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Indice
1. Introduzione…………………………………………………………………………………………………………………. 1
2. Leggi di scala………………………………………………………………………………………………………………… 3
2.1 Peso dell’ apparato scheletrico e forma dell’ animale……………………………………………… 4
Appendice 2.A: Stabilità di una colonna verticale………………………………………………………….. 6
3. Legge di Kleiber……………………………………………………………………………………………………………. 8
4. Frattali…………………………………………………………………………………………………………………………. 10
4.1 Frattali: definizione formale……………………………………………………………………………………. 11
4.2 Dimensione frattale……………………………………………………………………………………………….. 12
5. Modello frattale di West, Brown ed Enquist………………………………………………………………. 15
5.1 Dimostrazione della legge di Kleiber secondo West, Brown ed Enquist……………………. 18
6. Commenti e conclusioni………………………………………………………………………………………......... 21
Bibliografia…………………………………………………………………………………………………………………… 24
1
1. Introduzione
La biologia è rimasta a lungo una disciplina largamente descrittiva, nonostante la grande mole di misure
quantitative che i biologi hanno prodotto superando grandi difficoltà sperimentali. Inoltre la grande
complessità dei fenomeni biologici ha spinto anche dei grandi fisici come Schrödinger e Wigner, ad
affermare che la comprensione degli stessi avrebbe richiesto l'introduzione di principi fisici e chimici nuovi,
estranei alla attuale formulazione di queste discipline.
Negli ultimi anni, i computer e i metodi della fisica computazionale hanno permesso di superare almeno in
parte le difficoltà nello studio quantitativo dei fenomeni biologici. Inoltre i successi della meccanica
statistica nella trattazione di fenomeni complessi a molti corpi come le transizioni di fase, e in parte di
fenomeni fuori dall'equilibrio, fanno pensare che metodologie analoghe possano funzionare anche in
biologia.
In questa tesi analizzo delle leggi di scala che sono ispirate proprio alla meccanica statistica, e che
sembrano funzionare molto bene nella descrizione matematica del metabolismo di animali molto diversi,
mostrando una (almeno apparente) forma di universalità.
Inizio adesso con un modello estremamente semplice, ma che contiene alcuni elementi importanti per
capire i modelli che analizzerò in seguito, quello della crescita di una singola cellula in presenza di una
riserva di elementi nutritivi. Prendiamo dunque in considerazione due ipotesi di partenza ragionevoli:
supponiamo che il consumo di nutrienti sia proporzionale alla massa della cellula (e quindi al suo volume V)
e che lo scambio di nutrienti e sostanze di scarto con l’ambiente avvenga attraverso la membrana e sia
quindi proporzionale alla superficie esterna S
della cellula (Figura 1.1). Avremo dunque:
dV/dt = - αV + βS, (1.1)
con α, β costanti dipendenti dal tipo di cellula cui facciamo riferimento. Supponiamo che la forma della cellula sia approssimabile con una sfera di raggio R, ne segue che
dR/dt = -αR/3 + β, (1.2) per cui il raggio R(eq) di una cellula adulta in equilibrio risulta:
R(eq) = 3β/α. (1.3)
Questo semplice ragionamento mostra che l'equilibrio energetico della cellula pone dei limiti alle sue
dimensioni, e che anche semplici considerazioni di carattere biofisico possono avere una grande rilevanza
nella nostra comprensione dei fenomeni biologici.
Inoltre si può notare che il termine di consumo metabolico si può scrivere nella forma
αV(eq) = (3β/R(eq)) V(eq) = 3β (4π/3V(eq))1/3 V(eq) = 3β (4π/3)1/3 V(eq)
2/3 ∝ M2/3, (1.4)
Figura 1. 1
2
e quindi in questo semplice modello il consumo metabolico è proporzionale alla massa elevata a 2/3.
3
2. Leggi di scala
Nell'introduzione abbiamo analizzato un semplice modello di crescita cellulare in cui il raggio massimo della
cellula in equilibrio dipende dai coefficienti di assorbimento e di consumo dei nutrienti. La formula che
abbiamo ricavato ci dice anche che il coefficiente di consumo è inversamente proporzionale al raggio (per
un coefficiente di assorbimento fissato). Più in generale ci possiamo chiedere come possa cambiare il
consumo energetico di un organismo vivente in funzione delle sue dimensioni (e quindi della sua scala di
grandezza). Arriviamo così all'introduzione delle leggi di scala in biofisica: si tratta di quelle leggi che ci
dicono come scala il consumo metabolico (o qualunque altra variabile biofisica) in funzione delle
dimensioni dell'organismo che stiamo considerando. Spesso queste leggi di scala assumono la forma di
leggi di potenza, con degli esponenti caratteristici.
Le leggi di potenza presentano degli aspetti interessanti, e sono facilmente rappresentabili; in un grafico in
scala bilogaritmica sono delle linee rette, con coefficiente angolare uguale all'espoenente caratteristico:
log(f(x)) = k log x + log a. (2.1)
Questo tipo di leggi caratterizza un numero impressionante di fenomeni. Si pensi ad esempio alla legge di
gravitazione universale od alla legge di Coulomb che mettono in relazione la forza con l’ inverso del
quadrato della distanza, o più semplicemente alla legge quadratica che lega l’ area di un cerchio al quadrato
del suo raggio. La più semplice, e più comune, forma di scaling coinvolge il rapporto tra l’ area di superficie
S di un sistema (attraverso cui avvengono la maggior parte delle interazioni con l’ ambiente) ed il suo
volume V (che determina quantitativamente che porzione dello spazio è occupata dal sistema stesso).
A partire da tali osservazioni, molti dei comportamenti animali o dei fenomeni naturali più comuni possono
avere una giustificazione di tipo formale. Si pensi ad esempio a dei piccoli animali che si raggruppano
assieme per riscaldarsi durante l’ inverno. Il calore complessivo generato dal gruppo rimane costante ma
viene ridotta notevolmente la superficie attraverso cui esso è
disperso nell’ ambiente esterno. D’ altra parte anche l’
esistenza dei villi intestinali è giustificabile tramite un
ragionamento analogo. L’ assorbimento dei nutrienti da parte
degli animali avviene infatti attraverso la superficie interna
del loro intestino, in assenza delle protuberanze costituite dai
villi (Figura 2.1), che aumentano la superficie di assorbimento
di ordini di grandezza, animali di grandi dimensioni
morirebbero di fame.
Considerazioni di questo tipo ci permettono di capire il
funzionamento di sistemi ben più complessi di quelli sopra
citati, riportiamo nel seguito un esempio emblematico [1] che
mette in relazione il peso di un organismo con il peso del suo
apparato scheletrico, problema peraltro già trattato in una sua formulazione semplificata da Galileo Galilei
nel suo “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo”.
