View
227
Download
0
Category
Preview:
Citation preview
IL PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETA’
NELLA RIFORMA DEL TITOLO V DELLA COSTITUZIONE
di
Luigi Salvaggio
INDICE
- Introduzione ……………………………………………………..... Pag. 3
- Parte prima: Il quadro Costituzionale del 1948
1.1 L’ordinamento amministrativo italiano nell’ambito della
Costituzione entrata in vigore il 1° Gennaio 1948 …………….
1.2 La forza innovativa del quadro costituzione del 1948 ………...
“
“
5
13
- Parte seconda: I lenti, difficili e contraddittori processi
riformatori dei primi quattro decenni dell’esperienza repubblicana
“
17
2.1 Le difficoltà e le lentezze nelle attuazioni delle innovazioni
contenute nel quadro originario del nuovo sistema costituzionale
“
17
2.2 Il bilancio dei primi decenni di esperienza repubblicana e l’inizio
della crisi della “prima Repubblica”. La transizione e i nuovi
tentativi di riforma ……………………………………………….
“
22
- Parte terza: I nuovi processi riformatori della XIII legislatura
3.1 La XIII legislatura e l’avvio di un nuovo duplice processo rifor-
matore …………………………………………………………....
“
28
3.2 La riforma “Bassanini” nel quadro del processo riformatore della
XIII legislatura …………………………………………………...
“
34
3.3 I caratteri contenutistici della riforma Bassanini ………………... “ 43
1
3.4. Ancora sulle caratteristiche essenziali della riforma Bassanini ... “ 48
- Parte quarta: Le innovazioni costituzionali della XIII legislatura .. “ 56
4.1 Le riforme contenute nelle leggi costituzionali n.1 del 1999 e
n.3 del 2001 ……………………………………………………
“
56
4.2 Le caratteristiche innovative della riforma del titolo V della
Parte II della Costituzione ……………………………………..
“
58
- Parte quinta: Il Principio di Sussidiarietà ………………………… “ 72
5.1 L’origine e le tre radici del Principio di Sussidiarietà …………. “ 72
5.2 Il Principio di Sussidiarietà nella riforma del titolo V della
Costituzione …………………………………………………….
“
76
5.2.1 Le funzioni amministrative ………………………………. “ 82
5.2.2 L’autonomia dei comuni e delle province ……………….. “ 89
5.2.3 Il potere sostitutivo ………………………………………. “ 99
5.3 Il Principio di Sussidiarietà e i suoi riflessi sul piano dell’Ordi-
namento Comunitario …………………………………………..
“
103
- Conclusioni ………………………………………………………... Pag. 110
- Appendice “ 114
Legge 18 Ottobre 2001 n.3
Titolo V della Costituzione a confronto
- Bibliografia ……………………………………………………….. “ 130
2
INTRODUZIONE
Non può negarsi che oggi, in Italia il principio di sussidiarietà sia
un principio alla moda. Il quale, non solo, suscita un notevole interesse
scientifico, testimoniato da una produzione dottrinale in crescita
esponenziale, ma riceve i suoi primi riconoscimenti della legislazione.
La sua scoperta è stata, tuttavia, una scoperta tardiva, la quale è
coincisa con l’elaborazione e con l’introduzione dell’art.3B del Trattato
di Maastricht (oggi art.5 Trattato CE). Precedentemente il principio di
sussidiarietà era stato praticamente assente dal dibattito scientifico e
politico. Le due sole eccezioni sono costituite da uno studio di Egidio
Tosato dal 1959 e da un importante ordine del giorno in Assemblea
Costituente a firma di Giuseppe Dossetti, che, peraltro, non venne messo
in votazione. In quest’ultimo – in particolare – si trova il tracciato dei
maggiori temi evocati dal principio. Ci si riferisce: al riconoscimento
della precedenza assiologia della persona umana rispetto allo Stato e
della destinazione di questo al servizio di quella; al riconoscimento della
socialità di tutte le persone (le quali – si precisa – sono destinate a
completarsi ed a perfezionarsi a vicenda, mediante una reciproca
solidarietà economica e spirituale, collocandosi in varie comunità
3
intermedie disposte secondo una naturale gradualità: comunità, familiari,
territoriali, professionali, religiose, eccetera); infine, alla precisazione
che lo Stato possa intervenire al solo fine di sopperire alle inadeguatezze
delle comunità predette.
Ma – come si è detto – tali anticipazioni sono rimaste prive di
seguito nel dibattito politico e dottrinale. Con la conseguenza che,
quando il tema è stato riproposto dal Trattato di Maastricht, il principio
di sussidiarietà poteva apparire un’assoluta novità.
In questo contesto vedremo come il principio di sussidiarietà si è
sviluppato e come si è arrivati alla costituzionalizzazione di questo
principio attraverso una radicale riforma del titolo V della Costituzione
che è stata attuata da una legge costituzionale approvata dalla Camera
dei deputati il 28/2/2001 e del Senato l’8-3-2001, in seconda
deliberazione, a maggioranza assoluta, quindi pubblicato sulla G.U. del
12-3-2001, n.59, in vista della richiesta di un referendum popolare
(<<Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione>>).
Tale riforma è entrata in vigore dopo il referendum costituzionale
tenutosi il 7-10-2001, non avendo il provvedimento ricevuto i due terzi
dei voti dalle Camere ed essendo stata presentata richiesta di referendum,
secondo quanto previsto dall’art.138 della Costituzione.
4
PARTE I
IL QUADRO COSTITUZIONALE DEL 1948
1.1 L’ordinamento amministrativo italiano nell’ambito della
Costituzione entrata in vigore il 1° gennaio 1948
L’ordinamento amministrativo italiano è profondamente mutato nel
corso dell’ormai lungo periodo di vigenza della Carta repubblicana.
Va peraltro detto che già la stessa Costituzione repubblicana, fin
dalla sua entrata in vigore il 1° gennaio del 1948, implicava profonde
innovazioni rispetto all’ordinamento precedente.
Per quanto qui ci interessa queste innovazioni riguardavano
innanzitutto l’art.5 della Costituzione, che stabiliva, come tutt’ora
stabilisce, che “la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e
promuove le autonomie locali, attua nei servizi che dipendono dallo
Stato il più ampio decentramento amministrativo, adegua i principi
e i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del
decentramento”.
A questa norma, che costituisce, anche in quanto principio
fondamentale dell’ordinamento costituzionale, il caposaldo del nuovo
5
ordinamento fondato dalla Costituzione del 1948, si accompagnava poi il
titolo V della Costituzione che all’art.114 stabiliva che “La
Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni”. L’art. 115
stabiliva poi che “Le Regioni sono costituite in enti autonomi con
propri poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione”.
L’art. 128, a sua volta, prevedeva che “Le Province e i Comuni sono
enti autonomi nell’ambito dei principi fissati da leggi generali della
Repubblica che ne determinano le funzioni”.
Per quanto riguarda poi il potere legislativo delle Regioni l’art.117
stabiliva al primo comma che esse avevano potere legislativo soltanto
nelle materia enumerate dallo stesso art. 117 e che comunque dovevano
esercitare tale potere concorrente “nei limiti dei principi fondamentali
stabiliti dalle leggi dello Stato e semprechè le norme stesse non siano
in contrasto con l’interesse nazionale e con quello di altre Regioni”.
Stabiliva inoltre, al secondo comma, che “le leggi della Repubblica
possono demandare alla regione il potere di emanare norme per la
loro attuazione.
Infine l’art.118 Cost., nel definire le competenze amministrative
delle Regioni, stabiliva che “spettano alle Regioni funzioni
amministrative per le materie elencate nel precedente articolo, salvo
6
quelle di interesse esclusivamente locale, che possono essere
attribuite dalle leggi della Repubblica alle Province, ai Comuni o ad
altri enti locali”. Il medesimo articolo stabiliva poi, ai commi due e tre,
che “lo Stato può con legge delegare alle regioni l’esercizio di altre
funzioni amministrative” e che “la Regione esercita normalmente le
sue funzioni amministrative delegandole alle Province, ai Comuni o
ad altri enti locali, o avvalendosi dei loro uffici”.
La Costituzione prevedeva inoltre, all’art116, l’esistenza di cinque
Regioni a statuto speciale il cui statuto era (ed è tutt’ora) approvato con
legge costituzionale e, all’art. 123, l’attribuzione a tutte le Regioni del
potere di approvare un proprio statuto secondo un procedimento e con un
ambito di competenza strettamente definito dalla Costituzione stessa.
Fino all’entrata in vigore della recente visione costituzionale del
titolo V della parte II della Costituzione, avvenuta con due successive
leggi costituzionali (la l. cost. n.1 del 22 novembre 1999 “Disposizioni
concernenti l’elezione diretta del Presidente della Giunta regionale e
l’autonomia statuaria delle regioni” e, soprattutto, la l. cost. n.3 del 18
ottobre 2001 “Modifiche al titolo V della parte II della Costituzione”
tutto l’ordinamento italiano, sia sotto il profilo del sistema delle fonti (e,
in particolare, del ruolo della legge statale e della legge regionale), sia
7
sotto il profilo dell’attribuzione e dell’esercizio delle funzioni
amministrative era dominato dalle disposizioni appena richiamate.
In questo contesto non vi era alcun dubbio che la legge statale, e
quindi anche gli atti con forza di legge dello Stato, specificatamente
previsti e disciplinati nell’art. 76 (leggi delega e decreti legislativi
delegati) e nell’art.77 (decreti legge), avessero un ruolo assolutamente
centrale nel sistema complessivo e soprattutto avessero, a livello
immediatamente subcostituzionale e col solo vincolo dei limiti stabiliti
dalla Costituzione, una “competenza generale”. Il che significa che,
salvo quanto potesse rientrare nelle competenze del legislatore regionale
ex art. 117, e sempre che il potere del legislatore regionale fosse
esercitato nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello
Stato (le cosiddette leggi-cornice), spettava sempre e solo alla legge
statale (e eventualmente agli atti con forza di legge dello Stato)
disciplinare in ogni materia, senza alcun limite che non fosse, appunto,
quello del rispetto delle disposizioni costituzionali.
Una situazione analoga si registrava anche per quanto riguardava il
potere amministrativo, e dunque anche le fonti regolamentari connesse
all’esercizio delle funzioni e delle competenze proprie del potere
esecutivo e comunque dell’amministrazione statale.
8
Sulla base di quanto stabilito dall’art. 118 Cost. nel testo qui
riportato, era infatti pacifico che alle Regioni spettassero solo le
competenze amministrative nelle materie in cui avevano competenza
legislativa (e sempre che esse non fossero di interesse esclusivamente
locale e perciò attribuite da leggi della Repubblica direttamente ai
Comuni, Province o altri enti locali). Per altro verso, anche le ulteriori
competenze amministrative che le Regioni potessero eventualmente
esercitare erano in ogni caso limitate rigorosamente a quelle che fossero
ad esse esplicitamente demandate dalle leggi della Repubblica.
Quanto ai Comuni e le Province le loro competenze amministrative
erano specificatamente elencate e indicate dalle leggi generali della
Repubblica alle quali spettava anche definire i principi che regolavano la
loro autonomia. Ulteriori competenze potevano poi essere attribuite (e si
sostenne anche che “dovevano” essere attribuite) dalle leggi regionali ai
sensi dell’art. 118 uc., così come le leggi della Repubblica potevano
sempre “sottrarre” competenze amministrative alle Regioni nelle materie
di loro competenza legislativa, per assegnarle invece ai Comuni, alle
Province e agli altri enti territoriali in virtù del carattere di interesse
esclusivamente locale delle funzioni stesse.
9
In ogni caso non vi era alcun dubbio che anche le competenze
amministrative di Comuni e Province in tanto sussistessero in capo a
questi enti in quanto fossero esplicitamente attribuite o delegate ad essi
dalle leggi generali della Repubblica, o dalle leggi della Repubblica e
dalle leggi regionali ex art. 118. In assenza di tale specifiche attribuzioni
o deleghe, né i Comuni né le Province né gli altri enti territoriali poteva
esercitare competenze o funzioni amministrative.
Dunque, anche sul piano delle funzioni amministrative (e più
generalmente della ripartizione del potere esecutivo legato all’attività di
esecuzione delle leggi) non vi era dubbio alcuno che la competenza
generale fosse assegnata allo stato e al potere esecutivo e
amministrativo dello Stato. Quello proprio o delegato dalle Regioni e
dei Comuni e delle Province era invece, necessariamente enumerato e
comunque non suscettibile di una propria autonoma “forza espansiva”,
se non, al massimo, sul piano di una generica tutela, anche col ricorso a
attività di diritto privato, degli interessi generali delle rispettive
comunità.
In conclusione, nel sistema costituzione che è rimasto in vigore fino
alle recenti leggi di revisione costituzionale già ricordate sul piano del
potere legislativo e genericamente normativo quanto sul piano delle
10
funzioni e competenze amministrative lo Stato (e quindi il Parlamento, il
Governo e l’Amministrazione statale) erano titolari di una competenza
generale dotata di una propria intrinseca forza espansiva. Le competenze
legislative e amministrative delle Regioni, così come quelle
amministrative che spettavano (e si poteva in un certo senso dire
“dovevano spettare”) a Comuni, Province e enti territoriali costituivano
ambiti e sfere limitate e definire di materie e si ponevano essenzialmente
come un “limite” alla competenza generale del legislatore, del potere
esecutivo e dell’amministrazione statale.
In questo contesto era assolutamente coerente col quadro
complessivo quanto disposto dall’VIII disposizione transitoria della
Costituzione laddove, al secondo e terzo comma, specificava che
“leggi della Repubblica regolano per ogni ramo della pubblica
amministrazione il passaggio delle funzioni statali alle regioni: fino a
quando non si sia provveduto al rinnovamento e alla distribuzione
delle funzioni amministrative fra gli enti locali, restano alle Province
e ai Comuni le funzioni che esercitano attualmente e le altre di cui le
regioni deleghino loro l’esercizio”. Al terzo comma, infine, quella
medesima disposizione stabiliva “Leggi della Repubblica regolano il
passaggio alle Regioni di funzionari e dipendenti dello Stato, anche
12
1.2 La forza innovativa del quadro costituzionale del 1948
Come già si è detto all’inizio del paragrafo precedente,
l’ordinamento costituzionale qui ricostruito comportava comunque
innovazioni molto profonde rispetto al sistema precedente.
Esso infatti prevedeva comunque l’esistenza di Regioni dotate di
un proprio potere legislativo e di proprie competenze amministrative e
dava a Comuni, Province e enti locali, una forte copertura costituzionale
che si estendeva fino a garantire ad essa, tramite l’intervento del
legislatore, una sfera di competenze “protetta” anche verso la possibile
pervasiva penetrazione delle Regioni.
In questo senso il nuovo ordinamento si configurava come
caratterizzato da un forte pluralismo istituzionale e da un altrettanto forte
articolazione regionale e territoriale, legata anche a una valorizzazione
costituzionale garantita delle autonomie locali e quindi, attraverso di
esse, delle comunità locali.
Da questo punto di vista, la ribadita centralità del legislatore
statale e dell’amministrazione statale veniva comunque ad essere
collocata in un quadro in cui il potere legislativo era pur sempre
13
condiviso con le Regioni, titolari anch’esse di tale potere, sia pure nei
limiti e con le restrizioni che si sono già richiamate.
L’amministrazione, d’altro canto, pur restando incentrata
sullo Stato dal punto di vista della competenza generale, veniva ora
ad essere costituzionalmente incardinata anche sugli enti (e quindi
sui governi e gli apparati) regionali e sul sistema degli enti territoriali.
Tutto questo non poteva non avere influenze e conseguenza anche
molto forti sul sistema italiano.
Conseguenze che, tanto in linea teorica in via concreta,
sembravano imporre con tutta evidenza anche un ripensamento profondo
del sistema legislativo e soprattutto del sistema amministrativo che aveva
caratterizzato fino ad allora la costruzione dell’Italia unita come Stato
accentrato e centralizzato.
Uno stato che si era costruito in forma fortemente accentrata anche
per corrispondere alle esigenze specifiche e particolari, legate al nostro
processo storico di unificazione nazionale (si pensi in particolare, in
questo senso, alla difficoltà di fondere l’Italia meridionale e l’ex Regno
delle Due Sicilie con le altre parti del Paese e all’esigenza di dare
rapidamente vita a un Regno “forte” capace di competere sulla scena
mondiale dell’imperialismo allora dominante e delle lotte di potenza fra
14
Stati – nazione). Una linea centralistica, questa, che aveva poi trovato
durante il periodo del regime fascista un suo ulteriore rafforzamento e
consolidamento anche ideologicamente orientato.
Per un altro verso poi, e collocandosi in una prospettiva più ampia,
non va neppure dimenticato che del nuovo quadro costituzionale la
spinta all’innovazione e, in un certo senso, anche al ripensamento del
ruolo dello Stato sia come legislatore che come amministrazione è stato
fin dall’inizio legato anche alle nuove, e forti, caratteristiche di una
Costituzione fortemente ispirata a valori di solidarietà e a una linea
di intervento statale e pubblico finalizzato ad assicurare “azioni
positive” e “forti trasformazioni” nella società italiana. Su questo
piano la Costituzione italiana, così come altre Costituzioni del medesimo
periodo, ha registrato anche forti spinte e impegni a carico del legislatore
e, in generale, del potere pubblico. Un fenomeno questo che non poteva
non spingere a forti innovazioni anche nel ruolo e nel contenuto stesso
della “legge”, da un lato, dell’“amministrazione” dall’altro. Il forte e
netto orientamento, chiarissimo in Costituzione, ad assicurare a tutti di
poter usufruire dei servizi essenziali e la protezione positiva dei diritti
sociali non poteva non incidere anche su un ripensamento profondo del
ruolo del potere pubblico e del suo modo di riorganizzarsi. Riflessione
15
che, a sua volta, non poteva essere legata anche all’innovazione concessa
al pluralismo legislativo, amministrativo e politico-rappresentativo
legato alla nuova articolazione in senso pluralistico e autonomistico
dell’ordinamento complessivo.
16
PARTE II
I LENTI, DIFFICILI E CONTRADDITTORI PROCESSI
RIFORMATORI DEI PRIMI QUATTRO DECENNI
DELL’ESPERIENZA REPUBBLICANA
2.1 Le difficoltà e le lentezze nelle attuazioni delle innovazioni
contenute nel quadro originario del nuovo sistema
Il processo di attuazione della Costituzione e, per quanto qui ci
interessa il connesso processo di riforma dell’amministrazione e di
costruzione di un ordinamento pluralista profondamente radicato
nel rafforzamento del sistema regionale e locale contenuto nelle nuove
previsioni costituzionali, è stato tuttavia molto lento.
Vi sono molte diverse ragioni che spiegano perché, eccezion fatta
per quanto riguarda le Regioni a statuto speciale (la cui istituzione è
legata a specifiche e particolarmente rilevanti ragioni storico-politiche),
l’attuazione dell’ordinamento regionale è stata rinviata fino al 1970. Così
come vi sono non meno rilevanti ragioni che possono spiegare perché i
molti tentativi di formare l’amministrazione statale e soprattutto,
l’amministrazione provinciale e comunale, avviati a più riprese fin dai
17
primi anni cinquanta, non abbiano raggiunto risultati apprezzabili per
molti e molti decenni.
