo di razionalità in gioco, qui utilizziamo una nozione
superficiale, che intende indicare un processo di scelta consapevole, informato, basato sul
confronto di ipotesi diverse e sulla ponderazione dei diversi vantaggi acquisibili).
Si tratta di un punto essenziale. La visione mainstream infatti regna incontrastata fra le analisi
che si occupano dell’uso delle ricerche demoscopiche a scopo conoscitivo-strategico.
Le considerazioni svolte nei vari contributi di ricerca che hanno analizzato le ricerche socio-
politiche e il loro influsso nel campo della politica hanno toccato vari ambiti, ma le premesse
di base, la visione sopra delineata, non sono mai state messe in discussione. Sono date per
scontato.
Una delle ambizioni di questo lavoro è quella di approfondire questi concetti cercando di
mostrare le tipizzazioni che hanno contribuito a consolidare i numerosi dati per scontato in
cui ci si imbatte analizzando il senso comune contemporaneo.
Intendere le ricerche socio-politiche come semplici strumenti o strumenti per una conoscenza
oggettiva è limitante. Nella loro realizzazione, nel loro uso, nei significati che ad esse
vengono attribuiti si nascondono importanti questioni di interesse per la sociologia e per la
74
maggiore comprensione delle dinamiche del campo della politica e dei comportamenti degli
stessi attori politici.
È necessario dunque togliere il velo ed uscire dalla visione ingenua di questi strumenti.
E per farlo credo sia necessario introdurre un approccio più specificamente sociologico al
tema dell’uso delle ricerche nel campo della politica.
Mi sono dunque “appoggiato” ad alcuni lavori di studiosi precedenti, che hanno definito un
quadro teorico e categoriale importante, che ho ritenuto utile applicare anche a questo ambito
di studi.
Riporterò alcuni di questi contributi concettuali che mi hanno aiutato a delineare un nuovo
approccio alla questione delle ricerche socio-politiche.
Descriverò uno per uno quei concetti che mi sono sembrati più utili di altri. Non vi è certo
l’ambizione di descrivere accuratamente le singole concettualizzazioni che verranno
affrontate. Né vi è la possibilità di ripercorrere compiutamente il dibattito critico che sta
dietro a ciascuna, che è bene dare per acquisito.
Ci si limiterà dunque a esporre quei concetti/categorie che si sono ritenuti più importanti.
4.2 Anthony Giddens e i sistemi esperti
Anthony Giddens ha sottolineato l’importanza nel mondo moderno dei sistemi esperti
(Giddens 1994).
Il concetto di sistema esperto individua una delle peculiarità della condizione della modernità
radicalizzata, frutto diretto di quei processi sociali che Giddens chiama istituzioni della
modernità.
La visione di Giddens della modernità è molto differenziata, una lettura in grado di tenere
conto in maniera completa dei diversi punti di vista da cui può essere analizzato il tema.
Su tutti, un punto di notevole interesse riguarda l’attenzione posta dal sociologo inglese alle
questioni dello spazio e del tempo, e, in particolare, della distanziazione spazio/temporale,
ossia il «modo in cui il tempo e lo spazio vengono organizzati per coniugare presenza e
assenza» (Giddens 1994, pag. 26).
75
Le letture della modernità proposte nel passato fallirebbero proprio sotto questo punto di
vista, della capacità di saper dare conto delle modifiche della gestione sociale dello
spazio/tempo.
Nelle società attuali la distanziazione spazio/temporale è enormemente più accentuata e
presente rispetto al passato e molti contesti e relazioni sociali vincolano al loro interno delle
distanziazioni spazio/temporali.
Una peculiarità dei contesti moderni è la loro capacità di separare spazio e tempo, favorendo
(grazie alle differenti forme di comunicazione) nuove situazioni di relazioni sociali senza la
compresenza fisica derivante dal faccia a faccia.
Questo presupposto permette di dare vita ad una crescita esponenziale dei fenomeni di
disaggregazione, in cui relazioni sociali anche complesse vengono “enucleate” dalla
compresenza fisica e ristrutturate attraverso «archi di spazio/tempo indefiniti».
Giddens ha inoltre mostrato come si siano sviluppati nelle società degli strumenti materiali
che permettono di governare la disaggregazione. In questi strumenti ormai istituzionalizzati
vengono “caricati” significati sociali e relazioni (ad es. di fiducia), i quali si spostano assieme
agli strumenti, generando quell’effetto per cui relazioni e significati sociali estendono la loro
validità spazio/temporale oltre le situazioni di compresenza fisica.
I sistemi esperti sarebbero uno di questi strumenti con cui è possibile gestire la
disaggregazione (l’altro sono i sistemi simbolici).
Per sistemi esperti Giddens intende «i sistemi di realizzazione tecnica o di competenza
professionale che organizzano ampie aree negli ambienti materiali e sociali nei quali viviamo
oggi» (Giddens 1994, pag. 37).
La differenziazione sociale (Durkheim) e la razionalizzazione (Weber) portano alla creazione
di sfere di sapere sempre più autonome e specializzate, in cui esistono degli esperti, dei
professionisti depositari delle conoscenze e ai quali è possibile fare affidamento.
Ma la condizione della modernità vede anche dei sistemi in cui il sapere dei professionisti è
intrinseco, incardinato al proprio interno, con un’influenza che è «continuativa su molti
aspetti del nostro agire» (Giddens 1994, pag.37) e che perciò è data per scontata e non messa
in discussione.
Ecco la ragione per cui i sistemi esperti diventano meccanismi della disaggregazione
spazio/temporale, che riescono a trasportare la relazione di fiducia professionale al di fuori
76
delle situazioni di compresenza, fornendo «garanzie di aspettative attraverso lo spazio-tempo
distanziato» (Giddens 1994, pag 38).
Senza entrare nel dettaglio del modello proposto da Giddens, credo che sia possibile vedere
l’oggetto di questa ricerca alla luce della nuova prospettiva da lui introdotta.
Il primo punto su cui vorrei portare l’attenzione è che una tale analisi diventa utile anche nel
tentativo di comprensione del tema della professionalizzazione del campo politico.
La lettura classica della professionalizzazione avvenuta nel campo politico, infatti, non tiene
conto delle analisi relative alle problematiche sociologiche di approccio alla modernità, a cui
invece la lettura di Giddens aiuta a ricondurre.
La proposta teorica che ho inteso sostenere e applicare empiricamente in questo lavoro è
quella di considerare la relazione fra attori politici e ricerche socio-politiche alla luce di
questa idea del professionismo.
In questo modo, essa ci permette di capire come la professionalizzazione del campo politico
sia parte di un più ampio processo di razionalizzazione e di professionalizzazione di ampie
sfere sociali, tipico della condizione della modernità radicalizzata e determinato dalla
istituzionalizzazione della disaggregazione spazio/temporale.
Il secondo punto riguarda più specificamente le ricerche socio-politiche e discende dal punto
sopra.
Possiamo ipotizzare, anche solo mentalmente, l’esistenza di un continuum fra la minima e la
massima disaggregazione spazio/temporale, in cui ad un estremo sta la situazione in cui la
fiducia professionale avviene in compresenza e all’altro quella invece tipica dei sistemi
esperti in cui la fiducia professionale è intrinseca e scontata. Tale continuum disegna una
serie di situazioni differenti di rapporto con il sapere professionale, che presuppongono anche
differenti corsi d’azione, strategie, processi di attribuzione di senso (sia da parte dei
ricercatori sia da parte dei decisori).
Da questo punto di vista, l’oggetto “sondaggio” (inteso come emblema della ricerca socio-
politica) potrebbe diventare un sistema esperto in cui la costruzione della fiducia
professionale arriva al suo massimo livello, tanto da diventare scontata. Una tale lettura
metterebbe in maggior rilievo le strategie, le procedure di legittimazione, il senso attribuito
dagli attori.
77
Da un punto di vista empirico, dunque, questa prospettiva arricchisce le possibilità di
esplorazione e mette in primo piano la necessità di una maggiore attenzione alle pratiche e
alle routine d’uso delle organizzazioni politiche, utili a comprendere il diverso grado di
sistematizzazione del sapere professionale, le costruzioni sociali che lo determinano, le
pratiche che permettono di mantenerne il funzionamento.
Il terzo punto riguarda i dettagli del modello di Giddens.
Per quanto tale modello non sia sistematizzato, il sociologo inglese individua alcuni elementi
per la costruzione di un modello di analisi dei sistemi esperti e del loro funzionamento. Ad
esempio, l’analisi di Giddens si concentra sul tema della fiducia, e sui meccanismi grazie ai
quali la fiducia immagazzinata dai sistemi esperti è continuamente riprodotta. Come spiega lo
stesso sociologo, «la mia argomentazione si fonda soprattutto sul fatto che la natura delle
istituzioni moderne è profondamente legata ai meccanismi della fiducia nei sistemi astratti, in
particolare della fiducia nei sistemi esperti.» (Giddens 1994, pag. 89).
Diventa allora di grande importanza comprendere il ruolo reale della fiducia nei vari spazi
della vita quotidiana in cui agiscono i sistemi esperti, analizzando le strutture delle relazioni
che consentono il mantenimento e il riprodursi del capitale sociale dato dalla risorsa fiducia.
Ad esempio, grande importanza viene data ai nodi d’accesso, quei momenti in cui l’attore
entra in contatto con le persone fisiche che intervengono nella gestione dei sistemi astratti,
valutandone la coerenza di comportamento e gli impegni, e ricostruendo in questo modo la
fiducia nello stesso sistema astratto.
Un argomento facilmente applicabile al tema delle ricerche, che permette di porre una
maggiore e più selettiva attenzione alle situazioni degli incontri faccia a faccia fra ricercatori
e decisori. Questi incontri diventano i nodi d’accesso attraverso i quali si forma una parte
importante del capitale di fiducia nel sistema esperto rappresentato dalle ricerche socio-
politiche. Diventa dunque di fondamentale importanza l’analisi di questi incontri, utilizzando
ad esempio le risorse messe a disposizione dalle teorie di Erving Goffman sulle relazioni
faccia a faccia, come ad esempio le modalità di definizione della situazione, la gestione della
scena/retroscena, le pratiche di contegno/deferenza.
Questo abbozzo di modello analitico è di grande utilità nell’applicazione al caso delle
ricerche socio-politiche. Esso infatti consente di individuare le variabili da osservare nella
ricerca empirica, utili alla comprensione delle specificità di ciascun caso, inserendole però
78
nell’insieme di un paradigma teorico in grado di offrire una lettura coerente e più
specificamente sociologica del fenomeno delle ricerche socio-politiche.
4.3 Bruno Latour
L’utilizzo dei concetti introdotti da Giddens permette di compiere un primo passo nella
direzione di uno sguardo più sociologico al tema dell’uso delle ricerche da parte degli attori
politici, mostrando un primo livello di costruzione sociale del fenomeno.
Vi è un secondo paradigma teorico originato dalle scienze sociali al quale ho ritenuto utile
attingere nel tentativo di dare una lettura più approfondita e sociologica del tema dell’uso
delle ricerche nel campo della politica; ed è quello messo a punto dal sociologo francese
Bruno Latour e altri all’interno della prospettiva dell’action network theory.
Come in precedenza per il pensiero di Anthony Giddens, mi limiterò a scorrere i concetti
principali di questo approccio e le categorie che ho trovato più utili per il mio lavoro, senza
puntare ad una descrizione compiuta e teoricamente impeccabile dell’ampia mole di
argomenti che costituisce l’opera di Latour.
La relazione instauratasi fra l’organizzazione politica e la ricerca socio-politica è stata
inquadrata come frutto di un processo di professionalizzazione, di cui sopra abbiamo discusso
alcuni fondamenti.
La visione mainstream è univoca nell’inquadrare le ricerche socio-politiche nel campo della
politica come strumenti a disposizione dell’organizzazione, frutto di attività specialistiche e
in grado di apportare all’organizzazione un accrescimento della propria conoscenza,
soprattutto del mondo esterno, utile per svolgere pienamente la propria azione e perseguire i
propri obiettivi.
Per questa ragione, le ricerche socio-politiche si pongono nei confronti dell’organizzazione
politica come dei veri strumenti “tecnici”, che spesso assumono – nella visione mainstream –
caratteristiche di oggettività e scientificità che costituiscono la base della loro legittimazione.
Una premessa è fondamentale.
79
Questo modo di considerare le ricerche socio-politiche al pari degli aspetti tecnici delle
organizzazioni, fondamentale per la possibilità di applicare le categorie sviluppate dall’action
network theory, è in linea con una visione ampia dell’aspetto tecnico dell’organizzazione.
Come sottolineato da Scott, secondo i teorici dell’organizzazione il concetto di tecnologia
«va inteso in senso lato e non comprende soltanto la componente meccanica e tecnica in
senso stretto prevista dall’attività, ma anche l’abilità e le conoscenze dei lavoratori e perfino
le caratteristiche degli oggetti su cui il lavoro è svolto.» (Scott 1994, pag. 272).
L’approccio di Latour e, in generale, dell’action network theory, rappresenta una delle
prospettive più avanzate e compiute della sociologia della scienza. Essa è particolarmente
interessante in quanto offre una prospettiva del tutto “altra” rispetto a quella della visione
mainstream.
Non da molto la sociologia culturale ha iniziato ad uscire dalla tradizionale attenzione alle
norme e ai valori per concentrarsi su altri processi di attribuzione del senso, fra cui anche
quelli centrati sugli oggetti materiali.
Grande influenza in questa evoluzione della disciplina ha avuto quella felice combinazione
creatasi fra teorie di provenienza fenomenologica e prospettive provenienti dalla tradizione
antropologica. Le prime, occupandosi dei processi di costruzione del senso, iniziano a porre
maggiore attenzione sulla vita quotidiana e sulle pratiche che in essa gli attori mettono in atto,
comprese quelle che necessitano per la loro riuscita di uno stretto rapporto con la materialità.
Le seconde forniscono metodologie e approcci di ricerca che puntano a ricostruire le
dimensioni simboliche e le negoziazioni sociali operanti all’interno delle società, basandosi
spesso sull’attenzione verso le forme materiali in cui questi processi vengono incarnati.
Parallelamente, la sociologia della scienza ha conosciuto un rapido progresso negli ultimi
decenni, attraverso un dibattito scientifico che ha visto affermarsi più scuole o paradigmi.
Il nucleo comune di queste posizioni differenti rimane però l’idea di una forte interrelazione
fra la scienza (e i suoi prodotti) e le relazioni sociali. La pretesa di oggettività della scienza è
messa in discussione, a fronte di una evidenziazione dei vari processi di costruzione sociale a
cui sono sottoposti i suoi significati.
E fra le varie scuole, la sociologia francese ha elaborato la visione più radicale.
80
Essa più di altre ha legato la rinnovata attenzione posta dalla sociologia culturale alle pratiche
quotidiane con il rifiuto dell’oggettività scientifica proveniente dalla sociologia della scienza,
individuando così una prospettiva particolarmente interessante perché centrata sulle pratiche
quotidiane e materiali di costruzione dei concetti scientifici.
La proposta che ho sostenuto in questa ricerca è quella di leggere il tema dell’uso delle
ricerche da parte degli attori politici (anche) alla luce delle acquisizioni provenienti da questa
scuola di pensiero sociologico.
Vediamone i principali concetti.
Latour (1995) osserva come nella società attuale sia predominante un discorso nella sfera
pubblica che attinge ampiamente al campo scientifico. I concetti derivanti dalla scienza
entrano prepotentemente nella quotidianità, nel discorso pubblico, nelle relazioni sociali.
«Noi viviamo in società che hanno come legame sociale oggetti fabbricati in laboratorio; le
pratiche si sono sostituite alle idee, la doxa controllata ha preso il posto dei ragionamenti
apodittici e i teams di specialisti quello del consenso universale» (Latour 1995, pag. 35).
Latour parte da una premessa fondamentale per comprendere il contesto in cui tutto questo
discorso è inserito, quello della professionalizzazione e del ruolo degli esperti. Secondo il
sociologo francese, essa sarebbe frutto di una condizione tipica del tempo attuale (che
normalmente è detta “modernità”, termine che però non si addice al discorso di Latour, che
nasce proprio con l’obiettivo di svuotarlo di significato).
Secondo Latour, però, vi è un problema di approccio a questa caratteristica della cosiddetta
modernità, e cioè la modalità largamente diffusa di approccio ai temi scientifici, che tende
costantemente a suddividere gli oggetti in varie prospettive d’analisi, ciascuna “consegnata”
nelle solide mani di una disciplina. Questa pratica ha la conseguenza (amara) di spezzare il
«filo fragile che collega il tutto, spezzato in tanti segmenti quante sono le discipline pure:
guai a mischiare conoscenza, interesse, giustizia e potere» (Latour 1995, pag. 13).
Anzi, con maggiore precisione e acutezza di analisi teorica, Latour individua questa
antinomia come la caratteristica fondamentale della modernità.
81
«la parola “moderno” definisce due gruppi di pratiche completamente diverse che, per
conservare efficacia, devono restare distinte, mentre da qualche tempo non sono più tali»
(Latour 1995, pag. 22).
Le prime sono le pratiche di traduzione, quelle che creano quei «guazzabugli socio-tecnici»
ibridi di natura e cultura, scienza e società. È il gruppo di pratiche che opera con le reti.
Le pratiche di depurazione invece sono quelle che perseguono la continua separazione in
campi ontologici distinti, gli umani da un lato e i non-umani dall’altro. Un gruppo di pratiche
che produce l’atteggiamento che Latour chiama critica, cioè la continua separazione di analisi
in campi specifici e settoriali, autonomamente definiti, che rompono il reticolo delle reti.
Queste due tendenze di fondo della modernità operano in continua relazione: l’esistenza di
pratiche di traduzione conferisce le premesse alle pratiche di depurazione, e viceversa.
La conclusione è netta: «Finché consideriamo queste pratiche in modo separato siamo
davvero “moderni”, ovvero aderiamo volentieri al progetto di depurazione critica, anche se
esso si sviluppa soltanto con la proliferazione degli ibridi.» (Latour 1995, pag. 23).
L’approccio tipico dei sciences studies dunque deve essere quello di una premessa
epistemologica che rifiuti questa separazione fra natura e cultura, fra scienza e società,
operando invece per «ricomporre il nodo gordiano attraversando tutte le volte che occorre la
cesura che separa le conoscenze esatte e l’esercizio del potere, in altre parole la natura e la
cultura» (Latour 1995, pag. 14).
La separazione infatti ha l’effetto di rendere autonome le acquisizioni di ogni disciplina, così
che il sociologo non è tenuto a conoscere il fatto scientifico, lo scienziato la dimensione
sociale ed entrambi l’aspetto semiotico-linguistico.
Naturalizzazione, socializzazione e decostruzione sono tenute rigorosamente separate.
Per non separare nell’analisi natura e cultura, l’approccio che Latour prescrive è quello che
sceglie di utilizzare come riferimento il concetto di rete o traduzione.
Non basta analizzare il contesto sociale tenendolo separato, perché il contesto sociale
ridefinisce l’oggetto e viceversa.
Il vizio epistemologico della separazione fra scienza e società impedisce di vedere che, nella
realtà, gli oggetti sono ibridi e che attorno ad essi si sviluppano le pratiche che consentono la
creazione delle reti socio-tecniche che “impregnano” il mondo moderno.
82
L’importanza degli oggetti materiali intesi come “ibridi” è dunque capitale per Latour, perché
la crescita della professionalizzazione e del ruolo della scienza nelle società moderne si
esprime nella quotidianità proprio in concetti, strumenti, oggetti. Che vanno letti con
l’approccio interpretativo delle reti socio-tecniche, cercando di ricostruire i lori significati a
partire dalle complesse interrelazioni esistenti fra natura e cultura, fra società e scienza.
Per ricondurre a unità e “vedere” le reti socio-tecniche occorre riscoprire l’approccio
antropologico e le possibilità di una sua applicazione al tempo moderno (applicazione che
deve fare i conti con la razionalizzazione e la differenziazione delle stesse società moderne,
come messo in luce da Weber). L’empirismo dell’osservazione antropologica è l’unico
mezzo per mettere in evidenza la rete.
Io credo che sia possibile applicare questa prospettiva anche ai temi della
professionalizzazione della politica, dei cambiamenti da essa imposti all’interno delle
organizzazioni politiche, dell’uso da parte di queste di ricerche socio-politiche.
La professionalizzazione si ritrova infatti anche nel campo della politico (come sopra
abbiamo illustrato), riempito come il resto della società da discorsi e pratiche legati a ibridi di
società e scienza.
Ciò che ho cercato di fare in questa ricerca è esattamente quello di considerare le ricerche
socio-politiche (e i loro usi nel campo della politica) come ibridi di Latour, costituiti
contemporaneamente di natura, cultura e discorso, al fine di metterne in luce la rete socio-
tecnica che sta alla loro base: la descrizione del fatto in sé, la sua dimensione di
rappresentazione e costruzione sociale, gli elementi legati agli aspetti simbolico-discorsivi e
retorici.
Significa pertanto vedere il sondaggio non certo come uno strumento scientifico,
oggettivamente e universalmente accettato. E nemmeno solamente uno strumento
“socialmente costruito”. Bensì, in ultima analisi, un oggetto la cui realtà (significati, pratiche
d’uso…), viene quotidianamente costruita all’interno di contesti microsituati, identificabili
idealmente come un laboratorio.
Da qui l’importanza di portare su di essi l’attenzione, di ricostruire le pratiche di produzione e
d’uso, l’attribuzione di senso di cui essi sono oggetti da parte degli attori.
83
Considerare la realtà sociale dei partiti e del loro rapporto con la ricerca demoscopica, le sue
organizzazioni, i suoi attori significa condividere fino in fondo l’idea che quella realtà sociale
sia creata in quei “laboratori”, cioè gli istituti dove vengono creati gli oggetti, i sondaggi, e le
sedi dei partiti, laddove quegli oggetti sono utilizzati e dunque riempiti di significati.
L’analisi empirica ha pertanto seguito un approccio multidisciplinare, combinando non solo
approcci diversi, ma anche discipline diverse ed epistemologie/metodologie diverse. In modo
tale da partire da tutti questi contributi, ma con l’ambizione di riportare ad unità il tutto,
combinare le varie ridefinizioni che ciascuno di essi opera e lasciare così che emergesse il filo
conduttore costituito dalla rete.
4.4 Loic Blondiaux
Per chiarire ancora meglio l’approccio che è stato seguito, accenno in questo paragrafo ad un
esempio francese che rappresenta a tutti gli effetti un (parziale) tentativo di applicare alle
ricerche socio-politiche uno sguardo sociologico che le interpreti come reti socio-tecniche.
La ricerca in questione (Blondiaux 1998) ha il limite di operare secondo una prospettiva di
ricostruzione storica, ma il risultato è comunque di grande interesse, in quanto costituisce
un’applicazione dell’approccio di Latour allo specifico tema oggetto anche di questa ricerca.
Il tentativo dell’autore francese rimane a mio avviso molto valido, in quanto contribuisce a
mostrare alcune declinazioni di questo modo nuovo di intendere le ricerche socio-politiche
come ibridi, ricostruendo quel complesso legame fra scienza e cultura che sta alla base della
costruzione sociale del concetto e delle sue conseguenze.
La dimensione di costruzione sociale del concetto di opinione pubblica e dello strumento del
sondaggio è l’oggetto della lunga ricostruzione operata da Blondiaux (1998) nel suo
ricchissimo contributo sulla “storia sociale dei sondaggi”.
La sua tesi fondamentale è che il concetto attuale di opinione pubblica non sia affatto lo
stesso da sempre. E soprattutto che lo strumento utilizzato oggi per oggettivizzare l’opinione
pubblica, il sondaggio, è esso stesso frutto di un lungo processo di costruzione sociale della
sua legittimazione.
L’affermazione dell’attuale concezione di opinione pubblica è in larga parte dovuta al
successo del sondaggio come strumento di oggettivazione della stessa.
84
Per analizzare la questione nel dettaglio, occorre inserire l’uso dei sondaggi nel più ampio
dibattito sulla sfera pubblica e sulla presenza dell’opinione pubblica nel campo della politica.
Blondiaux (1998) si pone proprio l’obiettivo di ricostruire una storia sociale dei sondaggi,
cercando di mettere in questione la sovrapposizione fra sondaggi e opinione pubblica,
mostrando come essa non sia un’acquisizione scontata, ma il frutto di fenomeni di
costruzione sociale sedimentatisi nel tempo. Il problema che si pone Blondiaux è proprio
quello di capire come si è arrivati ad accettare la sovrapposizione sondaggi-opinione pubblica
(Blondiaux, 1998, pag. 9). Si tratta infatti di una sovrapposizione molto forte, in cui il
concetto è finito dentro lo strumento, conferendo un importante potere a questo strumento
tecnico e modificando di conseguenza il comportamento degli attori politici.
Il concetto di opinione pubblica è per sua natura sfuggente e invisibile.
Un’analisi storica dei concetti e delle idee relative a questo campo mette in luce come, prima
dell’avvento dei sondaggi e della loro affermazioni, vi fossero in campo concetti differenti di
opinione pubblica. Un filone che fa capo ai lavori di Habermas, Bryce, Dewey e altri
pretende condizioni molto selettive per la definizione del concetto di opinione pubblica – a
partire dal livello di informazione e dall’esistenza di un dibattito pubblico – del tutto
incompatibili con l’idea sottintesa dai sondaggi, cioè di un’opinione pubblica intesa come
somma di opinioni individuali (Blondiaux 1998, pag. 83).
Conseguentemente, anche gli strumenti di rilevazione ed espressione dell’opinione pubblica
sono storicamente differenti. Bryce, ad esempio, sosteneva che solo l’osservazione, la
frequentazione dei diversi milieu sociali e la conversazione diretta potessero fornire all’uomo
politico elementi di conoscenza attendibili dell’opinione pubblica. Una concezione, se
vogliamo, molto vicina alle teorie e alle metodologia della moderna sociologia qualitativa ed
etnografica.
Una seconda visione fa capo invece a Lippman e Wallace, e considera l’opinione pubblica
sostanzialmente come facilmente manipolabile, perennemente in balia dei voleri strumentali
dei vari attori politici. In questo caso, l’opinione sarebbe basata sulla disinformazione, sul
disinteresse e sull’irrazionalità dei giudizi e dei comportamenti.
La cosa interessante è che proprio l’esistenza delle controversie è alla base della successiva
affermazione incontrastata dei sondaggi e del loro concetto di opinione pubblica e delle
relative tecniche di misurazione. Infatti, è proprio l’esistenza della controversia che dà luogo
a un «bisogno sociale di misurazione dell’opinione pubblica» (Blondiaux 1998, pag. 120),
85
che sarà riempito proprio dalle pretese (riconosciute prontamente) dei sondaggisti circa le
possibilità offerte dalle nuove tecniche demoscopiche.
La volatilità del concetto di opinione pubblica deriva proprio dal fatto che esso, a differenza
di altri fenomeni naturali, non ha alcun ancoraggio con la realtà, né – come dimostrano le
controversie sopra esposte – altri di tipo formale, normativo o giuridico, come è avvenuto ad
esempio per i concetti di Stato o di partito politico. Per cui la concettualizzazione
dell’opinione pubblica è, se vogliamo, più vicina a quella dei fenomeni religiosi. Non c’è
niente di tangibile nella sua esistenza da portare come prova: è un atto simile a quello
dell’aver fede (Blondiaux 1998, pag. 128 in nota).
Il successo sociale dei sondaggi è dunque possibile proprio perché essi si inseriscono in
queste controversie e nelle domande sociali che esse originano, permettendo di rendere
misurabile e visibile il concetto di opinione pubblica, altrimenti sfuggente e invisibile
(Blondiaux, 1998, pag. 11). Lo hanno oggettivizzato. E questo ha prodotto conseguenze
precise nel comportamento degli attori, facendo entrare l’opinione pubblica nella politica.
Sebbene esistano ancora controversie sul concetto di opinione pubblica, la sua apparizione
tramite i sondaggi ha prodotto un netto cambiamento nella rappresentazione sociale del
concetto e la maggior arte dei lavori odierni sui sondaggi e sul loro rapporto con la politica
hanno fatto propria questa sovrapposizione (Blondiaux 1998, pag.11).
Questo è in tutta evidenza un punto centrale della visione mainstream.
Per meglio comprendere questo punto, particolarmente efficace è il paragone svolto da
Blondiaux con Pasteur.
Come fa notare Blondiaux (1998, pag. 66), Pasteur costruì la legittimazione della sua
scoperta dei microbi anche sull’appoggio di alcuni gruppi sociali, che conferirono da subito
credibilità alle sue scoperte, anche oltre il significato delle stesse. E ciò fu dovuto anche da un
lato al fatto che esse semplificavano molto il panorama, raggruppando in un unico ed efficace
concetto – i microbi – una serie di fenomeni altrimenti più difficile da afferrare, e dall’altro
dal potere derivato dalla presunzione di poterli realmente “vedere”, cosa che gli altri
scienziati non potevano, grazie alle nuove tecniche (Latour 1984).
Allo stesso modo il successo dei sondaggisti deriva dalla credibilità conferita loro dai vari
gruppi sociali di riferimento (politici, giornalisti, accademici), data la possibilità di
semplificare un concetto prima difficilmente maneggiabile e di renderlo visibile grazie allo
86
strumento tecnico del sondaggio. Come Pasteur poté diventare portavoce dei microbi perché
fu l’unico a vederli, così i sondaggisti assurgono al ruolo di portavoce dell’opinione pubblica
data la loro capacità tecnica esclusiva di “vederla”, cioè di darle una forma e una misura.
Da notare che, secondo Blondiaux, la rivoluzione apportata dall’affermazione dei sondaggi ha
la stessa portata di quella dell’affermazione del suffragio universale. Quest’ultima aveva
“personificato” la sovranità popolare. L’affermazione sociale dei sondaggi e
dell’epistemologia di cui sono portatori – attraverso il dispositivo tecnico e simbolico e le
pratiche di legittimazione – ha risolto il problema dell’espressione dell’opinione pubblica.
L’affermazione dei concetti è condizionata dal successo degli oggetti utilizzati per reificarli.
E il successo degli oggetti dalla loro intrinseca capacità di visibilità, coadiuvata da pratiche di
legittimazione basate sul sapere degli esperti e sulla reputazione della scienza.
L’importanza delle pratiche di legittimazione si ritrova infatti nell’esperienza dell’uso dei
sondaggi: la legittimazione da parte della politica, l’accreditamento scientifico tramite le
relazioni e le consuetudini accademiche, la necessità produttiva di ricercare la “prova” della
correttezza dei metodi e dei concetti, tramite la “divinazione” e le profezie sulle vittorie
elettorali, che tanta parte hanno avuto nel creare la rappresentazione sociale dei sondaggi e
imprimerla nell’immaginario collettivo (Blondiaux 1998).
Blondiaux mostra inoltre come i sondaggisti abbiano saputo affermare le loro tecniche nuove
nel panorama della discussione in corso sull’opinione pubblica, anche attraverso un uso
accorto delle retoriche relative al primato della scienza e a quelle relative alla teoria della
democrazia (Blondiaux 1998). Facendo appello a diversi concetti esistenti nel dibattito (come
ad es. il “mito democratico”), essi hanno saputo evidenziare il bisogno sociale di strumenti
per conoscere l’opinione pubblica, offrendo poi il loro strumento come l’unico in grado di
rendere visibile l’opinione pubblica attraverso una misurazione esatta.
L’affermazione sociale dei sondaggi come strumento unico di misura dell’opinione pubblica,
si accompagna a tre fenomeni che risultano a tutt’oggi sostenere il sistema (Blondiaux 1998,
pag. 278).
Una opinione politicamente legittima, cioè inserita pienamente nel gioco democratico,
secondo l’idea di una effettiva e democratica espressione del suffragio universale.
Una opinione scientificamente stabilita, basata su un accreditamento della comunità
scientifica e sulla reputazione accademica di concetti, metodi e strumenti.
87
Una opinione socialmente efficace, in grado di incidere nel dibattito pubblico e nel sistema
sociale, attraverso la validazione ottenuta dai vari mezzi di integrazione sociale, sia del
campo dell’informazione che del campo politico.
«La forza del sondaggio riposa su una doppia evidenza, su una doppia credenza: nella
democrazia e nella scienza» (Blondiaux 1998, pag. 580).
La costruzione sociale che ha portato alla sua affermazione si poggia dunque su dei costrutti
sociali affermati e non discutibili, che ne conferiscono il senso ultimo. In questo modo,
diventa a tutti gli effetti una particolare espressione di un processo di razionalizzazione
weberiana avvenuto nel campo della politica, delle sue organizzazioni e delle relazioni che
esse intrattengono.
Da notare che il potere dei sondaggisti e la loro pretesa di esercitare un monopolio sulle
possibilità di conoscenza dell’opinione pubblica rappresenta (anche storicamente) una netta
diminuzione della legittimazione, sul medesimo terreno, anche degli stessi politici. Che
stranamente, nel tempo, è riuscita (Blondiaux 1998, pag. 67).
La ricostruzione operata da Blondiaux è certo parte fondamentale di questo percorso. Il
tassello che ancora manca è appunto quello di portare l’attenzione sulle reti socio-tecniche
della produzione e dell’uso delle ricerche demoscopiche e sui contesti in cui esse sono
quotidianamente formate, negoziate, dotate di senso.
88
CAP. 5
L’APPROCCIO EPISTEMOLOGICO
5.1 Introduzione
Nelle pagine precedenti abbiamo introdotto l’idea che, nella letteratura sul tema delle ricerche
socio-politiche, esiste una visione mainstream. E che questa si presenta per molti aspetti
come lacunosa, poco realistica e poco empirica.
Abbiamo introdotto alcuni concetti e categorie sviluppati da sociologi di varia provenienza,
per mostrare come la ricerca empirica sul tema abbia ancora molti punti da indagare e cercare
di chiarire.
Ma questo obiettivo di “disvelamento”, oltre che poggiarsi sui contributi puntuali sopra
ricordati, prende origine anche da un approccio epistemologico preciso e differente rispetto a
quello presupposto nella letteratura mainstream.
La critica alla visione mainstream o professionale non può, a mio avviso, limitarsi allo
specifico caso oggetto di analisi. Gli argomenti che si possono utilizzare per contrastare
quella visione, infatti, vanno inseriti nel più ampio dibattito novecentesco sui temi della
conoscenza e della scienza, e in particolare alla luce di alcuni lavori che hanno contribuito a
rendere più complessa la nostra lettura del rapporto fra scienza e società e le dinamiche che
guidano i processi di crescita della conoscenza.
In questo capitolo ho inteso dunque accennare ad alcuni di questi lavori, cercando di mostrare
il clima intellettuale in cui intendo inserire questa ricerca e il paradigma epistemologico che
sta alla base delle categorie e dei modelli interpretativi di volta in volta utilizzati.
Si tratta dunque di ripercorrere alcune tappe di un cammino lungo e frastagliato, al confine
fra filosofia della scienza e sociologia della conoscenza.
Non essendo questa la sede per un lavoro approfondito, mi concentrerò solo su alcuni autori e
prospettive, quelli che più mi hanno influenzato nell’impostare questa ricerca.
Dedicherò invece una spazio maggiore al lavoro di Murray Edelman. Questa eccezione è
dovuta al semplice fatto che la sua opera, per quanto elaborata in forma di pamphlet e non di
89
contributo teoricamente organico, rappresenta un emblematico caso di applicazione del nuovo
paradigma epistemologico ai territori della scienza politica, nei quali normalmente trova
difficoltà ad affermarsi.
5.2 Il rifiuto dell’oggettività nella filosofia della scienza
Il primo punto riguarda l’universalità e l’oggettività dei fatti scientifici.
Il dibattito sul tema, sia in campo filosofico che sociologico è sterminato e non è possibile
operare in questo spazio una ricostruzione fedele.
Tutta la filosofia della scienza novecentesca è, se vogliamo, un percorso che – attraverso
direzioni diverse ma coincidenti nell’approdo – porta alla negazione delle costruzioni teoriche
razionaliste (lungo la linea Cartesio-Kant, con summa finale nel positivismo e nel positivismo
logico). Un percorso per raggiungere la convinzione che non sia possibile separare una
conoscenza “certa” dalle “opinioni”.
«Oggi il Metodo non è più sinonimo di certezza, bensì (solo) di atteggiamento critico»
(Giorello 2006, pag. 6).
E, se vogliamo, con l’opera di Popper, il più influente filosofo della scienza del ventesimo
secolo, si arriva finalmente alla piena consapevolezza dell’impossibilità del raggiungimento
dell’episteme e della “condanna” a vivere nella doxa.
Il raggiungimento di questa consapevolezza, però, presenta aspetti diversificati. E alcuni sono
più utili di altri per la nostra ricerca.
Il dibattito in filosofia della scienza di è articolato attorno alle due grandi questioni del
fondamento logico dell’induzione e della demarcazione fra i fatti scientifici e i fatti naturali,
presupposti per la tenuta della scienza e della conoscenza che scaturisce dai suoi metodi
(Giorello 2006, pag. 14).
Fin dall’impostazione data da Hume al problema dell’induzione, che passa per il concetto di
habitus, la filosofia della scienza ha dovuto fare i conti con il tema dei significati
intersoggettivi e dunque, in senso lato, sociali.
Questi inserimenti della dimensione sociale nei fondamenti della conoscenza scientifica sono
stati oggetto di grande dibattito e di una certa tendenza al rifiuto.
90
Ma, dall’altro lato, hanno dato origine a un filone tematico che assegna esplicitamente alla
dimensione sociale la base della conoscenza scientifica, come si intuisce nella linea che va
dal convenzionalismo alle teorie olistiche.
L’aspetto più interessante è l’idea che non sia possibile concepire la verità di un’asserzione
scientifica al di fuori di un contesto teorico di riferimento. Ogni fatto scientifico è giustificato
in una cornice interpretativa determinata da un paradigma teorico. Con la conseguenza che
ogni asserzione scientifica non si può dire oggettiva, necessaria, universale.
I tre precedenti concetti racchiudono in realtà sottili differenze, di grande importanza per la
filosofia della scienza. Ma in questo caso, li si può utilizzare come quasi sinonimi, ad
intendere l’idea che l’accettazione di una verità scientifica non si può considerare
indiscutibile, ma che anzi è condizionata alla condivisione di alcune coordinate
epistemologiche indispensabili, che sole la rendono sensata: teorie, metodi empirici, principi
etici.
Numerosi autori hanno partecipato alla costruzione di questo concetto. Ne citerò solo alcuni, i
più significativi o interessanti per questo lavoro.
Il linguaggio è parte fondamentale della conoscenza, come hanno dimostrato celebri lavori di
Wittgenstein, Russell e altri, in un filone di studi così influente per il pensiero del ventesimo
secolo da determinare una vera “svolta linguistica”.
La svolta operata dal cosiddetto “secondo Wittgenstein” (Wittgenstein 1969) ha avuto il
merito di individuare un modo nuovo di vedere il problema del linguaggio. Non più ancorato
alle verità logiche e alle denotazioni, il significato diventa la pratica, il modo d’uso, il gioco
linguistico. Il linguaggio, come direbbero alcuni sociologi successivi, diventa “situato”,
inserito in particolari contesti, che ne determinano il significato attraverso costruzioni sociali
guidate dall’uso pratico.
A conclusioni analoghe, ma in un altro campo, era giunto anche Godel.
Il suo famoso teorema dell’incompletezza segna un punto di non ritorno nella filosofia
analitica, dimostrando l’impossibilità dell’esistenza di un qualsiasi sistema logico formale
universalmente valido. Ogni sistema logico, infatti, è basato su premesse indimostrabili
all’interno dello stesso sistema. Pertanto, ogni verità logica è valida solo all’interno di un
sistema predefinito, a sua volta indimostrabile rimanendo all’interno dei suoi confini.
91
In queste versioni filosofiche sulla natura della logica e sulla natura del linguaggio era già
inserita in nuce la “via linguistica” alla teoria olistica.
Ma, su tutti, è Quine ad essersi occupato con più pregnanza del ruolo del linguaggio nel
problema dell’universalità della conoscenza.
In una celebre argomentazione filosofica (Quine 1960), partendo dalla situazione
emblematica della “traduzione radicale” Quine arriva a dimostrare “l’indeterminatezza della
traduzione” di ogni concetto in un altro linguaggio qualunque, mettendo in luce come ogni
nostra conoscenza sia ancorata ad un sistema di riferimento che, solo, le conferisce il senso.
Uscendo da questo sistema di premesse implicite, non vi è alcuna possibilità logica di
mantenere i significati.
Riprendendo (e ampliando) le tesi del filosofo francese Duhem, Quine realizza una forma di
convenzionalismo della conoscenza, la cui principale argomentazione è la convenzionalità
della significazione. Secondo questa tesi, dunque, qualunque linguaggio, anche logico-
formale, non consente strutturalmente la presenza di significati universali, rendendo di fatto
impossibile anche la costruzione e la trasmissione di un insieme di conoscenze indiscutibili.
Ogni osservazione è intrisa di teoria e dunque ogni conoscenza è valida solo all’interno di un
determinato sistema di premesse implicite.
Da qui la tesi olistica: la validità universale delle singole conoscenze non è verificabile, in
quanto dipende dal “tutto”, dal sistema di riferimento.
Una visione similmente olistica la si ritrova, pochi anni dopo, nel pensiero di Kuhn (1962),
questa volta applicata direttamente alle conoscenze scientifiche.
La tesi di Kuhn porta la teoria olistica nel pieno del dibattito sulla conoscenza scientifica.
La sua idea di una separazione concettuale fra periodi di scienza normale alternati da
rivoluzioni scientifiche chiarisce come la scienza stessa non sia immune da un contesto in
qualche modo “sociale”. La validità delle teorie scientifiche non può essere universale, in
quanto tutto il processo scientifico si muove all’interno di paradigmi condivisi
implicitamente. Le stesse osservazioni sono per forza di cose “cariche di teoria”, così come
argomentazioni e acquisizioni sono validate dalle premesse teoriche del paradigma di scienza
normale. Sono escluse dal rischio di contestazione, ma solo fino all’arrivo di una rivoluzione
scientifica, che rivedendo le premesse teoriche di base, va a riscrivere tutte le conoscenze
scientifiche, inserendole in un nuovo sistema.
92
Come la storia è scritta dai vincitori, così anche nella scienza la validità delle conoscenze
dipende dal paradigma dominante. L’universalità, concettualmente, è impossibile; e,
pragmaticamente, è incontestata solo fino all’avvento della prossima rivoluzione.
5.3 Il rifiuto dell’oggettività della conoscenza in sociologia
Anche la sociologia ha affrontato autonomamente un proprio dibattito sui fondamenti della
propria disciplina, e in particolare sugli approcci epistemologici più appropriati a descrivere
la realtà.
Anche in questo caso è impossibile pensare ad una ricostruzione completa.
Mi accontenterò di mettere in luce i riferimenti di teoria sociologica principali ai quali mi
sono inspirato per questo lavoro, in quanto funzionali al tentativo di rendere più complessa e
realistica la visione di senso comune circa le ricerche socio-politiche nel campo della politica.
L’importanza attribuita dalla filosofia della scienza alla dimensione sociale e intersoggettiva
acquista una considerazione ancora più rilevante se vista alla luce del dibattito sociologico.
La sociologia, infatti, non si è limitata a considerare la conoscenza sociologica come frutto
anche di una dimensione sociale, così come indicato dagli approcci olistici alle conoscenze
scientifiche sopra ricordati.
Bensì, un’importante branca della sociologia è cresciuta e si è affermata sostenendo che la
dimensione sociale fosse determinante ben oltre la conoscenza sociologica, fino a interessare
la realtà tout court, passando così dalla costruzione della realtà sociale alla costruzione
sociale della realtà.
La prospettiva fenomenologico-costruttivista
Tutta la sociologia di origine etnometodologica o costruttivista è un continuo tentativo di
messa in discussione della possibilità di arrivare a conoscenze universali e di mostrare,
invece, l’esistenza di processi di costruzione sociale che rendono i significati
inequivocabilmente legati ai contesti di natura sociale.
Quello del costruttivismo rappresenta un vero paradigma della sociologia contemporanea, che
racchiude in un contesto coerente varie impostazioni: la linea della definizione della
93
situazione di Thomas e Goffman, la fenomenologia sociale di Schütz, l’interazionismo
simbolico di Blumer, l’etnometodologia di Garfinkel (Collins 1992).
La prospettiva della costruzione sociale mette al centro l’individuazione di una teoria
sociologica della conoscenza.
Il problema della relatività è il problema centrale della sociologia della conoscenza, così
come «si può dire che la sociologia della conoscenza rappresenta una enorme elaborazione
dell’intuizione di Pascal sulla relatività sociale delle nozioni umane di verità. In altri termini,
la sociologia della conoscenza raccoglie e studia il carattere costruito di quella che gli esseri
umani chiamano “realtà”» (Berger, Kellner 1991).
Il costruttivismo fa convenzionalmente riferimento al testo di Berger e Luckmann (1969), nel
quale viene data una sistemazione coerente ad una serie di contributi disomogenei cresciuti in
precedenza.
L’idea principale parte dalla considerazione che, da un punto di vista della ricerca
sociologica, la separazione fra realtà e conoscenza sia non centrale.
L’oggetto della sociologia della conoscenza, infatti, deve essere centrato sui «processi per cui
qualsiasi complesso di conoscenze viene a essere socialmente stabilito come realtà» (Berger,
Luckmann 1969, pag. 15). La sociologia della conoscenza «deve interessarsi di tutto ciò che
passa per conoscenza in una società, senza riguardo alla fondamentale validità o non validità
(non importa secondo quale criterio) di questa conoscenza» (Berger, Luckmann 1969, pag.
15).
L’idea è che la realtà per gli umani sia indistricabile dalla loro possibilità di conoscerla
(lasciando così alle altre filosofie il tema della realtà) e che quest’ultima sia frutto di un
insieme di processi che sono situati nelle relazioni sociali.
Pertanto ogni approccio allo studio della realtà, compreso quello sociologico, deve partire
dalla considerazione delle dinamiche sociali della conoscenza della realtà, fondamentali per
entrare in relazione con la realtà stessa.
L’approccio epistemologico deriva dalla fenomenologia sociale elaborata da Schütz.
Schütz elabora una serie di principi utili a comprendere i processi con cui si formano le
conoscenze condivise. Il punto di partenza è l’idea dell’importanza della vita quotidiana,
94
intesa come quella provincia finita di senso in cui si inseriscono tutte le altre e in cui prende
forma il senso comune, base della conoscenza sociale (Berger, Luckman 1969, pag. 42).
È nella vita quotidiana, infatti, che si applica l’atteggiamento naturale, cioè la naturale
propensione a dare per scontato una serie di conoscenze relative alla realtà che ci circonda e a
condividere intersoggettivamente una serie di significati che formano il senso comune.
È sulla sfera di significato della vita quotidiana che si inseriscono tutte le altre sfere di
significato circoscritte. E, per questa ragione, per la migliore comprensione dei fenomeni è
necessario portare l’attenzione alla dimensione quotidiana, al senso comune e al dato per
scontato.
La costruzione sociale della realtà afferma dunque che, per gli individui, la realtà è legata alla
conoscenza della stessa e che quest’ultima si forma nei contesti sociali, dominati
dall’atteggiamento naturale della vita quotidiana.
In questo modo, sono le situazioni sociali a determinare la realtà.
Il collegamento evidente è al teorema di Thomas, che afferma appunto che la realtà sociale si
costruisce a seguito della definizione data dagli individui alla situazione in cui si trovano
(Collins 1992).
In questo modo, dunque, la prospettiva fenomenologico-costruttivista rappresenta una
evoluzione potente dell’idea dell’importanza delle relazioni sociali nella definizione della
conoscenza, che conduce alla negazione della possibilità di un accesso neutro alla realtà e
dunque della possibilità di attingere ad una conoscenza oggettiva, così come invece sostenuto
dalla prospettiva mainstream.
Erving Goffman e Gregory Bateson
È chiaro che non si può ricostruire tutta la sociologia di matrice costruttivista.
Cercherò di porre l’attenzione sulle riflessioni epistemologiche di due autori che mi hanno
particolarmente influenzato in questo lavoro.
95
Proprio la definizione della situazione è la base teorico-epistemologica di numerose
prospettive sociologiche, fra cui la più nota è senz’altro la prospettiva elaborata da Erving
Goffman.
Le posizioni espresse dal sociologo canadese costituiscono un esempio importante di come la
sociologia possa fare proprio il rifiuto degli assunti realistici di approccio alla conoscenza.
Nella prima fase del suo pensiero, quello basato sulla prospettiva teatrale e sullo studio
durkheimiano dei rituali nella vita quotidiana (Goffman 1969), Goffman costruisce un
modello di studio della realtà in cui vengono applicati coerentemente gli argomenti elaborati
dagli approcci della definizione della situazione e della fenomenologia sociale,
concentrandosi sulla realtà della vita quotidiana e sui rituali in essa presenti, intesi come
strumenti in cui vengono generati gran parte dei significati intersoggettivamente condivisi.
Nella seconda parte del suo pensiero (Goffman 2001), inoltre, la prospettiva di Goffman si
allarga, concentrandosi sullo studio dei frames, cioè delle cornici contestuali implicite che
strutturano i campi d’azione, e sulle influenze che esse portano nella vita sociale.
In questo modo, dunque, Goffman spinge oltre la sua applicazione della fenomenologia
sociale (Burns 1997, pag 329-330).
Ma si avvicina anche a una visione olistica della conoscenza, simile a quanto visto in
precedenza per la filosofia della scienza, in cui ogni osservazione è determinata dal contesto
di riferimento.
Ed è proprio alla visione olistica, invece, che aggancia tutta la sua prospettiva teorica Gregory
Bateson, che ha messo l’idea dei significati vincolati al contesto alla base della propria
prospettiva teorica e di ricerca empirica, assai autonoma e personale.
La complessa epistemologia tracciata da Bateson nei suoi lavori è racchiusa sotto il nome di
ecologia della mente (Bateson 1972). Alla base, sta il rifiuto di una certa epistemologia
dominante, che sostiene la separatezza di categorie come mente e corpo, individuo e società.
La prospettiva di Bateson è una particolare forma di teoria olistica. Mente e corpo sono
categorie interrelate strettamente, e acquisiscono il loro senso solo dalla relazione reciproca e
dall’essere entrambi elementi costitutivi del corpo (Deriu 2000, pag 65).
Lo stesso discorso, traslato, si applica all’antinomia individuo/società. Anche in questo caso,
il senso dei concetti è comprensibile solo a partire dalla relazione degli stessi. Ed entrambi
sono parte costitutiva della natura.
96
Per Bateson, «l’olismo non riguarda tanto una concezione soprannaturale o astratta, quanto
rappresenta piuttosto una proprietà del modo di agire e di osservare che afferra sia l’insieme
delle relazioni – la totalità – sia i modi dell’organizzazione, ossia che coglie in che modo
all’interno della totalità le differenti parti sono collegate tra loro dalla comunicazione.»
(Rettore 2007).
Fin dalla teoria del doppio vincolo Bateson vuole evidenziare che il problema
dell’epistemologia corrente è l’incapacità di interpretare l’esistenza di livelli logici diversi.
Solo tramite una adeguata comprensione della complessità delle meta-strutture e delle
interazioni che i diversi livelli hanno fra loro nel determinare i significati e le interpretazioni
possiamo acquisire un’epistemologia corretta e in grado di rendere più solida la nostra
conoscenza.
La sua proposta epistemologica si caratterizza per un continuo rimando a un sistema
superiore e più complesso. Ogni problematica, per una sua corretta interpretazione, va inserita
nel proprio contesto di significazione, nella cornice di premesse implicite che, sola, le
conferisce il senso.
Questo continuo rimando a delle meta-categorie è la vera cifra del pensiero di Bateson: una
conoscenza valida è possibile solo se sapremo applicare con coerenza e costanza questo
sguardo alla dimensione “meta”, unico modo per la corretta interpretazione delle
problematiche conoscitive.
Si tratta, a ben vedere, di una forma particolare di teoria olistica, che si avvicina alle teorie
della complessità di numerosi autori moderni, fra cui Morin.
Un’esemplare enunciazione di questo approccio epistemologico è contenuta in un breve e
poco noto saggio (Bateson 1997). In esso Bateson, usando la metafora della malattia, critica
l’approccio consueto ai problemi, per lui troppo simili a quei tipi di intervento che vanno a
curare i sintomi. Essi, più che guarire le sindromi, rischiano solo di abituare il corpo alla
presenza della malattia eliminandone i sintomi.
«Noi curiamo i sintomi. Facciamo più strade per le macchine in più. Facciamo più macchine e
più veloci per la gente esausta e quando la gente (molto giustamente) muore per
ipernutrizione o inquinamento, proviamo a rinforzare gli stomaci o i polmoni (le compagnie
d’assicurazione odiano la morte). Per la sovrappopolazione costruiamo nuove case ecc.
Questo è il paradigma: curare il sintomo per rendere il mondo sano e salvo per le sua
patologia» (Bateson 1997).
97
La giusta prospettiva epistemologica consiste invece nel porsi ad un livello superiore, e cioè
al sistema in cui i sintomi sono inseriti, e cioè la sindrome. Lì va portato il vero intervento.
Questa operazione mentale è replicabile in ogni interpretazione della realtà. Mentre la visione
non olistica rimane il principale limite della scienza moderna.
5.4 Murray Edelman
Abbiamo dunque ricostruito una versione mainstream delle ricerche socio-politiche e poi
evidenziato, nell’ordine, alcuni approcci sociologici utili ad indagare più in profondità il tema
e il percorso che delinea una prospettiva epistemologica alternativa.
Ma la nostra ricerca si situa nel campo della politica. E dunque alcune domande sorgono
spontanee. Quanto di questi nuovi modi di interpretare i temi della conoscenza e dei saperi
esperti è entrato in questo campo di studi? Quanto vi è entrato l’approccio epistemologico che
sopra ho delineato?
Molto poco. Nella scienza politica, questo genere di prospettiva non è ancora entrato
pienamente. La preponderanza dalla visione mainstream non esiste solo negli studi sulla
demoscopia, ma in gran parte dei diversi settori della politologia.
La scienza politica infatti ha riflettuto meno della sociologia sui problemi della fondatezza e
validità della conoscenza.
Un limite doppiamente rilevante nel nostro specifico campo di studi piuttosto che negli altri,
visto che qui si parla proprio di strumenti di conoscenza e del loro utilizzo a beneficio del
campo politico.
In realtà – sebbene molto meno “attrezzata” in termini di pubblicazioni, di stratificazione
della conoscenza, di sedimentazione, di approfondimento e anche di specifica sintonia con
l’oggetto di questa ricerca – è individuabile una prospettiva alternativa al campo della
politica. Un approccio che riguarda non solo l’uso delle ricerche demoscopiche, ma più in
generale una diversa visione del fenomeno politico, del comportamento degli attori, delle loro
relazioni, delle organizzazione e delle loro strategie, routine, strumenti.
Una prospettiva che parte proprio dalla contestazione degli assunti mainstream sul piano
epistemologico. E che prova ad applicare al campo politico un approccio epistemologico più
costruttivista.
98
Proprio per questa ragione, questa prospettiva presenta elementi di interesse notevoli. Essa
rappresenta un primo tentativo di applicare l’epistemologia non-realista al campo delle
scienze politiche, per quanto non compiutamente.
Per il lavoro oggetto di questa ricerca, si tratta senz’altro di un punto di riferimento
interessante, per certi aspetti fondamentale. Per questa ragione, vi dedicherò uno spazio
maggiore di quelli riservati ad altri autori in precedenza.
Murray Edelman ha mostrato la sua visione in una serie di pubblicazioni.
Il contributo teorico più omogeneo sul tema rimane però il volume Costruire lo spettacolo
politico (Edelman, 1992).
La riflessione di Edelman è originale.
La scienza politica contemporanea è guidata da un approccio razionale, che è dato per
scontato, mai messo in discussione e che dunque costituisce quelle fondamenta teoriche ed
epistemologiche di tutta la disciplina delle scienze politiche.
Edelman si propone di confutare questo approccio razionale alla politica. E intende farlo
partendo da un aspetto a prima vista secondario, e cioè da come esso tratta e razionalizza la
diffusione mediatica dell’informazione politica.
Il problema della diffusione dell’informazione politica è un problema tipicamente moderno,
come abbiamo avuto modo di vedere nei capitoli precedenti.
Esso pone vari problemi, tanto da avere dato luogo ad un consistente dibattito circa l’utilità e
la qualità di questa informazione, particolarmente per il buon funzionamento dei sistemi
democratici.
La risposta data a questo problema dal paradigma razionale parte dall’idea che le scelte
politiche compiute dai cittadini siano consapevoli, razionali e tendenzialmente informate.
Pertanto, esse non possono che trovare giovamento dalla crescita della comunicazione
politica e da una diffusione massificata mediaticamente dei contenuti dell’informazione
politica.
Secondo Edelman questa risposta è inadeguata, in quanto parte da presupposti non validi.
«…cittadini, giornalisti e studiosi osservano “fatti” i cui significati possono essere
accuratamente accertati da parte di chiunque abbia preparazione e motivazione specifiche.
Questa impostazione di stampo positivista è oggi più accettata che difesa. In realtà abbiamo
99
acuta consapevolezza del fatto che gli osservatori e ciò che essi osservano si costruiscono
reciprocamente; che gli sviluppi politici rappresentano realtà ambigue le quali esprimono i
significati che il processo di costruzione promosso dagli osservatori coinvolti richiede che
essi significhino; del fatto che ruoli e immagini di sé degli osservatori costituiscano a loro
volta costruzioni create quanto meno in parte dalle osservazioni interpretate.
Questo studio è un tentativo di applicare questo principio epistemologico alla politica.»
(Edelman 1992, pag. 7-8).
La risposta all’interrogativo sul ruolo dell’informazione politica costituisce solo l’innesco di
un ragionamento che porta ben oltre. Un ragionamento che contiene esplicitamente i
riferimenti ad un intenso e diffuso dibattito epistemologico, e che prende esplicitamente le
parti di una posizione costruttivista della realtà e delle possibilità di conoscenza della stessa.
Nelle pagine successive, Edelman delinea con più chiarezza il suo tentativo, esplicitando
quali elementi del paradigma razionalista-realista intende contestare.
«Il proposito, o il tentativo, di ridurre l’ambiguità a certezza, i soggetti multidimensionali ad
altrettante individualità dalle ideologie fisse e ben determinate, le predilezioni
dell’osservatore all’essenza stessa della razionalità, pervade i discorsi della vita quotidiana
tanto quanto la pratica delle scienze sociali. Tali premesse rassicurano gli osservatori circa la
giustezza delle loro interpretazioni.” … “… la fiducia nella verificabilità (o nella
falsificabilità) delle osservazioni, la separabilità dei fatti dai valori, e la possibilità di affidarsi
alla deduzione per stabilire generalizzazioni valide costituiscono parti di una formula utile
tanto per l’auto-rassicurazione, ed anche per il dogmatismo, quanto per rivendicare potere
sugli altri.» (Edelman 1993, pag. 9-10).
Dalle citazioni precedenti emerge chiaro quale sia il bersaglio di Edelman. La stabilità della
realtà sociale – che è la premessa per una sua conoscibilità oggettiva – non esiste, perché ogni
fenomeno non è un “fatto” oggettivo, ma un insieme di interpretazioni e di continue
negoziazioni, frutto di reciproche interazioni. L’oggettività della realtà e le pretese razionali
di conoscibilità della stessa non sono che il frutto della presenza continua di un bisogno di
semplificazione dello scenario da parte dei vari attori che ne fanno parte.
In questo dunque Edelman si richiama alla tradizione sociologica di studi sulla conoscenza,
particolarmente a quella di origine fenomenologica e costruzionista che abbiamo visto in
100
precedenza. Così come è altrettanto evidente il suo riferirsi al dibattito sui fondamenti della
scienza, in perfetta linea con quanto anche da noi ricostruito.
L’implicito dunque è che il fatto che esista un paradigma realista e razionalista nella scienza
politica e che questo sia dominante e non discusso crea una situazione di sterilità per le
possibilità stesse di crescita della disciplina.
E lo esplicita molto bene con quest’immagine efficacissima: «…affidarsi a questo framework
concettuale per fare scienze sociali è un po’ come mettersi a cercare sotto un lampione, dove
si vede bene, la moneta che ci è caduta in un tratto buio di strada.» (Edelman 1993, pag. 9-
10).
Ma Edelman non si limita a denunciare questa mancanza. Infatti, come tutto ciò entra
nell’analisi della politica e nella definizione dei fenomeni che la compongono? Che
conseguenze ha questo bias interpretativo nel nostro modo di leggere le diverse
problematiche della disciplina?
Qui il tentativo di Edelman entra nel vivo.
Lo studioso americano concentra la sua attenzione sul tema dell’informazione politica e dello
spettacolo indotto dalla crescita subitanea della stessa nel mondo dei media, accompagnata da
un’attenzione e da una pervasività prima non presenti.
Edelman introduce subito quella che sarà la sua tesi principale. La nascita dello spettacolo
della politica non è affatto un “fatto” che si è determinato per condizioni oggettive. Anzi, è il
frutto di una precisa confluenza degli interessi di diversi attori: «i politici e i giornalisti stessi,
le cui carriere dipendono da ciò che raccontano i media».
«La vita politica è iperreale» dice Edelman. E il cittadino rimane in disparte rispetto a questo
mondo, distante e poco interessato, mettendo in pericolo, fa capire Edelman, lo spettacolo
politico. E pertanto provoca la reazione di quell’insieme di attori congiuntamente interessati,
sempre pronti a biasimare la scarsa partecipazione del cittadino alla vita politica.
Ma al di là di questi aspetti, ciò che più conta è che Edelman concentra la sua analisi dello
spettacolo politico sul disvelamento della rete di interessi e potere che ne sono le cause prime.
Il lavoro di Edelman prosegue dunque analizzando una serie di fenomeni politici come la
leadership, la costruzione dell’agenda dei problemi politici, il relazionarsi con avversari e
conflitti che ne costituiscono la base, il rapporto con i media e in generale il ruolo
dell’informazione politica, lo specifico linguaggio del campo della politica.
101
Edelman così si impegna progressivamente a decostruire la realtà “oggettiva” che
governerebbe questi fenomeni, per mettere in luce la rete di azioni e reazioni che l’hanno
prodotta e gli interessi, le volontà, le strategie degli attori politici che ne costituiscono la base.
E le ricerche socio-politiche?
Molte di queste osservazioni hanno in effetti direttamente o indirettamente a che fare anche
con l’utilizzo da parte degli attori politici di strumenti particolari come possono essere le
indagini demoscopiche.
La costruzione dei problemi politici
Nella prospettiva che ho chiamato mainstream, una delle principali funzioni attribuite ai
sondaggi d’opinione e alle ricerche demoscopiche sarebbe quella di conoscere l’agenda delle
priorità dei cittadini, la lista dei problemi che la politica dovrebbe affrontare. L’implicito –
che discende dall’impalcatura epistemologica che regge quel tipo di prospettiva – è
ovviamente che quella lista esiste, è stabile ed è frutto della somma delle opinioni dei
cittadini stessi.
Edelman nella sua trattazione inizia a mostrarci che questi assunti sono quantomeno
semplificanti rispetto alla complessità della realtà. La costruzione dei problemi politici,
infatti, è frutto anche di ben altre dinamiche.
Ad esempio, storicamente possiamo osservare come il giudizio verso alcuni fenomeni sia
quantomeno non assoluto, ma contestualizzato nello spazio e nel tempo: lo stesso tema può
essere o non essere un problema a seconda dell’epoca o della cultura in cui è inserito.
La ragione di ciò sta nel fatto che i problemi sarebbero «rinforzi delle ideologie», cioè
strumenti utilizzati nella battaglia politica per indicare «chi sono i buoni e le persone utili, chi
i pericolosi e gli inadeguati» (Edelman 1992, pag. 17). E come tali diventano «decisivi per
determinare chi esercita l’autorità e chi dovrà subirla».
Può essere utile identificare schematicamente alcuni degli usi politici dei problemi sociali
evidenziati da Edelman.
102
- Alcune situazioni dannose non diventano problemi per la politica e vengono “coperte”
dalla maggiore visibilità dei problemi entrati nella lista. Vi è un interesse, allora, a far
rientrare certi temi nell’agenda politica, perché coprono l’assenza di altri.
- Alcuni problemi poi rimangono nell’agenda politica, perché alcuni gruppi possono essere
interessati alla loro permanenza. Vi è un interesse, allora, a far rientrare certi temi
nell’agenda politica, perché rassicurano le “vittime” e attenuano i conflitti.
- Anche la ricostruzione delle cause dei problemi è elemento di competizione politica.
«Ogni ipotesi di origine riduce la questione a una prospettiva particolare e minimizza e
elimina le altre. Ognuna riflette un’ideologia e razionalizza un corso d’azione. » (Edeman
1992, pag. 22).
- Inoltre «rappresenta anche una base per attribuire autorità a chi pretende di avere qualche
tipo di competenza» (Edeman 1992, pag. 24). Questo significa che vi è un interesse,
allora, a far rientrare certi temi nell’agenda politica, perché legittimano alcuni attori che
possono vantare credenziali o offrire corsi d’azione che possono risolvere i problemi.
«…praticamente la totalità della comunicazione politica direttamente o indirettamente
costruisce come essenziali determinati problemi, contemporaneamente minimizzandone
altri» (Edeman 1992, pag. 24). Insomma i problemi politici verrebbero definiti come tali
per giustificare l’attuazione di corsi d’azione esistenti in precedenza. In questo, l’ipotesi
di Edelman riceve il sostegno della moderna teoria del processo decisionale nelle
organizzazioni, da Simon in poi.
- Senza contare, poi, che in determinati casi la costruzione stessa del problema può
diventare un veicolo affinché si perpetui la condizione negativa stessa, secondo una forma
in qualche modo simile alla ben nota formula della profezia che si auto-adempie.
- Inoltre, uno specifico caso può essere quello di problemi che vengono definiti come tali,
ma le cui conseguenza negative non possono essere esperite direttamente e rimangono
dunque nell’ambito del sospetto o del nucleo di informazioni fornite dalla fonte
(interessata). In questo caso, la capacità di costruire la realtà sociale può diventare ancora
più pregnante, perché più slegata dalla possibilità di scontrarsi con interpretazioni ostili
date da condizioni materiali esperibili.
- Edelman sottolinea anche la funzione del linguaggio. Identificare alcune condizioni
negative come “crisi” o “problemi” ne sottolinea la complessità, la difficoltà di soluzione
e di conseguenza contribuisce ad aumentarne la tollerabilità da parte di chi ne sta subendo
le conseguenze negative. In certi casi, dunque, vi è un interesse a sollevare un problema
103
(in questo caso reale), perché è più facile abituare la vittima a tollerarlo. Problemi e crisi,
dunque, «razionalizzano le politiche particolarmente dannose per i già svantaggiati»
(Edelman 1992, pag. 34).
Cosa ci insegna tutto questo?
Inutile dire che è di grande rilevanza per il problema di fondo di questa ricerca, e cioè
ricostruire gli usi delle ricerche socio-politiche da parte degli attori e il senso da loro
attribuito a queste pratiche.
Ci mette di fronte ad una serie di possibilità finora inesplorate circa le modalità d’uso e le
attribuzioni di senso.
A titolo di esempio, pare evidente che uno dei ruoli attribuito alle ricerche socio-politiche è
relativo proprio alla costruzione della lista dei temi maggiormente sentiti dal cittadino, con la
implicita considerazione che, proprio perché sentiti dal cittadino, debbano per forza di cose
venire presi in considerazione dalla politica.
Ma, come si è visto sopra, non tutti i temi importanti per il cittadino diventano realmente
problemi politici; avviene laddove vi è un interesse della politica in questo senso. Così come
vi è un interesse a farvi rimanere altri temi, non rilevati tramite strumenti di ricerca.
Insomma, ciò che ci dice Edelman è che i processi legati alla formazione dell’agenda delle
issues da parte degli attori politici, nella realtà non sono guidati da considerazioni oggettive,
tantomeno da una neutra conoscenza dell’opinione pubblica. Piuttosto, sono determinati da
serie di pratiche e tattiche di costruzione e legittimazione dell’agenda, orientate da specifici
interessi. Pertanto, l’affermazione che la formazione delle tematiche è guidata dall’opinione
pubblica tramite lo strumento conoscitivo delle indagini demoscopiche è quantomeno
sospetta.
Un’ipotesi in questo senso, da verificare attraverso la ricerca empirica, è che il processo
nasconda alcune pratiche di legittimazione. Interessi precostituiti guidano gli attori politici
nella definizione dell’agenda delle issues. Per farlo necessitano di una adeguata
legittimazione, che copra la parzialità degli interessi. Tale legittimazione è ricercata
nell’opinione pubblica, e la presunta scientificità e oggettività con cui sono considerate le
analisi demoscopiche rappresenta lo strumento in grado di assicurare la correttezza,
l’oggettività e la conseguente inattaccabilità del processo.
104
Da notare che, dice esplicitamente Edelman, questi percorsi possono svolgersi
consapevolmente, ma anche no. L’uso delle ricerche demoscopiche, allora, potrebbe essere
differente: in certi casi strumento consapevole di lotta nella definizione di un’agenda
favorevole; in altri casi, sostegno non ricercato, ma essenziale come rinforzo alle proprie
convinzioni. In entrambi i casi, comunque, l’effetto rimane quello di non descrivere, ma di
contribuire a costruire una realtà.
Per i politici rimane comunque essenziale l’attenzione del pubblico sull’agenda politica. Se il
pubblico non è attento e non percepisce una certa condizione come un problema, coloro che
ne sono interessati non possono concretizzare il loro interesse.
Per questa ragione, un’altra ipotesi da verificare sull’uso dei sondaggi è come questo venga
finalizzato a creare un simulacro del pubblico, per legittimare da un lato la definizione
dell’agenda, ma dall’altro per condizionare il pubblico stesso attraverso una sorta di effetto
bandwagon.
Ancora, è la profezia che si auto-adempie il meccanismo alla base del processo. Edelman,
peraltro, sottolinea ancora una volta come l’indifferenza sia «un’arma potente per quasi tutti i
popoli del mondo, che peraltro gli studi accademici tendono a sottovalutare» (Edelman 1992,
pag. 35).
Edelman conclude con un monito preciso. «La costruzione-del-problema, quindi, non è solo
una forma di descrizione ma anche un modo di conoscere e un modo di agire strategicamente
… La sfida, per chi agisce e per chi cerca di capire, sta nel riconoscere lo spettro di significati
e di strategie implicite in ogni item che emerge da questa irradiazione di significanti. »
(Edelman 1992, pag. 38).
Inoltre, altro punto interessante evidenziato da Edelman, riguarda l’uso dei sondaggi fatto dai
media. Le news politiche non sono un vettore neutro, ma contribuiscono a creare la realtà
politica perché contribuiscono a incrementare la visibilità e la drammaticità di determinati
temi, facendoli così entrare o uscire dall’agenda politica.
Ma anche i media utilizzano sondaggi, e dunque anche questo potrebbe essere (in termini di
ipotesi) un tipo di utilizzo in grado di costruire la realtà sociale della politica.
D’altro canto, la nostra analisi verte sugli attori politici e dunque questo tema non potrà
essere preso in considerazione.
105
La costruzione e l’uso della leadership
Un altro fenomeno del campo della politica al quale Edelman dedica notevole attenzione è la
costruzione e l’uso della leadership. Anche in questo caso, la sua visione è volta a decostruire
l’idea comune che si ha della leadership, delle sue funzioni e dei meccanismi che ne guidano i
processi, cercando invece di far emergere quelle pratiche, strategie o fenomeni non
consapevoli che non si mostrano come auto-evidenti, ma che hanno parte importante nel dare
forma al fenomeno nel suo complesso.
Lo stesso concetto di leader, secondo Edelman, è gravido di luoghi comuni costruiti
socialmente. Sono infatti la retorica politica, il sistema educativo e quello mediale che ci
insegnano a credere che i leader “esistano”, cioè che esistano figure con qualità superiori alla
media e dunque in grado di esercitare un certo tipo di azione (positiva, tendenzialmente) in un
alcuni contesti del campo della politica.
L’esistenza dei leader rappresenta inoltre una soluzione soddisfacente al problema della
complessità della politica, all’ambiguità dei suoi significati, alle difficoltà di interpretazione.
«Allevia i sensi di colpa e le ansie individuali trasferendo su un altro la responsabilità.»
(Edelman 1992, pag. 41).
Le pratiche, poi, per costruire concretamente leader che vengano percepiti come capaci e
necessari sono numerose.
Una importanza particolare assumono ad esempio le ricostruzioni relative ai giudizi di
successo e insuccesso delle azioni del leader, impressi volutamente dal leader stesso o dai
suoi avversari.
In alcuni casi, poi, contano particolarmente le capacità di far percepire come meriti (o colpe)
del leader risultati dettati da altri fattori.
Edelman mostra poi come una parte importante nella costruzione delle leadership è giocata
dalle necessità di drammatizzazione tipiche del campo dei media, che portano a enfatizzare le
caratteristiche personali e dunque a conferire maggior risalto all’importanza della figura del
leader rispetto alle dinamiche che invece stanno dietro la definizione del campo della politica.
È un concetto questo per molti versi simile alle descrizioni che già si trovano nella letteratura
sulla comunicazione politica, particolarmente di quelle che portano alla definizione dei
concetti di personalizzazione e leaderizzazione (Mazzoleni…).
106
Un’altra pratica è quella di identificare in alcuni leader delle alternative non preferibili, così
da accreditare maggiormente la propria linea. Un fenomeno che si accentua quando le
differenze fra le leadership sono «meno cruciali di quanto i gruppi interessati vorrebbero».
Altre volte, una differenza reale su presupposti importanti può invece indurre a
comportamenti almeno apparentemente simili.
D’altro canto, in un passaggio importante Edelman nota come il connotato principale del
leader è l’innovazione. Ma, la base della leadership deriva da alcuni compromessi con il
mantenimento dello status quo. Questa contraddizione porta ancora una volta a premiare le
capacità drammaturgiche di significare l’innovazione con la retorica e la simbologia, mentre
al contempo con le azioni si mantiene lo status quo.
Infine, come risulta abbastanza evidente, la personalizzazione di alcune issues in alcuni
leader porta con sé l’inevitabile (talvolta cercato) effetto di oscurare le altre issues che
rimangono fuori dal gioco.
La costruzione del nemico politico
Le questioni affrontate sul tema della leadership possono essere in buona parte riprese per
parlare della costruzione e degli usi anche del “nemico politico”. Quest’ultimo, infatti, lungi
dall’essere solo un aspetto negativo, per il suo carattere di minaccia è in grado di conferire
efficacia all’azione politica attraverso la polarizzazione del dibattito, da cui possono
conseguire una maggiore mobilitazione dei sostenitori oppure una più stretta alleanza fra
attori politici. D’altro canto, la costruzione di conflitti forti è certo favorita dal sistema
mediatico dello “spettacolo politico”, in quanto capace di suscitare passioni, paure, speranze
e, in ultima analisi, attenzione.
È un tema non dissimile da varie teorie del conflitto che si possono collocare lungo la linea
che va da Simmel a Dahrendorf fino a Randall Collins (Collins 1992).
Edelman mostra come la definizione del nemico sia comunque un processo ambivalente e
discontinuo, che proprio perché si presta ad un uso strumentale, è lontano dalla descrizione di
una realtà di fatto, così lontano da prestarsi a repentini e profondi cambiamenti di definizioni:
nemici che facilmente diventano alleati, azioni di nemici che vengono successivamente messe
in atto dal soggetto e così via, a seconda dei mutamenti delle condizioni politiche e delle
specifiche necessità del momento.
107
Ovviamente, anche il linguaggio diventa un potente strumento per evocare il nemico,
distinguerlo dal soggetto e segnalare l’intensità del pericolo da esso rappresentato.
La costruzione del nemico, spesso, avviene nel passato, attraverso la ricostruzione storica. E
il fine è quello di accreditare il soggetto e i suoi corsi d’azione nel presente. Nel costruire i
nemici nella storia, «la gente definisce anche se stessa e la propria posizione» (Edelman
1992, pag. 71).
Nel complesso, anche nel caso della costruzione del nemico, ciò che emerge è una posizione
epistemologica: la diversità non è nei fatti, ma negli occhi e nelle interpretazioni degli
osservatori, che si muovono anch’essi in un contesto di relazioni mosse da interessi.
«Addebitare le sofferenze e le responsabilità della vita quotidiana a gruppi determinati, in
virtù della loro vulnerabilità, è un’operazione gratificante in termini emotivi e popolare in
termini politici: la costruzione-del-nemico è dunque alla base non solo della dominazione,
dell’oppressione e della guerra, ma anche della formazione delle linee politiche, delle elezioni
e delle altre attività in apparenza razionali e addirittura liberali dello Stato contemporaneo.»
(Edelman 1992, pag. 83).
La costruzione dello spettacolo politico
Infine Edelman si concentra sullo “spettacolo politico” in quanto tale, sui processi che lo
tengono in piedi. Individua subito come vi sia una coalizione di interessi fra politici, operatori
dei media e gruppi di interessi a favorirne la presenza. I costituenti fondamentali, poi, sono la
drammatizzazione, la personalizzazione e la semplificazione.
Ma la caratteristica principale, coerentemente con quanto sostenuto finora, è l’intrinseca
ambiguità dei significati e delle interpretazioni dei fatti politici, che è il mezzo che consente
di costruire notizie politiche apparentemente (e arbitrariamente) basate su contrapposizioni
forti e dunque “drammaturgicamente” efficaci.
L’analisi di Edelman su questo punto prosegue prendendo in esame vari aspetti del
funzionamento dello spettacolo politico: dall’arbitrarietà della selezioni delle notizie alla
intrinseca capacità di tenere alto il livello delle contrapposizioni; dai meccanismi che
sottostanno all’interpretazione soggettiva dei significati veicolati alle tecniche per conferire
appeal alle notizie politiche.
108
Un punto interessante riguardante tutti questi aspetti è relativo al ruolo degli attori politici nel
determinare la selezione delle notizie e anche la loro iscrizione in frames in grado di
orientarne (per quanto possibile l’interpretazione). Sia la selezione che l’interpretazione,
infatti, risentono degli interessi degli attori politici. Spesso funzionano da profezie che si
autoadempiono e l’interpretazione suggerita da un qualche attore politico e ripresa dai media
diventa poi reale appena si estendono le conseguenze. Questo, a sua volta, ha l’effetto di
riconfermare quella stessa interpretazione e di sostenerla così anche agli occhi stessi
dell’attore politico che l’ha generata (non per forza intenzionalmente).
Questo genere di processi ha probabilmente ai giorni nostri un’arma in più nei sondaggi e, in
generale, nelle ricerche socio-politiche e demoscopiche. La loro pretesa di oggettività, infatti,
viene prontamente accettata dai media e dagli attori politici, in quanto conviene a entrambi
possedere uno strumento che superi l’ambiguità intrinseca dei significati associati a un certo
fenomeno. In questo modo diventa un potente rafforzativo dell’azione politica e del racconto
mediatico, che spinge alla creazione di una realtà quantomeno più solida di quella precedente.
È un uso che riprende concetti già evidenziati sopra, anche se, questa volta, con l’accento
spostato sul sistema dei media. Si tratta in ogni caso di un’utile ipotesi, da testare
empiricamente.
Anche questo tema ha evidenti intrecci con l’utilizzo delle ricerche demoscopiche. Queste
ultime, infatti, hanno spesso al centro della loro attenzione i leader, il gradimento nutrito
verso di loro, il livello di fiducia di cui godono. Ma spesso indagano anche le caratteristiche
percepite della loro personalità. Rappresentano inoltre strumenti efficaci che vengono
utilizzati dai leader stessi per accreditare la loro vicinanza agli interessi della cittadinanza o,
ancora, per rivendicare la necessità di una loro particolare competenza relativamente ad un
qualche fenomeno sentito come pressante dall’opinione pubblica. Infine, è assai probabile che
i sondaggi d’opinione entrino anche più direttamente nel tema della costruzione della
leadership, in particolare quando vengono utilizzati per testare diverse candidature e
selezionare così le figure di vertice. Si tratta, ovviamente, di varie modalità di utilizzo che
andranno verificate con l’analisi dei dati empirici, ma che mostrano da subito la stretta
relazione fra il tema affrontato da Edelman della costruzione della leadership e quello oggetto
di questo lavoro dell’utilizzo delle indagini demoscopiche nella politica.