Figura 2. 1
4
2.1 Peso dell’ apparato scheletrico e forma dell’ animale
Si consideri il modello di animale riportato in Figura
2.2. Esso possiede una lunghezza caratteristica L (che è
legata alla massa totale dell’ organismo dalla relazione
di proporzionalità: M ∝ L3) mentre il diametro dell’
osso della gamba è pari a d. Tale analisi si propone di
considerare unicamente come varia il diametro dell’
osso di sostegno rispetto alle altre dimensioni lineari
essendo tutte le lunghezze (inclusa quella dell’ osso
della gamba) all’ infuori di d proporzionali a M1/3. Una
misura del diametro delle ossa si può ricavare dalla
massa Ms dello scheletro, che sarà proporzionale al
prodotto fra la lunghezza L delle ossa e la superficie d2
della loro sezione trasversale.
Le considerazioni riportate nel seguito sono applicabili
a qualsivoglia elemento dell’ apparato scheletrico
nonostante si faccia spesso riferimento all’ osso della gamba. Supporremo infatti che ogni animale possa
assumere uno svariato numero di posizioni differenti in modo da poter concentrare lo sforzo di
compressione dovuto alla sua massa su ogni singolo osso. Vale a dire che qualsiasi elemento dell’ apparato
scheletrico è in grado di sopportare la quasi totalità della massa dell’ animale, e che quindi ogni osso
presenta tutte le caratteristiche di un osso di sostegno.
Il modello più semplice di un animale prevede che lo stress di compressione statica imponga un limite
inferiore allo spessore di un osso di sostegno. Nello specifico, in un modello statico, l’ area d2 della sezione
trasversale dell’ osso della gamba sopporta l’ intera massa dell’ animale. Perciò
ς d2 = P, (2.3)
dove ς è lo stress di compressione statica e P la forza peso dovuta alla massa M dell’ animale. A questo
punto se supponessimo anche d proporzionale a M1/3, ς stesso dovrebbe scalare linearmente con M1/3 ma
questo non si osserva, perché le ossa sono costituite essenzialmente dallo stesso materiale in animali di
massa molto diversa, e quindi sigma deve avere un valore fissato. Quindi, mantenendo costante il valore di
sigma, troviamo che
d2 ∝ M. (2.4)
Perciò, per quanto detto in precedenza, segue che
Ms ∝ L d2 ∝ M1/3 M ∝ M1.33. (2.5)
Tuttavia il coefficiente di scala (1.33) si discosta da quello misurato che risulta essere pari a (1.12 ± 0.03).
Un modello più sofisticato assume che sia l’ elasticità delle ossa di sostegno ad imporre un limite inferiore
al loro spessore. È a partire da tale modello che McMahon [2] trovò una delle possibili dimostrazioni alla
legge di Kleiber che andremo a studiare in seguito.
Figura 2. 2
5
L’ osso di sostegno è schematizzabile, ai fini di tale modello, come una colonna cilindrica dotata di un certo
grado di elasticità. Si può dimostrare (Appendice 2.A) che
L ∝ (E/ρ)1/3 d2/3, (2.6)
dove L è la massima lunghezza di una colonna di densità di massa ρ, modulo di Young pari ad E e raggio d.
Dal momento che la gamba dovrà sopportare l’ intera massa dell’ animale nel volume L d2, avremo che ρ ∝
M / Ld2, da cui
L ∝ (Ld2/M)1/3d2/3. (2.7)
Dunque, poiché M ∝ L3, d dovrà scalare come M5/12, pertanto
Ms ∝ L d2 ∝ M1/3 (M5/12)2 ∝ M1.17. (2.8)
Si noti che l’ accordo con i dati sperimentali (riportati in Figura 2.3 in scala logaritmica) è notevolmente
migliorato. Nella tabella sono annotati i dati relativi ad alcuni animali tra quelli riportati nel plot.
Figura 2. 3
6
Appendice 2.A: Stabilità di una colonna verticale
Si consideri una colonna cilindrica verticale di lunghezza L, diametro 2d e densità ρ costante. In generale, la
colonna è soggetta ad un momento torcente gravitazionale dovuto alla forza associata al proprio peso ed
agente sul centro di massa. Il braccio della forza peso sarà dell’ ordine della deflessione rispetto alla
posizione verticale di equilibrio. All’ equilibrio tale momento torcente sarà controbilanciato da un momento
torcente elastico causato dagli sforzi di trazione e di compressione agenti sui lati della colonna. Il braccio di
tali forze è dell’ ordine del diametro della colonna.
Per deflessioni laterali abbastanza grandi, il momento torcente elastico massimo τe non è più sufficiente a
controbilanciare il momento torcente gravitazionale τg e la colonna crolla. Quindi onde evitare cedimenti
strutturali imponiamo che
τg < τe . (2.9)
Si faccia d’ ora in avanti riferimento a Figura 2.4. Avremo che τg ∝ Pa (si trascurino per comodità da qui in
avanti le costanti numeriche), dove a è la deflessione totale (BC) ed i momenti sono calcolati rispetto al
punto B. Il momento torcente elastico τe è dovuto ad uno sforzo di trazione nel lato sinistro della colonna e
ad uno sforzo di compressione nel lato destro. Entrambi gli sforzi meccanici producono una forza elastica
(di trazione o di compressione) dell’ ordine di ςd2. Dal momento che il braccio delle due forze è dell’ ordine
di d (EB), potremo scrivere τe ∝ d ςMax d2. Per la legge di Hooke avremo inoltre che ςMax ∝ E (ΔLMax /L), da cui
Pa < E (ΔLMax /L)d3, (2.10)
dove ΔLMax corrisponde all’ allungamento massimo del lato sinistro della colonna ed all’ accorciamento
massimo di quello destro mentre P è la forza peso. Si noti che la linea verticale AC indica l’ orientazione
della colonna in equilibrio meccanico. L’ arco AB, che si trova in prossimità del centro geometrico della
colonna, non subisce l’ azione di alcuna forza elastica (sforzo di trazione e sforzo di compressione sono
bilanciati) e mantiene una lunghezza pari a L/2.