Il quadro politico internazionale (caratterizzato dalla guerra
fredda) e il quadro politico interno (caratterizzato da un lento e difficile
processo di allargamento delle frontiere della maggioranza politica di
governo dalle coalizioni centriste fino alle coalizioni centrosinistra e
infine, nella seconda metà degli anni settanta, alla ricerca di nuovi
equilibri che in qualche modo coinvolgessero anche il maggior partito di
opposizione, il PCI, nella conduzione complessiva del Paese) sono i due
aspetti fondamentali, che attraversando e segnando i primi trenta anni
dell’esperienza repubblicana, hanno profondamente condizionato anche
l’evoluzione del sistema istituzionale e costituzionale del nostro Paese.
L’istituzione delle Regioni, avvenuta soltanto all’inizio degli anni
settanta, diede comunque una spinta non irrilevante all’avvio di un
processo di riforma e di trasformazione del sistema costituzionale e
amministrativo del Paese. Processo che, peraltro, si collegò in modo
evidente anche col non meno rilevante processo riformatore che
caratterizzò in quegli anni e negli anni immediatamente precedenti molti
settori dell’ordinamento: dalla scuola media alla nazionalizzazione
dell’energia elettrica; dalla riforma della legislazione sui rapporti di
18
lavoro al susseguirsi di riforme rilevanti in materia di pubblico impiego;
fino a toccare anche le strutture di governo, con l’istituzione di nuovi
Ministeri il ridisegno di alcune strutture governative, a partire dai
Comitati interministeriali, per arrivare anche alla riforma di alcuni fra i
più rilevanti enti pubblici economici e non economici.
Per quanto a noi interessa, tuttavia, va detto che l’attuazione delle
Regioni, avvenuta attraverso la l.n. 108 del 1968, la l.n. 281 del 1970, e
i decreti del 1972, non incise in misura significativa sul ruolo e sul
carattere di fondo del sistema degli enti territoriali e sostanzialmente
avvenne secondo criteri e modalità che furono ampiamente e
generalmente considerate insoddisfacenti.
Quello che successivamente fu definito come il “primo
decentramento” avvenne dunque in un’ottica ancora fortemente
centralistica e sulla scia di una sostanziale diffidenza per l’innovazione
conseguente all’istituzione delle Regioni.
Il processo di riforma dell’ordinamento riprese tuttavia quasi
subito dopo la prima attuazione dell’ordinamento regionale. Fu infatti
approvata una nuova legge di delega al Governo per il completamento
dell’ordinamento regionale, la l. n. 382 del 1975, in attuazione della
quale fu poi emanato il decreto delegato n. 616 del 1977.
19
Si ebbe così quello che fu poi definito come il “secondo
decentramento” e questa volta le riforme e i mutamenti indotti
toccarono in misura significativa lo stesso sistema degli enti territoriali
che si vede assegnate nuove e importanti competenze, anche per limitare
il trasferimento stesso delle competenze, e dei conseguenti beni e risorse,
in favore delle Regioni.
Non vi è dubbio tuttavia che anche in questo più favorevole
contesto i vincoli costituzionali, specialmente in ordine al potere
legislativo delle Regioni e ai limiti impliciti o espliciti posti dalla
Costituzione ai poteri amministrativi ad esse attribuiti pesarono non
poco.
Anche il secondo decentramento dunque innovò solo parzialmente
il sistema complessivo. E questa volta questo fatto dipese
essenzialmente dai limiti posti dallo stesso sistema costituzionale.
Alla fine degli anni settanta peraltro le Regioni entrarono in quello
che fu definito un “cono d’ombra”, dal quale non sarebbero uscite se non
durante la XIII legislativa, quando prese avvio la riforma Bassanini.
D’altro canto anche la riforma organica del sistema comunale e
provinciale, sempre auspicata e ricercata sin dagli anni cinquanta, non
ebbe migliore sorte.
20
Salvo alcuni interventi già ricordati e legati all’assegnazione a
questi enti di compiti e funzioni “sottratte” alle Regioni e salvo alcune
leggi destinate in particolare ad ampliare gli strumenti di partecipazione
e le competenze degli enti territoriali, e specialmente dei Comuni, in
materia di servizi sociali e assistenza sanitaria, il sistema comunale e
provinciale restò sostanzialmente immodificato e dunque oggettivamente
arretrato. E dunque anche sotto questo profilo il processo riformatore
indotto dal nuovo quadro costituzionale apparve insoddisfacente.
In questi medesimi anni cominciò peraltro a svilupparsi anche una
forte spinta all’innovazione sia nell’ordinamento costituzionale che
nell’ordinamento statale propriamente inteso.
Anche in connessione con l’avvio di una nuova fase nelle
coalizioni di centro sinistra cominciarono spinte forti verso progetti di
riforme costituzionali, da un lato; verso riforme particolarmente incisive
in alcuni settori strategici del sistema amministrativo e di governo,
dall’altro.
Peraltro, mentre le riforme costituzionali non riuscirono mai ad
avere successo e fecero registrare numerosi e ripetuti tentativi falliti, il
processo di riforma delle strutture amministrative e di governo ebbe
sorte migliore, sfociando in particolare in misure incidenti sui
21
procedimenti amministrativi, sull’organizzazione amministrativi e sulla
stessa struttura del governo e della presidenza del Consiglio. La l. n. 400
del 1988 costituì in questo senso un punto di approdo importante.
Proprio in questo periodo, e specialmente alla fine degli anni
ottanta, si assistette anche a una importante duplice innovazione: a) nel
sistema delle amministrazioni locali, da un lato; b) nel sistema del
raccordo tra amministrazione e cittadini, dall’altro.
La l. 142 del 1990, legge di riforma del sistema comunale e
provinciale, segnò infatti un’innovazione molto rilevante, concludendo
positivamente un processo avviato da molti anni e per molti anni mai
concluso. Al contempo l’approvazione della l. 241 del medesimo anno
costituì anche un punto di approdo importante di un processo riformatore
delle modalità di azione delle attività amministrative facenti capo ai
diversi soggetti dell’ordinamento.
2.2 Il bilancio dei primi decenni di esperienza repubblicana e l’inizi
della crisi della “prima Repubblica”. La transizione e i nuovi tentativi
di riforma
Se si guarda dunque a quanto accadde in Italia almeno fino al 1990
si deve registrare che mentre da un lato la riforma regionale restò
22
confinata in limiti e in orizzonti piuttosto modesti da un altro lato il
processo riformatore del sistema, pur registrando sconfitte importanti sul
piano dei tentativi di riforma costituzionale, raggiungeva invece risultati
significativi sia sul piano della riforma delle strutture
dell’amministrazione centrale sia sul piano della riforma del sistema
comunale e provinciale. Le Regioni, invece, entrate in un cono d’ombra
fin dal 1978, restavano sostanzialmente prigioniere della gabbia
costituzionale e in qualche misura erano lasciate da parte del processo di
innovazione che si è cercato di descrivere.
Con l’inizio degli anni novanta il sistema italiano entra in una
grave difficoltà politica e istituzionale che raggiunge una soglia di crisi
molto elevata con la fine della X legislatura (1987-1992) e l’avvio della
XI legislatura (1992-1993).
Durante questo periodo, che è destinato a prolungarsi poi fino alla
XIII legislatura, si assiste innanzitutto al fatto che a più riprese si torna a
cercare di approvare una riforma organica della Costituzione, registrando
sempre continui e ripetuti insuccessi, sia con le vicende della
Commissione Bicamerale De Mita – Jotti, prima, sia con l’interruzione
delle attività della Commissione Speroni, poi.
23
Da un altro lato e per un altro verso si assiste invece a un processo
di riforma del sistema politico-rappresentativo, perseguito e realizzato
essenzialmente attraverso la modifica delle leggi elettorali (si cambia la
legge elettorale comunale e provinciale; si cambiano le leggi elettorali di
Camera e Senato; non si cambia invece, almeno fino al 1995, la legge
elettorale delle Regioni).
Infine riprende in misura molto rilevante, specialmente durante il
primo governo Amato, il processo di riforma di settori strategici
dell’ordinamento amministrativo e dell’ordinamento pubblico italiano.
E’ proprio durante il governo Amato che si avvia il processo riformatore
che si concluderà col governo successivo presieduto da Ciampi, e che
vedrà la riforma del rapporto di pubblico impiego e la netta separazione
fra responsabilità politica e amministrazione (d. l. n. 29 del 1993); una
riforma sanitaria con l’introduzione dell’ICI; innovazioni significative e
penetranti nel sistema dei controlli, con la riforma della Corte dei Conti
e l’ampliamento delle competenze proprie di questo organo.
Del resto l’importanza delle riforme dell’amministrazione
innescate in quel periodo è testimoniata dal fatto che esse segnarono a
lungo anche gli anni successivi e condizionarono non poco anche la
stessa XIII legislatura.
24
In sostanza, se guardiamo a quelle legislature e soprattutto agli
anni che vanno dalla fine della X (1992) fino all’inizio della XIII
(1996), possiamo registrare i seguenti fenomeni: a) il ripetuto
fallimento di ogni tentativo di avviare una riforma organica della
Costituzione; b) il forte mutamento intervenuto nel sistema politico,
anche a livello regionale e locale, dovuto sia a fattori squisitamente
politici (la crisi legata alla delegittimazione di Tangentopoli) sia a fattori
istituzionali (le nuove leggi elettorali adottate); c) la ripresa incisiva di
un processo riformatore di quelli che allora venivano definiti come i
“rami bassi” dell’ordinamento che estese e portò avanti la riforma
dell’amministrazione pubblica, specialmente centrale e statale, già
avviato negli anni precedenti; d) la sostanziale, perdurante, incapacità di
incidere profondamente sul rapporto tra Stato, da un lato, Regioni e
sistema degli enti territoriali dall’altro. Incapacità, quest’ultima, che
massima rispetto al rapporto tra Stato e Regioni (le Regioni
continuavano a restare nel loro “cono d’ombra”), fu rilevante anche
rispetto agli enti territoriali, che videro sì modificato e irrobustito il loro
ruolo politico e di rappresentanza (specialmente grazie all’elezione
diretta dei sindaci), ma non poterono registrare un analogo e significativo
25
incremento delle loro funzioni amministrative e delle loro competenze
sostanziali.
In altri termini il periodo che andò dalla fine della X legislatura
sino all’inizio della XIII legislatura si chiuse lasciando irrisolti molti
problemi. Tra questi, soprattutto, e di particolare rilevanza, quelli
connessi a un ripensamento e a una ridefinizione dei rapporti tra
Stato, da un lato, Regioni e sistema delle autonomie territoriali e
locali, dall’altro.
Non solo. Proprio l’esperienza maturata in quegli anni dimostrò
senza ombra di dubbio che senza significative innovazioni costituzionali
e comunque senza avere il coraggio di superare i limiti formali e
sostanziali e comunque senza avere il coraggio di superare i limiti
formali e sostanziali posti dall’ordinamento costituzionale vigente non
era possibile dar vita a un compiuto salto di qualità in un senso che già si
comincia a definire “federale” ma che più correttamente sarebbe potuto
essere qualificato come orientato a garantire il pluralismo reale dei
soggetti titolari di competenze legislative e amministrative e un coerente
e forte sistema di articolazione policentrica dell’ordinamento
complessivo.
26
Per altro verso, come è ben noto, proprio in quegli anni e
particolarmente a cavallo fra la XII legislatura (iniziata col primo
governo Berlusconi e terminata col governo Dini) e l’avvio della XIII
legislatura, il problema di un “salto di qualità” in senso federale del
sistema complessivo si pose in modo sempre più incisivo e penetrante in
tutti i settori dello schieramento politico e formò oggetto comunque, in
modo più o meno netto ma sempre molto significativo, dei programmi
elettorali di quasi tutti i partiti e schieramenti che si contendevano il
consenso elettorale.
27
PARTE III
I NUOVI PROCESSI RIFORMATORI DELLA XIII
LEGISLATURA
3.1 La XIII legislatura e l’avvio di un nuovo duplice processo
riformatore.
All’inizio della XIII legislatura il problema di avviare un forte
processo di riforma del sistema complessivo e soprattutto di puntare a
superare i limiti posti dal sistema costituzionale vigente fu iscritto fin dal
primo momento all’ordine del giorno del governo dell’epoca. Al
medesimo tempo, fin dall’avvio della legislatura in Parlamento, si pose il
problema se fosse o meno possibile avere un tentativo di riforma
organica della Costituzione e in particolare della sua parte II. Non va
infine dimenticato che, come si è già ricordato, l’urgenza di dare una
risposta concreta alle nuove esigenze di federalismo era avvertita in
misura maggiore o minore in tutte le parti dello schieramento politico ed
era posta con speciale forza da alcuni movimenti politici, prima fra tutti
la Lega Nord che proprio nel settembre del 1996 tenne a Venezia una
manifestazione particolarmente incisiva su questi temi.
28
Sta di fatto che nell’estate del 1996, nei primi mesi della XIII
legislatura, si verificarono due fenomeni di grande rilievo istituzionale e
di grande importanza per quanto qui ci interessa.
Il primo consistette nel fatto che tra i primissimi atti del governo
Prodi vi fu, ad iniziativa dell’allora Ministro per la funzione pubblica e
per gli affari regionali Bassanini, la presentazione di due disegni di
legge, destinati a diventare poi la l. n. 125 del 15 maggio 1997 intitolata
“misure urgenti per lo snellimento dell’attività amministrativa e dei
procedimenti di decisione e di controllo” e la l. n. 59 del 15 marzo
1997 recante “delega al Governo per il conferimento di funzioni e
compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della PA e per la
semplificazione amministrativa”, successivamente modificata con la
medesima l. n. 127 del 1997, con la l. n. 191 del 1998 e con la l. n. 50
del 1999.
A questi due disegni di legge deve poi essere aggiunto il disegno
di legge ad iniziativa del Ministro Napoletano e del sottosegretario
Vigneti, presentato sempre dal governo Prodi nel settembre del 1996 e
destinato a diventare alcuni anni più tardi la l. n. 205 del 1999 e a
confluire poi nel T.U. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali
approvato con il d. legs N. 267 del 2000.
29
Il secondo fenomeno fu la presentazione ad iniziativa
parlamentare, e la rapida successiva approvazione nelle due prescritte
letture, di quella che sarebbe diventata la l. cost. 24 gennaio 1997 n. 1,
istitutiva di una Commissione parlamentare per le riforme costituzionali
(quella che sarebbe stata poi la Commissione bicamerale D’Alema).
Se guardiamo a questo complesso insieme di disegni di legge, al
rilevante numero di disposizioni che essi contenevano e al significato di
“sistema” che essi avevano, possiamo constatare con una certa facilità
che la XIII legislatura si è aperta operando, per quanto qui ci
interessa, su un duplice binario.
Da un lato infatti il Governo si preoccupò immediatamente di
presentare una serie di disegni di legge destinati a: a) avviare
immediate misure di riforma del sistema amministrativo regionale e
locale e delle procedure più rilevanti che lo caratterizzavano (l. n. 127
del 1997); b) ad avviare un processo di riforma ordinamentale dei
Comuni e delle Province destinato a dare completezza e innovazione alla
stessa L. 142 del 1992, mettendola fra l’altro in asse con la intervenuta
(1993) riforma del sistema elettorale comunale e provinciale che aveva
condotto all’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti di provincia; c)
ad avviare, tramite delega del Parlamento una amplissima opera di
30
riforma complessiva dell’amministrazione italiana che avesse il suo
“fuoco” da un lato nell’obiettivo di instaurare quello che fu definito
come il “federalismo amministrativo a Costituzione invariata” e
dall’altro nell’obiettivo di riformare profondamente anche
l’amministrazione centrale dello Stato, l’organizzazione del Governo e il
sistema scolastico nonché di condurre a un ulteriore stadio di
perfezionamento le riforme già avviate nel 1993 (specialmente in materia
di impiego pubblico) e di dar vita a una generale opera di delegificazione
e di semplificazione.
Da un altro lato il Parlamento, e di comune intesa
maggioranza e opposizione, decisero di dare nuovamente vita a una
Commissione bicamerale per le riforme costituzionali che avesse
come proprio scopo principale quello di procedere a una riforma
organica e complessiva della parte II della Costituzione, finalizzata in
primo luogo a introdurre anche a livello costituzionale una forma
accettabile e moderna di “federalismo” o quanto meno di “reale
articolazione policentrica dell’ordinamento repubblicano”.
Questi due fenomeni devono naturalmente essere tenuti presenti
entrambi, anche perché l’uno ha influito in modo rilevante sull’altro.
31
Infatti fino a che la Commissione bicamerale per le riforme
costituzionali ha continuato a lavorare (e cioè fino all’inizio di giugno
del 1998) anche il Governo e la maggioranza parlamentare dell’epoca
hanno operato, sia nella formulazione della l. n. 59 del 1997 che
nell’esercizio delle deleghe ricevute sulla base di quella stessa legge,
nella ragionata e fondata convinzione che si trattasse comunque di
anticipare, a livello di legislazione ordinaria e di riforma dei “rami bassi”
dell’ordinamento, un processo riformatore che avrebbe poi potuto e
dovuto trovare la sua piena copertura e stabilizzazione costituzionale in
una coerente riforma della Costituzione.
Proprio questo aspetto e questa specifica convinzione spiegano del
resto alcune parti particolarmente innovative contenute nella l. n. 59 del
1997 e rendono ragione del complesso disegno riformatore adottato,
specialmente nel Capo I, dedicato appunto all’instaurazione del c.d.
federalismo amministrativo a Costituzione invariata.
Com’è noto, e come si è già richiamato, la vicenda della
Commissione bicamerale per le riforme costituzionali presieduta dall’on.
D’Alema non ha avuto sorte più felice di quelle che l’avevano preceduta
sulla stessa strada nel corso di altre legislature. Anch’essa, come le altre,
ha dovuto interrompere i propri lavori a seguito del verificarsi
32
dell’impossibilità concreta di procedere a realizzazione la riforma col
consenso necessario. La fine della XIII legislatura si è incaricata poi di
sanzionare la definitiva soppressione.
Le vicende legate al fallimento della Commissione bicamerale
D’Alema hanno peraltro pesato non poco sull’esercizio stesso delle
deleghe contenute nella l. n. 59 del 1997. Esse infatti hanno posto le
riforme realizzate in materia di ridefinizione dei rapporti e dei poteri tra
Stato, Regioni e autonomie locali sotto la spada di Damocle di una
supposta (e forse esistente) illegittimità sino a che, proprio alla fine della
XIII legislatura la già citata riforma del titolo V della parte II della
Costituzione contenuta nella l. cost. n. 3 del 2001 ha messo
definitivamente al riparo l’attuazione data alla l. n. 59 del 1997 e ne ha
stabilizzato caratteristiche e modalità.