109
5.5 Conclusioni
Le riflessioni proposte da Edelman non spingono certo ai limiti estremi il cambio di
prospettiva epistemologica. Gli autori che abbiamo citato nei capitoli precedenti possono
aggiungere senz’altro molto alla capacità di Edelman di leggere gli indizi circa l’esistenza di
fenomeni, magari più complessi, di costruzione sociale dei significati.
Edelman, infatti, si concentra nel mostrare gli interessi che guidano la costruzione dei
fenomeni politici. Ma questa sua visione, proprio perché orientata dagli interessi, rischia di
essere parziale e limitata alla pur interessantissima sfera di quei meccanismi di costruzione in
cui vi è la consapevolezza degli attori, sia che siano da essi voluti programmaticamente, sia
che essi si limitino ad accettarne le conseguenze (proprio perché favorevoli ai loro interessi)
senza per questo esserne stati i motori.
In ogni caso, una visione costruttivista basata sugli interessi lascia fuori dal campo di analisi
tutti quei fenomeni di costruzione che non esistono perché in grado di generare vantaggi più o
meno voluti, ma che sono generati dalle interazioni degli attori o dai contesti di queste
interazioni, senza per questo incontrare per forza gli interessi di qualcuno. E non è detto che,
per questa loro mancanza, siano meno importanti. Anzi, proprio per la loro neutralità rispetto
alla utilità di attori o organizzazioni rischiano di passare inosservati, di non entrare nella sfera
della consapevolezza. E perciò stesso di generare effetti di costruzione della realtà sociale
ancora più pregnanti e diffusi.
Ma ciò non toglie minimamente valore al ragionamento del politologo statunitense, in quanto
egli, per primo, ha aperto la strada a questo genere di rivoluzione epistemologica in
politologia. E soprattutto, lo ha fatto applicando concretamente questa svolta ai diversi
fenomeni del campo della politica, inserendoli in un ridisegno complessivo della disciplina,
utilissimo soprattutto a mostrare nuove possibilità di approfondimento e di analisi, anche
empirica.
Per questa ragione ho inteso dedicargli un ampio spazio.
Nel complesso, la ricognizione svolta in questo capitolo è servita per mostrare come vi sia
una linea di continuità nel pensiero della modernità, volta a problematizzare il tema della
conoscenza, dando origine a delle filosofie epistemologiche nuove. Questi nuovi modi di
intendere il reale e le nostre possibilità di conoscerlo sono entrati nelle varie discipline delle
110
scienze umane, anche se con forza differente a secondo del diverso livello di interesse per i
problemi della ricerca empirica. Per questa ragione, la sociologia ha senz’altro investito più
tempo e risorse nella definizione di paradigmi metodologici che facessero proprie queste
nuove acquisizioni. Più lentezza si è avuta invece nella politologia, nella quale però spicca il
caso isolato di Murray Edelman.
Questa ricognizione complessiva ci ha permesso di inserire le considerazioni svolte a fine del
capitolo precedente – circa un modo nuovo d’intendere il problema delle ricerche
demoscopiche in politica – all’interno di un più ampio quadro intellettuale, fornendo così i
necessari presupposti teorici all’intera costruzione.
111
PARTE SECONDA
METODOLOGIA
INTRODUZIONE
Nel percorso di una ricerca, le scelte relative alla metodologia rivestono un’importanza
cruciale. Dal metodo adottato dipendono strettamente le possibilità di ottenere dei risultati di
ricerca.
Senza un’adeguata riflessione metodologica non è possibile stabilire il valore conoscitivo dei
dati e dei risultati ottenuti, visto che questi ultimi sono strettamente legati ai metodi scelti per
ottenerli.
Ecco la ragione per cui il senso profondo delle riflessioni e delle decisioni da prendere in
ordine alla metodologia della ricerca deve essere ispirato alla massima trasparenza nel
riportare il modo in cui si è arrivati ai risultati.
È esattamente ciò che si è inteso fare in questa parte del testo.
In questo contributo sono riportate tutte le scelte di fondo, man mano che si sono incontrate,
in modo da avere un quadro completo.
Ma occorre tenere presente che il legame stretto fra dati raccolti e metodi utilizzati deve
essere interpretato come un dialogo continuo.
Per questa ragione, anche in altre parti del testo – e segnatamente nelle parti di analisi dei dati
raccolti – sono riportate altre annotazioni metodologiche, relative alle questioni di volta in
volta adottate, utili soprattutto a rendere trasparenti alcuni passaggi e le conseguenze sullo
statuto stesso dei risultati.
In questo modo, si è ritenuto fosse possibile accrescere ulteriormente la corretta leggibilità
dei risultati, che deve essere imperniata anche sulla trasparenza delle scelte compiute di volta
in volta per ottenerli.
112
Per metodo4 si intendono tutte quelle decisioni di carattere discrezionale e non meramente
tecnico (Tuzzi 2003, pag. 19; Bernardi, Bertin 2005, pagg. 20-21, Corbetta 2006), in cui la
scelta fra opzioni differenti mette in campo pratiche che si differenziano anche per i risvolti
diretti e non trascurabili che possono avere sulle caratteristiche dei dati raccolti e sull’analisi
degli stessi, in ordine alle varie questioni della possibilità di generalizzazione dei dati,
dell’attendibilità, del ruolo giocato dalla riflessività e molte altre.
La definizione dei metodi non va infatti intesa come una scelta puramente basata su
condizioni oggettive, come l’applicazione di tecniche standardizzate: non esiste alcuna forma
di determinismo metodologico (Bernardi 2005, pag. 13). Anzi, come ricordano giustamente
Bernardi e Bertin (2005, pag. 18), i mezzi, il tragitto conoscitivo, le mete da conseguire
«devono essere comunque frutto di un sistema di scelte determinato dalle condizioni
oggettive e soggettive in cui si svolge l’impresa conoscitiva».
E che producono conseguenze dirette sullo statuto dei dati raccolti e dei risultati che da essi si
possono ottenere.
Anche nel corso di questa ricerca, molte soluzioni metodologiche adottate sono il frutto
dell’applicazione di metodi ampiamente legittimati all’interno delle discipline sociologiche e
delle scienze sociali, ma adattati alle specificità oggettive e soggettive incontrate nel corso
della ricerca.
Il metodo inoltre si configura come una procedura in itinere, cosa che rende doppiamente
importante la riflessione su questi passaggi.
In questa parte del testo sono riportate e descritte le specifiche opzioni incontrate in questa
ricerca e le scelte metodologiche che di conseguenza sono state prese per far fronte ad esse.
Si è cercato di ripercorrere tutte le principali decisioni e pratiche adottate per la strutturazione
del disegno della ricerca, per le scelte metodologiche insite in esso, per la raccolta e l’analisi
dei dati.
Oltre a questo, sono riportate alcune annotazioni sull’andamento delle ricerca, utili per
comprendere l’elemento di irriducibile riflessività determinato dal ruolo del ricercatore e, in
generale, del processo stesso di ricerca.
4 Per una riflessione completa e attenta sul significato di “metodo” (e, in generale, sulle terminologie e iconcetti ad esse sottesi, utilizzati nella storia della sociologia per definire le questioni metodologiche), si vedaMarradi (1996).
113
Come detto, le note riportate sono da integrare con le altre (che da queste discendono) che si
è preferito accompagnare ai risultati della ricerca, in considerazione del dialogo continuo fra
metodo e dati che caratterizza il lavoro di ricerca.
114
CAP. 1
LA PROGETTAZIONE DELLA RICERCA
1.1 Il disegno della ricerca
Il disegno dell’indagine rappresenta «la sintesi operativa di quell’insieme di scelte di approcci
e tecniche che saranno utilizzati per il raggiungimento degli obiettivi conoscitivi della ricerca,
perseguiti nello svolgimento dei suoi diversi momenti» (Bernardi, Bertin, Campostrini, Tuzzi
2005, pag. 79).
Il disegno scelto ha tenuto conto di una serie di fattori derivanti dalle specifiche condizioni in
cui si presentava il campo della ricerca.
Il problema conoscitivo e la definizione degli obiettivi
Fin dalla fase di individuazione della domanda di ricerca, confermata dalla ricognizione della
letteratura sull’argomento e dello stato della ricerca, è parso evidente come le conoscenze
presenti fossero limitate e deficitarie sotto alcuni punti di vista.
Innanzitutto, le ricerche sull’uso dei sondaggi e delle altre tecniche d’indagine utilizzate dalla
politica non erano quantitativamente consistenti e rappresentavano un campo di ricerca
limitato e tendenzialmente separato dal resto della ricerca sugli attori politici o in generale
sulla sociologia politica.
Inoltre i contributi presenti risultavano avere caratteristiche piuttosto omogenee.
In primo luogo vedevano l’intervento di un numero ristretto di ricercatori e interessati, quasi
ad individuare un settore disciplinare separato, elitario, poco permeabile, dai confini
oggettivamente ben delineati.
L’impressione di scarsa permeabilità era confermata dal tipo di ricerche che si trovavano in
questo campo.
115
Gli interessi di ricerca infatti propendevano nettamente per tematiche di ordine tecnico o, al
massimo, metodologico. Le connessioni con il resto del dibattito presente nella ricerca sugli
attori politici erano alquanto limitate e, al massimo, relegate al tema della
professionalizzazione della politica.
Ciò che inoltre colpiva era l’assenza di ogni descrizione di pratiche d’utilizzo delle ricerche
da parte degli attori politici.
Le considerazioni, oltre a quelle di ordine tecnico, arrivavano al massimo alle constatazioni
sul più o meno elevato livello di professionalizzazione. Ma per quanto riguarda le pratiche
d’uso, le descrizioni empiriche latitavano.
Chiaramente correlata a questa mancanza era anche la bassa attenzione posta ai processi
decisionali, in un contesto che, chiaramente, interagiva molto poco con gli studi sulle
organizzazioni, che più di altri si erano occupati dei processi decisionali e delle pratiche
organizzative.
Gli unici argomenti relativi all’uso delle ricerche venivano dai numerosi contributi scritti
direttamente da addetti ai lavori o professionisti del settore.
Nella letteratura, infatti, avevano grande prevalenza manuali, indicazioni, pamphlet in cui la
descrizione dell’utilizzo delle ricerche era svolta in chiave normativa, senza alcuna ricerca
empirica rivolta alla comprensione delle pratiche d’uso realmente adottate dagli attori e dai
significati ad esse attribuiti.
Una discussione più ampia di queste problematiche è riportata nei capitoli precedenti.
I risultati ottenuti da questa prima ricognizione della letteratura hanno influenzato in misura
significativa la definizione dell’oggetto dell’indagine, dei problemi conoscitivi che si
volevano risolvere e, di conseguenza, la strutturazione del disegno della ricerca.
L’obiettivo conoscitivo è stato individuato nella descrizione delle pratiche d’uso delle
ricerche da parte degli attori politici, con particolare riferimento alla comprensione del senso
attribuito a queste pratiche e alla loro influenza nel processo decisionale e nelle attività di
comunicazione.
116
Tale obiettivo presuppone esplicitamente l’individuazione di un ponte culturale e concettuale
fra campi disciplinari differenti, come gli studi organizzativi, la metodologica della ricerca
demoscopica, la sociologia della scienza, la sociologia e la scienza politica.
Coerentemente, il disegno della ricerca ha tenuto conto di questa impostazione iniziale, sia
nel definire l’approccio sia nell’individuare metodi e tecniche più appropriati.
La ricerca esistente sulle indagini demoscopiche nella politica si presentava con obiettivi e
metodologie carenti di una prospettiva di carattere sociologico-interpretativa.
Pertanto si è ritenuto necessario l’utilizzo di una metodologia orientata verso un approccio
qualitativo, con rilevazioni di opinioni e rappresentazioni da parte dei soggetti e una modalità
di raccolta dei dati che fosse approfondita e poco strutturata, capace di interagire
maggiormente con la cultura e il senso comune espressi dai soggetti, secondo la logica
dell’osservazione partecipante e dei metodi etnografici.
1.2 La scelta di un approccio di ricerca qualitativo
La prima scelta di fondo compiuta nell’elaborazione della metodologia è stata quella di
preferire i metodi qualitativi a quelli di tipo quantitativo.
Nella sociologia contemporanea sono numerose le discussioni sulla distinzione fra i due
approcci di ricerca5, anche con posizioni recenti e in continua diffusione che sostengono, per
varie ragioni, come tale distinzione possa essere da un punto di vista teorico-concettuale
eccessivamente marcata.
La dicotomia qualitativo/quantitativo è infatti ancora un problema aperto e passibile di
ulteriori miglioramenti nella definizione dei termini e dei problemi (Collins 1992, pag 619).
Si sta affermando inoltre una prospettiva nuova, che punta a evidenziare le contiguità fra i
due approcci e le possibilità offerte da una loro co-presenza (Silverman 2002; Cipolla, De
Lillo 1997; Melucci 1998).
Nonostante questo, nella pratica è ancora possibile trovare questa distinzione in misura
piuttosto netta, tanto da descrivere due campi con differenze assai rilevanti, in ordine sia alle
possibilità offerte dalla ricerca sia ai vincoli.
117
La scelta dei metodi, e il posizionamento nel campo della ricerca qualitativa piuttosto che di
quella quantitativa, vanno dunque interpretate non tanto in chiave tassonomica, ma piuttosto
in ordine alle conseguenze che queste scelte producono sulla ricerca, sulle possibilità
conoscitive, sui dati raccolti.
Ciò che appare senz’altro da evitare è invece definire l’opposizione fra i due approcci sulla
base di giudizi di valore, relativi in particolare al diverso grado di credibilità scientifica o alla
qualità dei dati raccolti.
È sempre più evidente infatti come i due approcci alla ricerca sociologica siano entrambi
ugualmente legittimi (Corbetta 2006; Bernardi 2005), in quanto rispondono a criteri e
parametri differenti e difficilmente paragonabili.
La scelta fra i due non può basarsi, allora, sulla reputazione, bensì solo sugli specifici
obiettivi che si intende perseguire, che possono portare alla scelta di un approccio totalmente
quantitativo, totalmente qualitativo o a varie forme di integrazione fra i due approcci.
E, ovviamente, le motivazioni di questa scelta e un’accurata riflessione sulle conseguenze
devono diventare parte integrante ed essenziale dei criteri di legittimità della scelta stessa.
Fin dall’inizio si è scelto di adottare una prospettiva di ricerca prevalentemente qualitativa,
che si è ritenuta più in grado di cogliere gli obiettivi e le specificità della ricerca in oggetto e
del campo in cui opera.
Usando la terminologia di Marradi (1996, pag. 168), si è ritenuto più utile agli obiettivi di
questa ricerca l’utilizzo di tecniche provenienti dall’insieme non-standard, accentando le
conseguenze del caso non come un limite, ma, viste le specifiche necessità, come
un’opportunità.
In primo luogo, le ricerche qualitative sono maggiormente in linea con le esigenze relative
all’approccio e alle finalità di fondo della ricerca, così come emerse dall’individuazione del
bisogno conoscitivo.
Abbiamo già illustrato come il bisogno conoscitivo che sta alla base della ricerca sia nato in
opposizione alle carenze presenti nella letteratura.
5 Sul dibattito italiano, si può fare riferimento al volume curato da Cipolla e De Lillo (1996).
118
In particolare, ciò che si vuole ottenere è una migliore e più dettagliata descrizione delle varie
possibilità circa le pratiche d’uso delle ricerche, con un’attenzione particolare alle relazioni
con la vita organizzativa nei suoi principali aspetti, fra cui il processo decisionale e le attività
di comunicazione.
Oltre a questo, si vuole provare a comprendere i significati che vengono prodotti durante
l’elaborazione di queste pratiche, il senso attribuito dagli attori ai loro comportamenti, la
relazione con il senso comune e la stessa cultura organizzativa.
Si tratta di obiettivi che richiedono un elevato livello di approfondimento nella raccolta dei
dati, oltre che la capacità di restituire la più ampia e libera varietà di comportamenti, e di non
fermarsi solo alle descrizioni esteriori, al dato per scontato, alle generalizzazioni
standardizzate, alle tipizzazioni, ma di individuare per quanto possibile anche i significati
soggettivi e intersoggettivi che vengono prodotti e che si insediano nel profondo del senso
comune dei singoli e della cultura delle organizzazioni
Questi obiettivi richiedono di adottare prospettive di ricerca coerenti.
Abbiamo ritenuto che la ricerca qualitativa potesse meglio restituire risultati approfonditi, pur
perdendo in possibilità di generalizzazione.
In particolare, si è ritenuto che la ricerca qualitativa sia più in sintonia con l’approccio
epistemologico e interpretativo che possiamo far risalire Max Weber e alle sue riflessioni
metodologiche sulla comprensione del senso attribuito dagli attori alle loro azioni. In questo
modo si intende proporre un approccio comprendente e non esplicativo(Bernardi, Bertin
2005, pag. 19; Bernardi, Campostrini, Neresini 2005, pag. 272), in linea con le necessità di
una descrizione approfondita delle singole pratiche e delle attribuzioni di senso, secondo la
formula della thick description coniata da Geertz (1987).
Ad esse abbiamo affiancato un’impostazione epistemologica relativamente poco applicata al
campo della politica, di natura sostanzialmente fenomenologico-costruttivista, applicata non
solo alla conoscenza, ma anche alle specifiche dimensioni della scienza e della politica,
secondo quanto già approfondito nella prima parte.
Oltre a questo, la scelta della metodologia qualitativa, è coerente con lo sviluppo “aperto” che
fin dall’inizio di è voluto al disegno della ricerca.
119
Il disegno di una ricerca qualitativa è più aperto, de-strutturato, «idoneo a captare
l’imprevisto» (Corbetta 2003, pag. 60).
La metodologia qualitativa racchiude all’interno degli stessi confini della sua epistemologia
la possibilità di modellare il disegno nel corso della rilevazione, che è visto non come un
ripiego, ma come una ricchezza, frutto della piena e continua applicazione del principio della
riflessività.
Nella scelta dell’approccio metodologico, infine, si è ovviamente tenuto conto delle
possibilità e dei limiti connaturati alla ricerca qualitativa.
Non è il caso di riprodurre in questa sede argomenti a favore della legittimazione dei metodi
qualitativi, ormai ampiamente legittimati nelle scienze sociali6.
Tratteremo solo brevemente di alcune di esse, per mostrare in che modo sono state affrontate
nel corso della ricerca.
Generalizzazione
Un primo punto da tenere presente è quello relativo alle possibilità di generalizzazione.
La scelta di una metodologia qualitativa, che non si basa su tecniche o procedure di
campionamento di natura statistica, porta inevitabilmente con sé una riflessione sulla
generalizzabilità dei risultati ottenuti dall’analisi.
Vi sono, in effetti, notevoli questioni epistemologiche circa le possibilità di generalizzazione
anche dei risultati della ricerca quantitativa. A riguardo basti pensare alle discussioni storico-
filosofiche sull’empirismo e l’induttivismo e tutto ciò che ne consegue, che non possono
certo essere adeguatamente considerate in questa sede.
Ma senza appellarsi alla condivisione della questione da parte anche della ricerca
quantitativa, è evidente che il problema delle possibilità di generalizzazione è stato posto
innanzitutto per la ricerca qualitativa ed è dunque doveroso, in sede di definizione della
metodologia, dare conto anche di questo aspetto e di come è stato affrontato.
La ricerca qualitativa, a rigore, non offre possibilità di generalizzazione.
6 Per un’esauriente disamina di questo argomento, si rimanda a Gobo (2002).
120
D’altro canto, come sottolineato da Silverman (2002, pag. 159), la questione è quantomeno
discutibile.
Innanzitutto, occorre intendersi sul concetto di generalizzazione.
La pretesa che i risultati individuati sulla base di un campionamento non statistico si possano
estendere automaticamente all’intero universo di riferimento è ovviamente una pretesa senza
fondamenti.
Anche se occorre considerare che le possibilità di generalizzazione rappresentano un serio
problema anche per la stessa statistica, che non può che ragionare in ordine di probabilità e
non di certezza.
In ogni caso, è evidente che vi sia fra le ambizioni e gli obiettivi dei ricercatori, anche
qualitativi, quello di poter estendere i propri risultati oltre lo stretto numero di casi analizzati.
Ed in effetti, è ragionevole pensare che sia possibile, senza pretese di generalizzabilità
assoluta, utilizzare i risultati per estenderli a categorie più ampie rispetto ai casi analizzati,
almeno in forma d’ipotesi e traccia di lavoro o di contributi teorici.
In questo senso, secondo alcuni autori, sarebbe auspicabile l’utilizzo di una terminologia
differente, non di origine statistica, per la ricerca qualitativa, passando ad esempio dal
concetto di generalizzabilità a quello di estrapolazione (Silverman 2002, pag 166).
Nello specifico caso di questa ricerca, già è stato chiarito come l’obiettivo conoscitivo non
fosse quello di individuare leggi, proprietà, fenomeni automaticamente generalizzabili,
quanto piuttosto di dare priorità alla comprensione delle pratiche, dei significati che si
producono, del senso attribuito dagli attori.
Ciò non toglie che il problema circa lo statuto e il valore dei risultati che si sono ottenuti
rimane attuale.
Si tratta di un problema, certo, da affrontare sulla base dei risultati del dibattito in corso nella
comunità scientifica sulla metodologia e sullo statuto dei dati della ricerca, di cui abbiamo
brevissimamente dato conto.
Ma, nell’affrontare la questione, ci si è anche basati sulle specificità del campo di ricerca, che
possono offrire argomenti validi a favore della possibilità di generalizzazione, purché tenendo
conto di alcune condizioni contingenti.
121
Un primo esempio riguarda l’universo di riferimento dei soggetti sui quali la ricerca verte, sia
nel campo dei ricercatori professionisti che dei decisori politici.
Fin dalla definizione del disegno, infatti, si è ritenuto che l’ottimo rapporto fra la numerosità
del campione d’intervistati e l’universo di riferimento, quest’ultimo in entrambi i casi
(ricercatori e decisori) molto ristretto, possa permettere, a determinate condizioni di cui
tenere conto nel definire la strategia di campionamento, una copertura molto elevata.
Il che rende evidentemente più solidi i risultati ottenuti, visto che i casi su cui la ricerca è
basata non rappresentano peculiarità isolate e dunque a rischio di anedottismo (Silverman
2002), ma un insieme ampio, capace di coprire e di rappresentare (pur senza procedure
statistiche) ampiamente l’intero universo di riferimento.
A questo si sono aggiunti, ovviamente, alcuni rigidi criteri nel campionamento, dei quali si
darà conto più avanti, capaci di preservare la rappresentatività (a rigore, non statistica) del
campione stesso.
Oltre a questo, occorre sottolineare che, nel corso dell’analisi, più volte si sono segnalati quei
casi in cui i risultati individuati potevano rappresentare casi particolari, unici, isolati.
La loro presenza non deve per questo essere svalutata, ma è importante, per una corretta
comprensione, distinguere i vari tipi di risultati ottenuti sulla base anche della loro diffusione,
soprattutto per quei casi che possono rappresentare anomalie più che veri e propri “tipi” di
una gamma.
Di questi casi si è dato conto direttamente nelle parti dedicate all’analisi, laddove emergevano
queste peculiarità.
Rimane inoltre il fatto che, generalmente, si è ritenuta la metodologia di ricerca qualitativa
adottata compatibile con la possibilità di individuare delle tipologie all’interno dei risultati
raggiunti.
Senza alcuna ambizione di individuarne anche le distribuzioni, questi tipi-ideali possono a
tutti gli effetti rappresentare degli aiuti alla comprensione della dimensione sociale di un
fenomeno.
Non sempre è stato possibile ottenere queste tipologie, ma, laddove ciò si è verificato, è stato
ritenuto perfettamente compatibile con la metodologia qualitativa adottata (Corbetta 2006,
pag. 69).
122
Accesso diretto ai dati
Una questione collegata a quella della generalizzabilità è quella dell’accesso ai dati.
Il problema è definibile in questo modo. La ricerca è in grado di arrivare ad un metodo di
rilevazione dei dati capace di attingere alla realtà oppure rimane limitata alla registrazione
delle rappresentazioni di questa realtà?
Innanzitutto occorre evidenziare, in maniera simile a quanto fatto per le possibilità di
generalizzazione, come non si tratti di una questione che riguarda solamente la ricerca
qualitativa.
In realtà il problema dell’accesso ai dati riguarda ugualmente la ricerca quantitativa.
Piuttosto, è intuitivo pensare che il criterio di distinzione possa essere determinato dai singoli
metodi di rilevazione, alcuni più adatti a cogliere la realtà e altri invece costretti a lavorare
solo su rappresentazioni.
È questo, senz’altro, il senso della distinzione formale fra dati osservati e dati riportati (Strati
A. 2004).
Una distinzione che richiama, appunto, i diversi metodi di rilevazione. L’etnografia e tutte le
procedure basate sull’osservazione partecipante sarebbero più facilitate nel lavorare con dati
osservati, mentre invece le interviste e gli altri metodi che non si nutrono di osservazione
partecipante sarebbero limitati alla rilevazione di dati riportati e dunque di rappresentazioni.
In realtà anche questa distinzione sembra discutibile. La stessa etnografia, infatti, ha a che
fare con modalità di osservazione in cui la dimensione sociale gioca un peso determinante
(Marzano 2006). Non si può dunque affermare con certezza che i dati raccolti con
l’osservazione siano meno afflitti da problemi di complessità dati da pratiche di costruzione
sociale, che li farebbero invero assomigliare a delle rappresentazioni. Magari di un livello
differente da quelle raccolte con le interviste, ma pur sempre caratterizzate da una mediazione
che rende non diretto l’accesso al dato stesso.
123
A supporto di questa tesi, si possono richiamare numerose considerazioni sulla stessa
ontologia dei fatti sociali, uno di quei dilemmi ancora aperti che caratterizzano la riflessione
metodologica in sociologia (Sparti 2002, pag.247).
Queste riflessioni aiutano a chiarire alcuni punti.
Il primo, che il problema dell’accesso ai dati non può essere risolto con una semplice
dicotomia fra dati osservati e dati riportati.
E il secondo, che la risoluzione del dilemma non dipende strettamente nemmeno dal metodo
di rilevazione adottato.
Il problema va dunque affrontato a monte, prima ancora della definizione dei metodi di
rilevazione.
Secondo Silverman (2002, pag. 74), questo è uno dei principali dilemmi metodologici da
affrontare nel corse di una ricerca e il solo modo di risolverlo è quello di motivare le proprie
scelte.
Coerentemente con gli assunti metodologici ma anche epistemologici adottati, durante tutto il
corso della ricerca, dall’elaborazione del disegno fino alle analisi dei risultati, abbiamo
considerato i dati su cui si è lavorato come rappresentazioni della realtà, sia di livello
soggettivo che intersoggettivo, secondo l’idea, anzitutto epistemologica, che lo scienziato
sociale lavora, appunto, su rappresentazioni e non sulla realtà immediata (Cicerchia, pag. 16).
Questa posizione è inoltre verificata dall’applicazione allo specifico ambito di questa ricerca.
L’idea che ha guidato questa ricerca, infatti, è che il campo della politica sia pervaso da
fenomeni che si muovono al di sotto dei livelli di visibilità, forse ancora più di quanto ciò non
sia dato come caratteristica dell’intera realtà sociale.
Seguendo la distinzione introdotta da Merton fra funzione manifesta e funzione latente, noi
dobbiamo tenere in considerazione che il mondo non è quello che appare e che sotto i
fenomeni visibili ce ne sono altri di invisibili che si muovono in altre direzioni (Berger,
Kellner 1991, pag. 27).
Questo rafforza ancora di più l’idea che lo scienziato sociale sia costretto a lavorare con le
rappresentazioni e che solo con un’attenta analisi di queste possano essere disvelati i
meccanismi, le logiche, i fenomeni che rimangono normalmente coperti.
124
D’altro canto, ci pare di poter dire che la “condanna” ad avere a che fare con
rappresentazioni, senza poter accedere direttamente alla realtà, non pregiudichi l’oggettività
della ricerca.
In primo luogo, infatti, occorre considerare che le rappresentazioni hanno comunque un
rapporto con la realtà, seppure mediato.
Sarebbe perciò scorretto pensare che dai risultati della ricerca qualitativa si possa accedere ad
un livello di realtà meno mediato. Ma sarebbe altrettanto sbagliato pensare che la negazione
della possibilità di una conoscenza oggettiva debba per forza condurre all’estremo opposto di
una totale soggettività.
Senza entrare in un dibattito da cui è difficile uscire fra “realisti” e “antirealisti” (Bertaux
1999), è possibile affermare che, soprattutto in una prospettiva comparata (Cardano 2003,
pag. 76; Bernardi, Campostrini, Neresini 2005, pag. 270), le analisi basate su
rappresentazioni possono quantomeno consentire di accedere a conoscenze intersoggettive e
dunque sociali.
Applicando rigorosamente l’epistemologia che abbiamo adottato, non possiamo che
considerare la stessa oggettività secondo un punto di vista diverso da quello della tradizione
positivista. Pur senza rifiutare il concetto, l’oggettività va riportata all’idea di metodo che
abbiamo introdotto fin dall’inizio.
In questo senso, l’oggettività non significa tanto riportare “fatti”, ma piuttosto rendere
manifesto come il ricercatore ha lavorato mettendo in relazione dialettica il suo schema
teorico con il dato empirico (Berger, Kellner 1991, pag. 60).
Riflessività
Il tema della riflessività è un tema emergente, che ha preso sempre più piede nella sociologia
contemporanea, anche a seguito della “svolta epistemologica” dovuta alla messa in
discussione dell’epistemologia positivista.
Anche per le sue origini, dunque, è un tema fortemente connesso alla sociologia qualitativa
(Cipolla, De Lillo 1996; Cardano 2003; Silverman 2002) ed è pertanto necessario prenderlo
in considerazione.
125
La riflessività, in realtà, è un macro-concetto – forse più un atteggiamento che non un
concetto vero e proprio – che identifica un fenomeno che pervade le società moderne e che
tocca su vari livelli le nostre conoscenze.
Giddens (1994), ad esempio, ha efficacemente mostrato come la riflessività sia una
caratteristica pervasiva delle società, non solo delle pratiche di ricerca, in quanto la stessa
sociologia non è più un asettico strumento di studio della società, ma ha invaso la società
stessa con i suoi concetti, sviluppando così un’interconnessione che modifica entrambe.
Ma la riflessività è ovviamente un fenomeno che pervade prima di tutto la pratica di ricerca
sociologica, tanto da spingere molti a chiamare la sociologia attuale sociologia riflessiva
(Melucci 1998).
Ed è ovviamente questo secondo significato che manifesta la maggiore fonte d’interesse per
la nostra ricerca.
Anche riportato alla sola dimensione della pratica di ricerca, quello della riflessività rimane
comunque un tema assai ampio, di cui è impossibile dare conto esaustivamente in questa
sede.
Vale la pena ricordare come, nell’elaborare questa ricerca e soprattutto al momento della
scelta dell’approccio qualitativo, si sia tenuto conto delle implicazioni dei metodi adottati,
comprese quelle portate dalla riflessività.
Semplificando molto, possiamo affermare che nella sostanza la riflessività ha imposto alla
ricerca di considerare parte costitutiva della propria metodologia anche la riflessione sulla
propria dimensione sociale e sui fenomeni di costruzione sociale che avvengono al proprio
interno (Melucci 1998, pag. 25).
Nella ricerca qualitativa, allora, ciò che diviene fondamentale è prendere in debita
considerazione il ruolo dell’osservatore, che non può essere considerato una categoria scissa
dal campo, ma un elemento che inevitabilmente, con la sua sola presenza, intreccia una
relazione con la realtà osservata (Manghi 1996, pag. 243).
Come ricordato da Berger e Keellner (1991, pag. 42) – che riprendono in questo le radici
della prospettiva fenomenologica e in particolare gli argomenti di Schütz e del filone della
costruzione sociale della realtà (Berger, Luckmann 1969) – «non posso interpretare il
significato di qualcun altro senza cambiare, per quanto in misura minima, il mio sistema di
significato».
126
Ed è esattamente quello che avviene nel processo di interpretazione.
Ancora una volta ci troviamo di fronte ad una caratteristica stessa della ricerca sociologica e,
in particolare, dei metodi qualitativi.
E ancora una volta, essendo questo un punto irrisolvibile, la strada per approcciare un tale
dilemma non può che essere quella di tenerne conto nella valutazione del risultato e nella
trasparenza del metodo adottato (Melucci 1998).
Le pratiche di ricerca debbono rientrare così a pieno titolo fra gli oggetti di riflessione della
ricerca stessa, consapevoli che questo possa accrescere la solidità delle nostre stesse
conoscenze, secondo un processo che, con una terminologia mutuata ancora da Melucci
(1998), potremmo chiamare “a spirale”.
1.3 Un disegno di ricerca aperto
Il disegno della ricerca è stato costruito, secondo l’approccio qualitativo adottato e le
implicazioni in esso contenute, come un percorso “aperto” e da definire in itinere, in modo da
potersi adattare alle reali possibilità che si sarebbero incontrate.
Durante la realizzazione dell’indagine, in effetti, alcune opzioni metodologiche sono state
adattate alle peculiarità e alle oggettive difficoltà incontrate sul campo.
Inizialmente, la ricerca è stata strutturata sostanzialmente in due fasi, ciascuna rispondente ad
obiettivi differenti e ciascuna centrata su soggetti diversi.
Una suddivisione che non è stata intaccata dalle difficoltà incontrate sul campo, ma che, pur
nella considerazione di alcune modifiche dei metodi di rilevazione utilizzati, è stata
conservata come la distinzione fondante dell’intero disegno di ricerca.
Le prima fase è stata centrata sui ricercatori professionisti, considerati come testimoni
privilegiati dei fenomeni oggetto di studio, cioè “esperti in possesso di conoscenze e/o
esperienze specifiche sull’argomento oggetto di indagine” (Bernardi, Bertin, Campostrini,
Neresini, Tuzzi 2005, pag. 53; Bernardi, Bertin, Neresini, Pellegrini, Tuzzi 2005, pag. 157).
La seconda fase, invece, è stata centrata sui soggetti veri e propri dell’indagine, e cioè sui
decisori politici.
127
Vediamo nel dettaglio le scelte metodologiche inserite nel disegno della ricerca per ciascuna
delle due fasi.
La prima fase: i ricercatori
La prima fase aveva come obiettivo quello di studiare una categoria particolare di testimoni
privilegiati dell’oggetto della ricerca, e cioè i ricercatori professionisti a cui la politica
commissiona le indagini.
I ricercatori e professionisti, sono coloro che da un punto di vista professionale si pongono
nei confronti dell’ambito politico come fornitori di ricerche scientifiche e di consulenze.
Sostanzialmente si tratta di sondaggisti, consulenti di strategie e altri ricercatori provenienti
dal mercato.
In un primo momento era stata individuata una categoria di osservatori, cioè soggetti che, per
ragioni diverse, hanno la possibilità di accesso a informazioni, relativamente al tema, non di
dominio pubblico. Poiché si trattava sostanzialmente di ex ricercatori, docenti universitari,
docenti universitari che svolgono anche attività di ricerca, si è ritenuto fosse una prospettiva
non così differenziata da giustificare una trattazione separata e pertanto è stata fatta confluire
nella categoria dei “ricercatori”.
I ricercatori e professionisti possono essere considerati a tutti gli effetti testimoni privilegiati,
in quanto in possesso di informazioni in un contesto di informazioni scarse (Bernardi, Bertin,
Campostrini, Neresini, Tuzzi 2005, pag. 53).
L’obiettivo di questa fase è stato quello di riportare la varietà di rappresentazioni soggettive e
sociali degli appartenenti alla categoria, relativamente ai diversi problemi conoscitivi
dell’indagine: pratiche d’uso delle ricerche nel campo della politica, relazione con le pratiche
di comunicazione e di decisione delle organizzazioni politiche, senso attribuito dai soggetti a
queste pratiche.
I risultati ottenuti sono stati poi utilizzati nella fase di ricerca sui decisori.
L’utilità di questi risultati è stata su diversi piani.
128
Da un lato, sono stati utili per individuare i temi, gli ambiti, le problematiche su cui
concentrare la fase di ricerca sui decisori, in modo tale da fornire indicazioni fin dalla fase
della definizione degli strumenti di ausilio alla rilevazione.
D’altro canto, la ricerca sui professionisti è servita a una migliore comprensione del
fenomeno, anche per operare alcuni raffronti fra i risultati dell’indagine sui ricercatori e
quella sui decisosi, per individuare così significative omogeneità o differenze di
rappresentazioni.
Per quanto riguarda i metodi di rilevazione, fin dall’inizio si è pensato di condurre la ricerca
utilizzando interviste in profondità, secondo il modello descritto successivamente e con le
procedure (di campionamento, conduzione, trascrizione, analisi) sotto indicate.
Da questo punto di vista, dunque, questa fase della ricerca non ha subito modifiche
sostanziali dei metodi utilizzati durante la realizzazione.
La seconda fase: i decisori
La seconda fase della ricerca è stata centrata invece sui soggetti veri e propri dell’indagine, i
decisori politici, coloro che a rigore sono i principali depositari delle conoscenze oggetti della
ricerca.
I decisori, sono coloro che nella relazione professionale fra organizzazione politica e ricerca
si pongono come clienti. Sono sostanzialmente i politici che commissionano le indagini e le
ricevono, per valutarne gli utilizzi all’interno dell’organizzazione di cui fanno parte.
Definiremo meglio in seguito, nella parte dedicata al campionamento, alcune caratteristiche
di questa categoria, soprattutto quelle più immediatamente interessanti per illustrare nel
dettaglio i metodi di ricerca.
Ciò che, in questo punto, interessa richiamare è invece il tipo di soggetto che si è scelto di
individuare.
Infatti, fin dall’inizio della ricerca è parso opportuno concentrare l’attenzione non solo sui
leader, ma anche e soprattutto sui membri dello staff di qualche leader o funzionari incaricati
129
del partito o dell’organizzazione. Generalmente si tratta di soggetti che hanno come specifico
ambito di competenza del loro lavoro quello della comunicazione o delle ricerche.
La scelta in questione è derivata sia dall’analisi preliminare della letteratura, sia da
considerazioni di metodo, sia dai primi risultati emersi dalla fase di indagine sui ricercatori.
Vi era infatti un unanime consenso sulle difficoltà che si sarebbero incontrate nell’intervistare
direttamente i leader di primo piano, considerati come decisori “ultimi”.
Era ragionevole supporre che si sarebbero incontrate difficoltà per accedere al campo e per
ottenere le condizioni di contesto funzionali a interviste di qualità, che necessitano di tempi
lunghi e buona concentrazione.
Inoltre i leader, per i rischi connessi alla loro visibilità e ai loro obiettivi di gestione del
consenso, potevano presentare maggiore necessità di creare spazi di riservatezza, di
mascherare o tenere coperti alcuni dati, di riportare rappresentazioni tipizzate o volutamente
innocue, derivanti anche dalla consuetudine a relazionarsi con il mondo dei media,
ugualmente ricco di potenziali rischi.
Infine si è evidenziato come l’attività più diretta di contatto con le ricerche, e dunque con i
professionisti, fosse in gran parte a carico dello staff, coinvolto anche, perlomeno
marginalmente, nelle decisioni conseguenti.
Per questo insieme di ragioni, si è ritenuto più proficuo per la ricerca concentrare l’indagine
sui membri dello staff, soprattutto su coloro con responsabilità dirette sulla comunicazione o
sull’utilizzo delle ricerche.
Per quanto riguarda i metodi di rilevazione, le particolari necessità di analisi approfondite
hanno richiesto fin dall’inizio la predisposizione di una campagna di interviste in profondità,
secondo il modello più sotto descritto.
Si è anche ritenuto che la fase di indagine dedicata alla realizzazione delle interviste potesse
essere supportata utilmente da un approccio di tipo etnografico.
In un primo momento è stata presa in considerazione l’ipotesi di utilizzare la fase di accesso
al campo per le interviste anche per svolgere una parte della ricerca con metodo etnografico,
possibilmente riuscendo ad ottenere l’accesso ad un’organizzazione politica per un certo
periodo di tempo, al fine di osservare direttamente i fenomeni oggetto della ricerca.
130
In realtà, ci si è resi subito conto dell’impossibilità di portare a termine un’etnografia nel
contesto di un’organizzazione politica secondo gli obiettivi dell’indagine, per varie ragioni.
Innanzitutto per la difficoltà di accedere al campo. Nonostante le numerose occasioni e i
numerosi tentativi, infatti, non vi è stata alcuna reale possibilità di ottenere da parte dei
soggetti il via libera per un’etnografia all’interno delle organizzazioni politiche.
Oltretutto, fin dai primi contatti è parso chiaro che non sarebbe stato possibile l’accesso a
tutte le fasi del percorso svolto dalle ricerche all’interno delle organizzazioni, a causa della
proliferazione degli attori coinvolti nel processo, della varietà dell’azione politica svolta nelle
organizzazioni, oltre che per l’intrinseca possibilità di osservare processi in gran parte mentali
come le decisioni.
Per questa ragione, si è ritenuto che un’ampia campagna di interviste in profondità potesse
rappresentare un metodo di rilevazione più in linea con gli obiettivi della ricerca, nonché in
grado di restituire risultati più significativi sia dal punto di vista quantitativo che da quello
qualitativo.
La stessa ricostruzione di un caso di studio, da individuare fra i più significativi fra quelli
relativi alle pratiche individuate e descritte attraverso le interviste, è stata scartata in fase di
conduzione delle interviste, per due ordini di motivi.
Innanzitutto perché non è emerso alcun singolo caso di particolare rilevanza, ma una
moltitudine di piccoli episodi che difficilmente avrebbero potuto aggiungere elementi
significativi a quanto emerso dalle interviste.
In secondo luogo perché il materiale raccolto con le interviste si è rivelato da subito molto più
ampio, ricco e significativo di quanto ipotizzato in partenza, tanto da sconsigliare ulteriori
contributi che potevano solo presentare il rischio di un eccessivo lavoro di rilevazione, senza
reali aggiunte in termini di analisi e di risultati.
Il disegno di ricerca realmente adottato
Nel complesso, dunque, il disegno di ricerca realmente adottato – in seguito alle scelte
compiute e ai vincoli e ai condizionamenti dettati dal campo – si è configurato secondo uno
131
schema composto da 4 fasi: l’analisi delle fonti, le interviste qualitative ai testimoni
privilegiati, le interviste qualitative ai decisori, l’analisi del contenuto.
Da un punto di vista del metodo adottato, la ricerca è totalmente qualitativa, secondo quanto
esplicitato sopra, anche in relazione alle conseguenze esplicite e implicite di questa scelta
sulla rilevazione e sull’analisi dei dati.
La parte di rilevazione è stata condotta in due fasi, utilizzando interamente come strumento
quello dell’intervista in profondità, secondo il modello più sotto approfondito.
L’analisi delle interviste si è svolta con l’applicazione libera e non ortodossa di alcuni
principi dell’analisi del contenuto, anch’essi illustrati a parte sotto.
1.4 Il modello di intervista adottato
Vorrei provare a esplicitare il modello d’intervista che ho cercato di utilizzare come metodo
di rilevazione di entrambe le fasi della ricerca.
L’uso delle interviste è stato condotto secondo una prospettiva qualitativa, le cui
caratteristiche principali, secondo Corbetta (2003, pag. 428), sono l’essere centrata sui
soggetti più che sui dati e l’approccio olistico.
Esistono però in letteratura numerose tipologie per descrivere le interviste e le loro
caratteristiche.
Finora mi sono limitato a parlare di “intervista qualitativa”, per indicare l’approccio
metodologico ed epistemologico con il quale ho interpretato questo strumento, e di “intervista
in profondità”, per dare conto dell’attributo di maggior interesse, almeno da un punto di vista
conoscitivo, che tale metodo deve avere, e cioè quello di restituire rappresentazioni ampie,
complesse, profonde, il più possibile lontane da schematizzazioni e semplificazioni.
Seguendo infatti la prospettiva di Cardano, l’intervista è quello strumento di ricerca capace di
«sollecitare l’atteggiamento critico dell’intervistato, sospinto ad abbandonare l’atteggiamento
naturale» (Schütz, 1979). Un punto essenziale ai fini dei nostri obiettivi conoscitivi relativi
alla comprensione delle pratiche e del senso ad esse attribuite dagli attori.
Vorrei introdurre alcune altre categorie utili a descrivere meglio il modello di intervista
utilizzato.
132
Innanzitutto il tipo di intervista utilizzata è non strutturata e non standardizzata (Bernardi,
Bertin, Campostrini, Tuzzi 2005, pag. 95), in quanto sia l’input costituito dalle domande che
le risposte dell’intervistato sono state formulate e raccolte lasciando totale libertà espressiva.
La traccia di partenza, infatti, riportava un ordine di temi oltre che alcune domande dirette.
Ma l’effettiva applicazione della traccia è stata in realtà dettata dalla situazione di ogni
singola intervista, cercando di toccare tutti gli argomenti, ma lasciando libero l’intervistato
per non limitarne l’espressività.
In questo modo la traccia è diventata un pro-memoria di argomenti, di linguaggio, di
questioni fondamentali, che di volta in volta sono state adattate alla singola situazione.
Ho inoltre cercato di interpretare la relazione fra intervistato secondo la minore direttività
possibile, per evitare la costruzione di una situazione in cui vi sia insita strutturalmente
un’opposizione di ruoli.
Usando la prospettiva e la terminologia di Erving Goffman (Goffman 1969), infatti, possiamo
interpretare l’intervista come un rituale sociale in cui la definizione della situazione gioca un
ruolo importantissimo nello strutturare i ruoli.
In questo senso, dunque l’assunzione da parte dell’intervistatore di una posizione direttiva
può portare l’intervistato ad assumere una posizione di difesa della faccia, limitando in
questo modo la libera espressività e la qualità delle narrazioni.
Ho consapevolmente evitato di utilizzare un modello di intervista puramente estrattivo, così
come definito da Sormano (1996, pag.352).
Ho scelto infatti di concentrare l’attenzione non solo sulle risposte in quanto fonti di dati, di
informazioni “pure”, ma di analizzare anche la dimensione situazionale e interazionale insita
nello stesso svolgersi dell’intervista.
Ciò avvicina il modello di intervista utilizzato a quello estrattivo complesso, sempre descritto
da Sormano. I dati relativi alla situazione ambientale, all’interazione fra intervistatore e
intervistato, alla centralità dell’interpretazione dell’intervistato stesso degli stimoli posti
dall’intervistatore entrano così a integrare con pari dignità le informazioni contenute nelle
risposte, dotandole di una maggiore profondità di analisi e di più numerosi elementi di
differenziazione.
133
Per questa ragione, ho condotto le interviste con l’uso abbinato di un registratore e di un
blocco per appunti utile a stendere in corso note utili alla conduzione dell’intervista, ma
anche relativa alla situazione stessa e ai dati situazionali di corredo dell’intervista stessa.
Inoltre, alla fine di ogni intervista, ho steso rapidamente una prima relazione sull’intervista
stessa, centrata sulle modalità di svolgimento, sulla percezione relativa ai risultati acquisiti,
sulle note ambientali ed emozionali.
L’uso combinato di questi strumenti, infatti, consente di andare oltre l’analisi delle sole
risposte.
Un punto importante e collegato a questo riguarda il ruolo giocato dalla retorica e dalla
dimensione discorsiva.
Si possono infatti dare livelli di importanza diversi a questa dimensione.
È possibile individuare il concetto di intervista discorsiva (Cardano 2003, pag. 73; Bernardi,
Bertin, Neresini, Pellegrini, Tuzzi 2005, pag. 145), intendendo in questo modo un modello di
conduzione e di analisi che mette al centro la dimensione retorica e l’individuazione non solo
di informazioni, ma anche di discorsi.
È un punto di particolare importanza, che è stato condiviso nel modello di questa ricerca e
che merita un approfondimento.
La scelta dell’intervista qualitativa, permette di rilevare dati ulteriori, che vanno ad ampliare
le possibilità di comprensione e di raggiungimento di una thick description (Geertz 1987).
Innanzitutto l’intervista qualitativa restituisce un discorso. Non un insieme di dati o risposte
standardizzate, ma una libera espressione in cui valori, emozioni, giudizi, narrazioni sono
inseriti in una dimensione retorica più libera e autonoma.
L’importanza del discorso è sottolineata da numerosi autori (Cardano 2003, pag. 74-75;
Bernardi, Bertin, Neresini, Pellegrini, Tuzzi 2005, pag. 153).
Con il discorso infatti è possibile ricavare anche espressioni, gerghi, e altre annotazioni utili a
comprendere meglio la posizione dell’intervistato nei confronti di quello che sta dicendo
(Sormano 1996).
In generale, dunque, il poter accedere a narrazioni e discorsi aumenta l’espressività delle
interviste ed la possibilità di ricavare da esse rappresentazioni meno tipizzate, controllate o
artefatte.
134
Non dobbiamo dimenticare che l’intervista restituisce rappresentazioni. E dunque le forme
dell’espressività sono parte integrante delle rappresentazioni stesse.
Fin dal concepimento dell’idea della ricerca, della domanda conoscitiva e del disegno
metodologico, è parso chiaro come l’approccio da adottare dovesse essere concepito anche
tenendo conto delle specificità del campo della politica.
In particolare, era evidente che i fenomeni che si intendeva indagare toccavano ambiti coperti
da un elevato grado di segretezza e riguardassero attori politici e comunità di pratiche che
facevano della riservatezza e della copertura della loro azioni un elemento di vantaggio
competitivo.
Si è dunque cercato di attingere alle risorse della ricerca qualitativa, anche cercando, per
quanto possibile, di attingere alle sensibilità, agli approcci epistemologici, alle tecniche
dell’etnografia.
L’osservazione diretta, infatti, rappresenta il modo più efficace per conoscere quello che
avvieni in luoghi e campi poco frequentati e poco studiati (Becker 2007, pag. 28).
Anche una volta scelto di non procedere a osservazioni partecipanti, secondo quanto
esplicitato in precedenza, le considerazioni svolte circa il ruolo dell’approccio etnografico
sono state adottate anche nell’impostazione, nella preparazione e nell’esecuzione delle
interviste.
Fin dall’inizio è apparso chiaro come il tipo di persone da intervistare, anche in ragione del
ruolo ricoperto, potessero rispondere all’intervista con sovrastrutture, atteggiamenti difensivi,
risposte preconfezionate, tipizzazioni, con il rischio di rendere poco fluide le narrazioni e
poco autentiche le rappresentazioni.
Per questa ragione, ho lavorato in fase di preparazione delle interviste e poi nella conduzione
delle stesse per acquisire elementi, atteggiamenti, linguaggio in grado di rendere più familiare
la relazione con l’intervistato, nell’auspicio che ciò potesse portare a una maggiore fluidità e
autenticità delle narrazioni.
Anche da questo punto di vista, mi sono avvalso di alcune pratiche e considerazioni
provenienti principalmente dalle metodologie etnografiche, come ad esempio la buona
conoscenza del contesto etnografico indicata da Cicourel (1974) o, più in generale, le
considerazioni di Marzano (2006).
135
Tutte le interviste sono state registrate, previo consenso da parte degli intervistati.
L’uso di un piccolo registratore, infatti, è stato ritenuto un ausilio utile, in grado soprattutto di
rappresentare una garanzia che la dimensione discorsiva non sarebbe andata perduta o
involontariamente manipolata dalla sintesi necessaria a prendere appunti o a riportare a
memoria brani di conversazione7.
Oltretutto, un piccolo registratore, se introdotto fin dall’inizio con la giusta negoziazione, può
rappresentare un vantaggio da un punto di vista relazionale, in quanto consente di mantenere
più attiva e visibile l’attenzione rivolta all’intervistato, nonché di poterne apprezzare in
maniera più completa anche gestualità, linguaggio non-verbale e altro.
7 Sormano (1996, pag. 354) ritiene l’utilizzo di una forma di registrazione indispensabile alla possibilità diconservazione e utilizzo degli elementi contestuali, situazionali, relazionali.
136
CAP. 2
LA REALIZZAZIONE DELLA RICERCA
2.1 La tempistica scelta
Il disegno della ricerca è stato diviso in due fasi, la cui realizzazione è stata pensata perché
possa seguire un ordine temporale.
Si è scelto di realizzare per prime le interviste ai ricercatori.
La scelta di iniziare da questa fase deriva dalla necessità di ottenere una panoramica generale
dello stato delle ricerche applicate alla politica in Italia, che poteva essere data solo dal lato
dell’offerta.
Spesso infatti i ricercatori sono attenti anche alla visione generale del contesto scientifico in
cui si inserisce la loro professione. Molti di loro sono inoltre vicini al mondo accademico e
alle necessità della ricerca scientifica, cosa che li rende sensibili a queste questioni.
Oltre a questo, ponendosi in genere come propositori attivi di collaborazioni alla politica, i
professionisti sono senz’altro più al corrente di tutte le possibilità offerte in questo campo
(anche di quelle non particolarmente utilizzate dalla politica), il che consente una visione più
ampia del problema.
Infine, attraverso le loro strutture interne o le associazioni di categoria e le comunità
professionali, i ricercatori hanno già attivato percorsi di ricerca sulla professione e sullo stato
dell’arte della ricerca d’opinione pubblica, che possono offrire un aiuto o una base di partenza
per la ricerca stessa.
Oltre alla panoramica generale, fin da subito ho contato proprio sui ricercatori per individuare
elementi utili e necessari all’indagine, come casi di studio di particolare interesse o anche più
banalmente persone, nel proprio campo o in quello dei decisori, da intervistare.
Il complesso di questo lavoro sui testimoni privilegiati ha consentito l’individuazione di
problematiche, temi, ambiti, concetti utili alla preparazione delle interviste ai decisori, a
partire dalla costruzione della traccia per le interviste.
137
2.2 La preparazione delle interviste e la costruzione delle tracce
La realizzazione delle interviste, sia ai ricercatori che ai decisori, nelle due fasi temporali
indicate, è stata preceduta da una fase di preparazione.
Questa fase si è resa necessaria per due ragioni.
Innanzitutto, per sfruttare pienamente la metodologia utilizzata. Gli obiettivi relativi alla
comprensione del senso attribuito dagli attori alle loro pratiche, infatti, richiedono la
maggiore capacità possibile di entrare nella cultura, nel linguaggio, nelle logiche degli
intervistati, con un modello simile a quello applicato nell’approccio etnografico (Marzano
2006; Bernardi, Bertin, Campostrini, Tuzzi 2005, pag. 190).
La seconda ragione, invece, risiede in alcune difficoltà specifiche che potevano essere
incontrate nella realizzazione delle interviste, di cui si darà conto differenziandole a seconda
della categoria di intervistati.
Per condurre le interviste ai ricercatori, in particolare, si è reso necessario un lungo lavoro
preliminare di studio.
Era infatti necessario prendere dimestichezza con le tecniche, il linguaggio, i termini del
dibattito professionale, affinché durante le interviste non si verificassero difficoltà dovute a
mezzi di difesa spesso spontanei nelle comunità professionali, come l’utilizzo di un
linguaggio criptico o di retoriche convenzionali.
Lo studio e la familiarizzazione con le principali procedure tecniche e con il linguaggio
appropriato del campo si è rivelato particolarmente difficile soprattutto nell’individuare con
chiarezza (in mezzo a una certa opacità) la reale applicazione delle tecniche.
Nella fase di studio si è voluto approfondire la conoscenza dei meccanismi anche attraverso
alcune azioni specifiche oltre all’analisi documentale.
In particolare, sono stati condotti alcuni colloqui con professionisti del settore, che potevano
indicare come approcciare i ricercatori e come condurre le interviste.
In secondo luogo, ho frequentato un seminario sulle tecniche di realizzazione di alcune
ricerche socio-politiche, tenuto da un professionista del settore.
In terzo luogo, grazie ad una collaborazione di natura professionale, ho potuto svolgere una
breve osservazione nell’ambito della realizzazione di un’indagine con metodo CATI per un
138
ambito amministrativo locale. L’indagine è durata solo alcuni giorni, ma è stata seguita in
tutte le sue fasi, dalla costruzione del questionario alla presentazione dei risultati, cosa che ha
permesso di prendere contatto con la cultura specifica, il linguaggio, le modalità di relazione
fra ricercatori e decisori in questo specifico caso.
Per quanto riguarda le interviste ai decisori, come detto, la gran parte delle informazioni
preliminari è stata ottenuto dai risultati della prima fase di ricerca condotta con le interviste ai
testimoni privilegiati, oltre che da un’accurata analisi documentale.
Le due fasi della ricerca sono state ovviamente precedute dalla costruzione della tracce di
intervista.
Le due tracce, alla fine si sono rivelate piuttosto simili nell’elencazione dei temi da
affrontare.
Vi sono invero alcune differenze di cui dare conto.
Innanzitutto divergono per la presenza o l’assenza di alcuni temi, che riguardano le specificità
delle due distinte posizioni di ricercatore e di decisore, e che dunque sono stati affrontati solo
con la categoria interessata.
Inoltre, la traccia per le interviste ai decisori è più focalizzata su alcune questioni, emerse con
chiarezza dalla fase delle interviste ai testimoni privilegiati, e sulle quali si è puntata
l’attenzione.
Infine, la traccia per le interviste ai decisori è stata resa ancora meno direttiva, per permettere
agli intervistati di riportare narrazioni più ampie e approfondite, più utili all’individuazione
degli obiettivi della ricerca.
Da considerare infine che entrambe le tracce sono state costruite con momenti a diversa
direttività, a seconda degli obiettivi conoscitivi e degli ambiti d’indagine di volta in volta
affrontati.
Per l’area di indagine relativa alla strutturazione del rapporto committente-ricercatore, delle
modalità organizzative, delle rappresentazioni relative allo strumento delle ricerche socio-
politiche, alla loro influenza, al loro reale utilizzo ho preferito utilizzare degli input a bassa
direttività, lasciando ampi spazi alla narrazione libera, al ricordo, alla ricostruzione delle
situazioni.
139
La fase dedicata alla esplicitazione della gamma dell’offerta di prodotti di ricerca e delle
questioni di natura tecnica ho preferito invece trattarla con domande più specifiche, con
l’obiettivo di rendere raffrontabili con chiarezza le rappresentazioni su questi aspetti derivanti
dalle interviste ai ricercatori e da quelle ai politici, pur nella consapevolezza di perderne in
profondità.
2.3 Il campionamento
La fase del campionamento rappresenta un punto delicato della realizzazione della ricerca,
che merita di approfondire alcune scelte che possono avere conseguenze importanti sui
risultati della ricerca stessa.
La strategia di campionamento
Per quanto riguarda il campionamento, il piano adottato è stato di tipo non probabilistico, ma
ragionato.
Senza richiamare le critiche teoriche sulle possibilità di un reale campionamento
probabilistico (Marradi 1997), le motivazioni della scelta sono da ricercare nel particolare
universo di riferimento e nel tipo di disegno della ricerca adottato, che conducono
logicamente a una scelta ragionata delle persone da intervistare.
In alcuni casi sono state utilizzate informazioni provenienti da analisi delle fonti o da
testimoni privilegiati anche per l’individuazione delle persone da intervistare, pur all’interno
di alcuni profili selezionati in precedenza.
Per quanto riguarda i decisori, si sono rivelate fondamentali anche le informazioni raccolte
durante la stessa realizzazione delle interviste, sia ai ricercatori che ai decisori stessi, in una
sorta di snow ball sample (Cardano 2003, pag. 84) non esclusivo.
140
La questione della numerosità
Per quanto riguarda la quantità di interviste da realizzare, la scelta è stata fatta tenendo conto
della realtà specifica del campo d’indagine.
Per quanto riguarda i ricercatori, era importante cercare di intervistare tutti i ricercatori delle
principali società del settore.
Occorre tenere presente che il settore in Italia non si presenta come particolarmente ampio.
Le società iscritte all’associazione del settore risultano essere, ad oggi, in tutto 45 (fonte sito
web ASSIRM). A questo va aggiunto che, in realtà, l’analisi documentale e i primi colloqui
hanno mostrato come le società realmente operanti con la politica si riducono a una
quindicina, più qualche altra con lavori discontinui e ridotti.
Proprio per queste ragioni, non essendo poi molte le società realmente operanti con la
politica, ho ritenuto che il risultato di sentire un’ampia maggioranza fosse importante proprio
perché raggiungibile (10-15 interviste).
Anche per i decisori, ho scelto di realizzare dalle 10 alle 15 interviste.
Le considerazioni in merito sono analoghe.
Essendo i decisori, come si diceva, i veri depositari dell’informazione oggetto dell’indagine,
potrebbe sembrare un numero insufficiente.
In realtà, il numero delle interviste non pare inadeguato se si considera il campo in cui si
opera.
Dalle interviste ai testimoni privilegiati, infatti, è emerso come i decisori politici che
commissionano indagini in misura continuativa e quantitativamente rilevante non sono molti.
A questi si aggiungono altri attori che ne fanno uso in maniera sporadica, normalmente a
ridosso di appuntamenti elettorali, e che per questo presentano minore interesse.
Per quanto riguarda i partiti, è emerso che a commissionare con continuità ricerche sono solo
i partiti nazionali e nemmeno tutti, ma solamente i principali, circa una decina, nel 2007-
2008.
Altri attori che fanno uso continuativamente di ricerche sono gli staff politici all’interno delle
istituzioni, ma anche in questo caso si tratta solo di istituzioni nazionali e solo delle figure
principali, con particolare riferimento alla Presidenza del Consiglio.
Infine, per quanto riguarda le occasioni elettorali, gli attori che più utilizzano indagini sono
rappresentati dai comitati elettorali per le elezioni dei sindaci, soprattutto delle città più
141
importanti. Ma, in quest’ultimo caso, ovviamente, l’utilizzo è limitato al momento elettorale,
mentre i sindaci in carica le utilizzano in maniera solo sporadica e meno significativa.
La descrizione di questo campo lascia intendere che i decisori (singoli o organizzazioni) utili
all'indagine – cioè coloro che fanno un uso significativo di ricerche, perlomeno nel momento
di realizzazione dell’indagine – sono un numero molto limitato, una decina o quindicina di
organizzazioni, al cui interno si possono individuare al massimo 2-3 membri.
La limitatezza della popolazione di riferimento, dunque, rende molto significativa la
numerosità del campione che si intende adottare, dalle 10 alle 15 interviste in tutto.
Sempre per quanto riguarda i decisori, la numerosità sopra riportata è stata accompagnata da
un ragionamento sulla rappresentatività, perlomeno rispetto ad alcune categorizzazioni
emerse come significative dalla fase di interviste ai testimoni privilegiati.
Le culture politiche
Il disegno della ricerca ha cercato di tenere in debito conto di una buona rappresentatività di
tutte le varie culture politiche presenti nello spazio politico nazionale.
La diversa collocazione sul continuum destra-sinistra dello spazio politico e la conseguente
appartenenza a differenti culture politiche è infatti una variabile in grado di determinare una
diversa apertura alle tecniche della nuova politica, che potrebbe in ipotesi originare anche
differenti modalità di utilizzo degli strumenti di ricerca demoscopica (Rodriguez 2001).
In particolare, a determinare un diverso approccio al marketing politico e alle sue tecniche è
la caratterizzazione della propria cultura politica e organizzativa: «le forze politiche che
fanno riferimento a visioni del mondo “forti”, sia di destra che di sinistra, non sembrano
troppo a proprio agio: le usano obtorto collo, sbandando tra una provinciale subalternità e un
distacco altezzoso» (Rodriguez 2001).
142
I diversi tipi di attività
Nella scelta dei soggetti da individuare fra i decisori, si è stabilito di rispettare alcuni criteri
più dettagliati.
Dalla prima fase di interviste ai ricercatori, infatti, sono emerse alcune differenziazioni che
verosimilmente potevano determinare anche pratiche diverse di utilizzo delle ricerche
demoscopiche.
Pertanto si è ritenuto di dover garantire una rappresentatività, seppur minima, rispetto a
queste differenziazioni.
La prima è quella sul continuum fra locale e centrale-nazionale. Attori politici che operano
nell’ambito delle competizioni nazionali, infatti, hanno accesso a strutture e risorse diverse e
rispondono, con buona probabilità, anche a logiche diverse.
La seconda riguarda il tipo di attività.
Dalle interviste ai ricercatori, sono emerse tre figure-tipo, da rappresentare nel campione di
intervistati fra i decisori.
I primi sono i decisori che operano all’interno delle strutture di partito, che hanno dunque
come obiettivi e struttura quelli del partito.
I secondi sono quei decisori che operano in contesti di competizioni elettorali, governati
anch’essi da logiche, strutture, relazioni, obiettivi potenzialmente differenti.
Infine, il terzo gruppo è rappresentato dai decisori che lavorano nelle istituzioni,
particolarmente quelle di Governo, come membri degli staff politici direttamente legati a un
politico che ricopre un incarico di governo.
2.4 L’accesso al campo
Riprendendo il linguaggio etnografico, il contatto con i potenziali intervistati è avvenuto con
modalità simili a quelle di “accesso al campo” da parte di un etnografo.
I due contesti sono paragonabili sia per il tipo di informazioni che intendevo ottenere con le
interviste, sia per le pratiche di chiusura e gestione dell’accesso al campo messe in atto dagli
intervistati, che non a caso appartengono a comunità di pratiche ben identificabili.
143
Per quanto riguarda i ricercatori il contatto è avvenuto quasi sempre via e-mail.
Nella maggior parte dei casi, il contatto è avvenuto chiamando le agenzie di ricerca
telefonicamente.
Normalmente, la segreteria, prima di passare al telefono il potenziale intervistato, chiedeva
una e-mail introduttiva piuttosto articolata. All’invio della e-mail in pochi casi è arrivata una
risposta diretta. In tutti gli altri sono state necessarie numerose altre telefonate, questa volta
con la richiesta di parlare direttamente con il diretto intervistato.
L’organizzazione dei colloqui si è rivelata particolarmente difficoltosa per i molti impegni dei
potenziali intervistati, che hanno comportato numerosi rinvii, anche all’ultimo minuto, oltre
che, in certi casi, appuntamenti fissati al volo, senza preavviso, sui quali, come ultima ratio,
ho utilizzato la tecnica di insistere molto sul fatto che mi trovavo proprio quel giorno in città
e che pertanto, con un piccolo sforzo, era possibile svolgere l’intervista.
In un paio di casi – e segnatamente con le agenzie dirette dai sondaggisti più noti anche al
grande pubblico – l’intervista è stata svolta in due tappe.
La prima volta con il funzionario dell’agenzia responsabile dell’attività di ricerca. Dopo
questa intervista, molto centrata sugli standard tecnici, proprio attraverso l’intermediazione
del funzionario è stato possibile ottenere il colloquio con il ricercatore.
In entrambi i casi, però, si è trattato di un colloquio insoddisfacente per il poco tempo
concesso. In questi due casi, si è deciso di raggruppare le due interviste come
rappresentazione della cultura organizzativa dell’intera agenzia, se non per quelle poche
citazioni che sono parse esclusivamente personali.
Nel complesso la realizzazione delle interviste è stata complicata e segnata da numerosi
imprevisti e retromarce, che hanno notevolmente allungato i tempi di conclusione del piano
di interviste.
Giusto come indicazione, per ottenere ogni intervista si sono resi necessari numerosi e
ripetuti contatti, con un tempo necessario a ottenere l’effettiva realizzazione che, in alcuni
casi, è arrivato ad essere anche di oltre tre mesi.
Per quanto riguarda i decisori, l’accesso al campo è avvenuto in maniera significativamente
diversa.
Nella maggior parte dei casi, infatti, si è trattato di andare ad intervistare personaggi non di
primo piano, ma membri dello staff di politici di vertice. Si è trattato in gran parte di addetti
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stampa, portavoce, responsabili della comunicazione del partito, responsabili del comitato
elettorale per gli attori locali.
La maggior parte di questi ricopriva una carica parlamentare, come deputato o senatore.
Pertanto, il passaggio obbligato avveniva attraverso il centralino della Camera o del Senato,
che filtrava le chiamate e le passava alla segreteria, che poteva essere o del gruppo
parlamentare o del singolo.
Anche in questo caso si procedeva poi ad una e-mail di presentazione, che veniva letta
dall’assistente del parlamentare, che si incaricava di fissare l’appuntamento.
Paradossalmente si è verificata una maggiore facilità di entrare in un contatto stabile con il
potenziale intervistato, sia in forma diretta sia attraversi il filtro dell’assistente o della
segreteria.
Questo purtroppo non ha diminuito i casi di non risposte, continui richiami, appuntamenti
annullati all’ultimo minuto. Infatti è emersa chiaramente la prassi dei politici di non
pianificare per tempo gli appuntamenti, ma di prenderli solo settimana per settimana, pratica
che rendeva assai difficile sia la possibilità di fissare il colloquio, sia la possibilità di
realizzarlo senza intoppi, oltre che, ovviamente, una più complessiva difficoltà a pianificare
la campagna di interviste e i relativi spostamenti (non agevoli) che essa richiedeva.
I tempi per la realizzazione delle interviste si sono rivelati inevitabilmente molto lunghi. La
difficoltà di fissare l’intervista, in particolare, è stata causata dalla ricchezza di impegni della
giornata del parlamentare, che nella maggior parte dei casi, non risiedendo a Roma, tende a
concentrare tutti gli impegni parlamentari e extra-parlamentari nei soli 3 giorni centrali della
settimana, rendendo così difficile individuare il tempo necessario a svolgere un’intervista in
profondità.
Per quanto riguarda i funzionari con responsabilità di partito, il contatto si è rivelato
senz’altro più semplice. In molti casi è avvenuto direttamente e senza intermediari. Gli stessi
tempi di attesa si sono rivelati di molto inferiori, così come sono state molto più facilitate le
possibilità di contatto diretto, per via telefonica o informatica.
Oltre a questo, nel mezzo della campagna di interviste, il crollo non previsto del Governo
Prodi ha comportato un totale sparigliamento dei riferimenti dei decisori già individuati per
l’intervista.
A questo si è sommato un cambiamento generale di sedi, uffici e, con essi, numeri telefonici.
Alcuni partiti hanno cambiato la loro sede elettorale, o perché in vista delle elezioni o per
145
accelerare le fasi della costruzione di un nuovo partito, come nel caso del Partito
Democratico. I riferimenti individuati con i partiti precedenti, dunque, sono stati per mesi non
più utilizzabili, con grosse difficoltà di individuarne di nuovi.
Il problema della perdita dei contatti si è verificato anche con i parlamentari, costretti a
lasciare il loro ufficio, che spesso rappresentava l’unico riferimento per contattarli. Anche in
questo caso, la fase di irreperibilità è durata per mesi. Oltretutto, dopo le elezioni, si è rivelato
difficile stabilire un contatto anche con i parlamentari confermati o neo-eletti, per i continui
cambi di uffici, riferimenti telefonici, segreterie, assistenti e altro avvenuti nei mesi primi
mesi della legislatura.
L’insieme di questi fattori ha reso molto più difficoltoso un campo già di per sé piuttosto
ostico.
La realizzazione delle due fasi di interviste ha richiesto una notevole quantità di risorse e di
energie, comprese numerose trasferte, in molti casi anche a vuoto.
A questo si è aggiunta la caduta del Governo Prodi (avvenuta poco dopo la ripresa delle
attività dopo la lunga sosta invernale) e le fasi successive, che hanno di fatto interrotto la
seconda fase della ricerca per un periodo pari a 5-6 mesi.
2.5 La conduzione delle interviste
Le interviste sono state condotte tenendo conto dei principi sopra esposti relativamente al
disegno della ricerca e al modello di intervista.
Oltre alle anticipazioni contenute nella e-mail di presentazione, all’inizio di ogni intervista ho
esposto brevemente il senso della ricerca e le necessità da coprire con il colloquio.
Seguiva una fase di negoziazione sulle modalità di rendicontazione del colloquio. Alcuni
decisori hanno preteso l’anonimato, almeno per alcune parti dei loro racconti, mentre la
maggioranza dei ricercatori si è mostrata disponibile ad una pubblicazione senza coperture.
In ogni caso, per mantenere un trattamento omogeneo con tutti gli intervistati, si è
successivamente deciso di riportare le interviste mantenendo l’anonimato dell’intervistato.
146
Le rassicurazioni iniziali circa gli obiettivi della ricerca e le modalità di utilizzo dei dati sono
servite anche per favorire una maggiore apertura e disponibilità da parte dell’intervistato.
Ogni intervista, sia relativa ai ricercatori sia relativa ai decisori, è stata svolta con l’ausilio di
una traccia di base, che riportava spunti, questioni, domande e l’ordine con cui sviluppare
l’intervista stessa, passibile di modifiche.
Lo stile di conduzione delle intervista è stato curato il più possibile in modo tale da garantire
al massimo le potenzialità dell’intervista qualitativa.
La traccia è stata costruita in modo da rappresentare un intervento leggero, breve, molto
flessibile alla dinamica di ogni conversazione, con le specificità sopra riportate. L’obiettivo
dello stile di conduzione è stato quello di favorire le narrazioni, anche di singoli episodi o
esempi puntuali, così da evitare il più possibile le tipizzazioni e le generalizzazioni, che
rappresentano un livello già superiore di costruzione dei significati.
Nel complesso, l’approccio all’intervista è stato quello di preferire un dialogo basato sui
“come” più che sui “perché” delle cose (Becker 2007, pag. 78). La definizione della
situazione, come insegna l’opera di Goffman (1969), rappresenta una negoziazione in cui si
instaurano vincoli, regole, atteggiamenti strutturalmente definiti dal ruolo assunto nella
situazione.
Per questa ragione, lo stile di conduzione e le modalità con cui si pongono le domande
possono incentivare nell’intervistato un ruolo piuttosto che un altro. E, in particolare, un
atteggiamento troppo direttivo e poco aperto alla narrazione libera e all’ascolto può innescare
l’assunzione da parte dell’intervistato di un ruolo eccessivamente difensivo, in grado di
condizionare la qualità delle risposte.
Le interviste sono state successivamente tutte trascritte per intero, utilizzando una simbologia
convenzionale utile a tenere traccia di pause, esitazioni, esclamazioni.
Sono state inoltre annotate, al termine di ogni intervista, delle note relative al contesto in cui
si è svolta, alla situazione ambientale, alle osservazioni relative all’intervistato e al suo stato,
oltre che ad ogni altro dettaglio utile a ricostruire puntualmente la situazione e le
caratteristiche utili a ricostruire il senso da attribuire al testo dell’intervista.
Le interviste sono state accompagnate da un breve diario della campagna di interviste.
147
Entrambi questi elementi sono stati considerati come d’ausilio al lavoro di ricerca e non come
parte integrante della stessa e pertanto non sono stati riportati specificamente nell’analisi dei
dati empirici, ma sono serviti per integrare il dialogo fra teoria e dati della fase di analisi,
secondo i principi esposti nel capitolo precedente circa l’inevitabile riflessività della ricerca
qualitativa.
2.6 La realizzazione delle interviste
Prima fase: le interviste ai ricercatori
Ho potuto realizzare complessivamente 16 interviste presso le principali società del settore.
Rispetto a quanto previsto, sono rimaste escluse solamente un paio di società con sede
nell’ambito romano e un altro paio nell’ambito milanese (ma di importanza minore).
Visti gli obiettivi di ricerca e viste le oggettive difficoltà a svolgere interviste in profondità
con soggetti spesso con poco tempo a disposizione, in alcuni casi è stato necessario
differenziare le interviste all’interno della stessa società, realizzandone una con il principale
ricercatore (responsabile di ricerca), più lunga e maggiormente centrata sulle tecniche, e
un’altra successiva con il titolare della società, ovverosia il front-man che entra direttamente
in contatto con la sfera della politica.
Queste ultime interviste, come era ampiamente ipotizzato, si sono rivelate in molti casi più
brevi e meno fruttuose dal punto di vista delle informazioni raccolte.
Almeno tre di queste, comunque, si sono rivelate particolarmente fruttuose e, da sole, hanno
evidenziato molte opportunità e possibilità di ricerca successive.
Le interviste realizzate sono le seguenti:
NOME ISTITUTO
Fabio Bordignon Demos & Pi
Paolo Feltrin Tolomeo Ricerche
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Maurizio Pessato SWG
Albino Claudio Bosio Eurisko
Paola Merulla
Renato Mannheimer
ISPO
Nando Pagnoncelli IPSOS
Paolo Natale IPSOS
Luigi Tua
Nicola Piepoli
Istituto Piepoli
Alessandro Amadori COESIS Research
Alessandra Ghisleri Euromedia Research
Paolo Guarino Reti
Stefano Draghi Università Milano
Vladi Tomaselli Demetra
Antonio Noto IPR Marketing
Il materiale raccolto da questa prima fase di interviste è stato quantitativamente molto.
Esistono però delle questioni che è giusto sottolineare.
Dal punto di vista del metodo, la conduzione delle interviste si è rilevata tutt’altro che
semplice.
Innanzitutto il fatto stesso di rivolgerle a soggetti non del tutto omologhi ha comportato la
necessità di personalizzare di volta in volta la traccia dell’intervista. Spesso ciò è avvenuto
anche in corsa, durante la stessa intervista, ad esempio per la difficoltà di comprendere a
monte i ruoli dei soggetti intervistati, che spesso risultavano diversi.
Questo ha portato anche ad una difficoltà nella valutazione della traccia di intervista: dovendo
continuamente personalizzarla è risultato infatti molto arduo comprendere se era adeguata
oppure no alle necessità di ricerca.
Nel complesso, comunque, la traccia si è rivelata adeguata, pur con i necessari aggiustamenti.
Nonostante il lavoro preliminare svolto, nella realizzazione delle interviste mi sono imbattuto
ugualmente in alcune barriere di linguaggio, che hanno minato in alcuni momenti e in alcuni
limitati casi, la possibilità dell’instaurarsi di una proficua relazione intervistatore-intervistato.
149
Le difficoltà sottolineate si sono rivelate particolarmente evidenti nelle interviste ai
sondaggisti “di primo piano”.
In questi casi ci si è scontrati con alcune chiusure di principio a certe domande, soprattutto
quelle più interessanti ai fini della ricerca e cioè relative ai diversi retroscena.
Oltre a ciò, la consuetudine di questi soggetti nello svolgere interviste e contatti con il mondo
dei media, li ha resi in grado di costruire (almeno apparentemente) delle strategie
standardizzate di gestione delle interviste, con risposte preparate, frasi fatte, generalizzazioni
varie che hanno minato la capacità dello strumento di ricerca di penetrare oltre una realtà
tipizzata.
Al di là di queste difficoltà (e di quelle materiali per realizzare le interviste) il materiale
raccolto è stato quantitativamente e qualitativamente molto buono e adeguato agli obiettivi
assegnati a questa prima fase del disegno della ricerca.
Seconda fase: le interviste ai decisori
Nell’abito di numerose trasferte, in gran parte a Roma, e dell’insieme di difficoltà di cui si è
dato conto precedentemente, durante la realizzazione della seconda fase sono state svolte
complessivamente 13 interviste a decisori politici.
Questo è l’elenco delle interviste svolte.
NOME PARTITO
Maurizio Fistarol DL-PD
Alberto Losacco DL-PD
Vinicio Peluffo DS-PD
Lorenza Bonaccorsi DL-PD
Francesco Verducci DS-PD
Giulio Santagata Governo Prodi-PD
Gianni Cuperlo DS-PD
Silvio Sircana Governo Prodi-PD
Paolo Messa UDC
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Roberto Rao UDC
Andrea Augello AN-PDL
Andrea Orsini FI-PDL
Antonio Palmieri FI-PDL
I decisori intervistati sono stati scelti sulla base del ruolo da loro ricoperto all’interno delle
organizzazioni politiche, secondo la strategia di campionamento sopra illustrata.
Nel complesso sono stati rispettati tutti i principi esposti per la procedura di campionamento,
relativamente alla numerosità del campione e alla rappresentatività delle diverse culture
politiche e tipi di attività.
La fase delle interviste ai ricercatori aveva fatto emergere l’opportunità di concentrare
l’attenzione non tanto direttamente sui decisori, quanto sugli appartenenti ai loro staff,
particolarmente quei collaboratori diretti che per consuetudine hanno proprio il compito di
gestire per conto dei loro leader o assieme a loro i rapporti con le ricerche socio-politiche.
La scelta si è rivelata corretta.
Il campione individuato si è dimostrato innanzitutto più facilmente contattabile.
La difficoltà nel concordare le interviste e nell’accedere al campo è rimasta molto elevata, per
numerose ragioni. Ma nel complesso l’accesso al campo è quasi sempre stato possibile, anche
se con forme e gradi differenti, di cui è stato dato conto nell’analisi delle interviste.
L’attenzione ai collaboratori ha inoltre permesso di condurre interviste migliori.