Quando la colonna subisce una deflessione assume una forma approssimabile con un arco di circonferenza
di raggio R (OA) e centro O. La colonna sottende un angolo 2θ piccolo. Avremo
L = 2θR, (2.11)
e inoltre
L + ΔL = 2θ (R + d). (2.12)
Per cui,
ΔL/L = 2θd/L. (2.13)
Del resto, l’ angolo compreso tra la verticale e la linea di deflessione (l’ angolo BAC) è circa θ, per cui
essendo sinθ ≈ θ e sinθ ≈ CB/(BA)corda segue che Lθ/2 ≈ a. Quindi
ΔL/L ∝ da/L2. (2.14)
Inserendo quanto ricavato da (2.14) in (2.10) avremo
Pa < E (da/LMax2) d3 (2.15)
7
da cui
LMax < (E L d2/ P)1/3d2/3, (2.16)
essendo inoltre Ld2 il volume della colonna e P ∝ M a meno di una costante otterremo infine
LMax < (E/ρ)1/3d2/3. (2.17)
Si noti che nonostante il risultato sia derivato per il caso di una colonna uniforme di sezione quadrata, la
sua validità è estendibile (a meno di costanti numeriche) ad ogni colonna che presenti un tipo di simmetria
ragionevole.
Figura 2. 4
8
3. Legge di Kleiber
Nel 1932, il biologo svizzero Max Kleiber pubblicò un articolo nel giornale Hilgardia nel quale illustrava
come un set di dati da lui raccolti evidenziasse che il metabolismo basale tra i mammiferi varia con la
potenza (3/4) della massa (Figura 3.1):
B = B0 M3/4, (3.1)
dove B0 è una costante ed M la massa dell’ organismo. Tale legge prese il nome di legge di Kleiber. Il
metabolismo basale B (calcolato in watt ai fini dello studio in esame) si definisce come il dispendio
energetico medio di un organismo a riposo e comprende l'energia necessaria per le funzioni metaboliche
vitali tra cui, per citarne alcune, la respirazione, la circolazione sanguigna, la digestione e l’ attività del
sistema nervoso. Esso rappresenta circa il 45-75% del dispendio energetico totale giornaliero per gli esseri
umani e viene misurato attraverso la quantità di ossigeno consumata dall’ organismo. Questo e simili
fenomeni di scaling in biologia prendono il nome di fenomeni allometrici. Infatti l’ allometria è nello
specifico lo studio della relazione tra la dimensione associata ad una lunghezza caratteristica L e la forma di
un organismo animale.
A partire dalla
pubblicazione di Kleiber,
un gran numero di
scienziati ha tentato di
mettere in discussione
tale relazione o di
corroborarne la validità
senza però convergere ad
una teoria comune. Il
dibattito in proposito è
tuttora in corso ed ha
prodotto una serie di
spiegazioni più o meno
interessanti al problema.
Al centro del confronto vi
sono almeno tre dubbi
significativi ognuno dei
quali è dovuto da una
parte al problema di
ottenere un set valido di
dati (in particolare non
poche difficoltà si riscontrano nel trovare una proceduta corretta attraverso cui ottenere misurazioni
attendibili e riproducibili del metabolismo basale); dall’ altra a considerazioni di tipo statistico (in
particolare a proposito del fit a retta di punti sparsi in un plot semilogaritmico). In particolare [3]:
i) Il primo dubbio sorge a proposito dell’ esistenza stessa di una relazione di scaling fra
metabolismo basale e massa corporea che sia coerente coi dati sperimentali. Inoltre i
Figura 3. 1
9
ricercatori che condividono la legge di Kleiber mantengono opinioni divergenti riguardo al suo
range di applicazione. In altri termini, tale legge mantiene validità per un numero limitato di
taxa od ha validità universale? Nonostante uno scetticismo diffuso seppur minoritario, a partire
dagli anni ’60, venne ammessa l’ esistenza di una relazione di scaling di questo tipo, almeno tra
gli omeotermi (gli organismi in grado di mantenere costante la propria temperatura corporea,
detti comunemente a sangue caldo).
ii) In secondo luogo, ammessa l’ esistenza di una qualche relazione di scaling applicabile almeno
ad un certo numero di taxa, viene messo in discussione il gradiente del plot semilogaritmico.
Sia B = B0Mb la relazione in questione, dove B0 e b sono due costanti. Kleiber e molti ricercatori
a lui successivi sostengono che l’ esponente b di scala sia pari a (0.75). Tuttavia una significativa
minoranza dei biologi [4] suggerisce un esponente pari a (0.67) cioè a (2/3) sfruttando un
modello elementare analogo a quello illustrato nel capitolo 1. Altre teorie propongono valori
ancora differenti.
iii) Ammettendo l’ esistenza di una consistente relazione di scaling e fissato un valore di b, in che
modo può la legge di Kleiber essere interpretata da un punto di vista fisico-biologico? Vale a
dire, se da una parte possiamo giustificare il fatto che l’ esponente b possa essere uguale a
(0.67) ammettendo che il metabolismo basale dipende dal rapporto superficie su volume dell’
organismo, come possiamo interpretare il valore di b pari a (0.75) che sembra essere indicato
dai dati?
Con queste premesse, fra tutti i modelli proposti da fisici e biologi negli ultimi decenni, in questo lavoro di
tesi mi propongo di analizzare e studiare nello specifico quello ideato e sviluppato a partire dalla seconda
metà degli anni ’90 dai ricercatori Geoffrey B. West, James H. Brown, e Brian J. Enquist. Tale modello ha
prodotto e continua ancora oggi a produrre molte discussioni nel mondo scientifico tanto che le ultime
pubblicazioni a riguardo risalgono all’ ultimo biennio. Per comprendere a fondo tale approccio allo scaling
metabolico, è necessaria una breve introduzione al concetto geometrico di frattale, spenderò quindi alcune
pagine per darne una descrizione sintetica.
10
4. Frattali
“Why is geometry often described as cold and dry? One reason lies in its inability to describe the shape of a
cloud, a mountain, a coastiline or a tree. Clouds are not spheres, mountains are not cones, coastlines are
not circles, and bark is not smooth, nor does lightning travel in a straight line.”
Benoît B. Mandelbrot
Così Benoît B. Mandelbrot, padre fondatore della teoria dei frattali ed inventore del famoso insieme che
porta il suo nome (Figura 4.1), descrive nel suo libro, The Fractal Geometry of Nature [5] del 1982,
l'inadeguatezza della geometria euclidea nella descrizione della natura.
La definizione più semplice descrive un frattale come una figura geometrica in cui un motivo identico si
ripete su scala continuamente ridotta. Questo significa che ingrandendo la figura si otterranno forme
ricorrenti e vicendevolmente simili. Esempi di frattali in natura sono i fiocchi di neve od addirittura i cavoli
per citarne alcuni (Figure 4. 2-3).