In ogni caso non vi è dubbio che l’interruzione del disegno
riformatore della Costituzione legale al fallimento della Commissione
bicamerale D’Alema ha inciso parecchio anche sulle modalità stesse di
attuazione della riforma legislativa in senso federalista sviluppata a
Costituzione invariata e ne ha in qualche modo accentuato i limiti e gli
aspetti problematici.
33
3.2 La riforma “Bassanini” nel quadro del processo riformatore della
XIII legislatura
Per quanto riguarda più specificatamente le riforme Bassanini e in
particolare, ovviamente, la l. n. 59 del 1997 e le successive leggi di
modifica e integrazione, devono essere preliminarmente sottolineati i
punti seguenti:
a) la l. n. 59 del 1997 si è configurata come una legge delega,
finalizzata essenzialmente a dare al governo il potere di emanare
decreti delegati al fine di sviluppare una vastissima attività di
innovazione e riforma all’intero sistema amministrativo italiano
nonché per incidere in modo rilevantissimo; a’) sul sistema delle
fonti; b’) sulle strutture di governo dello Stato; c’) sulle modalità
di collegamento fra Stato, Regioni e sistema delle autonomie
locali;
b) l’attività di riforma delineata nella l. n. 59 del 1997 ha avuto fin
dall’inizio almeno tre diverse caratteristiche; a’) ridefinire i
rapporti e la distribuzione delle competenze fra lo Stato, le
Regioni e il sistema delle autonomie locali, realizzando quello che
è stato definito, al medesimo tempo, come il “terzo
decentramento” (dopo quelli del 1970-72 e del 1975-77) e come il
34
“massimo federalismo amministrativo a Costituzione invariata”
(ma in realtà cercando anche di anticipare una riforma
costituzionale che si riteneva in corso); b’) riformare,
coerentemente col federalismo amministrativo da realizzare, la
riforma della Presidenza del Consiglio, dei Ministeri e in generale
degli enti pubblici nazionali, conducendo a termine in tal modo
anche il processo riformatore delle strutture del Governo centrale,
della Presidenza del Consiglio e dei Ministeri già avviato con la l.
n. 400 del 1988 e ripreso, senza sufficiente successo, durante il
primo governo Amato e il governo Ciampi; c’) completare le
riforme amministrative di struttura già avviate durante il decennio
precedente e in particolare quelle relative al rapporto del pubblico
impiego (di cui si è voluta la definitiva privatizzazione), alla
struttura e il ruolo della dirigenza pubblica, alla formazione dei
funzionari e dei dirigenti pubblici e le relative modalità di
selezione e di carriera; d’) rivedere le modalità di organizzazione e
di funzionamento di alcuni ambiti specifici dei servizi pubblici e
della disciplina pubblicistica di alcuni settori economici, quali i
trasporti e in genere l’organizzazione del commercio e dei
pubblici servizi, mirando anche ad avviare massicci fenomeni di
35
rilocalizzazione delle funzioni fra Stato e Regioni nonché di
privatizzazione e di delegificazione di alcuni settori
precedentemente a forte caratterizzazione pubblicistica; e’)
realizzare la semplificazione delle procedure e delle regole che
presiedono all’attività amministrazione italiana in particolare,
anche attraverso la ricerca di forme nuove di privatizzazione di
alcuni settori precedentemente a forte carattere pubblicistico; f’)
riformare il sistema scolastico italiano, organizzandolo sulla base
di una rete di istituzioni scolastiche dotate di autonomia
funzionale ed estendendo anche all’organizzazione scolastica il
regime delle autonomie funzionali già introdotto per le Università
e per le Camere di commercio (in quanto tale difeso e tutelato
dallo stesso capo I della l. n. 59 anche nel quadro dell’avviata
riforma in senso federalista dell’ordinamento italiano).
c) Il processo riformatore delineato nella l. n. 59 del 1997, e
articolato attraverso i suoi diversi capi con riguardo ai diversi
settori e profili appena evidenziati, si è configurato fin dall’inizio
come un processo intrinsecamente organico e intimamente
coerente in tutte le sue parti. In particolare è stato molto forte fin
dall’inizio il collegamento fra la riforma relativa alla definizione
36
dei rapporti e alla ridistribuzione delle competenze fra Stato,
Regioni ed enti territoriali (il federalismo amministrativo a
Costituzione invariata, appunto) e la riforma del Governo e delle
strutture centrali dello Stato. Anche la tempistica della riforma,
costruita in modo che prima si dovessero attuare le deleghe in
materia di ridistribuzione della competenza fra i diversi soggetti
dell’ordinamento (federalismo amministrativo) e solo dopo, a
riforma federalista definita, si dovesse porre mano alla riforma del
Centro (e cioè delle strutture di governo e dell’amministrazione
centrale), corrispondeva a un disegno strategico molto preciso. Un
disegno secondo il quale la stretta connessione fra l’una e l’altra
parte del processo riformatore di un sistema amministrativo
complesso e al tempo stesso strettamente connesso imponeva
necessariamente che prima si dovessero ripensare gli equilibri fra
Centro (Stato) e soggetti periferici (Regioni e enti territoriali) e
solo dopo si potesse realizzare una coerente e funzionale riforma
del Centro.
d) Il processo riformatore legato alla l. n. 59 del 1997 si è presentato
fin dall’inizio come un processo di riforma di amplissime
ambizioni di altrettanto vasti obiettivi. Un processo finalizzato sì,
37
per un verso, a realizzare il massimo federalismo amministrativo
possibile operando solo a livello di legislazione ordinaria, ma
finalizzato anche per un altro verso a completare tutti i diversi
aspetti degli itinerari riformatori dell’amministrazione italiana già
avviati negli anni, e talvolta nei decenni precedenti, e che si
volevano finalmente mettere definitivamente a regime.
e) La l. n. 59 del 1997 aveva inoltre lo scopo di accelerare
l’innovazione sia nell’amministrazione propriamente intesa che
nel sistema delle fonti. Di qui la spinta decisiva alla definizione di
procedure e strutture permanenti finalizzate alla delegificazione e
alla semplificazione. Di qui la previsione della legge annuale di
semplificazione come strumento permanente di intervento
nell’ambito della legislazione. Di qui, infine, la forte spinta
all’attuazione di innovazioni anche strutturali nonché
all’introduzione di nuovi e massicci programmi di
informatizzazione e di ammodernamento delle regole e delle
procedure dell’attività amministrativa, specialmente di quella
rivolta a garantire servizi ai cittadini.
f) L’ultimo aspetto che merita di essere sottolineato riguarda infine il
fatto che la l. n. 59 del 1997, pur facendo della riforma dei rapporti
38
e della distribuzione delle competenze amministrative tra Stato,
Regioni e sistema delle autonomie locali, il punto di partenza
“strategico” dell’intero processo riformatore messo in atto, non
interveniva direttamente nell’organizzazione interna e nelle
caratteristiche strutturali delle Regioni, delle Province e dei
Comuni in quanto tali. Il processo riformatore di Comuni e
Province, pure avviato anch’esso nella XIII legislatura e
finalizzato a “mettere in asse” l’organizzazione e la struttura di
questi enti con le innovazioni già introdotte dalla l. 142 del 1990 e
soprattutto dalla nuova legge elettorale e dell’elezione diretta del
Sindaco e del Presidente della provincia, era infatti in parte
affidata alla l. n. 127 del 1997 (legge che non conteneva deleghe al
Governo ma norme sostanziali finalizzate ad interventi di
immediata e evidente rilevanza, quali, ad esempio, la ridefinizione
del sistema dei controlli), ed in parte era rimessa invece al disegno
di legge Napoletano-Vigneri che, come si è già ricordato fu
presentato nel mese di settembre di quel medesimo 1996 in cui
furono presentati i disegni di legge che sarebbero poi diventati la l.
n. 59 e la l. n. 127 del 1997. Analogamente la l. n. 59 non
dedicava particolare attenzione né conteneva specifiche deleghe,
39
in ordine alla riforma dell’organizzazione interna delle Regioni e
ai rapporti fra i suoi organi. Questa materia infatti, come si è
ricordato, era in larga misura disciplinata direttamente dalla
Costituzione ovvero rimessa agli Statuti regionali e in ogni caso il
legislatore del 1997 ritenne che dovesse essere tutta rimessa al
processo di riforma costituzionale da svolgersi nell’ambito della
Commissione bicamerale per le riforme costituzionali.
Tutti gli elementi qui richiamati devono essere tenuti ben presenti
quando si voglia analizzare e capire a fondo il processo riformatore che
ha caratterizzato la XIII legislatura sul terreno delle riforme
amministrative.
Si è trattato infine di un processo estremamente articolato e
complesso, che ha prodotto un numero molto elevato di decreti delegati e
che ha riguardato pressoché tutti i settori della P.A.
Se è vero, dunque, che quel processo riformatore si è caratterizzato
fin dall’inizio per il fatto di voler fare una spinta forte nella direzione di
una più solida articolazione policentrica del sistema amministrativo
italiano, è vero anche che esso si è posto fin dall’inizio un obiettivo
massimamente ambizioso: quello di riformare l’intera
amministrazione italiana, passando in modo organico, e
40
tendenzialmente generalizzato, dal modello di un’amministrazione
tutta centralistica quale quella introdotta in periodo cavourriano, in
preparazione e in accompagnamento del processo di unificazione
dell’Italia, a un’amministrazione tutta fondata su una forte
articolazione pluralistica e su un robusto sistema di amministrazioni
policentriche, collegate alle Regioni e a un sistema di enti territoriali
politicamente rappresentativo e strutturalmente dotato di ampie
competenze e poteri.
Infine deve essere tenuto presente anche il fatto che tutto il
processo riformatore legato alla l. n. 59 del 1997 ha avuto due
caratteristiche molto specifiche e sostanzialmente anche fortemente
innovative.
La prima caratteristica innovativa è stata quella di puntare sulla
costruzione di due strutture forti di raccordi con le Regioni e con gli
enti territoriali, da un lato; di raccordo col Parlamento nazionale,
dall’altro.
Alla Conferenza Stato, Regioni, Province autonome fu infatti
aggiunta la Conferenza Stato, città e autonomie locali nonché la
Conferenza Unificata vista come struttura complessa, composta dei
membri delle altre due Conferenze. Queste tre strutture costituirono (e
41
costituiscono tutt’ora) uno strumento forte di collegamento fra il
Governo centrale e il sistema delle regioni e degli enti territoriali. Uno
strumento di raccordo e di collegamento la cui attività e le cui
competenze, disciplinate da quello che fu il primo decreto delegato
adottato in attuazione della l. n. 59 (il d. legs.vo n. 281 del 1997), furono
essenziali durante tutto il processo di attuazione del Capo I della l. n. 59
del 1997.
La seconda caratteristica innovativa non meno rilevante fu quella
di prevedere una apposita Commissione bicamerale (la c.d.
“bicameralina” presieduta dall’on. Cerulli Irelli), alla quale fu affidato
il compito di garantire un raccordo permanente tra Governo, come
soggetto delegato, e Parlamento, come soggetto delegante, per tutto
quanto ha riguardato il processo di attuazione della l. n. 59 del 1997.
Entrambe queste innovazioni di struttura (ma anche di
procedimento) si sono mostrate strategicamente essenziali perché hanno
potuto consentire un’attuazione della l.n. del 1997 sostanzialmente
condivida e comunque fortemente caratterizzata da quelli che, con
lessico moderno, potremmo definire nuovi strumenti di governance
dell’intero processo riformatore.
42
Da ultimo va sottolineato anche la l. n. 59 previde fin dall’inizio la
possibilità di adottare, entro termini predefiniti (in genere un anno)
decreti correttivi degli stessi decreti delegati di riforma già adottati
nell’esercizio della delega. Questa previsione, che ha consentito
un’attività molto rilevante di “aggiustamenti successivi”, ha fortemente
caratterizzato tutto il processo riformatore, dando ad esso un carattere
fortemente pragmatico e anche molto modernamente flessibile, ma
scontando anche una ulteriore produzione normativa e l’ingenerarsi
spesso di un clima di “provvisorietà” non utile a una rapida e convinta
incrementazione della riforma.
3.3 I caratteri contenutistici della riforma Bassanini
Si tratta ora di esaminare più da vicino il processo riformatore
innescato dalla l. n. 59 del 1997 relativamente alla ridistribuzione delle
competenze e delle funzioni (ma conseguentemente anche dei beni e
delle risorse) dallo Stato al sistema delle Regioni e delle autonomie
locali.
43
La normativa che ci interessa è sostanzialmente contenuta in due
grandi “corpi normativi”: il capo I della l. n. 59 del 1997 e il d. legs.vo n.
112 del 1998.
Il capo I della l. n. 59 del 1997 contiene, all’art.1, la delega al
Governo per l’emanazione di uno o più decreti legislativi volti a
conferire alle Regioni e agli enti locali, ai sensi degli artt. 5, 118 e 128
della Costituzione, funzioni e compiti amministrativi.
In tal modo si chiarisce subito che con la l. n. 59 del 1997 si vuol
dar luogo a quello che è stato definito come il “terzo decentramento”, e
dunque a una nuova e ulteriore fase di trasferimento o conferimento di
funzioni dallo Stato alle Regioni e alle autonomie locali.
Quello che conta, però, è che il medesimo art. 1 stabilisce al
secondo comma che “sono conferite alle Regioni e agli enti locali,
nell’osservanza del principio di sussidiarietà di cui all’art. 4 comma 3
lettera a) della presente legge…. Tutti i compiti amministrativi relativi
alla cura degli interessi e alla promozione dello sviluppo delle rispettive
comunità, nonché tutte le funzioni e i compiti amministrativi
localizzabili nei rispettivi territori… esercitare da qualunque organo o
amministrazione dello Stato, centrali o periferici, ovvero tramite enti o
altri soggetti pubblici”. Il terzo e il quarto comma del medesimo art. 1,
44
infine, elencavano le materie e i compiti esclusi dal conferimento di cui
al secondo comma: materie e compiti per i quali le competenze
amministrative restavano dunque comunque riservate allo Stato o ai
soggetti che erano esplicitamente indicati dalle norme, quali ad esempio
le Università e le Camere di commercio. In queste materie e nell’ambito
di questi compiti, dunque, le funzioni amministrative relative restavano
sottratte al trasferimento o al conferimento alle Regioni e agli enti
territoriali, mentre per ogni altra funzione amministrativa doveva trovare
attuazione appunto il comma secondo. Venivano poi stabiliti, all’art. 4,
molti e specifici vincoli e criteri che il legislatore delegato (e cioè il
Governo) doveva seguire nell’attuazione del trasferimento e del
conferimento delle funzioni amministrative alle Regioni e agli enti
territoriali. Fra questi vincoli vi erano: a) l’obbligo di “definire
tassativamente le funzioni e i compiti da mantenere in capo alle
amministrazioni statali (art. 3 comma 1 lettera a); b) l’obbligo di indicare
“nell’ambito di ciascuna materia, le funzioni e i compiti da conferire alle
Regioni anche ai fini di cui all’art.3 della legge 8 giugno 1990 n. 142 (la
legge di riforma dei Comuni e delle Province approvata appunto
all’inizio degli anni novanta) e osservando il principio di sussidiarietà di
cui all’art.4 comma 3 lettera a) della presente legge, o da conferire agli
45
enti locali territoriali o funzionali ai sensi degli artt. 128 e 118 della
Costituzione, nonché i criteri di conseguente e contestuale attribuzione e
ripartizione tra le Regioni, e tra queste e gli enti locali, dei beni e delle
risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative” (art. 3 comma 1
lettera b)),
Veniva stabilito inoltre che “il conferimento avviene entro il
periodo massimo di tre anni, assicurando l’effettivo esercizio delle
funzioni conferite”.
Fra i criteri che il legislatore delegato doveva seguire indicati
all’art.4, vi erano, oltre al principio di sussidiarietà, anche: a) il
principio di completezza; b) il principio di efficienza e di
economicità, anche con la soppressione delle funzioni e dei compiti
divenuti superflui; c) il principio di cooperazione; d) il principio di
responsabilità e unicità dell’amministrazione, con la conseguente
attribuzione ad un unico soggetto delle funzioni e dei compiti connessi,
strumentali e complementari, e quello della identificabilità in unico
soggetto anche associativo della responsabilità di ciascun servizio o
attività amministrativa; e) il principio di omogeneità; f) il principio di
adeguatezza, in relazione all’idoneità organizzativa
dell’amministrazione ricevente a garantire anche in forma associativa
46
con altri enti, l’esercizio delle funzioni; g) il principio di
differenziazione nell’allocazione delle funzioni in considerazione delle
diverse caratteristiche, anche associative, demografiche, territoriali e
strutturali degli enti riceventi, h) il principio della copertura
finanziaria e patrimoniale dei costi per l’esercizio delle funzioni
amministrative; l) il principio di autonomia organizzativa e
regolamentare e di responsabilità degli enti locali nell’esercizio delle
funzioni e dei compiti amministrativi ad essi conferiti.
Quando al principio di sussidiarietà, considerato, come si è visto,
essenziale nel sistema della l. n. 59, esso era definito dall’art.4 comma 3
lettera a) in modo tale da comportare “l’attribuzione della generalità dei
compiti e delle funzioni amministrative ai Comuni, alle Province e alle
comunità montane, secondo le rispettive dimensioni territoriali,
associative e organizzative, con l’esclusione delle sole funzioni
incompatibili con le dimensioni medesime, attribuendo le responsabilità
pubbliche anche al fine di favorire l’assolvimento di funzioni e di
compiti di rilevanza sociale da parte delle famiglie, associazioni e
comunità, alle autorità territorialmente e funzionalmente più vicina ai
cittadini interessati”.
47
Il d. legs.lvo n. 112 del 1998, intitolato “Conferimento di funzioni
e compiti amministrativi dello Stato alle Regioni e agli enti locali, in
attuazione del Capo I della legge 15 marzo 1997 n. 59” ha poi dato
attuazione alla delega di cui all’art. 1 della l. n. 59, prevedendo al suo
interno un complicato, ma efficace meccanismo, per l’individuazione in
concreto, e settore per settore, delle funzioni da trasferire o conferire
invece agli enti territoriali. Col medesimo decreto legislativo sono state
stabilite anche le modalità di trasferimento dei beni e delle risorse
relative alle funzioni trasferite o conferite.
Al termine della XIII legislatura era in sostanza possibile
affermare che, soprattutto per la parte relativa alla realizzazione del c.d.
“federalismo amministrativo” (ma in verità anche nelle altre parti, e
soprattutto in quella relativa alla riforma del Governo e dei Ministeri) la
riforma amministrativa avviata con la l. n. 59 del 1997 aveva trovato una
sostanziale completa attuazione.
3.4. Ancora sulle caratteristiche essenziali della riforma Bassanini
Come risulta abbastanza chiaramente da quanto si è riportato, le
caratteristiche essenziali della riforma Bassanini sono consentite nel fatto
48
di operare un massiccio e rilevantissimo trasferimento di funzioni
amministrative e di connessi beni e risorse dall’amministrazione statale
verso le amministrazioni regionali e locali.