Innanzitutto dal punto di vista della quantità delle informazioni, visto che gli intervistati si
sono rivelati più disponibili alla narrazione, in certi casi anche prolungata.
In secondo luogo, per la qualità dei resoconti, che hanno risentito meno di generalizzazioni e
tipizzazioni non volute, ma anche e soprattutto di schermature consapevoli, che spesso invece
i decisori utilizzano – vista anche la loro consuetudine ai rapporti con la stampa – per
difendere il proprio operato.
Tutti gli intervistati hanno, in forme diverse, ricoperto ruoli con funzioni principalmente di
comunicazione o legate all’organizzazione e alla gestione delle campagne elettorali.
Ogni organizzazione ha una sua modalità diversa di assegnare le diverse funzioni ai suoi
membri, ma è invece unanime e condivisa la soluzione di affidare a chi si occupa di
151
comunicazione anche la gestione delle ricerche socio-politiche, a conferma della
considerazione di rilevanza delle stesse in termini di consenso politico.
Occorre sottolineare un punto.
In numerosi casi gli intervistati hanno svolto lo stesso compito in organizzazioni che è bene
considerare diverse. Pur rimanendo generalmente all’interno della stessa cultura politica,
infatti, si sono rivelati frequenti i casi in cui una stessa persona abbia svolto compiti di
comunicazione legati al partito, ma anche compiti in comitati elettorali, per elezioni
nazionali, ma anche locali di un certo rilievo. Alcuni partiti, inoltre, hanno apportato nel
tempo modifiche anche rilevanti della propria struttura, con la conseguenza che anche
l’azione dei titolari delle funzioni di comunicazione ha seguito il cambiamento, entrando così
in organizzazioni che, pur mantenendo invariato il proprio nome, si presentavano come
strutturalmente diverse.
È tipico il caso di Forza Italia, la cui strutturazione è molto cambiata nel corso della sua storia
– come documentato da Poli (2001) – tanto che, in fase di analisi delle interviste, è stato
necessario tenere conto delle modifiche di questo contesto, considerando le varie fasi
organizzative come modelli a sé stanti.
I brani relativi alle diverse attività svolte dallo stesso soggetto sono stati ovviamente
analizzati tenendo conto della posizione ricoperta nel momento dell’azione narrata.
Un’ulteriore specificazione riguarda le campagne elettorali per le elezioni politiche.
Pur con differenze, anche in questo caso sono frequenti cambiamenti notevoli delle
organizzazioni partitiche, che possono decidere di strutturarsi in maniera del tutto differente
per affrontare la campagna elettorale. Anche in questo caso, i resoconti dello stesso
intervistato sono stati necessariamente riferiti a modelli organizzativi differenti.
Infine, un’ulteriore casistica è rappresentata dalle fusioni di partiti, che hanno interessato il
contesto politico nazionale negli ultimi mesi.
La nascita del Partito Democratico e del partito del Popolo della Libertà ha infatti condotto a
modificazioni delle strutture, più o meno pronunciate e/o compiute.
Se, infatti, nel caso del PDL il processo è agli inizi, tanto che le strutture dei partiti di origine
non sono state ancora sostanzialmente modificate, il caso del PD è differente, tanto da portare
al lento, ma sostanziale, spegnimento delle organizzazioni di origine, che – soprattutto per
quanto riguarda le funzioni che interessano a questa ricerca, e cioè quelle legate alla
leadership, alla comunicazione e alla organizzazione – hanno visto il progressivo
152
inserimento di parte del personale dei partiti di origine in una nuova struttura,
autonomamente determinata.
Gli aspetti sopra ricordati hanno conseguenze pratiche per la metodologia di analisi delle
interviste e per il trattamento dell’informazione in esse contenuta.
2.7 Analisi dei dati empirici
L’analisi dei materiali è stata svolta applicando un’analisi del contenuto8 adattata alle
specifiche esigenze, mantenendo dunque la centralità delle scelte autonome, ragionate e
motivate del ricercatore, diretta conseguenza della distinzione fra tecnica e metodo (Tuzzi
2003, pag. 19; Marradi 1996).
L’analisi delle interviste ha seguito l’ordine e la logica di realizzazione.
Si è partiti prima dal corpus di interviste ai ricercatori, dalle quali si sono presi gli spunti sia
per la realizzazione che per l’analisi delle interviste ai decisori, secondo quanto stabilito nel
disegno della ricerca.
Coerentemente con il disegno della ricerca e con il modello di intervista adottati, non sono
stati usati metodi statistici.
Si è preferito invece concentrare l’attenzione su un’analisi qualitativa e soggettiva dei
materiali, più adatta a essere integrata con le informazioni non-verbali provenienti dal
contesto.
L’analisi qualitativa inoltre ha permesso di ricostruire con maggiore profondità non solo le
retoriche linguistiche, ma anche le rappresentazioni (soggettive e intersoggettive), oltre che il
senso attribuito dai decisori alle narrazioni e alle rappresentazioni delle pratiche d’uso delle
ricerche.
Laddove era possibile individuare, dal confronto con le interviste, una gamma ampia di
modalità relative a una singola pratica o ad una rappresentazione o, ancora, ad un giudizio,
nell’analisi si è utilizzata la logica della strutturazione ex-post (Tuzzi 2003, pag 49).
In questo modo, analizzando gli stralci delle interviste secondo una griglia di posizioni, si è
potuto restituire la gamma di possibili modalità in cui i singoli intervistati si possono
posizionare secondo la variabile individuata.
8 Per una ricognizione sui concetti base dell’analisi del contenuto, si può fare riferimento ai seguenti testi:Tuzzi (2003), Losito (1992), Berelson, Lazarsfeld (1948), Krippendorff (1983), De Lillo (1971)
153
In ogni caso, si è ritenuto che la ricerca avesse specifiche finalità proprie, da salvaguardare
anche nell’applicazione dei metodi. Oltre a questo, non rientrava fra gli obiettivi della ricerca
quello di individuare la distribuzione quantitativa delle diverse modalità, ma piuttosto una
loro descrizione approfondita.
Per queste ragioni, la strutturazione ex-post è stata utilizzata solo come approccio generale di
analisi del contenuto, come logica e metodo di individuazione delle categorie, senza
un’applicazione compiuta e precisa di tutti i passaggi.
Il modello utilizzato per l’analisi delle interviste ha preso inizio da un’approfondita lettura
dell’intero corpus delle interviste realizzate.
Le informazioni sono state raccolte e organizzate secondo i seguenti obiettivi.
Innanzitutto si è ritenuto importante estrapolare non solo le affermazioni espresse, ma anche
quelle che il ricercatore ha potuto intuire indipendentemente dai testi, integrando i discorsi
con le valutazioni sulle espressioni non-verbali, sul contesto situazionale, sulle retoriche,
secondo la distinzione fra intentio autoris e intentio operis (Cardano 2003, pag. 94).
La ricostruzione analitica, le concettualizzazioni introdotte, le tipologie individuate, i
confronti sono stati estrapolati tenendo presente i seguenti obiettivi generali:
- descrivere le pratiche d’uso delle ricerche socio-politiche;
- illustrare il senso attribuito dagli attori a queste pratiche, in relazione alle varie
categorie dell’organizzazione;
- individuare le rappresentazioni intersoggettive e sociali, le varietà di
comportamenti e di posizioni, le loro interrelazioni;
- interpretare le retoriche con cui gli elementi precedenti sono espressi;
- mantenere un’attenzione costante ai paragoni possibili sia fra ricercatori e decisori,
sia fra le diverse categorie di decisori;
- inserire i risultati nei diversi frames individuati dalle prospettive teoriche adottate,
per integrarle, confermarle/smentirle, proporre aggiustamenti o miglioramenti.
Tutti questi obiettivi sono stati perseguiti parallelamente a numerose e ripetute letture
complete delle interviste e al lavoro di analisi.
Per facilitare i raffronti, le tipologie, le ricostruzioni e le concettualizzazioni, dove è stato
possibile i testi delle singole interviste sono stati suddivisi a seconda delle tematiche
affrontate (tematiche sia emergenti dai testi stessi, sia indotte dalla letteratura
154
sull’argomento). I singoli brani sono stati poi riaggregati per temi omogenei, in modo tale da
rendere più immediata l’individuazione delle relazioni fra i singoli brani.
Le suddivisioni tematiche sono servite per individuare i nuclei in cui poi si è articolata
l’analisi e la stessa suddivisione in paragrafi e capitoli (sebbene quest’ultima non ricalchi
fedelmente le aree tematiche, per via di successive riorganizzazioni).
I singoli ambiti sono stati riaggregati per aree omogenee, rendendo possibile ulteriori raffronti
nonché una visione complessiva utile a tirare delle conclusioni più generali, secondo un
approccio capace di creare un “dialogo ricco” fra dati e concetti (Becker 2007, pag. 88).
Tenendo conto della distinzione introdotta da Cardano (2003, pag. 100) fra procedure di
analisi del contenuto di tipo informale o formalizzata, in questa ricerca si è ritenuto che una
procedura informale fosse più adatta agli obiettivi conoscitivi e al disegno complessivo della
ricerca.
La procedura informale consente al ricercatore maggiore libertà nell’analisi, ma anche
maggiori rischi relativamente alla solidità e alla imparzialità delle interpretazioni. Posto che
tutte le interpretazioni, come tali, non possono aspirare a significati oggettivi (con le
specificazioni ricordate nel capitolo precedente), le procedure formalizzate pongono vincoli e
condizioni più precisi, nei quali dunque l’arbitrarietà può risultare più motivata.
Per evitare questo rischio, l’applicazione delle procedure informali è stata accompagnata da
un constante riflessione sulla natura delle interpretazioni, sulla loro soggettività, sulla solidità
delle eventuali possibilità di generalizzazione.
Posta l’assoluta relatività di ogni conoscenza sociale, non v’è dubbio che una puntuale e
continua rendicontazione delle modalità con cui “so quello che so”, cioè delle condizioni e
delle basi dell’interpretazione e delle conoscenze, permette di dare alle procedure informali
maggiore validità metodologica (Cardano 2003, pag. 100).
Durante l’analisi – solo in alcuni casi puntuali, e dove il passaggio sarebbe potuto essere di
particolare importanza – sono state individuate, relativamente alle modalità di espressione di
una certa posizione su un tema, un approccio o una rappresentazione, delle tipologie in cui le
diverse modalità sono state ricondotte a dei tipi-ideali secondo la visione weberiana (Weber
1958, pag 108).
Nella ricerca qualitativa, infatti, l’individuazione di alcuni tipi-ideali rappresenta uno dei
massimi contributi di possibile generalizzazione (Corbetta 2006, pag. 69).
Questi limitati tipi-ideali sono stati utilizzati solo per esprimere le posizioni relativamente a
questioni non puntuali, ma di importanza tale da condizionare l’insieme dell’analisi.
155
Riportando ogni intervista alle varie posizioni idealtipiche, è stato possibile ottenere delle
macro-tipologie caratterizzanti per intero la posizione degli intervistati, così da essere riprese
anche come distinzioni fondanti di fasi successive dell’analisi, al fine di individuare eventuali
regolarità e relazioni significative.
157
CAP. 1
I RICERCATORI: LA GAMMA DELLE RICERCHE
1.1 Introduzione
Ricostruire le pratiche di utilizzo della ricerca socio-politica e le attribuzioni di senso ad esse
collegate significa cercare di penetrare nel retroscena della decisione politica.
Un retroscena particolare, visto che, nel tempo della professionalizzazione della politica, gli
attori presenti non sono solo i decisori politici in senso stretto.
Per quanto riguarda l’uso delle ricerche, infatti, il campo della politica entra in relazione con
la comunità professionale dei ricercatori professionisti. E individualmente, ogni decisore
politico che si rapporta con ricerche socio-politiche entra in una particolare relazione con il
fornitore di questi strumenti.
Per questa ragione, si è pensato fin dall’inizio che la comunità dei ricercatori professionisti
potesse offrire elementi importanti per comprendere meglio alcune risposte alle domande che
muovono questa ricerca.
Si è dunque dato vita a una campagna di interviste ai ricercatori che lavorano con la politica,
utilizzando questi ultimi come testimoni privilegiati rispetto all’oggetto di studi.
I risultati, in effetti, sono stati significativi e di grande utilità, sia nel condurre con maggiore
consapevolezza la ricerca sui decisori, sia nel mettere a confronto le rappresentazioni emerse
dalle due differenti comunità.
I risultati delle interviste ai ricercatori, sono stati suddivisi in due capitoli.
In questo, ho riportato ciò che è emerso dalle interviste per quanto riguarda il tema della
gamma delle ricerche utilizzate dalla politica.
1.2 L’approccio al tema
Ho ritenuto importante partire dalle considerazioni generali svolte dai ricercatori
nell’approcciarsi al tema loro proposto, cioè la ricerca a servizio della politica.
158
Isolare le rappresentazioni dell’approccio al tema è significativo, in quanto esse
rappresentano l’elemento principale della strutturazione concettuale e dell’affermarsi di
determinate visioni relative ai problemi posti da questa ricerca.
Dalle interviste emergono sostanzialmente tre punti di vista.
La maggior parte dei ricercatori inizia a raccontare la propria visione prendendo spunto dalle
soluzioni tecniche, evidenziando così fiducia piena nelle possibilità offerte alla politica dalle
ricerche demoscopiche, che sono continuamente migliorabili tecnicamente e
metodologicamente. Ho raggruppato questi ricercatori nella categoria degli integrati (citando
così la nota distinzione apocalittici/integrati proposta da Umberto Eco per il campo, diverso,
degli effetti dei media).
Il secondo approccio è invece differente, ed ho voluto chiamarlo critico. In questa categoria
sono state inserite le visioni di quei ricercatori che esprimono una loro personale (e non
stimolata) preoccupazione prioritaria sui limiti intrinsechi alle ricerche socio-politiche.
Esiste poi un terzo gruppo di ricercatori, che si distingue per una visione non più
prioritariamente orientata alle problematiche interne al loro campo disciplinare e, in
particolare, al posizionarsi nel campo aperto delle questioni epistemologiche e
metodologiche. Per questi ricercatori, la questione fondamentale da affrontare nell’occuparsi
del ruolo (potenziale o reale che sia) delle ricerche socio-politiche riguarda la committenza, il
mercato.
Quello della committenza è ovviamente un tema affrontato da tutte le interviste, vista la
finalità con cui esse sono state pensate: dalle culture e pratiche d’uso, agli obiettivi
conoscitivi, ai processi di decision making. Ma in questo caso, la relazione critica con la
committenza diventa l’elemento principale che struttura il campo concettuale della
rappresentazione offerta dagli intervistati, assurgendo dunque ad un ruolo diverso e più
determinante.
Ho chiamato questa categoria di ricercatori rassegnati, evidenziando così il sentimento di
delusione che pervade questa rappresentazioni, che considerano il campo italiano immaturo e
lontano dalle pratiche europee.
Vediamo nel dettaglio le diverse posizioni.
159
La prima posizione, quella integrata, è di gran lunga maggioritaria e rappresenta
l’atteggiamento abituale con cui la comunità dei ricercatori si approccia al tema delle
relazioni con il campo della politica.
L’enfasi infatti è sempre sui ragionamenti metodologici o tecnici, molto più raramente sulle
possibilità di conoscenza, sui limiti epistemologici, sul senso attribuito a queste pratiche.
Voglio introdurre questa posizione con il brano seguente9.
«Diciamo intanto che c’è una ricerca sulla ricerca. Siamo in una fase di grande
ricerca sugli strumenti le metodologie e l’uso. Secondo me dalle ultime
elezioni, dallo scoppolone delle ultime elezioni, che ha generato un dubbio.
Indipendentemente dal fatto se abbiamo operato bene o male, ma questi
strumenti sono ancora utilizzabili fra dieci anni, sono queste le categorie che
contano, sono questi i modi di formazione del consenso?… e così via.
… Il problema, come dicevamo, poiché sta cambiando il comportamento
dell’elettore, dobbiamo utilizzare nuovi strumenti.»
L’interesse è sul prodotto, sul suo continuo miglioramento e affinamento.
La fiducia nel ruolo delle ricerche, nella loro importanza per la politica attuale come sostegno
alla lettura del campo competitivo e alla decisione politica non viene meno.
Purché sia continua l’attività di sviluppo e miglioramento dei prodotti, dalla quale
esclusivamente dipende il ruolo delle ricerche nella politica.
«…penso che, quello che noi cerchiamo di fare con l’applicazione di queste
nuove metodologie, e con lo studio della nuova metodologia, sia quello di,
sempre più entrare nell’intimo quindi cercare di scoprire quelli che sono, non
solo le sensazioni, ma anche i moti che ti portano a determinate decisioni,
9 Come esplicitato nella parte metodologica, per omogeneità tutte le interviste sono riportate in forma coperta,senza l’attribuzione dei brani all’intervistato. Per quanto riguarda i ricercatori, poiché non vi sono sub-campionio differenziazioni particolari fra gli intervistati di cui tenere conto, i brani sono riportati senza alcunaindicazione sulle caratteristiche dell’intervistato. Per quanto riguarda i decisori, invece, considerandol’esistenza di differenziazioni potenzialmente significative (come esplicitato nella parte metodologica) i branisono accompagnati da una breve descrizione delle principali caratteristiche dell’intervistato: posizionamentopolitico (centro-destra, centro-sinistra, leghe, centro) e tipo di attività svolta (funzionario di partito, staffistituzionale, attore locale).
160
quindi lo studio è anche su singoli soggetti, cioè ci sono delle metodologie che
analizzano solamente pochissime persone, ma le studiano»
Il brano riportato rende con evidenza la fiducia nelle possibilità date dagli strumenti di
ricerca. E non si può dire che questa sia una posizione contraria ad altre. La fiducia negli
strumenti e nelle loro possibilità è ovviamente ampiamente diffusa nella comunità
professionale dei ricercatori e presente in tutte le interviste.
Ciò che semmai è diverso è che per gli integrati questa fiducia è molto più salda e non
scalfita da problematiche di natura epistemologica e relative alle conoscenze acquisibili
tramite la ricerca socio-politiche. Per questi ricercatori, inoltre, il miglioramento di metodi e
tecniche è la problematica che dà forma alla loro lettura del tema, diventa il principale
strumento per categorizzare la realtà e orientarsi nel campo.
Tanto che emerge con forza e fin dall’inizio l’atteggiamento con cui ci si deve rivolgere al
tema: quello della “ricerca sulla ricerca”, cioè una continua attività esploratrice di nuove
possibilità di lettura della realtà.
Gli integrati sono dunque i più accesi sostenitori della bontà dei sondaggi e degli altri
strumenti di ricerca, tanto che arrivano a spingersi ad una fiducia sulla loro “scientificità”.
«… assolutamente sono strumenti scientifici. Come tutti gli strumenti
scientifici sono assolutamente probabili. Anche la medicina è probabile, no? Se
io le do l’aspirina, non è detto che le passi il mal di testa. Come tutti gli
strumenti scientifici hanno sempre bisogno di fare ricerca su loro stessi. Sono
sicuramente strumenti scientifici, ma essere strumenti scientifici non vuol dire
essere infallibili.»
È un brano emblematico dell’atteggiamento complessivo.
Il paragone con la medicina sembra molto calzante nel restituire le caratteristiche della
rappresentazione sociale offerta da questo gruppo.
Le riflessioni sulla “scientificità” entrano in conflitto con le numerose vie della costruzione
sociale delle realtà e delle conoscenze, che abbiamo cercato di sviluppare nella prima parte.
Una posizione così netta e diffusa rappresenta dunque un segno distintivo e strutturante della
cultura condivisa dalla comunità professionale dei ricercatori, sulla cui base è costruita
161
l’intera impalcatura che regge la funzione di consulenza dei professionisti nei confronti della
politica, che passa ovviamente dalla affidabilità (attuale o potenziale) degli strumenti che
hanno a disposizione.
La seconda categoria è di gran lunga meno rappresentata, e coincide in sostanza con un solo
caso delle nostre interviste.
L’argomentazione, però, merita attenzione e cura sia nell’esposizione che nell’analisi. Essa
infatti sembra la più in linea con un’idea costruttivista della realtà e dell’approccio al tema.
Riferita alle ricerche socio-politiche e al loro ruolo, l’argomentazione critica si concentra
soprattutto sui limiti di questi strumenti: ma non quei limiti dettati dalle tecniche, e dunque
potenzialmente migliorabili, bensì quelle mancanze di tipo fondativo (metodologico o
epistemologico) che si presentano come intrinsecamente legate alle stesse caratteristiche
costitutive dei mezzi di ricerca, e dunque necessariamente ineliminabili.
«Noi ci, ci comportiamo come se tutti questi problemi in genere non
esistessero, si comportano come se tutti questi problemi non esistessero quelli
che invocano una forma di ricerca con la R maiuscola. La ricerca è
intrinsecamente fragile e approssimativa, secondo me, … cioè da un punto di
vista epistemologico. »
Un’argomentazione assai in linea con l’approccio teorico scelto per questa ricerca e messo in
luce nella prima parte. Ancor più apprezzabile perché in controtendenza rispetto al
mainstream di approccio alla ricerca socio-politica.
Vediamo di ricostruire l’argomentazione nella sua interezza.
In primo luogo, l’argomentazione critica mette in evidenza come nel dibattito pubblico e in
quello scientifico non vi sia la necessaria chiarezza nell’affrontare le problematiche.
«Però, io partirei da questa cosa qui che forse è un po’ preliminare ... di
problemi di questo tipo di ricerca ce ne sono tanti… ce ne sono tanti ... E ... a
questi problemi se ne aggiunge uno derivante dalla tendenza a confondere i
piani dei problemi. …Allora, a me verrebbe da dire che questo mio primo
162
avvertimento … quello di tener ben distinti i piani, perché di problemi ce ne
sono tanti e se mescoliamo i problemi è il modo migliore per non risolverli. »
La “confusione fra i piani” è riferita a quel guazzabuglio di informazioni che spesso si
accompagnano alla discussione pubblica, particolarmente sui sondaggi: critiche
all’accuratezza delle stime, uso strumentale a fini di comunicazione, presunti o reali rischi
democratici, interventi legislativi più o meno riusciti, dibattito sulle tecniche e i loro utilizzi.
Ciò che spesso si nasconde sotto le mentite spoglie di questi ragionamenti, infatti, è il ben più
sostanziale problema epistemologico delle possibilità conoscitive. La confusione aiuta a
nascondere questo tema, che in effetti è tanto importante quanto purtroppo poco considerato.
Quando invece, le argomentazioni teoriche introdotte nella prima parte ne hanno dimostrato
l’assoluta centralità nell’affrontare un tema come quello oggetto di questa ricerca.
Segue l’elencazione di alcuni esempi di questi limiti alle possibilità conoscitive che non
vengono adeguatamente considerati.
«… il concetto di stima indica un’approssimazione probabilistica … insomma
se io arrivo, se io stimo 49 e poi sono 51,1 o 48,9 per me va benissimo, ma per
un politico non va affatto bene, perché significa perdita. … Qui invece il tema
dell’approssimazione rispetto al tema della certezza diventa drammatico, tanto
più»
Quello relativo al concetto di “stima”, ad esempio, è molto interessante, in quanto, in questo
caso, il limite conoscitivo non adeguatamente considerato non è relativo a caratteristiche
intrinseche degli strumenti di ricerca, ma alla relazione di questi con le aspettative e le
logiche dei decisori. Le conseguenze dell’approssimazione infatti sono ben diverse fra ricerca
di mercato e mondo della politica: in quest’ultimo, la “vittoria” normalmente significa
“prendere tutto”, cioè la possibilità di governare o meno, cosa che non avviene nel campo del
mercato.
Di conseguenza, nella politica l’approssimazione delle stime diventa via via più decisiva nel
dare senso al dato offerto dalle ricerche man mano che ci si avvicina a situazioni equilibrate
del contesto competitivo. In contesti molto bilanciati, la possibilità delle ricerche di offrire
risposte ai bisogni e alle aspettative della politica si riduce drammaticamente. E le culture
163
d’uso faticano a comprendere questo aspetto, che rappresenta un limite di grande importanza
nella politica moderna, sempre più segnata da competizioni maggioritarie, bipolari tendenti
ad un certo bilanciamento ed equilibrio.
«….Allora qui c’è già una situazione molto paradossale: faccio un sondaggio
per sapere qualcosa ed è intrinsecamente frustrante il risultato cautelativo che
mi dice che la cosa che vuoi sapere non si può sapere ... »
Un secondo problema fondativo sollevato chiama in causa il noto problema metodologico dei
non-respondent, cioè di quella quota di intervistati che, principalmente in sondaggi telefonici,
non risponde all’intervista.
Si tratta di un tema ampiamente affrontato nella ricerca scientifica, come è stato evidenziato
nella prima parte, anche se senza che si sia arrivati ad una diffusione ampia,
all’individuazione di possibilità di superamento, ma soprattutto a una piena accettazione delle
conseguenze.
Nell’argomentazione critica, quello dei non-respondent assurge a simbolo di tutta quella
concettualizzazione che diamo per scontata quando ci approcciamo alle ricerche socio-
politiche. Rimettendo dunque in gioco molte delle osservazioni sulla costruzione sociale del
concetto che abbiamo fatto nostre nella prima parte.
«… È che noi quando facciamo ricerca, soprattutto la ricerca quantitativa
abbiamo assunti forti, tanto più impliciti quanto forti, e che è rivelato proprio
dai non-rispondenti… noi assumiamo che i campioni siano estratti da …,
quindi con un movimento attivo passivo.
… Non succede niente di tutto questo. L’estrazione è una negoziazione fra due
volontà, quindi fra due decisori che attraverso alcune strategie si ingaggiano,
decidono di ingaggiarsi, decidono di non ingaggiarsi, sarebbe come che la
pallina dell’urna si mettesse a dire qualcosa sul fatto di volere o non volere
essere estratta»
Coloro che non rispondono possono avere una volontà precisa, cosa che le palline di un’urna
non hanno. L’operazione che normalmente viene fatta dai produttori di sondaggi non tiene
164
conto di questa semplice constatazione e si limita a sostituire all’infinito dei nuovi
rispondenti.
Ma in questo modo, noi non potremo mai sapere se i non-rispondenti presentano
caratteristiche statisticamente significative, cioè in qualche modo correlate al loro essere non-
rispondenti. Ed è proprio quello che avviene, basti pensare alla diversa propensione a
rispondere da parte di chi ha un certo atteggiamento nei confronti della politica, o del tema
oggetto di ricerca o del committente.
La ricerca (e il campo della decisione politica, ovviamente) non tiene conto di queste
propensioni alla non risposta. Che è la ragione per cui, ogni tanto, avvengono quei fenomeni
chiamati “maggioranza silenziosa”, in cui la previsione dei sondaggi viene ribaltata
inaspettatamente dall’esito elettorale.
Ma soprattutto, nello stesso dibattito scientifico, nonostante la questione sia nota, esso pare
non essere stato del tutto interiorizzato, particolarmente da parte della visione mainstream, né
è stato adeguatamente diffuso presso gli utilizzatori, non realizzando così la necessaria
integrazione nella cultura d’uso dei sondaggi. Infatti le pratiche d’uso sembrano non tenere
conto di questo vizio ineliminabile (allo stato attuale) e utilizzano gli strumenti
semplicemente non considerando questi vizi fondativi.
Un terzo problema evidenziato è quello dei contesti differenti in cui gli intervistati si trovano,
che possono portare a risultati differenti dai comportamenti reali.
«Un altro problema riguarda la relazione fra contesti. Mi spiego …. Noi
facciamo delle cose immaginando una sorta di stabilità, omogeneità di
orientamento delle persone. Assumiamo implicitamente che se io vado a
chiedere qualcosa, la persona mi risponde come se fosse in una cabina
elettorale pronta a votare.
Non è assolutamente vera la stabilità dei contesti!… Il problema è che se faccio
delle domande, faccio delle domande, no? Se faccio, se vado a votare, vado a
votare… sono due comportamenti diversi, che presentano delle similarità ma
non, non necessariamente una corrispondenza biunivoca.
… Sono maggiori nelle previsioni, perché l’ancoraggio a queste cose qui, non
è… non c’è nemmeno un set, un contesto tecnico di realtà…»
165
La posizione critica è particolarmente interessante anche per come si rapporta al problema
successivo, cioè quello di come vengono utilizzati dai decisori politici questi strumenti.
Se ne parla con più approfondimento successivamente, ma è possibile già anticipare alcuni
punti.
La necessità di considerare con più attenzione le possibilità cognitive degli strumenti di
ricerca è un punto fondamentale della critica mossa ai decisori, i quali sarebbero depositari di
una cultura d’uso che non tiene conto di questi aspetti. Con la conseguenza inevitabile che le
pratiche d’utilizzo ne risultano intaccate nella loro efficacia e correttezza procedurale.
«invece secondo me questo è un tema importante, perché poi si tratta di far
cultura su questa roba qui… cioè come interfacciare, creare cultura o
comunque creare un orientamento all’uso di uno strumento che è
intrinsecamente approssimativo. »
La terza posizione mette al centro della questione il tema dell’inadeguatezza del mercato.
Sia le problematiche sui limiti conoscitivi sia un approccio più fiducioso sulla possibilità di
risolvere le difficoltà tecniche e metodologiche passano in secondo piano.
La questione principale da porre per comprendere il funzionamento e il ruolo delle ricerche
nella politica diventa il modo in cui il mercato condiziona ogni possibilità di utilizzo delle
ricerche.
«….questo mercato è un mercato finto, è un mercato virtuale, un mercato
mediatico ed è un piccolissimo mercato …piccolissimo mercato
prevalentemente di Berlusconi, non a caso ha ottenuto i risultati che ha ottenuto
perché lui li ha fatti seriamente pagando realmente subito… Quindi il punto è
questo, ci vorrebbero degli strumenti più sofisticati, prevalentemente tracking a
interviste spalmate e continuative e il noto utilizzo di modelli di post-
elaborazione, meta-analisi, quello che usano i medici, anche i sociologi …
invece la logica è: il sondaggio spot, magari ne faccio anche 4 o 5 ma faccio
1000 casi oggi, poi altri 1000 casi fra 10 giorni»
È innanzitutto un problema di domanda. I committenti non dispongono di quelle
caratteristiche necessarie per il corretto funzionamento del rapporto di consulenza. Non
166
hanno la competenza circa i prodotti esistenti, le loro caratteristiche e le loro possibilità. Non
mettono a disposizione le risorse necessarie per prodotti maggiormente in grado di offrire
risultati utili all’attività politica.
Con la sola eccezione di Silvio Berlusconi.
Secondo questa posizione, la logica che si è affermata è quella semplificatoria e sterile del
singolo sondaggio d’opinione.
Essa non tiene conto dei limiti di questa possibilità, né della necessità di imporre un metodo
di lettura di questi dati più consono alle possibilità conoscitiva, né delle potenzialità di altri
strumenti. Con la conseguenza che l’imporsi del singolo sondaggio d’opinione si sviluppa
quasi come un passaggio rituale, non risponde realmente alle finalità per le quali
esplicitamente viene commissionato e, in ultima analisi, incancrenisce gli stessi istituti di
ricerca mortificandone le possibilità di sviluppo.
Ma è anche un problema di natura strutturale.
«non ci sono più grandi istituti, sono comprati all’estero, Pagnoncelli lavora per
una filiale italiana di una multinazionale all’estero, questo è il concetto, è
questo il fatto, non c’è più un centro di pensiero non c’è un collegamento
università-istituto, non c’è. »
I ricercatori italiani infatti si muovono in un mercato della ricerca che non è riuscito a
svilupparsi e a rendersi autonomo.
Gli istituti sono spesso sottodimensionati e perciò impossibilitati spesso a raggiungere la
massa critica necessaria allo sviluppo efficace di nuovi prodotti più complessi e articolati.
Inoltre, i più grossi istituti sono tutti di proprietà internazionale. Nonostante il personale sia
italiano, la standardizzazione interna dei prodotti è considerata meno influenzata dalle
precipue caratteristiche del contesto italiano, con una conseguente minore capacità di
un’offerta di strumenti realmente vicini alle particolarità della politica italiana.
In questa argomentazione sono da segnalare quantomeno altri due aspetti.
Il primo è il riferimento esplicito alle ricerche di mercato, visto come pietra di paragone circa
le possibilità offerte dai prodotti di ricerca e dei modi di utilizzo da parte della domanda. Nel
167
caso delle ricerche di mercato, a differenza di quelle politiche, esiste una domanda
effettivamente capace (per risorse e per culture d’uso) di chiedere ai ricercatori prodotti più
complessi e, secondo questa posizione, più capaci di fornire elementi utili. Ed è un paragone
significativo, in quanto mette in luce due aspetti di cui è necessario tenere conto se si vuole
comprendere pienamente il tema delle ricerche nella politica. Il primo è che questo paragone
mette in luce una delle origini “culturali” del fenomeno delle ricerche nella politica, e cioè il
loro stretto legame con il marketing e con le pratiche tipiche di quel mondo, dal quale
derivano l’impostazione e perfino i prodotti.
Il secondo è che questo legame storico, questa “radice culturale” è in realtà una presenza
attuale. Tutti i principali istituti continuano infatti a lavorare non solo con la politica, ma
anche con il mercato, che in realtà ne rappresenta la maggior voce di fatturato. Lo scambio di
saperi, pratiche, logiche e culture fra i due mondi è indirettamente considerato un potenziale
valore aggiunto per le possibilità degli istituti di offrire alla politica i loro servizi, i quali
consapevolmente passano da un campo all’altro mantenendo tecniche e prodotti, ma anche e
soprattutto codici di lettura, chiavi interpretative, categorie.
1.3 Rappresentazione della gamma delle ricerche
Un punto interessante è la rappresentazione offerta della gamma di ricerche utilizzate dalla
politica o, più in generale, offerte dalla comunità dei ricercatori.
Non ho ritenuto interessante una semplice elencazione dei vari strumenti di ricerca messi a
disposizione dagli istituti. Si è cercato piuttosto di fare emergere rappresentazioni, narrazioni,
giudizi relativi a questi strumenti, utili poi per la costruzione delle interviste ai decisori e per
un paragone fra le risposte dei due gruppi di intervistati.
Si è posta dunque particolare attenzione alle modalità di categorizzazione, alle descrizioni e
alle questioni che emergono dalle interviste.
Partendo dalle categorizzazioni, sono state evidenziate quattro diverse modalità di dare una
rappresentazione più semplificata e comprensibile dell’universo delle ricerche.
168
La prima posizione è la più diffusa e presenta non una vera e propria categorizzazione
teoricamente ragionata, ma una semplice separazione “di fatto” fra il sondaggio e le altre
ricerche.
«Si, ma il mercato è fondamentalmente quantitativo…Il 90% è quantitativo, il
classico sondaggio quantitativo, il classico.»
Essa è importante perché conferma l’assoluta preponderanza del sondaggio telefonico quale
forma di ricerca demoscopica applicata alla politica. Così preponderante da diventare
categoria a sé, attorno alla quale si dispiegano gli altri strumenti, in ragione della loro
capacità di differenziarsi dal sondaggio.
La seconda distingue fra ricerche quantitative e qualitative, prendendo come riferimento
categorie metodologiche astratte più che la prassi sviluppatasi nel mercato.
«…tendenzialmente suddividendo qualitativo e quantitativo…In campo
quantitativo c’abbiamo il (…) o le ricerche telefoniche, che la fanno da
padrone. Poi sono un po’ meno utilizzati le interviste in profondità, cioè face-
to-face, in particolare adesso le stanno facendo spesso… cioè quando le fanno
le fanno spesso, per testare i simboli, la riconoscibilità dei simboli, di un
simbolo piuttosto che un altro…»
È una concettualizzazione che risente della cultura organizzativa del campo dei ricercatori,
della loro formazione.
Anche questa categorizzazione è molto diffusa. Anche laddove non compare per prima, essa
emerge in seconda battuta, con una notevole capacità di strutturare il campo concettuale.
D’altro canto, a differenza delle altre, rappresenta senz’altro la suddivisione più presente nel
dibattito scientifico e nei percorsi formativi in cui si abbevera la stessa comunità
professionale dei ricercatori.
La terza è più centrata sulle finalità e distingue fra ricerche tattiche e strategiche, a seconda
appunta degli scopi attribuiti, dell’effettiva utilità per il campo della politica, delle pratiche
d’uso, potenziali o reali che siano.
169
«Allora, partiamo con la prima grande ripartizione: le ricerche tattiche e le
ricerche strategiche. E’ chiaro che le ricerche strategiche, questo avviene anche
con le aziende, hanno una frequenza meno elevata rispetto a quelle tattiche,
perché sono quelle che dovrebbero i una certa misura definire qual è l’orizzonte
nei tre… cinque… anni a venire… no poi chiaro che c’è anche
un’accelerazione delle situazioni per cui in alcuni casi le ricerche strategiche
devono un po’ essere accantonate…»
È una categorizzazione presente esplicitamente in una sola intervista, ma che risulta
significativa perché centrata su logiche d’uso, cioè in linea con gli obiettivi di questa ricerca.
In questa narrazione la differenza risiede nell’orizzonte dell’azione: a brevissimo termine per
le tattiche e a medio-lungo termine per le strategiche, che servono invece a impostare un
lavoro con maggiore consapevolezza.
Dentro la distinzione trovano posto i vari prodotti di ricerca. Il sondaggio telefonico rimane lo
strumento principale, quasi l’unico. Anche per le ricerche strategiche, le quali, come
rilevazione, possono avere come base il sondaggio telefonico, anche se utilizzato
diversamente: con differenti lunghezze, formulazioni, numerosità campionaria, possibilità di
profilare dei sotto-target. Oppure possono utilizzarlo integrato ad altri strumenti e
metodologie, o in fasi differenti a seconda degli obiettivi.
Infine, abbiamo incontrato un’ultima suddivisione concettuale, anch’essa isolata, che
distingue le ricerche a seconda del loro scopo in ricerche pre-elettorali e ricerche d’opinione.
«Diciamo che grosso modo le due tipologie di ricerche sono quelle: pre-
elettorali e quelle di controllo dell’opinione pubblica in funzione dei decisori
politici»
Una presenza significativa proprio per il suo essere isolata, forse frutto più della specifica
attività di ricerca di quell’istituto che non di un’approfondita e sperimentata categorizzazione.
Le 4 differenti modalità di categorizzazione aiutano a comprendere le prime rappresentazioni
delle ricerche socio-politiche da parte dei ricercatori che le producono e le commercializzano.
170
In primo luogo, emerge con forza la presenza strutturante del sondaggio telefonico, intorno al
quale ruotano vari tentativi di categorizzazione in grado di dare conto del fenomeno.
Un secondo punto mi pare notevole. Le categorizzazioni che prendono origine dalle logiche
di utilizzo sono minoritarie o secondarie, rispetto invece alle categorizzazioni che nascono da
linee di demarcazione di natura tecnico-metodologica.
Le pratiche di utilizzo non sono pregnanti nel definire e strutturare concettualmente il campo:
la correttezza tecnica ancora una volta fa da scudo ad ogni possibilità di approfondire le
pratiche d’uso o le reali possibilità di attribuzione di senso alle ricerche, sia dal punto di vista
delle loro possibilità conoscitive, sia dal punto di vista del modo in cui esse entrano (o
potrebbero entrare) nelle routines quotidiane dei decisori politici.
In parte, questo modo di intendere le ricerche corrisponde a quella visione mainstream che
abbiamo cercato di contestare e scalfire nella prima parte. A dimostrazione di quanto essa sia
pregnante e preponderante non solo nelle ricostruzioni teoriche e “speculative” della
manualistica di settore o del dibattito scientifico-accademico, ma anche nella prassi reale di
quella particolare comunità di pratiche costituita dai ricercatori.
La preponderanza del sondaggio telefonico
Abbiamo già accennato alla preponderanza dei metodi quantitativi e soprattutto del sondaggio
telefonico (d’opinione o pre-elettorale), così evidente da diventare metodo di
categorizzazione degli stessi strumenti di ricerca socio-politica.
E indipendentemente dalle modalità di categorizzazione, la preponderanza dei sondaggi è
condivisa da tutti i ricercatori, anche se con modalità di rappresentazione differenti.
È interessante però ricostruire anche come i ricercatori si posizionano rispetto a questa
consapevolezza fin troppo evidente.
I giudizi sulla preponderanza del sondaggio sono in gran parte negativi.
Un caso emblematico è il seguente.
«in realtà io ho un’opinione … non particolarmente (ride) positiva per come
viene fatta ricerca a partire dalla politica … nel senso che la mia impressione in
171
realtà è che intanto ci sia una totale predominanza del quantitativo, prima cosa
che a me non convince»
Le ragioni sono ovviamente quelle della scarsa capacità del sondaggio di offrire elementi di
comprensione profonda della realtà, più utili per la costruzione delle strategie e dei corsi
d’azione e di comunicazione.
Sempre lo stesso intervistato precedente.
«Devo dire, è qualche anno che faccio questo lavoro, è proprio raro che mi sia
capitato di vedere … sondaggi e ricerche … cioè sono tutte … tendenzialmente
molto piatte, molto … poco utili a … come dire, ti danno una fotografia
numerica ma poi non ti spiegano mai, né … né né sono pensate, non riesci a
intuire il perché le cose vanno in quel modo»
La critica alla presenza preponderante del sondaggio può portare perfino al rifiuto completo
della sua utilità.
«… Per me tutto quello che è esclusivamente quantitativo … non dico che non
serve a niente, ma serve a poco, serve un po’ durante le elezioni…»
Troviamo comunque anche casi, isolati, di un atteggiamento non così negativo nei confronti
di questa preponderanza del sondaggio.
L’impressione è che il vincolo imposto dalla domanda di mercato sia in questo caso accettato
con un certo fatalismo. L’attenzione si sposta dunque dagli altri prodotti possibili ad una più
realistica e pragmatica discussione circa le possibilità di miglioramento dell’uso del
“semplice” sondaggio.
«… il sondaggio offre di sentire gli umori della popolazione, dei target di
riferimento indagati rispetto a determinate tematiche, non so le pensioni per gli
anziani, il lavoro per i giovani ecc. ecc. offre la possibilità di, a campione,
stabilire il sentore, no, ti da l’opportunità in tempo breve di avere delle risposte.
172
Le risposte, generalmente, che ci vengono chieste, riguardano quasi sempre …
gli umori, cioè le delusioni, le necessità … la difficoltà sta proprio nel riuscire a
capire i desideri»
La preponderante presenza del sondaggio nel campo delle ricerche si evidenzia nelle
interviste anche per altri fattori. Il tempo dedicato dagli intervistati per esprimere
rappresentazioni e descrizioni riconducibili al sondaggio è ampio e permette di ricostruire
numerosi aspetti della variegata e multiforme rappresentazione sociale dello strumento offerta
dalla comunità dei professionisti.
Affronterò alcune approfondimenti in questo senso, che mi sembrano i più utili ad inquadrare
adeguatamente la questione.
La critica all’utilizzo attuale del sondaggio (a soli fini previsivi)
Un primo punto importante riguarda le modalità d’uso del sondaggio da parte dei decisori
politici.
Abbiamo già detto che i ricercatori non si distinguono certo per una forte attenzione alle
pratiche d’uso degli strumenti da loro forniti. Anzi, spesso il tema, a parte eccezione di cui
abbiamo dato conto, è bellamente ignorato, come se non costituisse un aspetto problematico
oppure quantomeno non avesse conseguenze nel campo della comunità professionale.
Anche per questa ragione sorprende la diffusione con cui è presente una critica ampia,
circostanziata e per nulla nascosta ad alcuni usi del sondaggio telefonico, cui praticamente
nessun ricercatore si sottrae.
L’uso contestato è quello previsivo, particolarmente evidente in quelle ricerche assai diffuse e
richieste (soprattutto nei momenti elettorali) sulle stime delle intenzioni di voto.
«... Però è il fine del sondaggio che deve essere diverso. Se il sondaggio fa
parte di una filiera che costruisce la strategia, il sondaggio ha ragione di essere.
Se deve essere finalizzato all’elemento previsionale, probabilmente perderà
presa nel mercato politico»
173
«E .. quindi questo mi ricordo, ma sennò in generale, la politica Italiana è
caratterizzata per un uso dei sondaggi semplicemente come, per sapere come
sto, ma non per decidere cosa fare
…proprio per sapere come sto, tanto è vero che la maggioranza delle forze
politiche risparmiano e se, lo vedono sui giornali oppure lo …oppure si
accontentano
… cioè usano il sondaggio più come termometro, che come strumento della
decisione, inversamente al lavoro che accade nelle aziende. L’unico che mi
sembra che sia in grado di usarlo come strumento di decisione è Berlusconi»
I brani riportati sono solo i più evidenti di una lunga serie, e si trovano nelle interviste con
gran parte dei ricercatori. Indipendentemente dall’approccio alle ricerche e dal modo di
categorizzazione, la critica all’uso previsivo del sondaggio d’opinione sembra essere
un’acquisizione entrata nel senso comune della comunità dei ricercatori.
In effetti, anche in questo caso, si tratta forse dell’utilizzo più biasimato anche nella
discussione accademica o della comunità dei ricercatori, ampiamente riportato da tutti i testi
fondanti la disciplina delle indagini demoscopiche. Da questo punto di vista, rappresenta
dunque un successo delle attività di socializzazione e di trasmissione della conoscenza
all’interno della comunità dei ricercatori.
Il rifiuto dell’uso previsivo assume differenti motivazioni.
In alcuni casi, esso è dovuto alle considerazioni epistemologiche circa l’impossibilità del
sondaggio telefonico di offrire previsioni o proiezioni di atteggiamenti nel futuro. È la
posizione più in linea con la cultura organizzativa della comunità e con le acquisizioni della
bibliografia metodologica.
In altri casi, invece, il rifiuto è dettato dall’inutilità pratica ai fini della costruzione dei corsi
d’azione o, peggio, delle decisioni politiche.
Questo secondo caso è certo più interessante, in quanto ancora una volta mostra
l’atteggiamento strumentale con cui vengono interpretate le questioni inerenti alle ricerche,
mettendo esplicitamente in secondo piano tutte le problematiche di natura epistemologica. Le
quali invece, come abbiamo cercato di argomentare nella prima parte, dovrebbero essere
riportate alla luce, affinché godano della giusta considerazione e aiutino a offrire maggiore
consapevolezza sulla natura del rapporto fra il campo della ricerca, la realtà sociale, il campo
della politica.
174
In buona sostanza, la diversità delle motivazioni per la critica a questo specifico uso dei
sondaggi telefonici nasconde una gradazione del rifiuto. Che va da quello pressoché totale
della critica epistemologica a quello più malleabile della critica strumentale, che si limita a
contestare la possibilità di utilizzare i dati, non il valore degli stessi.
Mi pare di vedere in queste distinzioni una sottile linea di demarcazione fra atteggiamenti che
possono risultare simili esteriormente, ma opposto per implicazioni e basi fondanti. Una linea
di demarcazione che è possibile rintracciare più in generale nei diversi aspetti toccati da
questa ricerca e che mi pare possa essere uno degli elementi che hanno contribuito finora alla
“tenuta” del sistema della ricerca socio-politica, nonostante le difficoltà fondative che ho
cercato di analizzare.
Vista la diffusione del sondaggio telefonico e i numerosi spunti offerti dalle rappresentazioni
dei ricercatori, gli elementi raccolti si sono rivelati di particolare utilità nell’orientare le fasi
successive della ricerca, particolarmente le interviste ai decisori politici.
Gli standard tecnici del sondaggio telefonico
Un altro punto toccato nelle interviste ai ricercatori durante la lunga disamina del sondaggio
d’opinione riguarda le rappresentazioni degli standard qualitativi e lo statuto di scientificità
da attribuire o meno al sondaggio telefonico.
Anche in questo caso si tratta di un tema affine all’interesse precipuo di questa tesi, e cioè di
mostrare i processi di costruzione sociale dello strumento attraverso l’analisi delle
rappresentazioni e della loro formazione.
Un tema che tocca da vicino le questioni sul valore della conoscenza acquisibile tramite gli
strumenti demoscopici, sul quale abbiamo avuto modo di esporre la nostra impostazione nella
prima parte.
Dalle interviste ai ricercatori emerge un quadro variegato.
L’opinione su questi temi discende ovviamente anche dall’approccio generale degli
intervistati ai temi della ricerca, approcci che abbiamo analizzato all’inizio di questo capitolo.
175
Il risultato empirico dell’analisi delle interviste, su questo punto non offre grandi elementi di
interesse. Le risposte infatti tendono ad essere abbastanza univoche, senza segnalazioni
particolari. Segno evidente della condivisione sostanziale di una cultura organizzativa, ma
possibile spia anche di una certa omologazione dettata dall’esigenza di offrire un fronte
compatto alle critiche allo strumento provenienti dall’esterno.
In buona sostanza, gli elementi dai quali dipenderebbe la bontà o meno di un sondaggio
telefonico risultano essere i seguenti.
Innanzitutto il campione, la cui numerosità deve essere adeguata. La cura con cui viene
costruito il campione è segnalata in maniera omogenea nelle interviste.
«La numerosità, una numerosità minima è indispensabile
… È indispensabile per poter avere un dato tranquillo, insomma, ecco, se si va
sotto gli 800 si comincia a traballare, già 800 sono, però c’è un problema di
costi, quindi alle volte meglio 1000, soprattutto non si può disaggregate, l’800
nazionale letto in termini integrali può andar bene…»
Sempre legato al campione, emerge un tema più intrinseco allo strumento, e cioè il tipo di
rilevazione e le difficoltà ad essa associate.
«…il vecchio sistema dell’intervista telefonica sta perdendo di peso, la gente
non è più a casa, non usa più il telefono fisso, la composizione stessa dei nuclei
familiari non è più la stessa. Noi ci troviamo oggi in una condizione in cui il
15% degli italiani non ha il telefono a casa. È ancora una numerosità piccola
tanto da inficiare la numerosità del campione. Però abbiamo una numerosità
più alta di utenti che non sono sull’elenco, che è il nostro unico database di
riferimento. Poiché negli anni questi aumenteranno, probabilmente tutti gli
istituti stanno penando come nei prossimi anni si potrà intercettare l’elettore o
in generale i soggetti del campione. È la difficoltà di individuare il campione. »
Come si evince dal brano, la possibilità di individuare un buon campione tende a decadere in
quanto la diffusione del telefono nelle famiglie italiane non è più omogenea come un tempo.
176
Fino all’avvento dei telefoni cellulari, l’universo degli aventi diritto al voto veniva fatto
coincidere (a rigor di logica, erroneamente) con quello degli italiani che possiedono un
telefono. Ma il numero di famiglie che possiedono un telefono fisso è in costante
diminuzione. E, anche superando il problema di accessibilità ai numeri di telefono mobile, la
situazione della telefonata al cellulare non è paragonabile a quella al telefono fisso, ragione
per cui non sono stati finora individuati meccanismi ottimali di superamento della questione.
È un problema ben noto, sia in letteratura che fra gli addetti ai lavori, che emerge in numerose
interviste. E spesso è segnalato come la principale problematica che rischia di fare decadere il
dominio dei sondaggi telefonici fra le ricerche socio-politiche.
È inoltre percepito come un problema di soluzione pressoché impossibile, tendente ad una
costante degradazione.
Un secondo punto è forse meno scontato, ed è la costruzione del questionario, il question
wording.
È senz’altro un elemento più interessante, quantomeno perché non scontato, visto che se ne
parla assai meno rispetto al campione.
A onor del vero, è un tema toccato nella letteratura specialistica, particolarmente quella
accademica.
Ma è senz’altro vero che tale dibattito non è emerso nella sfera pubblica e ad oggi sono poche
le occasioni pubbliche in cui è stata evidenziata la problematicità e l’importanza della
costruzione del questionario.
Il punto poi acquista maggiore interesse per il modo in cui, in alcune interviste, è narrato.
«… Perché è molto importante e porta fenomeni distorsivi; 2, la sequenza delle
domande, da tanto tempo questo è evidente, se parlo molto di un partito alla
fine, quel partito ha più consensi e quindi la sequenza delle domande è
importantissima, importante; 3 i fenomeni, ormai, distorsivi del mezzo, cioè il
telefonico distorce, ormai abbiamo un auto selezione potente…»
La costruzione del questionario appare un momento delicato non solo per ragioni tecniche,
ma per le possibili distorsioni che si possono introdurre, che comportano scelte anche non del
tutto standardizzate e che mantengono una radice di arbitrarietà.
177
Un’arbitrarietà che, a detta di molti, si presta a distorsioni “controllate” delle interviste, con
possibilità di “guidare” la rilevazione al fine di ottenere risultati strumentali alla lotta politica.
L’attenzione da porre alle costruzione del questionario deve dunque essere adeguata, così
come conta una riflessione attenta e un’esperienza affinata.
Nelle nostre interviste, il tema della problematicità del question wording è meno diffuso
rispetto al campione. Al contrario, è un tema affrontato dalla letteratura specialistica e dalla
metodologia delle ricerche sociali in genere. Questa diversa considerazione potrebbe dunque
evidenziare un’area nella quale la categoria professionale potrebbe ancora avere necessità di
lavorare.
Mi soffermo infine su altri due aspetti segnalati nelle interviste come determinanti per la
qualità dei sondaggi d’opinione. In questo caso, si tratta di problematiche di natura
“produttiva”, cioè legate alle routines messe in atto dal produttore delle ricerche. Si tratta
dunque di una tipologia di problematiche in parte differente rispetto a prima, ed è per questa
ragione che ho inteso utile al nostro lavoro soffermarmici.
«(ride) bello questo! Il field ovviamente, se è in Romania o è in Italia (ride).
C’è chi l’ha fatto in Romania…però ci sono grossissime difficoltà. Solo un
italiano riesce con la pronuncia.
E poi un buon briefing. Solo con un buon briefing, facendo riflettere…»
Quello della qualità del field e del briefing (così come di altre routines produttive non citate)
è di particolare interesse, in quanto, essendo queste azioni non visibili nel prodotto,
rappresentano anche quelle zone del processo di produzione nelle quali è più semplice
intervenire per ridurre i costi, limitando la qualità e l’accuratezza.
L’indagine svolta preliminarmente aveva evidenziato alcune particolari dinamiche
organizzative.
Per quanto riguarda il field, la rilevazione non sempre è effettuata internamente all’istituto. In
alcuni casi essa è demandata a call center esterni, che in certi casi sono specializzati nella
gestione di interviste telefoniche CATI. Un field interno è spesso ritenuto garanzia di qualità,
per la possibilità di controllare il processo. Ma esistono anche call center specializzati in
sondaggi telefonici, che si qualificano sul mercato per l’accuratezza delle loro procedure.
178
Negli ultimi anni, invece, si è affermata la tendenza ad un risparmio dei costi del field, anche
attraverso l’utilizzo di call center delocalizzati, per esempio in Romania, laddove il comune
ceppo linguistico sembra favorire la padronanza della lingua italiana.
Il problema della resa qualitativa è dunque fortemente influenzato dalle scelte circa questi
aspetti produttivi. E in generale, ad un risparmio di costi, può aumentare il rischio di una
perdita di qualità, che è considerata assai rilevante ai fini dell’esito dell’indagine.
Un discorso simile vale per quelle attività collaterali rispetto alla parte tecnica, come ad
esempio il briefing iniziale e la formazione dei rilevatori. La specificità dei temi politici
richiede un’assoluta padronanza della tematica, degli obiettivi del cliente, del linguaggio da
parte di tutta la filiera produttiva. Il realizzatore dell’indagine deve essere in linea con le
attese (manifeste o no) del cliente, cercando di interpretarne le volontà. Spesso per fare
questo ha poco tempo a disposizione, e le occasioni di contatto possono essere sporadiche.
Ecco allora che si comprende l’importanza di un buon briefing iniziale.
La formazione degli intervistatori è un secondo passaggio che deve necessariamente essere
svolto con cura e senza tralasciare particolari. Le distorsioni dovute all’impreparazione degli
intervistatori sono sempre in agguato, possono risultare non visibili immediatamente e, in
questo modo, invalidare l’intera indagine compiuta.
In entrambi i casi, dunque, la strutturazione delle pratiche organizzative legate al rapporto con
il cliente e alla formazione degli intervistatori possono determinare la qualità dell’indagine
più di molti altri fattori.
Trovo significativo, dunque, che queste problematiche siano citate da un solo istituto, quando
invece dovrebbero essere presenti agli occhi di tutti coloro che si occupano di sondaggi per
professione.
Segno evidente della necessità di approfondimento di molte questioni all’interno della
comunità professionale, ai fini del mantenimento della reputazione sociale della categoria.
La ricerca qualitativa
Esaurita la questione relativa ai sondaggi telefonici, veniamo ora alle rappresentazioni degli
altri prodotti che il campo della ricerca mette a disposizione della politica.
Subito dopo i sondaggi, i prodotti più citati sono le ricerche qualitative.
179
Non sempre con questa terminologia i vari intervistatori rinviano allo stesso identico
prodotto. In alcuni casi, il riferimento è solamente ai focus group, in altri casi è invece
propriamente utilizzato per indicare tutte le soluzioni qualitative di ricerca.
La fiducia nelle qualitative è molto elevata.
In particolare, a detta di numerosi intervistati, un uso accorto di focus group è senz’altro uno
fra i contributi più utili che la ricerca demoscopica possa offrire ai decisori politici.
«Diciamo che nel tempo le cose stanno un po’ cambiando, ovviamente c’è un
po’ di distanza dalle aspettative di chi fa questo mestiere e quindi vorrebbe che
ci fosse un’accelerazione più verso, ad esempio, un utilizzo multidisciplinare
dell’analisi dell’opinione pubblica, non soltanto la classica quantitativa
telefonica, ma le qualitative che adesso sono molto più diffuse nel settore
politico elettorale, molto più diffuse… perché si rendono conto i nostri
interlocutori che il tipo di analisi qualitativa è strettamente collegato con le
modalità comunicative, cioè individuare elementi profondi, oppure…»
Come dimostra il brano precedente, inoltre, la fiducia riposta nelle qualitative è di particolare
interesse per il tema di questa ricerca, in quanto la maggior utilità delle qualitative è collegata
alla loro capacità di risultare più utili alla comunicazione dei decisori politici. Come questa
considerazione, poi, diventi reale nelle pratiche, è stato oggetto di attenzione nei capitoli
successivi, centrati appunto sui modi d’uso.
In questo, peraltro, la rappresentazione emersa dalle interviste si avvicina molto alla
bibliografia specifica sull’argomento, particolarmente quella internazionale, che già da
diversi anni ha iniziato ad attribuire maggiore importanza a questi strumenti.
Cercherò di evidenziare i punti più interessanti fra quelli emersi nelle interviste circa i focus
group e più in generale le ricerche qualitative.
Un punto importante delle narrazioni sulle qualitative è che molto rapidamente cadono nella
lamentela circa la domanda limitata proveniente dal mercato per questo tipo di ricerche.
180
«che … in realtà i focus per la politica si fanno molto meno dei sondaggi … e
girano anche di meno nel senso che fanno parte di quelle che ognuno poi si
tiene … anche perché non non essendo comunicabili nella società mediatica
non è nemmeno interessante … però … quelle che m’è capitato di vedere …»
Questo brano è emblematico dell’atteggiamento dei ricercatori verso la domanda di mercato.
È d’interesse anche la ragione addotta, e cioè la scarsa comunicabilità. Che possiamo leggere
in due modi. Da un lato, significa che le qualitative, non offrendo un “numero”, un risultato
semplice e immediata trattazione, faticano ad affermarsi nella sfera pubblica, perdendo così la
committenza dei media, che spesso funge da volano per far conoscere gli strumenti anche alla
committenza politica.
Ma d’altro canto, non possiamo non vedere come la stessa motivazione possa essere
addebitata direttamente al campo politico. Ricerche che forniscono risultati complessi e
articolati, pur essendo più approfondite pagano lo scotto di non saper fornire elementi
immediatamente comprensibili e riportabili, facendo perdere interesse nei loro confronto da
parte dei decisori.
Un secondo punto che mi pare degno di interesse riguarda la rappresentazione dei fattori di
successo delle qualitative, fra i quali compare un elemento nuovo.
«È anche vera un’altra cosa. Al di là del campione e della sua formazione, oggi
la formazione del consenso avviene in modo diverso rispetto a prima… Dieci
anni fa c’erano spaccati abbastanza delineati, con una fidelizzazione maggiore.
Infatti poi le elezioni erano abbastanza scontate. Si doveva decidere se in
maggioranza ci andava il pentapartito o il quadripartito, ma insomma non
c’erano mai troppe sorprese. Oggi invece la situazione è completamente
diversa. Dove un terzo dell’elettorato è fedele alla coalizione, ma solo la metà
di questo terzo è fedele anche a un partito di questa coalizione. E c’è un terzo di
elettori che veramente è imponderabile, che cambia da un’elezione all’altra. Di
cui sappiamo poco anche perché è lo stesso elettorale che ne sa poco (ride).
Perché il voto non è confezionato, come dire, in base anche a determinati
interessi anche privati. Cioè questo terzo di elettori è influenzato da variabili
esclusivamente emotive. Da quel poco di informazione qualitativa che
181
passa…perché noi oggi abbiamo poca informazione qualitativa… e ovviamente
nelle campagne elettorali diventa più forte colui che riesce a far passare il
messaggio nella maniera migliore. È una tendenza recente, che ci spiega in
realtà l’esito delle ultime elezioni politiche. Il centro destra è stata l’unica
coalizione che ha guadagnato consenso in campagna elettorale. Perché ha
indovinato le parole d’ordine, le politiche. Si è ingenerato un clima
d’opinione.»
In questa ricostruzione, la maggior capacità delle qualitative di cogliere la realtà non dipende
(solo) dalle possibilità maggiori garantite dallo strumento, ma risponde anche ad
un’evoluzione del contesto da studiare. Si passa infatti da società cristallizzate, con
appartenenze forti, radicate e costruite da vari processi di socializzazione a società in cui le
opinioni si formano più liberamente, sono meno radicate e forse meno razionalizzate.
Ragione per cui, per la comprensione dei contesti, aumentano di importanza quegli strumenti
in grado di penetrare nelle motivazioni degli individua, evitando così di limitarsi alla
registrazione delle loro opinioni, più o meno spontanee.
Un terzo punto interessante emerso riguarda la rappresentazione delle problematiche
metodologiche. È interessante notare come, a differenza che per il sondaggio telefonico, le
problematiche metodologiche connesse alle qualitative non entrano nel discorso circa
l’utilizzo di queste ricerche, quasi che non vi fossero elementi degni di attenzione in questo
senso.
È sottinteso nel discorso che l’approccio metodologico delle qualitative è di per sé meno
pretenzioso rispetto alle quantitative, e dunque anche la soglia di attenzione rispetto agli
standard può senz’altro considerarsi inferiore.
Ma è anche vero che le qualitative hanno alle spalle ugualmente metodologie precise, basate
su ragionamenti ed esperienze, che non sempre i ricercatori sembrano ritenere degne di nota.
E questo è tanto più vero quando le narrazioni passano dalla pura metodologia all’utilizzo
delle ricerche.
È dunque degno di nota l’unico brano in cui sono presenti riflessioni circa gli standard
metodologici relativi alle qualitative.
182
«…Ma il problema della ricerca qualitativa è che si rende un filino più
trasparente le pratiche della negoziazione, ma non è estranea!
…e se lei pone un problema di questo peso rispetto al telefono, non è detto che
la riduzione della distanza funzioni come maggior coinvolgimento.
Cioè le pratiche di negoziazione diventano ancora più costruttive.»
Ed è altrettanto significativo come anche questa problematica sia in realtà l’applicazione del
problema dei non-rispondenti già affrontato per i sondaggi telefonici.
Anche nel caso delle qualitative, infatti, la selezione del campione non è immune da processi
di autoselezione. Con la differenza che, nel caso delle qualitative, non è nemmeno cercata la
rappresentatività statistica.
In ogni caso, il ragionamento circa le problematiche dei non-rispondenti rimane. Se la
propensione a non essere parte del campione è legata alle opinioni, quelle stesse opinioni non
avranno mai la possibilità di emergere, nemmeno nelle ricerche qualitative. Da questo punto
di vista, dunque, le qualitative non contribuiscono a risolvere il problema evidenziato per i
sondaggi telefonici; si limitano a rendere più trasparente la negoziazione e ad abbassare le
pretese annullando la ricerca di rappresentatività.
Si tratta, com’è ovvio, di un punto specifico. Ma è emblematico di un atteggiamento
complessivo, che tende a conferire maggiore libertà alle qualitative, senza evidenziare e
rendere prioritari i ragionamenti circa gli standard qualitativi e i limiti di utilizzo. Quasi che,
una volta abbandonate le problematiche e le aspettative connesse alle quantitative, tutto fosse
lecito.
Integrare ricerca quantitativa e qualitativa
Un ulteriore punto della rappresentazione delle ricerche qualitative emersa dalle interviste
merita un approfondimento particolare, e riguarda la considerazione, condivisa da tutti, circa
la perdita di significato della distinzione fra ricerca quantitativa e qualitativa.
Questo è un punto che va meglio articolato.
Ovvero, la distinzione metodologia e tecnica rimane ovviamente fondante e ricca di
significato. Essa si evidenzia peraltro nella predisposizione di tutti i ricercatori intervistati a
183
distinguere con precisione e attenzione i diversi prodotti di ricerca e le loro caratteristiche, un
punto sul quale la cultura della comunità professionale è assolutamente compatta. In alcuni
casi, come visto, diventa addirittura il criterio fondamentale per la categorizzazione della
gamma delle ricerche.
Ciò che invece cambia è la necessità, percepita e raccontata dai ricercatori, di superare questa
divisione, per arrivare a una maggiore integrazione fra ricerca quantitativa e qualitativa.
I modi di prendere posizione rispetto a questa constatazione possono essere differenti.
Una prima modalità è più sfumata e considera semplicemente la necessità di affiancare
all’uso delle quantitative anche strumenti qualitativi.
«io più che strumenti nuovi vedrei un fine nuovo dello strumento del
sondaggio. Cioè ripeto non c’è strumento ideale. È un mix. Oggi si adotta un
mix: telefonico, ricerca qualitativa, i panel. Per cui l’informazione noi ce
l’abbiamo incrociando tutti questi dati, non dal solo telefonico»
Una posizione più interessante è invece evidenziata da un secondo gruppo, che per altro è di
gran lunga più numeroso.
Questi ricercatori tendono ad evidenziare l’esistenza di un antagonismo di fatto fra ricerca
quantitativa e qualitativa, implicitamente adottato nell’uso delle ricerche. È questo
antagonismo che occorre superare, in quanto la separazione di ruoli, utilizzi, obiettivi fra i
diversi prodotti di ricerca non pare ricoprire più grande importanza. Gli strumenti vanno,
invece, integrati, inseriti in ricerche dal respiro più ampio e capaci di far interagire i diversi
mezzi e prodotti fin dall’inizio, costruendo così una soluzione di ricerca più rispondente alle
necessità dei tempi attuali, ai contesti in mutamento, alle possibilità stesse di utilizzo di questi
strumenti nel campo della politica.
È una posizione che gode di un’ampia maggioranza.
«Innanzitutto la divisione fra ricerca quantitativa e qualitativa ha sempre meno
senso. Perché se noi non ci rendiamo conto che quando andiamo ad analizzare
una realtà, sia essa un territorio o una società, c’è bisogno di avere strumenti
diversi che messi insieme possono darti quella profondità e articolazione di
184
lettura che processi complessi richiedono, già partiamo con il piede sbagliato,
insomma. …
Questa è la prima cosa. Un approccio non può essere esclusivamente
qualitativa né esclusivamente quantitativo. … La ricerca è inevitabilmente un
lavoro sartoriale»
Gli altri strumenti disponibili
La distinzione fra ricerche quantitative e qualitative non esaurisce il campo della gamma delle
ricerche offerte sul mercato, per come tale gamma è emersa dalla rappresentazione offerta
dalle interviste ai ricercatori.
Attorno alle soluzioni più note e consolidate, che abbiamo affrontato finora, esiste infatti un
insieme di altri prodotti e strumenti citati nelle interviste.
Si tratta di un gruppo piuttosto eterogeneo. Risulta composto da prodotti in gran parte
riconducibili alle tecniche “base” già affrontate sopra, sia quantitative sia qualitative, ma
combinate e composte in forme diverse, fino a formare ricerche complesse o varianti, in
entrambi i casi degne di una propria posizione indipendente.
Occorre inoltre considerare che molto spesso questi prodotti citati non sono affermati
univocamente sul mercato, ma sono introdotti da singoli ricercatori, sulla base di un proprio
approccio creativo o metodologico. In altri casi, invece, prodotti simili sono semplicemente
trattati con denominazioni differenti o piccole varianti poco significative.
La mancanza di accordo e la grande varietà espongono al rischio di rendere poco significativa
una mera elencazione di questi prodotti.
Ho cercato piuttosto di individuare problematiche condivise, categorizzazioni concettuali e
altri elementi di natura “culturale”, in grado di offrire uno spaccato più significativo della
rappresentazione sociale di queste ricerche da parte della comunità professionale dei
ricercatori.
Ho pertanto suddiviso questi prodotti a seconda a seconda del grado di utilizzo e di richiesta
da parte del mercato, così come esso emerge dalla rappresentazione dei ricercatori.
185
Da notare che non sempre la rappresentazione dell’utilizzo coincide con la fiducia riposta dai
ricercatori.
Fra gli strumenti molto utilizzati, troviamo il tracking e le interviste a stakeholders.
Quella del tracking rappresenta senz’altro la pratica di ricerca più citata dai ricercatori stessi.
Chiaramente, più che di un prodotto a sé stante, si tratta di una modalità differente di utilizzo
del sondaggio telefonico.
«E poi ovviamente tra i vari tipi di sondaggi c’è quello dei sondaggi tracking
che sono quelli più utilizzati, e quelli che ormai sono…quelli che ormai
sembrano i più affidabili…
… No, soprattutto dai partiti … i partiti il tracking abbastanza continuativo lo
stanno utilizzando sempre di più e ci credono molto di più sul tracking che sul
sondaggio spot oppure una tantum.»
Due i vantaggi che, secondo queste rappresentazioni, questa tecnica è in grado di offrire. E
l’aspetto interessante è che in entrambi i casi, i vantaggi vengono percepiti come possibilità di
superare i limiti intrinsechi del sondaggio che abbiamo sopra analizzato.
Il primo è la capacità di fare previsioni. Abbiamo già visto come fosse una possibilità esclusa
dagli standard metodologici. Il tracking, però, secondo i ricercatori consentirebbe di
individuare un trend, il quale può essere proiettato nel futuro, ottenendo così un effetto
previsivo altrimenti impossibile da ottenere.
Il secondo riguarda la capacità di risultare utile a influenzare i comportamenti, anche
comunicativi. Al sondaggio telefonico normale non è attribuita la possibilità di fornire
elementi utili alle decisioni politiche. Il tracking, invece, fornendo misurazioni dilungate nel
tempo permetterebbe di seguire l’evoluzione delle opinioni, testando così anche
l’apprezzamento per i propri corsi d’azione.
Il tracking dunque, nella rappresentazione dei ricercatori, pur mantenendo gli stessi limiti
conoscitivi del sondaggio, per il solo fatto di essere utilizzato diversamente sarebbe in grado
di circoscrivere quei limiti o addirittura aggirarli. Mi sembra un’acquisizione degna di nota,
anche per la sua applicabilità alle interviste ai decisori, per valutare la presenza anche in quel
campo di una rappresentazione simile.
186
Le indagini su stakeholders, invece, rappresentano una variante importante.
«… Ovviamente per l’impostazione strategica si utilizzano strumenti che hanno
un diverso livello di … e quindi si utilizza sia lo strumento dell’intervista
telefonica, ma soprattutto lo strumento vis à vis, adesso stiamo utilizzando.
Cioè ci stiamo concentrando molto sui cosiddetti stakeholders, sugli opinion
leaders, perché effettivamente loro possono condizionare molto la percezione
della popolazione.»
In questo caso, a fare la differenza non sono le scelte metodologiche né quelle legate allo
strumento di rilevazione, ma il tipo di campione scelto. Le indagini su stakeholders possono
infatti essere fatte in forma qualitativa con interviste in profondità o quantitativa come
normali sondaggi, utilizzando strumenti diversi.
Ma a fare la differenza, almeno secondo la rappresentazione offerta dal ricercatore, non sono
queste scelte, bensì il campione, che risulta ragionato e rappresentativo non dell’intera
popolazione, ma di una parte significativa individuata ad hoc.
La metodologia è citata in una sola intervista. Viene comunque presentato come uno
strumento che fornisce ottime possibilità di utilizzo nell’azione politica, in quanto interagisce
con la parte più attiva politicamente, più influente e in grado di guidare l’opinione di un
pubblico più ampio.
È significativo, inoltre, che viene descritto come uno strumento il cui utilizzo è in crescita,
riscontrando di conseguenza un interesse anche da parte della domanda di mercato, cioè gli
attori del campo politico.
Per quanto riguarda gli strumenti poco utilizzati, ci troviamo di fronte ad una gamma di
diversi prodotti.
Sono ovviamente numerosi gli strumenti segnalati dai ricercatori, ma poco richiesti dal
mercato.
In questa categoria si concentra la delusione dei ricercatori: qui infatti stanno quegli
strumenti le cui potenzialità sono sottolineate, ma non trovano corrispettivo nell’utilizzo reale
da parte della committenza.
187
In questa categoria troviamo anche strumenti molto utilizzati, ma solo da un istituto, per il
quale rappresentano un elemento di specializzazione e di differenziazione sul mercato. Ho
scelto di metterli comunque fra i poco utilizzati, in quanto il fatto di rappresentare una
proposta esclusiva, per quanto di successo, impedisce la possibilità di considerarli diffusi
all’interno della comunità dei ricercatori, sulla quale invece ho inteso soffermarmi per queste
interviste.
Interessanti si sono rivelate le citazioni circa l’analisi dei media.
«allora l’analisi dei media, che pure è importante, difficilmente si traduce in
azione politica. Ora, se devo tagliare qualcosa, preferisco tagliare quello,
insomma ….»
L’analisi dei media è sostanzialmente considerata un tipo di ricerca del tutto secondario, che,
in sostanza, non viene utilizzata nelle pratiche.
E, anzi, l’utilizzo ne è sconsigliato spesso dagli stessi ricercatori, per i quali, di fronte a limiti
di budget, sono i primi a poter essere annullati, in quanto non sono in gradi di offrire elementi
utili alla decisione politica.
Un caso interessante si è rivelato quello relativo al panel. Riguarda peraltro una sola
intervista, in quanto lo strumento è, per il momento, creazione originale di un istituto, unico a
proporlo sul mercato.
«E poi noi abbiamo anche un altro strumento a disposizione. E siamo gli unici
per il momento in Italia. È un po’ la scoperta dell’acqua calda, ma per il
momento lo utilizziamo solo noi. Noi abbiamo un panel di elettori italiani,
disaggregati per sesso, età e area di residenza, in maniera tale da essere
rappresentativi della popolazione. Questo panel lo abbiamo fornito di un
particolare hardware, che più o meno corrisponde a un palmarino, a un palmare
…. Il panel non è fisso, ruota, il 30% cambia ogni tre mesi. Questo palmare
contiene un software creato da noi che ci permette di interloquire in tempo
reale con il panel. Questo cosa vuol dire? Vuol dire che noi offriamo ai nostri
188
clienti … operiamo nel settore della conoscenza delle opinioni in tempo reale,
no?»
La metodologia rimane quella del sondaggio telefonico, anche se cambia la modalità di
rilevazione e, con essa, tutta la costruzione dell’indagine, a partire dal questionario.
Il sistema, inoltre, si configura come un panel, e dunque con un campione fisso, a cui è stato
fornitolo uno strumento di rilevazione. Proprio in questo sta la differenza rispetto ai normali
panel: lo strumento di rilevazione (simile a un telefono cellulare) consente di rispondere in
tempo reale alla domanda di volta in volta sollecitata.
Secondo le motivazioni addotte, proprio da queste caratteristiche deriverebbe la bontà dello
strumento.
Esso infatti riesce a far ottenere un vantaggio in una risorsa chiave per l’azione politica, quale
quella del tempo.
Il panel è in grado di fornire risultati in tempo reale. E la rappresentazione dei ricercatori
individua in questo l’elemento di più grande utilità, in grado di rispondere alle esigenze della
domanda.
Mi è sembrato significativo ritrovare un sola citazione per i metodi di geomarketing.
«…Ah poi c’è una cosa che non viene tanto presa in considerazione, anche
perché costa molto ed è tanto difficile, il famoso geomarketing, cioè l’utilizzo
anche di dati»
Spesso infatti il geomarketing è considerato la frontiera delle ricerche di mercato, in grado di
combinare dati acquisiti con elementi di opinione.
Ed è potenzialmente applicabile anche alla politica.
Proprio per questa ragione mi è sembrato significativo il fatto che sia stato citato in una sola
intervista, a testimonianza non solo della scarsa diffusione, ma anche della scarsa
proponibilità dello strumento sul mercato.
Il problema che limita la possibilità reale di utilizzo di questo strumento riguarda
sostanzialmente il costo, che risulta essere di molto superiore a strumenti più semplici e
dunque poco accessibile.
189
Un secondo limite riguarda le possibilità di utilizzo. Indagini basate sul geomarketing, infatti,
necessitano si una programmazione a medio termine e di tempi lunghi, per la fase di raccolta
dei dati e per la loro elaborazione. Non rappresenta dunque una soluzione applicabile per
risolvere bisogni conoscitivi legati all’attualità dell’azione politica. Rappresenta invece una
buona soluzione per obiettivi di medio periodo, purché vi sia la possibilità di impostare una
programmazione seria delle strategie e delle azioni, condizione che non è scontata, ma che va
verificata nei fatti.
Altra citazione pressoché isolata è quella relativa alle ricerche semiotiche e a quelle sul
linguaggio.
«quindi ad esempio un’analisi quantitativa testuale, o anche semiotica, ti può
dare la possibilità di capire quali sono le costruzioni discorsive linguistiche
…quali sono i temi e come vengono trattati, per dare indicazioni di questo tipo.
… L’altra cosa su cui … a me sembra molto interessante lavorare è sono tutti
gli aspetti legati al linguaggio»
Anche in questo caso assistiamo al consueto fenomeno per cui ricerche considerate
potenzialmente utili ed efficaci dai ricercatori, almeno in astratto, non trovano in realtà uno
spazio reale di applicazione.
Da un lato, è evidente come la domanda del mercato sia orientata verso altri tipi di soluzioni.
D’altro canto, non si può non far notare come gli stessi ricercatori non insistano molto su
questo genere di ricerche, come dimostra il fatto che siano citate in una sola intervista.
Per le ricerche di posizionamento vale il discorso fatto per il geomarketing.
«…c’era ad esempio su questo una delle cose di questo genere cioè fatta
comunque col telefonico più interessanti che ho visto …. questo cubo di
posizionamento … che in realtà e un quali-quantitativo perché c’è prima la
parte di interviste lunghe
… e … no, la cosa interessante è che c’è questo schema finale in cui la loro
prima … su ciascun territorio … attraverso interviste in profondità e quindi in
realtà se fatto bene ti permette di fare emergere davvero i temi locali»
190
Sono considerate fra le più importanti e in grado di offrire elementi assai utili per l’azione
politica. Ma l’effettiva presenza sul mercato risulta assai limitata. Le ragioni sono
riconducibili ai costi, alla maggior fiducia da parte dei decisori nelle indagini puramente
quantitative, nei tempi lunghi necessari alla preparazione dell’indagine, nella difficoltà di
applicazione a eventi specifici e/o attuali.
Il sondaggio deliberativo rappresenta una modalità di ricerca particolarmente studiata e
discussa nella letteratura internazionale e nelle comunità di pratiche.
«…tra l’altro ci sono anche tanti nuovi strumenti, per esempio noi una cosa che
abbiamo lavorato, su cui stiamo lavorando, lavorato tanto e che però non
riusciamo a proporre sono i sondaggi deliberativi, quindi i sondaggi informati
diciamo…cioè li effettivamente, una volta che le persone sono state informate
sui poli contro una politica ecc, quindi ti dicono, no effettivamente noi
vogliamo questo… è certamente un mezzo fondamentale …»
Nelle interviste, il sondaggio deliberativo è emerso in una sola intervista e rappresenta
dunque, almeno per il momento, una proposta isolata e specifica di un solo istituto.
La fiducia riposta nello strumento da parte del ricercatore è elevata, soprattutto per alcune
ragioni.