Figura 4. 1
Figura 4. 2
Figura 4. 3
11
4.1 Frattali: definizione formale
Come già accennato nell’ introduzione a questo capitolo, i frattali sono figure geometriche caratterizzate
dal ripetersi sino all'infinito di uno stesso motivo su scala sempre più ridotta. Questa è la definizione più
intuitiva che si possa dare di figure che in natura si presentano con una frequenza impressionante ma che
non hanno ancora una definizione matematica precisa: l'atteggiamento corrente è quello di considerare
frattale un insieme F che abbia proprietà simili a quelle elencate di seguito:
i) Autosimilarità: F è unione di un numero di parti che, ingrandite di un certo fattore, riproducono
F stesso; in altri termini F è unione di copie di se stesso a scale differenti.
ii) Struttura fine: F rivela nuovi dettagli ad ogni ingrandimento. In Figura 4.4 è riportato un
dettaglio del set di Mandelbrot.
iii) Irregolarità: F non può essere descritto come un luogo dei punti soddisfacenti semplici
condizioni geometriche od analitiche. In altre parole, il linguaggio geometrico euclideo
tradizionale non è sufficiente per la descrizione dei frattali. La funzione è di tipo ricorsivo: F =
,z|z = f(f(f(…)))-.
iv) Dimensioni frazionarie: Una fondamentale caratteristica di queste figure, è che, sebbene esse
possano essere rappresentate in uno spazio convenzionale a due o tre dimensioni (se non si
pretende di rappresentare infinite iterazioni), la loro dimensione non è intera. In effetti la
lunghezza di un frattale piano non può essere misurata definitamene, ma dipende
strettamente dal numero di iterazioni al quale si sottopone la figura iniziale (si veda il paragrafo
4.2 per un approfondimento in proposito).
La curva di Koch, detta anche Koch snowflake (fiocco di neve di Koch), è una della prime curve frattali ad
essere state studiate. Tale curva, ideata dal matematico svedese Helge von Koch nel 1904 è un esempio di
curva chiusa non differenziabile, di area finita e perimetro infinito. Si ottiene come limite di una serie di
curve spezzate, definite in modo ricorsivo.
Figura 4. 4
12
Il procedimento attraverso cui tale curva può essere costruita
è estremamente semplice ed è schematizzato in Figura 4.5.
La curva di partenza (passo 0) è un triangolo equilatero. Si
proceda dividendo ogni lato di tale triangolo in tre segmenti
identici. Si disegni dunque un triangolo equilatero che abbia
per base il segmento centrale e che punti verso l’ esterno
(passo 1). Si ripeta il procedimento su ognuno dei segmenti
così ottenuti. In figura sono riportati solo i primi 3 degli
infiniti passi possibili.
Nel suo libro Les objets fractals, Benoît Mandelbrot propone
la curva di Koch come un modello sommario e semplificato
della costa di un'isola. Tuttavia l’ irregolarità di tale modello
risulta essere troppo sistematica per risultare accettabile. Il
suo grado di disordine è insufficiente.
4.2 Dimensione frattale
Potremmo definire la dimensione frattale D, come una quantità statistica che dà un’ indicazione di quanto
completamente un frattale riempia lo spazio. È interessante notare che tale definizione è ricavabile da una
estensione di una particolare ed intuitiva definizione di dimensione convenzionale Euclidea.
Si consideri un oggetto unitario di dimensione lineare
pari a 1 nella dimensione euclidea D. Si immagini che l’
oggetto si trovi su una griglia diffusa su tutto lo spazio.
Avremo che servono N = kD celle per ricoprire l’ oggetto
di partenza ciascuno di dimensione lineare 1/k (figura
4.6). Dunque, la dimensione definita come
D =
, (4.1)
(dove il logaritmo può essere di qualsiasi base) è uguale
alla dimensione topologica od Euclidea dell’ oggetto.
Facendo riferimento all’ equazione 4.1, applichiamo ora
tale ragionamento ad una struttura di tipo frattale
avente dimensione lineare L0:
D =
, (4.2)
Figura 4.5
Figura 4. 6
13
Dove Nn = N(Ln) è il numero di strutture autosimili di dimensione lineare Ln necessarie a coprire l’ intera
figura. Vedremo che il risultato, nel caso dei frattali, è un
numero non intero.
Determinare la dimensione frattale del setaccio di Sierpinski
(Figura 4.7) è un buon punto di partenza in quanto possiamo
facilmente ricavare i valori di Nn ed Ln esaminando l’ immagine
del frattale dopo alcune iterazioni. Si osservi da Figura 4.8
come il frattale viene costruito.
Poniamo ora particolare attenzione all’ iterazione n = 1. Si
tratta di un triangolo equilatero che consiste di tre triangoli più
piccoli e di uno spazio vuoto triangolare fra di essi. Ognuno di
questi tre triangoli è una copia della figura originale. Avremo
cioè N = 3 copie della struttura di partenza aventi dimensione
lineare L1 pari a (L0/2). Per n = 2 avremo N2 = 32 ed L2 = (L1/2)2 =
(1/2)2 L0 ed in generale per n = k avremo Nk = 3k copie della
struttura di partenza aventi dimensione lineare pari aventi dimensione lineare pari a (1/2)k L0.
Ne segue che
D =
=
=
1,585
Possiamo applicare tali considerazioni a proposito della frattalità degli oggetti al modello di cellula
introdotto nel capitolo 1 del presente lavoro di tesi. Nonostante il volume della cellula rimanga in buona
approssimazione quello di una sfera di raggio R, supponiamo che la sua superficie sia irregolare a tal punto
da variare con RD (S = β’ RD), con D compreso tra 2 e 3. Perciò da 1.1 (dV/dt = - αV + βS) segue che
dR/dt = -αR/3 + λRD-2/3 (4.3)
con λ = 3ββ’/4π. Da cui
R(eq)3-D = λ/α (4.4)
Figura 4. 7
Figura 4. 8
14
Dunque
α V(eq) = (λ/R(eq)3-D) V(eq) = λ (3/4π)D/3 - 1 V(eq)
D/3 - 1 V(eq) = V(eq)D/3 ∝ MD/3. (4.5)
e quindi il termine di consumo metabolico è proporzionale alla massa elevata a D/3, esponente compreso
tra 2/3 (modello non frattale) ed 1 (modello totalmente frattale).
15
5. Modello frattale di West, Brown ed Enquist
Un interessante approccio alla legge di Kleiber è quello proposto nel 1997 (e successivamente perfezionato)
dai ricercatori West, Brown ed Enquist. Tale modello prevede un approccio frattale al problema e sfrutta la
teoria dei frattali applicandola alle reti di trasporto interne agli organismi. Nonostante sia ancora in via di
sviluppo, il modello è uno dei più accreditati (oltre che criticati) dalla comunità scientifica internazionale.
Nel presente capitolo, dopo una breve introduzione ne illustrerò la dimostrazione formale.