Non solo: la riforma Bassanini, forzando ai limiti del possibile (e
forse anche in parte passandoli) i vincoli costituzionali, ha elencato le
materie e i compiti che restavano riservati all’amministrazione dello
Stato o alle amministrazioni nazionali o locali operanti in regime di
autonomia funzionale o in altre posizioni specificatamente previste dalla
legge di delega, e ha stabilito che ogni altra funzione amministrativa e
ogni altro compito non esplicitamente mantenuto in capo allo Stato
dovesse obbligatoriamente essere di competenza delle Regioni o degli
enti territoriali.
Ancora: al fine di assegnare le funzioni alle Regioni ovvero agli
enti territoriali ha introdotto per la prima volta in modo esplicito
nell’ordinamento italiano il principio di sussidiarietà.
In particolare, sul piano della c.d. “sussidiarietà verticale” (e cioè
come criterio di assegnazione delle funzioni ai diversi livelli territoriali
di governo) il principio introdotto nella riforma, formulato utilizzando
per la verità una norma complessa e complicata, è stato costruito in
modo da affermare che la generalità dei compiti e delle funzioni
49
amministrative deve spettare ai Comuni, alle Province e alle Comunità
montane, secondo le rispettive dimensioni territoriali e organizzative,
mentre ai livelli superiori, che in questa logica è la sola Regione perché
le competenze amministrative dello Stato e delle amministrazioni
centrali sono limitate alle materie e ai compiti elencati dalla legge di
delega stessa, spettano solo le funzioni non compatibili con le
dimensioni territoriali e associative e organizzative proprie dei Comuni,
delle Province e delle Comunità montane.
Sul piano, invece, della c.d. “sussidiarietà orizzontale” (sul piano
cioè della ripartizione delle competenze assegnate fra ambiti
amministrativi pubblici ed eventuali soggetti privati comunque
configurati), la norma è stata costruita in modo piuttosto ambiguo e non
del tutto immediatamente comprensibile. Essa tuttavia esclude che ai
privati spettino tutte le funzioni e i compiti che essi possono svolgere
“meglio” (e cioè in modo più efficiente) dei soggetti pubblici, come era
invece affermato nel testo inizialmente presentato dal governo prima
delle successive modifiche intervenute in Parlamento. Stabilisce invece
che nell’applicazione del principio di sussidiarietà si deve operare
“anche al fine di favorire l’assolvimento di funzioni e compiti di
rilevanza sociale da parte delle famiglie, associazioni e comunità.
50
Infine, non vanno trascurati gli altri numerosi principi prima
richiamati. Principi che si affiancano a quello di sussidiarietà e che
concorrono, ciascuno per la sua parte e soprattutto tutti insieme
considerati, a definire un interessante e complesso quadro di riferimento
di una riforma che non vuole limitarsi a una pura, anche se importante,
operazione di trasferimento di funzioni e competenze dal soggetto
centrale Stato ai soggetti periferici Regioni ed enti territoriali, ma mira
anche a definire i criteri di guida di un’amministrazione moderna e
dunque attenta all’efficienza, all’efficacia, alla responsabilità, all’unicità,
all’omogeneità e all’adeguatezza delle competenze assegnate ai diversi
soggetti titolari di funzioni e compiti amministrativi.
Il limite intrinseco alla riforma Bassanini è stato comunque il forte
condizionamento derivante dal quadro costituzionale vigente al momento
in cui la riforma è stata pensata e attuata.
Anche se è vero tutta la riforma è stata pensata immaginando di
“anticipare” una riforma costituzionale “promessa” e dunque, per certi
aspetti, operando ai limiti massimi consentiti dal sistema costituzionale
in vigore, è pur sempre vero che le norme costituzionali allora vigenti, e
qui ampiamente richiamate nei primi paragrafi, hanno costituito un
51
vincoli insormontabile al contesto complessivo nel quale la riforma si è
dovuta muovere.
Di conseguenza tutto il processo riformatore qui richiamato ha
operato sempre e soltanto a livello amministrativo, e pur forzando al
limite del possibile il quadro costituzionale in vigore, non ha comunque
inciso (né avrebbe potuto o voluto farlo) sulla ripartizione delle
competenze legislative e in generale normative tra Stato, da un lato, le
Regioni, i Comuni e le Province dall’altro.
Anche se è vero che, per il complesso sistema costituzionale e
delle fonti che caratterizzava allora il nostro sistema costituzionale,
l’attribuzione di funzioni amministrative nuove e più ampie alle Regioni
aveva anche come effetto di ampliare di conseguenza il loro potere
legislativo, così come l’attribuzione di nuove funzioni e compiti agli enti
territoriali poteva determinare anche un connesso ampliamento dei loro
poteri regolamentari, resta pur sempre vero che con quella riforma non si
è potuto in alcun modo incidere sulla ripartizione costituzionale dei ruoli
dei diversi legislatori, né sulla competenza generale propria del
legislatore statale.
Di conseguenza, e proprio perché nel quadro della riforma
Bassanini il legislatore statale ha mantenuto una non contestata
52
competenza generale, in via di principio lo Stato, anche sul piano
amministrativo, ha pur sempre mantenuto la possibilità di veder
assegnata alla propria amministrazione ogni competenza che il
legislatore statale, innovando e modificando la stessa riforma Bassanini,
ritenesse in futuro attribuire ad essa.
In sostanza, nel contesto di questa riforma, e proprio perché essa
ha dovuto muoversi dentro il quadro costituzionale allora vigente, il
legislatore statale ha mantenuto comunque la competenza generale a
legiferare, col solo vincolo delle norme contenute in Costituzione. Di
conseguenza almeno potenzialmente, lo Stato ha mantenuto anche il
potere di assegnare in qualunque momento, attraverso le leggi,
all’amministrazione statale o a soggetti amministrativi nazionali ogni
funzione amministrativa che il legislatore statale ritenesse opportuno.
E’ per questo, d’altro canto, che si è più volte sottolineato il fatto
che senza una adeguata riforma costituzionale (quella riforma
costituzionale che la l. n. 59 del 1997 dava per sicura ed imminente e che
poi il fallimento della Commissione bicamerale D’Alema ha invece
allontanato) tutto il sistema legato alle leggi Bassanini correva un
duplice rischio; a) il rischio di essere in un certo senso non pienamente
compatibile col quadro costituzionale vigente, ove questo fosse stato
53
interpretato e applicato in modo rigorosamente restrittivo; b) il rischio di
essere comunque una riforma “instabile” perché sempre modificabile e
revocabile in tutto o in parte con semplice legge statale ordinaria. Ed è
per questo che la maggior parte degli studiosi più attenti, a cominciare
dallo stesso Ministro Bassanini, hanno costantemente messo in rilievo la
necessità che comunque questa riforma potesse trovare una “copertura” e
una “stabilizzazione” costituzionale attraverso una adeguata riforma
della Costituzione stessa.
In ogni caso non si può negare che il processo riformatore
sviluppatosi durante la XIII legislatura, e qui richiamato per sommi capi,
abbia costituito comunque la più grande riforma amministrativa
introdotta in Italia dalle leggi di unificazione amministrativa della
seconda metà dell’ottocento in poi. Una riforma che, in ogni caso e quali
che siano stati i suoi limiti, ha cercato finalmente di dare attuazione al
massimo di quanto possibile, al dettato costituzionale e di sviluppare un
coerente e organico sforzo di innovazione e di ammodernamento del
nostro sistema amministrativo. Né va dimenticato il fatto,
particolarmente importante e innovativo, che costituisce la caratteristica
più rilevante di questa riforma: quello cioè di aver compiuto per la prima
volta dal secolo scorso, uno sforzo coerente e coordinato per
54
ammodernare tutta l’amministrazione italiana, non limitandosi ad
intervenire solo sull’amministrazione statale o solo sul sistema degli enti
pubblici nazionali o solo sul sistema di governo regionale e locale ma
cercando invece di delineare un processo riformatore ad ampio spettro e,
nello stesso tempo, profondamente innovativo e intrinsecamente
coerente in tutte le sue diverse parti.
55
PARTE IV
LE INNOVAZIONI COSTITUZIONALI DELLA XIII
LEGISLATURA
4.1. Le riforme contenute nelle leggi costituzionali n. 1 del 1999 e n. 3
del 2001
Anche se le vicende legate al fallimento della Commissione per le
riforme costituzionali avrebbero potuto far ritenere che la XIII legislatura
fosse destinata a concludersi ancora una volta senza alcuna sostanziale
innovazione costituzionale, negli ultimi due anni di quella legislatura si
sono avute alcune riforme particolarmente incisive.
Fra queste, che tra l’altro hanno riguardato anche la riforma della
norma costituzionale in materia di “giusto processo” e le norme legate al
riconoscimento del diritto di voto agli italiani all’estero, vanno ricordate
specificatamente le leggi costituzionali n. 1 del 1999 e n. 3 del 2001, già
richiamate nel primo paragrafo. Queste due leggi, insieme considerate,
hanno infatti pressoché totalmente innovato il titolo V della parte II della
Costituzione e hanno dato vita a un sistema costituzionale
profondamente nuovo e tale da consentire di dire che oggi è tutto
l’ordinamento italiano ad essere profondamente modificato.
56
Oggi dunque ci troviamo di fronte ad una fase del tutto nuova
della nostra vicenda costituzionale. Una fase nella quale anche il
processo riformatore del sistema amministrativo italiano, appena
realizzata attraverso la l. n. 59 del 1997 e tutti gli atti normativi da essa
derivati, dovrà essere ripensato e ricalibrato.
Infatti, se è vero che per un verso la riforma Bassanini ha
trovato nella riforma del titolo V della parte II della Costituzione
quella “copertura” e quella “stabilizzazione” costituzionale che
precedentemente le mancava, è vero anche che, per le ragioni che si
esporranno nei paragrafi successivi, la riforma costituzionale ha
modificato profondamente sia la posizione dello Stato, e soprattutto
del legislatore e dell’amministrazione statale, che quella delle
Regioni, e soprattutto del legislatore regionale. Inoltre la stessa
posizione dei Comuni, delle Province, delle Città metropolitane è mutata
in modo rilevante e questi enti hanno assunto oggi una posizione
costituzionale assai più forte e rilevante che per il passato. Posizione,
questa, che, attraverso il nuovo testo dell’art. 118 Cost., incide anche
direttamente sull’ambito delle competenze amministrative che ad essi
devono essere attribuite o conferite.
57
Vale dunque la pena di esaminare in dettaglio le principali
innovazioni introdotte nell’ordinamento italiano dalle due leggi
costituzionali precedentemente richiamate.
Così come è ormai ovviamente necessaria una puntuale e
approfondita conoscenza del nuovo testo costituzionale in tutte le sue
diverse parti e norme. Anche in quelle parti e norme, cioè, che in questa
sede non vengono prese esplicitamente e puntualmente in esame perché
meno immediatamente collegate all’analisi che qui si sta sviluppando.
4.2. Le caratteristiche innovate della riforma del titolo V della parte II
della Costituzione
Il primo, e fondamentale aspetto innovativo contenuto nelle linee
di riforma costituzionale, riguarda il nuovo testo dell’art.1 14 Cost., e in
particolare del primo e del secondo comma, secondo i quali “la
Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città
metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. I Comuni, le Province, le
Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti,
poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione”.
58
E’ evidente la profonda innovazione introdotta da questa norma.
Oggi Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato sono
tutti, e in modo paritario, elementi costitutivi della Repubblica. Una
repubblica che, dunque, non coincide più con lo Stato ma lo
ricomprende insieme a tutti gli altri enti territoriali indicati nella
norma.
Né questa sostanziale parità fra i diversi soggetti è messa in crisi
dal fatto che solo Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni siano
definiti enti autonomi, mentre nulla si dice dello Stato che dunque pare
restare titolare della sovranità. Prevale infatti, e con tutta evidenza, la
posizione di parità legata al fatto che tutti questi diversi soggetti sono
egualmente definiti, e al medesimo titolo, elementi costitutivi della
Repubblica.
Il secondo elemento di grande novità è costituita dal nuovo testo
dell’art. 117 Cost.. Secondo la nuova formulazione di questa
disposizione “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle
Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti
dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. Si tratta di
una disposizione estremamente innovativa sotto un duplice profilo. Il
primo riguarda la assoluta parificazione della potestà legislativa
59
statale e di quella regionale, che hanno i medesimi vincoli e i medesimi
limiti e dunque si configurano ormai come fonti pariordinate e distinte
tra loro solo per i diversi ambiti di competenza. Il secondo profilo
riguarda il fatto che, grazie a questa disposizione, l’ordinamento
comunitario entra a far parte a pieno titolo del nostro ordinamento
giuridico complessivamente considerato e si pone, alla stessa stregua
della Costituzione stessa, come vincolo e limite immediato e diretto
alle leggi statali e regionali.
Ma non basta
Il nuovo testo dell’art. 1117 contiene molte ulteriori innovazioni di
grande rilevanza. La prima riguarda il fatto che, in base al secondo
comma dell’art. 117, la competenza legislativa esclusiva dello Stato è
ora limitata a un elenco di 17 materie o settori.
Per quanto riguarda poi le materie, certamente numerose,
ricompresse nella competenza concorrente, il terzo comma dell’art. 117
stabilisce con nettezza che “nelle materie legislative concorrenti spetta
alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione
dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato”.
Infine il quarto comma dell’art. 117 stabilisce che “spetta alle Regioni la
60
potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente
riservata alla legislazione dello Stato”.
La lettura di queste disposizioni chiarisce senza ombra di dubbio
che nel nuovo sistema costituzionale lo Stato, il legislatore statale e la
legge statale, hanno perso ormai la competenza generale. In questo
nuovo quadro la legge statale ha competenze rigidamente definite e
limitate. Le competenze di carattere esclusivo nelle materie indicate nel
secondo comma dell’art. 117; le competenze a determinare i principi
fondamentali (e solo questi) nelle materie di legislazione concorrente; in
ogni caso competenze delimitate rigidamente sia per le materie che per i
limiti e i vincoli che le caratterizzano.
Per contro oggi sono le Regioni e i legislatori regionali ad essere
titolari della competenza generale (e residuale) giacché, come si è
appena detto, il quarto comma dell’art. 117 stabilisce “spetta alle
Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non
espressamente riservata alla legislazione dello Stato.
E se è vero, com’è stato rilevato, che alcune materie in cui è
stabilita la competenza esclusiva del legislatore statale si configurano
come “materie trasversali” e dunque persavie di ampi settori
dell’ordinamento (si pensi ad esempio alla concorrenza e alla
61
determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti
civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale),
è vero anche che comunque ormai il legislatore statale ha sempre e solo
competenze rigidamente definite e determinate, sia per la materia che per
competenza.
Questa innovazione ha conseguenze molto rilevanti e su tutto
l’ordinamento.
La legge regionale, che oggi diventa la sola fonte legislativa a
competenza generale e residuale, ha infatti una competenza territoriale
definita (il territorio della Regione, appunto).
Dunque, nel nuovo sistema non esiste più la legge come fonte
normativa subcostituzionale dotata di un potere unificante
nell’ambito delle materie regolate e disciplinate dalla legge stessa.
Ormai solo la Costituzione e i vincoli comunitari e internazionale si
pongono come elementi unificanti in quanto vincolanti tutti i
legislatori e efficaci nei confronti di ogni fonte normativa e su tutto il
territorio nazionale. Le fonti legislative subcostituzionali hanno invece
tutte una competenza definita, o poiché limitata sotto il profilo delle
materie che possono disciplinare o del contenuto che esse possono avere
62
(le leggi statali) o perché comunque limitate dall’ambito territoriale di
competenza (le leggi regionali).
Il terzo elemento di profonda innovazione attiene all’attribuzione
del potere regolamentare.
L’art. 117 sesto comma stabilisce infatti con chiarezza che “La
potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione
esclusiva, salvo delega delle Regioni. La potestà regolamentare spetta
alle Regioni in ogni altra materia. I Comuni, le Province e le Città
metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina
del’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”.
Oggi dunque, sulla base di questa disposizione, lo Stato (e quindi
anche il Governo e i Ministri) possono emanare regolamenti solo nelle
17 materie ricompresse nell’elenco del secondo comma dell’art. 117
Cost. In ogni altra materia, e dunque anche in tutte quelle di competenza
concorrente il potere regolamentare è ormai passato alle Regioni.
Soggetti, questi ultimi, che peraltro hanno nelle medesime materie anche
la competenza legislativa e quindi sono del tutto liberi di definire come
ritengono meglio la “frontiera” tra legge regionale (ma lo stesso anche
per la legge statale che sia stata vigente al momento di entrata in vigore
della riforma costituzionale e fino a che la legge regionale non
63
intervenga a innovare la fonte legislativa) e regolamento (regionale, ma
anche regolamento statale eventualmente vigente al momento
dell’entrata in vigore della riforma costituzionale).
Infine, sulla base di questa medesima disposizione si amplia anche
il potere regolamentare di Comuni, Province e Città metropolitane.
Potere che ora si estende a tutta la normativa di organizzazione e di
svolgimento delle funzioni ad essi attribuite.
Se solo si pensa a quale sia stata fino ad oggi l’incidenza
sull’esercizio delle funzioni amministrative regionali o locali dei
regolamenti statali adottati nell’ambito della competenza generale del
legislatore e dell’amministrazione statale fondata dal vecchio sistema
costituzionale, ci si può rendere facilmente conto della porta
dell’innovazione intervenuta. Portata che si configura come una sorta di
vero e proprio “terremoto”, particolarmente difficile da gestire, tanto più
in un periodo come quello attuale nel quale, si attesa di una puntuale e
con coordinata piena attuazione della riforma, tanto il Governo che i
Ministri continuano ad approvare regolamenti in materie che
probabilmente sono ormai sottratte al potere regolamentare dello Stato.
Fenomeno questo che peraltro sembra essere in qualche modo collegato
anche alla difficoltà che le Regioni sembrano avere ad esercitare un
64
potere regolamentare che sinora hanno esercitato in modo molto ridotto,
limitate come erano finora alla possibilità di adottare regolamenti solo
nelle limitate materie in cui avevano anche competenza legislativa.
Il quarto elemento di profonda innovazione contenuta nella
riforma del titolo V della parte II della Costituzione riguarda la
ripartizione delle competenze amministrative fra i diversi soggetti che, ai
sensi del primo comma del nuovo articolo 114, costituiscono oggi la
Repubblica.
Nella nuova formulazione l’art. 118 stabilisce infatti al primo
comma che “Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo
che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città
metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà,
differenziazione e adeguatezza”.
Al secondo comma l’art. 118 stabilisce poi che “I Comuni, le
Province e le Città metropolitane sono titolari di funzione amministrative
proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale secondo le
rispettive competenze”, norma questa che va coordinata anche con
quanto previsto dall’art. 117 secondo comma lettera p) secondo il quale
spetta alla competenza esclusiva del legislatore statale disciplinare
65
“legislazione elettorale”, organi di governo e funzioni fondamentali di
Comuni, Province e Città metropolitane”.
Va infine tenuto presente che l’art. 118 quarto comma stabilisce
che “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono
l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento
di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.