Da un lato, vi è il tipo di informazione che è in grado di restituire. Il sondaggio deliberativo
permetterebbe infatti di valutare l’impatto della fornitura di informazione nelle modalità di
formazione delle opinioni, costituendo così un indiretta validazione dell’efficacia della
comunicazione, oltre che un accrescimento delle nostre conoscenze sulle modalità di scelta e
di formazione delle opinioni. D’altro canto, il sondaggio deliberativo manterrebbe intatta la
“comunicabilità” tipica degli strumenti quantitativi più semplici, che spesso li rende più
appetibili alla committenza rispetto a quelli qualitativi.
La rappresentazione offerta dal ricercatore descrive però la difficoltà di affermare lo
strumento sul mercato. Le ragioni possono essere ritrovate nelle difficoltà organizzative del
costruire la situazione della discussione collettiva in compresenza fisica in un unico posto (e i
conseguenti costi), oltre che dei tempi lunghi necessari alla pianificazione di tutto il processo.
191
1.4 Gli sviluppi della ricerca
Sempre rimanendo sulla rappresentazione delle ricerche da parte dei ricercatori, dalle
interviste sono emerse numerose indicazioni sui possibili sviluppi, sulle modifiche da
intraprendere, sulle potenzialità inespresse.
Queste narrazioni sono spesso emerse spontaneamente, segno del loro ruolo prioritario nelle
riflessioni e nelle pratiche dei soggetti. E essendo spesso coincidenti fra più intervistati,
contribuiscono anche a delineare dei tratti culturali condivisi della particolare comunità
professionale costituita dai ricercatori che lavorano con la politica.
Molte di queste suggestioni riguardano anche, almeno indirettamente, i rapporti con la
committenza. Pertanto si sono rivelate di grande utilità nell’impostare le interviste ai decisori
e nell’offrire un metro di paragone fra le diverse ricostruzioni e rappresentazioni delle
pratiche d’uso.
Il rischio della distorsione
Dalle interviste emerge con forza e a più riprese la necessità di impostare una nuova relazione
fra committenza e ricerca, che porti a valorizzare modalità diverse di fare le ricerche, in
particolare cercando di legarle di più al dato reale e individuando un approccio più critico e
approfondito al fare ricerca.
In sostanza, la ricerca affermatasi nel mercato risulta essere sbilanciata verso la sola opinione
pubblica.
La preponderanza del sondaggio telefonico, e al massimo del focus group, porta a un modello
di ricerca in cui il dato reale non è contemplato, ma viene assunto solamente come base da
cui far partire la rilevazione o la discussione, in modo totalmente arbitrario. In questo modo,
il rischio è che le domande risultino guidate non già da dati reali, ma da climi d’opinione,
influenzando le ricerche fin dalla loro nascita.
È un punto che condivido, in quanto evidenzia molte delle considerazioni svolte nella prima
parte sull’approccio teorico, ad esempio sull’influenza costruttivista di aspettative, pratiche e
negoziazioni da parte degli utilizzatori o di coloro che si relazionano con questi strumenti.
192
«… però a me fa tremare le vene e i polsi! Perché, tu fai una domanda, la gente,
se ha deciso di risponderti, ti risponde, ma che cosa sia, quale sia il senso delle
cose che conti come “si”, “no”, “boh”… deriva, è derivata da una marca della
comunicazione che insiste a porre a tema una serie di problemi diciamo
importanti, importanti, importanti…
Se tu esplodi l’importanza di una cosa e non capisci il senso di questa
importanza, succede che hai incasinato, no ….»
Il sondaggio dunque si è affermato socialmente in un certo modo, che però non corrisponde
alle prescrizioni e ai metodi della ricerca.
Le risposte ad un sondaggio possono essere pesantemente viziate e influenzate proprio dal
fatto stesso di porre la domanda. È la domanda che rischia di stimolare la presenza di
un’opinione. Che poi noi invece consideriamo “vera” o quantomeno realmente esistente nella
testa delle persone, cosa che in realtà non è così.
Il modello risulta così essere quello della profezia che si autoadempie: una certa opinione
pubblica (che dovrebbe essere il risultato della ricerca) viene data per scontata e influenza la
ricerca, che non può che confermare quella opinione, rinforzandola.
Chiaramente, questo meccanismo non avviene in ogni situazione. Ciò che risulta chiaro dalle
interviste ai ricercatori è che si tratta di un rischio considerato reale, che necessita di
contromisure, e in particolare di un nuovo modello di ricerca.
A questo riguardo, sono due le risposte suggerite per arginare il fenomeno ed evitare le
distorsioni.
Una prima è quella di un più deciso ancoraggio ai dati reali, abbandonando così le domande
di ricerca guidate dall’opinione corrente e utilizzando metodi di ricerca più in grado di
descrivere una realtà piuttosto che un’opinione.
«… spesso vedo questa mancanza, cioè… lo slegame, che non mi piace perché
è anche una parola che ti sloga la mascella, lo slegamento tra il dato di fatto
rea…cioè la realtà contingente e poi le evoluzioni politiche che si possono
193
avere, la ricerca e tutto quanto… perché partire dal reale ti permette di saggiare
il territorio e quindi capisci com’è l’evoluzione, capisci che ci sono dei
problemi sulla sicurezza e allora, andando a vedere nella storia dei numeri, vai
a vedere quali sono le singole località dove, e da li inizia tutto il lavoro.»
Le ricerche dovrebbero dunque vedere un’integrazione fra la rilevazione dell’opinione e
alcuni dati reali, raccolti in altro modo, per evitare il rischio di distorsione della domanda di
ricerca e, in generale, della costruzione di tutta la metodologia. Oltre a questo, il ricercatore
evidenzia l’utilità, al fine di combattere questa tendenza, di metodologie più orientate
all’osservazione diretta, come ad esempio quelle etnografiche, anch’esse da integrare ad altri
strumenti, per avere una maggiore completezza d’analisi.
Vista la scarsa diffusione, anche fra i ricercatori, di ricerche complesse e soprattutto di
ricerche basate su osservazione diretta, la necessità emersa dalle interviste mi è sembrato un
elemento di grande interesse, segno di una maturità della cultura della comunità dei
ricercatori, ma anche della percezione della presenza di un tarlo pericoloso e da estirpare nel
modello della pratica di ricerca oggi in uso. Un tarlo che, risulta evidente, non è sufficiente
combattere con standard qualitativi o tecniche nuove, ma con la diffusione di una diversa
cultura della ricerca sociale applicata alla politica, sia all’interno del mondo dei ricercatori,
sia all’interno del mondo dei decisori, per arrivare ad un rapporto di committenza posto su
basi più proficue.
Una nuova idea di ricerca
Collegata a questo tema, la seconda risposta spinge nella direzione della necessità di lavorare
sulle culture professionali al fine di affermare un nuovo concetto di ricerca applicata alla
politica. Essa chiama in campo non solo la necessità di integrare con dati reali i modi esistenti
di fare ricerca, ma anche di utilizzare fin dall’inizio un diverso modello di ricerca, più critico
e aperto a ricercare interrogativi, complessità, paradossi, più che risposte decise nette e per
forza di cose forzate.
È una rappresentazione, in questo caso, isolata e che dunque non può essere presa a
riferimento della cultura dell’intera categoria. Ma il modo in cui si integra con le riflessioni
precedenti e la profondità del ragionamento la rendono interessante a prescindere dalla sua
194
diffusione, tanto da essere presa in considerazione come contributo alla costruzione della fase
delle interviste ai decisori.
«…io sono stufo che si sparli di sondaggio, perché forse parte dal punto di vista
semantico c’è una differenza fra ricerca e sondaggio, …
… La ricerca è giocarsi delle ipotesi, delle ipotesi un pochino più complesse,
un pochino più articolate, introdurre anche dei meccanismi di controllo, di
falsificazione, di ridondanza, nei risultati, … E soprattutto direi è l’ipotesi di
lavoro che è costruita in maniera più critica, in maniera più articolata.»
La critica – è evidente – è alle eccessive semplificazioni introdotte con la diffusione del
classico sondaggio quantitativo. Semplificazioni che rischiano di far perdere di vista la
complessità della realtà sociale, a cui la ricerca deve in qualche modo trovare dei
corrispettivi, se vuole mantenere la sua capacità di lettura della realtà.
Un nuovo modello di consulenza
Emerge infine dalle interviste una visione nuova del ruolo del ricercatore.
La realtà italiana vede la presenza di forme variegate di costruzione delle relazioni fra politica
e professionismo.
Il ricercatore, infatti, può essere chiamato a svolgere il suo ruolo limitatamente alla fornitura
di ricerche, oppure, in altri casi, anche con un compito di consulenza a tutto tondo, per la
costruzione della strategia politica e comunicativa.
Non esiste un modello standard cui fare riferimento, in quanto il modo in cui si sviluppa la
relazione dipende da fattori diversi come la cultura politica dell’attore, la presenza di altri
consulenti, la durata e solidità del rapporto fiduciario fra decisore e ricercatore.
Dalle interviste però è emersa in più occasioni una rappresentazione dei ricercatori
sull’evoluzione che il rapporto di committenza sta prendendo. Alla luce delle considerazioni
svolte circa la varietà del modello di professionismo italiano, ma soprattutto vista
195
l’importanza di queste relazioni ai fini dell’utilizzo delle ricerche da parte dei decisori, ho
ritenuto opportuno riportare alcuni tratti di questa rappresentazione.
Il primo punto, segnalato in più interviste, riguarda la necessità di orientare di più la ricerca
alle esigenze di comunicazione degli attori politici, cercando di restituire ai decisori risultati,
spunti, segnalazioni utili a intraprendere strategie comunicative più studiate e calibrate.
«Allora, forte accentuazione delle ricerche in relazione alla comunicazione, più
cresce la disaffezione degli elettori, più cresce la personalizzazione della
politica e quindi la comunicazione, e quindi ci sono alcune tecniche, anche
molto sofisticate, di utilizzo: delle ricerche qualitative, analisi lessicali e così
via……Sì e no, sono prevalentemente qualitative.»
Ciò significa, in buona sostanza, anche la capacità di scegliere con maggiore cura la tipologia
di ricerca da effettuare, oltre che la domanda di ricerca che vi deve stare alla base.
Secondo la rappresentazione emersa dalle interviste ai ricercatori, una maggiore attenzione
alla comunicazione degli attori politici è ciò che rende una ricerca in grado di offrire un
contributo strategico, e non solamente tattico, alla politica.
«Quindi questo è … il … diciamo la … la… il tema secondo principale è
proprio l’uso strategico, e quindi qualitativo da una parte e orientamento al
messaggio da costruire e non alla conoscenza e basta …»
Mi sembra interessante la considerazione, data quasi per scontata, di legare biunivocamente
la strategia con la comunicazione, come se tutta l’azione politica programmabile si riducesse
all’aspetto comunicativo.
Il secondo aspetto interviene invece nei processi di produzione delle ricerche. In alcune
interviste infatti emerge la necessità di una maggiore vicinanza del ricercatore alla ricerca
stessa, ad esempio osservando di persona la rilevazione.
196
«… anche perché alla fine la cosa che io trovo più utile è proprio sentire …
cioè non sentire la rielaborazione che fa …ma sentire le persone … quindi
ascoltare direttamente, io trovo molto più utile quello, che conduca o che non
conduca, ma trovo molto più utile sentire direttamente, perché ti fai un’idea,
cioè magari c’è quella frasetta che ti stimola, almeno io ho capito così … come
dei singoli stimoli da reinterpretare.»
«… e spesso e volentieri, io e i miei ricercatori siamo anche tra gli
intervistatori, perché io credo fermamente che il contatto con i soggetti ti
permette di studiare nella maniera migliore l’applicazione della metodologia: se
io stabilisco che, in un questionario face to face devo riuscire ad applicare un
determinato tipo di metodologia con delle analisi su quello che è l’intimo ecc..,
devo riuscire a rendermi conto di persona quali sono le evoluzioni possibili,
perché nel momento in cui poi un eventuale terzo interlocutore mi riporta i
risultati di un’analisi fatta con questo metodo, se io non l’ho provata sulla mia
pelle, non so di che cosa mi stai parlano.»
Come si evince dai brani, il ruolo del ricercatore va interpretato anche partecipando
direttamente alla ricerca, soprattutto quelle qualitative, laddove il risultato che più conta non
è un dato numerico, che è difficilmente interpretabile in sé, ma una rappresentazione, il cui
senso può essere compreso pienamente solo con un contatto diretto.
E le motivazioni addotte sono sostanzialmente di due tipi. Da un lato la partecipazione diretta
all’indagine permette al ricercatore di non tralasciare elementi importanti del risultato della
ricerca oppure di non interpretare correttamente questi ultimi. Dall’altro, la presenza del
ricercatore permette un controllo sulla qualità della metodologia e della sua applicazione al
caso, che, soprattutto in ricerche ad hoc e con uso di metodi qualitativi, possono rappresentare
elementi in grado di determinare la qualità del lavoro.
In ogni caso, al di là delle motivazioni, l’importanza dell’osservazione diretta alla ricerca
significa anche, di riflesso, che il ricercatore è possessore di un bagaglio di informazioni utili
alla decisione politica che il report non è in grado di fornire. La presenza del ricercatore
diventa allora fondamentale anche oltre la restituzione dei risultati: il ricercatore diventa, di
197
fatto, un consulente, chiamato ad offrire non solo prodotti di ricerca, ma soprattutto opinioni,
letture dei fenomeni, consigli e strategie basate sulla propria esperienza di ricercatore.
La necessità di orientare le ricerche alle necessità comunicative e la necessità di partecipare
in prima persona alla ricerca, allora, avvicinano il lavoro del ricercatore a quello del
consulente di comunicazione, o integrando i due compiti o addirittura racchiudendoli in
un’unica figura professionale.
E questo è esplicitato da alcuni intervistati.
«…nel senso che andava in quella ottica che ti dicevo di integrazione delle
varie aree, in realtà lì avevamo diviso in tre aree un’area della ricerca, un’area
più di consulenza politica, un’area di consulenza creativa con effetto
comunicativo, e li avevamo riunioni di strategia con i clienti in cui ci stavano
sempre le tre figure, quindi in realtà il ragionamento era un ragionamento che
univa la ricerca alla comunicazione passando per la strategia anche nella
presentazione della ricerca stessa e e nel ragionamento con il cliente, quindi
fondamentalmente lo davamo noi, nel senso che poi noi facevamo le proposte e
trasferivamo, cioè l’uso strategico era più nostro più che non del cliente, poi
anche i clienti, ovviamente, quelli sono un altro problema, diciamo …»
1.5 Conclusioni
Come si è detto, le interviste ai ricercatori sono state utilizzate per fare emergere temi e
concetti utili alla successiva fase delle interviste ai decisori, il vero focus della ricerca.
Da questo primo capitolo sono emersi numerosi temi che sono stati ripresi nelle interviste ai
ricercatori.
Gli stessi, peraltro, offrono una prima rappresentazione del tema delle ricerche nella politica,
che contribuisce alla costruzione sociale del concetto e dell’oggetto, utilizzando la prospettiva
di Latour introdotta nella prima parte.
In primo luogo, ciò che emerge con una certa forza è che i ricercatori sostanzialmente si
allineano alla visione mainstream delle ricerche come mezzo per misurare l’opinione
pubblica e dunque come ausilio alla decisione politica.
198
Lo fanno, è vero, con sfumature diverse. Ma le diverse posizioni si giustificano soprattutto
con la minore o maggiore soddisfazione circa la reale applicazione degli assunti contenuti
nella visione mainstream. Al massimo, emerge come una parte della categoria presti
attenzioni alle questioni metodologiche, alla correttezza dell’uso, alla cultura del sondaggio,
ad una migliore e più proficua definizione del ruolo della consulenza.
Ma le ipotesi circa le potenzialità della ricerca in politica rimangono quelle legate alla visione
mainstream. La differenziazione delle posizioni avviene sul piano del giudizio circa la loro
applicazione pratica. Ma i principi non sono sostanzialmente scalfiti.
Da un punto di vista della costruzione del concetto, dunque, la posizione dei ricercatori è
significativamente omogenea e compatta. Che mette in evidenza un dato culturale di grande
importanza.
La posizione dei ricercatori dunque è in linea con la visione della professionalizzazione della
politica (Mancini 2001) e con l’interpretazione delle ricerche come sistemi esperti (Giddens
1994), resi necessari dalla razionalizzazione del campo politico.
La questione dunque si sposta sull’applicazione nella prassi di questo modello e sui vincoli e
le dinamiche che la rendono possibile.
Tutta la discussione sulla rappresentazione degli strumenti si muove su questo livello, segno
ancora di come le questioni epistemologiche siano date per scontato.
199
CAP. 2
I RICERCATORI: LOGICHE E PRATICHE D’USO
2.1 Introduzione
Per quanto riguarda le pratiche e le logiche d’utilizzo, le interviste ai ricercatori, intesi come
testimoni privilegiati del tema oggetto di analisi, si sono rivelate utili in due direzioni.
Le rappresentazioni raccolte sono state utilizzate per calibrare le interviste ai decisori, le
tematiche rilevanti, le questioni aperte.
D’altro canto gli stessi risultati delle interviste ai ricercatori sono stati messi in relazione con
quelli dei decisori, come basi di confronto per la ricostruzione delle pratiche e delle
attribuzioni di senso.
La rappresentazione delle ricerche e del loro ruolo da parte dei ricercatori è fatta di molteplici
aspetti e punti di vista.
In precedenza, abbiamo riportato i concetti e le categorie emerse dall’analisi relativa a quelle
narrazioni che parlavano delle ricerche nella loro generalità, per comprendere la visione dei
ricercatori rispetto al fenomeno.
Fra i tanti elementi che si sarebbero potuti approfondire circa questa rappresentazione, fin
dalla predisposizione della domanda di ricerca ho scelto di concentrarmi sulle narrazioni
relative alle pratiche e logiche dell’uso delle ricerche da parte dei decisori. Coerentemente, ho
deciso di utilizzare le interviste preliminari ai ricercatori per indagare la loro rappresentazione
anche relativamente a questo aspetto.
A questo proposito, occorre introdurre alcune riflessioni preliminari.
Innanzitutto le domande poste ai ricercatori circa questi aspetti sono state pensate e realizzate
con la consapevolezza che le risposte avrebbero potuto risentire di una difficoltà di ordine
generale. Infatti, è del tutto evidente che la conoscenza da parte dei ricercatori circa logiche e
pratiche d’uso poteva risultare sostanzialmente indiretta.
Non è consuetudine, infatti, che il ricercatore possa osservare direttamente l’utilizzo delle
ricerche da parte del decisore. Normalmente il suo ruolo termina al momento della consegna
e dell’illustrazione dei risultati, con qualche ovvia variante dovuta a situazioni particolari.
200
Inoltre è comprensibile come la stessa attenzione dei ricercatori possa essere molto più
concentrata sugli aspetti della produzione delle ricerche, che rientra più direttamente nel loro
ambito di professionalità.
D’altro canto, occorre dire che le scelte dei decisori pubblici spesso avvengono sulla scena
pubblica, sono oggetto di attenzione e di dibattito.
In questo modo è difficile pensare ad un disinteresse totale dei ricercatori circa le pratiche
d’uso. Anzi, è del tutto evidente che dovrebbe esistere un interesse professionale da parte loro
nell’analizzare la capacità delle proprie produzioni di interagire e incidere nella decisione
politica, quale segnale della capacità di influenza dei propri lavori, del livello di qualità con
cui i propri consigli sono accolti dalla politica, dei possibili sviluppi anche professionali che
si possono aprire conseguentemente a certe scelte.
Certamente il loro interesse per le pratiche d’uso delle ricerche da parte dei decisori potrà non
essere prioritario, organizzato, né potrà fare conto su osservazioni dirette e approfondite. Ma
è fuori di dubbio che un atteggiamento totalmente disinteressato è quantomeno poco
plausibile.
Per queste ragioni, ho ritenuto significativo approfondire la rappresentazione dei ricercatori
nella direzione delle pratiche e delle logiche d’uso messe in atto dai decisori.
Le narrazioni che sono uscite da queste interviste, per le ragioni sopra ricordate, si sono
rivelate non molto ricche di dettagli e ricostruzioni puntuali, quanto piuttosto di giudizi e
generalizzazioni assai interessanti.
I risultati si sono rivelati ugualmente di grande utilità, pur nella consapevolezza che, visto che
si tratta comunque di giudizi già elaborati e razionalizzati e non osservazioni “grezze”, hanno
senz’altro risentito di tipizzazioni e generalizzazioni.
Nonostante questo, sono serviti per impostare il lavoro sulle successive interviste ai decisori,
per comprendere meglio le possibili dinamiche e i punti da approfondire.
Consci di questi limiti, occorre essere espliciti circa l’utilità di questi risultati.
Vista l’assoluta mancanza di lavori empirici di ricostruzione di pratiche e logiche d’uso delle
ricerche da parte dei decisori, le categorizzazioni e i concetti usciti dalle interviste con i
ricercatori hanno costituito una base altrimenti inesistente per la progettazione del disegno
della ricerca sui decisori, individuando punti di vista, concetti, ambiti da approfondire,
201
questioni da chiarire, senza i quali le interviste in profondità ai decisori (e in assenza di
un’osservazione etnografica) non avrebbero potuto restituire grandi elementi di
accrescimento delle nostre conoscenze in merito.
2.2 Tre tipologie di decisore politico
Dalle interviste ai ricercatori è emersa come significativa la distinzione dei decisori in tre
gruppi.
Il tipo di attore politico maggiormente coinvolto nelle prassi relative alle ricerche socio-
politiche è di particolare importanza. Permette infatti di comprendere l’influenza sull’utilizzo
dei ruoli ricoperti.
Ma da un punto di vista del disegno della ricerca, l’individuazione dei gruppi di attori più
significativi ha consentito di impostare al meglio la campagna di interviste ai decisori.
I partiti
Le organizzazioni partitiche sono senz’altro l’attore politico più citato dai ricercatori, segno
di una relazione più stretta e proficua. Si tratta principalmente di partiti a livello centrale-
nazionale, non tanto a livello locale.
«…una presenza molto forte dei partiti e del partito politico come elemento che
struttura, in realtà il campo della politica ed è egemone nella politica, questo
non adesso, parlo di tanti anni fa, e quindi l’utilizzo di strumenti che sono …
partiva e faceva sempre riferimento a questo, questo forte soggetto, il
partito…»
Alcuni brani di interviste riportano la centralità del partito politico ad una situazione
tipicamente italiana, o quantomeno una peculiarità sviluppata in Italia più che in altri paesi.
La centralità del partito nello strutturare il campo della politica porta inevitabilmente ad una
costruzione del consenso basata principalmente su appartenenze, con la conseguenza che la
possibilità di utilizzare ricerche applicate alla politica cala notevolmente.
202
Da ciò deriverebbe in primo luogo la scarsa capacità storica da parte dei partiti italiani di
utilizzare gli strumenti messi a disposizione dall’avvento della professionalizzazione della
politica.
La centralità dei partiti è un fenomeno ancora presente nelle rappresentazioni dei ricercatori,
anche se in calo in seguito ad una serie di fattori fra cui la de-ideologicizzazione della
politica, i cambiamenti avvenuti nella sfera tecnologica dei media e dell’informazione (es.
nascita della televisione commerciale prima e di internet oggi) l’avvento di leggi elettorali
maggioritarie, la ristrutturazione del campo politico italiano avvenuta in seguito al crollo del
sistema politico conosciuto come “prima repubblica”, l’avvento di nuovi attori politici capaci
di portare un’innovazione nelle culture e nelle tecniche di gestione del consenso politico.
All’interno dei partiti, può variare di molto l’ampiezza del numero di persone coinvolte nel
contatto con i ricercatori, a seconda del modello organizzativo di ogni partito e di altre
variabili.
La frequenza di commissionamento delle ricerche (soprattutto quelle più veloci e
standardizzate, ad esempio sul clima politico, intenzioni di voto, agenda tematica) può
variare. Normalmente i partiti possono commissionare indagini mensilmente, anche se questa
cadenza può crescere in momenti particolari o in occasione di esigenze specifiche.
«… Diventa mensile …Poi ci sono tutti gli episodi che accadono, poi non so,
Fassino a Porta a Porta, il giorno dopo vuole sapere com’è andato, ma dopo c’è
ormai un uso continuativo del mezzo»
«Guardi, allora, diciamo che i partiti utilizzano molto le intenzioni di voto,
anche mensilmente. Nel senso che acquistano … che poi non è che fra un mese
e l’altro ci siano grandi variazioni. Però loro giudicano quello un prodotto
molto importante. Questo lo fanno più o meno tutti»
Si può dire che per quei partiti che fanno un utilizzo continuativo, le indagini più veloci sono
ormai mensili. Ma sono molto frequenti accelerazioni della cadenza, oppure il
commissionamento di altre indagini con obiettivi specifici, anche ad istituti differenti.
203
Infine occorre dire che, per i ricercatori, l’attività svolta dai partiti politici in merito alle
pratiche di utilizzo delle ricerche è giudicata molto negativamente.
«…pochi partiti hanno un’idea dell’indagine strategica. Diciamo che si
svegliano quando c’è aria di elezioni. Quando è un po’ tardi per lavorare.»
In primo luogo è evidente come l’uso fatto dai partiti è considerato poco dinamico, poco
centrato sugli obiettivi, molto routinario. In questo modo, le potenzialità offerte dalle ricerche
andrebbero perdute e sarebbero poco sfruttate.
Diverso è il momento elettorale, in cui la necessità di raccolta del consenso e di investimento
in comunicazione rende necessario un conseguente maggior utilizzo di ricerche a ciò
finalizzate.
In secondo luogo, è criticata la bassa capacità di ragionamento strategico, che, come
vedremo, ha conseguenze precise anche in ordine alle situazioni di utilizzo delle ricerche.
Alla sostanziale miopia nell’utilizzo si può aggiungere in taluni casi un giudizio
drasticamente più negativo.
«Quelli son delle bestie, sono, sono delle bestie. No, ma son delle bestie nel
momento, son delle bestie! Perché il momento decisionale dei partiti è sempre
uno qui
… Perché loro quando hanno quel problema li, non prendono la ricerca,
prendono il consulente, cioè allora vanno dal guru … Ma se hanno un
problema di costruzione di pensiero, non ti interpellano come ricercatore.
Diciamo che, ti interpellano come ricercatore, ma come esperto, allora tu non
fai ricerca ma dai una prestazione di consulenza.»
Un giudizio così negativo risente di un generale biasimo circa la non elevata capacità di
utilizzo delle ricerche da parte dei partiti. La sensazione diffusa in grande maggioranza è
l’idea che le ricerche commissionate dai partiti vengano poi “messe nel cassetto” e non
abbiano alcun tipo di utilizzo. La causa è sostanzialmente la bassa capacità dei partiti di
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pensare ad un uso differente della ricerca. La conseguenza, invece, è il disincentivo a
prendere in considerazione altre esperienze di ricerca, altre modalità con altri obiettivi.
Le vere questioni che i partiti affrontano non vengono risolte con l’utilizzo di ricerche socio-
politiche, ma con altre routine.
Al massimo, può essere utile la figura del consulente, del guru, nel quale, com’è evidente,
contano più la legittimazione e la credibilità personali che non la qualità delle ricerche e il
valore conoscitivo che esse sanno apportare.
Una modalità di relazione con i ricercatori che non valorizza il ruolo di questi ultimi, né
l’assunto circa l’utilità della ricerca applicata. E come tale non è apprezzato dalla categoria,
in quanto ne mina alla base le pretese di utilità e dunque di esistenza sul mercato.
Staff politici all’interno di istituzioni
Un secondo gruppo di attori molto interessante riguarda gli staff politici che operano
all’interno delle istituzioni, a stretto contatto con il politico titolare della carica.
Parliamo in questo caso soprattutto di ruoli del Governo centrale (Presidenza del Consiglio e
Ministeri).
Per staff politici intendiamo quei ruoli legati alla figura del politico titolare della carica,
oppure di quei ruoli dirigenziali comunque strettamente legati agli obiettivi politici della
maggioranza di turno. Distinguendo, in questo modo, in maniera netta dalla “macchina
amministrativa” dei funzionari dipendenti fissi, che normalmente non entrano nel processo
che riguarda le ricerche socio-politiche.
Gli staff ministeriali sono meno citati nelle interviste. Ma la qualità delle narrazioni e
l’importanza a loro attribuita dagli stessi intervistati li rendono un gruppo di decisori politici
di rilevanza particolare, con proprie dinamiche e peculiarità.
Una prima questione riguarda i budget. La centralità degli staff istituzionali si spiega infatti
con la possibilità di disporre di grandi budget di spesa, che al di fuori delle istituzioni non
sono disponibili.
205
«Eh, sai, i ministeri si, i ministeri fanno, o le regioni, le regioni si mette in testa
di uno studio sulla percezione del no profit, son 300 mila euri che magari in
parte vanno a professori di sociologia, in parte ad istituti legati a sociologia ma
un istituto, sa, soprattutto a livello di regione, di ministeri, i budget possono
sono enormi»
Si tratta di un punto delicato, che merita approfondimento.
Non abbiamo approfondito il tipo di ricerca in oggetto, né le finalità. Non è possibile dunque
sapere se con i budget istituzionali vengano finanziate ricerche il cui obiettivo è di natura
strettamente politica oppure ricerche il cui interesse può rientrare nelle competenze dell’ente
e dunque essere più legittimo.
D’altro canto, anche nel secondo caso è del tutto evidente che la guida politica è in grado di
orientare spese istituzionali orientandole verso un maggiori uso di ricerche, pur rimanendo in
un ambito di piena legittimità.
In questo ambito, un committente molto citato nelle interviste è la Presidenza del Consiglio.
La quale svolge istituzionalmente ricerche sulla percezione dell’esecutivo e, più in generale,
sullo scenario politico. E lo fa con contratti di lungo periodo, stipulati con più istituti.
Si configura pertanto come uno dei principali attori sulla scena dell’utilizzo di ricerche, sia
per quantità, ampiezza, costi e costanza di indagini commissionate, sia per quanto riguarda il
prestigio che i ricercatori ne possono ricavare.
«E quindi chi fa le ricerche è chi ha il potere. Per esempio la Presidenza del
Consiglio diventa un committente interessante, perché lì ha bisogno di fare
delle verifiche, vedere l’opinione della gente, verificare il rispetto del
programma, eccetera eccetera.»
Anche i ministeri emergono dalle interviste come attori di primo piano nel
commissionamento di indagini specifiche.
«Il target invece che ha aumentato la propria cultura verso il sondaggio sono i
ministeri, le istituzioni. Le istituzioni hanno capito invece che per essere
apprezzati dall’opinione pubblica non basta solamente il fare. Ma loro hanno
206
riscontrato delle dinamiche che c’è sempre una notevole discrepanza fra ciò che
loro fanno e ciò che l’opinione percepisce.
Poiché i partiti fanno poco, in un certo senso, perché non è compito dei partiti
di cambiare la società. È compito di chi governa, di chi è ministro, di chi è
presidente della Regione, e così via. Quindi sono queste le figure che hanno
maggior bisogno di misurarsi, di capire se quello che loro hanno fatto è
percepito o meno dall’opinione pubblica.»
Il brano precedentemente riportato mi è parso particolarmente interessante per la narrazione
circa le motivazioni della crescita di importanza dei ministeri (e del Governo centrale, in
generale) nel commissionamento di ricerche.
Si tratterebbe, dunque, non solo di una questione legata al maggior budget da spendere,
oppure alla mera gestione del consenso. Piuttosto nell’attività di Governo si incarnerebbe una
maggiore percezione delle capacità di influenza sulla società e di cambiamento della stessa. Il
potere di intervento mette in gioco una maggiore apertura a direzioni innovative, scelte non
scontate, decisioni anche rivoluzionarie. Le quali, per poter essere perseguite con la
necessaria ponderatezza, necessitano del supporto di specifiche ricerche socio-politiche.
Le narrazioni sulle ricerche commissionate da staff ministeriali mostrano un livello di
costruzione della riservatezza assai superiore rispetto a quanto avviene con gli altri attori.
Non vengono mai riportati esempi dettagliati sul tipo di pratiche messe in atto, né sul tipo di
ricerche commissionate.
Segno della necessità di mantenere maggiore riservatezza in quest’ambito rispetto al lavoro
svolto con gli altri gruppi di decisori.
Anche nel locale si ripropone, in piccolo, la stessa situazione, con una maggiore possibilità di
utilizzo pieno delle ricerche una volta che l’attore politico si insedia nel ruolo istituzionale.
«nel momento in cui diventano amministratori, anche locali, lì la cosa diventa
decisamente più interessante….ecco, quando diventano amministratori diventa
più divertente la cosa, perché fanno un uso delle ricerche più … che rende
giustizia alle ricerche»
207
La centralità degli staff istituzionali configura un campo così ampio e autonomo da
individuare in potenza un’intera disciplina della ricerca applicata.
«io lo chiamo marketing pubblico, questa è un’altra area no? Dove
sostanzialmente si va a lavorare in termini di analisi e costruzione di
rappresentazioni e di percorsi comunicazionali. …
Ci sono, ci sono molte, non è che siamo all’anno zero, è che le cose sono
estemporanee e poco conosciute, poco conosciute perché…»
Per quanto sia ancora in fase embrionale, come risulta da questo stesso brano, quella del
marketing pubblico rappresenta, secondo la percezione dei ricercatori, una potenzialità
importante per il futuro, capace di saldare assieme le finalità istituzionali con le ricerche
demoscopiche e sull’opinione pubblica.
Attori locali
Infine, il terzo gruppo riguarda gli attori locali.
Dalle interviste emergono infatti alcune relazioni con figure politiche locali, soprattutto in
occasione di competizioni elettorali per il governo locale. Si tratta principalmente di sindaci
uscenti o candidati alla carica di sindaco. E, con minore frequenza, anche ad altri livelli locali
come Province e Regioni.
Da ricordare inoltre le situazioni relative ai deputati locali, che, fino alla precedente legge
elettorale per le politiche, venivano eletti con il meccanismo del collegio uninominale, che
enfatizzava le campagne elettorali nel territorio.
Anche in questo caso l’ampiezza dei gruppi contattati può variare a seconda dei contesti,
dell’importanza del tipo di elezione di amministrazione in gioco.
Emerge in ogni caso il ruolo preponderante delle campagne elettorali per la carica di sindaco,
nelle quali, per il tipo di campagna, per l’importanza della carica dopo le riforme di inizio
anni ’90, per le peculiarità dei meccanismi di costruzione del consenso delle realtà cittadine,
emerge come uno dei gruppi di attori con il contatto più stabile e ricorrente con il mondo
della ricerca.
208
«oppure poi ci sono i singoli candidati, soprattutto per i sindaci o le elezioni
locali.»
La ricostruzione circa l’origine dell’importanza degli attori locali nell’uso delle ricerche
socio-politiche parte ovviamente dalle riforme elettorali dei primi anni ’90, le quali in pochi
anni, hanno dato vita a campagne elettorale, sia per le politiche che per le amministrative, in
cui il territorio aveva grande importanza per la costruzione del consenso.
«con la legge elettorale nuova, in realtà partono, qui i sindaci e, a quel punto
probabilmente c’era anche una maggior, un …passo di laicità nella politica nel
senso che comincia a capire il senso della comunicazione politica, il senso
dell’acquisire consensi a faccia aperta anche attraverso strumenti che qualcuno
pensava strumenti del raggiro o di peccato»
La granitica figura del partito perdeva dunque importanza e si aprivano nuovi spazi di
conquista del voto, presso elettorati più mobili perché più ancorati a temi locali.
In questo contesto, l’uso delle ricerche è stato percepito come un reale valore aggiunto.
Inoltre, visto il numero di comuni, province, regioni, collegi, quello degli attori locali è stato
senz’altro un ambito di intervento da parte della ricerca fra i più ampi, che portava gli istituti
a lavorare prioritariamente su questi temi durante i periodi della campagna elettorale.
Un sistema che oggi è quantomeno diminuito, causa il venir meno dei collegi per le elezioni
politiche.
Rimane invece la centralità delle campagne elettorali per la corsa a sindaco.
2.3 Tipologie d’uso
Il primo aspetto da riportare riguarda le tipologie d’uso.
Dalle interviste con i ricercatori, infatti, sono uscite alcune modalità “tipiche” di utilizzo delle
ricerche da parte dei decisori.
Si tratta di situazioni ricorrenti nell’ambito del mestiere politico, in cui vengono messi in
evidenza gli obiettivi che muovono i vari decisori e il modo in cui le ricerche interagiscono
con i vari elementi del campo, fino ad arrivare alla decisione.
209
La ricostruzione dei decisori non è dettagliata, ma si limita a descrivere situazioni tipo e a
mostrare la propria rappresentazione sul ruolo svolto dalle ricerche in quelle situazioni.
In questo paragrafo ripercorrerò ciascuna di queste situazioni tipo, evidenziando il modo in
cui è stata trattata nelle interviste con i ricercatori.
Dalle interviste con i ricercatori emerge una categorizzazione forte, che struttura il campo
dell’intera rappresentazione legata all’uso delle ricerche da parte della politica.
Si tratta della distinzione fra uso strategico e uso tattico, al quale si aggiunge un terzo
utilizzo, di natura differente, l’uso a fini comunicativi.
L’uso strategico riguarda la predisposizione di azioni a lungo termine, di scenario, non
guidate da eventi o situazioni particolari, ma capaci di dare vita a corsi d’azione razionali e
preparati con cura, per ottenere obiettivi organizzativi di lungo periodo.
L’uso tattico, invece, attiene ai comportamenti opporti, e cioè la predisposizione di quei corsi
d’azione finalizzati proprio alle scelte da compiere in relazione ad eventi di attualità,
posizioni tenute da competitors, scelte di breve periodo. Un’azione finalizzata ad ottenere
vantaggi immediati, utili a porre le basi per costruzioni di corsi d’azione di più lungo periodo.
Questi primi due tipi di uso attengono entrambi ad una visione delle ricerche come strumento
di conoscenza. Il terzo tipo, invece, porta con sé una visione diversa. Le ricerche infatti
possono essere utilizzate anche per fini comunicativi. Mostrando il consenso verso attori o
politiche e rendendolo visibile tramite i “numeri” forniti dalle ricerche, la politica cerca di
legittimare le posizioni, aumentandone la percezione di desiderabilità sociale, e attivando
fenomeni noti come l’effetto bandwagon e la più ampia teoria sociologica della profezia che
si autoadempie.
In questa terza versione, le ricerche non sono dunque utilizzate come strumento di
conoscenza, ma piuttosto con un utilizzo che possiamo chiamare strumentale.
Dai risultati emersi dalle interviste possiamo trarre alcune altre considerazioni.
In primo luogo, è unanime convincimento che le ricerche tattiche prevalgono nettamente sulle
altre.
210
«Quindi tattiche prevalgono largamente… e sono focalizzate su tre-quattro
punti molto semplici: intenzione di voto, immagine del leader, issues, vuol dire
i temi a cui gli italiani sono più sensibili.»
«C’è un’utilità tutta strumentale, mai strategica, tutta tattica, tutta di breve
periodo»
Come vedremo nella descrizione della varie situazioni d’uso, la percezione dei ricercatori è
chiara e vede un’assoluta predominanza delle ricerche tattiche, mentre alle strategiche è
riservato un ruolo marginale.
Per quanto riguarda invece l’utilizzo a fini comunicativi, è meno citato, anche se con
narrazioni anche significative. Esso evidenzia l’intreccio fra ricerca e comunicazione, ma la
sposta verso un uso strumentale. Un uso che dunque riguarda più le pratiche di
comunicazione e che è stato sufficientemente approfondito dalla ricerca sociale, in particolare
dal campo di studi della comunicazione politica.
Per queste ragioni, ho preferito concentrare l’attenzione su quelle pratiche d’uso che
interessano il contributo di conoscenza offerto dalle ricerche, evitando così gli usi strumentali
che, per loro stessa natura, sono estranei all’uso per cui le ricerche nascono e si affermano.
Tornando dunque agli usi tattico e strategico, vediamo ora le varie situazioni in cui questo
uso si evidenzia, così come esse sono emerse dall’analisi delle interviste.
L’uso previsivo
La più citata fra tutte le situazioni riguarda senz’altro l’uso previsivo delle ricerche.
Si tratta sostanzialmente di momenti di competizione elettorale, a tutti i livelli.
In questi casi, la ricerca formalmente è costruita con l’obiettivo di comprendere la situazione
dello scenario competitivo della competizione elettorale a quel dato momento della
rilevazione. Ma l’obiettivo di fondo, in realtà, è quello di interpretare il dato come una
previsione circa l’esito finale della competizione.
È un tipo di utilizzo criticato da tutti i ricercatori, senza distinzione.
211
Le stesse caratteristiche metodologiche delle ricerche (in questo caso del sondaggio
telefonico) non consentirebbero infatti di trarre conclusioni circa proiezioni future.
«fondamentalmente due utilizzi: quello previsivo, …domani non me ne faccio
nulla della situazione di oggi»
«Poi come dicevo prima ci sono due target di clientela. Quelli che usano il
sondaggio come previsione, ed è il modo peggiore di utilizzare il sondaggio.
Perché se lo usi come previsione, ci vuole davvero una palla di vetro per capire
cosa succederà fra due anni.»
Per non parlare poi delle difficoltà di ordine tecnico e metodologico dello stimare anche lo
stato dell’opinione pubblica anche al momento stesso della rilevazione. Nelle interviste sono
spesso ricordate le difficoltà tecniche, come il problema dei non-respondent e quello delle
approssimazioni marginali della stima. Sono invece senz’altro meno presenti le
controindicazioni di natura metodologica o epistemologica.
Una seconda ragione addotta dai ricercatori nel criticare l’uso previsivo è relativa alla scarsa
utilità pratica di un tale utilizzo. Conoscere le intenzioni di voto, presenti o future, non è
infatti d’aiuto nel compiere scelte politiche o di strategia comunicativa.
«Allora, se valutiamo il sondaggio come elemento di previsione, serve a poco.
Al cliente non serve capire se muore prima o se muore dopo. Gli serve capire
qual è la campagna che gli consente di evitare di morire. … Perché non tutti i
clienti vogliono sapere come fare a non morire!»
Questa seconda motivazione nasconde un importante assunto circa la rappresentazione delle
ricerche da parte dei ricercatori, e cioè il convincimento che queste non debbano essere meri
strumenti di conoscenza, ma che le conoscenze acquisite debbano essere utili a prendere
decisioni o alla individuazione di una comunicazione corretta.
Si tratta di un passaggio non scontato, che segna la predominanza culturale di un’idea di
ricerca applicata e applicabile. Che, d’altro canto, è in linea con l’ambizione stessa della
212
comunità professionale: senza possibilità di applicazione alla politica, difficilmente si può
affermare un mercato per la ricerca professionale.
Sono molto interessanti, poi, le narrazioni di pratiche e strategie messe in atto dai ricercatori
per contrastare la tendenza dei decisori all’uso previsivo.
«… con alcuni candidati che io ho seguito, io ho fatto un patto: guarda io non ti
do nessun risultato in percentuale sul voto, perché non ti serve. Perché oggi
oggettivamente puoi vincere o perdere per il due/tre percento e non c’è nessun
sondaggio oggi che ti può dire a un mese dalle elezioni se tu vinci o perdi,
quando la scarto è del 2% di voti. Vinci e perdi per come tu condurrai la
campagna in questo mese. Noi possiamo monitorare per vedere se le tue azioni
producono consenso. Ma è inutile che io ti dica che oggi stai al 49 e domani al
51, non serve a niente. Ti puoi deprimere in un caso e esaltare nell’altro. E il
sondaggio può essere completamente diverso dal giorno delle elezioni. … Con
dei clienti noi riusciamo a fare questo discorso. Con dei clienti maturi.»
«Quello che invece mi capita di fare è che loro vogliono le intenzioni di voto
… ecco io cerco di dargliele alla fine…”
«perché molto spesso si ha un’idea che il sondaggio sia una cosa di previsione
o che ti dice ok, alla fine vincerò io piuttosto che vincerà l’altro, cosa che noi
ce ne guardiamo assolutamente, non vorremmo mai fare questo e anzi ogni
volta che, diciamo che è molto faticoso farlo spiegare, cioè spiegarlo…»
Trovo assai interessanti queste narrazioni.
Esse evidenziano la necessità da parte dei ricercatori di mostrare all’esterno il loro attivismo e
la loro credibilità nell’aiutare la politica a impostare correttamente una relazione con la
ricerca. In questo modo essi si pongono nella linea della necessità di sviluppare una cultura
d’uso delle ricerche da parte della committenza, che, come vedremo, è un punto focale della
rappresentazione dei decisori, tanto da diventare un elemento caratterizzante di una cultura
professionale condivisa.
213
Il ruolo del ricercatore, dunque, non si pone come semplice erogatore di prestazioni e servizi.
Diventa anche quello di un consulente e, per certi aspetti, di un formatore, che si prende cura
della propria committenza cercando di guidarla verso un uso “corretto” e “migliore” dei
servizi che la stessa comunità professionale dei ricercatori può svolgere.
Informazioni ambientali
La seconda situazione tipo riguarda le attività svolte dagli attori politici per il controllo
dell’agenda e dell’andamento dell’ambiente in cui l’organizzazione è immersa.
Si tratta anche in questo caso di situazioni d’uso fra le più comuni e citate nelle interviste, con
sostanziale omogeneità di diffusione.
«Però c’è una altro tipo di target, che è quello più maturo e numericamente sta
crescendo sta diventando più pesante, che non utilizza il sondaggio a livello di
previsione a livello numerico, ma a livello di conoscenza dei bisogni della
popolazione. Ad esempio capire le tematiche a livello di comunicazione che
possono essere accettate in misura maggiore. Capire quali sono gli elementi di
rassicurazione che l’elettore deve avere…»
Come si vede, questo uso delle ricerche, rispetto al precedente uso previsivo, è considerato
nella maggioranza dei casi, come un uso corretto, consapevole, maturo.
Vi possono essere ovviamente delle variazioni, all’interno delle quali ogni istituto tenta di
differenziare il proprio prodotto, cercando di individuare spazi per un uso ancora più accorto.
«Questa è una cosa che noi facciamo tutti i mesi, no, per dire, il tentativo … è
di andare oltre oltre chi vince, perde, che pure c’è, parlando di percezioni di
clima generale e poi di sentiment politico rispetto alle intenzioni di voto, quindi
il tema dell’appartenenza e del supporto, no?»
Ma si tratta nella maggior parte dei casi di variazioni sul tema, che recano con sé la
riproposizione della stessa situazione tipo, e cioè la necessità di ottenere informazioni circa
l’ambiente circostante l’organizzazione.
214
Per quanto riguarda situazioni specifiche, la necessità di informazioni ambientali può
riguardare diversi aspetti e può assumere forme diverse.
Le più utilizzate e note sono le indagini volte a conoscere l’agenda delle priorità tematiche
dell’opinione pubblica, che rappresenta una costante ormai di gran parte delle ricerche
politiche, a tutti i livelli, dai partiti, agli staff istituzionali, al locale.
Vi sono poi casi particolari.
«Veltroni ad esempio, con il post lingotto… poi li ad esempio hanno chiamato
loro, allora ci han chiamato il giorno prima hanno detto: volgiamo un
sondaggio post-lingotto»
Il brano sopra riportato ricorda un uso particolare, citato in più interviste, che riguarda la
necessità da parte dei politici di conoscere l’apprezzamento del pubblico verso alcune
performance dei politici, soprattutto televisive.
Ma vi è anche una visione critica di questo uso delle ricerche.
«… è un anno che i temi son sempre gli stessi, c’è la sicurezza, il fisco, la
politica del lavoro, il welfare e poco altro, per cui, perché si fanno pochi
sondaggi sui temi? Perché alla fine quelli sono, almeno li conosciamo, glieli
posso scrivere … I temi glieli scrivo io»
Il brano riportato evidenzia una sclerosi delle ricerche sull’ambiente e, in particolare, su
quelle, abusate, relative alle priorità dell’agenda tematica.
L’argomentazione è chiara. Tali ricerche non possono offrire molto in termini di conoscenza,
in quanto i tempi con cui si forma l’agenda politica spesso sono molto lunghi. Ripetizioni
ristrette di ricerche del genere, dunque, non sono utili né in grado di apportare elementi di
innovazione.
Che è una delle possibili ragioni per cui i partiti fanno poche indagini e, soprattutto, a detta
degli stessi ricercatori tendono a infilarle nel cassetto più che ad utilizzarle.
215
«molti lavori nostri, anche di altri devo dire, molti lavori legati alle issues, che
sono un po’ banali, cioè tutto sommato a me interessa un po’ poco se la sanità è
al primo posto, al secondo posto. Infatti noi abbiamo messo in piedi un
osservatorio con il quale lavoriamo, con i DS ormai da 10 anni e che affronta
temi in modo un po’ diverso… su come mi devo proporre, su che tipo di
messaggi …e quindi parte il meccanismo di analisi anche della comunicazione,
quindi anche il sondaggio legato per la comunicazione, valutazione della
comunicazione”
Emergono dunque nuovi tentativi di approfondire le analisi ambientali e sull’agenda tematica.
Il tentativo è quello, ormai consueto, di legare di più le ricerche alle possibilità di
applicazione da parte dei politici alle proprie decisioni, in particolare alle scelte di natura
comunicativa.
Infine, reputo interessante riportare un esempio di ricostruzione circa le motivazioni che
hanno portato la politica a far emergere questo specifico utilizzo.
« perché le prime cose che ti dicono liberamente i dirigenti politici sono: noi
non abbiamo più le antenne, questo è l’elemento iniziale che io mi ricordi,
insomma, e che viene… non abbiamo più le antenne, cioè nel senso che loro,
come se fossero convinti che prima le antenne c’erano, e quindi con antenne
intendevano le sezioni, il partito, le feste, o la DC, le sezioni, parrocchie
potevano esserci con collegamenti… quindi l’idea era che prima loro avessero
in mano il polso dell’opinione pubblica. In realtà questo non era vero,
assolutamente, perché sapevano ben poco, in realtà dell’opinione pubblica,
però
…E quindi …questa è la prima cosa, e da lì, i sondaggi, perché allora il
sondaggio come sostituto di quello che io non colgo, quindi non colgo, non ho
più l’antenna, devo sostituire questa che era secondo me era l’antenna, cioè
quello, la mia conoscenza dell’elettorato, era diretta, o attraverso la mia
struttura, la mia organizzazione»
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Tornando dunque alle precedenti considerazioni circa la centralità dei partiti in Italia e le
modificazioni introdotte negli anni ’80 e ’90 nei modelli socio-culturali, negli strumenti
tecnologici di comunicazione e nella stessa percezione del campo della politica, il brano
precedente mette in evidenza come queste modificazioni erodano pesantemente la centralità
del partito politico e le sue modalità di gestione del proprio consenso.
La metafora della “perdita delle antenne” è molto efficace. La catena esistente fra territorio e
vertici centrali salta, perché non vi è più un rapporto esclusivo fra quei pubblici e il vertice,
ma anche perché sia affacciano sulla scena nuovi pubblici, non ideologicizzati, con i quali la
catena ideologica non funziona.
In realtà, il brano mette in evidenza come anche prima la catena fosse quantomeno allentata.
Ciononostante occorre riconoscere che la sostanza dell’argomentazione è plausibile.
La selezione delle leadership
La terza situazione riguarda le modalità di selezione delle leadership.
Con leadership, in questo caso, intendo momenti diversi: candidature a cariche elettive locali
come sindaci o presidenti di provincia e regione, scelta dei vertici dei partiti, selezione di
candidati a ruoli di governo nazionale e, principalmente, alla presidenza del consiglio.
La situazione della selezione della leadership è la situazione più citata nelle interviste ai
ricercatori, quasi all’unanimità.
«I partiti poco. I partiti si muovono in termini di pre-elettorali, soprattutto per
quanto riguarda la scelta dei candidati. E allora fai dei pre-elettorali in varie
aree per verificare se è più forte un candidato o un altro…proprio per un puro
… per una pura verifica qualitativa di chi ha più chance di vincere»
«La cosa più semplice è la scelta del candidato. Se uno ha notorietà alta e
fiducia alta, viene scelto lui. Normalmente, non sempre, è così. E lì c’è un
utilizzo concreto, visibile.»
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«non vengono fatti tanti, non viene ripetuto tante volte il sondaggio perché
magari viene fatto o inizialmente per scegliere il candidato che quindi allora
proprio quindi c’è il dubbio sulla scelta del candidato e allora ci chiedono il
sondaggio proprio perché magari c’è una decisione, c’è la lotta proprio tra i
vari candidati e allora ok, addirittura lo decidono anche durante il sondaggio,
cioè ci è capitato»
Si tratta di una situazione d’uso molto semplice e immediata, che presuppone altrettanta
semplicità nelle ricerche utilizzate.
«mentre per Gentiloni, più committente facevo un sondaggio per scegliere il
candidato essenzialmente, quantitativo, 10 domande, se le cose son 10, meglio
5, basta che costino poco»
Questa situazione si presta comunque a degli equivoci e a dei potenziali errori di
interpretazione, che sono ben presenti nella cultura dei ricercatori, tanto da metterli in
evidenza in numerose interviste.
«Ci sono magari tanti candidati e … magari c’è un candidato che pur essendo il
migliore nella graduatoria .. non è, non è quello migliore da candidare perché
magari le sue caratteristiche risultano troppo difficili da correggere agli occhi
della gente, rispetto ad altri, no? e spesso e volentieri, noi segnaliamo queste
cose qua, magari vediamo che vengono ascoltate però nessuno, o meglio, ho
avuto forse la fortuna di lavorare con uomini politici intelligenti, nessuno si
fida ciecamente»
I livelli di apprezzamento, notorietà, fiducia vanno infatti combinati per formare il giudizio
complessivo. Operazione, come sottolineano gli stessi ricercatori, si presta ad alcuni margini
di rischio e a potenziali errori.
«Anche perché spesso … diciamo, attraverso il sondaggio c’è molto spesso
anche la scelta di un candidato. Oppure un potenziale candidato decide di
candidarsi o no sulla base dei risultati di un sondaggio. In ambito locale,
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ovviamente. Ma un risultato del genere, in realtà, non mi dice niente sul futuro.
Se anche oggi il mio gradimento è zero, questo può non voler dire niente. Se ad
esempio ho di fronte un paio d’anni, faccio una buona campagna di
comunicazione, quei dati contano poco. Quindi molto spesso il sondaggio viene
usato per la scelta dei candidati utilizzandolo come strumento previsionale. E in
questo caso, ad esempio, il sondaggio sovrastima il candidato più esposto»
Come evidenzia il brano sopra riportato, in realtà si configura come una variante dell’uso
previsionale, portando con sé le stesse difficoltà tecniche, metodologiche ed epistemologiche.
In ogni caso, questi ragionamenti rimangono secondari nella rappresentazione dei ricercatori.
In molti casi, invece, la ricerca è commissionata dallo stesso attore politico.
«Teniamo presente che una campagna costa molto, economicamente, ma anche
come investimento politico. Se mi candido sindaco e perdo, probabilmente sto
fuori dallo scenario per i prossimi 5 anni. Quindi prima di candidarsi vogliono
essere certi di avere una certa probabilità. Quindi la clientela sono partiti o
coalizioni, oppure singoli candidati che prima di mettersi in gioco
pubblicamente vogliono testarsi. …»
Il brano precedente mostra un primo utilizzo diretto da parte degli attori e riguarda la scelta di
candidarsi oppure no. La posta in gioco è molto alta e le chance di successo spesso sono
difficili da ponderare.
La ricerca è dunque utile a comprendere la propria forza, per intuire le proprie possibilità e i
rischi di prendere solo una “bruciatura”.
«… perché molto spesso ci chiedono qualcosa che serve a loro, sia come
strumento di pressione, no?»
Il brano sopra invece presenta un altro caso. Quello della selezione di candidature in contesti
sovraffollati di pretendenti oppure durante lotte intestine all’interno dei partiti.
La ricerca può dunque essere commissionata dal singolo per mostrare agli altri la propria
forza e costringere così l’organismo a prendere la decisione della candidatura.
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Collegi marginali
Si tratta di una situazione molto particolare, che ho scelto di inserire nonostante alcune
controindicazioni.
Infatti, si configura come una modalità d’uso non più attuale, perché legata alla legislazione
elettorale precedente all’attuale, che era di tipo maggioritario e basata su collegi uninominali.
Ho scelto comunque di riportarla in quanto si è rivelata molto presente nei racconti dei
ricercatori, i quali l’hanno utilizzata con una certa frequenza sia come paragone rispetto alla
situazione attuale, sia per ricostruire utilizzi particolarmente interessanti.
I
l riferimento ai collegi marginali è particolarmente utilizzato dai ricercatori come pietra di
paragone rispetto all’uso delle ricerche nel nuovo contesto determinato dalla legislazione
vigente.
Per queste ragioni, ho ritenuto di includere ugualmente questa categoria.
Nel dettaglio, si tratta dell’uso di ricerche utilizzate per impostare campagne elettorali a
livello nazionale, basandosi principalmente sui “collegi marginali”, cioè quei collegi in cui la
differenza fra gli schieramenti è ridotta, per cui un maggiore impegno (candidati migliori,
maggiore risorse) può significare la vittoria del collegio (occorre ricordare che, secondo la
regola maggioritaria, chi arriva primo “prende tutto”, cioè basta un solo volto per eleggere il
deputato). Un modello che, se replicato, può portare a determinare spostamenti significativi
dell’equilibrio fra schieramenti anche a livello nazionale.
«L’altro elemento importante è capire i cosiddetti collegi marginali, cioè
concentrarsi su collegi incerti, … un tempo quando c’era la legge
maggioritaria, si facevano a livello quasi di collegio, più che altro per i collegi
marginali»
«dal 2001 cominciava a diventare interessante la vicenda dei collegi e ci
aspettavamo nel 2006 di fare molto lavoro sui collegi perché poi vabbè no»
220
L’insieme di queste ragioni porta gli schieramenti nazionali ad un intenso lavoro preliminare
di ricerca, per individuare i collegi marginali e poter così orientare diversamente le scelte
della campagna elettorale.
Si tratta dunque non di un semplice uso previsivo. La ricerca, infatti, non è utilizzata solo per
ipotizzare il voto, ma per determinare delle scelte in merito alla strategia da intraprendere
durante la campagna elettorale.
Il paragone con il sistema attuale è molto presente e molto efficace. La nuova legge
(proporzionale e con premio di maggioranza, assegnato a livello nazionale per la Camera e
Regionale per il Senato) non rende ugualmente importante l’andamento del voto locale, con
la doppia conseguenza di rendere inutili sia lavori di ricerca specifici su contesti locali, sia
attività di comunicazione mirate che da questi potevano derivare.
Rimane solo la possibilità di un lavoro di ricerca sul voto regionale, utile per l’assegnazione
del premio di maggioranza al Senato, che avviene, appunto, Regione per Regione.
Impostazione strategica e positioning
Una quarta situazione tipo è invece senz’altro la meno citata.
Riguarda attività di ricerca utilizzate per impostare nel lungo periodo l’attività degli attori
politici o le campagne elettorali.
A differenza delle precedenti, questa situazione tipo vede una grande varietà di strumenti di
ricerca, determinata dai diversi budget, dalle scelte degli attori, da obiettivi specifici di volta
in volta prioritari, dai prodotti originali messi a punto dagli istituti per questo genere di
attività.
Inoltre, la stessa varietà la si ritrova nelle rappresentazioni circa le pratiche d’uso di questo
genere di strumenti.
Un primo modo di interpretare l’attività strategica riguarda la pianificazione delle campagne
elettorali.
«Allora, primo stadio. Più qualitativo che quantitativo. …sondaggi semi
estensivi, non troppi casi, possibilmente non telefonici, o anche piccole
221
telefoniche, per verificare le tematiche importanti, i problemi più sentiti …
Dunque un’indagine a priori per impostare la campagna, per fare una prima
verifica… Poi c’è una fase intermedia, a metà della campagna. Poi, io adesso
parlo in teoria. Nella realtà quando l’ordine arriva, arriva. Nella realtà è tutto
molto più pragmatico. Però in teoria uno che fa un buon uso, a metà della
campagna fa un secondo test. Anche questo può essere qualitativo, meglio se
anche qualitativo. Però già con un bel pre-elettorale classico, perché ormai i
candidati sono noti. E serve a validare la campagna, i punti chiave del
programma. …E poi dopo il terzo step è il rush finale. 15 giorni prima si fa uno
puramente quantitativo per capire se sto andando bene o no ed eventualmente
per raddrizzare la campagna elettorale»
Questo brano è interessante perché mostra come l’approccio a una campagna elettorale, che si
può immaginare come una situazione potenzialmente molto variabile, sia in realtà
standardizzato e routinizzato come un qualunque altro prodotto.
Anche se, fin dall’intervista stessa, emerge come la standardizzazione sia un auspicio più che
un fatto, perché poi sono “consentite” variazioni anche di grande rilievo.
In questo caso, comunque, l’atteggiamento strategico, pur vincolato in tempi relativamente
brevi come quelli di una campagna elettorale, si rintraccia nella volontà di pianificare tutti i
passaggi, razionalizzare i corsi d’azione a priori, programmare interventi e decisioni che
riguardano l’intero periodo della campagna.
Una modalità differente è invece quella del posizionamento.
Si tratta di una modalità di ricerca mutuata dalle ricerche di mercato, che individua alcuni
elementi della percezione profonda dell’opinione pubblica circa i “prodotti politici”, cioè
candidati o issues. La gamma di caratteristiche individuata viene poi posta in relazione per
evidenziare le distanze fra le varie posizioni, le relazioni che legano o distanziano l’una
dall’altra.
Quella del posizionamento è una modalità assai diffusa nelle ricerche di mercato, in quanto
permette di conoscere le caratteristiche della concorrenza e impostare cambiamenti di
prodotto o delle altre leve del marketing con il fine di cogliere opportunità evidenziate nella
mappa del posizionamento.
222
In politica sono assai meno utilizzate.
«(sul posizionamento) Raramente, rarissimamente. Non si arriva quasi mai a un
utilizzo di strumenti così sofisticati»
«non ho esempi di ricerche di strategie di positioning»
Come detto, consentono di interagire con lo spazio politico, legando le proprie azioni anche
al contesto competitivo.
«Analizzare il posizionamento degli altri più che il proprio. Perché se io mi
devo scontrare con uno, devo prima capire dove è forte, come è riconosciuto,
ma anche cosa la gente pensa sia il suo punto di debolezza, in maniera tale da
andarlo a importunare sul tallone di Achille.»
In alcuni casi, laddove esistono rapporti consolidati fra un istituto e un attore, possono essere
fatte in occasioni particolari oppure con cadenza lunghe.
“A livello di partito una volta all’anno lo facciamo, perché adesso aspettiamo
che arrivi il partito democratico ma ormai non ha senso, quest’anno non
l’abbiamo fatto, non ha senso però, perché, intanto ci sono degli indicatori forti,
il futuro dei figli per esempio, il futuro dei figli è stato un indicatore che ha
funzionato sempre, chi si prendeva il futuro dei figli aveva forti probabilità di
vittoria, nel 94 il futuro dei figli era di FI, nel 96 erano alla pari, 96 alla pari,
nel 2001 di nuovo a FI, CDL, nel 2006 erano alla pari»
La minore frequenza con cui le indagini di posizionamento sono utilizzate dalla politica è
comprensibile se consideriamo alcuni limiti notevoli alle possibilità d’uso, come ad esempio i
costi, i tempi necessari a realizzarle, le difficoltà di impostare corsi d’azione basati su
modifiche del prodotto, che è assai più rigido rispetto a un normale prodotto di mercato.
Un tipo differente di ricerca finalizzata all’uso strategico è emersa in un’intervista e riguarda
sostanzialmente un solo attore politico.
223
Si tratta di una ricerca anch’essa mutuata dal mercato, e che combina diverse tecniche di
rilevazione, fra cui anche tecniche di “ascolto ecologico”.
Senza entrare nei dettagli, la finalità è di arrivare ad una clusterizzazione molto spinta della
società italiana, individuando target omogenei, ciascuno con un proprio profilo fatto di
agenda delle priorità, atteggiamenti valoriali, collocazioni politiche, linguaggio…
Si tratta di un lavoro molto sofisticato, che sfrutta più ampie indagini fatte per il mercato,
riviste a riadattate al contesto politico.
«… E no, perché vengono fatti, ma è normale, vengono fatte delle
clusterizzazioni su quelli che sono gli universi, chiamiamoli, papabili, quindi si
hanno degli universi da conquistare, degli universi già conquistati e poi ci sono
gli universi inconquistabili, quelli che la pensano completamente diversa da te
oppure lo stesso, completamente non ti possono vedere, quindi. All’interno di
questi, le ho banalizzate, però all’interno di queste semplicissime
clusterizzazioni esistono dei sottogruppi che riguardano chi sei, cosa fai, dove
vivi, come ti informi, quali sono le tue priorità, qual è l’indice di ricostruzione
che puoi avere, hai delle percezioni con il tuo elettorato che sono incredibili»
Sono lavori che presuppongono tempi lunghi e costi elevatissimi, ragione per cui si sono
ritrovati in una sola intervista. Possono essere utilizzati o per l’impostazione di campagne
elettorali nazionali oppure per attività di lungo periodo di posizionamento di partiti o attori
politici in cerca di una migliore collocazione nella spazio politico.
Come strumento di comunicazione
Per ultimo, riportiamo un brano che mette in evidenza un uso strumentale e a fini
comunicativi delle ricerche.
« Il sondaggio come strumento di comunicazione, cioè il sondaggio esibito per
dire ‘sono in vantaggio’, oppure ‘le mie tesi sono sostenute dall’opinione
224
pubblica’, …è del tutto evidente che utilizza il sondaggio come elemento per
catturare il consenso.»
È una modalità considerata “nociva” dallo stesso ricercatore, in quanto sfrutta la conoscenza
acquisita con la ricerca oltre i limiti consentiti da essa stessa.
Abbiamo già accennato alle ragioni per cui non ci siamo soffermati su questa modalità d’uso.
Mi limito a mettere in evidenza come essa sia stata poco citata, nonostante il grande uso di
questo genere che si è visto in occasione di ogni campagna elettorale, anche da più parti
politiche, con situazioni di particolare rilievo.
Segno che il giudizio negativo circa quest’uso non si ancora affermato completamente nella
cultura professionale della categoria, nonostante questa grande visibilità e nonostante sia uno
dei pochi temi delle pratiche d’uso delle ricerche affrontati sia dal dibattito scientifico, sia
dalle organizzazioni di categoria, sia addirittura dalle regolamentazioni di legge, con esiti
univoci.
2.4 Il problema della “cultura della ricerca”
Dalle interviste emerge un aspetto unanime.
Tutti i ricercatori intervistati hanno lamentato la carenza di una vera “cultura d’uso” delle
ricerche da parte dei decisori.
In questo paragrafo ricostruiremo i punti essenziali di questa rappresentazione. Non tutti
ovviamente sono presenti in più interviste. Ma la loro somma, dà un quadro abbastanza
preciso di cosa la categoria può intendere con il concetto delle carenze di cultura d’uso delle
ricerche da parte della politica.
Un primo aspetto, riguarda il problema delle qualitative, che faticano ad affermarsi nella
considerazione dei potenziali utilizzatori.
«cioè la gente non capisce le qualitative, non le capisce, non le capisce… e poi,
due focus group costano 4 mila euro, a prezzi stracciati …con 4 mila euro mi
faccio i sondaggi su 500 casi… allora è chiaro che avendo 4 mila euro da
225
spendere, se ce li hanno, e se te li daranno mai, mai, preferiscono fare 500 casi
che , cosa me ne faccio io dei group? Non c’è cultura, non c’è sensibilità»
Oltre al fatto che, come evidenzia il brano, il loro costo, rapportato a quello del sondaggio
non appare vantaggioso, soprattutto a causa della difficoltà di cogliere i potenziali benefici.
Anche nei casi in cui ci sono bisogni conoscitivi particolari che meriterebbero l’utilizzo di
una qualitativa, la scelta ricade sul sondaggio quantitativo, la cui credibilità e appetibilità è
superiore nonostante tutto.
Un altro punto della carenza di cultura d’uso riguarda la scarsa abilità dei decisori nel
maneggiare i dati e nell’interpretarli.
«poi scarsa cultura metodologica, scarsa capacità di comprendere i dati,
tendenza proprio magica, voglio spendere pochissimo pagarti a babbo morto e
tu mi devi dare la sfera»
«il problema è la qualità della politica, cioè chi le persone che stanno lì sono di
bassa qualità, per cui visto che sono loro che alla fine ci devono mettere i soldi
per fare le ricerche, finché non avremo persone che capiscono…»
Ciò riguarda soprattutto l’incapacità di cogliere gli aspetti metodologici, e in particolare i
limiti oltre i quali l’interpretazione non può andare vista la metodologia utilizzata.
Ma può riguarda anche la capacità di porre le domande, di impostare le ricerche. E non si
tratta certo di un problema minore, anzi.
«non c’è qualità …non c’è competenza nel … misurare, o nel valutare il metro
delle proposte e dei progetti che possono esserci, per cui appunto ti fidi di
Pagnoncelli te lo dice lui e ci credi che quello è il modo migliore, ma non
perché ne sai qualcosa…»
La bassa competenza dei politici circa le ricerche è, almeno agli occhi dei ricercatori, a tutto
tondo, tanto da coinvolgere anche la stessa impostazione iniziale.
226
«…in Italia la scarsa cultura della ricerca fa sì che anche le domande siano
poste male. Per cui molto spesso quando ti chiedono una ricerca non sanno
neanche che cosa vogliono…il primo compito è proprio quello di fargli capire
come una ricerca possa servire o a organizzare una campagna elettorale o
anche, come dire, ad organizzare l’azione di governo vero e proprio … Questo
è il primo passaggio. … Considera che molto spesso noi ci troviamo di fronte
soggetti che partono, almeno che non abbiano una grande esperienza nei diversi
livelli no, … Per cui noi spesso ci troviamo di fronte ad attori che non sanno
nemmeno benissimo cosa vogliono chiedere, sanno che hanno bisogno di
qualcosa…»
Ciò che conta dunque non sono più solo i bisogni conoscitivi, in base ai quali effettuare la
scelta del progetto di ricerca più adatto. Se anche i decisori conoscessero i propri bisogni, non
sarebbero comunque in grado di far discendere da essi la ricerca giusta, visto che non conta la
capacità della ricerca di rispondere alle necessità, ma solo il suo accreditamento, che è dato
da un alto dalla fiducia riposta nel produttore e dall’altro dalla credibilità costruita nel sistema
dei media.
Un altro limite della cultura d’uso emerso dalle interviste riguarda le pratiche di gestione
organizzativa delle ricerche.
«Ecco, nella presidenza del consiglio io non riesco a vedere Prodi… mi fermo
all’addetto alla comunicazione che non è nemmeno Richi Levi ma è il suo
tecnico.
Dopodiché io so di preciso che c’è una difficoltà estrema, che cosa gli arriva su
questa catena …di scambio? Io non lo so che cosa gli arriva. Immagino che
essendo una situazione dove la cultura di gestione del dato è modestissima, è
modestissima … Si fermerà su stiamo perdendo, stiamo vincendo
l’ipostatizzazione dei dati e tutte queste cose qui.»
Anche questo rappresenta un vincolo tutt’altro che secondario.
E viene riportato in numerose interviste. In buona sostanza, i troppi passaggi fra il ricercatore
e il decisore ultimo possono rendere accidentato il percorso di comunicazione. In particolare,
227
aumenta la probabilità che la ricerca passi per mani poco esperte, contribuendo così ad inibire
il contributo conoscitivo che potrebbe apportare.
L’inesistenza (che vedremo successivamente) di strutture dedicate alla ricerca e agli studi
all’interno delle organizzazioni dei decisori politici aumenta il rischio che avvenga una
dispersione delle conoscenze.
Infine, un punto significativo riguarda il concentrarsi della domanda di ricerche nella fase
elettorale.
«Però la dice un po’ lunga sulla cultura, i sondaggi, che sono spesso a ridosso
delle elezioni, e poi finito quello basta… Insomma capire come dice lei se c’è
stata un’astensione, e da dove arriva questa astensione, se sostanzialmente c’è
stato un travaso di voti invece… e poi magari fare delle qualitative per capire i
motivi, se è un segnale dato alla politica nazionale, oppure se era un sentirsi più
in una situazione confortevole e coerente col passato, però ecco, lì si può
utilizzare la ricerca in modo un po’ meno utilitaristico…»
Come evidenzia questo brano, si tratta di un atteggiamento che presuppone uno scarso
interesse per le dinamiche reali del consenso e dell’opinione, che si evidenziano
concretamente solamente nel momento del voto. La carenza totale di studi approfonditi
sull’esito del voto è un segnale forte di questa tendenza. Da un lato può essere comprensibile
per due ordini di ragioni. Uno, perché una volta acquisito il voto, non è più possibile mettere
in campo azioni volte a ribaltare la situazione. Due, perché spesso sull’esito del voto si
concentrano studi indipendenti e pubblicazioni, dalle quali gli stessi decisori possono
prendere spunto.
In realtà entrambe le contro-argomentazioni sono solo in parte accettabili. È vero che a voto
acquisito non è più possibile ribaltare la situazione e che dunque ricerche sul voto sarebbero
scarsamente utili. Ma è altrettanto vero che una rapida comprensione delle dinamiche del
voto permette di individuare più velocemente le prime azioni da compiere per re-impostare la
propria strategia e recuperare o mantenere il consenso. Nella condizione attuale di campagna
permanente, anche i momento successivi a un voto sono importanti, in quanto le
interpretazioni dell’esito del voto e le conseguenti intenzioni per il futuro diventano messaggi
228
politici capaci di far filtrare all’elettore e al sistema mediatico una interpretazione favorevole
del voto.
Inoltre gli studi accademici sugli esiti elettorali difficilmente sono costruiti i maniera tale per
cui gli attori politici possano trarne un insegnamento per la propria strategia.
La mancanza di studi post-voto, dunque, evidenzia l’esistenza di una cultura dell’utilizzo che
non valuta sufficientemente l’impostazione strategica delle azioni dei decisori politici.
Abbiamo visto finora in questo paragrafo una serie di elementi emersi dalle interviste che
disegnano una rappresentazione data dai ricercatori circa la cultura d’uso dei politici molto
critica su diversi punti.
In alcune interviste, di numero inferiore, abbiamo rinvenuto anche delle narrazioni che
cercano spiegazioni di più vasto respiro di questa carenza di cultura di utilizzo.
Sono riflessioni minoritarie, ma che mi pare disegnino prospettive utili alla ricerca
successiva.
La prima riguarda la necessità, percepita dagli stessi ricercatori, di ribaltare le
argomentazioni, finora centrate sulla cultura della produzione, per mettere al centro anche
una cultura dell’utilizzo.
«Questo qui è il problema di fondare delle competenze di ricerca, non è solo un
problema della ricerca politica eh, competenze di ricerca fondate sulla cultura
d’uso.
…Noi pensiamo sempre alla ricerca come cultura di produzione, un momento
della produzione.
Oggi c’è … se io faccio bene una ricerca e poi va in un’azienda e poi mi va a
finire in un cassetto, cosa succede? Succede che… no?
Quello che succede alla ricerca in area pubblica, succede esattamente questo,
che i soldi vengono spesi male per questo.»
L’argomentazione più lucida a questo riguardo si spinge anche a individuare una soluzione di
più ampio respiro, una necessità di intervento più profonda. Si tratta di riscrivere le regole dei
rapporti fra politica, ricerca, media, per individuare nuove prassi e consuetudini che mettano
229
davvero al centro anche delle prescrizioni sull’utilizzo delle ricerche stesse, non solo sulla
loro produzione.
«Qui invece non è soltanto un problema di competenze… ma è anche un
problema di negoziazione delle regole sul piano socio-politico. Qui c’è un
problema secondo me di… cosa significa andare a comunicare quelle cose
lì…»
Perché la correttezza, la limpidezza, l’utilità sociale dell’intero processo dipende sempre più
da un uso corretto, senza il quale, pur in presenza di assoluta correttezza negli altri passaggi,
si corre il rischio di invalidare tutto.
«Ma a questo punto non è un problema … sul piano metodologico, di una
metodologia della competenze; qui è un problema delle regole da negoziare sul
piano socio-politico che è il mondo della comunicazione, che è il mondo dei
politici e che è il mondo della, dei ricercatori. Cioè il problema della cultura
d’uso, in questo caso, è un problema di creazione della cultura d’uso
nell’utenza ... Chi riceve l’informazione!»
La seconda (e ultima) di queste rappresentazione della carenza di cultura d’uso riguarda
invece una delle motivazioni addotte per spiegare questa carenza, che cerca di andare più in
profondità, e individua la ragione direttamente in una certa idea della politica.
«non hanno gli obiettivi, non hanno il coraggio … nel senso che poi appunto,
cioè la ricerca fatta bene ti serve a innovare… cioè nel momento in cui prendi
atto che la politica non funziona …la ricerca ti deve servire per ricostruire, per
cambiare, per innovare… non si fa mai quel passettino che ti rischia di far …
cioè allora l’obiettivo … è non perdere, è rimanere fermi, più o meno
ricollocarsi, per cui l’innovazione, il cambiamento, il coraggio, è molto
relativo»
In questa visione, il valore aggiunto potenzialmente attribuibile alle ricerche starebbe
soprattutto nella loro capacità di fornire un indirizzo per un cambiamento radicale di linea.
230
Ma la cultura politica non asseconderebbe queste potenzialità, in quanto la situazione attuale
si presenta statica e conformista, senza attori capaci di impostare corsi d’azione radicalmente
innovativi.
La carenza di cultura d’uso sarebbe dunque espressione di una più generale carenza di cultura
politica.
Si tratta di un ragionamento che parte da presupposti importanti e impegnativi circa il ruolo
delle ricerche nella politica. Ma che nei suoi esiti è in linea con numerosi osservazioni
approfondite del campo politico ed ha dunque il pregio di mostrare una visione della ricerca
socio-politica integrata con le dinamiche e le questioni relative alle culture politiche. Un
atteggiamento che mi sembra potenzialmente ricco di prospettive.
Nei prossimi paragrafi approfondiremo altri aspetti peculiari della cultura d’uso dei
ricercatori, così come è emersa dalle interviste ai ricercatori. Si tratta di aspetti sui quali
convergono più interventi e che hanno pertanto una loro autonomia.
2.5 Il problema dell’ipostatizzazione dei dati
Un punto centrale della rappresentazione della cultura d’utilizzo delle ricerche emersa dalle
interviste riguarda la cosiddetta ipostatizzazione del dato, cioè l’atteggiamento per cui il dato
numerico che emerge da una ricerca viene inteso dal decisore come un dato reale, quando
invece è frutto di una serie di passaggi di costruzione sociale e di approssimazione, dovuti
alle scelte metodologiche e ai limiti epistemologici e tecnici.
Nonostante spesso vi sia consapevolezza (almeno esteriormente) da parte dei decisori di
questi limiti, il dato viene ugualmente assunto come un riscontro reale, quasi materiale e
fisico, come fosse un voto acquisito. L’attenzione è tutta concentrata nel cogliere questa
“realtà”, tanto da influenzare pesantemente le pratiche e le logiche d’uso delle ricerche stesse,
come già abbiamo avuto modo di introdurre.
Vediamo alcuni brani significativi di questa rappresentazione dei decisori.
«…perché tra le altre cose c’è l’ipostatizzazione dei dati no? La percentuale è
questa quindi vuol dire questo. E invece vedere cosa significa il dato e cosa
significa nel senso non solo probabilistico o dell’inespresso, ma anche del
mediare… vabbè la ricerca mi dice questo e io cosa faccio? Quindi il passaggio
231
dal dato al decision making… Cose che negli altri contesti, non dico che
avvengano facilmente ma sono ben inquadrati. Nessun decisore di marketing si
immaginerebbe…si no succede però insomma, almeno, in teoria negherebbe
…di prendere i dati di ricerca e sostituire la propria decisione col dato.»
Trovo questo brano particolarmente efficace nell’evidenziare le conseguenze
dell’ipostatizzazione. Il dato è inteso come se fosse realtà ed entra nelle decisioni in questo
modo.
La differenza rispetto alle ricerche di mercato, poi, evidenzia la percezione del ricercatore di
una minore capacità di utilizzo dei politici rispetto agli uomini di marketing, che sanno
assegnare la giusta importanza al dato, senza farsi guidare da esso. O almeno si preoccupano
di rappresentare in questo modo il loro processo.
La ricerca del “numero” è un fenomeno che, visto con gli occhi del ricercatore assume
caratteristiche quasi compulsive.