Il punto di partenza [6] è riconoscere che strutture viventi altamente complesse, autosufficienti ed in grado
di riprodursi, richiedono il continuo rifornimento di un enorme numero di unità microscopiche (i nutrienti)
che hanno bisogno di essere servite e distribuite in maniera
approssimativamente democratica ed efficiente. A tale
scopo, nell’ ipotesi del modello in analisi, la selezione
naturale ha prodotto una sorta di gerarchia frattale nella
distribuzione di energia: metaboliti ed informazioni vengono
trasferiti da riserve macroscopiche a siti microscopici tramite
reti di trasporto descrivibili mediante percorsi autosimili,
vale a dire, ogni livello di tale reticolo è identico al
precedente (Figure 5.1 e 5.2). Tra le reti di tale tipo vi sono
ad esempio il sistema circolatorio animale od il sistema
vascolare delle piante. Secondo il modello in analisi, l’
evoluzione ha portato al perfezionamento ed all'
ottimizzazione delle caratteristiche di tali sistemi di trasporto.
Questi miglioramenti si riflettono nelle leggi di scala e nel
comportamento fisico stesso dei sistemi biologici e ci
permettono di postulare le seguenti proprietà delle reticoli
di trasporto:
i) I reticoli collegano e riforniscono tutte le regioni biologicamente attive, sia nei sistemi biologici
in crescita che in quelli maturi. Tali reti sono per questo motivo dette space-filling.
ii) Le loro unità terminali, come ad esempio i capillari nel sistema circolatorio, sono invarianti per
tutti gli organismi della stessa classe.
iii) Gli organismi evolvono verso uno stato ottimale nel quale l' energia dissipata nelle reti per la
distribuzione delle risorse è minima.
Per comodità e soprattutto per la grande disponibilità di dati, il modello sviluppato da West, Enquist e
Brown è basato sullo studio dei soli mammiferi. Tuttavia, gli stessi principi dovrebbero valere sia
qualitativamente che quantitativamente dai più piccoli organismi multicellulari ai maggiori vertebrati (M ≈
108 g) in un range di 20 ordini di grandezza.
Figura 5. 1
16
E’ opportuno a questo punto suddividere l’ organismo in livelli gerarchici che riflettano i percorsi del flusso
dell’ energia. Le reti biologiche che ci proponiamo di analizzare variano nelle proprietà del condotto (può
essere più o meno elastico o rigido), nel fluido trasportato (liquido o gas) e nella natura della pompa che
regola il flusso (una pompa di compressione pulsatile nel sistema cardiovascolare, una pompa a soffietto
nel sistema respiratorio, la diffusione nella trachea degli insetti e la pressione di vapore nel sistema
vascolare delle piante). Per comodità e riferendoci al caso
dei mammiferi, useremo il linguaggio del sistema
cardiovascolare ma la validità di tale modello si estende agli
altri tipi di reti biologiche. Nel caso generale (Figura 5.2), la
rete è composta di N livelli distinti dall’ aorta (livello 0) fino
ai capillari (livello N) che trasferiscono energia e materiali
alle cellule.
Si consideri il rate metabolico (metabolismo) basale come
una funzione della massa M dell’ intero organismo e della
massa Mc di una singola cellula generica:
B = B(M , Mc). (5.1)
Si pensi ora un mammifero come composto di Nco cellule
identiche e compatte, per ognuna delle quali Bc = Bc(M, Mc) e
la massa è approssimabile a:
Mc ≈ M / Nco (5.2)
Si noti che Bc, il metabolismo della cellula media di un mammifero, dipende dalla massa totale del corpo in
esame. Tuttavia, come vedremo nel seguito, tale tipo di assunzione mantiene validità solo se ci limitiamo
allo studio del comportamento delle cellule in vivo, dove la locuzione in vivo è usata per indicare fenomeni
biologici riprodotti in un organismo vivente e non in provetta (in vitro). Dalla conservazione dell’ energia nel
flusso attraverso il sistema circolatorio che alimenta le cellule (proprietà iii dei reticoli di trasporto) avremo:
B(M , Mc) = Nco Bc(M , Mc) ≈ ( M / Mc ) Bc(M , Mc) (5.3)
Da cui, rifacendoci alla legge di Kleiber (3.1), ricaviamo
Bc(M , Mc) = B0 Mc / M1/4 (5.4)
Ovvero: il metabolismo basale delle cellule in vivo varia al variare della massa corporea come M-1/4.
Implicita in questa derivazione è l’ ipotesi che siano i capillari e non le cellule ad essere le unità terminali del
sistema circolatorio in modo tale che la densità dei capillari vari con la massa come M-1/4. Se così non fosse,
ovvero se le cellule fossero le unità terminali ed ogni capillare rifornisse lo stesso numero di cellule
indipendentemente da M, allora Bc sarebbe invariante e sarebbero invece le densità di cellule e tessuti a
dover variare con la massa come M-1/4 invece di esserne indipendenti.
Siccome il fluido trasporta l’ ossigeno ed i nutrienti per il metabolismo è legittimo supporre che B, il rate
metabolico basale, sia proporzionale alla portata volumetrica nel sistema circolatorio. Tuttavia il carattere
del fluido varia con continuità lungo la rete dall’ aorta fino ai capillari. Nello specifico, finché ci troviamo nei
primi livelli della rete in prossimità dell’ aorta (livello 0), è predominante un flusso di tipo pulsatile, e la
percentuale di energia dissipata è minima. Tuttavia man mano che avanziamo di livello all’ interno del
Figura 5. 2
17
reticolo, al restringersi dei condotti aumentano gli effetti dissipativi (ad esempio la viscosità), fino ad
arrivare ad uno smorzamento quasi totale delle onde pulsatili nei capillari. Ciò nonostante, gli smorzamenti
appena descritti sono trascurabili a livello globale nei casi in cui la massa dell’ organismo sia relativamente
grande. Infatti diminuendo le dimensioni di un mammifero, viene raggiunto un punto in cui anche le arterie
principali risultano essere troppo ristrette per sopportare onde di tipo pulsatile: in altre parole, il sistema
diventa talmente sovrasmorzato da bloccare la propagazione delle onde pulsatili, e il trasporto diventa di
tipo diffusivo. In questi casi lo scaling è pressoché lineare, B varia con la massa come M1. Per semplicità
supporremo che B inizi ad assumere tale andamento quando il valore di M è minore di una certa massa
minima μ essendo la transizione molto rapida seppur continua. Imposta la continuità per M = μ, segue che:
B(M , Mc, Mm, Mr) = B0 M3/4, per M > μ (5.5)
= ( B0 / μ1/4 ) M, per M < μ
Si immagini ora di ridurre con continuità la massa totale dell’ organismo sino al di sotto di quella del più
piccolo dei mammiferi, il toporagno (μ ≈ 1g), estendendo il modello sino ad una singola cellula. In accordo
con la relazione 5.5, nella regione compresa tra μ ed Mc, dove non esiste alcun valore di M corrispondente
alla massa di un mammifero esistente, B varia con la massa come M1. Di conseguenza il metabolismo basale
di una cellula di mammifero è pari a:
Bc = Bo Mc / μ1/4 (5.6)
Quest’ ultima relazione prevede che il rate metabolico B associato a singole cellule isolate da mammiferi di
massa differente assuma un valore costante
invece di preservare l'andamento M-1/4 previsto
per le cellule in vivo (relazione 5.4). Inoltre, tale
valore invariante dovrebbe approssimare il
massimo di B per le cellule in vivo cioè il rate
metabolico di una cellula del mammifero di
massa M = μ. In corrispondenza di tale massa, i
plots di B per cellule in vivo ed in vitro si
intersecano.