Naturalmente è tutt’altro che facile armonizzare questo
complessivo quadro normativo. Non mancano infatti ombre e difficoltà
interpretative, soprattutto per quanto riguarda la distinzione fra “funzioni
proprie” di Comuni, Province e Città metropolitane di cui all’art. 118
comma 2 e “funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città
metropolitane”, di cui all’art. 117 comma secondo lettera p).
Tuttavia non vi è alcun dubbio che nel nuovo sistema lo Stato ha
del tutto perso quella competenza generale all’esercizio delle funzioni
amministrative non esplicitamente assegnate ad altri soggetti
dell’ordinamento che aveva invece nel precedente quadro costituzionale.
Se qualche soggetto ha oggi la competenza generale questo è caso mai il
Comune, anche se tale competenza generale, intesa come competenza
residuale, è circondata di limiti e condizioni.
66
In ogni caso quello che è certo è che oggi l’attribuzione delle
competenze amministrative ai diversi soggetti di cui all’art. 114 primo
comma Costituzione spetta in modo paritario, e ciascuno per il suo
ambito di competenza, tanto al legislatore statale quanto al legislatore
regionale.
Non solo. Poiché il legislatore statale ha competenza legislativa
delimitata e quello regionale no, la competenza ad assegnare funzioni
amministrative è “limitata” per il legislatore statale e invece generale,
salvo appunto l’esistenza della competenza del legislatore statale, per il
legislatore regionale,
Naturalmente quest’ultima considerazione deve essere temperata
dal fatto che comunque spetta alla competenza esclusiva dello Stato la
determinazione delle funzioni fondamentali dei Comuni, Province e Città
metropolitane. Tuttavia la rilevanza dell’innovazione introdotta dal
nuovo sistema non può essere né ignorata né considerata in modo
riduttivo.
Di particolare rilevanza sono poi i criteri introdotti dall’art. 118
Cost. e ai quali sia il legislatore statale che quello regionale devono
attenersi nell’insegnare le funzioni amministrative ai diversi soggetti.
67
Il primo criterio è quello che le funzioni amministrative possono (e
devono) essere assegnate a soggetti diversi dai Comuni (soggetti che
vanno dalle Province fino allo Stato) quando questo sia necessario al fine
di assicurare l’esercizio unitario. Tuttavia il legislatore statale e
regionale, nell’apprezzare le esigenze di carattere unitario che di volta in
volta possono giustificare o imporre l’attribuzione delle funzioni
amministrative a uno dei soggetti elencati nel primo comma dell’art. 118
diversi dai Comuni, devono attenersi a tre principi precisi: a) il principio
di sussidarietà, innanzitutto; b) il principio di differenziazione, in
secondo luogo; e) il principio di adeguatezza, in terzo luogo.
E’ evidente che nella nuova formulazione dell’art. 118 vi è un
riflesso forte di quanto previsto nell’art. 4 della l. n. 59 del 1997, e che
dunque anche per questa parte l’innovazione costituzionale si configura
anche come una sorta di “stabilizzazione”, almeno potenziale, della
riforma Bassanini.
In ogni caso va sottolineato che con questa formulazione da un
canto si introduce definitivamente, anche a livello costituzionale, il
principio di sussidarietà verticale come elemento regolatore della
distribuzione delle funzioni e delle competenze fra i diversi livelli
territoriali di amministrazione, e da un altro canto si costituzionalizzano
68
anche i principi di differenziazione e di adeguatezza come principi
costituzionali di ottimizzazione della distribuzione e delle assegnazioni
di funzioni amministrative.
Il principio di differenziazione consente e impone infatti di
attribuire le funzioni amministrative non per “classi di enti” (alle
Province, e dunque a tutte le Province; ai Comuni, e quindi a tutti i
Comuni) ma solo a quegli enti che ai diversi livelli, per dimensione di
popolazione e quantità di risorse, possono adempiere alle funzioni
assegnate. Il principio di adeguatezza, poi, ribadisce e qualifica il
principio di differenziazione e impone comunque sempre un
collegamento fra le funzioni che si intendono assegnare o conferire e la
capacità dei soggetti destinatari di assolvere con la dovuta efficacia ed
efficienza.
L’altro elemento sul quale merita richiamare l’attenzione è quello
contenuto nell’ultimo comma dell’art. 118.
Con questa disposizione, infatti, si introduce una sorta di principio
di sussidiarietà orizzontale dal quale discende il dovere per tutti i
soggetti di cui all’art. 114 della Costituzione di favorire “l’autonoma
iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività
di interesse generale”. Peraltro questa non è formula chiarissima nel suo
69
contenuto, così come non lo era il principio di sussidiarietà orizzontale
implicitamente formulato nella lettera ) del primo comma dell’art. 4 della
l. n. 59 del 1997.
Naturalmente il nuovo articolato del titolo V della parte II della
Costituzione contiene molte altre norme di grande rilevanza.
Fra queste norme vanno segnalate almeno: a) il nuovo testo
dell’art. 119 Cost. che contiene una complessa normativa finalizzata a
garantire a tutti i soggetti dell’ordinamento complessivo le risorse
necessarie per adempiere alle proprie funzioni; b) il nuovo testo dell’art.
120 Cost., che prevede un potere di sostituzione del Governo rispetto a
tutti gli organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e
dei Comuni nei casi e alle condizioni stabilite dalla norma stessa; c) il
nuovo testo dell’art. 125 Cost. che abroga definitivamente ogni forma di
controllo, stabilizzando e completando anche per questa parte quanto già
stabilito dalla l. n. 59 del 1997 e dai successivi atti normativi legati
all’attuazione della l. n. 127 del 1997; d) il testo dell’art. 11 della l. cost.
n.3 del 2001 che prevede l’allargamento della Commissione bicamerale
per le questioni regionali con rappresentanti delle Regioni e delle
autonomie locali e affida a questa Commissione un ruolo particolare in
tutti i procedimenti legislativi statali nell’ambito dell’art. 117 e dell’art.
70
119 della Costituzione; e) il nuovo testo dell’art. 123 Cost. non solo nella
parte in cui prevede, al quarto comma, che “in ogni Regione, lo statuto
disciplina il Consiglio delle autonomie locali, quale organo di
consulenza fra Regioni e gli enti locali”.
71
PARTE V
IL PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETA’
5.1. L’origine e le tre radici del Principio di Sussidiarietà
Il termine sussidiarietà deriva dal latino subsidium e nella
terminologia militare romana stava ad indicare le truppe di riserva che
rimanevano dietro al fronte, pronte a intervenire in aiuto alle corti che
combattevano nella prima acies. In relazione alla sua applicazione
sociale, i primi cenni di una riflessione su un principio analogo sono già
presenti nel pensiero aristoteliano e vengono poi ripresi e rielaborati da
San Tommaso come elemento di una netta concezione del bene
comune, come risultato di una pluralità di apporti in un contesto
comunitario, solidaristico e non conflittuale, all’interno del quale alla
personalità umana è offerta la possibilità di svilupparsi.
In prima luce nella costruzione del bene comune era quindi posto
il soggetto umano, considerato però bisognoso di un subsidium: le
formazioni sociali, il gruppo e in subordine il pubblico potere, che risulta
così al contempo utile e limitato.
Il Principio di Sussidiarietà è giunto sino a noi lungo tre filoni
fondamentali: la dottrina sociale della Chiesa, esplicitata soprattutto
72
nell’Enciclica «Quadragesimo anno» del 1931, il pensiero liberale, la
riflessione e l’elaborazione in materia di federalismo.
Si tratta di tradizioni eterogenee, le quali pongono alla base del
principio valori diversi, o comunque non pienamente sovrapponibili.
La dottrina sociale della Chiesa fonda la sussidiarietà sul primato
etico della persona rispetto allo Stato, il quale deve lasciar sviluppare
spontaneamente le articolazioni della società senza pretendere di
assorbirle1.
Il tema da esso evocato e, quindi, quello dei limiti dell’azione
legittima dello Stato: un tema centrale, che spiega –ad esempio –
l’immediato interesse dimostrato dalla dottrina costituzionalistica per
l’Enciclica sopra citata.
Il pensiero liberale pone al centro della sua elaborazione la libertà
individuale. Un’enunciazione molto efficace di questa impostazione si
rinviene – ad esempio – in una lettera che Thomas Jefferson scrive nel
1816. Nella quale si delinea un assetto organizzativo, che dalla fattoria –
e cioè, dalla realtà che il proprietario può controllare direttamente –
giunge alla «grande repubblica nazionale», passando attraverso una
1 Questo il passo dell’Enciclica maggiormente rilevante al riguardo: «Siccome è illecito togliere agli
individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità
così è ingiusto rimettere ad una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori
comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della
società; perché l’oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in
maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già distruggerle ed assorbirle».
73
progressione di istanze via via più ampie, tenute insieme al principio in
forza del quale l’istanza superiore può intervenire soltanto laddove
quella inferiore non sia in grado di provvedere2 .
Considerandosi l’iniziativa economica privata uno dei principali
corollari della libertà umana, uno degli ambiti, in cui – secondo questa
prospettiva – il principio di sussidiarietà deve trovare applicazione è
quello dei rapporti economici. Di qui, l’attenzione al tema del rapporto
Stato-mercato. Secondo la versione liberale della sussidiarietà, i diretti
interventi dello Stato in economia si giustificano solo se il mercato non è
in grado di operare efficientemente.
Il terzo filone è costituito – come si è detto – dalla riflessione sul
federalismo.
Nella letteratura di lingua tedesca, ad esempio, si sottolinea
frequentemente che il federalismo adempie – tra l’altro – ad una
funzione garantistica.
2 La citazione è tratta dalla lettera indirizzata da Thomas Jefferson e Joseph C. Cabell il 2 febbraio
1816 (T. Jefferson, Il decentramento del potere, n Acquarone (a cura di), Antologia degli scritti
politici di Thomas Jefferson, Bolgona 1961, 109), nella quale è anche evocata la tematica del
federalismo. In essa, in particolare, si legge: «E’ dividendo e suddividendo la grande repubblica
nazionale in queste repubbliche minori da un estremo all’altro della gerarchia, finchè si giunga
all’amministrazione da parte di ciascuno individuo nella propria fattoria, attribuendo ad ognuno la
direzione di ciò che il suo occhio riesce a sorvegliare direttamente, che tutto verrà realizzato per il
meglio (…) Io sono convinto che, se l’Onnipotente non ha decretato che l’uomo non debba mai essere
libero (e sarebbe bestemmia il crederlo), si scoprirà che il segreto consiste nel farsi egli stesso
depositario dei poteri che si riferiscono a lui, nella misura in cui è capace di esercitarli, e nel delegare
soltanto quelli che sono al di là delle sue capacità, mediante un processo sintetico, a gradi sempre più
elevati di funzionari, in modo da conferire sempre meno poteri a mano a mano che i delegati
rappresentano sempre più un’oligarchia».
74
Si osserva che il potere quanto più è concentrato tanto più è
pericoloso.
L’immagine che, in modo più eloquente, illustra questa idea è
quella della «stanza dei bottoni», della quale il potere politico può
impadronirsi per governare totalitariamente la società, Di qui, la diffusa
interpretazione del federalismo come tecnica di divisione verticale del
potere. Di qui, ancora, l’idea che, nell’economia di un sistema federale,
l’allocazione delle funzioni debba avvenire in base al principio di
sussidiarietà: riservando al centro i soli compiti che la periferia non sia in
grado di svolgere.
La fondatezza di questa lettura in chiave garantistica del
federalismo ha trovato eloquenti conferme nella drammatica storia
tedesca di questo secolo. E’, infatti, noto che uno dei primi atti della
politica costituzionale del nazionalsocialismo, è consistito
nell’abolizione del federalismo: cioè, di uno dei caratteri strutturali del
costituzionalismo tedesco. Ed è altrettanto noto che subito dopo la guerra
le forze alleate hanno esercitato pressioni sulla Germania perché
ritornasse – come poi è avvenuto – alla sua tradizione federale.
Ma il rapporto federalismo – sussidiarietà presenta anche un’altra
faccia. Si tratta di un motivo sviluppato soprattutto in Svizzera, dove si
75
sottolinea che il federalismo è espressione di una democrazia più
compiuta di quella propria degli Stati unitari centralizzati. Si osserva,
infatti, che l’ambito più ridotto è quello più facilmente controllabile dai
cittadini. I quali sono in grado di partecipare più attivamente ed
intensamente alla vita del proprio comune che a quella dello Stato. Onde
– tra l’altro – l’idea che la sussidiarietà sia strettamente legata alla
democrazia ed assolva anche ad un’essenziale funzione pedagogica: di
pedagogia civile.
5.2. Il principio di Sussidiarietà nella riforma del titolo V della
Costituzione
La revisione del titolo V fa espressamente riferimento al principio
di sussidiarietà nell’art. 4, divenuto il nuovo art. 118 Cost. e nell’art. 6
del progetto, divenuto il nuovo art. 120 Cost.
L’art. 118, 1° comma, ridisegna le funzioni amministrative,
attribuendone la titolarità, in via generale, ai comuni, salvo che non siano
conferite a province, città metropolitane, regioni e Stato, secondo il
principio di sussidiarietà. Tale disposizione svolge il profilo verticale
della sussidiarietà, consacrando a livello costituzionale quell’ampio
76
processo che, a partire dalla legge n. 59/1997. ha segnato una tappa
essenziale con il d.lgs. n. 112/1198.
Insomma, in una logica che potremmo definire di federalismo
amministrativo, al comune, e cioè all’ente pubblico territoriale più vicino
ai cittadini, compete la generalità delle funzioni e dei compiti
amministrativi.
L’ultimo comma del’art. 118 invece impegna Stato, regioni, città
metropolitane, province comuni a favorire “l’autonoma iniziativa dei
cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse
generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. Viene qui in evidenza
la variante “orizzontale” del principio in esame, e cioè si afferma che
anche le attività di interesse generale, e pertanto non solo quelle di
interesse privato o particolare, possono essere svolte dalla cosiddetta
società civile.
La Repubblica (termine con cui la Costituzione designa l’insieme
di Stato-apparato e Stato comunità) deve promuovere l’assunzione di
responsabilità oggettivamente pubbliche sia da parte dei singoli sia da
parte delle formazioni sociali. Si richiama qui l’idea che, nell’ottica di
una sussidiarietà che non voglia contraddire i principi del personalismo e
dello Stato sociale, la solidarietà non può essere prerogativa esclusiva
77
dello Stato, bensì deve divenire dimensione costitutiva della libertà e dei
diritti, e dunque dovere inderogabile dei cittadini stessi, resi responsabili
della costruzione della comunità nel suo complesso.
L’art. 120, 2° comma, infine, prevedendo il potere sostitutivo del
governo centrale di fronte ad inadempienze delle regioni e degli enti
locali, richiama il principio di sussidiarietà, per cui il livello superiore
(ente centrale) interviene quando il livello inferiore (ente territoriale) non
è in grado di assolvere alle proprie funzioni. Il pregio di questa
disposizione sta nel fatto che si tenta una casistica delle insufficienze dei
livelli inferiori, limitando la (altrimenti) eccessiva discrezionalità del
governo, che ben potrebbe sostituirsi ai primi con la scusa di non meglio
precisate loro inefficienze.
Il governo può infatti esercitare i suoi poteri sostitutivi solo nel
caso di mancato rispetto, da parte degli enti minori, degli obblighi
internazionali o della normativa comunitaria, oppure in caso di pericolo
per l’incolumità e la sicurezza pubblica, o per tutelare l’unità giuridica o
economica, soprattutto per ciò che attiene ai livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali.
L’art. 120 contiene poi una riserva di legge rinforzata, che deve
ritenersi statale, circa le procedure di esercizio dei poteri sostitutivi, che
78
debbono essere rispettose dei principi di sussidiarietà e di leale
cooperazione. Proprio queste ultime specificazioni stanno ad indicare
come l’esercizio dei poteri sostitutivi lungi dal determinare uno
spostamento definitivo di competenze verso il livello centrale di
governo, debba mirare a ripristinare fin dove possibile l’assolvimento
delle proprie funzioni da parte degli enti territoriali inadempienti.
Resta ora da domandarsi se il principio di sussidiarietà così
declinato sia coerente con l’idea di sussidiarietà che sottostà ai principi
personalistico ed autonomistico. Per quanto attiene alla sussidiarietà
verticale, la centralità del comune rappresenta la trasposizione sul piano
costituzionale del principio, contenuto nell’art. 3, 2° comma, d.lgs. n.
267/2000, per cui “il comune è l’ente locale che rappresenta la propria
comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo”. Ciò che
viene in rilievo non è tanto il comune quale articolazione amministrativa,
bensì quale comunità autonoma dotata del carattere della politicità, e
cioè della capacità di perseguire fini di carattere generale. La
sussidiarietà orizzontale, ex art. 118, 4° comma, si traduce nell’impegno,
peraltro dal contenuto esigibile incerto, di Stato, regioni e degli enti
locali enumerati di promuovere l’esercizio di attività di interesse
generale: essenzialmente – riteniamo – i servizi pubblici e soprattutto
79
quelli sociali. In questa formulazione, è dato individuare la volontà di
aprire la porta ad un’evoluzione, verso quella che è stata definita l’auto-
amministrazione o, meglio, la societarizzazione delle funzioni. Si ritiene
cioè conforme alla Costituzione il processo che veda i singoli e
(soprattutto) le formazioni sociali, o altre realtà associative, direttamente
impegnati in attività di utilità generali e perciò oggettivamente
pubbliche, senza che con ciò sia esautorato od esaurito il ruolo dell’ente
pubblico (Stato, regione, ecc.), che anzi mantiene un compito, appunto
sussidiario, di controllo, di promozione e, nel caso, di sostituzione delle
iniziative sociali.
Occorre infatti prestare particolare attenzione a non confondere la
sussidiarietà verticale con un mero decentramento e la sussidiarietà
orizzontale con lo spontaneismo sociale. Altrimenti, la locuzione
contenuta nell’art. 118, 1° e 4° comma, “sulla base del principio di
sussidiarietà”, sarebbe stata un’appendice inutile o una giustificazione
non richiesta. Il nuovo art. 118 non autorizza pertanto un qualsivoglia
decentramento o tanto meno un improbabile liberismo. Ciò che
realmente è indispensabile, ed è il senso stesso di quell’inciso (“sulla
base del principio di sussidiarietà”), è il coordinamento ed il raccordo tra
le formazioni sociali ed il livello istituzionale che le deve garantire
80
sinteticamente; nonché tra il livello istituzionale più piccolo e quello più
grande. E’ il sistema di raccordi che non deve mancare e, in particolare,
la possibilità data all’ente politico (superiore) di intervenire
sull’autonomia sociale (o sull’ente inferiore) quando tradisca il fine
umanistico per cui è istituita o quando lo interpreti in senso solo
corporativo, a danno di altri.
Ciò che infatti va tenuto costantemente presente è che il principio
di sussidiarietà non mira in alcun modo alla valorizzazione del
particolarismo in sé, né tanto meno, all’interruzione dei nessi di
collegamento tra le varie articolazioni sociali. La sussidiarietà non è un
principio di chiusura dei vari livelli su se stessi: essa designa il
movimento umano di apertura progressiva, che non travolge le forme
intermedie ma le apre alle forme successive.