«c’è poi una parte che è proprio bruciante in questo pre elettorale che è come se
fosse… li bruciano tutti i cervelli… nel senso che li veramente il numero è
devastante insomma, e li veramente c’è un affidamento oltre misura …»
E l’atteggiamento dei ricercatori è unanime nel rifiutare l’idea della sola importanza dei
numeri, che mortifica le possibilità offerte dalla ricerca alla politica.
«…in Italia il problema è che i politici … i giornali, le televisioni vogliono i
numeri, cioè … hanno solo i numeri, ma io trovo scandaloso il modo in cui
vengono usate le ricerche …»
Infine, mi pare interessante un ultimo brano.
«Se io mi propongo a un responsabile di un partito dicendo che ho un’analisi
approfondita su un potenziale elettorato che vorrebbe votare i DS piuttosto che
Forza Italia ma che oggi non è certo di votare per questo partito, non gliene
232
frega niente. Ma se gli dico che ho un’analisi sul voto adesso per questo partito,
diventano rossi, gialli, verdi, … diventa quella la cosa … un po’ come se
l’elezione ci fosse stata due minuti rima. Ecco quello è un dato inutile .. è un
dato, certo, che va pesato, … ma da solo non ha alcun senso. … Per cui i partiti
ancora oggi hanno una bassa cultura rispetto al sondaggio.»
Nelle parole di questo ricercatore, si evidenzia come il fenomeno dell’ipostatizzazione del
dato agisce anche oscurando altre informazioni che, potenzialmente, dovrebbero interessare
di più i decisori, per la loro capacità di essere “spese” nella costruzione di scelte e strategie
utili, come ad esempio informazioni sugli elettorati potenziali.
La ricerca del dato numerico è di gran lunga l’atteggiamento, la pratica di ricerca più seguita,
così preponderante e totalizzante da oscurare tutto il resto e capace di strutturare l’intero
campo della rappresentazione dei ricercatori.
2.6 Differenze fra cultura di destra e di sinistra
Un altro punto che emerge con chiarezza circa le culture d’uso è l’esistenza di una frattura fra
gli attori politici provenienti da culture politiche di area di centro sinistra e attori politici
provenienti da culture politiche di area centro destra.
Dalle interviste è possibile far emergere alcuni approfondimenti utili su questo punto.
Innanzitutto, può essere limitante e non del tutto corretto contrapporre culture politiche di
centro sinistra con quelle di centro destra.
La differenza in realtà sembra farla un solo decisore, Silvio Berlusconi, e con lui le realtà
organizzative che ruotano attorno alla sua figura: dal partito di Forza Italia, fino allo staff
della Presidenza del Consiglio durante i suoi mandati.
Secondo una visione condivisa e unanime, Berlusconi rappresenta l’unico caso di decisore
politico italiano che possiede un’ottima cultura d’uso della ricerca socio-politica, tanto da
mettere in atto pratiche e logiche d’utilizzo efficaci e in linea con le aspettative dei ricercatori
stessi.
233
«l’unico soggetto che ha senso andare a parlare in Italia sulla ricerca politica è
Silvio Berlusconi»
«Berlusconi secondo me li conosce molto più degli altri, capisce che 2 italiani
su 3, circa 62% hanno dalla licenza media in giù, li adegua alla sua
comunicazione»
Le argomentazioni circa questa rappresentazione sono numerose e prendono in esame diversi
aspetti.
«No, no lui li usa, perché secondo me lui li usa per mestiere suo antico…
perché li credo, lui secondo me è bravissimo anche a leggerli, a capire anche
poi, perché il sondaggio, si sa, dicono 5, vabbè dirà di 5, bisogna essere un
pochino più articolati e cercare di capire il tipo di segnale che stanno dando…
secondo me lui è molto capace nel decodificare i segnali perché ovviamente fa
parte della sua esperienza aziendale e poi lui ha lavorato in settore in cui è
importantissimo»
A tal proposito, mi sembra molto efficace il brano precedente. In esso, l’abilità di Berlusconi
è estesa anche alle competenze metodologiche e d’esperienza circa la lettura e
l’interpretazione dei dati. Abilità che vengono considerate implicitamente uniche nel
panorama politico italiano.
Ed è degna di attenzione la motivazione addotta dal ricercatore per dare conto di queste
abilità. Esse deriverebbero dal mestiere di Berlusconi stesso, la TV commerciale, un settore
in cui la conoscenza dell’opinione pubblica, dei gusti socialmente diffusi, dell’antropologia
delle persone acquista un valore primario e richiede pertanto mezzi, anche di ricerca, non
ordinari.
La familiarità di Berlusconi con il mondo della ricerca sociale applicata deriverebbe da questa
sua esperienza professionale, trasferita nel campo politico.
L’uso da parte di Berlusconi delle ricerche si avvicina dunque alle esperienze internazionali e
alle teorie “normative” presenti nella manualistica di settore.
234
«… Berlusconi … li che si vede in azione quello che succede negli Stati Uniti,
quello che si vede in Francia… li si, il resto fa finta di imitare Berlusconi, fa
finta… 90 volte su 100 non utilizza i dati soprattutto se sono qualitativi, primo
perché non li capisce, secondo perché insistono a sottolineare una natura tribale
del sistema politico … ed è destabilizzante, sarebbe destabilizzante, se
veramente i politici dovessero mettersi in discussione dovessero cambiare in
funzione di quello che gli dice l’elettore, dovessero scegliere i collaboratori non
in base alle appartenenze salta il siste…salta il sistema, è un sistema che
scoppia»
Nel brano precedente è riportata inoltre una visione generale della differenza fra Berlusconi e
il resto dei decisori politici. Questi ultimi non sarebbero in grado di uniformarsi ad una
cultura d’uso delle ricerche spinta al massimo delle potenzialità in quanto non potrebbero
trarre le conseguenze suggerite dalle ricerche in termini di scelte e di cambiamento di corsi
d’azione, in quanto la loro possibilità di mutamento risulta limitata e ancorata ai sistemi delle
appartenenze, delle logiche di sopravvivenze e di mantenimento dei piccoli poteri oligarchici,
delle culture politiche tradizionali.
Una questione a parte riguarda invece le difficoltà incontrate dal centro sinistra rispetto al
rapporto con la ricerca applicata alla politica.
Le rappresentazioni emerse sono molto esplicite su questo punto.
«guardi io ho lavorato per Prodi, ho lavorato per Prodi e ho visto, ha fatto,
prima delle elezioni del 2006, continui monitoraggi. Lei crede che Prodi non
sappia di avere il 25% di fiducia? Se andiamo a vedere il sito del monitoraggio
politico elettorale, la fiducia sarà al 25, ….è il più basso della storia
repubblicana, mai capitato. E lei pensa che non lo sa? Certo che lo sa, non lo
utilizza, non lo utilizza, crede che non glielo abbiamo detto, che se comunica in
questa maniera con l’elettorato non può che produrre sfiducia? Certo che lo sa,
ma non lo utilizza»
«Se lei parla con Santagata, se lei nomina la parola sondaggio è come nominare
la parola acqua santa in viceversa… è un gruppo di allergici alla
235
comunicazione, teorizzano che non bisogna ascoltare i sondaggi, non bisogna
farli, se si fa è meglio non ascoltarli, cioè è gente del passato…»
Queste narrazioni originano dall’ala più critica verso la cultura delle ricerche del centro
sinistra e, come tali, vanno considerate.
Rimane il fatto che la spiegazione data circa la deficitaria cultura d’uso in questo caso va
oltre l’inconsapevolezza, l’impreparazione, la difficoltà di sintonizzarsi culturalmente sul
fenomeno. Qui diventa un rifiuto esplicito, programmato, dell’uso delle ricerche nell’attività
di Governo.
La ricerca è strumento di controllo, non è ausilio all’azione e alla decisione, che spettano alla
politica.
Si tratta di un elemento culturale di grande interesse, che dovrà essere meglio approfondito
nella parte empirica dedicata ai decisori.
Infine, un paio di interviste mettono in luce come le diverse culture politiche di approccio
alle ricerche messe in campo dal centro sinistra e dalla cultura politica berlusconiana si siano
concretizzate in diversi comportamenti all’interno della principale delle istituzioni politiche
italiane, la Presidenza del Consiglio.
Questi ricercatori, avendo lavorato per le presidenze Prodi e Berlusconi con gli stessi
obiettivi, sono in grado di offrire una comparazione che fa emergere nuovi elementi.
«… e abbiamo notato proprio una grande differenza nel metodo di lavorare,
cioè nel senso che … (prima) si che effettivamente c’era un test proprio per i
sondaggi, un interesse, una domanda quindi ….un capire, un definire anche
quali erano i temi sui quali indagare ecc… facciamo molta più fatica invece
con, per esempio con questa, con questo governo qui perché comunque magari
c’è… hanno proprio tipo un atteggiamento proprio diverso nei confronti del
sondaggio…invece magari con la presidenza del consiglio con quella
precedente, si era deciso, però in vista anche un po’ delle elezioni o comunque
di fare delle cose molto più, diciamo, continuative…»
Anche a livello delle istituzioni dunque l’attenzione riservata alle ricerche è diversa a seconda
del diverso colore politico dei governi. Nel caso del centro sinistra, l’attenzione alle ricerche
236
è ridotta e, come si diceva sopra, la ricerca stessa non è considerata d’ausilio all’attività di
Governo.
2.7 Vincoli alle pratiche di utilizzo delle ricerche
Le interviste hanno poi evidenziato tutto il tema della rappresentazione dei vincoli esterni che
limitano o condizionano l’utilizzo delle ricerche.
Vincoli dati dalle strutture (persone, budget, modelli decisionali)
Il primo tipo di vincoli è dato dalle strutture.
Con questo termine intendo gli asset organizzativi deputati a gestire il rapporto con la ricerca
socio-politica: persone, uffici, modelli di comunicazione interna, modelli decisionali interni.
Nelle interviste si sono trovati spesso elementi di questo genere indicati come limiti alle
possibilità di utilizzo delle ricerche da parte della politica.
Ad esempio le persone.
Un uso più o meno approfondito è condizionato fortemente dalle persone che materialmente
si occupano di commissionare le ricerche, riceverne i risultati, utilizzarle.
«Poi dopo li, il problema è che queste cose sono molto legate alle persone, per
esempio adesso con Peluffo, stiamo lavorando molto su un’area che non è più..
Sai in questo momento di Peluffo ce ne sono talmente pochi, anzi …»
Come evidenziato dal brano, la qualità dell’uso dipende dalla qualità dell’interlocutore, anche
del funzionario incaricato. E di interlocutori qualificati sembrano essercene molto pochi.
Oltre tutto, conta anche il modello di leadership adottato dall’organizzazione.
237
«… uno degli elementi che entrano in gioco poi nella possibilità di utilizzo di
questa cosa è intanto la presenza di un leader conosciuto, un leader di un partito
o comunque di un gruppo riconosciuto»
La presenza di un leader forte, legittimato e credibile aiuta il processo, in quanto centralizza
sul leader o sullo staff il livello della consulenza, evitando passaggi inutili che potrebbero
disperdere la conoscenza acquisita attraverso la ricerca.
« …Quanto più il modello di un Governo è di tipo verticistico, tanto più le
ricerche arrivano sul tavolo del vertice. Allora lì c’è chi legge, ed elabora come
vuole le informazioni … Quanto meno invece è verticistico, tanto più ci sono
vari funzionari presso cui la ricerca si perde …. È difficile pensare a che tipo di
utilizzo ne viene fatto … Il problema è quello che le dicevo prima
dell’esistenza o meno di un centro decisionale in grado di utilizzare la ricerca.
Quanto più c’è, tanto più viene attribuita una certa importanza perché serve
davvero. Quanto meno c’è il pericolo è quello della strumentalizzazione.»
Oltretutto un leader riconosciuto ha normalmente maggiore possibilità di impostare nuovi
corsi d’azione e con più rapidità, elemento fondamentale per rendere efficaci le scelte.
Pertanto il modello di leadership diventa un elemento strutturante della possibilità di utilizzo
delle ricerche, ma anche dello stesso atteggiamento tenuto dall’organizzazione nei confronti
delle ricerche stesse, fino al rischio di un uso strumentale e non conoscitivo, laddove appunto
la conoscenza non può produrre sbocchi in termini di scelte e decisioni per carenza di
leadership.
La capacità decisionale è un elemento necessario anche in presenza di staff più consolidati e
ampi.
«… solitamente gli staff riguardano aspetti organizzativi. Solitamente è il
candidato che segue le indagini, o al massimo uno strettissimo collaboratore, un
manager della campagna-coordinatore. Non ci stanno altre figure. …»
238
Anche se, poi, una volta ottenuto il passaggio veloce dell’informazione al massimo livello
decisionale, diventa strategica un’azione per condividere l’informazione a tutta la struttura.
«hanno senso se sono diffusi e discussi perché noi proponiamo sempre questi
…questo sondaggio come elemento generatore di discussione, mi è più
importante quando porto il 5% ma la discussione che nasce che non il 5%
perché sul dato discutono 10, 15 persone…tutto quello che viene fuori è quello
che veramente importa dei risultati, alla fine il meno è quel 5%, il dato in se»
Da questo punto di vista, dunque, un utilizzo efficace delle ricerche presuppone anche
caratteristiche precise a livello di organizzazione, come una buona comunicazione interna,
pratiche di condivisione delle informazioni, cultura condivisa.
Ma soprattutto l’esistenza di un dibattito interno sano e vivace, capace di interpretare le
ricerche e di attribuire senso ai risultati e alle interpretazioni che da esse originano.
I vincoli dei fattori tempo e costi (e loro interazioni)
Altri vincoli che possono limitare le pratiche di utilizzo delle ricerche socio-politiche
riguardano i fattori legati al tempo, ai costi e alle loro interazioni.
Fra le logiche d’utilizzo delle ricerche nel campo della politica, dalle interviste con i
ricercatori è emersa con decisione l’importanza della variabile tempo.
Il campo dell’azione politica appare come un territorio in continua e rapida evoluzione, in cui
le decisioni maturano velocemente. La rappresentazione dei ricercatori è sostanzialmente
univoca su questo punto ed evidenzia come questi fattori rappresentino un limite decisivo alla
possibilità di utilizzo delle ricerche socio-politiche da parte dei decisori.
La richiesta di informazioni rapite e tempestive si scontra infatti con diverse logiche di
produzione.
239
«Quindi credo che la sperimentazione sia molto importante, purtroppo credo
che se ne faccia poca, perché la velocità, tempestività e rapidità stanno, spesso
e volentieri, uccidono il risultato.…»
Il problema della velocità interviene nella costruzione della domanda di ricerca, che risulta
spesso tanto sterile quanto legata alla necessità di ottenere responsi immediati e di veloce
utilizzo.
In particolare, risulta ancora una volta bloccata la possibilità di introdurre innovazioni, che fa
ricadere nella standardizzazione e nelle soluzioni più di routine.
«è chiaro che oggi, la netta prevalenza, per problemi di tempo, di spesa, va in
questa direzione, allora se entra, se entra Veltroni, quanto ci guadagna, quanto
ci guadagna la sinistra?»
Le domande allora tendono inevitabilmente verso questioni specifiche, puntuali, dallo scarso
valore in termini di orientamento all’azione.
Il problema del fattore tempi è ovviamente tanto più vero per le grandi ricerche di natura
strategica, che necessitano di tempi lunghi di realizzazione.
« (sui partiti) perché c’è sempre il problema del tempo: non possono bloccarsi
sei mesi, tre mesi per una, quaranta giorni, quindici giorni.»
Poiché il commissionamento arriva sempre sulla base di un’urgenza o di un’emergenza, la
possibilità di utilizzare con serietà ricerche di un certo spessore appare limitata fin
dall’origine.
«… è l’emergenza, è la marcatura fondamentale è… Si, ed è una marcatura …
(ride), ed è una marcatura forte in questo momento di… che un po’ diventa
organizzativa del tutto …»
L’urgenza dunque diventa l’elemento chiave dell’intera relazione ricercatore-decisore,
perlomeno nella maggior parte delle situazioni, come conferma il brano sotto riportato.
240
«…nella politica il sondaggio è un fast, è come un fast food, cioè spesso e
volentieri viene fatto velocemente, quelli che non vengono fatti velocemente
sono quelli che non vediamo pubblicati e che sono quelli che poi cambiano
effettivamente le sorti delle situazioni, cioè, gli studi degli elettorati
…ci è capitato di partire anche due anni prima di una campagna elettorale
perché poi bisogna riuscire a capire quali sono gli strumenti, i fondi che
vengono messi a disposizione, poi dipende anche chi è il soggetto, chi sono i
soggetti»
Il brano ci aiuta anche a focalizzare come esista ancora uno spazio di riflessione meno legata
agli andamenti veloci della politica fast food e che tocca sostanzialmente il tema delle
ricerche strategiche.
Come abbiamo potuto vedere, si tratta di un ambito di utilizzo piuttosto limitato, ma
significativo. In questo caso, abbiamo la descrizione di una casistica in cui la domanda di
ricerca è formulata per tempo, in modo tale che la ricerca possa prodursi con i tempi necessari
a restituire il risultato atteso.
Si tratta in tutta evidenza di situazioni alquanto particolari e limitate quantitativamente.
Ovviamente, anche quello dei costi di realizzazione risulta un vincolo notevole, forse il più
visibile, nell’utilizzo della gamma di ricerche a disposizione della politica.
«Il problema è di mezzi, poi, perché è chiaro che non si può far tutto e quindi
poi c’è un problema di scelta… e allora il sondaggio rimane l’elemento chiave
della valutazione dei rapporti di forza, questo è, rimane, quindi alla fine se io
1000, una parte di questo 1000, più che valutare, io non so, dalla campagna
comunicazione me lo tengo per i candidati e i rapporti di forza, insomma gli
elementi e poi le issues ma non sono poi mai veramente ritenute così
importanti»
Trovo interessante, però, notare come il vincolo del costo sia in realtà legato a quello della
tempistica.
241
In particolare, l’esigenza di risultati veloci può portare ad una diversa valutazione circa i
costi-opportunità delle ricerche.
«Perché il problema dei soldi è in proporzione all’urgenza, non sempre è ….
insomma c’è un problema di costo e diventa anche di tempi no?»
In determinate situazioni dunque il fattore tempo può diventare preponderante e strutturare
diversamente il campo concettuale delle opzioni possibili. E in questo modo possono entrare
in gioco anche prestazioni con costi altrimenti difficili da sostenere.
2.8 L’atteggiamento complessivo circa il problema della decisione
Al termine della ricostruzione dei vari elementi che compongono la rappresentazione dei
ricercatori circa le pratiche d’uso delle ricerche da parte dei decisori politici, è possibile fare
sintesi del materiale emerso.
Tale sintesi verrà inserita in una categorizzazione generale, che proporrò in questo paragrafo,
in grado di dare conto dei diversi atteggiamenti generali circa la decisione politica e gli
elementi che la possono supportare, fra cui le ricerche socio-politiche.
Si tratta ovviamente di una categorizzazione arbitraria, che, anche se emersa dal dato
empirico delle interviste, non rappresenta una “realtà” ma una libera interpretazione.
La ritengo comunque utile a una migliore comprensione del materiale e, soprattutto, alla
possibilità di utilizzarlo nella fase empirica successiva, delle interviste ai decisori sulle
pratiche e logiche d’uso.
Nel capitolo precedente avevamo già introdotto una categorizzazione generale della
rappresentazione dei ricercatori, in quel caso centrata sull’atteggiamento generale verso la
ricerca nel campo della politica.
Avevamo individuato tre atteggiamenti, quello integrato, quello critico e quello rassegnato.
242
Atteggiamento integrato
L’atteggiamento integrato si riflette sulla questione della decisione proponendo una realtà in
cui le ricerche rivestono effettivamente un ruolo importante nei processi decisionali della
politica.
«La decisione, generalmente, quando una persona …, un partito, un politico,
una struttura commissiona un sondaggio, la decisione che poi prende è quasi
sempre supportata da valore scientifico che dà l’indagine… supportata dal
valore teorico che danno i tecnici e poi supportata dal proprio istinto politico,
altrimenti ci sarebbe uno scambio di ruoli. Quindi, dal mix di queste cose, si
riesce ad ottenere … la decisione, corretta o errata che sia agli occhi della
gente, però questa è, non esiste, non mi è mai capitato di vedere nessuno che da
un risultato di un sondaggio prendesse esattamente, cioè facesse quello che il
sondaggio dice, così com’è scritto perché denoterebbe un’assenza completa di
non solo senso politico ma anche senso anche personale di intuito politico. I più
grandi politici che ho visto all’opera sono quelli che ascoltano tutte queste
componenti e valutano le loro scelte, nel bene e nel male, perché una scelta
impopolare non è detto che sia la scelta errata»
In questa visione, la decisione è un prodotto razionale di due fattori entrambi necessari, ma
nessuno sufficiente.
La ricerca non può essere il solo elemento. La decisione si otterrebbe anche con una
valutazione diversa, più soggettiva, che, nel caso di questa intervista è determinata dal
“fiuto”, cioè con un livello massimo di soggettività e irrazionalità.
Il ruolo della ricerca è comunque (o dovrebbe essere, nel caso di un modello ideale) un ruolo
preponderante, necessario, senza il quale l’azione politica rischia di scontrarsi con la realtà.
Un elemento di consapevolezza necessario per ponderare le scelte secondo scenari alternativi
ugualmente noti e approfonditi.
«ti può costare ma la maggior parte delle volte ti dà una, come si può dire, una
sicurezza maggiore, perché il politico deve valutare con la sua testa tutte le
opinioni che ha davanti. … il bravo politico è quello che mette insieme il filo e
che riesce a capire dove stanno le situazioni… poi, voglio dire, poi c’è chi
243
gioca con i numeri (ride), quelle però sono altre situazioni, non sono cose che
ci riguardano, anche perché … la strumentalizzazione non è cosa che mi
riguarda»
Anche nelle decisioni più scontate, secondo questa interpretazione, la ricerca aiuta l’azione
politica aumentando la sicurezza e la convinzione.
L’utilizzo delle ricerche per orientare le proprie decisione diventa un elemento della
modernità politica, il cui rifiuto rappresenta null’altro che un anacronismo.
La commistione dei due elementi dell’istinto e della ricerca è ben descritta nel brano
seguente.
«…i migliori politici che ho avuto la fortuna di incontrare sono quelli che
spesso e volentieri hanno il loro naso prima degli altri. …Ho la convinzione
che l’ambiente sia …l’argomento del domani … ne ho il naso, e quindi ne ho
sentore… studio una programmazione e faccio una ricerca ampia, cerco di
capire il grado di sensibilizzazione. È ovvio che magari il grado di
sensibilizzazione non tocca i livelli sperati, o quelli verso i quali io sono
sensibile, ma io sono un politico che deve portare avanti un paese, e quindi ho
una sensibilità molto più ampia, dovrei avere, eh... A seconda di quella che è la
sensibilità politica singola, le ricerche servono spesso a questo, che sono quelle
che non si vedono pubblicate»
«Ma ti ripeto nessuna, io non ho mai sentito dire da un politico bisogna tener
conto, ma… Ne tiene conto nella sua scelta»
«Io, mi ricordo, lavoravo con un responsabile coordinatore, non mi ricordo più
se provinciale o regionale DS, comunque adesso non ricordo, forse erano già
DS quelli (risatina), comunque era bellissimo perché era di una preparazione
incredibile, arriva con il suo foglio, lo srotolava, aveva perfettamente, comune
di pinco pallino, tutte le sezioni assegnate, tutti i voti, si lavorava sui voti ed è
stata anche li una scuola perché mi ha insegnato proprio lui questo legame, io
non slego mai il dato contestuale, dal sondaggio, dalla ricerca, dall’opinione
244
che passa in mezzo, e questa cosa si è un po’ persa, e credo che il perderla sia
perdere un grande patrimonio perché tu puoi avere tutti i dati possibili
immaginabili che se non hai però la possibilità di capire quello che realmente»
Atteggiamento rassegnato
La visione rassegnata, come nel caso della rappresentazione generale delle ricerche vista nel
capitolo precedente, è descritta attraverso i racconti di un numero ridotto di intervistati, ma
assume una certa importanza per il tipo di argomentazione.
La rassegnazione deriva dall’impossibilità, dovuta a fattori esterni, di ricostruire un processo
positivo fra la ricerca e la decisione politica. Il vincolo esterno che lo impedisce è il mercato,
in cui la domanda di ricerche non è in grado di prendere in considerazione la ricerca nelle sue
potenzialità
Secondo questa visione, la ragione di fondo risale ad una caratteristica di fondo delle culture
organizzative politiche italiane e, più in generale, dello stesso sistema politico. Questo, infatti,
risulta “ingessato” dalle logiche oligarchiche della politica italiana, per la quale le rendite di
posizione sono più importanti dell’orientamento all’elettore, al cittadino, vanificando così
ogni apporto che le ricerche possono dare.
«Perché questa condizione asfittica, magari anche i miei colleghi le
racconteranno invece una realtà immaginaria ma…perché? …Perché il nostro
sistema politico e amministrativo non è orientato al consumatore, non lo è, non
è solo piccolo mercato … in generale noi viviamo in un’oligarchia, un sistema
oligarchico, tribale, basato sull’appartenenza in cui non gliene può fregare di
meno di conoscere realmente, realmente l’opinione del consumatore, del
cittadino»
Vi è la netta sensazione di andare controcorrente, di esporre una visione “altra” rispetto
all’omologata rappresentazione che dovrebbe essere data dalla categoria.
Si tratta di una visione totalmente antagonista, radicalmente estranea alla realtà e ad ogni
tentativo di ricondurre le pratiche reali a modelli decisionali considerati più vicini a quelli che
dovrebbero essere utili al sistema politico.
245
Vi è inoltre un’ulteriore consapevolezza.
«È un effetto di cultura italiana, che è in uno stadio pre marketing, poi è
arrivato il ciclone Berlusconi che ha imposto, ha imposto un’adesione forzata al
marketing politico eletto… forzata, ma in realtà il sistema, a livello centrale è
allergico»
Questo sistema decisionale infatti è percepito come un’anomalia tutta italiana, in cui solo
l’eccezione rappresentata da Berlusconi spicca come un atteggiamento moderno e in grado di
dare il giusto valore alla realtà delle ricerche socio-politiche.
«È un rapporto come quando si va dal cartomante, cioè dammi un’indicazione
su come finirà… però, fra parentesi, però non la prendo comunque tanto sul
serio, quindi è molto scarso»
Le decisioni politiche non sono in alcun modo influenzate dalle ricerche, che non vengono
considerate, né lette, né commissionate, se non in ridicole quantità. Le decisioni spesso non
sono nemmeno decisioni, ma routines che non hanno reali alternative, viste l’assoluta
mancanza di volontà di rischio o cambiamento.
L’unico ruolo cui possono aspirare è quello previsivo, percepito dai ricercatori quasi come un
gioco, una profezia da guardare con curiosità per vedere se si avvera, ma senza alcuna
sensazione che la conoscenza possa essere in qualche modo utile.
Atteggiamento critico
La maggior parte dei ricercatori si colloca invece in una visione che possiamo chiamare
critica. Essa, pur riconoscendo un ruolo alla ricerca applicata, cerca di recuperare una visione
più orientata ai limiti epistemologici, metodologici e tecnici della ricerca stessa, inserendola
nei modelli decisionali senza darle ruoli che le sue caratteristiche non possono sostenere.
Secondariamente, questa visione cerca di riportare con maggiore realismo e pragmatismo il
processo decisionale applicato alla politica, evidenziandone non solo gli aspetti normativi, ma
anche le irregolarità, i paradossi, le criticità.
246
Il fatto che sia la visione più rappresentata consente di avere un numero maggiore di elementi
per descriverla.
In primo luogo, l’impressione diffusa, poi, è che in buona sostanza le ricerche nella maggior
parte dai casi non vengano affatto utilizzate.
«… ma la mia impressione è che anche questa ricerca, per esempio, mi viene in
mente adesso, che sarà presentata la prossima settimana a Roma, verrà messa li
e messa in un cassetto e non verrà utilizzata per le decisioni
… Però ci pagano e la mettono nel cassetto, … e forse questo è un po’ il difetto
della politica, perché in questo modo non …. E non è che … non usano le
ricerche per decidere, è che proprio non decidono, i politici, non decidono»
Si arriva al punto che, in alcuni casi, le ricerche sono commissionate una volta che la
decisione è già presa.
«Ma nel senso che spesso e volentieri, non so, vengono commissionati dopo
che sono state prese delle decisioni»
In questi casi, dunque, l’ipotesi non può che essere che la ricerca abbia un ruolo di
legittimazione a posteriori.
«…e quando non lo è, è utilizzata non per prendere decisioni ma per rendere
più bella l’informazione. Questa è la mia esperienza, sia come istituzione che
come partito”»
La consapevolezza circa l’importanza secondaria delle ricerche nei modelli decisionali è
presente anche in forme meno accentuate.
«Certo è chiaro che non è che sui dati poi … è ingenuo pensare che la ricerca
produca delle decisioni. La ricerca si inserisce come un tassello in un sistema
decisionale.»
247
Anche in narrazioni come queste di nota il realismo del considerare la ricerca non più
quell’elemento fondamentale alla decisione, ma un supporto e nulla più.
Questo apre alla grande questione del primato della politica.
Questa visione, infatti, assegna ancora un ruolo esclusivo alla politica nel prendere alcune
decisioni, quasi per ragioni etiche.
«dentro un partito hai un processo di selezione che può tenere conto anche di
alcuni altri ambiti, ma che usi il consulente per farti come dire dare il parere su
quale è il migliore candidato, io trovo che non sia, cioè boh non …però non
trovo che sia … cioè, che sia questo il ruolo, nel senso che, come dire, ci sono
delle cose che dovrebbe decidere la politica»
Il ruolo del ricercatore, infine, cambia rispetto alle visioni precedente e non è mai quello
asettico e razionale del fornitore di servizi. La presenza del ricercatore si fa sentire anche per
la componente umana. Il ricercatore interviene come un vero consulente, legato al decisore da
un rapporto di fiducia, prima ancora che dalla fornitura di ricerche considerate migliori fra le
tante presenti sul mercato.
«Per cui è più un intervento di consulting che soltanto indagini.»
Il rapporto di consulenza è infatti più consono ad un più realistico processo decisionale.
Ad esempio, per l’impostazione strategica di lungo periodo, raramente, abbiamo visto, si
arriva ad indagini di prospettiva o di posizionamento.
“ è più un lavoro di consulenza di marketing politico e una scelta personale del
candidato… difficilmente c’è dietro un’analisi così raffinata di
posizionamento… anche perché i politici sono abbastanza restii a farsi guidare
dalla ricerca …»
È più facile (più veloce e meno costoso) in questi casi affidarsi al consulente di fiducia, che si
ritiene depositario di una conoscenza che, normalmente, per il tipo di richiesta, non può
248
possedere. Nonostante questo la “stampella” offerta dal consulente è comunque sufficiente a
legittimare il nuovo corso d’azione.
Infine, la rappresentazione si nutre anche di ricostruzioni storiche sull’origine del “ritardo”
italiano, fonte di queste ambiguità.
La storica presenza in Italia infatti di un’ostilità di fondo verso il marketing porta anche ad
una sua applicazione ritardata alla politica, come già abbiamo avuto modo di vedere in altri
contesti.
«… ci porta al fatto che, che si è arrivati molto tardi rispetto ad altri …
all’utilizzo del marketing in senso, marketing politico, in senso classico, cioè io
devo andare a conquistare il consenso perché è democratico conquistare il
consenso alla luce del sole… semplicemente questa affermazione ha già sapore
eterodosso e anarchico, qualcosa di rivoluzionario»
Nelle interviste è emersa una rappresentazione più approfondita e frutto di una riflessione sul
tema. Non una narrazione, dunque, ma un vero giudizio. Interessante perché si propone di
interpretare l’atteggiamento del decisore politico rispetto all’uso della ricerca.
Voglio chiudere questo paragrafo con un brano che mi è parso particolarmente significativo
dell’atteggiamento critico e dei dilemmi e paradossi che questo porta con sé.
«cioè il problema … del decision making… cioè avendo dei risultati, come li
uso?…dove qui fondamentalmente mi pare che ci sia una sorta di infantilismo,
lo chiamerei così, culturale, perché si continua a oscillare tra una logica del tipo
“ah, i sondaggi sono puttanate perché sono poco più che opinioni”… uso
squalificante di questi problemi… a “i sondaggi dicono questo, quindi
facciamo questo”…
Attenzione, sotto questo atteggiamento qui, comunque l’atteggiamento è unico
ed è l’atteggiamento strumentale di chi non entra in una relazione … di
alternativa, di visione alternativa, ma sostanzialmente: “mi danno ragione”,
“non mi danno ragione”, “mi servono”, “non mi servono”…
249
Qui sotto secondo me il problema forte … è che qui manca una, c’è proprio una
carenza culturale e pragmatica di quello che è il marketing politico.»
Il brano è emblematico nel mostrare la maggiore capacità di riflessività proposta dai critici
rispetto alle altre categorie.
Qui viene evidenziato quello che è il paradosso di fondo su cui si regge tutto il sistema della
ricerca applicata alla politica. Decisori (e qualche volta anche ricercatori) oscillano da una
visione pessimista sulle ricerche e la loro utilità ad un’altra opposta di una totale fiducia, che
porta di conseguenza ad un’applicazione quasi meccanica dei risultati delle ricerche alle
scelte politiche.
La visione critica è consapevole di come entrambe queste visioni siano in realtà caricaturali e
semplificanti. Ma nonostante questo le pratiche d’uso convivono con queste visioni di fondo
del modello decisionale, incuranti di eventuali ambiguità e incoerenze. Non si fa chiarezza
sui limiti reali delle ricerche (o quantomeno non ve n’è consapevolezza), ma si continua a
commissionarle e a (non) utilizzarle.
Il brano riportato, fra le righe, sembra proporre anche un’ipotesi di spiegazione di questo
comportamento paradossale. Le ricerche sarebbero anche in questo caso utilizzate in maniera
strumentale, cioè non per ottenerne conoscenza, ma per avere armi nuove per le battaglie
politiche, a supporto delle proprie tesi o scelte e in opposizione a quelle cui si ha intenzione
di opporsi. La logica della semplificazione, dell’ipostatizzazione del dato, della scarsa cultura
d’uso rientrerebbe così (volontariamente o inconsciamente) in una strategia di utilizzo
strumentale, che, per farsi forza sulle ricerche , ha bisogno di considerarle come dati reali,
semplici, capaci di indicare con chiarezza vincitori e vinti, senza inutili precauzioni o
approfondimenti interpretativi.
2.9 Conclusioni
Anche nel caso di questo secondo capitolo, sono emerse numerose questioni che sono state
poi riprese e poste al centro delle interviste con i decisori.
Vi è un punto però che merita approfondimento. L’approccio al tema della decisioni, infatti,
si ricollega a quanto emerso nel capitolo precedente.
Sostanzialmente, i ricercatori rappresentano la realtà della decisione politica come meno
legata alle ricerche di quanto essi stessi vorrebbero. Pur riconoscendo la presenza di vincoli e
250
di altre logiche da rispettare per ottenere una decisione corretta, la fiducia nel ruolo ricoperto
dalle ricerche è ancora una volta data per scontato.
Sostanzialmente, però, la rappresentazione che emerge è quella di un campo della politica
ancora in ritardo rispetto all’evoluzione della disciplina e delle relazioni fra media, politica e
società, che porterebbero inevitabilmente verso una presenza maggiore degli strumenti di
ricerca nella politica.
251
CAP. 3
I DECISORI: LA GAMMA DELLE RICERCHE
3.1 Introduzione
Un primo obiettivo dell’analisi delle interviste ai decisori riguarda la determinazione della
gamma delle ricerche socio-politiche utilizzate, così come essa emerge dalla rappresentazione
che ne danno gli stessi decisori.
Come detto più volte, la letteratura esistente su argomenti collegati a quello di questa ricerca
è lacunosa di una reale osservazione empirica dei comportamenti dei decisori.
Questo vale anche per la stessa gamma delle ricerche.
Noi sappiamo abbondantemente quali sono le tecniche di ricerca demoscopica che il mercato
offre alla politica. Così come sappiamo con buona chiarezza come il mercato stesso interpreta
queste tecniche e come ritiene siano meglio utilizzabili per conseguire fini utili ai
committenti.
Ma non sappiamo molto invece di cosa realmente avviene dal lato dei decisori. Non
conosciamo a sufficienza, infatti quali sono gli strumenti di ricerca effettivamente usati,
quanti e sono e con che frequenza di utilizzo, per quale ragioni alcuni sono più utilizzati di
altri e via discorrendo.
Ma – cosa più importante, a mio avviso – non sappiamo come i decisori rappresentano questi
strumenti, le loro modalità d’uso e le utilità percepite. Così come non conosciamo il modo in
cui si forma e prende corpo questa rappresentazione.
La nostra ipotesi è che pratiche d’uso reali e rappresentazioni dei decisori siano assai
differenti rispetto sia alle attese dei ricercatori e del mondo professionale sia a quelle degli
osservatori e studiosi.
Ai fini di una ricostruzione della storia sociale legata all’affermazione dell’attuale concetto di
descrizione della ricerca socio-politica, è a mio avviso di grande interesse provare a
comprendere questa diversità, vedere come si è formata e ricostruire le negoziazioni che
hanno contribuito a crearla.
252
3.2 Distinzione fra ricerche di routine e ricerche specifiche
Un primo dato riguarda la distinzione esistente fra ricerche considerate di routine e ricerche
specifiche, più episodiche e mosse da esigenze puntuali e non ricorrenti.
L’esistenza di questa categorizzazione risulta presente nella stragrande maggioranza delle
interviste analizzate (11 su 12) e si configura dunque come una distinzione fondamentale
nella rappresentazione offerta dai decisori intervistati, tanto che in numerose interviste essa
rappresenta l’incipit del discorso, quasi una conditio sine qua non, indispensabile al corretto
inquadramento del fenomeno.
Da questo punto di vista, emerge l’incongruità rispetto alla rappresentazione che ne danno i
ricercatori, per i quali invece la prima distinzione utile a comprendere il fenomeno è centrata
sui tipi di strumento/prodotto utilizzati, ciascuno caratterizzato specificamente da un
approccio metodologico e da tecniche per le diverse fasi della lavorazione delle ricerche. La
visione offerta dai ricercatori è dunque – per certi versi comprensibilmente – più attenta agli
aspetti tecnici o metodologici, rispetto a quella dei decisori. Questi ultimi, invece, utilizzano
maggiormente una categorizzazione basata sui bisogni conoscitivi o sull’utilizzo pratico delle
ricerche, qualunque esse siano.
In certi casi, uso delle ricerche e tipologia dei prodotti tendono a convergere. Ma ciò non
avviene sempre. Ed è soprattutto laddove aumenta la complessità generale dei termini del
problema, cioè dove si fa riferimento alle ricerche specifiche, che emergono maggiormente le
differenze di categorizzazione: più orientate al prodotto per i ricercatori; più orientate
all’utilizzo e al bisogno conoscitivo per i decisori. E ciò è a testimonianza di una diversa
strategia di riduzione della complessità di una stessa realtà; diversità di strategia che si è
strutturata diversamente all’interno di gruppi sociali e di organizzazioni differenti per
strutture, obiettivi, cultura, origini.
Nel dettaglio, la differenziazione fra ricerche di routine e ricerche specifiche risulta presente
in gran parte delle organizzazioni politiche nazionali, assumendo così il rilievo di una
caratteristica trasversale e sostanzialmente indipendente dalla cultura politica di riferimento o
dalla particolare situazione competitiva in corso (cioè l’essere attore politico di governo o di
minoranza).
Due esempi per chiarire il concetto.
253
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«E quindi settimanalmente ci rappresentano come vengono percepiti i
principali temi, no, i principali avvenimenti, politici e non … e poi c’è sempre
il dato sul gradimento del governo e sulle intenzioni di voto.
…Poi invece ci sono le cose specifiche che facciamo prima di avviare una
campagna elettorale o comunque una campagna di propaganda. Allora lì
andiamo a testare quali sono i temi caldi, facciamo una ricerca, chiarendo
prima qual è l’obiettivo, no? Se è una campagna per le amministrative, per le
politiche oppure di posizionamento…»
(funzionario di partito, centro-destra)
«… Da un lato come rilevazione continua della pubblica opinione e quindi
come osservazione continua del trend degli elettori. E poi con indagini molto
più orientate sulla motivazione, sulla reazione delle persone a situazioni, a
eventi a atti politici…»
I due brani sopra riportati esemplificano come la separazione fra ricerche di routine e ricerche
specifiche sia pregnante nella rappresentazione del discorso sull’uso delle analisi
demoscopiche. La provenienza dei due brani da fonti collocate su posizioni fra loro opposte
del quadro delle culture politiche mostra la sostanziale trasversalità di questa distinzione nella
strategia discorsiva dei decisori politici.
La distinzione individuata è maggioritaria e largamente diffusa.
Esiste comunque una posizione nettamente minoritaria che tende a non distinguere fra queste
due categorie.
(funzionario di partito, centro)
«…quantitativi! Quantitativi. Abbiamo cominciato a strutturare anche diciamo,
gradimento, sondaggi appunto quantitativi solo sul partito …
…si non solo questione di voto…e anche quale fosse la resa televisiva e il, i
messaggi, come attraverso focus group e quindi altri strumenti di questo tipo…
254
…sui quali si poteva evidenziare quale era la statura ed il profilo di Casini e del
partito. Poi, solo per quanto riguarda il partito, siamo andati più specificamente
su quello che poteva essere il nostro elettorato potenziale»
Il brano sopra riportato rappresenta la risposta dell’intervistato alla stessa domanda sulla
gamma di ricerche utilizzata all’interno di quell’organizzazione politica.
Il pezzo riporta una visione che tende a non distinguere fra uso di routine e uso specifico,
nonostante il contesto di riferimento sia comunque quello generico dell’attività ordinaria di
partito e non quello di momenti particolari come quelli elettorali.
È interessante notare come esso rappresenti inoltre una corrispondente complessità relativa
agli strumenti utilizzati, segno appunto dell’assenza della necessità di categorizzare le varie
ricerche per conferire maggiore senso alla rappresentazione delle stesse. Si tratta comunque,
come detto, di una posizione isolata.
Relazione fra ricerche di routine e ricerche specifiche
Un punto interessante riguarda la correlazione esistente fra strumenti di routine e strumenti
specifici. In alcune interviste dove è presente la distinzione sopra introdotto, infatti, emerge
un intreccio rilevante fra queste due attività di ricerca, sia nelle modalità d’uso, sia nei
contesti e nelle situazioni problematiche che i decisori si trovano ad affrontare.
(attore locale, centro-sinistra)
«Allora, ci sono due tipi di attività fondamentalmente, una è quella, diciamo,
contingente rispetto alle elezioni.
E quindi che in teoria dovrebbe essere saltuaria, in verità in Italia è spesso e
volentieri… E poi invece c’è quella, diciamo, del gradimento piuttosto che
della popolarità dei leader ecc., che invece è quella costante. Queste due robe
qui però si intrecciano drammaticamente per la motivazione che dicevamo
prima, perché tra le consultazioni regionali, le consultazioni, diciamo,
amministrative e politiche, di fatto noi abbiamo ogni sei mesi un appuntamento
elettorale … o comunque ogni sei mesi no, ma ogni otto mesi… il che significa
che sull’utilizzo dei sondaggi questo, ovviamente, incide e coincide tantissimo.
255
Quindi però la strutturazione è quella sempre e comunque su: da una parte,
diciamo, mirata sulle consultazioni elettorali e quella roba lì è sempre più o
meno quei discorsi che facevamo e cioè molto meno qualitativo e molto
quantitativo.»
In questo brano, la correlazione fra i due strumenti è determinata dal contesto. La frequenza
degli appuntamenti elettorali fa sì che lo strumento considerato di routine svolga anche
alcune funzioni considerate specifiche del momento elettorale. In questo modo si evidenza
anche come gli obiettivi dell’azione delle organizzazioni politiche siano sostanzialmente
diversi a seconda del contesto: alcuni modi di rapportarsi all’opinione pubblica sono tipici dei
momenti elettorali.
In altri casi, invece, emerge una motivazione diversa relativa al rapporto fra queste due
categorie di ricerche: una visione più sistemica, in cui la categorizzazione dovuta alla
frequenza e alla specificità di utilizzo è più sfumata, e in cui la stessa differenziazione relativa
alla natura dei prodotti utilizzati non è sempre chiara.
(funzionario di partito, centro)
«In realtà lo strumento delle indagini demoscopiche è uno strumento che,
secondo me, viene soltanto in parte valorizzato dagli attori politici perchè si
tende spesso a fermarsi, appunto, a questo stadio e non, invece, ad analisi…più
profonde e che, invece, questi strumenti consentono. Io personalmente ho
utilizzato questo tipo di consulenza anche dal punto di vista qualitativo perchè
come responsabile della comunicazione non mi limitavo a fornire il bollettino,
diciamo così… delle intenzioni di voto…»
3.3 Le ricerche di routine: tipi di prodotti utilizzati
Focalizzando sulle ricerche di routine, una prima evidenza riguarda il tipo di prodotto
utilizzato.
Per la stragrande maggioranza delle interviste analizzate, esse infatti consistono
sostanzialmente di un unico prodotto, il sondaggio d’opinione “classico”. Normalmente con
questa terminologia si intende una ricerca basata su un campione della popolazione, realizzata
256
con un questionario strutturato e con una rilevazione telefonica attraverso il metodo CATI. La
cadenza regolare di questo strumento può variare a seconda delle occasioni e dei contesti. La
maggior parte degli attori politici ricevono un nuovo dato una volta alla settimana. In certi
casi, una volta al mese.
La gamma delle dichiarazioni riguardanti gli scopi attribuiti a questo genere di ricerca e i
bisogni che essa si propone di soddisfare è ampia, ma riportata in maniera sostanzialmente
omogenea da tutti gli attori politici.
Lo stesso prodotto è inoltre alla base di una seconda tipologia di ricerche, cioè i sondaggi
“più approfonditi”: rilevazioni fatte con lo stesso prodotto, ma maggiormente focalizzate. In
taluni casi, la maggiore focalizzazione è sugli andamenti temporali, e dunque è la frequenza
della rilevazione a cambiare e a risultare aumentata, fino a diventare sostanzialmente
quotidiana. Ciò diventa frequente nei momenti elettorali.
(funzionario di partito, centro-destra)
«… Beh, una differenziazione innanzitutto quantitativa. In campagna elettorale
il sondaggio diventa molto più frequente e diventa anche molto più analitico.
Per esempio noi abbiamo fatto sondaggi regione per regione, circoscrizione per
circoscrizione. Ma in passato quando c’erano le campagne elettorali per
collegio, facevamo molti sondaggi collegio per collegio, per capire quali erano
i collegi marginali, ma anche nei collegi marginali per capire quali candidati
potessero spostare un numero di voti o comunque quale tipo di risposta
avessero questi candidati, a livello di selezioni.»
In altri casi, la maggiore focalizzazione riguarda invece la necessità di approfondire la
risposta ad alcuni quesiti, attraverso un approfondimento dell’indagine che si concretizza in
una maggiore insistenza su certi temi oppure in un maggiore orientamento a specifiche
categorie di soggetti ai quali rivolgere l’indagine. In questi casi, la frequenza della rilevazione
risulta rallentata rispetto alle ricerche settimanali-mensili.
L’uso di questo secondo tipo di ricerca di routine è segnalato in numerose interviste,
indipendentemente sia dalla cultura politica d’origine sia dallo specifico contesto competitivo
in cui si trova ad operare l’organizzazione. In tutte queste occorrenze, l’uso dei sondaggi “più
257
approfonditi” è sempre associato all’uso dei sondaggi settimanali “classici”, dei quali
rappresenta appunto un approfondimento.
(funzionario di partito, centro)
«… il settimanale è quello più semplice e diciamo, trimestrale, almeno
trimestrale, quello con cui ci confrontiamo con cose di questo tipo.
… se dobbiamo partire per una campagna elettorale ovviamente stressiamo la
produzione. C’è un momento di stasi e andiamo avanti.»
In un solo caso, la differenziazione esistente fra i due tipi di strumenti non sembra delineare
una reale e sostanziale differenza in termini di utilizzo e di necessità conoscitive, mentre
invece le maggiori differenze risultano essere di natura tecnica (ad esempio il numero di
interviste) o il commissionamento a istituti diversi.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«Noi stavamo già utilizzando due strumenti attraverso due istituti differenti,
uno è l'SWG uno è l'IPSOS per cui uno è una rilevazione con cadenza mensile
di quelle che sono le tendenze fondamentali dell'opinione pubblica rispetto ai...
una parte sui temi di attualità per cui eravamo noi a indicare su quali temi
sondare il campione che era di 1200 casi, un altro, invece, erano domande che
ogni mese venivano ripetute sui temi principali per vedere l'andamento
dell'attenzione dell'opinione pubblica su quei temi. C'era poi una parte sulla
fiducia nei leaders che venivano sondati mensilmente e quindi un trend più la
parte quella più canonica sull'andamento delle diverse forze politiche.
…e il secondo è uno strumento, quello dell'Ipsos, si chiama polimetro, che è
uno strumento sul mercato, diciamo, a disposizione da più... e acquistato da
diversi soggetti politici tra cui anche noi che anche lì è una guida ragionata
all'analisi dei trend di fondo.»
Una conferma arriva anche dal brano seguente.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
258
«… e talvolta soprattutto con l’avvicinarsi di scadenze elettorali o quando si
devono prendere decisioni strategiche di vario tipo magari può essere
potenziato utilizzando due istituti di ricerca anziché uno per incrociare dei
dati.»
Questo utilizzo evidenzia una prima necessità di maggiore “tenuta” empirica dallo strumento,
che evidentemente fa ritenere non sufficiente il sondaggio a cadenza settimanale. La
maggiore affidabilità del dato viene così ottenuta o con il ricorso all’incrocio con il dato di un
altro istituto oppure con il ricorso a un campione più numeroso o, in generale, ad un’indagine
considerata di maggiore qualità.
Da segnalare, infine, che la gamma di coloro che hanno dichiarato di utilizzare questi
strumenti comprende sostanzialmente tutti gli attori politici nazionali, siano essi partiti
politici o figure elettive come i membri del governo o, in alcuni casi, delle più importanti
figure elettive degli enti locali. Non sembrano dunque emergere, da questo punto di vista,
differenze sostanziali dovute alle diverse posizioni ricoperte dalle organizzazioni.
Il terzo strumento segnalato fra quelli ad uso ricorrente è il focus group. L’uso frequente e
ricorrente (“di routine”, appunto) del focus è riportato solamente in un’intervista, che
riguarda il partito di Forza Italia. Fa inoltre riferimento ad un momento elettorale, cosa che di
per sé contribuisce a spiegare l’utilizzo di uno strumento normalmente considerato specifico.
(funzionario di partito, centro-destra)
«Oltre al sondaggio vero e proprio per esempio utilizziamo molto i focus che ci
danno periodicamente. E quindi in sostanza diventa uno strumento di continuo
dialogo con l’opinione pubblica, di ascolto continuo e di interfaccia continua. A
fronte di questo nascono nuovi messaggi e quindi una nuova risposta del
pubblico e così via. Da questo punto di vista ha un approccio molto più
scientifico, molto più sistemico.»
Rappresenta in ogni caso un brano interessante, in quanto la connotazione routinaria dello
strumento è senz’altro di notevole interesse e rilevanza proprio per la sua unicità.
259
3.4 Le ricerche di routine: scopi e obiettivi di utilizzo
La gamma degli obiettivi assegnati a queste ricerche è molto ampia e differenziata.
La ricognizione operata ha portato ad individuare una serie di obiettivi e finalità,
raggruppabili per categorie.
Le issue: stabilire l’ordine di priorità delle principali issue dell’attualità politica, il “clima”
sulle tematiche, la valutazione su eventuali avvenimenti specifici.
Le forze politiche: stabilire la fiducia degli elettori nelle varie forze politiche, il gradimento
attribuito alle stesse, il livello di conoscenza e popolarità dei leader, la fiducia nei leader
stessi.
Il Governo: stabilire la conoscenza e la popolarità nei ministri e nel Presidente del Consiglio,
la fiducia nei ministri e nel Presidente del Consiglio, il gradimento per l’operato del Governo,
del Presidente del Consiglio e dei singoli ministri, gli elementi principali dell’immagine del
Presidente del Consiglio.
Le istituzioni: valutare la fiducia complessiva dei cittadini nella politica e nelle diverse
istituzioni politiche.
Il voto: stabilire le intenzioni di voto per le principali forze politiche nelle varie consultazioni
di volta in volta al centro dell’interesse.
L’elettorato di riferimento e potenziale.
I diversi obiettivi sono sostanzialmente gli stessi per tutti gli attori organizzativi a cui fanno
riferimento le interviste del campione.
Nella maggior parte dei casi, le ricerche di routine sono costruite per tenere conto di più
esigenze conoscitive fra quelle sopra categorizzate, così da formare un quadro completo.
Ovviamente, la diversa posizione occupata dal committente può comportare lo spostamento
verso l’utilizzo di quesiti orientati agli interessi determinati da quella posizione, come
avviene ad esempio per le forze politiche al Governo, che iniziano a testare l’attività appunto
dell’esecutivo e non solo delle forze politiche.
Nel complesso, comunque, si può affermare con ragionevole certezza come la logica che
sorregge gli obiettivi conoscitivi sopra individuati sia sostanzialmente la stessa per tutti gli
attori politici che vanno ad utilizzarli.
260
3.5 Le ricerche di routine: modalità discorsive di rappresentazione
Nonostante l’analisi dettagliata degli scopi e degli obiettivi abbia visto un risultato di
sostanziale omogeneità fra tutti gli attori politici, la lettura dei testi integrali delle interviste fa
emergere una visione diversa, una differenziazione degna di rilievo.
Esistono infatti differenti modalità discorsive utilizzate per rappresentare le ricerche di
routine stesse e per rendere conto di esse.
In particolare, è possibile individuare due differenti modalità di argomentazione e di
connotazione delle ricerche, nettamente differenti fra di loro. E, semplificando, le due
narrazioni di questo genere di ricerche sembrano delineare fin dall’inizio una sorta di giudizio
sulla effettiva possibilità insita nelle ricerche di routine di costituire uno strumento
concretamente utilizzabile.
In taluni casi, le ricerche di routine sono considerate “generiche” o “ordinarie” e
l’argomentazione strutturata per raccontarle lascia emergere un certo distacco e dunque una
considerazione non primaria della loro rilevanza per l’uso del partito.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«Il sondaggio generico è il sondaggio diciamo che fotografa settimanalmente il
clima esistente nel Paese, quindi dal clima sulle tematiche emergenti nelle quali
c’è dibattito politico, al clima di fiducia complessivo che c’è nei confronti della
politica, al giudizio che c’è poi sui vari attori politici fino all’orientamento
elettorale. Ecco questo è più o meno il sondaggio generale che viene esaminato
settimanalmente che da un po’ il polso della situazione.
… che poi, come sappiamo, da anche un orientamento di massima ma molto
spesso fotografa una grande massa di indecisi o distratti o di gente che non ha
una opinione…
… fotografa oscillazioni sapendo che poi queste oscillazioni vanno prese per
quello che sono cioè anche dei movimenti abbastanza superficiali che danno
l’idea se serva poi approfondire alcuni temi, eccetera»
L’estratto è efficace nel mostrare questa argomentazione-tipo. La stessa argomentazione è
ricorrente in numerose altre interviste, ed è spesso accompagnata dall’utilizzo di metafore o
261
cornici di significato ugualmente interessanti, come quelle del “polso della situazione”, della
“fotografia”, del “termometro”.
In altri casi, invece, la modalità utilizzata per introdurle lascia intendere un maggiore
interesse al loro utilizzo. Invece che “generiche”, in questi casi le connotazioni utilizzate sono
le seguenti: “permanenti”, “continue”, “sistematiche”, “costanti”. In questi casi dunque esse
sono rappresentate in virtù della frequenza del loro utilizzo, più che sulla qualità dei
contenuti, con una connotazione più positiva, evidente anche se implicita.
(funzionario di partito, centro-destra)
«…come rilevazione continua della pubblica opinione e quindi come
osservazione continua del trend degli elettori…»
Il brano sopra riportato evidenzia come la connotazione data alle ricerche ordinarie e il suo
essere sostanzialmente più positiva dipende dal tipo di utilizzo che ne viene fatto. In questo
brano emerge come l’utilità di queste ricerche risieda non tanto nella ricerca in sé, ma nella
possibilità di analizzare diacronicamente il risultato di più ricerche nel tempo. In questo tipo
di utilizzo, comunemente noto come tecnica del tracking, si saldano efficacemente le due
caratteristiche principali delle ricerche di routine: la semplicità e la limitata ampiezza degli
obiettivi conoscitivi vista sopra con la ricorsività della rilevazione.
(funzionario di partito, centro-destra)
«…Cioè la curiosità di capire come vanno le elezioni è l’ultimo degli scopi
(ride). D’altronde lei sa che il sondaggio non serve a capire come vanno le
elezioni, serve a capire che tendenze si stanno delineando, la situazione
quotidiana del mezzo punto non significa assolutamente niente.»
In questo brano viene esplicitato il concetto, addirittura ribaltando provocatoriamente quella
che è considerata una normale acquisizione e cioè l’importanza dei sondaggi come strumento
di previsione elettorale.
Alla luce di queste considerazioni, le stesse metafore e cornici di significato sopra riportate e
relative alla connotazione delle ricerche che abbiamo chiamato “generica” appaiono ora come
elementi chiarificatori, emblematici. La fotografia, il polso della situazione sono tutte
262
immagini che comunicano una focalizzazione sul momento, sulla staticità del dato. Quando
invece la maggiore efficacia (almeno quella percepita dagli stessi utilizzatori) è data dalla
dinamicità e dal raffronto diacronico sistematico.
Un’analisi delle differenze fra gli intervistati che associano alle ricerche di routine fa
emergere altre considerazioni interessanti. La valutazione più positiva delle ricerche non si
associa infatti a una cultura politica, ma è trasversale rispetto al posizionamento delle
organizzazioni nel quadro politico.
Piuttosto, molto spesso questa differente e più positiva connotazione è legata ad uno specifico
contesto competitivo, quello delle competizioni elettorali.
È infatti quando si parla dei momenti elettorali che la tecnica del tracking viene considerata
fondamentale.
In altri casi, è la biografia dell’intervistato a fare la differenza. Numerose interviste svolte con
i membri di partito più specializzati sulle competizioni elettorali fanno emergere questa
visione del tracking. Con l’interessante corollario che, in questi casi, il tracking è considerato
applicabile anche a situazioni non del tutto elettorali. Implicitamente, gli attori politici più
abituati a muoversi nei contesti elettorali e nelle tecniche del marketing politico, sembrano
aver interiorizzato anche una delle più note tesi presenti nella letteratura sulla comunicazione
politica, quella della campagna permanente, fondamento del marketing politico moderno.
Laddove la consapevolezza relativa alla campagna permanente appare più distante, è più
evidente la situazione opposta, con una connotazione delle ricerche come “generiche” o
“ordinarie”.
Un ultimo brano, infine, manifesta con grande evidenza alcuni dei concetti introdotti.
(funzionario di partito, centro-destra)
«All’epoca usavamo i sondaggi fondamentalmente per capire come le cose
sarebbero andate. Più per toglierci delle curiosità, per avere qualche stima, per
testare la popolarità di qualche candidato, ma nulla più di questo. Berlusconi ne
ha fatto un uso molto più sistematico. Da un lato come rilevazione continua
della pubblica opinione e quindi come osservazione continua del trend degli
elettori. E poi con indagini molto più orientate sulla motivazione, sulla reazione
delle persone a situazioni, a eventi a atti politici… sulla reazione anche
263
immediata a eventi politici, sulla risposta in campagna elettorale a un
determinato tipo di messaggi. Oltre al sondaggio vero e proprio per esempio
utilizziamo molto i focus che ci danno periodicamente. E quindi in sostanza
diventa uno strumento di continuo dialogo con l’opinione pubblica, di ascolto
continuo e di interfaccia continua. A fronte di questo nascono nuovi messaggi e
quindi una nuova risposta del pubblico e così via. Da questo punto di vista ha
un approccio molto più scientifico, molto più sistemico.»
Il brano sopra riportato rappresenta l’idealtipo di questa seconda visione delle ricerche di
routine. Nell’utilizzo delle ricerche di routine svolto da questo attore politico, infatti, si
ritrovano una serie di caratteristiche tipiche di un uso che potremmo dire “avanzato” delle
ricerche ordinarie. La tecnica del tracking è infatti indicata esplicitamente e la sua evoluzione
nel tempo è citata come il fattore fondamentale dell’uso “corretto” di questi strumenti. Inoltre
è presente un uso integrato anche con i metodi qualitativi tipici di un prodotto come il focus
group, che in questo unico caso viene utilizzato con una pratica originale rispetto alla norma,
cioè con cadenze regolari e attribuzione di obiettivi analoga a quella delle indagini
quantitative.
3.6 Le ricerche specifiche: tipi di prodotti utilizzati e loro obiettivi
Sulle ricerche considerate specifiche emerge una maggiore complessità.
In primo luogo, in questa categoria viene inserita una gamma più ampia di prodotti e di
situazioni. Inoltre, anche gli obiettivi ad essi attribuiti possono variare, a differenza di quanto
avveniva per le ricerche di routine.
Pertanto, ai fini di descrivere con maggiore chiarezza le rappresentazioni, ciascuno di questi
strumenti verrà analizzato separatamente, sia per i prodotti utilizzati che per gli obiettivi e gli
scopi attribuiti.
Il più citato fra questi prodotti che sono fatti confluire nella categoria delle ricerche specifiche
riguarda, in realtà, usi particolari di strumenti classici. È il caso del sondaggio d’opinione, che
viene rivisto secondo scopi e modalità di realizzazioni differenti e specificamente orientati. In
questo caso vengono indicati come “sondaggi mirati” o “sondaggi specifici”.
264
La gamma di scopi attribuiti prevede alcune aree che rappresentano approfondimenti mirati
delle ricerche di routine.
Fra queste le più citate sono le indagini svolte per ottenere approfondimenti sulle issue, ordini
di priorità e valutazioni relative alle stesse, valutazioni rispetto ad avvenimenti specifici o
provvedimenti.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«Mah, sui temi. Abbiamo cercato di mettere a fuoco i problemi maggiormente
sentiti dall’elettorato …con lo stesso strumento»
In questo caso dunque il sondaggio mirato rappresenta nulla più che un approfondimento di
contenuti già al centro delle ricerche di routine, approfondimento dettato da esigenze di
natura contingente.
In altre situazioni più interessanti, invece, ai sondaggi mirati sono attribuiti compiti del tutto
specifici, ai quali non sono chiamati i sondaggi di routine.
Un primo caso è quello delle indagini territoriali. Alcune situazioni elettorali, infatti,
obbligano a concentrare l’impegno comunicativo su aree specifiche, sia per le particolari
dinamiche imposto dalla legislazioni, sia per una comprensibile necessità di concentrare le
risorse negli ambiti più proficui.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«…Così come abbiamo utilizzato sempre lo stesso strumento per fare le
indagini territoriali, per capire su quali regioni insistere. Soprattutto per il
Senato, che eravamo in bilico…
…Sai la differenza, no, fra il sistema elettorale della Camera e quello del
Senato. Al Senato c’è il premio di maggioranza regionale. Quindi è
particolarmente importante nelle regioni in bilico fare un lavoro di un certo
tipo… Ne abbiamo fatte tre.»
Un secondo tipo di obiettivi specifici al quale sono chiamati i sondaggi mirati riguarda la
selezione della leadership e delle candidature.
È un aspetto molto interessante, data la sua rilevanza per lo studio di un elemento importante
degli attori politici in quanto organizzazioni.
265
In questo caso, il sondaggio è mirato ad ottenere una valutazione della percezione del
campione su alcuni aspetti della personalità di alcuni ipotetici candidati, finalizzata a
individuare la soluzione migliore. Nel dettaglio, la ricerca si concentra su quesiti rivolti a
determinati aspetti come i livelli di conoscenza e popolarità dei possibili candidati, il
gradimento verso di essi, il livello di fiducia, alcuni elementi dell’immagine, alcune
comparazioni con candidati alternativi, le intenzioni di voto.
Le citazioni dell’uso dei sondaggi mirati a questo scopo sono numerose e trasversali rispetto
alla collocazione politica. Spesso, inoltre, fanno riferimento a contesti elettorali locali, come
per la scelta dei candidati a cariche elettive di enti locali oppure di candidati di collegio (nei
periodi, ovviamente, in cui la legislazione elettorale prevedeva la formula del collegio e del
voto uninominale).
(funzionario di partito, centro)
«…Poi chiaramente abbiamo avuto moltissimo occasione di usare lo strumento,
sempre in forma quantitativa per la valutazione della efficacia delle candidature
quando c'erano i collegi nominali per le politiche così come per le candidature
dei sindaci e delle principali cariche degli enti locali.»
Un terzo caso specifico (sempre in ordine di quantità di citazioni) riguarda il test delle
campagne di comunicazione. È un meccanismo che non viene esplicitato dettagliatamente e
sul quale la rappresentazione mantiene un alone di indeterminatezza. L’obiettivo, comunque,
è chiaro e riguarda la necessità di valutare con giudizi provenienti dall’opinione pubblica
l’efficacia di alcune campagne di comunicazione, prima che esse siano messe in atto.
(funzionario di partito, centro)
«…e anche… le campagne sono state testate, sono state fatte tutto quello che si
fa in genere e il, i messaggi…”
(funzionario di partito, centro)
«… invece, diciamo che lì sicuramente quando abbiamo fatto le campagne, le
campagne sono state testate, sono state fatte tutto quello che si fa in genere.»
266
Ugualmente poco dettagliato è il quarto obiettivo, cioè quello di individuare il
posizionamento politico. Mentre per i ricercatori queste indagini assumono caratteristiche
specifiche e ben determinate (derivanti anche dalla frequenza con cui esse sono state
utilizzate nell’ambito delle ricerche di mercato), per i decisori politici, la citazione non va mai
molto oltre il titolo e la generica dichiarazione circa la necessità di conoscere il proprio
elettorato (anche potenziale) e le possibilità di sviluppo offerte dal “mercato” politico.
(funzionario di partito, centro-destra)
«… Se lei ha presente quelle rappresentazioni grafiche che mettono da un lato
del quadrato, in alto a sinistra …Quelle di posizionamento. Che mettono in alto
a sinistra i più giovani e i più colti o i più giovani e i più ricchi, in basso a
destra … ecco, l’angolo in alto a sinistra non viene mai occupato da noi, e non
ci proviamo neanche.»
Un quinto caso di utilizzo specifico dei sondaggi mirati riguarda le uscite televisive. È un
obiettivo molto citato, anche in questo caso trasversalmente alla cultura politica e anche alla
posizione dell’attore politico (maggioranza, minoranza, Governo). Non emerge inoltre una
maggiore propensione all’utilizzo di questo strumento dovuta all’avvicinarsi di momenti
elettorali, mentre è significativo che sia indicato anche relativamente all’attività di ricerca
commissionata da attori politici con ruoli di Governo.
Nel dettaglio, si tratta di sondaggi volti a comprendere il gradimento degli elettori rispetto
alle presenze televisive dei leader politici o dei membri dell’esecutivo.
(funzionario di partito, centro)
«…non solo, io ho attivato anche dei monitoraggi… Quindi il monitoraggio,
per esempio, delle uscite televisive…Sia gruppi di ascolto che poi facendo dei
mini sondaggi per sapere se la trasmissione è stata vista, non è stata vista, che
cosa era rimasto impresso dalla televisione, se c'era stato gradimento, quali
erano stati gli argomenti su cui c'era stata un'attenzione maggiore e quello su
cui c'era una condivisione meno...
… In questo caso quantitativo, poi diciamo che sul mercato esistono varie
formule di intervento, per esempio, esistono, però io non ho utilizzato quelle, la
possibilità di avere un monitoraggio in diretta con un pubblico (...) come se
267
fosse un focus group che, mentre, diciamo così, il leader parla esprimono il
gradimento immediatamente, questo consente con un ricercatore che è presente
anche di poter... in diretta, magari nella pausa pubblicitaria avere i consigli per
eventualmente attrarre meglio la... l’attenzione.
… Questo non l'abbiamo utilizzato, perché mi sembrava diciamo così, troppo
da... sproporzionato come tipo di strumento…»
(membro di staff istituzionale, centro-sinistra)
«Non abbiamo … abbiamo anche testato che cosa era piaciuto, che cosa non
era piaciuto nelle trasmissioni televisive, eccetera»
Un secondo tipo di ricerca specifica molto citato è il focus group.
In questo caso, un primo aspetto interessante è che questo inserimento mostra una differente
modalità di categorizzazione. Con una sola eccezione, infatti, a questo prodotto corrisponde
una specifica modalità di utilizzo (cosa che non avviene invece per i sondaggi d’opinione,
come si è visto). Il focus group, dunque, pare essere uno strumento con una sua specifica
logica: in esso la categorizzazione in base all’utilizzo, tipica delle modalità discorsive dei
decisori, coincide sostanzialmente e significativamente con la categorizzazione in base al
prodotto, tipica invece delle narrazioni dei ricercatori.
Gli obiettivi attribuiti ai focus group sono molteplici, solo in parte coincidenti con quelli
attribuiti ai sondaggi mirati.
Ricompare, ad esempio, la necessità di approfondimento rispetto ai temi e alle issue. In alcuni
casi questo approfondimento è considerato parte dell’impostazione strategica ad esempio
della campagna elettorale, in cui la scelta dei temi non è dettata dalle contingenze, ma dalla
volontà di impostare una strategia di lungo periodo, tanto da citare l’utilizzo dei focus anche
per la costruzione del programma elettorale.
(attore locale, centro-sinistra)
«…E quindi ovviamente dai qualitativi, ai qualitativi noi chiedevamo gli
argomenti su cui andare a insistere, abbiamo anche chiesto quali dovevano
essere i giusti candidati ma non ne abbiamo tenuto conto…»
(funzionario di partito, centro-sinistra)
268
«… e poi abbiamo fatto all'inizio, cioè prima dell'inizio della campagna
elettorale, abbiamo fatto alcuni focus per l'impostazione delle key issues,
diciamo così, della campagna elettorale, poi comunque è uno strumento che
viene utilizzato in aggiunta.
… non è che il programma del PD di Veltroni è stato fatto in relazione ai focus,
però è stato utilizzato come accompagnamento.»
Fra gli altri obiettivi attribuiti, torna la citazione al test delle campagne di comunicazione, che
già abbiamo trovato fra gli obiettivi dei sondaggi mirati.
Infine, una terza casistica è contenuta in una citazione specifica.
(funzionario di partito, centro-destra)
«E poi con indagini molto più orientate sulla motivazione, sulla reazione delle
persone a situazioni, a eventi a atti politici…»
(funzionario di partito, centro-destra)
«Dicevo, sulla reazione anche immediata a eventi politici, sulla risposta in
campagna elettorale a un determinato tipo di messaggi. Oltre al sondaggio vero
e proprio per esempio utilizziamo molto i focus che ci danno periodicamente. E
quindi in sostanza diventa uno strumento di continuo dialogo con l’opinione
pubblica, di ascolto continuo e di interfaccia continua. A fronte di questo
nascono nuovi messaggi e quindi una nuova risposta del pubblico e così via. Da
questo punto di vista ha un approccio molto più scientifico, molto più
sistemico.»
Qui il riferimento è alla necessità di attribuire ai focus group obiettivi di approfondimento
circa alcune delle caratteristiche di fondo dell’elettorato. Gli aspetti più significativi di questa
citazione riguardano la necessità di testare non solo opinioni esistenti, ma anche ipotesi di
reazione rispetto a reazioni e studi circa le “motivazioni” dei comportamenti elettorali, più
volte citate.
Questo brano è in misura sostanziale più in linea con alcuni degli obiettivi che vengono
attribuiti anche dalla letteratura metodologica ai focus group.
269
È significativo inoltre che a proporre questa rappresentazione sia lo stesso soggetto già citato
per un uso “di routine” del focus group, segno di una complessiva attività di integrazione dei
diversi strumenti all’interno di una logica unitaria di utilizzo.
Una terza categoria di strumenti per le ricerche specifiche individuati nelle interviste
raggruppa due indicazioni isolate provenienti ciascuna da singole interviste.
Entrambi gli esempi, pur nella limitatezza della loro presenza all’interno del corpus delle
interviste, offrono elementi di interesse per ragioni diverse.
Il primo caso riguarda una ricerca effettuata sugli opinion leader.
Da un punto di vista metodologico, tale strumento si differenzia dai sondaggi d’opinione per
il fatto di non essere rivolto all’individuazione delle caratteristiche dell’opinione pubblica, ma
di essere centrato su alcune figure individuate per la loro capacità di orientare e guidare la
stessa opinione. Un obiettivo, dunque, sensibilmente differente. La citazione di questo
strumento è, come detto, isolata. Inoltre essa è accompagnata da valutazioni immediate sulla
non efficacia dello strumento stesso.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«… li abbiamo utilizzati in un certo momento ma era più che altro, così, perché
era uno strumento nuovo che proponeva un istituto di ricerca che ce lo aveva
proposto un …come si dice…un esame… indirizzato prevalentemente agli
opinion leader cioè alcune decine di persone particolarmente rilevanti nei vari
settori…
… Noi lo abbiamo fatto in un paio di occasioni poi devo dire che anche gli esiti
non mi sembravano particolarmente…interessava capire un po’ quale era il
posizionamento del partito rispetto ai ….ad alcuni segmenti diciamo di élite
dell’opinione pubblica.»
Il secondo caso riguarda invece l’utilizzo di un prodotto particolare offerto sul mercato. Si
tratta di una rilevazione di gradimento e atteggiamento rispetto a eventi o provvedimenti che
viene richiesta ad un panel preindividuato di elettori, che è possibile ottenere con tempi
ridottissimi (anche una sola giornata) grazie al particolare strumento di rilevazione.
Anche in questo caso la citazione è unica e riguarda peraltro l’attività di Governo.
270
(membro di staff istituzionale, centro-sinistra)
«Avevamo fatto un accordo per fare dei sondaggi al volo su ... questo
l'avevamo fatto proprio noi come struttura di comunicazione…concordavamo
la mattina la domanda e avevi la sera la risposta.»
Manifesta comunque la necessità di ottenere riscontri di opinione particolari, in cui è la
tempestività e l’attualità del dato a rappresentare il principale oggetto di interesse e lo stesso
obiettivo conoscitivo assegnato allo strumento.
3.7 Conclusioni
Le retoriche utilizzate nelle rappresentazioni sono molto interessanti.
Le metafore utilizzate, particolarmente quella del “termometro”, non sono casuali. Esse sono
le stesse utilizzate già negli anni ’30 nell’epoca dell’affermazione degli strumenti
demoscopici come strumenti sovrani nella misura dell’opinione pubblica (Blondiaux 1998,
pag. 149). Una tale persistenza delle forme retoriche non è certo casuale. Il riferimento a
concetti e procedure di natura scientifica, infatti, rimanda ad un campo di studi considerato
nel discorso comune come caratterizzato da obiettività e infallibilità. Come per il campo
scientifico, lo strumento di misura diventa garanzia della verità e infallibilità del fenomeno
misurato.
Esso inoltre sottointende la possibilità di arrivare a una misura esatta dell’opinione. Senza
considerare, invece, come la coppia strumento-concetto nel campo dell’opinione pubblica
(ma anche in quello della scienza tout court) frutto di una storia di costruzioni e convenzioni
sociali.
271
CAP. 4
I DECISORI: PRATICHE D’USO – LE STRUTTURE
4.1 Introduzione
Un obiettivo centrale della ricerca è descrivere le pratiche d’utilizzo delle ricerche socio-
politiche che vengono concretamente adottate dagli attori politici stessi.
La descrizione delle pratiche rappresenta la parte forse più interessante del lavoro empirico
anche per la sua relazione con i concetti e le prescrizioni offerte dalla letteratura
professionale, il cui taglio normativo non è stato finora affiancato da approfondimenti
empirici consistenti circa le pratiche reali di utilizzo.
Come ampiamente sviluppato nel capitolo metodologico, la scelta (in parte obbligata) di
utilizzare le interviste in profondità come metodo di ricerca, presuppone dei limiti relativi ai
fondamenti epistemologici delle conoscenze emerse dall’analisi, che è bene esplicitare anche
in questa fase.
In particolare, ciò che è stato raccolto dalle interviste è da considerare una rappresentazione
data dagli stessi attori, non una realtà osservata direttamente (e, a sua volta, interpretata) dal
ricercatore.
Ciò ha comunque consentito ampi obiettivi di ricerca.
Il primo è la comprensione del senso attribuito dagli attori politici a queste ricerche
all’interno della loro azione sociale. Un aspetto essenziale per comprendere l’andamento di
alcuni fenomeni sociali presenti nel campo della politica.
Poi, le interviste hanno offerto elementi importanti sulla rappresentazione del ruolo svolto
dalle ricerche all’interno delle organizzazioni politiche. Da questo punto di vista, si è
concentrata l’analisi su alcuni concetti e variabili provenienti dalle elaborazioni della
letteratura organizzativa, così da individuare l’influenza delle ricerche socio-politiche, sia
relativamente ad alcune problematiche sulle quali da tempo si interroga l’analisi delle
organizzazioni, sia relativamente a questioni più specifiche ed emerse direttamente dai dati
raccolti.
272
In generale, l’analisi delle pratiche d’uso condotta attraverso la metodologia scelta ha
consentito di cogliere spunti rilevanti, che affiancano la visione normativa contribuendo a
rendere più complessa e variegata la nostra conoscenza circa l’uso di queste ricerche nel
campo della politica e a determinare nuovi sviluppi possibili per la ricerca in questo campo di
indagine.
L’analisi dei brani delle interviste relativi alle pratiche d’uso ha ovviamente seguito
l’impostazione data dalla traccia d’intervista, la quale già individuava gli ambiti fondamentali
da scrutare e le domande di ricerca a cui rispondere. La non standardizzazione della traccia ha
comunque consentito una libertà di risposta che ha reso necessario un lavoro ulteriore di
categorizzazione dei brani.
L’analisi delle interviste è stata dunque condotta con il metodo della strutturazione ex-post,
individuando nei testi concetti, variabili e modalità delle stesse anche non contemplati
specificamente nella domanda di ricerca e nello strumento di rilevazione ad essa conseguente.
4.2 Persone coinvolte nel processo
Un primo aspetto che si è posto al centro delle interviste è quello relativo al percorso
compiuto dalle ricerche socio-politiche all’interno delle organizzazioni.
La traccia d’intervista prevedeva a questo riguardo una serie di domande precisa, che spesso,
durante la conduzione dell’intervista stessa, sono state affiancate da altri quesiti,
approfondimenti, nuove ipotesi.
L’individuazione del percorso è stata innanzitutto descritta attraverso i membri
dell’organizzazione coinvolti dall’intero processo, dalla nascita della ricerca al suo utilizzo.
L’individuazione delle persone coinvolte, infatti, consente di conoscere elementi
fondamentali delle pratiche d’uso, quali ad esempio alcune co-influenze con elementi dei
modelli strutturali dell’organizzazione, la sequenzialità rispetto alle scelte e, in generale, alle
altre fasi della azioni e della vita stessa delle organizzazioni, alcuni aspetti del rapporto con
l’esterno, del trattamento delle informazioni e, più in generale, della rappresentazione del
ruolo attribuito alle ricerche.
273
La riservatezza
Una prima considerazione riguarda la riservatezza del processo. Emerge infatti come
pressoché unanime la necessità di mantenere riservato l’intero percorso compiuto dalle
ricerche all’interno delle organizzazioni. Indipendentemente dal tipo di organizzazione presa
in considerazione: partito politico, comitato elettorale, staff governativo o in generale
istituzionale. Spesso la necessità di riservatezza è addirittura data per scontata, una
condizione essenziale del discorso e le stesse motivazioni non sempre sono esplicitate.
Un aspetto interessante si coglie dal seguente brano.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«…diciamo, un conto è l’informazione che si dà, e l’informazione per esempio
del sondaggio settimanale viene data a una platea diciamo abbastanza ampia,
anche perché poi sono sondaggi che vengono resi pubblici nella sostanza quindi
non c’è molto da nascondere la conoscenza, la discussione invece per essere
produttiva noi ritenevamo che doveva essere fatta da gruppi abbastanza, non
ristretti ma insomma ecco»
Il brano indicato distingue appunto diversi livelli di qualità dell’informazione raccolta
attraverso le ricerche.