Per avere un’ idea più precisa di come
differiscono fra loro i metabolismi basali di
cellule in vitro ed in vivo riportiamo in Figura 5.3
il rate metabolico di una singola cellula di
mammifero (per entrambi i casi) in funzione
della massa dell’ organismo di cui fa parte o da
cui viene isolata. I cerchi blu rappresentano il
metabolismo basale delle cellule in vivo mentre i
cerchi rossi rappresentano il metabolismo basale
delle cellule in vitro relativi a sei specie di
mammiferi: topo, criceto, ratto, macaco rhesus, essere umano e maiale. Anche in questo caso, presi Mc ≈ 3
x 10-9 g e μ ≈ 1 g, riscontriamo una discreta coerenza con le supposizioni fatte in precedenza. Un fit con una
legge di potenza sottolinea una tendenza vicina all’ esponente -1/4 come da equazione 5.4 per le cellule in
vivo, mentre B rimane costante al variare di M per le cellule in vitro. Si noti tuttavia che la significativa
deviazione dei punti dal fit con la legge di potenza -1/4 suggerisce che vari esponenti relativamente vicini a
Figura 5. 3
18
-1/4 possano produrre un fit ugualmente preciso. Nelle pubblicazioni di West e colleghi tale eventualità non
è contemplata. È inoltre opportuno precisare (per il caso delle cellule in vitro) che una statistica basata sulla
sola presenza di sei dati non è un buon punto di partenza per dimostrare la validità di una teoria scientifica.
Ciò nonostante una grande importanza assume il fatto che i due andamenti (in vitro ed in vivo) si
intersechino per M ≈ 1 g ( ≈ μ ), come previsto.
5.1 Dimostrazione della legge di Kleiber secondo West, Brown ed Enquist [7]
Come abbiamo visto nella prima parte di questo capitolo, una delle principali ipotesi di partenza per questo
modello è che l’ evoluzione ha selezionato gli organismi massimizzando la loro capacità metabolica, vale a
dire l’ efficienza con cui materiali e risorse vengono prelevati dall’ ambiente e trasformati in componenti
utili al sostentamento ed alla riproduzione dell’ organismo. Ciò è equivalente a massimizzare B, nell’ intero
organismo. Ne consegue che B è limitata dalle caratteristiche geometriche e di scaling della totale area di
superficie utile, a, attraverso cui nutrienti ed energia sono scambiati fra ambiente esterno ed interno.
Esempi emblematici sono le foglie nelle piante, l’ area di superficie dei capillari negli animali. In generale,
dunque, B è proporzionale ad a. È importante però distinguere a dalla superficie esterna od, in altre parole,
dalla pelle o dalla corteccia che avvolge la maggior parte degli organismi. In secondo luogo, supporremo che
la selezione naturale abbia agito massimizzando a pur conservando una forma compatta globale del corpo.
Questo equivale a ridurre al minimo il tempo e la resistenza nella consegna delle risorse, minimizzando
alcune lunghezze caratteristiche o distanze interne lineari.
In generale, due set distinti di variabili possono essere utilizzati per descrivere la grandezza e la forma di un
organismo: un set Euclideo convenzionale che descrive la superficie esterna, A, che racchiude il volume
totale, V, ed un set biologico che descrive la struttura interna, comprendente la superficie attraverso cui
avviene lo scambio effettivo, a, e il volume totale del materiale biologicamente attivo, v. Sebbene
emergano problemi tecnici notevoli nel calcolo di a, ci sono alcune proprietà generali di scaling a cui deve
obbedire a prescindere dai dettagli della dinamica. Prima di esaminare tali proprietà è utile considerare il
caso più semplice, valutare cioè lo scaling della superficie fisica esterna, A, di un organismo.
A livello qualitativo, A può essere visto come una qualche complicata funzione di secondo grado delle varie
lunghezze L1, L2, L3, …, che parametrizzano la grandezza e la forma del corpo in esame: A = A(L1, L2, L3, …).
Ora, da un punto di vista puramente dimensionale potremmo scrivere: A(L1, L2, L3, …) = L12φ(L2 / L1, L3 /
L1, …), dove φ è una funzione adimensionale dei rapporti L2 / L1, L3 / L1… Supponiamo ora di modificare la
dimensione globale del corpo tramite una trasformazione di scala uniforme su tutte le lunghezze, Li: Li → Li’
= Λ Li ( i = 1, 2, 3 … ), dove Λ è un numero arbitrario. Tale trasformazione conserva la forma dell'oggetto al
variare delle sue dimensioni. In questo caso φ chiaramente non cambia, quindi A risponde nel modo
seguente:
A → A’ ≡ A(Λ L1, Λ L2, Λ L3, …) = Λ2 A(L1, L2, L3, …) (5.7)
Il volume Euclideo V = V(L1, L2, L3, …), può essere trattato analogamente. Dal punto di vista dimensionale
potremmo quindi scrivere: V(L1, L2, L3, …) = L13ψ(L1, L2, L3, …), dove ψ è una funzione adimensionale dei
rapporti L2 / L1, L3 / L1… Pratichiamo dunque una trasformazione di scala uniforme analoga a quella sopra
descritta. Ψ rimarrà invariata ed avremo
V → V’ ≡ V(Λ L1, Λ L2, Λ L3, …) = Λ3 V(L1, L2, L3, …) (5.8)
19
Da (5.7) e (5.8) segue chiaramente che A’ / V’2/3 = A / V2/3, cioè che A è direttamente proporzionale a V2/3 e
quindi, per analogia, Li sarà direttamente proporzionale a V1/3. Si noti che tali conclusioni sono coerenti con
V = AL dove L è una certa lunghezza funzione di Li ( i = 1, 2, 3 … ) tale che L → L’ = ΛL. Assumendo che la
densità sia uniforme e che rimanga invariata sotto l’ azione di trasformazioni di scala, otterremo le classiche
leggi di scala Euclidee, L ∝ Li ∝ M1/3 ed A ∝ M2/3. Potremmo applicare tali speculazioni ad esempio al calcolo
della superficie della pelle dei vertebrati. Fu a partire da tali considerazioni che Rubner, e successivamente
White e Seymour [4], proposero un modello secondo il quale il metabolismo basale varia con la massa
come l’ area della superficie Euclidea esterna, A, formulando una legge di potenza 2/3.