Di ogni livello sociale (o istituzionale) di aggregazione lo Stato
sussidiario rispetta l’autonomia in quanto gradino di questa scala, ma
deve trattarsi di un’autonomia che non si restringe, ma che apre
naturalmente i propri membri al livello successivo e li rende responsabili
della società nel suo complesso.
Occorre infine sottolineare che il rimando al principio di
sussidiarietà acquista pregnanza solo se endogeno alla Costituzione, se
81
cioè dalla Costituzione può esserne ricavata con sufficiente univocità una
definizione da utilizzare come parametro per giudicare della legittimità
dei conferimenti di cui all’art. 118, 1° e 4° comma. Poiché l’art. 118 non
definisce, ma richiama il principio di sussidiarietà, in qualche modo
presupponendolo noto, a limitare la discrezionalità ermeneutica
dell’interprete soccorre il criterio sistematico e cioè il collegamento
del’art. 118 medesimo con i principi fondamentali della Costituzione, in
primis quello personalistico, ex art. 2, e quello autonomistico, ex art. 5.
Per quanto attiene ai rapporti Stato-regioni-enti, l’esplicita
previsione di controllo sostitutivi (art. 120, 2° comma) va dunque
accolta, rispetto al principio di sussidiarietà, come elemento di chiarezza
ermeneutica e non come residuo di centralismo.
5.2.1. Le funzioni amministrative
E’ noto quanto sia stato usato ed abusato nel dibattito italiano
dell’ultimo decennio il principio di sussidiarietà e di come esso affondi
le sue radici nel pensiero cattolico di matrice liberale ed abbia trovato un
importante riconoscimento grazie alla sua previsione a livello
comunitario nel Trattato di Maastricht.
82
L’introduzione del principio a livello costituzionale avviene ora
secondo entrambe le linee direttrici di operatività: quella verticale e
quella orizzontale.
Dal primo punto di vista, si opera una diversa allocazione – forse
essenzialmente demagogica3 - delle funzioni amministrative partendo
non più dall’alto, ma dal basso: al fine di privilegiare la prossimità
territoriale con i cittadini, esse spettano in primis, ai comuni – vero
“cuore amministrativo” della Repubblica – “salvo che, per assicurarne
l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane,
Regioni e Stato” come dispone il nuovo 1° comma dell’art. 118. Dal
secondo punto di vista, si introduce significativamente l’impegno dello
Stato e degli enti territoriali a favorire l’accesso delle autonomie sociali
all’esercizio di funzioni di interesse generale (art. 118, 4° comma),
valorizzando le sinergie fra pubblico e privato sociale, in funzione di
avvicinamento del cittadino all’amministrazione. In tal modo, non si
tende tanto a salvaguardare gli spazi di libertà privata, ma piuttosto a
costituire un nuovo modello di amministrazione, che tenga conto non più
3 Il rilievo è di G. Falcon, Il nuovo titolo V della parte seconda della Costituzione, in Le regioni,
2001, 9, sulla base della considerazione che moltissime delle funzioni amministrative essenziali per la
vita collettiva (ad Es. polizia, tutela della salute, previdenza sociale, istruzione, ecc) resteranno
comunque inevitabilmente attribuite a livelli di amministrazione ben più centralizzati di quello
comunale.
83
solo delle autonomie territoriali, ma anche di quelle funzionali e
soprattutto di quelle sociali.
Ad un miglior raccordo fra gli enti interessati dallo svolgimento
delle funzioni amministrative mira la creazione, accanto al consiglio
regionale, organo di classica derivazione politica, di un consiglio delle
autonomie locali, organo di consultazione fra la regione e le autonomie
locali (comma 4, aggiunto all’art. 123). Si è rilevato che se la riforma
avesse voluto promuovere un processo del tutto differente ed innovativo
di amministrazione, con una ben maggiore e significativa partecipazione
della società civile, si sarebbe potuto pensare – sia pur nelle notevoli
difficoltà organizzative e gestionali che ne sarebbero derivate – ad un
consiglio delle autonomie tout court, di cui accanto alle autonomie
territoriali sarebbero stati chiamati a far parte anche rappresentanti delle
autonomie funzionali e sociali.
Pur costituendo il modello delineato un positivo passo in avanti,
non mancano perplessità e dubbi.
Intendiamo riferirci, ad es., all’esigenza, da un lato, di definire in
maniera più chiara gli ambiti che residuano all’amministrazione statale e
il ruolo che debbono svolgere le amministrazioni periferiche statali, cui
residueranno comunque importanti funzioni (ad es. affari interni, tesoro,
84
giustizia, difesa, beni culturali) da raccordare inevitabilmente con le
amministrazioni regionali e locali. E, dall’altro, alla opportunità di
determinare più esattamente i compiti dei comuni nello svolgimento
delle funzioni amministrative, in quanto – all’atto – tali enti sono privi di
ogni ruolo in ordine alle scelte (ampiamente discrezionali) devolute alla
legge statale e regionale in ordine alle funzioni concretamente attribuite
all’ “anello” organizzativo più prossimo al cittadino; a tal fine, anche
l’istituzione del consiglio delle autonomie locali appare insufficiente,
dovendosi – in una logica di reale autonomia – consentire
all’amministrazione comunale la possibilità di decidere se assumere o
meno una certa funzione amministrativa valutando autonomamente le
implicazioni organizzative che ne discendono.
Ma, forse, il problema principale da risolvere – a livello
sistematico – consiste nella mancanza, nel testo di riforma, di una chiara
opzione per un modello di amministrazione. Attualmente in Europa i
modelli di relazione fra Stato e autonomie locali sono – pur con tutti gli
adattamenti possibili – essenzialmente due: a) il modello di
amministrazione unica regionale/locale, senza articolazioni decentrate
dello Stato, tipico del federalismo alla tedesca e, in forma attenuata,
dallo stato autonomo spagnolo; b) il parallelismo razionalizzato, proprio
85
del sistema francese, che lascia una articolazione decentrata dello Stato,
tuttavia con forti innovazioni interne e principi condivisi con la
amministrazione locale, quanto a funzioni, relazioni con gli apparati
centrali, ordinamento interno.
In forza del principio di sussidiarietà le funzioni amministrative
spettano in primo luogo ai comuni o, a seconda dei casi, a province, città
metropolitane, regioni e Stato. Ovviamente tali funzioni oggi sono svolte
dallo Stato e dalle regioni, per cui saranno questi due enti a dover
procedere al trasferimento delle funzioni ai comuni o agli altri enti
territoriali, i quali dovranno divenire titolari delle funzioni. In primo
luogo, occorrerà determinare quali funzioni trasferire: i criteri generali
sono fissati in Costituzione, richiamandosi i principi di “sussidiarietà,
differenziazione ed adeguatezza” e l’esigenza di collocarle a livello più
alto solo ove occorra “assicurarne l’esercizio unitario”. Sulla base di
questi parametri spetterà non tanto allo Stato, cui residuano soltanto le
funzioni riservate nel sistema delle leggi Bassanini, peraltro
probabilmente da mantenere a livello centrale in funzione alla loro
natura, ma soprattutto alle regioni – con pericolosi margini di
discrezionalità – definire la nuova allocazione delle funzioni
amministrative.
86
Ma a chi spetterà di verificare la legittimità di tale allocazione? A
tal fine risulterà decisivo determinare quale sarà la fonte competente a
disporre questa attribuzione. Il nuovo testo costituzionale non si esprime
sul punto specificando all’esordio del 1° comma dell’art. 118 solo che
“le funzioni amministrative sono attribuite…”.
La questione viene affrontata dal 2° comma dello stesso articolo,
secondo cui “i Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari
di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale
o regionale, secondo le rispettive competenze”. Ad una prima lettura
questa disposizione sembra differenziare tra funzioni amministrative
proprie di comuni, province e città metropolitane e funzioni
amministrative ad essi trasferite da Stato e regione. Ad oggi, questa
bipartizione non può trovare applicazione in quanto comuni, province e
città metropolitane non sono ancora titolari di effettive funzioni, ma
godono solo formalmente di questa attribuzione costituzionale. Tale
attribuzione (art. 118, 1° comma) costituisce – in pratica – un
“contenitore vuoto” che non potrà essere riempito se non attraverso il
trasferimento ad opera di coloro che sono ora effettivamente attributari
di tali funzioni cioè lo Stato e le regioni. Per rendere comuni, province e
città metropolitane titolare di quelle che saranno le funzioni
87
amministrative proprie occorre un trasferimento iniziale, per operare il
quale appare preferibile applicare comunque l’ultima parte del 2° comma
dell’art. 118 Cost. e, quindi, ricorrere alla legge statale o regionale di
conferimento. Tale soluzione appare più opportuna anche al fine di
garantire una forma di controllo unitario di tale riallocazione. Operare i
conferimenti di funzioni amministrative agli enti locali mediante la fonte
legislativa statale o regionale significa poter sottoporre gli atti medesimi
al controllo della corte costituzionale, la quale – al fondo – sarà il vero
arbitro della riforma. Si ritiene preferibile affidare alla corte questo ruolo
arbitrale sui conferimenti amministrativi piuttosto che disperderlo fra
tutti i giudici amministrativi come accadrebbe ove si optasse per
ammettere la possibilità che i conferimenti possano avvenire anche con
atti amministrativi statali o regionali, come tali sottoposti al sindacato dei
giudici amministrativi.
Tuttavia occorre considerare che le attuali forme di accesso alla
corte costituzionale non appaiono sufficienti per garantire le sfere di
competenza degli enti locali, essendo solo lo Stato e le regioni legittimati
a ricorrere in via principale alla corte. Ad oggi, ove una legge regionale
violi la sfera di attribuzioni amministrative degli enti locali, non
conferendo ad essi funzioni amministrative in maniera adeguata, ovvero
88
riservandole alla regione, in nome di principi diversi da sussidiarietà,
differenziazione ed adeguatezza, l’unica forma di tutela diretta – salvo
ipotizzare questioni di legittimità costituzionale sollevate attraverso le
tortuose “strettoie” dell’incidentalità – consiste nella impugnazione alla
corte costituzionale da parte dello Stato (ai sensi del nuovo testo dell’art.
127, 1° comma, Cost.). Il che significa che la posizione costituzionale di
comuni, province e città metropolitane continua a trovare nello Stato il
proprio tutore nei confronti delle regioni. Ancor più problematica appare
poi l’ipotesi in cui la lesione delle attribuzioni degli enti locali avvenga
ad opera di una legge statale di mancato o scarso trasferimento delle
funzioni: la regione (ex art. 127, 2° comma, Cost. nuovo testo) resta
comunque legittimata ad impugnare leggi statali solo per lesione della
“sua sfera di competenza”, per cui manca del tutto un soggetto che possa
difendere le attribuzioni degli enti locali in tale ipotesi.
5.2.2. L’autonomia dei comuni e delle province
La nuova formulazione dell’art. 114 Cost. dettata dalla legge cost.
n.3/2001 in primo luogo, equipara sotto il profilo della garanzia
costituzionale i comuni e le province alle regioni, statuendo che tutti
89
questi enti godono di una posizione autonoma riconosciuta direttamente
dalla Costituzione. Anche se, a questo proposito, si nota una differenza
di impegno del legislatore in ordine alla formulazione dei principi, i
quali sono chiari nel caso delle regioni, mentre appaiono poco prospicui
nei confronti dei comuni e delle province; in secondo luogo, non solo
differenzia nettamente lo status dei comuni e delle province da quello
degli altri enti locali, i quali non vengono menzionati in Costituzione,
picché si può dire che questi ultimi godono soltanto di una tutela di
rango legislativo ma prevede altresì una differenziazione funzionale tra i
comuni e le province, che è implicita nel richiamo al principio
costituzionale di differenziazione ed esplicita nell’affermazione del 1°
comma dell’art. 118 Cost. secondo il quale “le funzioni amministrative
sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario,
siano conferite a Province…”).
In terzo luogo, la legge costituzionale ridetermina il distinto ruolo
dei diversi livelli istituzionali che compongono l’ordinamento
repubblicano anche in ragione del sistema delle fonti (potestà
legislativa, regolamentare ed amministrativa).
In tema di autonomia normativa primaria, la Costituzione ha
provveduto direttamente ad individuare agli ambiti riservati alla potestà
90
legislativa, stabilendo all’art. 117 Cost. che le regioni hanno una potestà
legislativa concorrente nelle materie elencate nel 3° comma di tale
disposizione ed esclusiva in quelle non riservate esplicitamente alla
legge dello Stato.
Per quanto concerne, invece, la potestà amministrativa l’art. 118
Cost. individua un criterio generale. (“Le funzioni amministrative sono
attribuite ai Comuni, salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano
conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato sulla base dei
principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”), ma demanda,
poi, al legislatore – statale e regionale, secondo le rispettive competenze
(art. 118, 2° comma, Cost.) – il compito di provvedere analiticamente
alla distribuzione delle competenze tra i diversi livelli istituzionali.
Cosicché si può affermare che i comuni e le province, pur godendo
di una condizione di autonomia tutelata dalla Costituzione, derivano da
una scelta compiuta da un altro ente gli ambiti del proprio intervento.
Inoltre, la Costituzione codifica alcuni criteri cui si debbono
attenere il legislatore statale e quello regionale, all’atto di distribuire le
funzioni amministrative, individuandoli nei principi di sussidiarietà, di
differenziazione e di adeguatezza.
91
Per differenziazione si intende che il legislatore nell’allocazione
delle funzioni deve considerare le diverse caratteristiche (anche
associative, demografiche, territoriali e strutturali) degli enti riceventi.
Per soddisfare coerentemente a siffatti principi, occorre valutare la
particolarità di ciascun ente, tanto sotto il profilo funzionale, che dal
punto di vista territoriale.
Il profilo funzionale è delineato da d.lgs. n. 267/2000, i cui artt. 13
e 19 individuano la specificità del comune e della provincia, L’aspetto
territoriale, a sua volta, richiama la specificità di ciascun sistema
regionale delle autonomie locali e giustifica l’attribuzione alle regioni di
un ruolo determinante nella distribuzione delle competenze
amministrative tra gli enti locali.
Per adeguatezza si intende l’idoneità organizzativa delle
amministrazioni a garantire, anche in forma associata con altri enti,
l’esercizio delle funzioni.
Anche il principio di sussidiarietà, recentemente
costituzionalizzato, rappresenta un criterio essenziale per orientare le
relazioni tra i diversi livelli istituzionali.
Per sussidiarietà si intende che le decisioni dovrebbero essere
assunte dal livello istituzionale più decentrato possibile, qualora ciò sia
92
giustificato e compatibile con l’esigenza di assicurare efficienza
all’azione dei pubblici poteri. L’art. 4, lettera a), legge n. 59/1997
considera aderente al principio di sussidiarietà il criterio secondo il quale
la generalità delle funzioni amministrative è attribuita agli enti locali,
secondo le rispettive dimensioni territoriali, associative ed organizzative
con l’esclusione delle sole funzioni incompatibili con le dimensioni
medesime, attribuendo le responsabilità pubbliche alle autorità
territorialmente e funzionalmente più vicine ai cittadini interessati.
Il principio di sussidiarietà rappresenta, quindi il principale criterio
di allocazione delle competenze.
Infine, la nuova formulazione dell’art. 114 Cost. sostituisce un
modello di relazioni di tipo gerarchico e spirituale (“La Repubblica si
riparte in Regioni, Province e Comuni”) con un altro di natura
policentrica (o “a rete”), ispirate alle moderne realtà del multilevel
constituzionalism.
Ciò emerge dagli artt. 114, 117 e 118 Cost. è un sistema
istituzionale a più livelli, costituito da una pluralità di ordinamenti
giuridici integrati, che interagiscono reciprocamente: riprendendo quanto
la corte costituzionale ha affermato a proposito delle relazioni tra
l’ordinamento comunitario e quello italiano, si potrebbe dire che la
93
Repubblica italiana risulta composta da una pluralità di “ordinamenti
reciprocamente autonomi, ma tra loro coordinati e comunicanti”.
Con la nuova disciplina costituzionale dei comuni e delle province
si assiste contemporaneamente al tramonto delle teorie monastiche e ad
una evoluzione delle teorie fondate sul riconoscimento della necessaria
pluralità degli ordinamenti giuridici.
Integrazione ed autonomia, salvaguardi di esigenze unitarie e
valorizzazione delle discipline locali sembrano essere gli orientamenti
principali che contrassegnano il sistema istituzionale repubblicano.
La compatibilità tra unità ed autonomia trova un chiaro
riconoscimento nella formulazione dell’art. 114 Cost., il cui 1° comma
individua i livelli istituzionali in cui si articola (“La Repubblica è
costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle
Regioni e dallo Stato”); mentre il 2° comma attribuisce agli enti
decentrati una posizione costituzionale di autonomia (“I Comuni, le
Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con
propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla
Costituzione”).
Il nuovo testo dell’art. 114 Cost. – introdotto dalla legge cost.
n.3/2001 – delinea, un sistema interistituzionale “a rete” secondo il quale
94
tanto lo Stato, quanto gli altri livelli istituzionali sono, nella loro
rispettiva autonomia organizzativa, normativa e politica, elementi
costitutivi della Repubblica italiana.
Pur facendo del medesimo status costituzionale, i comuni e le
province si differenziano, però, funzionalmente: sulla base del principio
codificato nell’art. 118 Cost. ed interpretato (o sviluppato) dal d.lgs. n.
267/2000 – il quale osserva, a nostro avviso, la caratteristica di norma
interposta ai fini di un giudizio di legittimità costituzionale che dà vita
con la legge di revisione costituzionale ad un vero e proprio “blocco di
costituzionalità”.
Il comune è, senza dubbio, l’ente locale che possiede un maggior
radicamento sociale; rappresenta l’ente comunitario per eccellenza,
dotato di competenze generali; è l’ente capace di rappresentare la
generalità degli interessi della collettività locale.
L’affermazione della provincia come ente autonomo ha seguito,
invece, un itinerario più contrastato e meno lineare: questo ente, infatti,
nacque come circoscrizione territoriale dello Stato al fine di assicurare
un esercizio decentrato delle funzioni amministrative statali, mentre
soltanto successivamente coté dotarsi di propri organi elettivi,
95
rappresentativi della comunità provinciale ed esponenziali dei loro
interessi.
Ora è opportuno distinguere i settori materiali rientranti nelle
competenze proprie dello Stato da quelli rientranti nelle competenze
regionali. Infatti, l’art. 118, 2° comma, Cost. afferma che i comuni e le
province sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle
conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze.