In particolare, le ricerche di routine, vista la sostanziale omogeneità rispetto a quanto presente
normalmente sulla stampa, non vedono particolari ragioni per mettere in campo strategie
volte a limitarne la diffusione, e sono dunque ampiamente all’interno del partito. Anzi, in
quei casi, il tentativo è semmai opposto, cioè quello di sfruttare al massimo la condivisione
dell’informazione raccogliendo suggerimenti d’azione e incentivando la diffusione di
messaggi e di comportamenti.
Partecipazione interna
La maggior parte delle ricerche, invece, merita la predisposizione di comportamenti e
strategie volte a limitarne la diffusione.
Ciò si evidenzia a partire dalla ristrettezza del numero delle persone coinvolte nel processo.
274
Le varie opzioni riportate nelle interviste possono essere ordinate lungo una scala in grado di
evidenziare il livello di partecipazione adottato dalla democrazia interna dell’organizzazione.
La posizione lungo la scala è data dal livello di accentramento delle funzioni strategiche nelle
mani del leader, dall’autonomia decisionale del dirigente (laddove esiste) incaricato di
seguire il processo delle ricerche socio-politiche, dal livello di coinvolgimento dell’esecutivo
e, eventualmente, degli altri organi del dirigenziali dell’organizzazione.
Le interviste sono categorizzabili in tre posizioni lungo la scala della democrazia interna.
La prima è la più partecipativa.
Nella fase iniziale, dalla nascita della ricerca fino all’analisi dei risultati, i membri
dell’organizzazione coinvolti sono sostanzialmente il leader (più o meno aiutato dal suo staff)
e il responsabile incaricato di seguire le ricerche, normalmente il responsabile della
comunicazione dell’organizzazione. Quest’ultimo, inoltre, ha un ruolo di una certa autonomia
rispetto al leader, non fa parte direttamente del suo staff, ma cura la comunicazione
dell’intera organizzazione e si occupa dunque di promuovere principalmente i fini
organizzativi, anziché occuparsi primariamente di quelli del leader. Oltre a ciò, questo
modello prevede in una fase successiva il coinvolgimento di altri organi del partito. A partire
dall’esecutivo – che può coinvolto collettivamente o per singoli responsabili di aree tematiche
– al quale vengono riportati i risultati acquisiti con la ricerca. In certi casi, la ricerca stessa
può essere estesa anche ad altri organi del partito, particolarmente sul territorio qualora il
contesto o gli obiettivi lo rendessero necessario.
I due brani che seguono esemplificano questa posizione.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«… io vedo questi dati. Vengono forniti … oltre a me normalmente sono
inviati al coordinatore della segreteria e al segretario nazionale naturalmente …
Io organizzo gli incontri, tendenzialmente mensili. A questi incontri è invitata
tutta la segreteria nazionale. Quindi non c’è… In modo che tutta la segreteria
abbia il polso della situazione. E vengono girati poi i materiali, vengono
circuitati ai membri della segreteria»
L’attenzione dell’intervistato in questo pezzo è sulle modalità di condivisione, che sono
appunto estese a tutto l’esecutivo del partito.
275
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«… Con il segretario nazionale, con il coordinatore della segreteria nazionale.
…Ecco, da questo punto di vista in realtà c’è un rapporto di … autonomia, cioè
la parte che riguarda la comunicazione è più legata a tutto quello che riguarda il
partito. »
Questo secondo brano, invece, aiuta a comprendere l’autonomia del responsabile della
comunicazione rispetto al segretario: collabora strettamente con il vertice e il suo staff, ma
non ne fa parte e risponde anche e soprattutto agli obiettivi del partito in quanto
organizzazione.
Una seconda possibilità si situa invece in una forma intermedia. In questo caso, le persone
coinvolte nel processo rimangono molto limitate e circoscritte al leader (con o senza lo staff)
e al responsabile della comunicazione. Quest’ultimo, però, è meno autonomo rispetto al
leader. Pur essendo formalmente responsabile rispetto all’intera struttura, si configura nella
sostanza come un suo uomo di fiducia. La stessa posizione di responsabile della
comunicazione diventa per consuetudine una figura che necessita della fiducia assoluta del
vertice. La condivisione con l’esecutivo è, in questa seconda modalità, più che una
consuetudine in qualche modo vincolante, una scelta dettata da specifici obiettivi o contesti,
dunque sporadica e non consuetudinaria.
Il brano seguente mostra questi aspetti, utilizzando peraltro un’interessante metafora
aziendalista.
(funzionario di partito, centro)
«… Diciamo che sostanzialmente l'organizzazione è la stessa che ci può essere
in un'azienda, chiaramente in un'azienda non complessissima
… il meccanismo è lo stesso, per cui tu hai come dire il capo che è un po'
l'amministratore delegato, poi hai un gruppo dirigente e poi hai il responsabile
della comunicazione che riporta direttamente all'amministratore delegato, … e
questo poi propone tutte le iniziative del caso che vengono approvate
innanzitutto dall'amministratore delegato e poi eventualmente condivise in
modo collegiale… Che sarebbe l'esecutivo (...)»
276
Aumenta lo spostamento dell’equilibrio dei poteri interni verso il leader, a scapito
dell’organizzazione nel suo complesso. Ciò è visibile sia dal rapporto fra il vertice e il
responsabile della comunicazione, sia dal potere di estendere o meno la condivisione delle
informazioni agli altri organi dirigenti del partito.
L’ultima possibilità rappresenta invece il culmine opposto, quello del verticismo. In questo
caso, il processo è fortemente accentrato sulla figura di vertice dell’organizzazione e sul suo
staff personale. Lo stesso ruolo del responsabile della comunicazione dell’organizzazione
tende a scomparire, sostituito dal portavoce o comunque da figure di staff direttamente
dipendenti dal leader. Per quanto riguarda le possibilità di condivisione con altri organi o
strutture dell’organizzazione, la scelta spetta al leader, secondo obiettivi del tutto personali e
arbitrari rispetto alle logiche dell’organizzazione.
(funzionario di partito, centro-destra)
«… il report viaggia da chi fa il lavoro a Berlusconi.… Che poi condivide
interamente o a pezzi il report con chi lui ritiene che in quel momento …»
Il brano fa emergere il ruolo della leadership, assoluta depositaria delle scelte circa la
gestione dell’informazione strategica e delle ricerche da cui essa origina.
A beneficio della comprensione, occorre dire che, in questi casi, anche lo stesso processo
decisionale risulta ugualmente accentrato sul vertice in tutti i suoi aspetti, per cui la
circolazione continua dell’informazione presso altre strutture dell’organizzazione perde di
importanza.
La formalizzazione della struttura
Un terzo aspetto riguarda il livello di formalità della strutturazione dei membri
dell’organizzazione coinvolti nel processo. Questo aspetto è correlato direttamente con
l’analisi fatta precedentemente circa il livello di partecipazione alle scelte. Le interviste, a
questo proposito, fanno emergere una sostanziale identità fra la democrazia formale e quella
sostanziale.
277
Due i principali modelli individuali circa il livello di formalizzazione delle procedure interne
alle organizzazioni, che possono essere rappresentati come due opposti idealtipi, estremi di
un continuum lungo il quale posizionare le varie modalità.
Il primo modello è dato dall’organizzazione del partito politico degli ex Democratici di
Sinistra (l’intervista si è svolta in un momento di passaggio, in cui il nuovo Partito
Democratico già era nato, ma le strutture dei partiti che in esso erano confluiti erano ancora
dotate di una propria autonomia). In questo caso, la strutturazione degli accessi al percorso
delle ricerche è rappresentata come assai rigida e definita, con diversi livelli e procedure
stabilite e rodate.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«…Tradizionalmente dentro il dipartimento dell’organizzazione, c’è un settore
che si occupa delle ricerche sull’opinione pubblica. Però è tradizione, senza che
questo sia certificato, che il responsabile della comunicazione si occupi anche
di analisi dell’opinione pubblica. E quindi fornisca al segretario e al
coordinatore della segreteria un lavoro di filtro, di selezione dei temi salienti. Io
ho trovato un lavoro impostato
…riunioni più che altro mensili con degli esperti della dinamiche dell’opinione
pubblica, per ragionare con loro sui dati che ci venivano forniti dai due istituti
…In modo che questo fosse utile alla segreteria nazionale del partito, non solo
del segretario, e quindi all’attività dei dipartimenti»
Dal brano citato emerge come le pratiche messe in atto per la gestione dell’informazione
discendano dal livello di formalizzazione delle procedure esistente nell’organizzazione nel
suo complesso, costituita da compartimenti separati, ruoli ben identificati, separazione fra
struttura di partito e leadership, chiarezza nei rapporti con i fornitori delle ricerche,
mantenimento delle procedure indipendentemente dalle persone chiamate a ricoprire il ruolo.
In questo modello le pratiche d’uso delle ricerche sono condizionate significativamente dalla
struttura dell’organizzazione e da alcune sue caratteristiche indipendenti.
Il modello opposto è invece quello presente in Forza Italia. In questo caso, occorre precisare
che le rappresentazioni fornite dai due esponenti intervistati non sono coincidenti e con ogni
278
probabilità rispondono a situazioni diverse o a momenti diversi della storia di quella
organizzazione.
In ogni caso, il modello prefigurato nell’intervista sotto riportata individua una modalità di
formalizzazione assai libera.
(funzionario di partito, centro-destra)
«… chi ha in mano queste ricerche, chi la usa più di tutti è uno solo,
evidentemente, quindi il premier, l’attuale premier, condivide con le persone
dello staff i pezzi e/o le ricerche che sono interessanti in quel momento per lui
condividere… però sostanzialmente diciamo che l’uso lo determina lui e qui…
e qui la condivisione la determina lui, non c’è un punto di….condivisione,
come dire, sistematica…»
Qui tutto ruota attorno al leader, che è il vero motore e perno del processo relativo alle
ricerche. È lui a rapportarsi con i fornitori delle indagini e a definire con loro le modalità di
intervento e di realizzazione delle stesse. È inoltre lui a ricevere i dati e, cosa più interessante,
a determinare chi coinvolgere nel processo di ricezione dei dati, decidendo di volta in volta e
in ragione di valutazioni proprie dettate dal contesto, dal contenuto della ricerca, dai propri
obiettivi (in maniera appunto “non sistematica”).
È l’esemplificazione, dunque, di un modello di utilizzo assai libero, con bassi livelli di
strutturazione e formalizzazione, ma fortemente e indiscutibilmente accentrato sulla
leadership.
Tipi di organizzazione e loro influenza
La descrizione del modello precedente apre a tre considerazioni che possono tornare utili alla
comprensione.
Innanzitutto, la diversità citata fra le interviste dei due esponenti di Forza Italia non
rappresenta necessariamente una contraddizione, ma potrebbe essere ricondotta a diversi
fattori, come la presenza o meno di una situazione elettorale o la situazione “storica”
dell’organizzazione del partito.
279
In particolare, come hanno sottolineato in Poli (2001), il modello organizzativo di Forza Italia
ha subito modifiche anche importanti. Proprio la strutturazione interna e l’autonomia del
partito rispetto all’azione del leader (comunque mai messa in discussione) sono state le due
variabili più volte oggetto di modifiche. Particolarmente interessante è stata la fase in cui
l’organizzazione del partito è stata gestita da Claudio Scajola, con una strategia esplicita di
costruzione del partito attraverso procedure durature, ruoli precisi ed autonomi, radicamento
ne territorio, maggiore democrazia interna, autonomia di risorse e strumenti.
Delle due interviste condotte con esponenti di Forza Italia, una fa esplicito riferimento a
questo momento storico del partito, ragione che potrebbe aver portato l’interessato a dare una
rappresentazione più strutturata delle dinamiche interne oggetto dell’intervista. La questione è
anche esplicitata nel brano che segue.
(funzionario di partito, centro-destra)
«La cosa è molto cambiata rispetto all’oggi fondamentalmente perché agendo
su aggregazioni territoriali molto più ampie, prima di tutto non cè più il
problema dei collegi marginali, al limite ci sono regioni incerte ma bastava
aprire qualunque giornale per saperlo. Quindi tutto questo apparato di
preparazione delle elezioni sullo dato territoriale così approfondito di fatto non
ci serve più. E la stessa macchina del partito ha assunto caratteristiche meno
capillari. Mentre il sondaggio serve oggi molto di più per la comunicazione
elettorale, una comunicazione per gran parte nazionale.
… Quindi il sondaggio viene gestito non più tanto dalla struttura del partito ,
quanto direttamente da Berlusconi e i suoi interlocutori nella struttura di
comunicazione del partito, quindi Bonaiuti e chi per lui…»
Ai fini degli obiettivi della ricerca, in ogni caso, ciò ha una rilevanza marginale. La
descrizione dei modelli di strutturazione infatti descrive un continuum fra due situazioni
idealtipiche, all’interno delle quali è possibile collocare non solo organizzazioni diverse, ma
anche momenti differenti nei modelli adottati dalla stessa organizzazione.
Questa considerazione può essere estesa anche ad altri casi di processi di modificazione delle
organizzazioni. Lo stesso intervistato può infatti aver agito, all’interno della stessa
organizzazioni, in modelli organizzativi modificati, che vanno perciò considerati in maniera
differente.
280
Inoltre, finora l’attenzione si è concentrata solamente su un tipo di organizzazione politica,
quello del partito politico.
Ma il tipo di organizzazione in esame ha influenze sul modello di democrazia interna
adottato.
Partiti politici, comitati elettorali, staff istituzionali possono offrire variazioni della struttura
dovute alla specificità degli obiettivi dei diversi tipi di organizzazioni, anche in relazioni agli
aspetti sopra analizzati della partecipazione interna e del livello di formalizzazione della
struttura e delle procedure interne.
Dalle interviste emergono due casi in particolare.
Per quanto riguarda le strutture elettorali, esse rappresentano modelli molto accentrati sul
vertice, fortemente decisionisti e poco partecipativi nel processo decisionale.
Nel brano seguente, si parla del comitato elettorale per la candidatura di Francesco Rutelli a
sindaco di Roma:
(attore locale, centro-sinistra)
« … Molto semplice, teocrazia totale, anzi, monocrazia totale. … Io facevo il
capo della campagna …»
E poi, parlando del rapporto con i sondaggisti:
(attore locale, centro-sinistra)
«… trattavamo direttamente con i sondaggisti e i risultati arrivavano a me e a
lui e basta, cioè la prima lettura dei dati li avevamo solo io e lui e basta.
…Per scelta. Per scelta. Una volta arrivati a noi, noi li diramavamo a chi poteva
averne accesso. Tendenzialmente era soltanto Rutelli»
Gli staff ministeriali e dei grandi enti pubblici, invece, presentano una condizione particolare.
Le ricerche considerate in qualche modo funzionali all’attività di Governo vengono inserite
all’interno dell’istituzione. Per ottenere questo obiettivo, il vincolo della separazione della
struttura amministrativa dallo staff politico comporta un ruolo importante dei funzionari degli
uffici a cui è assegnato il compito di seguire il percorso, con un conseguente aumento del
281
livello di partecipazione al processo (anche se principalmente di tipo formale e non
sostanziale).
(membro di staff istituzionale, centro-sinistra)
«… Diciamo che la cosa … prima di tutto facevano capo alla direzione
generale per l’editoria, cioè il cliente... Era Peluffo, quindi lui faceva una
prima... evidentemente una prima selezione poi condivideva con…la struttura
di Palazzo Chigi. … Ci inviava le cose più importanti ed interessanti
probabilmente.
Da queste poi c'era un mio collaboratore… era l'uomo-cerniera ed era il più
attento, cioè era quello che faceva a me, a Prodi e ad altri l'analisi... poi lui era
quello che proprio faceva da snodo»
Il brano sopra riportato evidenzia la separazione fra politica e amministrazione, con la
necessità di studiare forme di collegamento e, allo stesso tempo, di controllo da parte dello
staff politico sulla struttura, motivate con ogni probabilità dalla considerazione strategica con
cui erano vissute queste ricerche ai fini del mantenimento del consenso sull’azione del
Governo.
Testimonianza confermata dal brano sotto, in cui si fa riferimento al ruolo svolto
dall’apparato amministrativo della Presidenza del Consiglio e in particolare dal Dipartimento
in cui erano confluite le pratiche legate alle ricerche socio-politiche:
(membro di staff istituzionale, centro-sinistra)
« …si in realtà quello è un dipartimento che ha una delega specifica, avrebbe la
delega specifica a fare i contratti con ..perchè qui i contratti sono sempre di
amministrazione, capito, il rapporto è tra le amministrazioni e il fornitore, …
poi in realtà dentro la Presidenza ci sono diversi soggetti, per come è costruita
oggi, che possono accedere a questo tipo di informazioni»
Altri brani invece fanno emergere altri vincoli presenti negli staff istituzionali. Il brano sotto
riguarda lo staff di Pierferdinando Casini, leader politico, ma nel periodo di riferimento anche
figura istituzionale come Presidente della Camera dei Deputati.
282
(funzionario di partito, centro)
«… a seconda del risultato, e del tipo di lavoro che veniva fatto, viene, ancora
adesso, tenuta, diciamo in ambito ristretto oppure allargata..
… diciamo che quando erano delle cose personali su Casini restavano
nell’ambito nostro ristretto. Su questioni del partito doveva essere comunque in
qualche modo spiegata alla dirigenza; veniva fatta prima una prevalutazione
nostra, nel senso che dobbiamo capire quello che era prima di parlare
apertamente a tutti altrimenti diventava un dialogo troppo complesso,… e
quindi abbiamo fatto una prevalutazione nostra, andavamo a incontrare quello
che avevamo commissionato e, dopo di che, insieme ci rapportavamo con, a
livello del partito poteva essere il più alto, a livello di direzione poteva essere
con dieci, quindici persone o poteva essere addirittura di trenta, quaranta
persone in cui si spiegava soprattutto durante i periodi di campagna elettorale»
In questo caso, la complessità sta nella relazione fra il ruolo istituzionale del leader e la
contemporanea leadership di un partito di riferimento, due logiche che possono presentare
elementi di disgiunzione.
4.3 Struttura organizzativa dedicata
Un’altra grande area di interesse che è stata al centro dell’analisi empirica riguarda la
struttura che le organizzazioni politiche hanno determinato per supportare il processo di
relazione dell’organizzazione con le ricerche socio-politiche e le informazioni in esse
contenute.
Il tipo di struttura che si creata (o che è stata consapevolmente costruita) rappresenta un
elemento di interesse per diversi aspetti. Consente infatti di cogliere quale ruolo è attribuito
alle ricerche per la vita e i comportamenti delle organizzazioni. Il tipo di risorse strategiche
utilizzate e il costo-opportunità dell’investimento sono un segnale che può suffragare e
approfondire le rappresentazioni dei decisori stessi in merito. Le modalità con cui sono
organizzate le funzioni possono inoltre indicare il tipo di utilizzo che si intende fare
dell’informazione e come essa possa interagire con la vita delle organizzazioni. Infine,
l’eventuale relazione con le strutture territoriali rappresenta un indicatore utile a stabilire il
ruolo che nelle organizzazioni moderne l’informazione proveniente dalle ricerche
283
demoscopiche svolge relativamente alle procedure, alle pratiche e alle strategie che, più in
generale, le organizzazioni politiche mettono in atto per relazionarsi con i loro ambienti di
riferimento e con i pubblici a cui sono interessate.
Analogamente ad altri temi, nella traccia di intervista, si è preferito cercare di privilegiare la
narrazione libera da parte dell’intervistato. Pertanto le informazioni sul tema indicato sono
state ottenute anche con alcuni stimoli indiretti, che avevano il compito di ricostruire alcuni
indicatori del tipo di strutturazione adottata. Fra le varie possibilità – anche in seguito alle
informazioni preliminari raccolte e ai risultati delle interviste con i decisori – si è scelto di
concentrare l’attenzione sulle caratteristiche dei dipartimenti organizzativi preposti alla
gestione delle ricerche, sui ruoli attribuiti ai titolari della funzione e le modalità di esercitarli,
sulla modalità di conservazione dell’informazione raccolta.
Il dipartimento preposto
È già emerso precedentemente il tema del livello di formalizzazione e di partecipazione che
le organizzazioni politiche si sono date nel gestire le ricerche socio-politiche.
Le interviste ai decisori politici fanno emergere anche un tema collegato e a sé stante, quello
della distribuzione delle risorse e del potere di intervento relativo al particolare strumento
costituito dalle ricerche socio-politiche. Il ruolo assegnato a queste ultime e dunque
l’importanza ad esse attribuita per i comportamenti e le azioni delle organizzazioni sono già
stati oggetto di analisi. Alcuni risultati sono stati proposti all’interno dei vari contributi
presenti nella letteratura sull’argomento, che ha offerto alcuni elementi di natura normativa,
assieme, anche se in misura minore, ad altri di natura empirica, spesso ricavati (anche
indirettamente) dalla sociologia degli attori politici e dalla politologia.
Contributi più pregnanti per il nostro discorso sono stati inoltre evidenziati dalla analisi svolta
in precedenza di una prima serie di temi delle interviste, analisi che ha visto emergere alcune
modalità di rappresentazione di questo strumenti e anche del ruolo che i decisori attribuiscono
ad essi nella vita delle organizzazioni di cui sono parte.
Con l’analisi presentata in questi paragrafi, invece, si vuole approfondire questi contributi,
andando a cogliere più specificatamente le narrazioni sulle modalità di organizzazione
284
adottate e concentrando l’attenzione proprio sugli indicatori in grado di offrire elementi utili a
questi temi.
Il primo di questi riguarda la modalità di definizione del dipartimento preposto a seguire le
ricerche socio-politiche per conto dell’organizzazione. Si tratta di un indicatore importante, in
quanto le caratteristiche di queste pratiche di organizzazione possono offrire suggerimenti
circa la centralità/marginalità delle ricerche per le organizzazioni stesse, la distribuzione delle
risorse, eventuali conflitti con altri dipartimenti/settori, il livello di autonomia, le modalità
relazionali utilizzate per rapportarsi con il resto dell’organizzazione, la corrispondenza delle
soluzioni adottate con la rappresentazione offerta del ruolo delle ricerche per la vita
dell’organizzazione.
Il rapporto con la comunicazione politica
Un primo risultato che emerge dalle interviste è il rapporto con la comunicazione politica.
In nessun attore politico infatti esiste una struttura interna dedicata alle ricerche socio-
politiche.
In maniera pressoché unanime, tutti gli intervistati hanno invece riproposto uno strettissimo
legame interno all’organizzazione fra i settori e le persone responsabili della comunicazione
esterna e i settori dedicati al rapporto con le ricerche socio-politiche. Anzi, la tendenza è
verso la quasi totale sovrapposizione fra necessità comunicative e necessità di ricerca, a
sostegno della tesi che vede le organizzazioni considerare (nelle pratiche, non solo a parole)
le ricerche socio-politiche come centrali per la dimensione della gestione del consenso.
Questa relazione, chiaramente, può vedere formule diverse, a seconda anche delle modalità di
posizionamento che ogni organizzazione adotta circa alcune delle variabili sopra individuate
in precedenza: più o meno partecipazione, più o meno verticismo e personalizzazione, più o
meno formalizzazione.
Nei casi di organizzazioni a bassa formalizzazione e alta leaderizzazione, la sovrapposizione
fra funzioni di comunicazione e funzioni di ricerca avviene al livello del leader, in prima
persona o nel suo staff (generalmente nella forma del portavoce o di figure simili come il
capo di gabinetto o il segretario politico).
(funzionario di partito, centro-destra)
285
«Mah, questa ricerca viene… beh, noi lavoriamo in modo… non so come
lavorino gli altri ma, insomma, credo in un modo del tutto originale per cui,
ovviamente, chi ha in mano queste ricerche, chi la usa più di tutti è uno solo,
evidentemente, quindi il premier, l’attuale premier, condivide con le persone
dello staff i pezzi e/o le ricerche che sono interessanti in quel momento per lui
condividere…»
Ma, come detto, non rappresenta un caso isolato.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«… dentro il dipartimento dell’organizzazione, c’è un settore che si occupa
delle ricerche. Però è tradizione, senza che questo sia certificato, che il
responsabile della comunicazione si occupi anche di analisi dell’opinione
pubblica”
(funzionario di partito, centro)
«… I rapporti con gli istituti li tiene il responsabile della comunicazione…»
I due brani riportati fanno riferimento a partiti politici di origine, posizione e cultura
differenti, ma accomunati dal fatto di aver creato negli anni strutture organizzative stabili e
formalizzate (per quanto esse si siano comunque evolute nel tempo).
Entrambi mostrano come si declini, in queste organizzazioni politiche più formalizzate e
partecipate, la sovrapposizione fra le funzioni di comunicazione e quelle legate alle ricerche
demoscopiche. La soluzione infatti è quella di collegare le pratiche di gestione delle ricerche
al ruolo dei responsabili della comunicazione dei partiti. Si tratta di un ruolo che acquista
sempre più centralità nella vita dei partiti e che può operare in maniera differenziata, secondo
un diverso livello di autonomia rispetto alla leadership.
La scelta non è motivata esplicitamente, ma è significativa in quanto esprime due elementi
precisi del senso attribuito dalle organizzazioni alla raccolta di informazioni sull’ambiente e
agli strumenti ad essa dedicati. Il primo è l’importanza strategica di queste informazioni per
la vita dei partiti, tanto da legarne le funzioni a luoghi e persone strettamente connesse al
vertice decisionale del partito. La seconda indica invece la rilevanza di esse per la gestione
del consenso, che comporta la necessità di collegare formalmente e strutturalmente la
286
produzione della comunicazione alla conoscenza dei pubblici (secondo una sequenzialità non
necessariamente lineare).
Interessante notare, poi, come la assoluta centralità delle funzioni comunicative nella gestione
delle ricerche sia indipendente dal tipo di organizzazione politica in esame. I partiti politici,
che sono il caso più comune e studiato, tendono, come visto, a far sovrapporre le due
funzioni, con la sola variabile data dal livello di leaderizzazione presente nelle pratiche
organizzative.
Ma lo stesso modello di identificazione comunicazione-ricerche demoscopiche è riscontrabile
anche negli staff istituzionali e nei comitati elettorali.
In questi ultimi, ovviamente, la identificazione diventa totale anche per gli obiettivi specifici
di questa particolare organizzazione, che nasce con il solo obiettivo di produrre il consenso
attraverso la comunicazione. È evidente dunque che nei comitati il primato delle funzioni
comunicative è elevatissimo. D’altro canto, abbiamo visto precedentemente come le
rappresentazioni delineate dai ricercatori attribuiscano alle ricerche una massima gamma di
obiettivi proprio in occasione dei momenti elettorali. Dalla combinazione di queste due
contingenze non sorprende dunque che emerga una sostanziale identificazione fra le funzioni
e le strutture dedicate alla comunicazione e e quelle dedicate alla ricerca demoscopica
finalizzata al consenso.
Diverso è il caso, invece, degli staff ministeriali. Abbiamo già incontrato in questi casi
specifici livelli di formalizzazione e partecipazione specifici, indotti dalla vincolante
separazione fra amministrazione e politica, che comportano una distanza fra la centralità
dell’azione organizzativa e la ricerca demoscopica.
A ciò si aggiunge la considerazione sugli obiettivi dei decisori politici una volta giunti a ruoli
istituzionali, obiettivi che vedono le logiche della gestione del consenso dover lottare con
altre logiche differente e non sempre coincidenti legate alla governabilità e a risultati di
medio-lungo periodo.
Pertanto, in questo caso la sovrapposizione comunicazione-ricerca demoscopica non è affatto
scontata.
287
L’evoluzione storica del settore ricerca nelle organizzazioni politiche
Ma è possibile spingersi oltre la sovrapposizione ricerca-comunicazione e svolgere ulteriori
analisi, suggerite da alcuni brani di interviste molto significativi, seppure meno ricorrenti.
In particolare il brano seguente introduce numerose questioni.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«….Si… no, no, il problema, appunto, è che è sempre tutto molto outsourcing
come... Cioè praticamente le società non fanno solo l'attività di servizio di
consulenza vera e propria, ma è praticamente esternalizzato lo stesso ufficio
ricerche
… Bisogna partire dal presupposto che i partiti hanno un livello di personale
che è bassissimo, drammaticamente basso!
Drammaticamente, perché è tutta gente appollaiata lì da decenni ma che non fa
un cazzo!… Guarda è inutilizzabile, veramente!»
Ho riportato il brano intero perché è in grado di esprimere compiutamente quella che è una
narrazione tipica di queste questione da parte dei partiti politici. L’argomento è semplice.
Per una serie di ragioni anche storiche, di modificazioni di natura sociale e politica, è
cambiata negli anni recenti la modalità utilizzata dall’organizzazione per rapportarsi con
l’ambiente esterno e con i suoi pubblici, al fine di ricavare informazioni essenziali
all’elaborazione dei comportamenti, alla cura dell’organizzazione interna, alla gestione del
consenso.
Il primo elemento a mutare è il rapporto con il territorio, che vede il duplice declino della
rilevanza in termini di rappresentanza e di radicamento organizzativo degli attori politici.
Questo processo è ampiamente descritto in letteratura e si muove parallelamente alla nascita
dei nuovi modelli di partiti ormai ampiamente descritti.
Ma da un punto di vista dell’analisi organizzativa, la conseguenza rilevante è il cambiamento
della relazione dell’organizzazione con l’ambiente, che deve trovare contemporaneamente
strumenti per migliori per raccogliere l’informazione dai soliti pubblici e canali nuovi per
relazionarsi ai nuovi pubblici rilevanti nel frattempo emersi come determinanti.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
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«Quando viene meno l’antenna si cerca di supplire con gli strumenti delle
ricerche demoscopiche. … È la società che è cambiata, eh! Noi prima avevamo
una società molto meno frammentata, dove i livelli di subcultura erano molto
forti. Oggi invece è frammentata, la funzione di un partito politico è veramente
diversa rispetto a prima ed è difficile anche per un partito politico essere in
sintonia, cogliere alcuni umori»
La narrazione riportata nel brano ha la logica conseguenza per le organizzazioni politiche di
doversi rivolgere a nuovi pubblici, a una opinione pubblica più larga. Ma per farlo c’è la
necessità di strumenti che non esistono all’interno del partito. Le competenze in possesso
delle organizzazioni infatti non sono più in grado di esercitare la funzione essenziale di
collegamento coi i pubblici.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«… Era legata anche ad una tradizione forse culturale diversa ed era anche,
forse, legata al fatto che questa roba si faceva in house con, diciamo,
terziarizzazione anche della politica e del…vabbè il partito di massa è morto,
vabbè lì entriamo nella storia dei partiti politici italiani,… comunque si è andati
verso il partito leggero, ecc., ecc., ecc. Io non so oggi se siamo in un partito
leggero o pesante, non… escludo che qualche analista c’abbia le idee chiare…
non te lo so dire, questo, non mi arrogo assolutamente il diritto… Ti dico però
che, invece, lo svuotamento dei partiti ha comportato questa roba qui, cioè, nei
partiti non si studia più, non ci stanno più gli uffici studi, ci stanno le
fondazioni oggi, no? … e ogni corrente c’ha la sua!»
Le ricerche socio-politiche, secondo questa rappresentazione, entrano in gioco in questo
momento e assumono da subito rilevanza e strategicità.
D’altro canto il problema delle risorse necessarie a gestire queste pratiche si evidenzia da
subito, declinato secondo varie problematiche.
Le risorse umane e tecniche esistenti, innanzitutto, che non possiedono i livelli di
specializzazione richiesti dalle nuove esigenze, come evidenziato nei brani precedenti. Ma
anche un problema di costi, perché la necessità di rivolgersi a un nascente mercato comporta
spese spesso difficili da sostenere per le organizzazioni politiche, tanto da citare spesso la
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mancanza di fondi adeguati come uno dei vincoli alle possibilità di entrare in possesso di
informazioni considerate necessarie attraverso ricerche specifiche.
L’esternalizzazione al centro delle pratiche organizzative attuali
L’insieme di ragioni sopra evidenziate porta ad un risultato chiaro. La strutturazione attuale
delle ricerche all’interno delle organizzazioni è infatti ben definita.
Non solo è accentrata nei ruoli chiave della comunicazione, in un rapporto più o meno stretto
con la leadership e elevati autonomia decisionale e potere di controllo. Assume altre
caratteristiche ricorrenti.
La prima e la più evidente è l’esternalizzazione della funzione. La funzione delle ricerche è
totalmente affidata alle società di consulenza e di ricerca, che non si limitano a fornire servizi,
ma svolgono anche i ruoli di pensiero, di memoria, di pratiche di analisi e di utilizzo che
strutturano la funzione delle ricerche nelle organizzazioni.
L’outsourcing è generalizzato e riguarda prima di tutto i partiti politici, interessati dalle
trasformazioni sopra ricordate. I brani sopra riportati sono molto espliciti al riguardo. Sottili
distinzioni a questa generalizzazione possono comunque essere fatte. Da un lato, infatti, essa
tende a essere più evidente nei partiti meno formalizzati e strutturati. Dall’altro, riguarda
anche le organizzazioni elettorali, anche se queste sembrano differenziarsi per un ruolo
maggiore svolto dalle figure dell’organizzazione, come evidenzia questo brano:
(attore locale, centro-sinistra)
« … Beh, i focus le domande le guardavo io,… da Ipsos ci mandavano le
domande, le domande le guardavo io fondamentalmente. Paolo all'inizio i focus
non li ha proprio seguiti, Gentiloni non ha proprio seguito...anche i secondi non
li ha seguiti … i focus me li sono fatti sempre io”
L’importanza dell’outsourcing come pratica organizzativa di gestione è confermata dalle
narrazioni riguardanti la strutturazione diacronica delle ricerche, le conoscenze offerte dalla
memoria e dalla dimensione storica, che possono essere indicate dalla presenza e dalla cura di
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un archivio più o meno strutturato. Anche in questo caso, le risultanze sono chiare e
univoche.
(funzionario di partito, centro-destra)
«MC: Che lei sappia viene tenuto una forma di archivio di queste indagini,
finalizzata a indagini di lungo periodo, diacroniche…
I: Lo fanno gli stessi sondaggisti, lo fanno gli stessi sondaggisti.”
Il brano seguente è ancora più esplicito, soprattutto nel collegare la questione dell’archivio
all’effettivo ruolo svolto da chi lo detiene.
(funzionario di partito, centro-destra)
«MC: Dal punto di vista sempre organizzativo viene tenuta una sorta di
archivio di queste indagini? Cioè vengono utilizzate…
I: Penso proprio di si… Ghisleri immagino che le abbia, vengono viste in una
dimensione diacronica comunque nel momento in cui le si…
… Questo oggi lo fa la Ghisleri, report su report e quindi…
… Però comunque questo continua ad essere.. cioè sostanzialmente la Ghisleri
funziona veramente come una sorta di ufficio ricerche di Forza Italia»
Occorre dire, per completezza di informazioni, che, come molte altre, anche le pratiche di
gestione nel tempo delle ricerche cambiano con il tipo di organizzazione. In particolare le
strutture più formali e meno leaderizzate tendono a curare la conservazione delle ricerche.
Ciò però si ferma al semplice mantenimento nel tempo, mentre l’utilizzo dello stesso archivio
ai fini per esempio di approfondimenti o comparazioni diacronici, è comunque affidato
totalmente alle società di consulenza e ricerca demoscopica, il cui ruolo dunque non cambia
sostanzialmente.
L’esternalizzazione ha come logica conseguenza una strutturazione del dipartimento interno
snella e priva di risorse umane dedicate o specializzate. Anche questo dato è confermato
univocamente dalle varie interviste.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
291
«MC: Come è composto il Dipartimento Comunicazione?
I: In Margherita era… Gentiloni con poi un ufficio di segreteria. …c’era poi
una segreteria e un ufficio comunicazioni con dei ragazzi che lavoravano sulle
cose, ognuno con, diciamo, responsabilità, c’era chi si occupava del sito
internet, chi si occupava di, chiamiamola, propaganda, ufficio stampa ecc., ma
facevano tutti capo a Gentiloni.»
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«No, normalmente in solitudine. Il mio dipartimento non è molto grande, può
sembrare strano. In realtà non è la nostra una struttura elefantiaca. Gran parte
della struttura del dipartimento della comunicazione è legato a un ufficio
grafici, che produce il materiale per la propaganda e all’ufficio stampa e alla
redazione web»
(funzionario di partito, centro-destra)
«… eravamo aiutati dai sondaggisti stessi, ma era una cosa gestita
principalmente da noi»
Il dipartimento comunicazione, infatti, rimane una struttura piccola, retta da un funzionario di
vertice. Per quanto riguarda le ricerche, non si avvale di competenze interne, mentre i
funzionari del settore sono totalmente dedicati al settore della comunicazione. A ribadire
ancora una volta lo stretto legame fra la conoscenza dei pubblici e la gestione del consenso.
La carenza di capacità di analisi interna è comunque percepita dalle organizzazioni. Tanto da
rendere necessario l’affiancamento saltuario e no sistematico di alcuni esperti, ai fini di
arrivare ad una lettura del dato affidabile.
Questa pratica è confermata (sempre spontaneamente) da numerosi brani, provenienti da
organizzazioni differenti e trasversali alle varie tipologie.
(funzionario di partito, centro)
«… E poi venivano chiamati in qualità di esperti! Si quindi non sulla base di
una ricerca commissionata, ma sulla base di una esperienza di lettura della
società.»
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(funzionario di partito, centro-sinistra)
«… Abbiamo chiaramente sentito il parere di amici, conoscenti, esperti di tutti i
tipi, ma non c’è stato nulla di organizzato.»
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«…incrociando riunioni più che altro mensili con degli esperti della dinamiche
dell’opinione pubblica, per ragionare con loro sui dati che ci venivano forniti
dai due istituti. Quindi chiamare a fare delle focalizzazioni, ampliando la
gamma delle informazioni e integrandola con le opinioni di scienziati sociali,
esperti di… a vario titolo dell’opinione pubblica, ma anche delle dinamiche dei
consumi. Ecco, una specie di board largo, per cercare di incrociare i dati
quantitativi in un brainstorming con persone che fanno questo di mestiere.»
(funzionario di partito, centro-destra)
«E’ una sensibilità personale… che si avvale del confronto conforto di una
serie di persone, sicuramente in parte si conoscono (…)»
Quella delle riunioni con gli esperti, è comunque una pratica rilevante, anche perché mette in
risalto la sostanziale insufficienza del modello di outsourcing, che, se utilizzato senza altre
aggiunte di capacità di analisi e lettura, non sembra in grado di fornire conclusioni credibili e
solide, almeno quanto l’organizzazione vorrebbe.
Una conseguenza (o una premessa, a seconda delle ipotesi) logica dell’insieme delle pratiche
organizzative descritte per inserire il ruolo delle ricerche esterne all’interno
dell’organizzazione (esternalizzazione, limitatezza del dipartimento, ruolo della
comunicazione) è la politicizzazione della funzione legata alle ricerche.
La gestione delle ricerche da parte dei settori del partito dedicati alla comunicazione, infatti,
sposta questi strumenti fra le dotazioni di aree legate direttamente al vertice politico, al quale
rispondono spesso prima che all’organizzazione stessa. La mancanza all’interno delle
organizzazioni di interlocutori credibili e ruoli forti, in grado di bilanciare questo peso, rende
la figura politica preposta alla gestione delle ricerche molto autonoma e potenzialmente
indipendente dalle logiche e dagli obiettivi dell’organizzazione intera. D’altro canto, i
293
meccanismi dell’outsourcing non hanno come effetto la creazione di interlocutori stabili in
grado di influenzare i decisori e orientarli secondo obiettivi di natura differente.
Il risultato di questo insieme di fattori è che le dinamiche, le logiche, gli obiettivi, le cornici
di significato che l’organizzazione tende ad applicare alle informazioni ricavate dalle ricerche
demoscopiche sono totalmente determinate dalla politica e dalle convenienze e necessità dei
vertici delle organizzazioni, che non sempre coincidono con quelli dell’organizzazione stessa.
Anche in questo caso le risposte sono unanimi e il ruolo delle logiche politiche traspare con
evidenza in vari tipi di organizzazione.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«…è un mix di politico e di… bah, nel nostro caso non è che avessimo
all’interno del partito diciamo professionalità specifiche, avevamo delle
persone che poi erano quelle anche dotate, erano diciamo funzionari. …,
insomma già forniti di una certa sensibilità politica»
(funzionario di partito, centro)
«…si, si, molto in mano alla politica, cioè l’interfaccia è tutto politico»
Un ultimo appunto riguarda gli staff istituzionali, per i quali l’analisi delle interviste lascia
intravedere la possibilità di alcune peculiari caratterizzazioni.
(membro di staff istituzionale, centro-sinistra)
« … i sondaggisti venivano a darci una lettura, fondamentalmente, dopo di che
noi avevamo al nostro interno delle competenze ma non ricercate.
… no, no, nell’amministrazione non c’è un ufficio statistica, nulla di questo.
Noi avevamo un gruppo che faceva capo al Cattaneo che faceva la parte di
lettura del dato, diciamo, del sondaggio ai fini politici, il dato politico è
fortissimo da noi.
… comunque l’amministrazione non è strutturata per avere, che so, un ufficio
marketing, l’equivalente di un ufficio marketing strategico che usa questi
strumenti. Non c’è.»
Il brano è molto interessante.
294
Esso infatti evidenzia come anche gli staff istituzionali – nonostante la differenza sostanziale
in termini di evoluzione dei modelli organizzativi rispetto ai partiti politici – soffrano delle
stesse difficoltà degli altri attori politici nel rapportarsi alle ricerche e nel strutturare pratiche
efficaci e sistemiche per la trattazione dell’informazione e la sua utilizzazione per i fini
organizzativi e politici. I passaggi rimangono gli stessi, con la mancanza di adeguate
competenze interne, il ruolo preponderante svolto dalle società di consulenza esterna, la
necessità di affiancare ad esse l’analisi di un gruppo di esperti di fiducia e comunque visti
come meno condizionabili dalle capacità acquisite o dagli interessi derivanti dal rapporto di
mercato.
In secondo luogo, è interessante la metafora aziendale dell’”ufficio marketing”. Per come
viene presentato, quello dell’ufficio marketing inserito in un contesto organizzativo
produttivo e di mercato appare essere un riconosciuto modello di riferimento nel settore,
un’esperienza all’avanguardia per quanto riguarda la gestione delle informazioni ambientali
da parte delle organizzazioni, in un’epoca moderna caratterizzata da mutamenti rilevanti dei
modelli sociali e delle influenze della società stessa sulle organizzazioni.
Nella rappresentazione del decisore, il modello dell’ufficio marketing diventa allora un
termine di paragone, al quale, pur senza velleità di emulazione, fare riferimento per una
maggiore comprensione delle proprie pratiche organizzative e del senso attribuito dal proprio
modello e dalla propria cultura organizzativa al ruolo delle ricerche socio-politiche.
4.4 Conclusioni
Quello dello strutture è un tema che inizia a collegarsi anche con la discussione sulle
questioni di natura organizzativa.
Un primo punto che emerge è il legame fra ricerche e leadership.
Appare chiaro che un maggiore utilizzo di ricerche è legato ad un maggiore accentramento
nella leadership, che raggiunge l’apice nei comitati elettorali.
Questo ha delle implicazioni che permettono di comprendere la natura del processo
decisionale.
Innanzitutto emerge come un requisito della possibilità di utilizzo delle ricerche sia la
centralizzazione delle decisioni e la presenza di pochi meccanismi di partecipazione. Da
295
questo punto di vista, la ricerca conferma lo stretto legame fra decisione e velocità d’azione e
il rifiuto dell’idea che le ricerche servano a produrre approfondite riflessioni.
D’altro canto, lo stesso legame strettissimo fra ricerche e comunicazione mostra come esse
siano legate all’azione (Weick 1995).
296
CAP. 5
I DECISORI: PRATICHE D’USO – IL PROCESSO DECISIONALE
5.1 Introduzione
Abbiamo già incontrato alcune suddivisioni significative del campione di intervistati.
La rappresentatività dei subcampioni individuati da queste distinzioni è stata voluta fin
dall’impostazione metodologica del lavoro, soprattutto per quanto riguarda la necessità che
vi sia adeguata rappresentanza delle diverse culture politiche che segnano gli attori e le
organizzazioni del caso italiano.
Durante l’analisi delle interviste ai ricercatori, invece, sono emerse altre suddivisioni utili
all’analisi, come quella fra i vari tipi di attore politico: partiti, staff istituzionali, attori locali.
Entrambe queste categorizzazioni sono servite per l’analisi delle interviste ai decisori. E
particolarmente per la parte relativa alla rappresentazione delle pratiche d’uso.
Che ruolo svolgono le ricerche nel processo decisionale degli attori politici?
La prima domanda a cui occorre rispondere è relativa a quale sia il ruolo svolto dalle ricerche
socio-politiche e demoscopiche nel processo decisionale degli attori politici.
Si tratta con ogni evidenza di una domanda alla quale è difficile dare una risposta univoca e
secca.
La casistica al riguardo è ampia, variegata e difficile da ridurre a concetti chiari e non
equivoci.
Oltretutto il processo decisionale è per sua natura difficile da decifrare e ancor più da
ricostruire ed esplicitare.
Dobbiamo infine mettere in conto che i dati su cui ci possiamo basare sono rappresentazioni
della realtà, messe in campo dagli stessi attori del processo, e dunque passibili di vari effetti
di costruzione sociale.
297
L’analisi delle interviste non ha permesso di costituire una tipologia delle pratiche di utilizzo.
Non abbiamo individuato infatti nel processo decisionale dei tipi che possano dirsi
stabilmente differenti, ben individuabili da criteri realistici e inequivocabili.
Piuttosto la rappresentazione del processo decisionale si presenta come un insieme di giudizi,
ricostruzioni, assunzioni non sempre coerenti fra loro, in alcuni casi per un evidente effetto di
costruzione dettato dalla “desiderabilità sociale”, in altri per una reale difficoltà, da parte
degli stessi decisori, a ricostruire i percorsi che portano all’azione.
Per quanto riguarda l’approccio complessivo, le suddivisioni del campione di intervistati non
si sono rivelate significative nell’individuare comportamenti sostanzialmente e stabilmente
differenti. Né per quanto riguarda le diverse culture politiche, né per quanto riguarda il tipo di
attore politico.
Al di là delle ambiguità dovute alle intermediazioni esistenti e ineliminabili fra realtà e
rappresentazioni, sembra assai fondata l’ipotesi che gli stili decisionali anche di uno stesso
attore siano mutevoli a seconda degli ambiti e delle situazioni.
Pertanto, l’obiettivo di questo capitolo dovrà essere duplice.
Da un lato è importante segnalare gli aspetti delle rappresentazioni del processo decisionale
che si presentano come degni di interesse, per le più varie ragioni: perché l’approccio alle
ricerche nel processo decisionale si distanzia dalla visione mainstream o normativa, perché vi
si ritrovano significative differenziazioni rispetto a quanto emerso in altre parti dell’analisi
delle interviste ai decisori e di quelle ai ricercatori, oppure ancora perché presentano
considerazioni mai emerse in precedenza.
Ma dall’altra parte, la parte più interessante dell’analisi dovrà essere concentrata sulla
comprensione di quelle che si presentano come le variabili in grado di far mutare gli stili
decisionali e, di conseguenza, il ruolo delle ricerche nelle decisioni, almeno da quanto emerge
dalle rappresentazioni offerte dai decisori.
298
5.2 Caratteristiche del processo decisionale
Partiamo dunque dal processo decisionale.
Pur non riuscendo a restituire una tipologia compiuta, possiamo quantomeno identificare
alcuni punti chiave della rappresentazione del processo decisionale, illustrare le diverse
modalità con cui si presentano queste varianti nelle varie interviste, porre a confronto i
risultati emersi con quanto presente nella – limitata – letteratura sull’argomento.
I brani raccolti nelle interviste offrono una rappresentazione completa e articolata di alcune
caratteristiche del processo decisionale proprio degli attori politici.
Un punto generale emerge con una certa evidenza.
Non si trova alcuna conferma, infatti, che le ricerche abbiano un ruolo rilevante nel processo
decisionale. O quantomeno così rilevante come descritto dalla prospettiva mainstream.
Da questo punto di vista, ci si poteva aspettare una certa differenza fra i brani che contengono
giudizi e i brani che invece riportano narrazioni. I giudizi infatti possono essere originati da
un maggiore livello di elaborazione da parte del soggetto rispetto ai suoi stessi
comportamenti, restituendo così un racconto potenzialmente più carico di effetti di
costruzione e desiderabilità sociale. Le narrazioni dei comportamenti, pur essendo
ugualmente rappresentazioni, possono offrire una minore razionalizzazione dei fatti.
Per questa ragione, sorprende che sia giudizi che narrazioni riportino una visione simile. Essi
restituiscono una rappresentazione del ruolo delle ricerche nel processo decisionale lontana
dalla visione mainstream.
È possibile rappresentare più analiticamente quali aspetti vengano messi in luce circa il
processo decisionale degli attori politici e il ruolo in esso giocato dalle ricerche.
299
L’utilità “condizionata” delle ricerche
Emerge con chiarezza, dunque, che le ricerche non guidano il percorso che porta alle
decisioni politiche, non sono un elemento determinante, ma svolgono semmai azioni
secondarie, parallele.
Le informazioni ambientali non hanno nel processo decisionale il peso che viene loro
attribuito dalla prospettiva mainstream: l’informazione prodotta dalle ricerche non è alla
base.
Vi sono dunque altri metodi attraverso i quali i decisori raccolgono le informazioni necessarie
o, altrimenti, altre procedure atte ad arrivare alle decisioni.
Da cosa viene sostituito? Quale tipo di informazione guida il processo decisionale al posto
dell’informazione ambientale?
Ma soprattutto quale ruolo è svolto realmente dalle ricerche in questo processo?
Per evitare equivoci e fraintendimenti, occorre partire dal giudizio generale sulle ricerche e la
loro utilità per la politica, così come esso è rappresentato nelle interviste ai decisori.
Un giudizio che è totalmente, univocamente e trasversalmente positivo.
Tutti gli attori politici, infatti, concordano nel considerarle utili all’attività politica e al
processo decisionale.
Ed è un giudizio sostanzialmente trasversale alle aree politiche e indipendente dal tipo di
decisore politico (partiti, staff istituzionali, attori locali).
Abbiamo scelto alcuni brani per mostrare questa trasversalità, che riguardano dunque attori di
ambiti diversi e di differenti culture politiche.
Ma i brani riportati ci aiutano anche a cogliere alcuni elementi di questa rappresentazione.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«… sono strumenti utili … Però affidarsi completamente a strumenti di questo
tipo, forse è la cosa più sbagliata che può fare la politica.»
300
Come emerge da questo brano, infatti, il giudizio positivo circa l’utilità è sempre
accompagnato da una sorta di raccomandazione: quella di non dipendere in maniera esclusiva
dagli strumenti di ricerca.
È un tema che si ritrova ogniqualvolta un decisore esprime un giudizio positivo sul ruolo
delle ricerche. Un aspetto che conferma la volontà dei decisori stessi di evidenziare una
precisa consapevolezza circa la necessità di tenere separate decisione e ricerca, di non
mostrare automatismi o meccanismi deterministici, di lasciare uno spazio adeguato alla
considerazione di altri elementi nel processo decisionale.
È un aspetto che sarà ripreso successivamente e che ritroveremo in molte altre peculiarità
dell’uso delle ricerche nel processo decisionale politico.
Un secondo brano invece aiuta a cogliere alcune ragioni dell’utilità delle ricerche.
(funzionario di partito, centro-destra)
«…Hanno comunque una utilità che ti dicono guarda che stai andando nella
maniera giusta, guarda che stai andando nella maniera sbagliata…»
Anche in questo caso abbiamo un giudizio positivo, questa volta proveniente da un attore
politico di area centro-destra. Il giudizio di utilità è questa volta accompagnato da una
motivazione, che evidenzia la capacità delle ricerche di offrire un ausilio di lettura orientato
alle conseguenze dell’azione politica.
Ciò che più conta comunque, è che anche in questo caso il giudizio positivo è accompagnato
da una giustificazione. Un atteggiamento anche questo assai diffuso, frutto probabilmente
delle percezione che, una presa di posizione positiva rispetto alle ricerche debba essere
accompagnata da argomentazioni capaci di legittimarla.
Un terzo brano, infine, mostra un altro aspetto della prudenza che accompagna i giudizi
positivi sull’utilità delle ricerche per i processi decisionali in ambito politico.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«… i sondaggi secondo me vanno sempre presi un po’ con le pinze. E quindi,
insomma, è stato così, utile ma non particolarmente utile...»
301
In questo caso la presa di distanza è più netta. Il giudizio positivo circa l’utilità è
accompagnato – anzi, anticipato – da un esplicito scetticismo, come se le capacità di questi
strumenti fossero più presunte che reali.
Si coglie da queste parole una forma di imbarazzo, l’esplicitazione di un paradosso. Lo
scetticismo circa lo strumento è ben presente nella rappresentazione del decisore, ma non
limita la possibilità di farne comunque un elemento “utile” del processo decisionale.
Ripercorrendo questi tre brani abbiamo dunque incontrato tre giudizi esplicitamente positivi,
circa l’utilità delle ricerche per l’azione politica. Tutti i giudizi sono però stati accompagnati
da argomentazioni che avevano la funzione di porre una distanza fra le ricerche e l’azione
politica, con profondità e schiettezza via via crescenti, fino a prefigurare un vero paradosso.
Come già anticipato, questa ambiguità è una caratteristica ricorrente e trasversale della
rappresentazione sociale dei decisori sul ruolo delle ricerche nella politica.
È difficile comprendere come questa ambiguità sia formata e cosa tenga assieme i due poli
opposti di questo giudizio. Senz’altro vi possiamo scorgere l’effetto di alcuni vincoli,
condizioni, negoziazioni che rendono più o meno agevole l’utilizzo delle ricerche nella
politica. Che sono il tema dei prossimi paragrafi.
Ma possiamo anche ipotizzare come in questa rappresentazione si possano scorgere alcuni
elementi di una pressione derivante dall’ambiente sociale e dal dibattito pubblico, che
influenza il decisore soprattutto nel momento in cui è stimolato a offrire un “giudizio”, più
che una narrazione, cioè una forma di opinione più strutturata, razionalizzata, tipizzata.
Risulta impossibile, in ogni caso, comprendere in che direzione operi questa costruzione
sociale: verso la legittimazione del ruolo delle ricerche o, viceversa, verso la negazione del
loro preponderante utilizzo.
Applicazione non meccanica delle ricerche
Un secondo aspetto interessante del processo decisionale emerso dalle interviste riguarda il
modo in cui le ricerche entrano nelle decisioni politiche.
Infatti, se in precedenza i giudizi si fermavano a ribadire l’utilità, ora appare necessario
comprendere meglio in cosa questa utilità consista.
302
E anche in questo caso troviamo le prime sorprese. Ancora una volta l’intenzione dei decisori
è quella di prendere le distanze dall’idea di un’applicazione meccanica delle ricerche al
processo che porta alle decisioni.
In alcuni casi, i brani sono piuttosto espliciti al riguardo, quasi a voler smentire dei luoghi
comuni.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«… si però alla fine, alla fine, diciamo così, il tutto è sempre molto, almeno nel
nostro caso, il tutto era molto filtrato diciamo dalla sensibilità politica del
decisore. Non c’è una automatica, come dire, un automatico passaggio dei dati
in strategia di comunicazione.»
In questo primo brano, ad esempio, viene negata esplicitamente l’idea che ci sia un rapporto
automatico, meccanico, fra ricerche e decisione. Le ricerche sono sempre “filtrate” da altri
criteri, che le fanno entrare in un insieme di fattori che assieme concorrono alla formazione
delle decisioni.
Il riferimento, in questo caso, è alla definizione delle strategie di comunicazione. E le
ricerche, pur essendo utili a questo scopo, non sono utilizzate in modo esclusivo, né
soprattutto danno luogo ad una applicazione meccanica.
Nella rappresentazione dunque il ruolo di guida è ancora in capo al decisore, che si riserva il
dovere di mediare tra i diversi apporti informativi utili alla decisione. L’idea di
un’applicazione automatica avrebbe invece tolto questo ruolo, dando origine a meccanicismi
che, evidentemente, sono estranei alla prassi politica o quantomeno alla sua rappresentazione.
Un secondo brano aiuta a compiere un passo in avanti in questa direzione.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«… cioè non so, adesso faccio un esempio, non si è fatto uno studio oggettivo
se aveva senso fare le primarie o no. Sono scelte politiche. Non mi viene a
mente, ripeto, nessuna… nessun sondaggio mirato a poi prendere una decisione
in un senso, boh, … Europa si, Europa no. No, assolutamente no.
303
…Quindi è tutto sempre molto legato agli appuntamenti elettorali e basta, e
all’andamento, diciamo, ordinario.»
Non si parla più solo di strategia di comunicazione, ma l’ambito viene esteso a tutte le
decisioni politiche più importanti che un decisore deve prendere.
E anche in questo caso, la negazione degli automatismi e dei meccanicismi è netta e forte.
Le pratiche messe in atto non contemplano nemmeno la possibilità di commissionare indagini
con il fine di basare la propria decisione solo sul risultato delle stesse. In questo senso, la
rappresentazione offerta dai decisori è nettamente contraria alla visione mainstream e alla
possibilità di intendere l’uso delle ricerche nella politica come un passaggio a una visione
tecnica o, addirittura, “scientifica” dell’azione politica.
Uso delle ricerche “a posteriori”
Proseguendo nell’analisi delle interviste ai decisori possiamo compiere un ulteriore passaggio
in questo percorso volto a definire come le ricerche entrano nel processo decisionale politico.
Le rappresentazioni emerse dalle interviste portano alla confutazione di un altro punto della
visione mainstream e dell’idea di un processo decisionale in cui il ruolo delle ricerche è non-
mediato.
In questo caso, si tratta della negazione del concetto che le ricerche servano a “guidare” le
decisioni.
Le retoriche utilizzate per descrivere il processo infatti parlano di uso a fini di “controllo” o
di “verifica”, non di “guida”.
Una differenza non da poco, da aggiungere a quanto già emerso sopra circa il ruolo delle
ricerche nella politica.
Anche in questo caso, peraltro, si tratta di contributi provenienti da interviste svolte a diversi
attori politici, trasversali rispetto alla cultura politica d’origine oltre che al tipo di attività
politica svolta.
Riportiamo due brani a riguardo.
304
(funzionario di partito, centro-destra)
«…Al di là del fatto che poi … chiunque lo può capire … questo tipo di
ricerche danno, come dire, un confronto e un conforto…
…Diciamo, noi normalmente avendo una sensibilità molto spiccata, noi ed in
particolare Berlusconi … quindi da questo punto di vista, appunto, è un
confronto e un conforto…»
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«…Di sicuro noi le indagini le facciamo per avere conferme … è chiaro che le
decisioni politiche si prendono anche indipendentemente dai sondaggi, cioè
non ci facciamo guidare dai sondaggi.»
Si tratta di due brani provenienti da attori politici di culture opposte.
In entrambi la retorica utilizzata e la stessa rappresentazione è chiara nel mostrare come
esistano pratiche di utilizzo delle ricerche in cui la funzione ad esse attribuita non ha a che
fare direttamente con il processo in cui viene assunta la decisione, ma interviene
successivamente, a posteriori, con funzioni differenti, di “controllo” o “conforto”.
Anzi, l’idea stessa di “guida” è esplicitamente negata.
Un ulteriore brano è molto esplicito a riguardo.
(membro di staff istituzionale, centro-sinistra)
«… ci siamo avvalsi di una serie di misurazioni che ci davano un po’
l’andamento del, l’immagine del premier, alcune verifiche ex post … quindi
fondamentalmente un uso ex post del sondaggio, come strumento di controllo e
di verifica della navigazione, non come momento per fissare obiettivi.»
Addirittura in questo brano è esplicitamente citato l’utilizzo “ex-post”, a dimostrazione della
consapevolezza da parte dell’intervistato della svolta concettuale implicita in questo tipo di
utilizzo rispetto alla visione normativa.
305
Nel complesso, questi brano disegnano un’ulteriore evoluzione, che distanzia ancora il
processo decisionale politico da un’idea meccanica e razionale. Addirittura, le ricerche non
entrano più – né da un punto di vista temporale, né da un punto di vista logico – nemmeno nel
processo che porta alla decisione, bensì la loro funzione ha a che fare con la verifica
dell’azione politica già posta in atto.
Si tratta, come detto, non solo dell’evidenziazione di una pratica differente dal mainstream,
ma dell’esplicitazione di una vera alternativa concettuale (epistemologica, per certi versi) del
modo in cui sono intese le ricerche nella politica. Un punto, dunque, che acquista grande
importanza nella prospettiva della ricostruzione del senso comune degli attori politici e delle
rappresentazioni dei loro comportamenti.
Nella stessa direzione e con la stessa importanza relativa alla identificazione di un percorso
concettuale di fondo vanno anche altri due brani, sotto riportati.
In questo viaggio attraverso la rappresentazione di varie ramificazioni e differenziazioni del
processo decisionale politico, essi permettono di compiere un passo ulteriore verso la
concezione di un modello decisionale più complesso e variegato.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«… direi che c’è una doppia valenza di questi dati, di queste ricerche. L’una
orienta il decisore politico, l’altra viene usata dal decisore politico per
avvalorare decisioni che già sono state assunte …»
Il brano sopra riportato, nella seconda delle alternative d’uso indicate, apre una nuova
prospettiva. Le ricerche possono essere usate non solo per guidare decisioni o controllare
l’esito delle azioni politiche, ma anche per avvalorare decisioni “che già sono state assunte”.
Si tratta di un argomento nuovo, di grande interesse.
Il riferimento è chiaro. Alcune azioni politiche vengono poste in atto per una serie di
motivazioni che possono non avere nulla a che fare con un lavoro di ricerca. In certi casi
possono essere passaggi obbligati dalle logiche interne, oppure scelte coraggiose che si ritiene
possano riscontrare problemi ad ottenere consenso, oppure ancora non-scelte che, se non
valorizzate, rischiano di portare a una perdita di consenso. In tutti questi casi, il denominatore
306
comune è rappresentato da un comportamento politico che, per mancanza di sostegno, può
risultare dannoso in termini di consenso.
Il commissionamento di una ricerca il cui esito sia in linea con quel comportamento politico
offre dunque un importante contributo di legittimazione dell’azione politica, fondamentale
perché essa sia accettata dal pubblico di riferimento (che può essere rappresentato dalla
dirigenza di partito, oppure dagli alleati di Governo, oppure ancora da certe categorie
professionali e via discorrendo), evitando in questo modo i rischi rappresentati da
un’opposizione o una perdita di consenso.
Occorre sottolineare alcuni aspetti di questa pratica d’uso in cui le ricerche sono usate come
fonte di legittimazione di decisioni già assunte.
Innanzitutto, ridurre l’utilizzo delle ricerche a pratiche di legittimazione può comportare
evidenti rischi di strumentalizzazione.
Per il decisore politico, infatti, il risultato della ricerca non è equivalente: si configura un
preciso interesse verso un certo risultato, che è la premessa intorno alla quale ruota la
possibilità di ottenere la legittimazione. In questo modo, dunque, l’interesse primario di far
emergere con trasparenza il risultato della ricerca rischia di passare in secondo piano rispetto
all’interesse politico del decisore. E questo può avvenire soprattutto nel caso di un rapporto di
committenza, in cui vi è in aggiunta il potere contrattuale originato dal rapporto
professionale.
Una situazione dunque in cui è fondamentale l’etica professionale del ricercatore, oltre che
una certa abilità relazionale.
Connessa ai pericoli di strumentalizzazione si configura la possibilità di uno snaturamento
della ricerca, dettato dall’inversione del processo, in cui il bisogno conoscitivo non è più la
guida del meccanismo, con ovvie ricadute (soprattutto a lungo termine) sulla reale possibilità
di favorire un sistema della ricerca efficace e rispondente alle attese di conoscenza della
realtà sociale.
Per riflesso, inoltre, la necessità di ottenere legittimazione di un comportamento già attuato
mette in secondo piano la correttezza dell’azione politica e la sua rispondenza a una
situazione reale. Diventa invece predominante la dimensione della gestione del consenso.
307
Un quarto punto introduce un tema che abbiamo già incontrato, che più avanti
approfondiremo e che configura già uno dei fili logici principali di tutta la ricerca.
Infatti l’utilizzo delle ricerche a fini di legittimazione passa evidentemente per uno stretto
legame con la visibilità di queste ricerche e dunque per le attività di comunicazione.
Il brano seguente è esplicito in tal senso.
(attore locale, centro-sinistra)
«… cioè lì in Comune, così come al Ministero, lì si chiedono più che verifiche,
che possono essere solo utilizzate al nostro interno, si chiede, diciamo, dei
numeri che vadano a confermare delle scelte, quindi utilizzo mediatico.»
L’idea che le ricerche servano a “confermare delle scelte” è chiamata “utilizzo mediatico”. La
pratica in questione, infatti, è quella in cui i risultati delle ricerche vengono comunicati
all’esterno affinché, soprattutto attraverso il sistema mediatico, ottengano visibilità. È in
questo modo, infatti, che possono essere messe in moto le logiche di legittimazione.
Come abbiamo già osservato, questa rappresentazione, che mostra una significativa
consapevolezza dei decisori, conferma nei fatti lo stretto legame fra ricerca e comunicazione,
un punto che più avanti verrà approfondito.
L’utilizzo “a posteriori” delle ricerche, nelle forme che abbiamo ricostruito, porta con sé un
rischio, quello che la ricerca smentisca l’azione politica.
Ciò è vero soprattutto nel caso dell’utilizzo come “controllo”, ma può presentare aspetti
ugualmente negativi anche nell’utilizzo in forma di “legittimazione” di decisioni assunte.
La seguente testimonianza affronta proprio un caso di questo genere.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«… Si ma lì bisognava…bisognava ottenere il risultato di fare la Margherita in
quel modo, capito? Quindi tutto va finalizzato verso quell’obiettivo. … Però se
qualcuno… se da qualche sondaggio fosse venuto fuori che non funzionava,
non so se si tornava comunque indietro, non so, cioè…»
Non possiamo in alcun modo affermare, ovviamente, che sia una pratica generalizzabile.
308
In ogni caso, questo brano ci mostra come, nella rappresentazione dei decisori, sia
contemplato il caso in cui le ricerche arrivino a smentire le decisioni assunte.
La necessità di conferma o di legittimazione, necessaria per l’efficacia dell’azione politica,
non lascia spazio a dubbi. In questi casi l’azione politica già messa in atto non viene interrotta
o smentita e il risultato della ricerca viene sostanzialmente ignorato.
Con questo ultimo esempio raggiungiamo dunque un punto di non ritorno in questo percorso
volto a mostrare come il processo decisionale in ambito politico sia lontano dalla visione
mainstream. Così lontano, appunto, che i risultati di ricerca possono arrivare ad essere
consapevolmente ignorati.
La consequenzialità logica
Nel processo di ricostruzione delle principali peculiarità del processo decisionale in ambito
politico e del ruolo delle ricerche, un ultimo contributo è offerto da altri brani delle interviste
ai decisori.
In questo caso, la rappresentazione mette in campo un ulteriore aspetto del processo
decisionale, che contribuisce a rendere più chiaro e definitivo l’allontanamento da modelli
semplicistici e razionali, già messi in discussione dai passaggi precedenti.
Nel caso di questi brani, entriamo nel campo della consequenzialità logica.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«…la politica è mutevole, talvolta non dico che devi cambiare strategia ma devi
rivedere o devi anticipare tatticamente una decisione assunta per, per stare sul
pezzo, per…perché la dinamica politica lo impone, perché la dinamica interna
di un partito talvolta lo suggerisce…
…talvolta anche con un processo per cui, diciamo così, ad una decisione
consegue un’altra che poi porta ad una terza, percorsi che non sono sempre
lineari e comunque non è che sono sempre prestabiliti. La politica è fatta molto
spesso anche di decisioni quasi accidentali…insomma…»
309
Il brano mostra come vi sia consapevolezza da parte del decisore che le decisioni possono
prendere percorsi lontani dalla pianificazione razionale e dalla consequenzialità logica, ma
che piuttosto possono essere inclini a andamenti discontinui, ambiguità, paradossi,
ricostruzioni a posteriori, fin quasi a sconfinare nell’”accidentalità” delle scelte.
Si tratta di argomenti che si inseriscono, rafforzandolo, nel tracciato che già abbiamo
introdotto in precedenza.
Da un punto di vista concettuale – e, soprattutto, ai fini del nostro obiettivo di ricerca – una
considerazione approfondita di questa rappresentazione conduce a conseguenze di grande
importanza.
Il venire meno di razionalità, linearità, consequenzialità logica nei percorsi decisionali, infatti,
sottrae spazio alla possibilità di pianificare razionalmente i percorsi di scelta, che è uno degli
elementi principali sui quali è basata la concezione “forte” dell’uso delle ricerche nella
politica, come vera e propria guida razionale delle decisioni. È evidente che se le decisioni
sono accidentali e non razionali, le ricerche non possono avere un ruolo preponderante nel
guidarle.
Rimane aperta, questa sì, la necessità di individuare un senso a posteriori alle decisioni
assunte. Ruolo che – si tratta di un’ipotesi – potrebbe essere ricoperto dalle ricerche, in linea,
ad esempio, con utilizzi simili quali quelli già incontrati relativi alla legittimazione, che si
nutrono dello stesso concetto di intervento “retrospettivo”.
Occorre in ogni caso precisare che il brano in questione non rappresenta una posizione
trasversale e più ampia, anche se molti altri lasciano intendere utilizzi simili.
In ogni caso, a rigore, la possibilità di generalizzare questi argomenti non è basata su elementi
solidi.
Utilizzo statico vs. utilizzo dinamico
Il percorso di progressiva de-costruzione della visione mainstream del processo decisionale e
del legame fra ricerca e azione politica è reso ancora complesso da un ulteriore punto di vista.
310
In questo caso, non siamo di fronte ad un nuovo passaggio volto a mediare il ruolo delle
ricerche nel processo decisionale.
Si tratta piuttosto di una riflessione che sposta l’attenzione dalle pratiche di mediazione al
modo in cui le ricerche sono interpretate e utilizzate dagli attori politici.
Individuando una distinzione chiara fra pratiche di utilizzo: un uso statico e un uso dinamico.
Il punto di partenza di questa rappresentazione è un giudizio genericamente positivo delle
ricerche socio-politiche.
(attore locale, centro-destra)
«… mah, io credo che sia molto utile. … Cioè oggi tutti noi che ci muoviamo
nel settore dell’intuizione, della percezione della pubblica opinione abbiamo
certamente dei report abbastanza credibili di ciò che avviene in questo
paesaggio in cui siamo chiamati a operare.»
Le ricerche hanno una loro utilità, in quanto si rivelano “credibili” nel fornire le necessarie
informazioni ambientali al decisore.
Non è però argomentato il modo in cui questa utilità trova concretizzazione e su come essa
influenzi il processo decisionale, che invece è il centro del nostro interesse. Si rimane su un
generico giudizio di soddisfazione.
La ragione è presto spiegata. Una volta sgombrato il campo dall’equivoco relativo al giudizio
da dare agli strumenti di ricerca, l’attenzione del decisore si sposta sulle pratiche d’uso, il
vero oggetto della sua rappresentazione.
(attore locale, centro-destra)
«… Ma non è tanto questo il problema, questo potremmo averlo diversamente,
secondo me. Quello che ci aiuta invece è utilizzare queste ricerche per cercare
di gestire una verifica dell’azione positiva che si svolge.
… Questi strumenti, a mio avviso, servono soprattutto a questo. Invece … sono
utilizzati in modo statico prevalentemente. Cioè l’utilizzo di queste ricerche
non è dinamico, è statico. Cioè normalmente vengono utilizzate soprattutto per
capire cosa è più conveniente fare o cosa è meno sconveniente fare. Viceversa
311
nessuno le utilizza appieno, salvo Berlusconi, che non a caso ha una mente
commerciale, per misurare in progress la modifica.»
Questo è dunque il nucleo dell’argomentazione.
Secondo l’intervistato, normalmente le pratiche messe in atto dai decisori sarebbero passive,
in quanto si limiterebbero a raccogliere le descrizioni dell’opinione pubblica fornite dalle
ricerche e a mettere in campo azioni politiche che siano consonanti con quelle indicazioni,
così da non andare in conflitto e rischiare di perdere consenso.
Ma un tale uso è carente secondo due punti di vista.
In primo luogo perché non sarebbero necessarie le ricerche per ottenere indicazioni sulle
opinioni dell’elettorato.
In secondo luogo, perché un tale utilizzo non riesce a creare un legame fra un’azione politica
positiva e dinamica, cioè legata a proprie ragioni e motivazioni, e le indicazioni provenienti
dalla ricerca. La politica, dunque, è sottomessa alla ricerca, che ne limita le possibilità di
libera espressione.
L’utilizzo dinamico delle ricerche, invece, potrebbe consentire di tenere assieme l’autonomia
dell’azione politica e il controllo del consenso. L’uso delle ricerche, però, deve cambiare, e
passare ad un monitoraggio continuativo, all’individuazione dei trend, alla evidenziazione
continuativa delle conseguenze dell’azione politica sul giudizio dell’opinione pubblica.
Si tratta di una rappresentazione molto forte, che propone un modo nuovo d’intendere le
ricerche. Un modo piuttosto originale, unico nel panorama delle varie narrazioni delle
pratiche d’uso raccolte attraverso le interviste ai decisori.
È significativo però che l’utilizzo dinamico si avvicini concettualmente all’idea del tracking,
che già abbiamo incontrato nei capitoli precedenti.
In questo caso, l’impostazione è inoltre arricchita da altre argomentazioni a sostegno, come
ad esempio una approfondita visione del senso ultimo dell’azione politica, che in altre
interviste non si è trovata.
(attore locale, centro-destra)
312
«… Cioè l’azione politica è tale perché lascia il segno nel momento in cui
cambia le cose, non perché le subisce. Cioè l’azione politica è finalizzata a
cambiare le cose. Non è finalizzata a capire cosa pensa la gente
prevalentemente e io ti dico quello che vuoi sentire.»
Una visione che rafforza l’uso dinamico delle ricerche, ma che rappresenta a tutti gli effetti
anche una convinzione di più ampia portata, sul ruolo della politica nella società.
Un’argomentazione “alta”, che mi sembra significativo venga utilizzata a sostegno di questa
rappresentazione, con lo scopo, evidentemente, di conferire maggiore legittimazione all’uso
stesso delle ricerche nei processi decisionali in campo politico.
Infine, la rappresentazione è accompagnata da ulteriori dettagli, come ad esempio interessanti
giudizi su culture politiche e singole personalità politiche, relativamente alla loro capacità di
utilizzo dinamico delle ricerche, già in parte accennati.
(attore locale, centro-destra)
«… Questa è un’idea molto veltroniana, ma nella sostanza delle cose non ha
nulla a che fare con la politica. Berlusconi ha una mentalità differente invece,
in base alla quale io entro in questo stato d’animo, per condurlo a una
determinata conseguenza, insomma. Questo non lo puoi fare bene se non hai
questi strumenti. Ma li devi leggere così. Il punto di arrivo è quello che conta.
E quello è uno strumento per arrivarci.»
La capacità di utilizzo dinamico delle ricerche mostrerebbe dunque anche la maggiore
vicinanza culturale dei singoli attori o delle singole culture politiche, secondo una visione che
riprenderemo successivamente.
5.3 Vincoli, condizioni, dinamiche sistemiche
Le interviste hanno fatto emergere alcune caratteristiche del processo decisionale degli attori
politici che hanno a che fare con fattori che condizionano dall’esterno le possibilità di utilizzo
delle ricerche socio-politiche nelle pratiche dei decisori.
313
Pur senza poter generalizzare alcunché, è interessante mostrare questi risultati in quanto
possono mettere in luce l’esistenza di connessioni fra il processo decisionale e le condizioni
in cui esso opera.
La forma partito attuale e il radicamento territoriale
Un primo esempio riguarda la forma partito attuale.
Abbiamo già ripercorso in precedenza il dibattito esistente in letteratura sui modelli di partito
attuali e sulla loro evoluzione storico-sociale.
Sappiamo dunque come questa evoluzione offra una spiegazione circa le modalità di utilizzo
delle ricerche da parte dei decisori politici.
Dalle interviste emerge come alcune caratteristiche dei partiti attuali siano in effetti alla base
della possibilità o meno di mettere in atto pratiche di utilizzo delle ricerche socio-politiche.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«… Quando viene meno l’antenna si cerca di supplire con gli strumenti delle
ricerche demoscopiche.»
Innanzitutto la questione delle “antenne” sul territorio.
L’evoluzione dei partiti politici porta ad una sempre minore capacità da parte della struttura
di ricevere informazioni strategiche dalle proprie ramificazioni periferiche. Queste ultime
sono sempre meno partecipate e vissute attivamente. Inoltre gli stessi canali di relazione sono
forse meno in grado di rispondere con la necessaria velocità.
Lo conferma anche il brano seguente, dove il problema del minor radicamento dei partiti
attuali ha come conseguenza l’incapacità di leggere ciò che succede attorno, compresi grossi
cali di consenso.
(membro di staff istituzionale, centro-sinistra)
314
«… cioè quando la frammentazione … era minore, i partiti ce la facevano.
Oggi i partiti … la prova numero uno sono Rifondazione non si è accorta di
nulla di quello che gli succedeva intorno.»
La conseguenza è che le ricerche diventano l’unico strumento a disposizione per conoscere la
realtà esterna.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«… Quindi … i sondaggi sono fondamentali per avere la temperatura. Questo
perché? Perché purtroppo – io parlo di noi, il Centro Destra non lo so – noi non
abbiamo più un termometro che sta sul territorio, non c'è più. Tutto quello che
ti raccontano sono tutte cavolate, non esiste più. L'unica cosa che c'è che ti
media rispetto a quello che veramente è là fuori è il sondaggio,
oggettivamente.»
Ma dobbiamo anche tenere conto che è il contesto competitivo che è cambiato. Se prima i
partiti si rivolgevano principalmente alle persone che, per cultura politica, erano già loro
vicine, oggi la competizione maggioritaria, il crollo delle ideologie e la conseguente messa in
discussione della persistenza delle culture politiche, lo scongelamento di un elettorato mobile
e d’opinione portano i partiti ad ampliare l’orizzonte del loro elettorato-obiettivo.
E che i decisori ne abbiano consapevolezza, lo si coglie da questo brano.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«… È la società che è cambiata, eh! Noi prima avevamo una società molto
meno frammentata, dove i livelli di subcultura erano molto forti. Oggi invece è
frammentata, la funzione di un partito politico è veramente diversa rispetto a
prima ed è difficile anche per un partito politico essere in sintonia, cogliere
alcuni umori.»
Cambia così anche la natura delle informazioni strategiche, che non possono più essere
raccolte dai soli militanti: esse infatti devono riguardare l’intero elettorato, al quale il
militante non da solo può essere sensibile.
315
Da qui, dunque, la necessità di munirsi di nuovi strumenti, più adeguati alle mutate esigenze e
condizioni.
Ma non si tratta di un percorso lineare.
Un elemento in più lo si coglie dal brano seguente.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«… vabbè il partito di massa è morto, vabbè lì entriamo nella storia dei partiti
politici italiani,… comunque si è andati verso il partito leggero, ecc., ecc., ecc.
Io non so oggi se siamo in un partito leggero o pesante, non… escludo che
qualche analista c’abbia le idee chiare… non te lo so dire, questo, non mi
arrogo assolutamente il diritto… Ti dico però che, invece, lo svuotamento dei
partiti ha comportato questa roba qui, cioè, nei partiti non si studia più, non ci
stanno più gli uffici studi, ci stanno le fondazioni oggi, no? … e ogni corrente
c’ha la sua!»
Il percorso descritto sopra che conduce ai modelli di partito attuali (e che riprende la
discussione presente in letteratura, cui abbiamo accennato nella prima parte) porta non sono a
una caduta delle “antenne”, a una loro minore efficienza. Cambia la stessa natura (e cultura)
organizzativa della forma partito, in cui la “leggerezza” significa uno spostamento
d’importanza dalla partecipazione alla comunicazione, dalle strutture territoriali ai gangli
centrali del partito, più adatti a governare le nuove modalità di comunicazione e gestione del
consenso. Il partito “leggero” presuppone una militanza più discontinua e meno legata alle
appartenenze, che toglie ulteriore credibilità al lavoro di filtro un tempo compiuto sul
territorio.
Trovo significativa la consapevolezza mostrata dai decisori in questi brani. Essa presuppone
sia una riflessione matura sulle dinamiche organizzative dei partiti sia una conoscenza non
scontata del dibattito politologico sul problema dei modelli di partito.