Secondo il presente modello le considerazioni precedenti ignorano due basilari proprietà della biologia. In
primo luogo che il processo metabolico si basa sulla natura gerarchica di tipo frattale delle reti di
distribuzione delle risorse. Sottolineiamo il fatto che la rete può essere di tipo virtuale, ovvero non è
necessario che sia un sistema fisico di tubi ramificati fintanto che essa presenta un andamento gerarchico
nel flusso materiale. Questa formulazione del modello di West, Brown ed Enquist si propone di conferire a
quest’ ultimo una validità generale, basandosi cioè su considerazioni di tipo puramente geometrico
piuttosto che focalizzandosi nei dettagli relativi alla dinamica delle reti gerarchiche. In secondo luogo
richiamiamo la proprietà di invarianza delle unità terminali dei percorsi metabolici negli organismi
(proprietà ii dei reticoli di trasporto). Alla luce di queste due proprietà cercheremo quindi di correggere il
modello di scaling classico Euclideo incorporando alcune modifiche che lo rendano applicabile alla biologia
in generale.
Per ogni dato tipo di organismo l’ area di superficie effettiva , a, è funzione delle lunghezze elementari (l0, l1,
l2 …) relative ad ogni livello gerarchico, ma una di queste, l0, è invariante. È importante sottolineare che uno
dei punti cruciali di questo modello è il fatto che l’ ipotesi di una legge di potenza non richiede l’ esistenza
di un frattale matematico auto-simile ideale, che di per sé non prevede l’ esistenza di lunghezze elementari
fondamentali come l0. Quindi anche se la rete fisica reale non è un frattale puro perché ha unità terminali di
dimensioni fisse e può essere asimmetrica, è ancora adeguato usare un linguaggio di tipo frattale.
Ragionando analogamente a come fatto per ricavare la relazione 5.7, a potrà essere espressa come
a (l0, l1, l2 …) = l12φ(l0 / l1, l2 / l1 …) (5.9)
Ora operando una trasformazione di scala con l’ introduzione di un fattore arbitrario χ, li → li’ = χ li ( i = 1, 2,
3 … ), e mantenendo l0 costante avremo
a → a’ ≡ a(l0, χ l1, χ l2 …) = χ2 l12φ(l0 / χ l1, l2 / l1 …) (5.10)
Quindi, data l’ invarianza di l0 al variare delle dimensioni dell’ oggetto considerato, il termine di destra non
sarà più semplicemente proporzionale a χ2 come per l’ equazione 5.7. La dipendenza di φ da χ non è nota a
priori, tuttavia è valida la seguente parametrizzazione:
φ(l0 / χ l1, l2 / l1 …) = χε φ(l0 / l1, l2 / l1 …), (5.11)
dove ε è un esponente arbitrario. Dunque
a → a’ ≡ a(l0, χ l1, χ l2 …) = χ2 + ε a(l0, l1, l2 …). (5.12)
20
A questo punto possiamo interpretare l’ esponente (2 + ε) come la dimensione frattale di a. Di
conseguenza il valore di ε potrà variare nell’ intervallo chiuso *0,1+. Per ε = 0 ci troveremo nel caso
convenzionale Euclideo già descritto in precedenza, mentre per ε = 1 ci troveremo nel caso di massima
frattalità.
Possiamo adottare un ragionamento analogo nella valutazione del volume biologico v, associato ad a.
v → v’ ≡ v(l0, χ l1, χ l2 …) = χ3 + ξ v(l0, l1, l2 …) (5.13)
dove ξ ϵ [0,1]. Di conseguenza
a ∝ v(2 + ε)/(3 + ξ). (5.14)
Come accennato a inizio paragrafo, v si riferisce al volume del materiale biologicamente attivo nell’
organismo e può sempre essere espresso come v = al, dove l è una qualche lunghezza caratteristica della
struttura interna dell’ organismo dipendente anch’ essa da (l0, l1, l2 …). Potremo scrivere
l → l’ ≡ l(l0, χ l1, χ l2 …) = χ1 + η l(l0, l1, l2 …) (5.15)
dove η ϵ [0,1]. Vale a dire che
v → v’ = a’ l’ = χ3 + η + ε v (5.16)
equivale ad equazione 5.13, da cui η + ε = ξ. Assumendo che la densità sia uniforme e che rimanga invariata
sotto l’ azione di trasformazioni di scala (v ∝ M), come fatto per il caso convenzionale Euclideo, segue che
a ∝ v(2 + ε)/(3 + η + ε) ∝ M(2 + ε)/(3 + η + ε) (5.17)
Ricordiamo che la nostra ipotesi di partenza è che l’ evoluzione ha selezionato gli organismi massimizzando
la loro capacità metabolica, vale a dire l’ efficienza con cui materiali e risorse vengono prelevati dall’
ambiente e trasformati in componenti utili al sostentamento ed alla riproduzione dell’ organismo. Questo
comporta a livello pratico la massimizzazione di a, pertanto il valore dell’ esponente b = (2 + ε) / (3 + η + ε)
dovrà essere il massimo possibile. È evidente che tale condizione si verifica per η = 0 ed ε = 1, perciò b = 3/4.
Tale massimizzazione produce l’ inusuale risultato che l’ area a ha la stessa dimensione del volume
convenzionale. Significa inoltre assumere che D (relazione 4.5) nel modello di cellula frattale presentato alla
fine del capitolo precedente sia uguale a 9/4 essendo il termine di consumo metabolico proporzionale a
MD/3.
In questo modo si arriva al risultato che B, il metabolismo basale, varia con la massa come M3/4
indipendentemente dalle caratteristiche fisiche della ramificazione delle reti di trasporto.