Tale espressione, per quanto poco perspicua, dovrebbe essere
considerata il profilo procedurale ed attuativo del principio sancito dal 1°
comma del medesimo articolo (“Le funzioni amministrative sono
attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano
conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato”). Cioè nel
senso che:
a) le funzioni amministrative proprie conferite con legge coincidono
riassuntivamente con quelle che debbono considerarsi attribuite ai
sensi del 1° comma dell’art. 118 Cost.
b) compete alla legge individuare tanto le funzioni esercitate dai
comuni, quanto quelle che in base al criterio di adeguatezza,
differenziazione e sussidiarietà debbono essere riservate alla
competenza degli altri livelli istituzionali;
96
c) sussiste una differenza a seconda che le funzioni amministrative
rientrino nelle materie riservate alla potestà legislativa dello Stato
o delle regioni.
Nel primo caso, la fonte competente ad individuare le attribuzioni
comunali e provinciali è la legge dello Stato, la quale può conferire ai
comuni e alle province l’esercizio di funzioni amministrative in settori
materiali regolati da leggi statali e da regolamenti dell’esecutivo. In
queste materie, permane –a nostro avviso – un meccanismo simile a
quello previsto dalla vecchia formulazione dell’art. 118 Cost.,
improntato ad una sorta di parallelismo tra funzioni normative ed
amministrative.
In altri termini, si dovrebbe presumere che, normalmente, l’attività
amministrativa nelle materie di cui al 2° comma dell’art. 117 Cost., è
esercitata, per la loro natura, dell’amministrazione statale, salvo singole
funzioni che la legge intende conferire agli enti locali territoriali.
Nel caso, invece, di materie rientranti nella competenza legislativa
regionale, l’individuazione delle funzioni specifiche da far esercitare ai
comuni ed alle province compete alla legge regionale, la quale – però –
dovrebbe procedere al conferimento a favore degli enti locali secondo
una tecnica differente. Infatti, gran parte delle attività amministrative
97
rientranti nelle materie di cui al 3° e 4° comma dell’art. 117 Cost.
sembra esercitatile direttamente dai comuni e dalle province sulla base
del principio di sussidiarietà e di differenziazione: di conseguenza, la
legge regionale dovrebbe individuare le funzioni riservate alla regione,
specificare quelle esercitabili dalla provincia ed attribuire in via generale
le rimanenti alle amministrazioni comunali.
Un ulteriore novità del sistema consiste nel fatto che non appare
più necessario utilizzare la tradizionale distinzione tra funzioni proprie,
trasferite e delegate. Tale ripartizione, valida prima delle novità
introdotte dalla legge cost. n. 3/2001, appare al momento superata.
La stessa terminologia utilizzata dal legislatore costituzionale, il
quale alternativamente qualifica le attività come “attribuire”, “proprie” o
“conferite”, si rivela più fonte di confusione e di incertezza, che
necessario riferimento a situazioni giuridiche sostanzialmente differenti.
Può, a nostro avviso, conservare un qualche rilievo ai fini
classificatori la distinzione tra funzioni proprie e funzioni conferite.
Essa, però, alla luce del nuovo sistema costituzionale di distribuzione
delle competenze, non individua due tipologie alternative di competenze,
bensì due diversi profili del medesimo fenomeno.
98
A nostro avviso, l’espressione “funzione conferite” fa riferimento
al processo di allocazione delle competenze amministrative alla luce
delle nuove disposizioni costituzionali: richiama la scelta con la quale la
legge statale e quella regionale decidono di riservarsi alcune funzioni e
di attribuire le altre al sistema degli enti locali territoriali.
L’espressione “funzioni proprie”, invece, si riferisce all’esito
finale del processo di conferimento: sulla base della quale ogni livello
istituzionale della Repubblica (comuni, province, città metropolitane,
regioni, Stato) diviene titolare di un complesso di funzioni
amministrative che debbono considerarsi sue proprie.
5.2.3. Il potere sostitutivo
Il 2° comma del nuovo testo dell’art. 120 Cost. prevede che “il
Governo può sostituirsi a organi delle regioni, delle Città metropolitane,
delle Province e dei Comuni nel caso di mancato rispetto di norme e
trattai internazionali o della normativa comunitaria oppure di pericolo
grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo
richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’utilità economica e in
particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i
99
diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi
locali. La legge definisce le procedure atte a garantire che i poteri
sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del
principio di leale collaborazione.
Vale la pena, in primo luogo, di segnalare la tipizzazione, da
ritenere tassativa, delle ipotesi che legittimano l’esercizio del potere in
esame.
Alcuni dei casi previsti si riallacciano alla pregressa esperienza
(mancato rispetto degli obblighi internazionali e – soprattutto –
comunitari, altri (“pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza
pubblica”) fanno pensare, per la loro natura, alla possibilità di
sostituzioni non solo successive al verificarsi di inerzia regionale o degli
enti locali ma anche di tipo preventivo, determinate dall’urgenza di
provvedere e salvo restando la possibilità della regione o dell’ente locale
di intervenire con proprie misure destinate a sostituirsi a quelle
temporanee e inderogabili – dello Stato.
Ma c’è di più: il riferimento alla “tutela giuridica o dell’unità
economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni
concernenti i diritti civili e sociali” non sembra soltanto in grado di
offrire copertura sul versante dell’esecuzione amministrativa alla
100
competenza legislativa esclusiva statale di cui all’art. 117, 2° comma,
lettera m), di fronte a possibili omissioni da parte di regioni ed enti
locali. Obiettivi come quelli della “tutela dell’unità giuridica” o dell’
“unità economica” non sembrano, infatti, raggiungibili soltanto
attraverso misure normative: l’immissione, cioè, nel sistema di norme
che siano in grado di far raggiungere l’obiettivo unitario, precostituendo
le necessarie regole di azione degli apparati amministrativi.
Non può sfuggire, peraltro, come i concetti summenzionati (di
tutela dell’unità giuridica ed economica) non abbiano una consistenza
oggettivamente pre-definibile, come hanno – o dovrebbero avere – i
principi fondamentali della legislazione statale; almeno nel senso di
poter ritenere che la disciplina di principio non può arrivare ad
“occupare” l’intera materia e che tale circostanza può essere accertata
dal giudice di costituzionalità delle leggi.
La nozione di “unità giuridica od economica” si presenta, invece,
strutturalmente elastica e flessibile e, soprattutto, tendenzialmente restia
ad essere verificata all’esterno, in specie dal giudice costituzionale in
sede di contenzioso costituzionale.
Proprio questo elemento di flessibilità e di istituzionale assenza di
predeterminazione costituzionale del limite di intervento del legislatore
101
centrale è caratteristico di un tipo di potestà legislativa presente nei
modelli federali mitteleuropei, ai quali sarebbe stato lecito pensare che
un legislatore di revisione costituzionale ispirato ai modelli del
federalismo si rifacesse esplicitamente: la Konkurrierende Gesetzgebung
(competenza concorrente).
Come è noto, il legislatore di revisione del titolo V della parte II
Costituzione si è regolato diversamente e non ha introdotto
esplicitamente una tipologia di potestà legislativa di questo tipo,
preferendo mantenere (accanto alle competenze esclusive di Stato e
regioni) il più rigido modello della competenza ripartita.
Importante infine, appare la previsione del necessario rispetto dei
“principi di sussidiarietà e leale collaborazione” nella disciplina,
riservata alla legge ordinaria, delle procedure di sostituzione. Per quanto
riguarda il richiamo alla “leale collaborazione”, assumono particolare
rilievo le “garanzie procedurali” cui si è fatto già cenno, quali la previa
diffida a provvedere indirizzata all’ente inadempiente e la necessità di
ascoltare lo stesso prima di procedere alla sostituzione.
Per ciò che concerne, invece, il “principio di sussidiarietà”, non
stupisce la menzione di uno dei principi cardine del nuovo sistema di
allocazione delle funzioni amministrative (cfr. art. 118, 1° comma).
102
Può, piuttosto, apparire in controtendenza rispetto al principio
medesimo la concentrazione in capo al governo nazionale del potere di
sostituzione nei confronti di qualche ente territoriale, rispetto ad una
possibile soluzione alternativa che individui nel livello territoriale di
governo immediatamente superiore il soggetto in grado di supplire
omissioni del livello inferiore.
Sul punto, la legge prevista dall’ultimo comma dell’art. 120 Cost.
è chiamata ad introdurre importanti elementi di chiarificazione,
introducendo auspicabilmente, tutte le volte in cui ciò sia possibile, la
previsione di interventi sostitutivi del livello territoriale di governo
immediatamente superiore a quello rimasto inerte, e solo nel caso di
inattività anche di questo, del livello ulteriore, prevedendo l’intervento
del governo come ipotesi di chiusura del sistema, oltre che, come visto,
di cura di interessi infrazionabili ed urgenti.
5.3. Il Principio di Sussidiarietà e i suoi riflessi sul piano
dell’ordinamento comunitario
Uno dei aspetti del Trattato sull’Unione Europea (oggi trattato CE)
che più era stato discusso prima della firma del trattato, è quello relativo
103
all’introduzione del principio di sussidiarietà tra i principi fondamentali
della nuova Unione.
L’art. 3B del TUE (oggi art. 5 CE) prevede al secondo comma,
che «nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità
interviene secondo il principio di sussidiarietà, soltanto se e nella misura
in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere
sufficientemente realizzati dagli Stati membri e, a motivo delle
dimensioni e degli effetti dell’azione in questione, possono essere
realizzati meglio a livello comunitario».
L’esame del dato testuale conferma, almeno in parte,
l’ambivalenza del significato del principio in esame: l’intervento della
Comunità nelle materie di competenza concorrente è costruito in termini
negativi e ancorato all’esistenza di due precisi presupposti (presunzione
dell’insufficienza degli Stati a risolvere lo specifico problema e
presunzione dell’esigenza di un intervento comunitario per una migliore
soluzione, dello stesso), ma comporta in ogni caso uno spostamento
dell’esercizio di determinate competenze della sfera statale a quella
comunitaria, le cui dimensioni dipenderanno, in ultima analisi, da
valutazioni di merito, lasciate alle stesse istituzioni comunitarie.
104
E tuttavia pare che tale ambivalenza non vada intesa come
equivocità del principio, ma invece come un carattere ineliminabile del
principio stesso, che, una volta accolto, non può che avere questa duplice
valenza: consentire l’intervento del livello di governo superiore in ambiti
materiali riservati alla formale competenza dei livelli di governo
inferiori, ma solo nelle ipotesi in cui tale intervento risulti giustificato
sulla base di alcuni presupposti predeterminati. Non ha dunque molto
senso ricercare, sul piano interpretativo, gli elementi idonei a sciogliere
quella ambivalenza in un senso (quello negativo, della garanzia contro
indebite ed eccessive ingerenze comunitari) o nell’altro (quello positivo,
della possibile ulteriore espansione degli interventi della Comunità).
Una volta accettato il principio di sussidiarietà come principio
inevitabile ambivalente, risulta più agevole coglierne gli elementi di
continuità del processo di integrazione europea e, gli elementi di forte
novità.
Sotto il primo profilo, quello della continuità, è difficile negare
che l’introduzione del principio di sussidiarietà costituisca una tappa
ulteriore di una tendenza espansiva dell’area di intervento delle
istituzioni comunitarie, che, a partire dai primi anni ’70, non ha
conosciuto battute d’arresto.
105
Tale tendenza, come è noto, si è manifestata in una prima fase,
attraverso un progressivo aumento quantitativo degli interventi
comunitari, cui si è accompagnato un significativo mutamento
qualitativo degli strumenti utilizzati. Le istituzioni comunitarie, cioè, non
agiscono più soltanto attraverso un uso dei loro poteri normativi
rispettoso dello schema, dei contenuti e degli effetti previsti dai trattati
istitutivi.
Così, mentre sempre più spesso con l’avallo della Corte di
giustizia, la Comunità interviene al di fuori dei settori espressamente
rientranti nelle proprie competenze essa tende ad operare attraverso
strumenti che sempre meno corrispondono alle caratteristiche per essi
disegnate dal trattato.
A questa prima fase, un’altra ne è seguita dello stesso segno, la
quale ha trovato nell’approvazione dell’Atto unico europeo la sua
manifestazione più significativa: essa ha portato, infatti, da un lato alla
formalizzazione di nuove competenze comunitarie dall’altro,
all’affermazione, proprio con riferimento ad alcuni dei settori materiali
ricondotti nell’ambito degli interventi comunitari, del principio di
sussidiarietà (è il caso del settore della tutela ambientale).
106
Ma questo principio ha anche un significato profondamente
innovativo, proprio in quanto trasforma in regola generale, ciò che sino
ad oggi rappresentava pur sempre un’eccezione rispetto al quadro delle
disposizioni formali fissate dal trattato. Si tratta dunque di un nuovo
principio regolatore dei rapporti tra Comunità e Stati membri: esso non
sembra destinato ad operare quale criterio attributivo di nuove
competenze formali alla Comunità, quanto piuttosto quale criterio
mobile e flessibile, attraverso il quale l’esercizio di certe competenze
viene spostato al livello comunitario o lasciato alla piena disponibilità
dei livelli di governo infracomunitari, sulla base di valutazioni di merito,
riservate alle stesse istituzioni comunitarie.
Non sembra infatti, che il principio in esame sia stato concepito
per alterare, almeno transitoriamente, il quadro formale delle
competenze ripartite tra Comunità e Stati membri, ma invece per
incidere sul loro concreto esercizio in vista del perseguimento di
determinati obiettivi.
Se questa interpretazione è corretta, ciò che si profila all’orizzonte
è un sistema di concorrenza generalizzata, nel quale la titolarità formale
di determinate competenze non è più garanzia di un loro esercizio
«esclusivo»; tale esercizio sarà sempre più destinato a confrontarsi con il
107
possibile intervento, nelle stesse materie, di altri livelli di governo, e ciò
non sulla base di formali attribuzioni di competenza, bensì sulla base di
un criterio flessibile, che costituisce la vera ragion d’essere del principio
di sussidiarietà, chiamato ad operare in presenza di due presupposti:
natura del problema da affrontare e migliore idoneità del livello
comunitario, rispetto a quello statale, al raggiungimento di determinati
risultati.
Inteso in questo senso, il principio di sussidiarietà rivela tutta la
sua carica di novità rispetto agli strumenti messi in campo sin qui dalla
Comunità per estendere l’ambito dei propri interventi. Mentre, infatti,
questi ultimi (sia che si trattasse di operare in un settore non
espressamente ricompresso tra quelli affidati alla competenza della
Comunità, utilizzando il disposto dell’art. 235 (oggi art. 308 CE), sia che
si trattasse di dare un contenuto dettagliato, e quindi direttamente
applicabile, ad una direttiva) facevano sempre e comunque riferimento a
criteri formali di riparto delle competenze tra Comunità e Stati membri,
previsti dal trattato, sia pure estensivamente interpretati, ciò che, per
definizione, salta con l’introduzione del principio di sussidiarietà è
proprio l’esigenza che l’operatività del principio poggi su un criterio di
natura formale, essendo viceversa esso legato esclusivamente a
108
valutazioni di merito. Non solo, ma mentre gli strumenti di cui sin qui la
Comunità si è avvalsa avevano pur sempre ad oggetto le competenze
della Comunità, così come definite dal trattato, in vista di una loro
possibile interpretazione estensiva, oggetto di applicazione del principio
di sussidiarietò, risultano tutte le materie di competenza concorrente
ossia sembrerebbe di capire, in assenza di una loro puntuale elencazione
nel TUE, tutte le materie ad oggi rientranti nell’ambito delle competenze
statali: un cambio di prospettiva, dunque, di notevole rilievo e che
conferma il tasso di novità che l’art.3B (oggi art.5 CE) è in grado di
introdurre nei futuri sviluppi del sistema comunitario.
109
CONCLUSIONI
Quello che è certo comunque è che il nuovo quadro normativo che
emerge dalla riforma del titolo V della parte II della Costituzione
determina un vero e proprio mutamento dell’ordinamento. Si potrebbe
dire quasi un “mutamento di fase” nella nostra stessa vicenda e, in un
certo senso, persino nazionale.
Con questa riforma, infatti è ora davvero e definitivamente
superato il modello costituzionale-amministrativo che ha
caratterizzato l’Italia fin dalla sua unificazione e che ha visto dare al
Parlamento nazionale, al Legislatore statale, al Governo nazione e
all’Amministrazione statale un ruolo fondamentale di unificazione
dell’intero Paese.
Questo periodo è ora definitivamente chiuso e noi siamo entrati in
un nuovo scenario nel quale non si può più parlare di “Legislazione”
ma di “Legislazioni”, non di “Amministrazione” ma di
“Amministrazioni”, non di “Legislatore” ma di “Legislatori”
“Governo” ma di “Governi”.
Un ordinamento che ha fatto certamente un passo avanti forte nel
senso di più accentuato federalismo ma che soprattutto vede l’esplosione
110
del precedente sistema sostanzialmente unitario e la sua
“trasformazione” in un sistema “policentrico”. Un sistema più articolato
e meno coeso ma anche potenzialmente più elastico e flessibile, e quindi
anche più adatto a favorire lo sviluppo del Paese nel quadro di un
processo di integrazione europea e di globalizzazione mondiale che
chiede sempre più flessibilità e adattabilità alle amministrazioni e in
genere agli apparti pubblici.
Non vi è dubbio, tuttavia, che un sistema di questo genere ha
bisogno di sviluppare rapidamente forti e innovativi momenti e forme di
collaborazione e di raccordo fra i diversi soggetti.
Forme che non necessariamente potranno ripetere il modello
classico delle fonti normative, delle leggi, dei regolamenti, delle circolari
ma che dovranno sviluppare invece forme nuove di soft legislation, di
raccordi procedimentali, di cabine e tavoli di regia.
In una parola, nuove forme di governance nell’ambito delle quali
trovare forme di intesa e di collaborazione programmatiche e continue.
La riforma costituzionale che è appena entrata in vigore offre
dunque grandi opportunità al Paese e al suo sistema di governi locali ma
costituisce anche una grande sfida per tutti i diversi soggetti coinvolti e
111
prima di tutto tanto per la società nazionale quanto per le società locali
che costituiscono il nostro Paese e le nostre comunità.
Tuttavia allo stato attuale sia gli amministratori che i dirigenti e i
funzionari dei nostri enti territoriali e dei nostri enti pubblici sono i primi
ad essere coinvolti da questa nuova sfida e sono certamente fra coloro
che più potranno incidere, con la loro capacità positiva di innovazione o
con i loro eventuali atteggiamenti negativi di resistenza, al successo e
all’insuccesso di questa riforma.
Siccome il Paese non può permettersi di perdere questa sfida
l’auspicio è che tutta la nostra società, e prima di tutto i nostri
amministratori e i nostri apparati pubblici, siano capaci di cogliere a
pieno le grandi opportunità che questa innovazione offre e di collaborare
nel modo più convinto possibile a risolvere i non pochi problemi che
indubbiamente questa riforma pone.
Infine va sottolineato ancora che quale sia la convinzione di
ciascuno in ordine a questa riforma e in ordine all’eventualità che essa
debba non essere attuata (e completata con una coerente riforma anche
del titolo I della parte II e cioè dell’attuale sistema parlamentare
bicamerale) ma anche eventualmente modificata, non giova a nessuno
assumere un atteggiamento di pregiudiziale chiusura e di resistenza
112
passiva. Giova a tutti invece sentirsi pienamente coinvolti in uno sforzo
di cambiamento delle abitudini, delle prassi, della mentalità stessa che
non è sicuramente facile ma che certamente è inevitabile.