Questa consapevolezza sembra andare addirittura oltre il dibattito scientifico. Nel brano
precedente, infatti, la riflessione sulla forma partito viene estesa ad un campo poco presente
nella letteratura politologica. L’intervistato infatti segnala significativamente come il partito
316
“leggero” non sia solo una forma organizzativa adatta al contesto e al momento storico, ma
una formula non ancora compiuta, che porta con sé distorsioni ed elementi negativi.
Il maggiore utilizzo delle ricerche socio-politiche infatti è contrastato da una minore capacità
di lettura della società. Le forme organizzative dei partiti non sono più in grado di darsi
strutture, regole, routines capaci di approfondire la conoscenza della società. Ed
evidentemente il tentativo di ottenerla attraverso le ricerche demoscopiche e i sondaggi risulta
quantomeno fallimentare.
Ma è un punto che approfondiremo meglio successivamente.
Un altro aspetto, in una direzione diversa, è evidenziato da un altro intervistato.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«… noi … non utilizziamo i sondaggi come li utilizzano nella politica
americana… Noi abbiamo avuto l’esperienza del mitico guru americano nel
2001… eh, lì Greenberg ci spiegava che noi da quello che ci dicevano i
sondaggi dovevamo impostare la campagna elettorale. In Italia non funziona
così, non è mai funzionato così.
… in Italia la politica non è un mondo normale …
…Perché i partiti non funzionano così. … Noi non abbiamo mai rispettato
questa cosa, mai. … Tutta la coalizione doveva parlare solo e sempre di una
cosa al giorno, dire sempre la stessa cosa, … guarda, voglio dire, cose che si
sanno, ci sono su tutti i manuali di politica… Non è mai successo! Ma mai
succederà!»
In questo caso, il vincolo costituito dal partito non è relativo alla capacità o meno di leggere
la società e, di conseguenza, alla necessità o meno di affidarsi alle ricerche socio-politiche.
Qui il problema si sposta sulle possibilità di mettere in campo pratiche di utilizzo delle
ricerche. Possibilità che, in questo caso, è frenata dalle dinamiche interne del partito o dei
partiti, che non permettono di applicare ciò che le ricerche suggeriscono.
Siamo di fronte sempre a una forma di condizionamento operata dal modello di partito, anche
se, a differenza di prima, il piano su cui opera questo vincolo è sulle pratiche d’uso.
Un punto forse non marginale emerge non da questi brani, ma da una significativa assenza.
317
Le preoccupazioni circa la perdita delle “antenne” e, in generale, la modificazione della
forma partito sono presenti nelle interviste realizzate a decisori provenienti da culture
politiche di area di centro-sinistra, di origine cattolico-popolare o comunista.
Non troviamo brani simili nelle interviste a decisori di area centro-destra.
Anzi, in un caso troviamo un brano che si muove in una direzione sostanzialmente opposta.
(attore locale, centro-destra)
«I focus group noi li abbiamo utilizzati soprattutto come elemento di
correzione. Nel senso che noi abbiamo un partito cosiddetto pesante, quindi
non abbiamo bisogno di fare focus, abbiamo un focus group gigantesco e
infinito che ci uccide tutti giorno per giorno (ride).
… ci ha portato a sviluppare il cosiddetto partito pesante come strategia
alternativa, cioè noi saturiamo le basse frequenze. Cioè noi cerchiamo di
controllare l’opinione con un partito, con una presenza organizzata; cioè son
cose anche pazzesche, ci sono perfino alcuni circoli a livello di condominio
(ride) una cosa veramente assurda (ride).
E questo spiega perché noi abbiamo meno bisogno dei focus group. Noi li
utilizziamo in campagna elettorale come elemento di correzione»
Addirittura la rappresentazione è così centrata sull’idea del “partito pesante” da motivare con
questa argomentazione il non utilizzo di una tecnica di ricerca come il focus group.
Si può forse ipotizzare (ma andrebbe chiarita meglio, con studi successivi, la possibilità di
generalizzazione) che la gestione del passaggio a una nuova forma di partito e a un nuovo
scenario competitivo sia una questione maggiormente problematica per i partiti di area
centro-sinistra. Forse le culture politiche di area centro-destra, perlomeno di alcuni di questi
partiti, sono maggiormente adattate alla nuova politica. Ciò dovrebbe spiegare la maggiore
confidenza con l’uso delle ricerche da parte di questi partiti, riconosciuta in letteratura, nelle
interviste ai ricercatori e che, indirettamente, si può intravedere anche dalle interviste ai
decisori.
Un punto sul quale torneremo specificamente più avanti.
318
Rapporti con l’attività di Governo
Una questione che gli attori politici si trovano a dover affrontare è quella del rapporto fra
l’attività politica e l’attività di Governo.
È un problema che riguarda tutti i livelli dell’attività politica, anche se, nel nostro caso, le
interviste hanno toccato solo il livello nazionale, chiamando così in causa solo due delle
categorie di attori che abbiamo individuato, e cioè gli attivisti di partito e gli appartenenti a
staff politici nelle istituzioni.
Il modo di interpretare il tema è molto differente, con necessità, obiettivi, pratiche diverse.
Queste differenze hanno conseguenze anche nel modo in cui le ricerche socio-politiche sono
chiamate a contribuire.
Le interviste riguardanti staff politici all’interno delle istituzioni sono ovviamente quelle in
cui le esigenze di legare l’attività politica a quella di Governo sono più sentite.
Questo primo brano mette in luce alcune necessità.
(membro di staff istituzionale, centro-sinistra)
«…Al Governo abbiamo messo in piedi alcuni monitor settimanali, anche
addirittura qualche monitor a domanda, giornaliero, per capire sui singoli
avvenimenti, provvedimenti, eccetera, quale era il tipo di percezione che se ne
aveva, anche qua con una insufficiente capacità, poi, di lavorare sul versante
comunicativo rispetto ai risultati di analisi.»
Il brano riporta quello che, a tutti gli effetti, è forse l’utilizzo più scontato delle ricerche
nell’attività di Governo. Come già trovato in precedenza, anche in questo caso le ricerche
sono usate in forma di controllo dell’azione politica, non per guidarla.
Il controllo deve essere continuo, per individuare le linee d’evoluzione, che sono spesso il
dato più significativo e solido.
319
Da notare come lo stesso decisore intervistato individui come il problema principale della
filiera originata da questo metodo d’utilizzo risieda nella comunicazione, con una netta
difficoltà da parte dell’attore politico di mettere in atto le pratiche comunicative suggerite
anche dai risultati delle ricerche.
A ulteriore conferma, inoltre, dello stretto legame che, nelle rappresentazioni dei decisori, le
ricerche e la comunicazione hanno fra di loro.
Il brano seguente introduce efficacemente la rappresentazione della questione dal lato degli
attivisti di partito.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«… Noi abbiamo esigenza di avere un … un dato utile riguardo all’opinione
pubblica. Questo dato utile cerchiamo di averlo …leggendo quello che è
l’atteggiamento rispetto a dei grandi temi e quello che è il posizionamento del
partito e dello schieramento rispetto a quei temi. Ma incrociando tutto questo
con l’attività del governo del nostro partito. Quindi cercare di avere attraverso
questi strumenti un riscontro di quello che facciamo. Cioè, non è tanto il
riscontro settimanale della situazione settimanale della leadership o delle
intenzioni di voto per il partito, questo ci interessa relativamente. C’è, ma è più
una pruderie che un dato reale. Quello che ci interessa invece è innanzitutto
capire come cambia nell’opinione pubblica la salienza dei temi e come cambia
la credibilità del nostro partito rispetto a quei temi…»
Da questo brano emerge una peculiarità dei partiti e cioè la necessità di rapportarsi con
l’attività di Governo, in questo caso condividendo una posizione di maggioranza.
Si tratta evidentemente di un bisogno che emerge dalla stessa complessità dell’azione
politica, che in questo caso ha a che fare con il rapporto, ben noto negli studi politologici, tra
politics e policy.
In questa esigenze risiede la rappresentazione di un uso più raffinato delle ricerche, in cui,
oltre all’esplicito rifiuto della tendenza a ipostatizzare il dato, troviamo una maggiore
attenzione verso un monitoraggio continuo dell’azione di Governo e un più stretto
320
collegamento fra ricerca e azione politica e di Governo, che passa attraverso un uso delle
ricerche come controllo e valutazione dell’operato, più che come guida alle decisioni.
Una prospettiva senz’altro differente è quella proposta dai membri di staff politici che
operano nelle istituzioni.
(membro di staff istituzionale, centro-sinistra)
«…no, noi abbiamo cercato di cambiare, cioè diciamo che gli istituti tendono a
replicare il sistema di indagine sia che lo usi in campagna elettorale sia che lo
usi al Governo, invece per noi la cosa è molto diversa, in realtà, perché qui ci
siamo accorti che dopo i sondaggi che arrivavano settimanalmente, i cittadini
rispondevano alla domanda molto sulla percezione emotiva di quella settimana,
per cui allora tu hai il problema che il rumeno ti ammazza la signora, la
sicurezza, i rumeni sono cattivi, quella settimana lì schizza per aria, poi magari
lentamente invece torna, sempre alta, ma ad una ordinaria misurazione …
…allora la preoccupazione sul settimanale … è irrilevante da quel punto di
vista perché uno dice il mio progetto è di 5 anni, la mia rilevazione dura 5
anni!»
In questo brano, emerge con forza la volontà di personalizzare le ricerche e rivolgerle alla
particolare fase costituita dall’attività di Governo.
Il focus dell’insoddisfazione è rivolto al monitoraggio settimanale dell’opinione pubblica, che
restituisce un dato non interessante perché troppo inserito nel breve periodo, quando invece la
prospettiva di un’azione di Governo è a lungo termine.
Sull’opinione pubblica istantanea inoltre giocano effetti dettati dal clima d’opinione e dalle
campagne mediatiche, che, evidentemente, non colgono il nucleo dell’interesse del decisore
politico con responsabilità di Governo.
Un punto che rappresenta la vera difficoltà per i decisori di Governo di rapportarsi con
l’opinione pubblica e conseguentemente con la ricerca.
(membro di staff istituzionale, centro-sinistra)
321
«È impressionante l’immediatezza e la profondità di incidenza di questa cosa
sull’opinione. Ora è chiaro che noi non avendo grandi strumenti da questo
punto di vista e avendo quella logica che ti dicevo all’inizio, questo tipo di cose
ci interessa ma non riusciamo a governarla quindi alla fine se non la governi
non ti interessa nemmeno.»
La difficoltà di allineare la pratica di Governo con l’andamento del clima d’opinione porta
inevitabilmente al rifiuto e alla perdita d’interesse, visto che il risultato della ricerca non è più
in alcun modo utilizzabile per mettere in atto pratiche di Governo o comunicative.
Da qui, l’esigenza di strumenti diversi, più orientati non tanto alla misurazione dell’opinione,
ma a cogliere in che modo essa si formi, e dunque rivolti agli opinion leaders, con una
prospettiva concettuale tipica di alcuni storici studi sulla formazione delle opinioni, come ad
esempio quello di Lazarsfeld.
(membro di staff istituzionale, centro-sinistra)
«… e infatti abbiamo chiesto agli istituti … anche rilevazioni un po’ diverse …
cioè … vedere se un target di mille persone, i famosi opinion leader, diciamo
così, di capire nel tempo come si andava evolvendo la cosa..
…noi eravamo interessati a un uso dello strumento che non ci desse appunto la
misurazione, ma che ci desse da un lato delle dinamiche di medio periodo e
dall’altro ci aiutasse a rifocalizzare alcune cose dette. Quindi avevamo bisogno,
che non lo abbiamo perché non siamo riusciti a farlo funzionare, di un discorso
che fosse più ideativo…»
Il brano restituisce appunto la rappresentazione del tentativo di costruire un nuovo rapporto
con la ricerca, più vicino alle esigenze sentite nell’attività di Governo e più centrato sulle
modalità di formazione dell’opinione e dunque sulle caratteristiche strutturali e di medio
periodo della stessa.
Significativo anche l’esito del progetto, negativo per una serie di fattori non esplicitati, ma
che si può ipotizzare legati non solo alla precoce caduta del Governo stesso.
322
Vincoli di tempo
Dalle interviste emergono altri vincoli alle possibilità d’uso delle ricerche, che abbiamo già
incontrato nei capitoli precedenti.
Essi si pongono su un piano diverso rispetto alle problematiche della forma partito. In questo
caso, si ha a che fare con le contingenze dovute alla situazione ambientale e alle risorse
organizzative a disposizione degli attori.
Abbiamo già incontrato gli stessi vincoli nella trattazione delle rappresentazioni emerse dalle
interviste ai ricercatori.
Limiti di tempo e di costi si confermano anche per i decisori come due variabili fondamentali
nelle possibilità di adottare pratiche d’uso delle ricerche socio-politiche più in linea con
bisogni, esigenze, aspettative.
Dalle interviste ai ricercatori emergeva come la variabile tempo limitasse la possibilità di
utilizzare certe ricerche, favorendo pratiche semplicistiche, di immediata spendibilità e di
ridotto approfondimento.
Questo primo elemento è confermato dalle interviste ai decisori.
Il tempo è ovviamente un fattore deciso in campagna elettorale, laddove il precipitare degli
eventi può essere improvviso.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«… Questa volta non c’è stato il tempo! Abbiamo chiaramente sentito il parere
di amici, conoscenti, esperti di tutti i tipi, ma non c’è stato nulla di organizzato.
Perché non c’era … non c’era il tempo.»
In queste situazioni la possibilità di rispondere velocemente a un bisogno conoscitivo è
fondamentale, probabilmente anche a scapito della qualità della risposta che si può ottenere
con un’indagine meno approfondita. E in questo “accontentarsi” può risiedere una delle cause
che hanno portato a pratiche d’uso in cui l’importanza data alle ricerche è minore del
previsto.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
323
«…Non c’è stato il tempo.…Il focus group va benissimo, però sono strumenti
che noi abbiamo utilizzato molto nel 2006, perché … devi avere tempo per fare
i focus group, per farli seriamente e per utilizzarli. Noi invece ricordati che
siamo andati a votare all’improvviso, e quindi non abbiamo avuto il tempo di
fare nulla…il fattore tempo ha inciso, questo è indubbio. Per tutti ovviamente,
non solo per noi. Loro erano un po’ più pronti, perché chi sta all’opposizione
… fa una campagna elettorale permanente … quindi»
In questo caso, a farne le spese sono stati soprattutto i focus group, a favore dei più semplici,
immediati, “consumabili” sondaggi.
Infatti il problema della necessità di ottenere risultati rapidi, immediatamente “spendibili” è
alla base del mancato utilizzo di metodologie sofisticate o quantomeno più complesse, che
vadano oltre la semplice comunicazione di un dato numerico semplice e di lettura immediata.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«…tutta quella roba, boh, più socio … però quanto serve sulla politica?! non lo
so…
…Quella roba più… come la chiamano loro? La rilevazione semestrale …
mega sugli usi, i costumi degli italiani…Eccetera.…Però, voglio dire, i partiti
non la usano quella roba là.»
Da notare che, in entrambe questi brani, non è messo in discussione il contributo conoscitivo
proveniente dalle ricerche.
Nonostante ciò, la variabile tempo rappresenta un vincolo insormontabile. Tantopiù in una
situazione così peculiare e difficilmente programmabile come una campagna elettorale.
Ma i tempi pressanti dell’azione politica condizionano anche l’utilizzo dei più semplici
sondaggi, perlomeno per quanto riguarda le modalità del loro commissionamento e le
pratiche inerenti tutta la filiera che va dalla raggiunta consapevolezza del bisogno conoscitivo
fino all’utilizzo.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
324
«… Sui sondaggi poi c’è un’ansia micidiale, quindi questa cosa è abbastanza
acuita e quindi l’elemento rapidità e velocità è abbastanza importante.»
L’”ansia” di cui si parla rende bene il senso di una situazione ambientale in cui la variabile
tempo assume un rilievo strategico.
Altrettanto efficace risulta il brano seguente, questa volta nel mostrare un corollario
riguardante la bassa consapevolezza dei decisori circa le modalità di realizzazione dei
sondaggi.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«…Tu considera che … i politici, quelli che non sanno come funzionano le
cose, pensano che… cioè tu, segretario del partito, mi dici: “Voglio un
sondaggio” dopo due giorni ce l’hai.»
È evidente che tale mancanza di conoscenza può originare alcune problematiche nel processo,
che possono limitare l’efficacia dell’utilizzo delle ricerche stesse.
Vincoli di budget
Quello dei costi è l’altro vincolo fondamentale all’utilizzo delle ricerche nella politica.
Anch’esso era già emerso dalle interviste ai ricercatori.
Lo ritroviamo ora nelle interviste ai decisori. Ed è riportato con una certa frequenza, ad
indicare un vincolo significativo.
Innanzitutto, quello del budget dedicato alla ricerca è uno dei problemi dei partiti.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«…Ricerche più specificamente qualitative, noi non ne abbiamo
commissionate. Questo per una serie di ragioni. Fra queste ragioni, anche
qualche ragione economica. Perché tu sai che le ricerche qualitative per essere
ben fatte costano un certo tipo.»
325
Abbiamo già visto sopra come il modello di partito sia esso stesso un elemento condizionante
dell’uso delle ricerche nella politica.
A testimonianza di quanto si diceva in precedenza circa un utilizzo di ricerche da parte dei
partiti non in linea con le aspettative degli stessi decisori, in questo caso il partito diventa
spesso un elemento frenante, tramite la leva del budget, della possibilità di utilizzare
diffusamente le ricerche nell’attività decisionale.
Se consideriamo l’evoluzione storica dei partiti, la loro necessità di ricerche sulla realtà
sociale e, in contemporanea, i grossi limiti di budget, non si può non pensare ad una
contraddizione netta fra logiche d’azione differenti.
I costi dunque rappresentano un limite alla possibilità di commissionare ricerche specifiche
oppure di mettere in campo un utilizzo diffuso delle ricerche.
Il partito è un primo attore alle prese con i limiti di budget.
Al riguardo, si potrebbe pensare che gli staff istituzionali, potendo disporre delle risorse
dell’istituzione, possano aggirare con più facilità il vincolo dei costi.
In realtà non è così.
Anche gli staff istituzionali soffrono delle stesse limitazioni. Anzi la loro rappresentazione è
più univoca di quella dei decisori che operano all’interno dei partiti.
Un primo esempio riguarda lo staff di un ministro.
(membro di staff istituzionale, centro-sinistra)
«… No, né riforma RAI, nè ddl Gentiloni, non abbiamo fatti niente di...
… Ecco, allora forse lì la Presidenza del Consiglio un sondaggio su quello che
si poteva fare l'avrebbe dovuto … apro e chiudo parentesi, esempio...
… A noi non ci davano nemmeno i soldi in finanziaria su... non so se è
chiaro!»
Come si evidenzia dal brano, per sbloccare i budget istituzionali non è nemmeno sufficiente
la necessità di comprendere le possibili reazioni ad una riforma molto sentita.
326
D’altro canto, questo secondo brano, proveniente direttamente dalla Presidenza del Consiglio,
mostra come anche a livello centrale di Governo il budget per le ricerche sia limitato o
quantomeno insufficiente a soddisfare le necessità della dirigenza.
(membro di staff istituzionale, centro-sinistra)
«…non li ho avuti… perché non avevo né le risorse né…»
Il problema delle risorse è dunque trasversale ai diversi attori politici.
Ed è piuttosto interessante il caso degli staff istituzionali, nei quali l’etica pubblica vuole che
siano commissionate dal vertice politico solo poche indagini, legate all’attività
amministrativa.
In realtà i grandi budget istituzionali cui si riferivano i ricercatori sono in gran parte
impegnabili in ricerche condotte dalla parte tecnica, che non si occupano di monitorare il
consenso verso gli amministratori.
Pertanto, agli staff politici rimane molto poco.
Si incontra un’assenza significativa anche nel caso dei limiti dovuti ai budget e ai costi delle
ricerche.
In questo caso, non abbiamo incontrato brani che riportino l’esistenza di questo vincolo in
contesti elettorali.
Abbiamo visto che il problema del tempo incide molto nelle campagne elettorali, secondo
una convinzione radicata in letteratura e nelle rappresentazioni di ricercatori e decisori.
Non si incontra la stessa unanimità di vedute per il problema dei limiti di budget. La
letteratura e gli stessi ricercatori ne parlano come di un problema reale. Ma quando si passa
alle interviste ai decisori, sembra un limite confinato all’attività di partito o agli staff
istituzionali. Le rappresentazioni dei decisori coinvolti in competizioni elettorali non
segnalano questo limite come pregnante o significativo.
Sappiamo che nelle campagne elettorali la questione dei finanziamenti è molto pressante e
determinante, forse ancora di più che in altri contesti di azione politica più programmabili e
meno dipendenti da circostanze o eventi imprevedibili.
327
Il fatto che non si siano trovate citazioni dei limiti di budget per l’uso di ricerche nei contesti
elettorali potrebbe stare a significare che in contesti elettorali, di fronte alla limitatezza di
ricorse, la spesa per ricerca non è la prima a essere sacrificata, ma mantiene un livello
significativo di priorità d’importanza.
Il vincolo del budget rappresenta invece un ostacolo specifico per un uso maggiore dei focus
group.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«Tu sai quanto costa un singolo focus group! 15.000 euro. No, te lo dico io! Un
focus group di mezzo pomeriggio che possa funzionare decentemente costa sui
15.000 euro. Ma per fare una ricerca di un certo tipo non ne basta uno. Io
adesso non so quanto costi un abbonamento mensile o annuale con queste
agenzie. Ma certamente non è pensabile fare molti focus group. Si possono fare
in certe occasioni!»
Quello dei focus rappresenta a tutti gli effetti un problema specifico, diffuso trasversalmente.
Il focus group infatti, come abbiamo visto nei capitoli precedenti, è considerato l’altro
strumento di ricerca, oltre il sondaggio, di più frequente utilizzo.
Un utilizzo che però, proprio a differenza del sondaggio, è fortemente limitato dai maggiori
costi e dal maggior numero di ricerche necessarie per ottenere un risultato compiuto.
Vincoli dovuti al sistema elettorale
Altri vincoli “esterni” alle modalità d’intervento delle ricerche nel processo decisionale sono
dettati dai diversi sistemi elettorali.
I sistemi elettorali infatti modificano il campo competitivo, attribuendo, di volta in volta,
livelli di importanza diversi ai vari fattori strategici in gioco. In questo modo, gli attori
politici, nel pianificare le loro azioni e posizioni, necessitano di spostare l’attenzione sulle
risorse che, di competizione in competizione, diventano determinanti per un esito vittorioso.
328
Per seguire questi differenti bisogni conoscitivi, spesso si rendono necessarie ricerche
differenti, o per obiettivi o per metodologia. Oltre a questo, le stesse pratiche d’uso possono
divergere, in particolare per quanto riguarda la diversa possibilità di far seguire direttamente,
ai risultati delle ricerche, conseguenti azioni specifiche, che possono essere più o meno
favorite dal sistema elettorale e dal tipo di competizione.
Alcuni esempi tratti dalle interviste possono mostrare come agisce il condizionamento dettato
dalle regole (formale e reali) delle competizioni.
Il caso forse più eclatante riguarda le indagini sui collegi marginali.
Abbiamo già visto in precedenza, nelle interviste ai ricercatori, come, negli anni in cui alle
elezioni politiche si votava con il sistema uninominale maggioritario, alcuni collegi
considerati in bilico, detti appunto “marginali”, assumessero un’importanza maggiore di altri,
in quanto, concentrando in quegli ambiti un impegno comunicativo maggiore e più efficace,
era possibile determinare l’esito dell’intera competizione nazionale.
Per questa ragione, i partiti commissionavano ricerche specifiche, sia per individuare questi
collegi, sia per comprendere meglio come agire al loro interno in maniera efficace.
Come risulta evidente, l’importanza strategica di questi singoli territori derivava
completamente dal tipo di elezione, che prevedeva appunto il sistema maggioritario con la
presenza dei collegi uninominali.
L’esistenza di questo sistema ha fatto sì che i partiti dovessero attrezzarsi specificamente per
poter competere in maniera efficace, sia da un punto di vista organizzativo, sia da un punto di
vista comunicativo, sia ovviamente anche da un punto di vista della ricerca e delle possibilità
di venire a conoscenza delle informazioni strategiche utili ad agire nella maniera migliore.
Un esempio di questi adattamenti organizzativi lo troviamo nella seguente intervista.
(funzionario di partito, centro-destra)
«… Era una struttura più complessa prevalentemente dal punto di vista
informatico e statistico, per cui si trattava di elaborare questi dati .. avevamo
inventato anche tutta un’elaborazione grafica …
329
… L’idea è nata da Scaiola, poi lo abbiamo aiutato da un lato noi dell’ufficio
elettorale e dall’altro chi gestiva all’epoca il coordinamento territoriale, quindi i
rapporti con il territorio…
…Perché chiaramente tutto questo era innestato al discorso del rapporto con il
territorio, sia per ottenere banalmente i dati, sia per dargli un significato.
… Perché una volta che noi appuravamo che nel collegio 22 c’era una tendenza
positiva, poi occorreva capire chi erano i candidati che avevamo sul territorio,
perché c’era una tendenza positiva, cosa stava succedendo … in modo poi da
decidere che candidato mandare.»
Il brano illustra efficacemente come il bisogno specifico dettato dalle regole elettorali abbia
portato l’organizzazione ad adattarsi e a far crescere al suo interno nuovi strumenti per
accrescere l’abilità di lettura dell’ambiente circostante.
È interessante anche notare come la rappresentazione riporti esplicitamente le possibilità che
tale sistema conferiva in termini di azione, come ad esempio quella di scegliere il candidato
giusto da far correre nel collegio.
Il tipo di relazione ricerche-azione politica che esce da questa rappresentazione è molto
diretto, segno della volontà di restituire una rappresentazione in cui la ricerca è un elemento
fondamentale del processo decisionale, quasi in modo anomalo rispetto alle numerose
mediazioni che abbiamo evidenziato nel capitolo precedente.
Con la modifica della legge elettorale, cambia il campo della contesa e cambiano anche le
risorse da considerare come strategiche e determinanti per l’esito elettorale.
La legge diventa proporzionale, con premio di maggioranza, da calcolare su base nazionale
alla Camera dei Deputati e regionale al Senato della Repubblica.
Non esistono più i collegi, né dunque quelli marginali. Tutti i sistemi di ricerca e
organizzativi adottati per far fronte a quelle necessità vengono smantellati.
La competizione torna ad essere principalmente sul livello nazionale. Le risorse strategiche
tornano ad essere a quel livello: la credibilità della leadership, una comunicazione efficace, il
sistema di alleanze.
L’unico approfondimento che si rivela necessario riguarda il voto regionale, che determina
appunto il premio di maggioranza al Senato.
330
(funzionario di partito, centro-destra)
«La cosa è molto cambiata rispetto all’oggi fondamentalmente perché agendo
su aggregazioni territoriali molto più ampie, prima di tutto non c’è più il
problema dei collegi marginali … al limite ci sono regioni incerte ma bastava
aprire qualunque giornale per saperlo. Quindi tutto questo apparato di
preparazione delle elezioni sullo dato territoriale così approfondito di fatto non
ci serve più. E la stessa macchina del partito ha assunto caratteristiche meno
capillari. … Quindi è proprio un altro mondo. E quindi tutto ciò che occorre
come supporto di questa cosa non ha più ragion d’essere. Quindi il sondaggio
viene gestito non più tanto dalla struttura del partito, quanto direttamente da
Berlusconi e i suoi interlocutori nella struttura di comunicazione del partito …»
Un altro brano, ad esempio, insiste sulla specificità del premio di maggioranza regionale al
Senato, che rende necessari alcuni approfondimenti di ricerca nell’ambito regionale.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«…Così come abbiamo utilizzato sempre lo stesso strumento per fare le
indagini territoriali, per capire su quali regioni insistere. Soprattutto per il
Senato, che eravamo in bilico…»
Occorre considerare che la nuova legge elettorale, prevedendo il premio di maggioranza al
Senato su base regionale, assegna a singole Regioni (quelle in bilico, “marginali” come i
collegi visti prima) la possibilità di determinare l’esito elettorale del Senato stesso e, di
conseguenza, condizionare la stabilità degli esecutivi, visto il bicameralismo perfetto previsto
dalla Costituzione.
In questo caso, dunque, gli attori politici si sono attrezzati con indagini più approfondite su
alcune Regioni, quelle appunto potenzialmente contese e contendibili.
Risalta in tutta la sua evidenza come la necessità di approfondimento sia determinata dalla
legge elettorale e dal conseguente bisogno di conoscere le Regioni in bilico, approfondirne
l’analisi, per poter poi programmare eventuali specifiche azioni di comunicazione.
331
Infine, un ultimo esempio del condizionamento dettato dal tipo di competizione e dalle regole
elettorali è riportato in un brano che si concentra, più che sugli obiettivi di ricerca, sulle
possibilità di utilizzo efficace di questi dati.
(funzionario di partito, centro-destra)
«…Per esempio delle analisi di micro-marketing di vari tipi legati al territorio
che forse potrebbero darci di più, però dopo di che è anche vero che la
campagna nazionale è la campagna nazionale e quindi diventare
eccessivamente matti, insomma …»
Il riferimento è sempre alla legge attuale, di tipo proporzionale e nella quale la maggior parte
delle risorse strategiche sono concentrate nell’ambito nazionale.
In questo brano, l’intervistato accenna ad alcune indicazioni che, secondo la sua
rappresentazione, potrebbero costituire un miglioramento delle ricerche e delle loro capacità
di lettura della società.
Ciò che interessa, però, è osservare come opera il condizionamento dettato dalle regole della
competizione. In questo caso, le regole elettorali vanificano le spinte ad un affinamento delle
ricerche, in quanto il tipo di competizione, totalmente nazionale e accentrata, impedisce ogni
possibilità di utilizzare efficacemente messaggi differenziati e segmentati a seconda di
pubblici o ambiti territoriali differenti.
Anche le indagini di “micro-marketing” su ben delimitati ambiti territoriali, pur accrescendo
di molto le capacità di lettura della società, diventano strumenti difficilmente utilizzabili in un
tipo di contesa dominata dalla dimensione nazionale.
Significativamente, dunque, non sempre la spinta al miglioramento delle attività di ricerca
rappresenta un beneficio per la politica e per i processi decisionali.
A causa del tipo di competizione o di altri eventuali fattori, la priorità può diventare quella di
avere informazioni facilmente utilizzabili e dunque centrate non tanto su letture approfondite
della società, quanto piuttosto sulla capacità di offrire le specifiche informazioni che
ricoprono una funzione determinante a seconda del tipo di competizione originata dai diversi
sistemi elettorali.
332
Differenze di pratiche fra attori di ambito diverso (partiti/staffistituzionali/attori locali)
Abbiamo già evidenziato l’importanza, emersa dall’analisi della letteratura e anche dalle
stesse interviste ai ricercatori, di suddividere la ricognizione delle pratiche d’uso delle
ricerche in politica secondo tre categorie omogenee di attori politici: funzionari di partito,
membri di staff politici all’interno di istituzioni principalmente di Governo, attori politici
locali particolarmente amministratori e candidati a cariche monocratiche elettive di livello
locale.
Il tipo di attività svolta rappresenta infatti una delle condizioni che può portare a pratiche
d’uso della ricerca differenti.
Nei paragrafi precedenti, abbiamo già incontrato alcune linee di frattura in cui questa
categorizzazione può costituire un motivo per un posizionamento differente nelle diverse
questioni.
Sono però rimaste escluse dall’analisi alcune altre questioni che emergono dalle interviste.
Il punto fondamentale è che la diversa attività svolta porta a delle differenze notevoli circa i
bisogni conoscitivi da soddisfare attraverso le ricerche socio-politiche.
Un esempio riguarda l’utilizzo delle informazioni ambientali, cioè di quelle indagini intese a
monitorare in maniera più o meno continuativa l’opinione pubblica nel suo complesso. L’uso
di ricerche sull’opinione pubblica cambia infatti a seconda del tipo di attore politico.
Per quanto riguarda i partiti, ad esempio, la conoscenza degli ambienti di riferimento (interni
ed esterni) è senz’altro cruciale. A questo fine sono infatti dedicate le risorse impiegate in
ricerca, anche in forma di supplenza delle carenze offerte, nella forma partito attuale, dalla
rete informativa costituita dal radicamento territoriale.
L’importanza delle informazioni ambientali è confermata da questo brano.
(funzionario di partito, centro)
«… a me serve moltissimo le indagini su, per esempio, chi sono gli elettori del
PC, quelli attuali, quali sono gli elettori potenziali, per capire anche a quali
333
mezzi sono esposti, per cui devo capire se una campagna su internet mi
conviene e se si quali sono i siti migliori da pianificare, se conviene puntare
sull'esterna oppure su alcuni periodici, per cui se io so che ho un target
prevalente, che ne so, gli insegnanti, posso fare una pubblicità su delle riviste
specifiche dove magari spendo meno rispetto a un quotidiano generalista dove
non ho un ritorno altrettanto forte, quindi, diciamo così, che il
... una cosa importante è anche l'analisi più precisa e puntuale possibile di
quello che è l'elettorato vero potenziale, quindi la definizione del target, questo
poi aiuta a mirare il messaggio e il mezzo col quale raggiungere questo
pubblico»
In questo caso vediamo come la rappresentazione si concentra sulla necessità di avere
informazioni sull’ambiente in cui l’attore politico è inserito.
Trovo inoltre interessante l’accento posto sulla conoscenza non solo dei pubblici e delle loro
opinioni, ma anche delle abitudini di informazione, che è esplicitamente legata ad un uso da
parte del partito volto a entrare in contatto con specifici pubblici secondo una elevata
“segmentazione dei pubblici”.
La rappresentazione dell’uso delle ricerche che ne esce dunque mostra un intervento più
diretto e automatico delle ricerche nella pianificazione dell’attività politica.
In questo caso, i vari condizionamenti, freni, variabili che abbiamo introdotto in precedenza
non limitano la possibilità di restituire una rappresentazione così vicina alla visione
mainstream.
Si tratta comunque di un’eccezione nella vasta mole di materiale raccolta con le interviste.
Altri partiti mostrano infatti un approccio meno diretto.
Sempre per quanto riguarda i partiti, oltre all’approccio generale, dalle interviste emergono
alcuni usi delle ricerche che possono essere considerati specifici di questi attori politici, pur
senza trarne un giudizio di generalità.
Un punto è relativo al metodo di lavoro e alle modalità di intendere la committenza.
La necessità di ottenere soprattutto informazioni ambientali costringe il partito ad operare in
un campo assai visto e difficile da dominare.
La sola attività di ricerca, dunque, rischia di non esser sufficiente.
334
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«Il nostro lavoro poi io ho cercato di impostarlo incrociando riunioni più che
altro mensili con degli esperti delle dinamiche dell’opinione pubblica, per
ragionare con loro sui dati che ci venivano forniti dai due istituti. … Ecco, una
specie di board largo, per cercare di incrociare i dati quantitativi in un
brainstorming con persone che fanno questo di mestiere. »
Il brano precedente mostra gli sforzi compiuti da un punto di vista organizzativo per mettere
assieme pratiche capaci di dominare un campo così vasto.
Come già emerso dalle interviste ai ricercatori, i partiti tendono a esprimere una visione della
ricerca peculiare. Gli stessi ricercatori vengono chiamati a collaborare non più solo come
produttori di ricerche, ma anche prima di tutto come “esperti”, depositari di un sapere che
deriva dall’attività professionale, ma non legato a strumenti messi in atto per rispondere a
esigenze specifiche.
Si tratta di un’evoluzione del concetto di ricerca già segnalata come rilevante dagli stessi
ricercatori e che lascia intendere come le necessità percepite dai decisori fatichino a trovare
risposta nell’attività di ricerca.
Le informazioni ambientali possono poi subire varianti significative.
Abbiamo già incontrato nei capitoli precedenti delle citazioni di ricerche commissionate per
ottenere approfondimenti particolari, sia in relazione a tematiche specifiche, sia in relazione
ad una maggiore focalizzazione su determinati ambiti territoriali.
Anche nelle interviste ai decisori si ritrovano queste occasioni, nelle quali anche il processo
decisionale e il ruolo in esso giocato dalle ricerche assumono forme particolari.
I brani seguenti riguardano ricerche commissionate per approfondire temi specifici.
L’interesse per queste rappresentazioni riguarda soprattutto la percezione circa il risultato e le
azioni conseguentemente messe in atto.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
335
«Sì, lo scorso anno noi abbiamo commissionato, ecco in quel caso a SWG, una
campagna di profondità sui temi della sicurezza. In base a quei dati noi
abbiamo calibrato una campagna politica sui temi della sicurezza.
… Per esempio questa sulla sicurezza è stata utile … Ad esempio è emerso in
maniera molto evidente, molto più di quanto pensassimo, che c’è un tema
legato alla sicurezza, che è quello del degrado urbano. Questo è un tema che
noi altrimenti avremmo sottovalutato.»
Si tratta di uno dei pochi brani in cui è presente non solo un giudizio generico sull’utilità delle
ricerche, ma anche una chiara rappresentazione del tipo di utilità data dai risultati delle
ricerche.
In questo caso, pare significativa la considerazione su come l’approfondimento abbia fatto
emergere conoscenze non scontate, che anzi senza la ricerca sarebbero state sottovalutate.
Ed è interessante anche l’evidente volontà di rappresentare la consequenzialità esistente fra il
bisogno conoscitivo soddisfatto dalla ricerca e l’azione politica messa in atto.
Ma l’uso di indagini approfondite si trova anche in un contesto diverso, quello di una
campagna elettorale svolta da un attore locale.
(attore locale, centro-destra)
«… Però anche nella sicurezza, noi attraverso queste interviste telefoniche
abbiamo capito una cosa importante. Cioè la gente era disponibile a mobilitarsi
sul tema sicurezza ritenendoci portatori di una maggior credibilità. Ma era
terribilmente contraria a una gestione angosciosa di questa faccenda. E per
questo abbiamo fatto delle iniziative colorate, di riappropriazione della città,
con la gente in piazza. Perché siccome sono dati psicologici, succede che poi la
gente è davvero angosciata. E se tu sei portatore di angoscia, li respingi. Ora
questo è un dato molto raffinato. »
Le indagini commissionate con l’obiettivo di approfondire singoli e specifici temi sembrano
dunque in grado di suscitare maggiore soddisfazione da parte dei decisori. Da segnalare che,
nel secondo caso, ciò si accompagna anche alla possibilità di mettere in atto azioni di
336
comunicazione particolari, che, nella rappresentazione del decisore, vengono
significativamente narrate come direttamente conseguenti ai risultati emersi dalla ricerca.
Simili approfondimenti possono riguardare non solo ambiti tematici, ma anche livelli
territoriali, come messo in luce dal brano seguente.
(funzionario di partito, centro)
«…e poi abbiamo utilizzato un po’ a livello locale, quando serviva, abbiamo
fatto delle ricerche anche regionali, sono state molto utili, insomma fatte molto
bene, devo dire. »
In questo caso, le esigenze del partito portano alla necessità di ottenere dati maggiori su aree
territoriali ridotte, come ad esempio una singola Regione.
Le indagini ambientali assumono caratteristiche diverse, invece, quando si passa a decisori
politici di ambito diverso, come ad esempio i politici che operano in staff istituzionali.
(membro di staff istituzionale, centro-sinistra)
«…Ora, quello che interessa a me, sarebbe servito a me, era…avere degli
strumenti che … mi suggerissero delle suggestioni, non il contrario, cioè essere
lettore di percezioni.
… Ho provato a mettere insieme alcune cose che avevano quell’indicazione …
ma devo dire, non siamo attrezzati nemmeno con gli strumenti ...
… mi riconfermava che avevamo dei problemi ma non mi a dava le soluzioni,
non mi aiutava a trovare delle soluzioni.
Questo un po’ il tutto e allora a quel punto non abbiamo nemmeno forzato tanto
lo strumento…
…cioè io non voglio imparare ex post …
… questo tipo di strumento di lettura della società da cui poi tu trai… a quel
punto ti dice qualcosa. Poi tu ti prendi la responsabilità politica …
Lo sai prima, lo dichiari, ti attrezzi in un confronto su quella cosa e vai avanti.»
337
In questo caso, l’esigenza data dalla posizione di Governo non è quella di avere delle
semplici informazioni sull’opinione pubblica. È evidente l’insoddisfazione del decisore per
tali strumenti. Ciò di cui avrebbe bisogno è indicazioni che possano aiutare la fase di
Governo a comprendere come le azioni possono essere percepite nel lungo periodo, oltre che
ottenere “suggestioni” e risultati capaci non solo di fare emergere i problemi, ma anche di
“trovare delle soluzioni”.
Non è affatto chiaro ciò che il decisore intenda con questa rappresentazione. Ciò che emerge
invece con chiarezza è che il passaggio ad un ruolo di Governo, cioè dalla politics alla policy,
comporta il dover mettere in campo nuove abilità, come quella di tenere assieme il consenso
con le politiche.
Ragione per cui le ricerche sulla semplice lettura della società non sono più rispondenti ai
bisogni del decisore. Tanto che, in questo campo, egli mette in atto un tentativo di fornirsi di
strumenti differenti, che però va a vuoto.
I brani riportati rappresentano solo semplici esempi. In realtà sono molti altri i casi che si
potrebbero citare e in alcuni casi abbiamo già incontrato, anche in altre parti dell’analisi,
differenziazioni dettate dal tipo di attività politica svolta.
Ciò che si voleva sottolineare è che il ruolo ricoperto porta con sé funzioni, logiche,
meccanismi peculiari, che possono divergere da quelli di altri ruoli.
In questo modo, tutta l’attività politica non può che esserne condizionata. A partire
ovviamente dalle specifiche necessità di conoscenza della realtà esterna, che vengono
declinate diversamente a secondo che ci si riferisca a partiti, staff istituzionali, attori locali. Di
conseguenza, il tipo di ricerche utilizzate può variare, così come possono essere differenti le
pratiche di utilizzo, il legame con il processo decisionale, i giudizi, le retoriche.
5.4 Primato della dimensione politica
Tra le varie forme di intermediazione del rapporto fra ricerche e decisione politica che
emergono dalle rappresentazioni offerte dalle interviste, una spicca per interesse potenziale
degli esiti e per quantità e qualità di citazioni, ed è un punto che potremmo chiamare “primato
della dimensione politica”.
338
Le cosiddette “scelte strategiche”, le decisioni importanti, che possono avere una ricaduta di
medio e lungo periodo, sarebbero prese innanzitutto dai politici, con un uso preponderante,
rispetto alle informazioni raccolte tramite la ricerca, della loro sensibilità “politica”.
Il primato della politica può vedere pratiche anche molto differenti fra di loro.
Pertanto è importante illustrare la varietà di situazioni che possono essere racchiuse in questo
concetto.
In un secondo momento, si cercherà di vedere come il primato della dimensione politica si
declina nelle pratiche dei diversi attori politici, o meglio, dei diversi ambiti che segnano la
quotidianità degli attori politici: partiti, attori locali, staff politici che operano nelle istituzioni.
Rappresentazioni diverse del primato della politica
Il primato della dimensione politica è rappresentato in diversi modi. Ne parlano intervistati di
culture differenti e che operano in ambiti differenti.
E spesso ne parlano con giudizi, sensazioni, narrazioni, retoriche molto diverse.
Infatti, nelle interviste che narrano di questo primato della “dimensione politica”, l’uso del
termine “politico” è utilizzato dai singoli intervistati anche con connotazione molto
divergenti.
Non è mai esplicitato cosa si racchiuda in questo termine, in cosa consista e di quali elementi
sia costituita la “dimensione politica”. Chiarirlo, richiederebbe, con ogni probabilità, una
discussione di natura filosofico-ideale che non rientra nei nostri obiettivi d’indagine.
La “dimensione politica” diventa una sorta di “jolly”, un concetto che racchiude logiche
diverse tenute assieme solo dal fatto di appartenere allo stesso campo, quello della politica in
senso ampio.
Ciò che conta è che il primato della dimensione politica nel processo grazie a cui escono le
decisioni è pressoché universale, trasversale alle diverse culture politiche, al tipo di attore
politico o alla situazione.
Alcuni brani aiutano a cogliere alcune di queste molteplici facce che il concetto di “primato
della dimensione politica” può assumere.
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Una prima modalità interessante di declinare il concetto è quella di proporre gli elementi
della dimensione politica come vincoli al “libero” processo decisionale, che strutturano il
campo riducendo il ventaglio delle possibilità.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«… direi che … c’è già a priori dettato dalla sensibilità politica un
restringimento, un restringimento…del campo. All’interno di questo
restringimento del campo si raccolgono dati, questi dati vengono esaminati ed
interpretati dal, sostanzialmente dal decisore politico e poi il decisore politico
restringe il campo della comunicazione che fornisce alla società di
comunicazione alcune indicazioni di massima sulle quali lavorare che poi
vengono tradotte dalla società di comunicazione in messaggio, nel messaggio,
insomma, sostanzialmente. E anche a quel punto alla fine il decisore politico
non è che acquisisca puramente e semplicemente, ma interviene anche per
modulare diciamo così, magari modificare parzialmente…»
In questa rappresentazione esistono due processi che si intersecano. Da un lato, il “libero”
processo decisionale, che si intuisce dovrebbe essere razionale, basato sui dati provenienti
dalla ricerca e che dovrebbe produrre azioni politiche o comunicative strettamente collegate
ai risultati dell’analisi. Dall’altro, vi sono tutta una serie di “sensibilità” portate in dote dal
decisore politico, che intersecano il processo decisionale, vincolandolo e orientandolo.
La dimensione politica interviene una prima volta individuando il campo delle problematiche
sulle quali sono richieste le informazioni ambientali. I dati vengono dunque raccolti
all’interno di questo ambito già disegnato dagli orientamenti del decisore. Un successivo
passaggio “politico” riguarda poi l’interpretazione dei dati, che viene filtrata appunto dal
decisore e così passata ai comunicatori incaricati di trasformare il tutto in messaggi. Perfino
sul prodotto finale rimane un margine di discrezionalità a favore del decisore stesso, che va a
costituire un nuovo vincolo politico al processo decisionale.
Non si tratta dell’unica modalità di rappresentare il “primato della dimensione politica”.
Un secondo modo chiama in causa una concezione più “etica”. Il modo in cui la dimensione
politica interviene non più legato solamente a una “sensibilità” che produce vincoli, ma ad
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una “responsabilità” che impone delle scelte anche contrarie alla gestione del consenso. Le
ricerche dunque non vengono filtrate o condizionate. Semplicemente non vengono utilizzate,
in quanto le decisioni da assumere rispondono a logiche che non hanno nulla a che vedere
con la lettura delle opinioni.
(membro di staff istituzionale, centro-sinistra)
«C'è un dato, diciamo, che riguarda la cultura prevalente (...) che ti permette di
contestare, senza nessuna pretesa di tirare fuori antichi e superatissimi concetti
come quello dell'avanguardia o della supremazia o superiorità della politica... io
però contesto la politica che insegue, nel senso che… purtroppo la politica … è
anche fare alcune cose che non piacciono, per cui … invece la tendenza degli
ultimi anni a usare il sondaggio secondo la formula “Dimmi cosa vuoi sentirti
dire che io te lo dico” è antitetica spesso a una politica di governo corretta.»
Il brano è inoltre significativo perché presenta un artificio retorico interessante. Da una parte
si sostiene l’assoluta priorità della dinamica politica, ma dall’altro si nega questa
“supremazia”. È evidente la presenza di un paradosso che potrebbe essere originato dalla
pressione sociale a considerare negativo il mettere in secondo piano le ricerche
demoscopiche, quasi come fosse un segno di un rifiuto della modernizzazione della politica.
Da un lato dunque il decisore accetta la visione culturale dell’uso delle ricerche in politica
come segno di modernità. Ma nella prassi se ne discosta, ritenendo invece prioritario seguire
la responsabilità politica e argomentandolo ampiamente anche con considerazioni generali
sulla deriva che la politica attuale avrebbe preso.
È chiaro che qui la critica è rivolta ad un uso sconsiderato o eccessivo. Ma è altrettanto
evidente la difficoltà del decisore politico nel tenere assieme all’interno del discorso una
prassi in cui la sensibilità politica è fondamentale ed un ipotetico uso “corretto” delle
ricerche.
Una terza rappresentazione introduce invece una interpretazione totalmente differente del
“primato della politica”.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
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«…è anche vero che spesso e volentieri vengono utilizzati in maniera…Come
strumento anche di critica…di lotta politica
…Ognuno si fa fare i suoi sondaggi.
…Si chiamano correnti. Cioè funziona che … i dalemiani hanno i loro istituti
di sondaggi, i popolari hanno i loro istituti di sondaggi, i rutelliani hanno i loro
istituti di sondaggi!
…Cioè l’utilizzo del sondaggio in politica italiana … è potere, nel senso chi fa i
sondaggi ha un pezzo di potere in più…
… E soprattutto ha un meccanismo, ha un’indicazione per cui sa che si sta
andando a sbattere prima degli altri…»
In questo caso, il primato della politica è costituito dalla sottomissione dell’utilizzo delle
ricerche a una logica di lotta interna ad un partito. Una competizione in cui i risultati di
ricerca possono diventare una risorsa strategica, da utilizzare strumentalmente per affermare
la propria posizione.
In questo caso, dunque, si utilizza un concetto di “politica” che coincide con la competizione
per la supremazia interna al partito e che non ha nulla a che vedere con il processo che
origina le azioni e le posizioni politiche.
Si tratta di un modo di intendere la questione che conduce ad un esplicito giudizio negativo.
Un ultima declinazione del “primato della politica” mostra un’ulteriore faccia di questo
concetto.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«… La risposta più banale è la presunzione della politica, però questa è una mia
interpretazione.
….Io la chiamo presunzione comunque, però purtroppo... perché? Perché in
verità la politica pensa che può piegare tutto quello che tocca ai suoi interessi, a
quello che è più facile, ecc., ecc. »
Questa volta siamo di fronte nuovamente ad una rappresentazione in cui la sensibilità politica
entra nel processo decisionale per orientarlo, anche in una direzione diversa da quella
suggerita dai risultati di ricerca.
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Ciò che cambia, rispetto ad alcune visioni precedenti, è il giudizio del decisore. Che in questa
occasione è esplicitamente negativo, tanto da modificare anche le retoriche, passando dal
“primato” alla “presunzione”.
Un passaggio significativo, che, a mio avviso, identifica, più che un rifiuto totale del primato
della dimensione politica, il rifiuto della sua applicazione eccessiva ed incontrollata.
Scelte strategiche nella vita di partito
Nelle narrazioni riguardanti gli attori che operano all’interno dei partiti troviamo numerosi
esempi di utilizzo delle ricerche condizionato dal primato della dimensione politica.
Per quanto riguarda la vita ordinaria di partito, le scelte strategiche riguardano decisioni che
mettono in gioco indirizzi di medio e lungo periodo e in cui sono contenuti i maggiori rischi e
le maggiori opportunità per la vita di un’organizzazione complessa come quella di un partito.
Per questa ragione, le scelte strategiche rappresentano il momento nel quale si concentrano le
maggiori aspettative anche circa l’utilizzo di indagini sociali e demoscopiche.
Tra di esse possono rientrare la definizione delle alleanze con altre forze politiche o i
cambiamenti dell’assetto valoriale dello stesso partito.
Un esempio molto interessante e relativamente recente riguarda la nascita del Partito
Democratico, avvenuta a seguito di un processo fondativo in cui due importanti partiti del
centro sinistra, Democratici di Sinistra e La Margherita-Democrazia e Libertà, hanno scelto
di confluire in un più ampio soggetto politico che unifichi le diverse culture riformiste
dell’area di centro sinistra.
Una tale scelta rappresenta senz’altro una decisione strategica, in grado di condizionare
potenzialmente la vita di questi partiti per un orizzonte di lungo periodo.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«… il caso, per esempio, … del rapporto con l’Ulivo o il Partito democratico...
… si direi che, in quel caso, le dinamiche politiche hanno fatto decisamente
premio su qualunque altra valutazione diciamo, come dire di opportunità. Cioè
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non si decide un passaggio politico di quel tipo sulla base dell’aspettativa
dell’elettorato, sulla base dei dati di un sondaggio per quanto raffinato. La
dinamica politica poi è quella decisiva.»
Il brano mette in evidenza la necessità da parte del decisore di negare che una scelta di tale
importanza avvenga sulla base di indicazioni provenienti dai giudizi dell’opinione pubblica.
Nonostante l’obiettivo di tali scelte sia ovviamente legato alla speranza di ottenere maggiore
consenso politico, la misurazione dell’opinione pubblica non guida il processo.
È evidente, pertanto, che un tale comportamento si giustifica solo ipotizzando che per il
decisore la sensibilità politica sia maggiormente capace, rispetto alle ricerche, di individuare
le soluzioni che alla lunga porteranno al maggiore consenso. Che può essere originata da due
fattori differenti, o da entrambi congiuntamente: l’idea che le ricerche diano come risultati
indicatori non capaci di compiere previsioni del comportamento politico; l’idea che il
decisore politico sia depositario di un sapere superiore a quello presente nella consapevolezza
dei cittadini.
Nonostante questo, alcune ricerche vengono comunque svolte.
Ma la loro funzione non è quella di orientare la scelta. Le pratiche di utilizzo vengono messe
in atto a posteriori, a scelta già compiuta, per verifica o conferma di scelte già compiute,
secondo quanto abbiamo avuto modo di illustrare e sottolineare nel paragrafo precedente.
È interessante notare come siano gli stessi decisori a relegare ad un ruolo decisamente
secondario le ricerche, indicando come se anche l’informazione da esse ricevuta fosse stata in
contrasto con la scelta compiuta non se ne sarebbe tenuto conto.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«… è stata fatta una ricerca ad hoc su, appunto, sulla percezione che c’era
nell’elettorato della Margherita e nell’elettorato in generale rispetto a, alla
Margherita, alla sua utilità, diciamo, e al rapporto tra l’esistenza della
Margherita e la prospettiva di un soggetto che poi è diventato il Partito
Democratico.
…Praticamente, immediatamente perché poi, se non ricordo male è
nell’autunno del 2006 che c’è l’accelerazione verso il Partito Democratico. Ed
è in quel momento lì che noi ci forniamo di questi strumenti per capire
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l’aspettativa nei confronti di questo nuovo soggetto. Ecco. Che sostanzialmente
conferma che c’è una forte aspettativa nei confronti del soggetto unitario e che
in qualche modo insomma, avvalora una decisione che in qualche modo era
stata assunta e che da un punto di vista politico si sarebbe assunta comunque.
Ecco perché dico che ,alla fine, non è il sondaggio che di per sé decide.
… non era certo, non era certo dettato dall’aspettativa dell’elettorato ma da
dinamiche tutte interne al partito …»
In questo caso il problema fondamentale della ricerca era di comprendere come l’elettorato
del partito di origine avrebbe colto la novità rappresentata dalla confluenza del partito nel
nuovo soggetto.
L’attenzione dunque non era a comprendere l’opinione prevalente e le possibilità di successo
della scelta strategica, ma piuttosto la “tenuta” del partito di origine, che significativamente
rappresenta l’aspetto più rilevante della scelta. In questo caso dunque la prevalente
dimensione “politica” fa riferimento alle problematiche relative al consolidamento del
consenso interno, con ogni probabilità anche in vista della possibilità di mantenere, nel nuovo
partito, le proprie posizioni senza diminuire di potere e di influenza.
Sempre sulla scelta circa la costituzione del Partito Democratico, è molto esplicito un altro
brano.
(membro di staff istituzionale, centro-sinistra)
«… ho la sensazione che sulla nascita del Partito Democratico non ci sia stato
molto ... anche perché ormai era una cosa anche politicamente decisa … un
processo inarrestabile.»
Interessante, poi, che un modello molto simile si possa ritrovare anche in un altro caso di
costituzione di una nuova forza politica, questa volta nell’area del centro-destra.
(funzionario di partito, centro-destra)
«MC: Altro momento particolarmente, mi sembra, rilevante …la nascita del
partito unitario, il Partito della Libertà…In quel tipo di operazione c’è un
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supporto della ricerca specifica o anche quella nasce, come dire, da una
dimensione di lettura più politica?
I: Sempre la seconda.»
In questo modo, esce senz’altro rafforzata l’idea che, nei grandi momenti strategici della vita
di un partito, il primato della dimensione politica sia una logica senz’altro preponderante, in
grado di mettere in secondo piano il ruolo delle ricerche.
Scelte strategiche in contesti elettorali
Anche nei contesti elettorali troviamo molti esempi di primato della dimensione politica e di
un conseguente uso ridotto delle ricerche nel processo decisionale.
Un primo ambito in cui possiamo inserire gli esempi riguarda le scelte relative alle strategie
di comunicazione, particolarmente in una situazione elettorale.
Nel brano seguente ne troviamo un primo esempio.
(funzionario di partito, centro-destra)
«… noi ne teniamo conto perché evidentemente sapere ... quali sono i temi o il
pensiero sul singolo tema è comunque un punto di vista che per noi è utile, però
le nostre campagne elettorali normalmente venivano costruite anche su altri…
elementi …
…C’è una dimensione politica… E comunicativa e c’era una dimensione di
inventiva o di guizzo, direi, che è tipica di Berlusconi perché fa parte delle sue
caratteristiche … quindi su queste poi ci si confronta e si arriva a una decisione
oppure no
… non siamo determinati da quello che i sondaggi dicono…»
In questo caso, la dimensione politica coincide sostanzialmente con la superiore capacità di
lettura e inventiva riconosciuta al leader della formazione. Nella rappresentazione di questo
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decisore, le doti del singolo leader sono tali da rendere le ricerche non più il principale
strumento nella definizione della strategia di comunicazione.
Un caso simile si trova anche nel campo avverso, nel principale partito dell’area di centro-
sinistra.
Abbiamo già visto in precedenza come la campagna elettorale condotta dal Partito
Democratico per le elezioni politiche del 2008 abbia visto un limitato intervento di ricerche
socio-politiche, e per le condizioni obbligate in cui il partito si è trovato, e per il poco tempo a
disposizione vista la caduta anticipata e per certi versi improvvisa del Governo Prodi.
La scelta principale compiuta dal PD nell’impostare quella campagna elettorale è senz’altro
l’idea di correre da soli, senza stringere alleanze con le numerose forze del centro-sinistra (ad
eccezione dell’Italia dei Valori di Antonio di Pietro).
Secondo la ricostruzione, anche incrociata, di numerose interviste, proprio quella decisione si
configura come un esempio abbastanza eclatante di primato della dimensione politica, in cui
la sensibilità politica del decisore principale, il leader di partito e candidato alla premiership
Valter Veltroni, similmente a quanto avviene nel centro-destra con Silvio Berlusconi, ha un
ruolo determinante nell’elaborazione della strategia elettorale.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«…No, su questo no, cioè sull'impostazione strategica no, quella è stata una
scelta fatta......Molto, puramente di tipo politico, cioè la scelta di correre da
soli, correre liberi come ha detto Veltroni è una scelta che è stata fatta a
prescindere da quella che ritenevamo potesse essere la risposta, scelta convinta
data dall'analisi dei venti mesi, ed è una scelta strategica di fondo per il Partito
Democratico,
… quella è una scelta strategica non fatta in ragione di calcoli … è una scelta
puramente politica.»
La rappresentazione del processo che ha portato a questa scelta punta con grande evidenza sul
primato di una logica decisionale di tipo politico, da perseguire anche senza il supporto di
indicazioni nette provenienti dalla ricerca. L’implicito è che la sensibilità politica, in questo
caso, è maggiormente affidabile della ricerca nel cogliere il potenziale di questa scelta.
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In realtà, dal confronto con altri brani, emerge come alcune ricerche siano state svolte.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«Però sicuramente ci eravamo accorti che dopo il 14 ottobre c’è stata una
richiesta forte di innovazione, di rinnovamento. E i sondaggi ci segnalavano
una difficoltà del centrosinistra, in particolare per la presenza, no, per la
presenza di piccoli partiti ritenuti ingovernabili, inaffidabili e quindi abbiamo
fatto nostra questa richiesta di semplificazione…. Questa cosa ci ha dato
ragione, perché nel momento in cui abbiamo dichiarato che andavamo da soli,
che il partito si presentava con una vocazione maggioritaria, che ci
presentavamo con un unico candidato e un solo simbolo alle elezioni politiche,
abbiamo guadagnato tantissimi punti nel giro di pochissime settimane.»
In questo caso, dunque, le ricerche entrano nel processo decisionale solo per confermare una
sensazione di difficoltà politica. Dalla quale scaturisce poi la scelta di correre da soli. Il ruolo
delle ricerche, dunque, è limitato a individuare i problemi, mentre nella definizione delle
ipotesi di soluzione mantiene un ruolo subordinato alla sensibilità politica del decisore.
Più esplicito ancora, in questo senso, è il brano seguente.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«I:… Chiaramente Veltroni aveva da mesi sul tavolo i dati che dicevano che il
Governo… C’è stato subito un segnale di forte gradimento, ma sono le cose
che uno si sente se fa politica…
MC: … E se questa domanda avesse dato un esito contrario a quelle che erano
le aspettative?
I: Secondo me si sarebbe andati avanti lo stesso.»
Due sono gli elementi di interesse di questo brano.
Il primo riguarda la retorica utilizzata per definire la sensibilità politica. L’idea che il leader
politico “senta” la correttezza delle scelte rivela una visione a-razionale assai interessante,
che aiuta a legittimare concettualmente l’idea del primato della dimensione politica
sull’utilizzo tecnico-razionale delle ricerche.
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Il secondo riguarda l’affermazione che, se anche i risultati di ricerca fossero stati contrari alla
decisione assunta, si sarebbe proceduto ugualmente. Un brano che conferma come l’uso di
ricerche a posteriori possa spingersi a ignorare le ricerche stesse per non sfiduciare una
decisione già assunta, come abbiamo avuto modo di illustrare nei paragrafi precedenti.
Sempre in relazione alla campagna condotta dal Partito Democratico nel 2008, troviamo
ulteriori conferme dell’idea della supremazia della logica politica e, in particolare, del
primato della visione espressa dalla leadership.
In questo caso, abbiamo a che fare non più con le grandi questioni di approccio della
campagna elettorale, come la definizione del sistema di alleanze, ma con le più tattiche scelte
sulle singole azioni di comunicazione.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«MC: il discorso di Spello…
I: Questa è una scelta di Veltroni … è una scelta che ha fatto Veltroni,
un’intuizione...
MC: E il giro del pullman…
I: Anche questa è una scelta del segretario …
MC: … La questione delle candidature…
I: No, quella è una scelta politica del segretario,
MC: Mentre i disegni di legge …
I: Veltroni. »
Trovo molto significativo che, anche in questo caso, la rappresentazione fornita tenda ad
assegnare alla sensibilità del leader tutte le scelte di comunicazione principali della campagna
elettorale.
Trattandosi non più di scelte strategiche, ma tattiche, ci si poteva aspettare che, data anche
l’estrema professionalizzazione del campo politico e in particolare dell’ambito elettorale, tali
scelte fossero lasciate a una visione tecnica della questione, più vicina anche concettualmente
ad un uso marcato delle ricerche.
In realtà questo non si avvera e il ruolo del candidato premier rimane fondamentale anche
nell’elaborazione delle soluzioni tattiche principali della campagna, nelle quali le ricerche (e,
più in generale, un apporto professionale) sembrano non trovare spazio.
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Come visto in precedenza, il fattore tempo ha giocato un ruolo importante nella minore
possibilità di utilizzo delle ricerche nella campagna elettorale del 2008. Ma non si tratta di un
fattore sufficiente a giustificare il brano precedente, nel quale non vi è un solo accenno al
fattore tempo né ad altri condizionamenti, lasciando in questo modo intendere che il primato
attribuito alla sensibilità del leader fosse tutt’altro che una scelta dettata dalle circostanze.
Scelte strategiche in contesti locali
Per quanto riguarda gli attori locali, la maggior parte dei contesti d’uso delle ricerche che
abbiamo individuato riguardano situazioni elettorali.
Abbiamo incontrato anche un caso particolarmente negativo e critico, che non a caso utilizza
la retorica, che già abbiamo sottolineato sopra, della “presunzione” della politica.
(attore locale, centro-sinistra)
«… noi abbiamo avuto delle indicazioni giuste, esatte da quelli che sono gli
strumenti … il problema è che è stata sbagliata l'impostazione della campagna,
completamente.
…È stata sbagliata l'individuazione della classe dirigente, cioè dei candidati a
tutti i livelli, … quindi il problema di questa campagna è che è stata
completamente fatta a prescindere dalla realtà.
… cioè sbagliato tutto, questo dico è proprio la presunzione e la protervia della
politica.»
Il caso si presenta particolarmente interessante perché mostra come, anche a fronte di precise
indicazioni provenienti dalla ricerca, si sia potuto prendere una decisione politica non
conseguente, che si rileva errata.
In questo caso dunque la sensibilità politica porta ad operare in direzione contraria alle
indicazioni provenienti dalle ricerche, dando vita ad un’impostazione erronea e suscitando la
critica dell’intervistato.
Da notare l’uso di una retorica che ribalta il significato per certi aspetti positivi di “primato”
in quelli totalmente negativi di “presunzione”.
350
La narrazione prosegue poi con un passaggio molto interessante.
(attore locale, centro-sinistra)
«… perché a Roma ... c'è una cupola, è inutile, c'era l'idea che quello che era,
doveva rimanere così, non poteva cambiare niente.
…Quindi non è stato considerato proprio, non è stato testato niente… sono
state fatte solo scelte politiche a tavolino, a prescindere da qualunque ricerca di
qualunque tipo si potesse fare.»
In questo brano infatti emergono alcune dinamiche da cui sarebbe originata la decisione
politica rivelatasi errata. Esso ci permette di vedere meglio come, dietro il termine
“presunzione”, l’intervistato sveli un insieme di logiche di potere autoreferenziali e
interessate più alla sopravvivenza di sé stessi che non all’individuazione delle soluzioni più
corrette per la campagna elettorale.
Ovviamente non ci sono elementi per prendere posizione e indicare se questa spiegazione sia
vera o falsa.
Ciò che più interessa è il tentativo dell’intervistato di accreditare le lotte per la sopravvivenza
interna come uno degli elementi principali dai quali prende origine la supremazia delle
dimensione politica su quella dei risultati di ricerca.
Un caso simile riguarda perfino il processo di selezione delle candidatura.
(attore locale, centro-sinistra)
«Il fatto che Rutelli era un candidato sbagliato lo sapevamo dall'inizio.
… Io quattro mesi fa ho passato una settimana blindata dentro Ipsos a fare
focus group, da cui usciva fuori che Rutelli era una candidatura sbagliata, che i
romani non lo riconoscevano più come niente. Sono tornata qui dentro, ho
raccontato questa cosa a qualcuno e mi hanno detto: "Oramai è troppo tardi”.
Quindi … questo è, capito?»
Il primato della politica, in questo caso, riguarda più che altro l’impossibilità di correggere
una decisione che, secondo quanto emerso dalle ricerche, risulta sbagliata.
351
Pur con la consapevolezza di questi risultati, la scelta deve essere confermata solo perché già
presa e dunque irreversibile.
Siamo di fronte ad un esempio molto eclatante di uso delle ricerche a posteriori, di cui
abbiamo parlato nei paragrafi precedenti, nella sua variante più estrema, cioè il caso in cui,
visto il risultato discordante con una decisione irreversibile, la ricerca viene ignorata.
In questa situazione, la scelta che si rivela in contrasto con l’indicazione proveniente dalle
ricerche ha una provenienza chiara, ed è determinata da obiettivi e logiche di natura
“politica”, che si confermano prioritarie rispetto all’ascolto dei risultati di ricerca.
Scelte strategiche negli staff istituzionali
Le interviste relative agli staff istituzionali mostrano come il primato della dimensione
politica venga declinato nelle pratiche d’uso delle ricerche nei particolari contesti degli staff
politici presenti nelle istituzioni pubbliche.
Alcune rappresentazioni sono molto interessanti e aiutano a comprendere meglio il senso
attribuito dagli stessi decisori al concetto del primato della dimensione politica.
Il brano che segue restituisce una prima rappresentazione.
(membro di staff istituzionale, centro-sinistra)
«Sulla base di quelli, francamente, non abbiamo mai fatto molto, nel senso che
stiamo parlando anche di un governo che aveva tutte le particolarità sulle quali
mi piace non soffermarmi (ride) e che aveva, diciamo, un po’ dei percorsi
obbligati dalla politica, quindi era molto difficile, anche sull'evidenza di un
dato più o meno scientifico, potere spostare e fare cambiare in modo radicale
direzione sui valori attribuiti e via dicendo. Il nostro era, sia come coalizione,
prima delle elezioni, sia come governo, una realtà fortemente politica, dove la
politica era dominante e dove la politica era, diciamo, fortemente impositiva.
Quindi questo era decisamente in conflitto con la lettura di dati che dicevano di
cambiare direzione»
352
Le pratiche di utilizzo delle ricerche in questo caso sono condizionate dalle dimensioni
politiche delle alleanze di governo e programmatiche. Tali dinamiche hanno lasciato poca
libertà di manovra al decisore politico. La conseguenza è che le indicazioni provenienti dalle
ricerche socio-politiche finivano inevitabilmente in secondo piano e non diventavano dunque
informazioni utili a produrre un agire politico ben determinato.
La dimensione politica agisce come un vincolo sulla libertà d’azione dei decisori, sulla base
del modello visto sopra. Il decisore subisce passivamente questo condizionamento, quando
invece metterebbe in atto pratiche d’utilizzo più libere se solo la situazione politica di
contesto lo consentisse.
(membro di staff istituzionale, centro-sinistra)
«… Arrivavano i tableau a Prodi, a me… diciamo che Prodi più che altro li
viveva come una pagella e non come uno stimolo»
Per questa ragione, la visione delle ricerche finisce per essere vissuta come una “pagella e
non come uno stimolo”. La ricezione è passiva, a posteriori. L’impedimento alla libera azione
impedisce l’utilizzo delle informazioni raccolte per la messa in atto di politiche differenti e
più vicine alle realtà emerse dalle stesse ricerche.
È interessante confrontare la rappresentazione sopra emersa con quella di un altro decisore il
cui racconto fa riferimento alla stessa identica esperienza di Governo.
In questo caso, però, la rappresentazione è decisamente differente.
(membro di staff istituzionale, centro-sinistra)
«…che ci sia una marcata distinzione, differenza, tra che cosa che ci si aspetta
dai sondaggi e di che uso se ne fa a seconda dei soggetti che lo utilizzano …
…in generale, noi partiamo da un presupposto che si rivela giusto nella fase di
campagna elettorale e si rivela sbagliato nella fase di Governo, lo dico prima
io!!! per cui il rapporto tra ricerca e misurazione del consenso e progetto e
azione di Governo è un rapporto che vede o tende a dare netta prevalenza al
secondo rispetto al primo. Per cui per noi il sondaggio è fondamentalmente uno
strumento di controllo.
353
…Qualcun altro, invece, pensa che vada costruito il progetto di Governo a
partire dal consenso; ora è chiaro che in questa seconda ipotesi l’uso del
sondaggio è molto più massiccio di quanto non abbiamo fatto noi.»
In questa seconda rappresentazione, la priorità data alla dimensione politica rispetto alle
informazioni raccolte attraverso le ricerche è motivata in maniera differente.
Innanzitutto, il primato della dimensione politica non ha a che fare con variabili esterne quali
la formazione delle alleanze e gli accordi politici, bensì risiede tutto nella stessa azione di
Governo.
Anzi, sono proprio lo stile e l’approccio scelti per l’azione di Governo a determinare un
utilizzo delle ricerche finalizzato a obiettivi diversi e, se vogliamo, meno ambiziosi.
La retorica della rappresentazione indica la necessità di mettere come prima priorità l’azione
di Governo, senza che questa debba subire condizionamenti, nemmeno relativi al consenso e
al giudizio dell’opinione pubblica.
La visione sottesa considera l’opinione pubblica come un giudizio non in grado di cogliere la
reale efficacia e utilità dell’azione di Governo, almeno nel breve periodo. L’unica prospettiva
utile è quella dell’intera durata del Governo, cioè i 5 anni della legislatura (che poi non
saranno completati per la caduta del Governo stesso).
D’altro canto, lo stesso decisore riporta anche una motivazione di questa scelta.
(membro di staff istituzionale, centro-sinistra)
«Modificarlo in maniera sensibile, modificare i propri atteggiamenti, i propri
linguaggi in funzione dell’andamento dei sondaggi, lo vedo molto difficile e
forse anche poco produttivo
…
È necessario avere la disponibilità e la duttilità del soggetto al cambiamento.
Un soggetto come Romano Prodi è un soggetto ormai talmente strutturato nel
suo linguaggio, nelle sue forme, eccetera, che è molto complicato»
La volontà di lavorare con un orizzonte di 5 anni e dunque di utilizzare in maniera limitata le
ricerche deriverebbe dunque anche da un vincolo legato alle risorse a disposizione.
354
In particolare, risulta difficile pensare a modifiche sostanziali di azioni, linguaggi,
comportamenti solo in ragione di una maggiore consonanza con l’opinione pubblica.
A ciò si aggiunge una marcata rigidità dello stesso Presidente del Consiglio, che si presenta
come una figura difficilmente modificabile nei suoi modi e stili d’azione politica.
Le ricerche sono perciò deliberatamente poste in un ruolo di secondaria importanza, ad
esempio come strumento di controllo. Ma la loro influenza è pressoché nulla nel processo
decisionale, per una consapevole scelta dettata da una certa visione dell’azione di Governo e
della sua relazione con il consenso dell’opinione pubblica.
Pur avendo a che fare con lo stesso Governo (e con decisori di uguale livello di importanza in
quel Governo), ci troviamo di fronte a due rappresentazioni differenti, che convergono
nell’esito – lo scarso utilizzo delle ricerche nel processo decisionale – ma che ne
attribuiscono le ragioni a fenomeni differenti.
Non è detto che si tratti di una contraddizioni, entrambi i fenomeni potrebbero infatti agire
contemporaneamente.
Occorre inoltre sottolineare un ulteriore punto che altrimenti rischierebbe di restituire una
visione distorta.
Le interviste relative agli staff istituzionali sono legate al Governo in carica al momento della
realizzazione sul campo della ricerca, e cioè il Governo Prodi 2006-2008.
Le pratiche, i vincoli, le logiche emerse – particolarmente quelle sopra accennate relative a
come si declina il primato della politica nell’azione degli staff istituzionali – sono fortemente
legati alle specificità di quel Governo.
Il che rende ancora più inopportuna ogni generalizzazione.
5.5 Legame con la comunicazione
L’analisi delle interviste ai decisori politici – nel capitolo sulle strutture organizzative – ha
già restituito con chiarezza la diffusione di uno specifico aspetto della rappresentazione data
dai decisori stessi, e cioè la forte contiguità concettuale esistente fra pratiche di utilizzo della
ricerca e pratiche relative alla comunicazione politica.
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Ora questo risultato trova conferma nell’analisi delle rappresentazione che i decisori politici
danno delle pratiche d’uso.
Possiamo illustrare alcuni approfondimenti circa questo legame.
L’utilizzo delle ricerche come ausilio alla comunicazione
Il legame fra le ricerche e la comunicazione si ritrova limpidamente in numerosi brani delle
interviste e va a costituire una rappresentazione sociale in cui le ricerche, più che per
prendere le decisioni, controllarle o legittimarle (come abbiamo illustrato in precedenza),
sono utilizzate per comunicarle nel modo adeguato.
Quello della comunicazione, in questo caso, viene coerentemente presentato come un
processo complesso, non lineare, non scontato, in cui le scelte sui modi, i tempi, le logiche, le
strategie non possono essere affrontate con il solo buon senso. La ricerca diventa essenziale
per ottenere una migliore conoscenza dei pubblici che si vuole raggiungere, sulla base della
quale costruire azioni comunicative capaci di entrare in relazione con questi pubblici e
dunque di ottenere l’auspicata efficacia.
Si tratta di una concezione raffinata della comunicazione, difficile da generalizzare all’intera
classe politica, ma senz’altro ben presente a quei decisori che – pragmaticamente e
concettualmente – associano l’utilità delle ricerche alla possibilità di costruire azioni
comunicative efficaci.
Il valore delle ricerche nella comunicazione è spesso presentato in antitesi alla concezione
mainstream della ricerca come guida alla decisione. L’opposizione a questo modello è
esplicita, quasi che l’uso ai fini del miglioramento della comunicazione sia una forma di
svelamento di come la visione normativa sia solo sui libri e nelle intenzioni di qualcuno, ma
assai lontana dalla realtà delle pratiche.
(membro di staff istituzionale, centro-sinistra)
«…onestamente questa azione del sondaggio tradizionale, il CATI che dice ti
piace più il babbo o la mamma, non ha un grande impatto sul decisore.
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…se il decisore ha molta massa di manovra comunicativa lo aiuta a
comunicare, questo sicuramente. Lo aiuta meno a decidere e molto a
comunicare. »
(funzionario di partito, centro)
«… queste poi sono cose intuitive
… Non è che noi abbiamo bisogno del sondaggio, diciamo, che ci dica se
votare a favore o contro l’ici, ci formiamo un’idea
…poi comunque studiamo il modo per comunicarlo, questo si. Quindi molto
buon senso anche aiutato poi dai sondaggi. »
L’idea che le ricerche abbiano un ruolo fondamentale nella costruzione delle azioni
comunicative è abbastanza diffusa nel campione di intervistati e trasversale alle varie culture
politiche. Non si può dire comunque che sia generalizzabile ampiamente.
D’altro canto, occorre dire che queste narrazioni sono offerte con grande spontaneità e con
una evidente volontà di contrapporle alla visione mainstream che vede le ricerche come guida
del processo decisionale.
Non vi è dubbio, dunque, che la rappresentazione sociale di questo utilizzo non è messa in
discussione da alcuno, né è considerata non corretta, visto che su di essa non troviamo
limitazioni e inibizioni originate dalla “desiderabilità sociale”.
Questa spontaneità fa acquisire ancora maggiore spessore all’idea centrale di questo
paragrafo, e cioè che vi sia una forte relazione concettuale e pratica fra la ricerca socio-
politica e i processi comunicativi. Molto più chiara della relazione fra ricerche e decisioni.
Le campagne di comunicazione
Un secondo aspetto riguarda le campagne di comunicazione.
Numerose interviste, infatti, riportano un uso particolarmente interessante e diffuso di
ricerche nella pianificazione e nella realizzazione di campagne di comunicazione specifiche.
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Occorre specificare fin da ora che si tratta di un utilizzo tipico di uno solo dei vari tipi di
attori politici, i partiti.
Vediamo alcuni di questi brani.
Il primo brano aiuta a comprendere cosa si intende per campagne di comunicazione e qual è
la loro rilevanza per gli attori politici.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«… no, non è una cosa mensile direi potrebbe essere annuale….scadenze
elettorali, scadenze congressuali a decisioni appunto di fondo come quelle che
ha vissuto la Margherita, il rapporto Margherita e Ulivo. Margherita e Partito
Democratico.»
Come lascia intendere questo brano, si tratta di occasioni particolari, episodiche, mosse da
specifiche esigenze e, per questa ragione, non ricorrenti o routinarie.
In questo senso, dunque, queste occasioni sono valutabili secondo la categoria introdotta nei
capitoli precedenti, in particolare secondo il tipo delle “ricerche specifiche”.
Le modalità con cui vengono messe in atto le pratiche di utilizzo possono riguardare aspetti
differenti.
Innanzitutto la pianificazione.
Il brano seguente aiuta a comprendere come le ricerche entrino in questo processo.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«E quindi noi prendemmo alcuni articoli della Costituzione e li facemmo
nostri. Su un format grafico molto semplice, ma molto forte … E questa scelta
la facemmo dopo, su suggerimento di una ricerca che rappresentava la
Margherita come partito molto leggero
…Lì noi avevamo… Dovevamo capire: A) come eravamo percepiti. E la
risposta, tagliando con l’accetta ovviamente, che venite percepiti come un
cartello elettorale e poi come un partito estremamente leggero…e ci
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segnalarono che anche il simbolo contribuiva a questa considerare la
Margherita un partito quasi evanescente, insomma. Era un simbolo molto
fresco, molto giovane, con il fiore, con i colori…»
Si tratta di un caso emblematico la cui generalizzabilità, a dire il vero, può essere discutibile.
In questo caso la ricerca è alla base di tutto il processo.
La domanda iniziale parte da un avvenimento particolare nella vita del partito, e cioè la messa
in atto di un cambiamento valoriale e identitario di lungo periodo, come la fusione con altre
formazioni per dare a una nuova (in questo caso la nascita di Democrazia e Libertà – La
Margherita).