21
6. Commenti e conclusioni
Nonostante gli entusiastici commenti di parte della comunità scientifica al modello di West, Brown ed
Enquist, anche molte critiche sono state rivolte a tale teoria. Già nel 2001 è stato osservato che i dati
disponibili e la trattazione teorica stessa non erano convincenti a tal punto da permettere di rigettare
completamente l’ ipotesi di un esponente di scala pari a 2/3 [8]. In particolare, si osservano diverse
deviazioni dall’ esponente 3/4 ma la teoria in esame non è in grado di giustificarle sebbene siano talvolta
notevoli. Ad esempio, il metabolismo massimale (metabolismo sotto sforzo) scala mediamente con un
esponente di scala pari a 0.92 [9, 10]. In realtà, il fatto che il consumo di ossigeno aumenti se l’ organismo
non si trova a riposo è intuitivo, tuttavia il modello presentato non formula una possibile spiegazione a tale
fenomeno. Un anno dopo, nel 2002, seguì un’ interessante interpretazione di tale comportamento [10].
Tale interpretazione suggerisce di distinguere accuratamente il metabolismo basale da quello a regime e di
accettare che vi siano molteplici cause e contributi allo scaling metabolico. A livello pratico possiamo
esprimere tale relazione come:
(6.1)
dove MR sta per il rate metabolico in un dato stato (a regime od a riposo), M per la massa dell’ organismo,
a è l’ intercetta del plot MR su M mentre ci e bi sono rispettivamente il fattore di ponderazione (il peso) e l’
esponente di scala del contributo i-esimo.
Secondo questo modello, detto a cascata
allometrica, ogni passo all’ interno dei percorsi
del metabolismo ha il proprio comportamento di
scaling specifico e dà il proprio contributo al
metabolismo dell’ intero organismo. Tale
contributo è definito dal coefficiente bi detto di
controllo e compreso tra 0 ed 1.
Un altro interessante modello alternativo a
quello di West, che potrebbe tuttavia
considerarsi una sua variante perfezionata, è
quello proposto recentemente da Kolokotrones e
colleghi in un articolo comparso su Nature nell’
aprile 2010 [11] a partire dai dati raccolti da
McNab. Ne analizzo nel seguito gli aspetti chiave.
In scala logaritmica, una legge di potenza quale la
legge di Kleiber (3.1), ma con un esponente di
scala arbitrario b, diventa una relazione lineare
del tipo:
log B = β0 + b log M + ε,
(6.2)
dove β0 è il logaritmo di B0 ed ε è il termine d’
errore. In realtà l’ equazione 6.2 giustifica una
Figura 6. 1
22
parte significativa degli andamenti presentando un buon accordo coi dati sperimentali senza tuttavia essere
abbastanza convincente se ci riferiamo ai più piccoli e più grandi mammiferi (Figura 6.1a). Ciò suggerisce di
considerare un modello non lineare (in scala logaritmica). Siccome ogni funzione analitica può essere
espansa in serie di potenze, è possibile introdurre il seguente modello quadratico:
log B = β0 + b log M + β1 (log M)2 + ε, (6.2)
dove β1 è una costante arbitraria. Tali considerazioni migliorano notevolmente il fit per animali di massa
superiore ai 50 g (Figura 6.1a). Si noti, facendo riferimento alla figura, che tale equazione permette di
prevedere in ottima approssimazione il rate metabolico di animali molto grandi come ad esempio l’ orca o l’
elefante. Tali organismi erano stati in un primo momento esclusi dal fit a causa della loro enorme massa
che avrebbe avuto il potenziale di compromettere la statistica dei dati. Ci limitiamo ad inserire il termine
quadratico in quanto termini di ordine superiore non migliorano significativamente il fit.
A dispetto del netto miglioramento del fit apportato da tali considerazioni, persistono delle fluttuazioni dei
dati rispetto alle previsioni che suggeriscono la necessità di un’ ulteriore modifica al modello. Diversi studi
hanno dimostrato la dipendenza del rate metabolico dalla temperatura [4, 12]. Il nuovo termine correttivo
dovrà quindi evidenziare tale dipendenza, avremo
log B = β0 + b log M + β1 (log M)2 + βT/T + ε. (6.3)
L’ accordo coi dati sperimentali è in tal modo ulteriormente migliorato sia nel caso di mammiferi di massa
intermedia (25g – 10Kg) che nel caso di mammiferi più grandi, nonostante la curva all’ aumentare della
massa tenda a deviare significativamente verso l’ alto a causa del termine quadratico.
L’ esponente locale di scala, definito come la derivata prima della relazione 6.3 rispetto a log M, varia
notevolmente (da 0.57 a 0.87) all’ interno del range di masse considerato (Figura 6.1b). Questo è in netto
contrasto con la costanza dell’ esponente di una pura legge di potenza ed indica che la relazione fra rate
metabolico e massa è significativamente diversa per grandi e piccoli animali. È in questo modo che il
modello di Kolokotrones e colleghi giustifica il diffuso disaccordo in materia dell’ esponente di scala della
legge di Kleiber.
A questo punto è opportuno evidenziare una differenza sostanziale tra il modello di West e la sua variante
appena presentata. Siccome le leggi di potenza sono necessariamente lineari, l’ esponente di scala previsto
dal modello di West è asintotico e quindi il metabolismo non impone nessun limite alla massa dell’ animale.
D’ altra parte, il modello quadratico con la temperatura (equazione 6.3) ci dice che è l’ esponente di scala a
poter aumentare liberamente. Se questo fosse corretto, la relazione di scaling metabolico dovrebbe
determinare direttamente una massa massima per gli animali. Tale limite dovrebbe trovarsi in prossimità
della massa per cui il coefficiente angolare è pari a 1. Ovvero per
b + 2β1 log M = 1. (6.4)
Il fit di Kolokotrones ci suggerisce che il limite in questione si trova intorno a 108 g: si noti che tale valore è
molto vicino a quello della massa della balena blu, il più grande animale conosciuto.
Un’ interessante riscontro sperimentale al fatto che la temperatura influisce nel metabolismo basale è
presentato in Figura 6.2 *13+. L’ adattamento degli animali a climi di tipo artico o tropicale è un ulteriore
fattore da tenere in conto nello studio del rate metabolico
23
Tuttavia tuttora non esiste un modello convincente al punto da rigettare le restanti ipotesi esistenti ed una
parte dei ricercatori non crede nell’ esistenza di una legge universale che descriva l’ andamento del
metabolismo animale in funzione della massa [12, 14]. I fattori coinvolti sono molteplici e nessuna teoria
sembra riuscire a tener conto di ognuno di essi. Significative differenze tra esponenti di scala sono
riscontrate tra ectotermi ed endotermi, oltre che fra taxa o stati metabolici differenti. Clarke e colleghi [12]
suggeriscono inoltre che ulteriori fattori finora trascurati quali la temperatura ambientale o la dieta degli
organismi debbano essere inclusi in una trattazione fisica completa del problema.
Figura 6. 2
24
Bibliografia
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