L’esigenza dunque è quella di comprendere come la nuova formazione è percepita
dall’elettorato e dall’opinione pubblica, vista evidentemente la perdita di ogni riferimento
tradizionale.
L’organizzazione si affida da subito ad una ricerca specifica.
Ed è sulla base di questi risultati che nasce l’esigenza di effettuare una campagna di
comunicazione che andasse a dare risposta agli interrogativi e alle problematiche evidenziate.
Il ruolo della ricerca, dunque, è rappresentato come fondamentale. Certo l’esigenza
conoscitiva nasce da un evento nella vita del partito.
Ma la conferma dell’individuazione delle problematiche, la necessità di offrire ad esse una
risposta credibile, la pianificazione dell’intervento sono tutte attività che non potrebbero
prescindere (almeno così emerge dalla rappresentazione) dalla ricerca.
In questo senso, dunque, il legame fra ricerche e comunicazione si mostra in tutta la sua
interessa e la sua forza. Che risultano ancora più nette se pensiamo che si tratta di un partito
di area centro-sinistra.
Ma, sempre relativamente a campagne di comunicazione, oltre alla pianificazione vi è
un’altra categoria di pratiche particolarmente utilizzata, ed è quella dei test.
Le campagne di comunicazione possono essere un’attività anche routinaria in un partito,
oppure legata alle scadenze elettorali. In questi casi, le vi può essere una minore necessità di
ricerche specifiche per individuare problematiche e obiettivi delle azioni.
Piuttosto può assumere importanza la valutazione del materiale e della campagna in sé.
Un caso interessante è presentato in questo brano.
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(funzionario di partito, centro)
«...abbiamo fatto il test ed in questo caso il test ha dimostrato che “Io Centro”
soprattutto in questo momento – ancora più delle volte precedenti perché
andavamo esattam… veramente da soli come centro tra quello che noi in
campagna elettorale abbiamo definito la destra, e non più il centro destra, e la
sinistra, e non più il centro sinistra perché non c’eravamo più noi e perché la
Margherita, diciamo, e l’ala cattolica era stata marginalizzata insomma, è stato
una nostra forzatura in campagna elettorale – “Io Centro” ancora di più era
stato riconosciuto utile come…e quindi lo abbiamo riutilizzato …»
In questo caso la valutazione riguarda il pay off e la campagna per le elezioni nazionali,
dunque un appuntamento molto importante nella vita del partito. Occorre inoltre ricordare che
si tratta di un’elezione con sistema proporzionale, nel quale dunque il ruolo giocato da partito
a livello nazionale risulta particolarmente importante.
L’intervento delle ricerche, pur non partendo fin dalla pianificazione, risulta ugualmente
decisivo, in quanto, da quanto emerge dalla rappresentazione, è l’elemento chiave che porta il
partito alla scelta di confermare il pay off.
L’utilizzo in chiave di test è confermato, in forma diversa, anche da un ulteriore brano.
(funzionario di partito, centro-destra)
«MC: La valutazione del materiale comunicativo?
I: L’abbiamo fatta… Nel 2000-2001 dopo, cioè durante la campagna.»
Anche questo secondo brano, dunque, dimostra come la valutazione dei materiali di
comunicazione (in questo caso l’intera campagna per le politiche) sia effettivamente una
pratica diffusa. Lo confermano del resto numerosi altri brani non riportati per evitare
ridondanze. Da notare che si tratta di brani provenienti anche da decisori di altre collocazioni
politiche, a dimostrazione che si tratta di una pratica trasversale.
Infine un terzo brano riporta un altro esempio di pratiche relative a test.
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(funzionario di partito, centro)
«…Si, poi chiaramente noi abbiamo fatto, per esempio, un paio di anni una
grandissima battaglia nei confronti di Berlusconi, sul Centro Destra,ecc., ecc.
quindi ogni volta visualizzavamo, diciamo così, il gradimento di queste uscite,
di questo posizionamento, (...) del caso.»
In questo caso, si tratta di test volti a misurare l’efficacia di un’intera campagna, più che di
singoli strumenti di comunicazione.
È significativo inoltre l’elemento continuativo, il fatto cioè che la misurazione sia distribuita
nel tempo, a individuare una tendenza. Un atteggiamento più complesso e più in linea con un
utilizzo smaliziato degli strumenti demoscopici che abbiamo incontrato, in altri ambiti, in
tecniche quali il tracking.
In generale, le considerazioni svolte circa le pratiche messe in atto per testare le azioni di
comunicazione rientrano perfettamente in quell’approccio che vede le ricerche nel processo
decisionale politico con un ruolo non di guida, bensì di controllo, come emerso in
precedenza.
La preponderanza, nelle narrazioni, dei momenti elettorali
Una conferma ulteriore e particolarmente significativa del legame fra ricerche e
comunicazione ha a che fare con le differenze esistenti fra periodi normali e situazioni
elettorali.
Al di là dei brani delle interviste, occorre segnalare come la maggior quantità delle parti di
interviste centrate realmente sulla narrazione delle pratiche d’uso riguardi momenti elettorali.
Questa osservazione è ampiamente generalizzabile, sia relativamente al tipo di attore politico
(partito, staff istituzionale, attore locale), sia relativamente alle varie culture politiche.
Il decisore a cui viene chiesto di raccontare dell’uso delle ricerche nel campo delle decisioni
politiche tende inevitabilmente a concentrarsi su momenti elettorali.
Un solo brano a conferma di quanto detto.
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(funzionario di partito, centro)
«… abbiamo fatto nei periodi morti rilevazioni quantitative e abbiamo invece
aumentato l'intensità in prossimità di scadenze elettorali o scadenze
particolari…»
Abbiamo scelto questo brano perché è esplicito e si riferisce alle ricerche di routine.
Ma occorre dire che il maggiore utilizzo delle ricerche durante i momenti elettorali – al di là
dei brani da riportare, che potrebbero essere fin troppi – emerge con grande chiarezza da tutte
le interviste, semplicemente registrando come gran parte dei racconti dei decisori relativi
all’utilizzo delle ricerche facciano riferimento proprio a momenti elettorali.
Addirittura, si può ipotizzare che le narrazioni dei decisori siano ancora più spostate verso i
momenti elettorali di quanto la realtà non richieda.
Esistono infatti numerose pratiche, anche se minoritarie, riguardanti altri momenti, in alcuni
casi magari più interessanti e meni scontate. Eppure difficilmente emergono spontaneamente
dai racconti dei decisori.
Allora per quale ragione esiste questa tendenza così forte – nella realtà e ancor più nelle
rappresentazioni – a far coincidere l’uso delle ricerche con i momenti elettorali?
È difficile dare una risposta a questo interrogativo.
Possiamo proporre però un’ipotesi.
Sostanzialmente questa tendenza potrebbe essere originata da tre elementi combinati.
Innanzitutto una questione di riservatezza. La vita di partito (quella routinaria) è più rivolta
all’interno, così che anche le ricerche possono assumere una valenza tale da renderne
sconsigliabile un’ampia diffusione. Ragione per cui si tende a parlarne meno.
Un secondo aspetto può essere legato alla legittimazione. Le pratiche legate ai momenti
elettorali sono infatti quelle su cui si è concentrata di più l’attenzione, sia da parte dei
decisori, che dell’opinione pubblica, che della letteratura. È dunque ipotizzabile che si sia
affermata socialmente una legittimazione maggiore dell’uso di indagini demoscopiche in
questi ambiti, tanto da renderne più spontanea la narrazione nelle interviste.
Infine, un terzo aspetto può essere rappresentato dalla routine. Sia da un punto di vista dei
ricercatori che dei decisori, le pratiche riguardanti i momenti elettorali, proprio per il loro
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essere ricorrenti, sono ormai maggiormente standardizzate e routinizzate. Questo le rende
meno sensibili alla dispersione di informazioni strategiche e dunque, di conseguenze, più
facilmente comunicabili all’esterno.
Entrando nel dettaglio, le situazioni elettorali modificano le pratiche d’uso delle ricerche sotto
innumerevoli punti di vista.
Innanzitutto, nelle situazioni elettorali è la stessa quantità di ricerche a cambiare. Aumenta il
numero di indagini commissionate, così come aumenta la varietà e la gamma di strumenti
utilizzati.
L’attore politico esce da una fase “normale”, per entrare in una dimensione in cui l’attività di
comunicazione assume un rilievo quotidiano, così come il monitoraggio di alcune dinamiche
dell’opinione pubblica diventa un bisogno, per varie ragioni, da soddisfare continuamente.
Un esempio è rappresentato dal brano seguente.
(attore locale, centro-destra)
«Intanto, noi abbiamo utilizzato tre strumenti di rilevazione. Sondaggi da parte
di tre diversi istituti, soprattutto nella fase che ha preceduto la campagna
elettorale, intendendosi per campagna elettorale l’apertura dei comizi. Poi
abbiamo utilizzato i focus group. E poi abbiamo utilizzato … un call center, in
realtà una rete di call center (….) che era già finalizzato al ballottaggio e che
potremmo definire ricerche di identificazione degli elettori di Alemanno,
indispensabile per andare a riprenderle poi al ballottaggio, e poi un lavoro di
rilevazione.»
L’aspetto che più colpisce è proprio l’idea che, fin dall’inizio, la campagna elettorale si
distingua come una fase in cui la quantità e la varietà di ricerche sono ampie, in misura
significativamente differente rispetto ad un momento “normale”. In questa fase inoltre
vengono presi in considerazione ed utilizzati strumenti altrimenti mai citati in altri contesti.
Un altro punto che emerge circa le situazioni elettorali e il maggior utilizzo di ricerche che in
quelle situazioni verrebbe fatto riguarda il rapporto fra ricerche e decisioni politiche.
363
Le narrazioni di situazioni elettorali, infatti, tendono a proporre dei meccanismi decisionali in
cui il ruolo delle ricerche è molto presente, così come è forte e diretto il legame diretto fra le
ricerche e le azioni ad esse conseguenti.
Un primo esempio è riportato nel brano sottostante.
(attore locale, centro-sinistra)
«… l'altra intuizione molto importante è stata quella di fare la lista degli
Under-30, perché bisognava andare a recuperare in quella roba lì.
... ci han dato le indicazioni che non era così automatico, questo è stato
importante…»
Risulta evidente come una non banale azione politica, la creazione di una nuova lista, sia
rappresentata come una risposta diretta e specifica alle indicazioni provenienti dalle ricerche.
Un altro caso, molto simile, è il seguente.
(attore locale, centro-sinistra)
«…Si, noi però la settimana prima del voto ci siamo preparati perché
sapevamo che saremmo andati al ballottaggio. Indi per cui abbiamo fatto fare il
martedì e il mercoledì successivo al voto 3 focus, 4 focus qualitativi sui nostri
elettori, quindi solo PD e Sinistra e Centro-Sinistra, su Rutelli, Rutelli-
Alemanno, su Rutelli fondamentalmente. Da cui è venuto un altro sfacelo …
cioè che gli elettori del PD, del Centro Sinistra e, diciamo, Italia dei Valori,
Centro Sinistra non avrebbero votato Rutelli.
… Allora, lì abbiamo tentato una serie di correttivi politici, cioè abbiamo
tentato di fare una serie di alleanze totalmente inutili…»
Questa volta la situazione è differente e più complessa.
Innanzitutto, un primo uso delle ricerche è a scopo predittivo e permette al decisore di
definire meglio la situazione futura in cui dovrà operare.
In particolare, sapendo che sarà necessario il secondo turno, vengono commissionate per
tempo specifiche indagini, questa volta dei focus group.
364
I risultati di queste, particolarmente allarmanti, portano il comitato elettorale a organizzarsi
diversamente, proponendo dei “correttivi” politici che altrimenti non avrebbe adottato.
Anche in questo caso, pur nella maggiore complessità, colpisce come le ricerche siano
rappresentate realmente come le fonti iniziali dell’azione politica, con un ruolo determinante,
tanto che, senza la loro presenza, le decisioni, almeno secondo la rappresentazione che
emerge dalle interviste, non sarebbero le stesse.
Finora ci siamo riferiti a situazioni elettorali locali.
Il brano seguente invece fa riferimento a campagne elettorali nazionali.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«Ecco, quella fu una dritta fondamentale … E diede anche una metodologia
rispetto a quanti sondaggi, che tipo di sondaggi…
… ci disse, ad esempio, che bisognava testare una serie di argomenti, che
quegli argomenti andavano poi trattati in un determinato modo, che dopo una
settimana bisognava ritestare se la trattazione di quegli argomenti aveva avuto
un senso o non lo aveva avuto, che tipo di riscontro aveva avuto, se bisognava
cambiare il tiro…
… Il meccanismo funzionò! … lì noi andammo molto, noi seguimmo molto le
indicazioni dei temi da trattare, quello si.
… ne tenevamo più conto di quello che è stato fatto in queste ultime campagne
elettorali secondo me.
… Quindi era anche… però sicuramente quella fu una campagna più
scientifica, assolutamente più scientifica, dettata, appunto, da quello che veniva
fuori dalle cose che ci dicevano i numeri, quello sicuramente. E il recupero è
dato da quello.»
Questo brano, dunque, conferma come le caratteristiche che abbiamo già isolato e analizzato
siano replicabili anche nelle situazioni elettorali nazionali.
Addirittura, in questo caso è significativa la retorica utilizzata, che arriva a parlare di
“campagna più scientifica”, a indicare una rappresentazione di maggiore
professionalizzazione e maggior apporto dei contributi tecnico-razionali.
365
Troviamo poi esempi anche di altri utilizzi particolari.
(attore locale, centro-destra)
«Quindi io ho fatto fare subito un sondaggio, al momento dell’annuncio di
Rutelli e uno alla fine del giro. E vedendo che avevo il 51-52 all’inizio e il 51-
52 alla fine, io ho capito a quel punto che noi vincevamo le elezioni, perché se
aveva lo stesso risultato dopo 10 giorni di campagna in città, vuol dire che già
istintivamente il suo posizionamento è nel vecchio. Quindi se riusciamo a
costruire un nuovo Alemanno, è morto. E così è nata la decisione.»
Il brano riporta un significativo esempio di utilizzo del sondaggio come forma di controllo
dell’attività del candidato avverso, una prassi finora mai incontrata. A conferma ancora una
volta della particolare sensibilità alle ricerche che emerge durante le campagne elettorali.
Ritroviamo in questo brano le stesse caratteristiche evidenziate prima, particolarmente la
esplicita indicazione di un ruolo diretto delle ricerche nel processo decisionale.
Un ulteriore brano introduce l’ennesima variante.
(attore locale, centro-destra)
«… Io ritengo che i sondaggi d’opinione …. non hanno alcun tipo di (…)
scientifica dal punto di vista dell’aspettativa del risultato
… non è così importante sapere chi è avanti e chi è indietro … l’unica cosa che
conta in un sondaggio d’opinione è la propensione nell’ambito di un tempo
definito, di una campagna …
… i sondaggi servono a capire la tendenza di un umore, cioè la corrente
profonda. Questo è quello che noi affidiamo ai sondaggi.»
L’importanza di questo brano sta nel mostrare come la situazione elettorale sia uno degli
elementi che portano il decisore a teorizzare un uso diverso, dinamico, dei sondaggi, cioè
della più semplice e abusata attività di ricerca.
È una posizione che abbiamo già incontrato e della quale abbiamo già sottolineato
l’importanza, anche culturale.
366
Ma qui ciò che emerge è come questa posizione sia strettamente legata alle specifiche logiche
della campagna elettorale.
L’importanza delle ricerche è infine così sentita dai decisori che le stesse assumono
significati che vanno oltre quello del bisogno d’informazioni.
Il brano successivo riporta un caso isolato, ma molto significativo di come le ricerche
diventino una prassi predominante nelle campagne elettorali, sotto innumerevoli punti di
vista.
(attore locale, centro-destra)
«in tutta questa storiella, il dato organizzativo è prevalente su quello statistico,
di ricerca … perché il valore del percorso che c’è fra la telefonata e l’incaricato
che arriva e tutto questo che ti dice che in questi 10 giorni andare a votare è
questione di vita e di morte, è impensabile farlo con un istituto.»
Il legame fra ricerca e comunicazione si fa così stretto che diventa indistinguibile.
L’uso del call center, più che una vera attività di ricerca diventa allora un’azione
comunicativa.
Non è il bisogno conoscitivo a guidare il processo – nonostante esso mantenga una sua
importanza – ma la necessità di trovare forme nuove, estese, ma relazionalmente ricche di
contatto con l’elettorato.
La ricerca si mescola con la comunicazione, formando un ibrido in cui le funzioni sono
indistinguibili.
Al di là della maggiore quantità di ricerche, dell’uso di strumenti inediti, delle narrazioni
univoche sull’efficacia delle ricerche, il punto forse più interessante di questi brani
d’intervista riguarda il processo decisionale e la sua rappresentazione.
Infatti, il momento elettorale ne esce come una situazione in cui le ricerche assumono un
ruolo molto più direttivo, determinante, legittimato rispetto a quanto avviene invece nelle
situazioni normali. Le varie forme di mediazione fra ricerca e decisione politica, i vincoli, le
condizioni che avevamo evidenziato in precedenza tendono a scomparire dalla
rappresentazione o, quantomeno, a perdere d’importanza.
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Ciò è senz’altro dettato dalla particolarità della situazione elettorale, in cui la tattica
predomina sull’azione politica strutturata e di lungo corso. Inoltre la necessità di rivolgersi ad
elettorati diversi dai propri è senz’altro accentuata. Così come la sensazione che ogni azione
possa essere decisiva.
La stessa gestione del consenso diventa una battaglia quotidiana in cui le rigidità, le
permanenze, le viscosità tipiche della formazione delle opinioni politiche tendono ad
affievolirsi, se non nella realtà almeno nella percezione dei decisori.
L’insieme di questi fattori rende i decisori più attenti all’uso delle ricerche e più sensibili alle
necessità di professionalizzare la loro azione.
Selezione delle candidature
Fra le varie situazioni che hanno a che fare con la dimensione elettorale, troviamo una delle
pratiche d’uso delle ricerche fra le più citate, sia in letteratura che nelle interviste ai
ricercatori.
E cioè l’utilizzo ai fini della selezioni delle classi dirigenti, segnatamente di leader e candidati
a cariche monocratiche elettive.
Dalle interviste emerge una gamma assai variegata e diversificata di questi utilizzi.
I casi più rilevanti riguardano la selezione dei candidati alla guida del Governo nazionale.
Si tratta comunque di situazioni che hanno differenti contorni.
Nell’area del centro-destra, ad esempio, la questione della candidatura alla premiership non si
pone vista l’egemonia culturale, mediatica, di risorse di Silvio Berlusconi.
Nell’area del centro-sinistra invece le situazioni sono diverse ad ogni elezione, sia per la
presenza sulla scena di diverse ipotesi tutte ugualmente percorribili, sia per la diversa
geometria di alleanze che si è presentata alle diverse elezioni e che ha portato a meccanismi
differenti di scelta del candidato alla premiership.
Senza contare, infine, l’influsso del sistema elettorale.
I brani che riportiamo a seguire offrono un primo esempio relativo all’ambito nazionale.
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(funzionario di partito, centro-sinistra)
(in risposta a una domanda relativa a eventuali test sui candidati alla
premiership)
«…Per la premiership 2001 si. Diciamo per quest'ultima tornata per niente!
(ride)»
(funzionario di partito, centro-sinistra)
« (in riferimento alle elezioni politiche 2006, sul candidato a premier Romano
Prodi)
Beh, ci fu un test… No, ci fu un test… Ma certo la scelta politica comunque è
importantissima, però ci fu un test, diciamo, di gradimento, quello si.
…No, gradimento normale rispetto alla persona, con una qualitativa e
quantitativa. Però, insomma, non particolarmente studiata ad hoc, cioè…
… Noi dovevamo confermare quella scelta là.»
Il brano precedente riassume le pratiche messe in atto per la scelta del candidato del centro-
sinistra a ricoprire la carica di premier nelle ultime 3 elezioni politiche nazionale, nel 2001,
nel 2006 e nel 2008.
Il brano è abbastanza efficace nel mostrare come le pratiche adottate siano state differenti a
seconda dei contesti, seppure unite da un unico approccio alla questione. Che sostanzialmente
conferisce alle ricerche una certa importanza nel determinare la scelta più corretta, qualora
ovviamente le condizioni rendano possibile mettere in atto questa azione.
Fra quelli citati, il caso più interessante riguarda la candidatura a premier di Francesco
Rutelli, nel 2001, per una ampia coalizione di centro-sinistra.
L’area di centro-sinistra era già al governo del paese, con un’altra personalità che poteva
ambire alla designazione, Giuliano Amato.
I principali partiti del centro-sinistra si dotarono allora di alcune ricerche per comprendere
l’effettiva possibilità di Giuliano Amato di risultare vincente, anche confrontandolo con altre
candidature e in particolare quella di Francesco Rutelli, allora Sindaco di Roma. Nonostante
la legge elettorale in vigore non prevedesse l’elezione diretta del premier.
369
E il risultato portò ad un effettivo cambio di scenario, con la effettiva proposizione di Rutelli,
che emergeva dai sondaggi come un candidato con maggiori chance di successo nella
competizione elettorale.
Una decisione non di poco conto, visto che ha portato alla non facile scelta di non confermare
un Presidente del Consiglio in carica, a favore di una soluzione che non aveva dalla sua altra
motivazione se non quella dei risultati emersi dall’indagine demoscopica.
Le situazioni si presentano però differenti le volte successive, in gran parte per ragioni di
condizioni ambientali differenti.
Nel 2006, il centro-sinistra propone la candidatura di Romano Prodi.
Il processo decisionale che porta a quella scelta si presenta diverso da quello del 2001. La
scelta di Prodi, infatti, deriva più da necessità legate al primato della dimensione politica che
non alla valutazione circa l’opinione verso quel candidato. Infatti Prodi si presenta come
l’unica figura in grado di tenere unita una coalizione molto ampia. Il punto di forza della
proposta è l’ampiezza della coalizione (“L’Unione”), non più il candidato premier. Una
rinnovata centralità della dimensione politica, ma anche, di riflesso, una condizione
quantomeno favorita dalla nuova legge elettorale, non più maggioritaria bensì proporzionale
(anche se c’è da dire che la candidatura di Prodi era, con ogni probabilità, già definita prima
della nuova legge elettorale).
Le ricerche in questa decisione entrano solo sotto forma di controllo, di verifica, secondo una
rappresentazione che in precedenza abbiamo già evidenziato.
In questo caso, dunque, non sono vincoli di tempo, di risorse di mezzi. È il primato della
dimensione politica a condizionare le pratiche d’uso delle ricerche nel processo decisionale
che porta alla scelta del candidato e alla successiva legittimazione, all’interno e all’esterno, di
quel candidato.
Il caso del 2008 è ancora diverso. Le elezioni avvengono dopo il termine anticipato della
legislatura, da pochi previsto con quella rapidità.
Il centro-sinistra è nel pieno di due fenomeni di natura politica: la realizzazione del Partito
Democratico, come incontro delle culture riformiste di quell’area, e la dissoluzione
dell’alleanza dell’Unione, con un inevitabile inasprimento dei rapporti politici fra i partiti
riformisti e i più piccoli partiti personali della coalizione, sia radicali che moderati.
370
La crisi di Governo trova dunque il centro-sinistra impreparato, senza una soluzione politica,
di alleanze e di candidature alla premiership, definita.
Una volta scelto di correre da solo, senza riproporre l’alleanza dell’Unione, il Partito
Democratico non ha alternative che proporre per la premiership il proprio segretario, Valter
Veltroni.
Secondo i brani sopra riportati, le ricerche socio-politiche non hanno un vero ruolo in questa
scelta.
A determinare l’impossibilità di un loro utilizzo sono i due vincoli della dimensione politica,
che annulla la possibilità di riproposizione di uno schema largo di alleanze, e il vincolo del
fattore tempo, che impedisce ogni possibilità di ipotizzare soluzioni differenti.
Ne esce dunque un quadro interessante. Le ricerche giocano un ruolo universalmente
considerato importante nella selezione delle candidature per la premiership. Ma con alcune
varianti, In primo luogo, le condizioni di contesto: leggi elettorali e tempi anticipati possono
inibire l’efficacia del loro utilizzo, rendendolo vano. In secondo luogo, la dimensione politica
costituisce l’altro elemento in grado di differenziare il quadro, imponendo logiche di scelta
differenti e potenzialmente in grado di relegare le ricerche alla semplice verifica o controllo.
Nel quadro disegnato da quest’ultimo elemento, possiamo inserire anche la mancanza di
citazioni sulla selezione delle candidature a premier riscontrata nell’area politica di centro-
destra. In quel caso, infatti, il primato della dimensione politica è contrassegnato dalla forza
della leadership di Silvio Berlusconi, che rende scontata la selezione della candidatura e non
determinante il ruolo delle ricerche socio-politiche in quel processo.
Le cose si presentano in maniera differente per le candidature alle cariche monocratiche
elettive di livello locale.
Innanzitutto, un primo risultato è che la pratica di testare con ricerche specifiche varie
soluzioni e ipotesi di candidatura è molto più diffusa
(attore locale, centro-sinistra)
371
«Dunque ci sono stati una serie di sondaggi iniziali per saggiare chi poteva
essere il candidato. …»
Quasi tutti i racconti riportati nelle interviste circa campagne elettorali locali fanno iniziare
l’intervento delle ricerche dalla selezione della candidatura, nella quale, secondo queste
rappresentazioni, il giudizio emerso dalle indagini è determinante.
In questo, dunque, si ottiene una sostanziale conferma di quanto già emerso in letteratura e
nelle interviste ai ricercatori.
Il test iniziale tiene conto di numerose caratteristiche. Senza dubbio le intenzioni di voto e
l’elettorato potenziale, che costituiscono l’elemento principale. Molto diffuse, e rette da una
logica simile, sono le domande che propongono ipotetici testa a testa con altri candidati
dell’area opposta, per verificare anche nel raffronto la tenuta della candidatura.
Come già emerso nelle interviste ai ricercatori, poi, è diffusa e per certi aspetti standardizzata
la pratica di testare varie caratteristiche del profilo dei differenti ipotetici candidati. Su tutte,
le due caratteristiche della “fiducia” e del livello di conoscenza, che offrono indicazioni circa
le possibilità o meno di crescita della candidatura durante la campagna elettorale.
Vi sono poi almeno un paio di altre riflessioni da svolgere.
Innanzitutto, la maggiore diffusione di questa pratica di utilizzo va inserita in un contesto che
può aiutare a comprenderne le ragioni. Il sistema elettorale, ad esempio, è sostanzialmente
immutato dal 1992 e, nello spirito, conserva intatta l’idea della personalizzazione della
contesa, che rende dunque fondamentale una scelta della candidatura che sia non solo
corretta, ma in grado di raccogliere un consenso maggioritario e dunque, affinchè possa
essere vincente, spesso oltre i confini dello schieramento politico.
È del tutto evidente che, in questo quadro, la ricerca demoscopica diventa più determinante e
contribuisce ad aumentare le capacità di lettura delle comunità che le sole ramificazioni
dell’appartenenza politico-ideale non sono in grado di restituire.
La sostanziale tenuta del sistema elettorale si accompagna poi ad una maggiore stabilità delle
Amministrazione. Alla quale conseguono scadenze più certe, sicure e meno improvvisate.
Questo rende l’attività di costruzione di una proposta politica maggiormente passibile,
almeno teoricamente, di programmazione e di pianificazione nel lungo periodo, che rende
372
nella prassi più semplice inserire valutazioni sulla candidatura anche basate su strumenti di
ricerca che, per la loro natura, richiedono un certo investimento di attenzione, risorse e
tempo.
Infine, vale la pena sottolineare che, a differenza di quanto avviene per la candidatura alla
premiership, l’utilizzo di ricerche socio-politiche per la selezione dei candidati alle cariche
elettive locali è una prassi ampiamente in uso anche dell’area del centro-destra, con modalità
e logiche del tutto analoghe.
Il brano seguente ne è una piccola dimostrazione.
(attore locale, centro-destra)
«… Noi abbiamo fatto una pianificazione di questo genere. I primi sondaggi
non li ho fatti io, li ha commissionati il partito per individuare il candidato. »
In questo caso, infatti, il riferimento è alla candidatura a Sindaco di Roma, per l’area di
centro-destra, alle elezioni anticipate del 2008.
Il test del profilo dei candidati
Un uso piuttosto particolare delle ricerche riguarda le indagini sulla percezione del profilo dei
leader politici e candidati da parte dell’opinione pubblica.
Si tratta di un tipo di ricerca particolare, che acquista importanza in occasione di campagne
elettorali, quando, date le condizioni di contesto dominate dalla personalizzazione, il profilo
del candidato diventa un elemento dal quale non si può prescindere nell’elaborare la strategia
comunicativa.
I due brani seguenti mostrano in maniera piuttosto dettagliata come questo tipo di ricerca può
legarsi alle scelte di comunicazione, almeno secondo la rappresentazione data
dall’intervistato.
(attore locale, centro-sinistra)
373
«E da lì quelle prime indicazioni furono indicazioni abbastanza toste, nel senso
che noi eravamo visti, Rutelli era visto come la casta, il vecchio, come sistema
di potere sclerotizzato della città, che comunque l'amministrazione Veltroni...
cioè una cosa impressionante di questi focus era che i romani dicevano:
"Questa città fa schifo, è sporca, è insicura, non funziona niente, però Veltroni
è un grande sindaco”. Una roba impressionante! C'era proprio una sconnessione
tra...
… Guarda impressionante! Tutti quanti dicevano “'sta città fa schifo però
Veltroni è un grande sindaco!” Impressionante, impressionante!
… E poi la cosa che abbiamo… da lì noi abbiamo impostato la prima fase di
campagna che era "Roma merita ascolto!", cioè di Rutelli di riportarlo in mezzo
alla gente, quindi col giaccone in mezzo alla gente, quello che prendeva
l'autobus, i mezzi pubblici... e quella parte di campagna ha funzionato bene. »
(attore locale, centro-sinistra)
«I Beh, la prima parte della campagna che è stata quella di riportare Rutelli in
mezzo alla gente perché... quindi dell'ascolto, è scaturita fondamentalmente e
soltanto dalle indicazione che venivano date dal fatto che lui era considerato
casta, era considerato lontano dai cittadini, non era considerato più uno di noi,
questo è stato una cosa molto forte.»
In questo brano, la rappresentazione mostra un meccanismo decisionale molto forte, nel quale
le scelte sembrano scaturire realmente come conseguenza diretta dei risultati delle ricerche. Il
passaggio dal dato alla comunicazione è presentato come molto poco mediato da altri fattori,
secondo una prospettiva abbastanza differente da quanto abbiamo visto finora.
Si possono ipotizzare delle motivazioni a questa singolarità.
In primo luogo, la situazione ambientale è quella di una campagna elettorale, un momento in
cui la comunicazione acquisisce un ruolo preponderante nelle attività di politics e,
conseguentemente al legame comunicazione-ricerche che abbiamo sopra evidenziato, può
accrescere il ruolo delle stesse ricerche nel processo decisionale.
Il secondo elemento riguarda il tipo di elezione. Trattandosi di un’elezione comunale, infatti,
il sistema elettorale, il livello locale e le prassi consolidate chiamano a dinamiche di maggiore
374
personalizzazione, ragione per la quale il profilo del candidato diventa una delle principali
risorse strategiche da valorizzare nelle iniziative di comunicazione.
Si tratta comunque di una pratica interessante, in quanto mostra come, nella rilevanza delle
ricerche per il processo decisionale, entrino i fattori che già abbiamo evidenziato, come le
regole del gioco, il legame con la comunicazione, la preponderanza e la sostanziale
trasversalità degli usi elettorali.
5.6 Differenze sinistra/destra
Dalle interviste emerge con una certa evidenza una differenza di natura culturale relativa
all’approccio dei decisori alle ricerche e al ruolo di queste ultime nel processo decisionale.
Abbiamo già incontrato in precedenza, in particolare nelle interviste ai ricercatori, la
necessità di indagare la diversa cultura delle ricerche proposta da attori politici di posizioni
differenti.
La cultura politica di origine, infatti, sembra essere un elemento importante, in grado di
segnare un diverso approccio culturale dell’attore politico all’uso delle ricerche nel processo
decisionale, oltre che, di conseguenza, alle stesse pratiche messe in atto.
Questa assunzione – evidenziata fin dall’impostazione metodologica, presente in letteratura e
confermata dalle interviste ai ricercatori – si rivela anche nell’analisi delle rappresentazioni
dei decisori un elemento fondamentale di differenziazione.
La fiducia nelle ricerche e nel loro ruolo
Il primo punto che emerge, il più semplice, è la maggiore fiducia conferita ai sondaggi da
parte dei decisori appartenenti a culture di area centro-destra.
Ciò che è più interessante relativamente a questa acquisizione è il modo in cui essa si
manifesta.
375
Non troviamo infatti, nelle interviste, attestazioni di stima e fiducia nelle ricerche che siano
particolarmente significative o particolarmente esplicite. O quantomeno non più di quanto si
possa dire dei decisori di centro-sinistra.
Ciò che invece determina la differenza è piuttosto l’atteggiamento complessivo
nell’affrontare i temi riguardanti le ricerche e il loro utilizzo.
Nel caso dei decisori del centro-destra, la maggiore fiducia negli strumenti è palpabile ed
emerge da diversi aspetti: da come il loro utilizzo è dato per scontato, da come la
rappresentazione del loro utilizzo si presenta come più semplice e lineare, da come sono
molto meno presenti ragionamenti e discussioni circa problematiche, dubbi, questioni
irrisolte.
L’atteggiamento complessivo è dunque molto più confidenziale, diretto, familiare e
l’atteggiamento culturale di fiducia nelle ricerche è quasi un dato per scontato dell’essere
stesso decisore politico.
D’altro canto, la stessa rappresentazione emerge per contrasto, da alcuni brani di decisori di
area centro-sinistra.
In alcuni casi, questa difficoltà d’approccio si presenta come una scelta precisa, consapevole.
(membro di staff istituzionale, centro-sinistra)
«Noi siamo stati... e forse ne abbiamo anche pagato il prezzo, in qualche
momento... dei demo-scettici...
…Prodi iniziò nel ‘96 dicendo una frase che diceva: "Se Mosè avesse guardato
i sondaggi non avrebbe mai attraversato il Mar Rosso" (ride)… ma, senza
nessun disprezzo ma semplicemente abbiamo sempre ritenuto, almeno io e
Prodi, che la società sia talmente complessa che i sondaggi ti aiutano a capirlo,
ma ti aiutano a capirlo anche tanti altri elementi… non possono essere come
sono stati spesso una sorta di fede assoluta.
…noi come gruppo, come staff di Prodi, abbiamo sempre, diciamo, attinto ai
sondaggi in modo laterale.»
376
In questo brano si riassume l’approccio di un gruppo che ha segnato significativamente la
cultura politica del centro-sinistra degli ultimi 10 o 15 anni, e cioè il gruppo che ruota attorno
all’ex Presidente del Consiglio Romano Prodi.
Lo scetticismo verso l’uso delle ricerche è esplicito.
Non solo, le motivazioni sono particolarmente degne di note. Il rifiuto delle ricerche, infatti, è
un atteggiamento razionale e non istintivo, complesso e non semplicistico, frutto di una
elaborazione approfondita e non di un giudizio sommario.
Due le argomentazioni sostanziali.
La prima è relativa al primato dell’attività di Governo, che non può ridursi ad una semplice
rincorsa dell’elettorato. Un tema che, oltre che indicare una precisa posizione circa la
superiorità del ceto politico rispetto alle capacità di analisi dell’elettorato stesso, evidenzia
anche una certa idea dell’atteggiamento di Governo, che deve essere concettualmente distinto
da ogni rapporto con il consenso e dunque, indirettamente, con la comunicazione.
Individuando così un proprio posizionamento (eretico, verrebbe da dire) nelle questioni
chiave – che abbiamo già individuato e che vengono dunque confermate – del primato della
politica e del legame con la comunicazione.
La seconda argomentazione riguarda invece gli strumenti stessi. Lo scetticismo circa le
possibilità d’uso, infatti, origina anche dalla consapevolezza dell’inadeguatezza delle ricerche
socio-politiche nel leggere efficacemente e in maniera affidabile la società italiana. Una
posizione che, pur senza riferimenti specifici, ricalca alcune prese di posizione presenti in
letteratura e che abbiamo introdotto nella prima parte.
Ma è interessante notare come vi sia una certa schizofrenia di fondo, o quantomeno una
problematica irrisolta, che emerge quando lo stesso decisore, in un altro brano, si allontana
dall’idea di un rifiuto consapevole delle ricerche.
(membro di staff istituzionale, centro-sinistra)
«…lo strumento è di per se … uno strumento utile perché puoi capire, per
esempio, la profondità dei bisogni, non solo dei bisogni percepiti ma dei
bisogni reali… è un'attività che chi governa, ma anche chi fa politica in
generale, deve svolgere e da questo punto di vista un sondaggio ben fatto è una
buona base di lavoro.
377
… La tendenza comunque che io ho visto nel 2006 è quella di considerare…
diciamo, il Centro Sinistra considera il sondaggio come una specie di coperta di
Linus con la quale rassicurarsi…»
In questo caso, infatti, la situazione è ben diversa. La prima parte è una chiara apertura alla
possibilità d’uso delle ricerche, che contrasta con l’idea di una cultura “demo-scettica” prima
propugnata.
Ma subito la rappresentazione si sposta dalla considerazione teorica a un giudizio sulle
pratiche realmente messe in atto. E, si noti, non è comunque un giudizio di rifiuto, bensì una
considerazione su un uso poco efficace, cioè tutto centrato sulla rassicurazione, secondo le
dinamiche che abbiamo sopra evidenziato circa gli approcci possibili all’argomento.
Di fondo, dunque, il tema delle ricerche nella decisione politica si presta a rappresentazioni
non chiare, problematiche, che lasciano aperto il campo a più soluzioni e che mostrano una
cultura politica che non ha ancora fatto tutti i conti con questo fenomeno.
Un’idea confermata da un ulteriore brano.
(membro di staff istituzionale, centro-sinistra)
«… diciamo così che, se devo giudicare la capacità di quello che imparavamo
dai sondaggi di portare dei cambiamenti devo dichiararla decisamente bassa.
…bassa per le azioni di governo, bassa per una serie di rigidità che non erano
una scelta, diciamo, politica di base della campagna elettorale ma erano invece
un discorso di una certa lentezza nel mettere in moto contro misure dal punto di
vista comunicativo…»
Come nel precedente, anche in questo caso non siamo più sul piano del rifiuto, bensì su
quello dell’incapacità di esprimere pratiche efficaci di utilizzo.
Anche in questo brano, infatti, una posizione sostanzialmente favorevole all’utilizzo delle
ricerche si scontra con la presa d’atto di una difficoltà nella trasformazione di questo concetto
in pratiche.
Fra le varie, la più importante è senz’altro quella relativa alla difficoltà di utilizzare
efficacemente i risultati provenienti dalla ricerca per mettere in atto “contro misure dal punto
di vista comunicativo”.
378
Si tratta di un punto doppiamente rilevante. In primo luogo perché tocca l’argomento del
legame con la comunicazione, su cui ci siamo già soffermati. In secondo luogo perché
identifica una caratteristica tipica dell’area del centro-sinistra, più in difficoltà con le pratiche
relative alla comunicazione.
Ma in questo brano troviamo anche un elemento in più, che richiama uno degli aspetti più
rilevanti della rappresentazione dell’uso delle ricerche nel campo politico, di cui anche in
questo caso abbiamo già lungamente parlato. La possibilità d’uso infatti è limitata da
numerosi vincoli, fra i quali anche quello della dimensione politica, che assume dunque un
rilievo prioritario rispetto alle stesse acquisizioni provenienti dalle ricerche.
Un altro brano conferma l’ambiguità di fondo dell’area centro-sinistra nel rapportarsi con le
ricerche. Questa volta il brano proviene da un intervista con un funzionario di partito.
(funzionario di partito, centro-sinistra)
«…Chiunque sa che un leader di un grande partito o comunque la sua
organizzazione tende a muoversi a ragion veduta perché non può più avere una
presunzione di autosufficienza legata alla capacità potenziale della sua
organizzazione; anche un partito grande come il nostro, che pure sulla forza del
suo radicamento e del rapporto e del legame molto stretto con le sue
organizzazioni, e di questo fa un vanto perché gli permette di avere capacità
maggiori rispetto agli altri, sia relazionali sia di sintonia con l’opinione
pubblica. Però serve anche capire, avere un rapporto molto … oggi la politica è
molto veloce, quindi hanno vari strumenti … però noi li usiamo con grande
criterio, con una grande attenzione. Per noi questi strumenti sono un supporto,
non sostituiscono il nostro lavoro. Cioè un leader come il segretario nazionale
di un grande partito come il nostro, beh usa questi strumento perché sa che è
giusto e doveroso usarli, per far bene il suo mestiere di … ad assolvere alla sua
funzione di leadership, di guida, nella società e direttamente in un grande
partito. Ma lo fa con la giusta distanza … direi quasi con lo scetticismo che
comunque il mezzo reclama, perché sappiamo che questi sono mezzo sono in
un cono d’ombra legato alla metodologia, legato a una serie innumerevole di
fattori…»
379
Il brano è efficace nel mostrare il livello di queste mediazioni, che assumono il ruolo di
elementi fondamentali e imprescindibili della rappresentazione dei decisori politici circa l’uso
delle ricerche nel loro campo.
Emerge con evidenza la posizione di distanza o di scetticismo culturale, sulla quale ci siamo
già soffermati, e che può senz’altro essere accentuata dalla cultura politica del decisore in
oggetto.
Le ricerche sono considerate parte del mestiere, quasi un dovere legato alle prescrizioni da
rispettare per svolgere al meglio il proprio compito. Prescrizioni che non vengono poste in
discussione, sono date per scontate. Semmai vengono mediate da altri fattori, in gran parte
quelli su ci siamo soffermati, come i vincoli determinati dal primato della dimensione politica
e dalla questione dei costi e dei temi, su cui ci siamo soffermati in precedenza. Oppure il loro
ruolo è “smorzato” dai dubbi legati alla metodologia.
Una posizione significativa nel comprendere l’atteggiamento, che possiamo definire di
“forzata accettazione” delle ricerche, messo in atto da una parte della cultura di area centro-
sinistra.
Visioni differenti fra tecnici e politici
Un altro punto della differenti rappresentazioni fra culture di centro-destra e centro-sinistra
riguarda un aspetto particolare del legame fra ricerche e comunicazione.
Abbiamo visto come la rappresentazione della cultura di centro-destra attribuisca grande
rilievo al rapporto che lega le ricerche alle attività consapevolmente svolte per il consenso
politico e dunque alla comunicazione politica.
Vi è un secondo elemento di un certo interesse che conferma questa posizione.
Nell’area di centro-destra, infatti, troviamo une distanza assai minore fra i decisori che
compongono gli staff e le figure politiche di primo piano.
Anzi, non è stata individuata alcuna distinzione.
380
Occorre ricordare (come esplicitato nella parte metodologica) che tutte le interviste ai
decisori sono state svolte a personale politico appartenente agli staff ristretti degli attori di
primo piano.
Per quanto riguarda l’area di centro-destra, dunque, le interviste non evidenziano alcuna
significativa distinzione rispetto all’uso che ne fanno le figure in primo piano.
Nel centro-sinistra, invece, assistiamo a numerose controversie di questo genere.
(attore locale, centro-sinistra)
«Tu considera che questa roba qui i candidati non ne tengono mai conto, cioè
noi spendiamo un sacco di soldi in sondaggi e dopo di che viene… il 60%...»
Questo brano è particolarmente esplicito nell’indicare una insoddisfazione circa l’utilizzo che
i decisori di primo piano fanno delle ricerche politiche, a differenza di quanto i membri dello
staff suggerirebbero.
Un secondo brano riprende in maniera più indiretta la questione.
(attore locale, centro-sinistra)
«… Si, si. Allora noi abbiamo sempre… abbiamo sempre utilizzato i sondaggi,
sempre. Dal punto di vista, diciamo, meramente dei dati quantitativi, ma anche
e soprattutto, spesso e volentieri, i qualitativi.
… I focus e cioè... Diciamo, purtroppo la politica tiene conto abbastanza di
quello che viene fuori dai numeri e dai qualitativi, però, insomma,
tendenzialmente abbiamo sempre provato a tenerne conto.»
In questo caso, sono le ricerche qualitative a essere prese in considerazione. E da questa
rappresentazione emerge una strisciante insoddisfazione per un uso evidentemente
considerato non sufficiente di questo tipo di ricerche.
Nel complesso dunque dalle interviste emergono alcune situazioni di frattura. Il membro
dello staff – incaricato di seguire le ricerche e la comunicazione – porta con sé un approccio
culturale più vicino all’utilizzo delle ricerche nei percorsi decisionali in politica. Il decisore di
381
primo piano, invece, in alcuni casi prende le distanze da questa visione o quantomeno non la
asseconda completamente.
Non vi sono accenni di un fenomeno simile nell’area del centro-destra. La cultura politica in
quel caso è più compatta.
Indubbiamente, la stessa struttura organizzativa contribuisce alla riaffermazione di questa
solidità di approccio culturale. La maggiore leaderizzazione – si cui si è parlato anche nel
capitolo relativo alle strutture – accentua la compattezza della cultura organizzativa
rendendola più dipendente da quella espressa dal leader dell’organizzazione.
Il risultato complessivo è una maggiore vicinanza dei decisori di area centro-destra all’uso
delle ricerche nelle decisioni politiche, che risulta meno problematizzato e, ancora una volta,
vicino al dato per scontato.
La questione dell’analogia fra campo della politica e mercato
Un punto interessante e più ricco di sfaccettature riguarda la rappresentazione della vicinanza
del campo politico a quello del mercato.
La metafora del “mercato” è diffusa sia in letteratura che nelle rappresentazioni degli addetti
ai lavori.
Abbiamo già incontrato questo paragone nelle interviste ai ricercatori, anche se in forma
limitata e minoritaria.
Il problema dell’assimilazione del campo politico al campo del mercato non riguarda solo la
retorica e l’aspetto discorsivo della rappresentazione, ma mette in campo anche un elemento
di natura culturale.
Abbiamo infatti visto come la stessa evoluzione storica del marketing politico sia
strettamente legata alle prospettive del mercato economico e delle tecniche di marketing.
Sostenere la possibilità di un’applicazione diretta, non mediata, delle tecniche del marketing
alla politica significa assimilare gli andamenti del campo politico a quelli del campo del
382
mercato. Oltre a questo, significa adottare similari approcci epistemologici relativi ai processi
di scelta, alla determinazione di opinioni e posizioni, alla teoria dell’attore.
Pertanto, è del tutto evidente che una posizione retorica che tende ad assimilare i due campi
dovrebbe essere conseguenza di una posizione culturale aperta e scevra da problematizzazioni
del ruolo delle ricerche nei processi decisionali in campo politico.
In realtà, questo – ed è l’elemento di maggiore interesse – non trova conferma nelle interviste.
Vediamo alcuni brani che aiutano a comprendere le diverse posizioni.
(funzionario di partito, centro)
«…La politica … in realtà però utilizza le stesse identiche regole delle aziende
perché, come dire, con un mercato vero e proprio, quello politico elettorale,
quindi le regole sono le stesse… allora questo strumento secondo me è
essenziale,
…chiaramente è utile utilizzare i sondaggi e non esserne schiavi, per cui,
diciamo così, io in realtà la cosa che vedevo meno erano proprio le intenzioni
di voto, dopo di che io su base più o meno mensile cercavo di trarne indicazioni
di trend…»
Questo primo brano appartiene ad un decisore di area centrista, appartenente ad un partito
figlio della tradizione popolare e democristiana.
Esso riporta la visione più vicina all’associazione diretta dei campi della politica e del
mercato.
Nonostante questa vicinanza, fa riflettere la seconda parte, laddove le inevitabili conseguenze
che si dovrebbero trarre dalla sovrapposizione dei due campi sono in realtà assai attenuate.
Il processo decisionale totalmente razionale, calcolato, scientifico che l’applicazione della
teoria economica alla politica lascerebbe intendere è in realtà mediato dalla riflessività del
decisore (o da altri fattori non indicati).
383
In questo modo, dunque, la presenza della ricerca nel percorso di approccio alla decisione
perde significativamente di importanza e viene messa in posizione secondaria rispetto
all’azione del singolo decisore.
Rimane comunque la significativa rappresentazione retorica del processo che, sebbene non
totalmente applicato nella realtà, inserisce questa posizione in una cornice culturale precisa.
Diverso è il caso di questa seconda intervista.
(membro di staff istituzionale, centro-sinistra)
«…Diciamo che quello che io contesto è … il sondaggio usato come lo si usa
nel marketing di un prodotto…
...Si, io trovo … bisognerebbe maturare in politica una cultura del sondaggio,
secondo me…cioè l'applicazione pedissequa degli schemi di lavoro della
pubblicità ha un po’ portato a questo.»
In questo caso abbiamo a che fare con un decisore politico di area centro-sinistra.
La lontananza culturale dalla legittimazione dell’uso delle ricerche normalmente praticato
nell’approccio di questa area politica è in questo caso confermata dal brano dell’intervista,
che riporta peraltro una posizione assai diffusa anche fra gli altri decisori della stessa area.
La politica, in questo caso, non è assimilabile al campo economico. Le regole e le logiche che
governano i due campi non sono viste come assimilabili: il marketing fornisce alla politica
degli strumenti che vanno adattati, in quanto la loro applicazione “pedissequa” porterebbe a
gravi errori.
L’applicazione delle tecniche, allora, richiede l’elaborazione di una “cultura” specifica,
identificabile con un insieme di concetti, esperienze, pratiche utili a mediare il passaggio
diretto da campo economico a campo politico, salvaguardando così l’utilità degli strumenti.
Non sorprende ovviamente che questa posizione sia espressa da chi appartiene ad una cultura
politica che, come evidenziato sia dai ricercatori sia da queste stesse interviste ai decisori,
risulta essere non entusiasticamente favorevole al ruolo delle ricerche nella decisione politica.
Sorprende di più invece che non si tratti di una posizione significativamente differente da
quella presente nel campo avverso, quello dell’area di centro-destra.
384
(funzionario di partito, centro-destra)
«… Se uno si fa guidare dai sondaggi, non riesce a fare politica. La politica è
l’arte di sintonizzare il proprio messaggio sulle aspettative dell’opinione
pubblica, ma partendo dal proprio messaggio. Il messaggio non può essere
semplicemente la sommatoria delle fette dell’opinione pubblica, sennò non
regge, non ha una coerenza, non va da nessuna parte. È sbagliatissimo usare il
sondaggio come una ricerca di mercato, per poi produrre il prodotto che il
mercato vuole; non è assolutamente la stessa cosa.»
Il brano precedente è tratto da un’intervista con un decisore di area politica centro-destra.
Sorprende dunque che la vicinanza culturale di questa parte politica con un ruolo forte delle
ricerche nella politica non sia suffragata anche dalla ripresa di una rappresentazione e di una
retorica indicanti la possibilità di sovrapposizione dei campi economico e politico.
Un altro brano preso da un’intervista a un decisore di centro-destra riporta la stessa idea della
non sovrapponibilità dei due ambiti, ma lo fa adducendo motivazioni leggermente diverse.
(attore locale, centro-destra)
«Altri non lo utilizzano in questo modo. Per esempio nel mio partito troverai
che ne fanno un utilizzo commerciale. Cioè qui con sondaggio si intende
ricerca di mercato sostanzialmente, e secondo me non è corretto. Cioè lì
valutiamo i candidati politici come un prodotto. E il sondaggio mi dice come è
vissuto questo prodotto, in termini di mercato potenziale. Ora, questo è
drammaticamente sbagliato, perché toglie il peso dell’azione positiva…cioè
quanto pesa l’azione positiva in una campagna elettorale? Io dico che non
esiste un candidato per forza perdente. Perché è vero!»
In questo brano, viene ripresa la distinzione fra ricerche statiche e dinamiche introdotta nei
paragrafi precedenti.
385
E la posizione culturale di sovrapposizione fra politica e mercato è considerata negativa
perché portatrice di un uso statico delle ricerche stesse, quando invece la possibilità di un uso
dinamico sarebbe potenzialmente in grado di salvaguardare l’autonomia dell’azione politica.
La negazione della relazione politica-mercato da parte dei decisori di centro-destra
rappresenta una novità.
L’ipotesi è che la pratica e l’esperienza conducano effettivamente a negare questa
sovrapposizione non-mediata fra i due campi, che evidentemente mantengono caratteristiche
non avvicinabili.
Il fatto che non vi siano differenze sostanziali fra centro-destra e centro-sinistra sta a
significare che la maggiore esperienza sul campo e un approccio culturalmente più vicino al
ruolo delle ricerche nella politica non portano automaticamente all’avallo della
rappresentazione di totale sovrapposizione fra i due campi. Che evidentemente è lontana dal
sentire dei decisori.
Mi pare un risultato significativo, anche in relazione con le indicazioni emerse dalle interviste
ai ricercatori.
In alcune posizioni era stata riportata l’ambizione di imporre una visione culturale che
portasse i decisori a sposare la sovrapponibilità dei due campi. In particolare, si trattava dei
ricercatori appartenenti a quell’area che abbiamo chiamato “rassegnata”, per la sua critica
esplicita e rassegnata alle prassi politiche di utilizzo delle ricerche.
In questo senso, dunque, la diversità piena di vedute fra quest’area (minoritaria) dei
ricercatori e i decisori politici appartenenti alla maggioranza delle culture politiche presenti
sulla scena esce sostanzialmente confermata.
Miglioramenti dello strumento
La diversa visione culturale del ruolo delle ricerche nella politica fra centro-destra e centro-
sinistra emerge anche da quei brani delle interviste che riportano giudizi sugli strumenti o
aspettative sulla loro evoluzione.
386
Un primo riferimento di un certo interesse riguarda il cortocircuito esistente fra rilevazione
dell’opinione pubblica e media.
Riassumendo, si tratta di una forma particolare del fenomeno della profezia che si auto-
adempie. La sovraesposizione mediatica di un certo argomento porta alla conseguente
volontà di testare l’opinione pubblica su di esso. La pubblicazione dei dati o le decisioni
poste in essere a seguito della loro conoscenza creano un effetto di rinforzo e conferma del
fenomeno, che dunque tende a crescere. Si crea così un circuito chiuso che alimenta
continuamente il sistema.
Ovviamente il meccanismo può essere utilizzato consapevolmente (e dunque
strumentalmente), ma può anche generarsi in maniera del tutto autonoma.
È a questo cortocircuito che si riferisce il brano seguente.
(membro di staff istituzionale, centro-sinistra)
«…Che però dimostra ancora una volta la fragilità del sistema del sondaggio...
Se anticipando il risultato del sondaggio che vorresti poi riesco ad ottenere quel
risultato…
…Se fossi un sondaggista ci farei delle riflessioni sulla fragilità del sistema ...»
Esso proviene da un decisore di area centro-sinistra e pone in discussione il presupposto
fondamentale del meccanismo dei sondaggi e della rilevazione demoscopica, e cioè
l’esistenza stessa di una libera opinione e di una opinione pubblica, costruita secondo i criteri
delle teorie sociologiche. Criteri che rendono concettualmente corretta anche l’applicazione
di tecniche di misurazione statistica come quelle della ricerca demoscopica.
La critica riprende dunque le posizioni dei principali sostenitori della critica sociologica ed
epistemologica alle teorie dell’opinione pubblica.
Essa è ripresa significativamente dalla cultura politica del centro-sinistra, a riprova non solo
di una lontananza culturale, ma di un vero e proprio rifiuto razionale e motivato dell’intero
approccio alla ricerca demoscopica attuale e dunque delle sue possibilità di applicazione al
campo della politica.
Interessante, poi, come questa visione si spinga a esprimere un’aspettativa circa nuove
metodologie di ricerca.
387
(membro di staff istituzionale, centro-sinistra)
«… il sondaggio continua ad essere un pezzo di un sistema, io non ho ancora
visto delle analisi invece del sistema mediatico…
… cioè un sondaggio mi dice che esiste il problema sicurezza …Perché è
l’argomento del giorno? Perché se guardi i telegiornali sono costruiti perché sia
l’argomento del giorno, no. Allora è un discorso di uovo o gallina... Nasce
prima la campagna mediatica che fa aprire i telegiornali, ovviamente prima
quelli della TV commerciale e poi per questioni di concorrenza a ruota quelli
della tv pubblica, sempre con il rumeno assassino o lo stupro, la violenza,
l'assalto alla villa e via dicendo… l'emergenza o il senso di emergenza l'ho
creato o l'ho solo cavalcato?»
Vere o eccessive che siano queste posizioni, si tratta della motivazione più profonda e
radicale finora individuata per la spiegazione della posizione culturale dei decisori di area
centro-sinistra.
La radicalità di questa posizione emerge anche per contrasto, analizzando le posizioni critiche
proposte dai decisori di area centro-destra. I quali, coerentemente con la loro posizione, si
limitano a evidenziare difficoltà tecniche o inadeguatezze, senza mettere in discussione i
fondamenti concettuali della ricerca socio-politica.
(funzionario di partito, centro-destra)
«… Noi dovremmo rafforzare secondo me la componente motivazionale…
… Abbiamo secondo me ancora delle difficoltà a interpretare le aspettative e
soprattutto a dargli un peso specifico. Mi spiego con un esempio, quello più
banale. L’80%-90% degli italiani dirà che i politici guadagnano troppo, sono
dei privilegiati, bla, bla, bla… Quanti di questi cambierebbero il loro voto per
un partito che si impegnasse veramente a togliere questi privilegi? La mia
sensazione, pochissimi. Ma è una mia sensazione a orecchio, mi piacerebbe
capire se è vero o non è vero. E questo i sondaggi secondo me non riescono a
dircelo oggi. »
388
Questo primo brano è un esempio di una posizione critica costruttiva che non si pone
l’obiettivo di mettere in crisi i fondamenti, bensì quello di migliorare la ricerca.
In particolare, colpisce che, in questo brano, l’aspettativa che secondo il decisore andrebbe
meglio soddisfatta riguarda l’aspetto “motivazionale” (ma con evidenti componenti anche
predittive), cioè una delle basi che renderebbero più facilmente applicabili i risultati delle
ricerche all’azione politica.
Una posizione che rafforza la vicinanza culturale dell’area del centro-destra all’utilizzo di
ricerche nelle decisioni politiche.
Un secondo brano, sempre dello stesso decisore.
(funzionario di partito, centro-destra)
«…capire il tipo di incidenza, perlomeno in termini di consapevolezza, che le
singole scelte, i singoli comportamenti, hanno in proiezione sugli orientamenti
dell’elettorato è una cosa che secondo me manca. Cioè, non abbiamo una
tecnica per farlo.
…I focus ci danno meglio dei sondaggi la risposta a ciò che avviene. Cioè il
focus a noi serve soprattutto a capire “come è andato ieri Berlusconi a
Confindustria?, come lo avete percepito?”. Ci serve poco a capire questo tipo di
cose. »
Anche questo presenta aspetti simili e chiarisce una volta ancora come la posizione della
cultura di centro-destra, emersa dalle rappresentazioni date dagli stessi decisori nelle loro
interviste, sia finalizzata a creare le condizioni per rendere ancora più utili le ricerche
all’azione politica.
5.7 Conclusioni
La capacità di lettura della società
Da questa analisi emerge un punto interessante.
389
La letteratura ci restituisce dei tipi di partito altamente dipendenti dalle ricerche socio-
politiche. Effettivamente, anche questa ricerca mette in evidenza come le ricerche abbiano
una presenza quantitativamente rilevante e in crescita nella vita dei partiti.
D’altro canto, però, le pratiche d’uso ci restituiscono le ricerche confinate ad ausili ad altre
attività: mai determinanti, se non per compiti specifici.
L’esistenza di questo paradosso mi pare un punto significativo.
In letteratura, più volte è stato sottolineato come i partiti abbiano bisogno di arrivare ad una
maggiore “cultura del sondaggio” (o della ricerca, meglio), che permetta loro di attivare
pratiche d’uso più in grado di cogliere le vere potenzialità di questi strumenti e dunque di
giocare un ruolo nelle decisioni politiche più corretto e non viziato da semplificazioni,
banalizzazioni o storture d’interpretazione.
Effettivamente questo bisogno emerge con tutta la sua forza anche da questa indagine.
Gli stessi decisori infatti sono i primi a restituire rappresentazioni molto ben delineate circa le
necessità che li portano a commissionare questi strumenti. Salvo poi confinare la loro utilità
in pratiche ben poco determinanti.
Nel complesso appare con tutta la sua evidenza come i partiti politici stiano attraversando una
fase delicata. Da un lato, sono venuti meno i canali informativi storicamente efficaci della
militanza e del radicamento territoriale. D’altro canto, non sono ancora riusciti a darsi forme
nuove di conoscenza della realtà, adatte ai mutati contesti attuali.
I partiti non sanno leggere la società in cui operano. E, per certi aspetti, la lettura approfondita
della realtà cessa di essere un elemento determinante nella vita del partito. Come dimostrano i
racconti (e gli studi) relativi alla diminuzione di importanza degli uffici studi, alla
esternalizzazione degli stessi, alla crescita di fondazioni di studio esterne e think tank vari.
Complessivamente non sembra un azzardo dire che nella nuova forma partito il processo
decisionale è sempre più vicino all’idea di Weick. Le decisioni sono sempre meno
determinate dall’informazione. Il processo cognitivo predominante è l’attribuzione a
posteriori di un senso da dare alle decisioni prese.
Ne risulta una sostanziale autoreferenzialità dell’azione politica. Anche dal punto di vista
specifico del nostro campo di ricerca, ci troviamo a che fare con attori politici il cui impegno
quotidiano è più vicino alla legittimazione dei propri corsi d’azione, alla ricerca di senso nelle
390
proprie pratiche, alla coltivazione del proprio capitale simbolico. Una forma di
autoreferenzialità già emersa in alcuni studi sugli attori politici, particolarmente studi con una
base metodologica qualitativa (Cerulo 2009).
L’importanza del legame fra ricerche e dimensione elettorale
Un secondo punto su cui porre attenzione è il legame con la dimensione elettorale.
Si tratta di un legame fortissimo. L’utilizzo delle ricerche infatti acquisisce realmente senso e
concretezza praticamente solo nelle occasioni elettorali, tanto da superare perfino le barriere
rappresentate dalla mancanza di risorse, che, nel caso dei contesti elettorali, è evidentemente
meno importante.
D’altro canto, questo legame è in linea con l’evoluzione dei modelli di partito (Raniolo
2006b) oltre che della stessa comunicazione politica (Farrell, Webb 2002), alla luce
soprattutto della cornice interpretativa della campagna permanente (Blumenthal 1982).
391
PARTE QUARTA
CONCLUSIONI
Abbiamo introdotto nella prima parte, dedicata in gran parte all’approccio teorico, una serie
di riferimenti a teorie e prospettive presenti nella letteratura soprattutto sociologica, con
l’ambizione di individuare un nuovo punto di vista sa cui studiare le ricerche socio-politiche e
il loro utilizzo nel campo della politica.
Ricerche come sistemi esperti
Uno dei punti principali riguarda l’idea di interpretare le ricerche socio-politiche come
sistemi esperti, secondo la definizione datane da Giddens (1994).
L’applicazione del concetto, in effetti, si è rivelata assai utile ed ha messo in luce come le
dinamiche della professionalizzazione del campo politico (Mancini 2001; Mazzoleni 1998;
Negrine, Lilleker 2002) siano riconducibili all’evoluzione storica della razionalizzazione
weberiana, che nelle società della modernità radicalizzata, governate dalla distanziazione
spazio-temporale, assume forme nuove, fra cui appunto i sistemi esperti.
Da questo punto di vista, la professionalizzazione delle organizzazioni politiche corrisponde a
un processo che ha coinvolto tutte le organizzazioni nell’era della modernità.
Questa prospettiva, dunque, ha realmente offerto una chiave di lettura sociologica del
fenomeno, di evidente utilità per migliorare le possibilità di comprensione del fenomeno.
In particolare, è stato evidenziato con forza il ruolo della fiducia nelle pratiche di
legittimazione delle ricerche e dei singoli ricercatori.
La fiducia personale rappresenta innanzitutto il principale elemento che porta a scegliere di
utilizzare o meno le ricerche e a chi affidarsi. Ma, oltre a questo, emerge come sia su di essa
che si regge la capacità delle ricerche di dare per scontato la loro utilità nelle routines delle
organizzazioni politiche: senza di essa la legittimazione delle ricerche andrebbe ricostruita di
392
volta in volta, mentre così viene “immagazzinata” e solo periodicamente messa in
discussione.
La ricerca ha inoltre permesso di individuare nuovi spazi per lavori successivi.
Ancora, è il meccanismo di costruzione e mantenimento della fiducia l’aspetto che più di altri
richiede ulteriori approfondimenti.
E la recente applicazione di strumenti qualitativi e di nuove prospettive di ricerca al campo
della politica, che abbiamo sottolineato nella prima volta e alle quali più volte si è fatto
riferimenti, rappresentano un implicito suggerimento a come affrontare questi nuovi
interrogativi.
In particolare, l’applicazione della prospettiva fenomenologica allo studio delle
organizzazioni politiche (con riferimento anche alla versione di sociologia della scienza
esplicitata da Latour) mette in risalto la costruzione della fiducia nelle pratiche quotidiane e
nelle routines organizzative. Di conseguenza, cresce l’importanza delle relazioni face-to-face
e del ruolo giocato dalla definizione della situazione nella costruzione di questi contesti.
È possibile pensare, dunque, che la fiducia nelle ricerche si costruisca e si mantenga a partire
proprio da queste routines. D’altro canto, la stessa teoria di Giddens concedeva uno statuto di
particolare rilievo ai nodi d’accesso, cioè alle situazioni di contatto faccia a faccia fra i
membri delle organizzazioni e gli individui che si occupano della creazione dei sistemi
esperti.
Di conseguenza, una maggiore comprensione delle dinamiche della fiducia potrebbe essere
raggiunta attraverso uno studio sistematico delle situazioni di contatto fra ricercatori e
decisori, particolarmente dei nodi d’accesso. E la prospettiva più adeguata, a questo riguardo,
potrebbe essere rappresentata dai concetti introdotti da Erving Goffman (1969) e dalla sua
teoria.
In questo senso, si conferma l’importanza dell’introduzione della ricerca qualitativa e delle
prospettive di derivazione sociologica nello studio degli attori politici.
Le importanti ricerche condotte sui rituali politici (Navarini 2001; Faucher-King 2005) cui
abbiamo fatto riferimento, potrebbero essere utilmente integrate dallo studio con approccio
rituale delle interazioni a livello micro, utili, come abbiamo visto, anche per la comprensione
delle pratiche d’uso delle ricerche nel campo della politica.
393
Ma l’analisi empirica svolta in questa ricerca mette in luce come quella prospettiva sia
quantomeno parziale nel suo tentativo di dare conto del tema delle ricerche nel campo della
politica.
L’interpretazione basata sui sistemi esperti e sui vari meccanismi che li costituiscono, infatti,
si interessa principalmente delle ricerche intese come strumento utile ai fini
dell’organizzazione, cioè sostanzialmente così come esse sono intese nella visione
mainstream.
Dunque la chiave di lettura della razionalizzazione e dei sistemi esperti dialoga
principalmente con una visione classica di sondaggi e affini.
La ricerca, invece, ha messo in luce una serie di altre dinamiche e logiche che entrano con
grande forza a determinare le pratiche di utilizzo organizzativo delle ricerche, fino a diventare
preponderanti sul resto.
Un primo passaggio in questa direzione è relativo alla questione dei vincoli.
Il tema dei vincoli che condizionano la possibilità di utilizzo delle ricerche dialoga con le
negoziazioni che gli attori affrontano nel loro utilizzo delle ricerche stesse.
Sostanzialmente, la prospettiva è vicina a quella mainstream, anche se mette in luce aspetti da
questa non considerati, e dunque si avvicina a una concezione più complessa
dell’organizzazione.
In ogni caso, l’importanza attribuita ai vincoli pone ancora le organizzazioni politiche
nell’ottica di un rapporto organizzazione-ambiente basato sull’adattamento (Scott 1994;
Bonazzi 1999).
Tra i vincoli esterni che condizionano l’adattamento, mi pare interessante segnalare quello
delle regole del gioco, già al centro di alcune riflessioni sulla comunicazione politica di
natura professionale (Rodriguez 2009).
La rappresentazione dei vincoli però è utile a comprendere quali siano le dinamiche a cui gli
attori organizzativi si appellano nel legittimare o giustificare le proprie azioni. Il ruolo del
tempo, ad esempio, emerge come un tema preponderante, capace di segnare la vera cifra dei
meccanismi decisionali delle organizzazioni e, conseguentemente, dell’utilizzo delle ricerche.
394
Utilità organizzativa delle ricerche
Già Ceri (1997) sottolineava come i sondaggi corressero il pericolo di essere considerati «veri
perché utili», anziché «utili perché veri» (Ceri 1997, pag. 10). In questo modo egli intendeva
esplicitare come l’utilità a fini mediatici rendesse possibile l’attivazione di un processo di
profezia che si autoadempie che validava anche la veridicità dei dati espressi con i sondaggi.
Un processo retto dai meccanismi della costruzione sociale dello spettacolo politico,
esplicitati da Edelman (1992).
Da questa ricerca emerge una sostanziale conferma di questa idea. Ma il concetto ne esce
esteso.
Non è più solo la visibilità mediatica a decretare l’utilità dei sondaggi.
Emerge con grande forza l’utilità interna dei sondaggi e delle ricerche in genere, secondo le
varie modalità che si sono esplorate: dalla legittimazione delle posizioni politiche, al
conferimento di senso relativamente a decisioni già prese o corsi d’azione già posti in essere.
Si conferma dunque l’idea che i sondaggi vengono considerati veri (o, meglio, validi) anche e
soprattutto perché utili. Ma l’utilità non è più solo quella della funzione comunicativa: emerge
l’esistenza di una utilità di tipo organizzativo, che troppo spesso è stata sottovalutata.
Organizzazioni politiche e sensemaking
Da questo punto di vista, dunque le organizzazioni politiche risultano essere simili a quelle
descritte da Karl Weick (1995), almeno per quanto riguarda la presenza preponderante della
dimensione del sensemaking.
L’intuizione di Weick è confermata da numerosi fenomeni evidenziati dalla ricerca.
Innanzitutto, trovo particolarmente significativa la discrepanza netta fra le rappresentazioni
date dai ricercatori e quelle date dai decisori circa la sequenzialità del processo decisionale.
La visione dei decisori, infatti, mostra in numerosi ambiti una vicinanza all’idea della
retrospettività del sensemaking e della indissolubilità fra decisione e azione. I ricercatori,
invece, sono compatti nel proporre una visione opposta, in cui l’informazione è uno dei
fondamenti della decisione.
Le organizzazioni politiche mostrano delle peculiarità nel modo di affrontare il sensemaking.
Una, ad esempio, è il ruolo della leadership.
395
È evidente infatti che, nelle organizzazioni politiche contemporanee, la creazione di senso
circa i corsi d’azione sia indissolubilmente legata al ruolo della leadership. Il leader infatti
accentra su di sé le strutture della comunicazione, della decisione e della ricerca, in linea con
quanto studiato dai modelli di partito attuali (Calise 2000; Raniolo 2006b) e
conseguentemente ai fenomeni di personalizzazione e leaderizzazione (Mazzoleni 1998;
Farrell, Webb 2002).
Autoreferenzialità della politica
In molte ricerche si è sottolineato come gli attori politici e le organizzazioni che operano in
quel campo mettano in atto una quantità preponderante di pratiche e di comunicazioni di
natura autoreferenziale.
Già i pionieristici lavori di sociologia politica sulle èlites politiche (Michels 1911) avevano
portato l’attenzione sulla preponderanza di logiche interne agli attori politici.
La stessa applicazione al campo della politica del costruttivismo sociale operata da Edelman
(1992) ha mostrato come numerosi fenomeni della politica contemporanea siano non solo
dettati da esigenze relativa alla funzione formale della politica, la gestione dell’ambito
pubblico, sia solo una faccia della medaglia, mentre l’altra è rappresentata da una serie di
funzioni reali che hanno a che vedere con logiche interne al campo e non con la relazione con
il pubblico.
Recentemente, anche alcune importanti ricerche empiriche condotte con metodi qualitativi
(Navarini 2001; Faucher-King 2005; Cerulo 2009) hanno portato alla luce l’esistenza di
dinamiche interne al campo della politica o alle organizzazioni politiche e lontane dalle
funzioni formali di interesse pubblico, capaci di raggiungere una maggiore comprensione
delle pratiche di questi attori.
Anche negli studi sulla comunicazione politica e sulla sfera pubblica era emersa la rilevanza
delle comunicazioni interne al campo. Ad esempio il modello che oppone la democrazia
consensuale alla democrazia maggioritaria (Lijphart 1999) mostra la rilevanza delle
comunicazioni interne, fra gli attori, secondo una logica appunto autoreferenziale.
L’autoreferenzialità della politica è un tema che appartiene non solo alla ricerca scientifica,
ma che è entrata con una certa forza anche nel dibattito pubblico. I recenti fenomeni di rifiuto
396
della politica o di anti-politica possono essere letti anche come protesta dell’elettorato rispetto
a una relazione con la politica percepita come distante, poco orientata all’interesse pubblico,
autoreferenziale appunto.
L’uso organizzativo, interno, per logiche che nulla hanno a che vedere con la visione
mainstream rappresenta senza dubbio un ulteriore segno della autoreferenzialità del campo
della politica, finora poco considerata dagli studi sulla comunicazione e sugli attori politici.
D’altro canto, il tema è sentito dagli stessi decisori, seppure spostando leggermente l’angolo
di visuale. La forza con cui emerge dai dat empirici il tema del primato della politica è a
questo riguardo una conferma della presenza, al di là di ogni retorica, di una dialettica negli
attori politici fra dimensioni interne ed esterne, in linea peraltro con quanto sostenuto dagli
studi culturali sulle organizzazioni (Gagliardi 1995).
Il ruolo dei media
Da sempre, negli studi sulla comunicazione politica, è stato riservato un ruolo di primo piano
al sistema dei media (Mazzoleni 1998; Grossi 2009).
I media, innegabilmente, hanno contribuito alla nascita stessa della comunicazione politica,
nonché alle sue evoluzioni. Gli stessi effetti della comunicazione politica sul sistema socio-
politico vedono il sistema mediale come protagonista.
L’importanza attribuita ai media ha condizionato lo studio sulla comunicazione politica,
portandolo a interessarsi prioritariamente degli effetti sistemici e della relazione con i
meccanismi dell’informazione.
La ricerca che qui abbiamo presentato si inserisce in un ambito diverso.
Sebbene anche il tema delle ricerche socio-politiche abbia una stretta relazione con i problemi
del campo mediale, nell’impostare questa ricerca si è scelto programmaticamente di mettere
in secondo piano il sistema dei media, per concentrarsi sull’attore politico e le sue pratiche.
In questo modo, pur nella consapevolezza della inevitabile parzialità di visione che ne
sarebbe scaturita, si intendeva portare maggiore luce su un terreno finora relativamente poco
esplorato, come quello appunto dei comportamenti degli attori politici.
In questo modo, tralaltro, si è ritenuto fosse maggiormente rispettata la concezione della
comunicazione politica non come flusso fra il campo della politica e quelli dei media e della
397
società (Mazzoleni 1998), ma come attività consapevolmente orientata a obiettivi di consenso
politico (Rodriguez 2001).
Ritengo che l’analisi a posteriori confermi l’utilità di questa impostazione. La ricchezza del
materiale raccolto e delle pratiche messe in luce contribuisce, a mio avviso, a una migliore
comprensione della comunicazione politica e del fenomeno della professionalizzazione.
Senza rinnegare l’importanza dei media, i risultati ottenuti – in termini di sensemaking, di
funzioni interne, di attività di legittimazione e molte altre – arricchiscono le nostre
conoscenze sugli attori politici, aprono nuovi spazi per la ricerca, mostrano direzioni tramite
le quali avvicinare le teorie presenti nel campo alle prassi.
E, con ogni probabilità, offrono una cornice interpretativa rinnovata anche per lo studio delle
influenze sistemiche e, dunque, del ruolo dei media, la cui centralità non è messa in
discussione, ma solo arricchita di maggiore complessità d’analisi.
L’importanza delle ricerche qualitative
Pur con i limiti dettati dalla particolare metodologia scelta, esclusivamente basata su
interviste, ritengo che questo lavoro abbia confermato il contributo che le metodologie
qualitative di ricerca possono offrire allo studio del campo della politica.
Nonostante non sia stato possibile applicarla in questo caso, ritengo che la metodologia e
l’approccio etnografico sia quello che più di tutti possa portare in futuro i maggiori risultati
alla ricerca politica.
Vi sono infatti alcune caratteristiche peculiari del mondo della politica e degli attori che lo
animano, in parte incontrate anche in questa ricerca, che potrebbero rendere l’approccio
etnografico particolarmente indicato: l’esistenza di confini netti fra gli appartenenti al campo
e gli esterni, ma anche la presenza di ruoli non totalizzanti, che mantengono una presenza
anche al di fuori del campo; l’esistenza di spazi ampi di retroscena e di una costruzione della
ribalta intenzionale, spesso molto artefatta, con una forte interrelazione con il sistema dei
media; la preponderanza delle logiche di legittimazione delle posizioni; la presenza di
numerosi ambiti di quotidianità poco esplorati e potenzialmente molto interessanti (Cerulo
2009); la pregnanza dei significati simbolici e delle pratiche di costruzione e controllo degli
398
stessi (Navarini 2001; Faucher-King 2005); l’esistenza di dinamiche di natura culturale
ancora poco esplorate (Bachelot 2007).
Da questo punto di vista, dunque, l’etnografia può rappresentare una metodologia utile ad
affrontare ambiti finora poco esplorati, seguendo quella proficua tendenza che l’ha vista
uscire dai confini in cui è rimasta rinchiusa per decenni – quelli dello studio degli emarginati
e degli “ultimi”, nel quale ha prodotto risultati storicamente di grande rilevanza – per aprirsi
ad altri ambiti potenzialmente ricchi di interesse.
399
ABSTRACT
(ITALIANO)
Attori politici e ricerche socio-politichePratiche d'uso e rappresentazioni delle ricerche
commissionate dai decisori del campo della politica
L’uso dei sondaggi e di altri strumenti di ricerca nel campo della politica è un fenomeno in
crescita.
La professionalizzazione della comunicazione politica, infatti, richiede agli attori politici di
saper maneggiare competenze specifiche. L’avvento del marketing politico testimonia
l’obiettivo di migliorare la relazioni con i pubblici esterni e un aspetto di questo fenomeno
riguarda il sempre maggiore utilizzo, da parte dei politici, di ricerche e altri ausili che
vengono appositamente commissionati a consulenti esterni o agenzie specializzate.
Numerosi studi hanno affrontato la questione, anche da punti di vista differenti. Ma ciò che
sappiamo sul tema della professionalizzazione della politica è, per certi versi, ancora parziale.
Infatti, pochi studi hanno centrato la loro attenzione sulle pratiche d’uso, su ciò che realmente
i politici fanno delle ricerche che commissionano.
Questa ricerca ha l’obiettivo di esplorare come gli attori politici – nelle loro attività di
pianificazione della comunicazione e nei processi decisionali interni – usano i risultati dei
sondaggi, dei focus group e delle altre ricerche che commissionano all’esterno.
La metodologia adottata è qualitativa, basata su interviste in profondità a ricercatori e
decisori.
400
ABSTRACT
(ENGLISH)
Political actors and socio-political researchesPractices and representations of researches used by political actors
The use of polls and other research tools in political field is more and more widespread.
The professionalization of political communication requires to political actors to be able to
manage specific competencies and knowledge. Political actors use political marketing to
control their relations with public opinion, and so they buy researches and other skills from
external institutes, agencies or individual consultants.
Several studies in different disciplinary sectors focused their attention on professionalization
of political communication, but the acquired knowledge still results partial.
Particularly, we don’ know much about the real practices of use, the attributions of sense, the
limits and the possibilities attributed by actors to this tools and their relations with
communication practices and decision making processes.
This research explores how political actors (especially in political parties) use – in the
planning of their political communication and in their decision making processes – the results
of surveys, polls, focus and other researches they buy from research institutes and agencies.
The adopted methodology is qualitative research, based on in-depth interviews to pollsters
and political actors.
401
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