113
APPENDICE
LEGGE COSTITUZIONALE, 18 ottobre 2001, n.3 “Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione”
Art. 1 1. L’articolo 114 della Costituzione è sostituito dal seguente: “Art.
114 – La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle
Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. I Comuni, le
Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi
con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla
Costituzione. Roma è la capitale della Repubblica. La legge dello
Stato disciplina il suo ordinamento”.
Art. 2 1. L’articolo 116 della Costituzione è sostituito dal seguente: “Art.
116 – Il Friuli Venezia Giulia, la Sardegna, la Sicilia, il Trentino
Alto Adige/Sudtirol e la Valle D’Aosta/Vallè d’Aoste dispongono
di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi
statuti speciali adottati con legge costituzionale. La Regione
Trentino – Alto Adige/Sudtirol è costituita dalle Province
autonome di Trento e Bolzano. Ulteriori forme e condizioni
particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo
comma dell’art. 117 e le materie indicate dal secondo comma del
medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione
della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre
Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione
interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui
all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza
assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la
Regione interessata”.
Art. 3 1. L’articolo 117 della Costituzione è sostituito dal seguente: Art.
117. – La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle
Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli
derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi
114
internazionali. Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti
materie: a) politica estera e rapporti internazionali dello Stato;
rapporti dello Stato con l’Unione europea; b) immigrazione; c)
rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose; d) difesa e
Forze armate; sicurezza dello Stato; armi, munizioni ed esplosivi;
e) moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari; tutela della
concorrenza; sistema valutario; sistema tributario e contabile dello
Stato; perequazione delle risorse finanziarie; f) organi dello Stato
e relative leggi elettorali; referendum statali; elezioni del
Parlamento europeo; g) ordinamento e organizzazione
amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali; h)
ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia
amministrativa locale; i) cittadinanza, stato civile e anagrafi; l)
giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale;
giustizia amministrativa; m) determinazione dei livelli essenziali
delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono
essere garantiti su tutto il territorio nazionale; n) norme generali
sull’istruzione; o) previdenza sociale; p) legislazione elettorale,
organi di governo fondamentali di Comuni, Province e città
metropolitane; q) dogane, protezione dei confini nazionali e
profilassi internazionale; r) pesi, misure e determinazione del
tempo; coordinamento informativo statistico e informatico dei dati
dell’amministrazione statale, regionale e locale; opere
dell’ingegno; s) tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni
culturali.
Sono materie di legislazione concorrente quelle relativa a: rapporti
internazionali e con l’Unione europea delle Regioni; commercio
con l’estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva
l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della
istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca
scientifica e tecnologia e sostegno all’innovazione per settori
produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento
sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti
civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della
comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale
dell’energia; previdenza complementare e integrativa;
armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza
pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali
e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali;
casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere
115
regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale.
Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la
potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi
fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato. Spetta alle
Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non
espressamente riservata alla legislazione dello Stato. Le Regioni e
le Province autonome di Trento e Bolzano, nelle materie di loro
competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione
degli atti normativi comunitari e provvedono all’attuazione e
all’esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione
europea, nel rispetto delle norme di procedura stabilite da legge
dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere
sostitutivo in caso di inadempienza. La potestà regolamentare
spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva
delega alle Regioni. La potestà regolamentare spetta allo Stato
nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni.
La potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia.
I Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà
regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello
svolgimento delle funzioni loro attribuite. Le leggi regionali
rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli
uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e
promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche
elettive. La legge regionale ratifica le intese della Regione con
altre Regioni per il migliore esercizio delle varie funzioni, anche
con individuazione di organi comunitari. Nelle materie di sua
competenza la Regione può concludere accordi con Stati e intese
con enti territoriali interni ad altro Stato, nei casi e con le forme
disciplinari da leggi dello Stato”.
Art. 4 1. L’articolo 118 della Costituzione è sostituito dal seguente: “Art.
118. Le funzioni amministrative sono attribuite a Comuni salvo
che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a
Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei
principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. I
Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari di
funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge
statale o regionale, secondo le rispettive competenze. La legge
116
statale disciplina forme di coordinamento fra Stato e Regioni nelle
materie di cui alle lettere b) ed h) del secondo comma del’art. 117,
e disciplina inoltre forma di intesa e coordinamento nella materia
della tutela dei beni culturali. Stato, Regioni, Città metropolitane,
Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini,
singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse
generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.
Art. 5 1. L’articolo 119 della Costituzione è sostituito dal seguente: “Art.
119 – I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni
hanno risorse autonome. Stabiliscono e applicano tributi ed entrate
propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di
coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario.
Dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali
riferibile al loro territorio. La legge dello Stato istituisce un fondo
perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con
minore capacità fiscale per abitante. Le risorse derivanti dalle fonti
di cui ai commi precedenti consentono ai Comuni, alle Province,
alle Città metropolitane e alla Regioni di finanziare integralmente
le funzioni pubbliche loro attribuite. Per promuovere lo sviluppo
economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli
squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei
diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale
esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed
effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni,
Province, Città metropolitane e Regioni. I Comuni, le Province, le
città metropolitane e le Regioni hanno un proprio patrimonio,
attribuito secondo i principi generali determinati dalla legge dello
Stato. Possono ricorrere all’indebitamento solo per finanziare
spese di investimento. E’ esclusa ogni garanzia dello Stato sui
prestiti dagli stessi contratti”.
Art. 6 1. L’articolo 120 della Costituzione è sostituito dal seguente: “Art.
120 – La Regione non può istituire dazi di importazione o
esportazione o transito tra le Regioni, né adottare provvedimenti
che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle
117
persone e delle cose tra le Regioni, né limitare l’esercizio del
diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale. Il
Governo può sostituirsi ad organi delle Regioni, delle Città
metropolitane, delle Province e dei Comuni nel caso di mancato
rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa
comunitaria oppure di pericolo grave per l’incolumità e la
sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela
dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela
dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e
sociali, prescindendo dai confini territoriali dai governi locali. La
legge definisce le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi
siano esercitati nel rispetto del principio di sussidarietà e dal
principio di leale collaborazione”.
Art. 7 1. All’articolo 123 della Costituzione è aggiunto, infine, il seguente
comma: “In ogni Regione, lo statuto disciplina il Consiglio delle
autonomie locali, quale organo di consultazione fra la Regione e
gli enti locali”.
Art. 8 1. L’articolo 127 della Costituzione è sostituito dal seguente: “Art.
127 – Il Governo, quando ritenga che una legge regionale ecceda
la competenza della Regione, può promuovere la questione di
legittimità costituzionale dinanzi alla Corte costituzionale entro
sessanta giorni dalla sua pubblicazione. La Regione, quando
ritenga che una legge o un atto avente valore di legge dello Stato o
di un’altra Regione leda la sua sfera di competenza, può
promuovere la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla
Corte costituzionale entro sessanta giorni dalla pubblicazione della
legge o dell’atto avente valore di legge”.
Art. 9 1. Al secondo comma dell’articolo 132 della Costituzione, dopo le
parole: “Si può, con” sono inserite le seguenti:”l’approvazione
della maggioranza delle popolazioni della Provincia o delle
118
Province interessate e del Comune o dei Comuni interessati
espressa mediante”.
2. L’articolo 115, l’articolo 124, il primo comma dell’articolo 125,
l’articolo 128, l’articolo 129 e l’articolo 130 della Costituzione
sono abrogati.
Art. 10 1. Sino all’adeguamento dei rispettivi statuti, le disposizioni della
presente legge costituzionale si applicano anche alle Regioni a
statuto speciale ed alle province autonome di Trento e di Bolzano
per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie
rispetto a quelle già attribuite.
Art. 11 1. Sino alla revisione delle norme del titolo I della parte seconda
della Costituzione, i regolamenti delle Camere dei deputati e del
Senato della Repubblica possono prevedere la partecipazione di
rappresentanti delle Regioni, delle Province autonome e degli enti
locali della Commissione parlamentare per le questioni regionali.
Quando un progetto di legge riguardante le materie di cui al terzo
comma dell’art. 117 e all’articolo 119 della Costituzione contenga
disposizione sulle quali la Commissione parlamentare per le
questioni regionali, integrata ai sensi del comma 1, abbia espresso
parere contrario o parere favorevole condizionato all’introduzione
di modificazioni specificamente formulate, e la Commissione che
ha svolto l’esame in sede referente non vi sia adeguata, sulle
corrispondenti pari al progetto di legge l’Assemblea delibera a
maggioranza assoluta dei suoi componenti.
119
TITOLO V DELLA COSTITUZIONE A CONFRONTO
TITOLO V DELLA
COSTITUZIONE NOVELLATO
DALLA LEGGE
COSTITUZIONALE N.3/2001
TITOLO V DELLA COSTITUZIONE
PRIMA DELLA MODIFICA
COSTITUZIONALE
L’articolo 114 della Costituzione è
sostituito dal seguente:
“Art. 114 – La Repubblica è
costituita dai Comuni, dalle
Province, le città metropolitane e le
Regioni sono enti autonomi con
propri statuti, poteri e funzioni
secondo i principi fissati dalla
Costituzione.
Roma è la capitale della
Repubblica. La legge dello Stato
disciplina il suo ordinamento”
Art. 114
“La Repubblica si riparte in Regioni,
Province e Comuni.
L’articolo 116 della Costituzione è
sostituito dal seguente:
“Art. 116 – Il Friuli Venezia Giulia,
la Sardegna, il Trentino Alto
Adige/Sudtirol e la Valle
d’Aosta/Vallee d’Aoste dispongono
di forme e condizioni particolari di
autonomia, secondo i rispettivi
statuti speciali adottati con legge
costituzionale.
La regione Trentino Alto
Adige/Sudtirol è costituita dalle
Province autonome di Trento e
Bolzano.
Ulteriori forme e condizioni
particolari di autonomia,
concernenti le materie di cui al
terzo comma dell’art. 117 e le
materie indicate dal secondo
comma del medesimo articolo
lettere I), limitatamente
all’organizzazione della giustizia di
pace, n) e s), possono essere
attribuite ad altre Regioni, con
legge delle Stato su iniziativa della
Regione interessata, sentiti gli enti
locali, nel rispetto dei principi di cui
all’art. 119.
Art. 116
“Alla Sicilia, alla Sardegna, al Trentino-Alto
Adige, al Friuli Venezia Giulia e alla Valle
d’Aosta sono attribuite forme e condizioni
particolari di autonomia, secondo statuti
speciali adottati con leggi costituzionali”
120
La legge è approvata dalle Camere
a maggioranza assoluta dei
componenti, sulla base di intesa fra
lo Stato e la Regione interessata”
L’articolo 117 della Costituzione è
sostituito dal seguente:
“Art. 117 - La potestà legislativa è
esercitata dallo Stato e dalle
Regioni nel rispetto della
Costituzione, nonché dai vincoli
derivanti dall’ordinamento
comunitario e dagli obblighi
internazionali.
Lo Stato ha legislazione esclusiva
nelle seguenti materie:
a) politica estera e rapporti
internazionali dello Stato;
rapporti dello Stato con
l’Unione europea; diritto di
asilo e condizione giuridica
dei cittadini di Stati non
appartenenti all’Unione
europea;
b) immigrazione;
c) rapporti tra la repubblica e le
confessioni religiose;
d) difesa e Forze armate;
sicurezza dello Stato; armi,
munizioni ed esplosivi;
e) moneta, tutela del risparmio e
mercati finanziari; tutela della
concorrenza; sistema
valutario; sistema tributario e
contabile dello Stato;
perequazione delle risorse
finanziarie;
f) organi dello Stato e relative
leggi elettorali; referendum
statali; elezione del
Parlamento europeo;
g) ordinamento e organizzazione
amministrativa dello Stato e
degli enti pubblici nazionali;
h) ordine pubblico e sicurezza,
ed esclusione della polizia
amministrativa locale;
i) cittadinanza, stato civile e
Art. 117
“La regione emana per le seguenti materie
norme legislative nei limiti dei principi
fondamentali stabilite dalle leggi dello Stato,
semprechè le norme stesse non siano in
contrasto con l’interesse nazionale e con
quello di altre Regioni: ordinamento degli
uffici e degli enti amministrativi dipendenti
dalla Regione ; circoscrizioni comunali;
polizia locale urbana e rurale; fiere e mercati;
beneficenza pubblica ed assistenza sanitaria
ed ospedaliera; istruzione artigiana e
professionale e assistenza scolastica; musei e
biblioteche di enti locali; urbanistica; turismo
ed industria alberghiera; tranvie e linee
automobilistiche di interesse regionale;
viabilità, acquedotti e lavori pubblici di
interesse regionale; navigazione e porti
lacuali; acque minorali e termali; cave o
torbiere; caccia; pesche nelle acque interne;
agricoltura e foreste, artigianato.
Altre materie indicate da leggi costituzionali:
Le leggi della Repubblica possono demandare
alla Regione il potere di emanare norme per
la loro attuazione”.
121
anagrafi;
j) giurisdizione e norme
processuali; ordinamento
civile e penale; giustizia
amministrativa.
k) Determinazione dei livelli
essenziali della prestazione
concernenti i diritti civili e
sociali: che devono essere
garantiti su tutto il territorio
nazionale;
l) Norme generali
sull’istruzione;
m) Previdenza sociale;
n) Legislazione elettorale, organi
di governo e funzioni
fondamentali di Comuni,
province e città
metropolitane.
o) Dogane, protezione dei
confini nazionali e profilassi
internazionale;
p) Pesi, misure e determinazione
del tempo; coordinamento
informativo statistico e
informatico dei dati
dell’amministrazione statale,
regionale e locale. Opere
dell’ingegno;
q) Tutela dell’ambiente,
dell’ecosistema e dei beni
culturali.
Sono materie di legislazione
concorrente quelle relative a:
rapporti internazionali e con
l’Unione europea delle Regioni;
commercio con l’estero; tutela
sicurezza del lavoro; istruzione,
salva l’autonomia delle istituzioni
scolastiche e con esclusione della
istruzione e della formazione
professionale; professioni: ricerca
scientifica e tecnologica e sostegno
all’innovazione per i settori
produttivi, tutela della salute;
alimentazione; ordinamento
sportivo; protezione civile; governo
122
del territorio; porti e aeroporti
civili; grandi reti di trasporto e
navigazione; ordinamento della
comunicazione; produzione,
trasporto e distribuzione nazionale
dell’energia; previdenza
complementare e integrativa;
armonizzazione dei bilanci pubblici
e coordinamento della finanza
pubblica e del sistema tributario;
valorizzazione dei beni culturali e
ambientali e promozione e
organizzazione di attività culturali;
casse di risparmio, casse rurali,
aziende di credito a carattere
regionale; enti di credito fondiario e
agrario a carattere regionale. Nelle
materie di legislazione concorrente
spetta alle Regioni la potestà
legislativa, salvo che per la
determinazione dei principi
fondamentali, riservata alla
legislazione dello Stato. Spetta alle
Regioni la potestà legislativa in
riferimento ad ogni materia non
espressamente riservata alla
legislazione dello Stato.
Le Regioni e le Province autonome
di Trento e di Bolzano, nelle
materie di loro competenza,
partecipano alle decisioni dirette
alla formazione degli atti normativi
comunitari e provvedono
all’attuazione e all’esecuzione degli
accordi internazionali e degli atti
dell’unione europea, nel rispetto
delle norme di procedura stabilite
da legge dello Stato, che disciplina
le modalità di esercizio del potere
sostitutivo in caso di inadempienza.
La potestà regolamentare spetta allo
Stato nelle materie di legislazione
esclusiva, salva delega alle Regioni.
La potestà regolamentare spetta alle
Regioni in ogni altra materia. I
Comuni, le Province e le Città
metropolitane hanno la potestà
123
regolamentare in ordine alla
disciplina dell’organizzazione e
dello svolgimento delle funzioni
loro attribuite.
Le leggi regionali rimuovono ogni
ostacolo che impedisce la piena
parità degli uomini e delle donne
nella vita sociale, culturale ed
economica e promuovono la parità
di accesso tra donne e uomini alle
cariche elettive.
La legge regionale ratifica le intese
della Regione con altre Regioni per
migliorare esercizio delle proprie
funzioni, anche con individuazione
di organi comuni.
Nelle materie di sua competenza la
Regione può concludere accordi
con Stati e intese con enti
territoriali interni ad altro Stato, nei
casi e con le forme disciplinati da
leggi dello Stato”.
L’articolo 118 della Costituzione è
sostituito dal seguente:
“Art. 118. Le funzioni
amministrative sono attribuite ai
Comuni salvo che, per assicurarne
l’esercizio unitario, siano conferite
a Province, Città metropolitane,
Regioni e Stato, sulla base dei
principi di susdidiarietà,
differenziazione ed adeguatezza. I
Comuni, le Province e le Città
metropolitane sono titolari di
funzioni amministrative proprie e
quelle conferite con legge statale o
regionale, secondo le rispettive
competenze.
La legge statale disciplina forme di
coordinamento fra Stato e Regioni
nelle materie di cui alle lettere b) e
h) del secondo comma dell’art.
117, e disciplina inoltre forma di
intesa e coordinamento nella
materia della tutela dei beni
culturali. Stato, Regioni, Città
metropolitane, Province e Comuni
Art. 118
“Spettano alla Regione le funzioni
amministrative per le materie elencate nel
precedente articolo, salvo quelle di interesse
esclusivamente locale, che possono essere
attribuite dalle leggi della Repubblica alle
Province, ai Comuni o al alti enti locali. Lo
Stato può con legge delegare alla Regione
l’esercizio di altre funzioni amministrative.
La Regione esercita normalmente le sue
funzioni amministrative delegandole alle
Province, ai Comuni o ad altri enti locali, o
valendosi dei loro uffici”.
124
favoriscono l’autonoma iniziativa
dei cittadini, singoli e associati, per
lo svolgimento di attività di
interesse generale, sulla base del
principio di sussidiarietà.
L’articolo119 della Costituzione è
sostituito dal seguente:
“Art. 119 – I Comuni, le Province,
le Città metropolitane e le Regioni
hanno autonomia finanziaria di
entrate e di spesa.
I Comuni, le Province, le Città
metropolitane e le Regioni hanno
risorse autonome. Stabiliscono e
applicano tributi ed entrate propri,
in armonia con la Costituzione e
secondo i principi di coordinamento
della finanza pubblica e del sistema
tributario.
Dispongono di compartecipazioni al
gettito di tributi erariali riferibile al
loro territorio.
La legge dello Stato istituisce un
fondo perequativo, senza vincoli di
destinazione, per i territori con
minore capacità fiscale per abitante.
Le risorse derivanti dalle fonti di
cui ai commi precedenti consentono
ai Comuni alle Province, alle Città
metropolitane e alle Regioni di
finanziare integralmente le funzioni
pubbliche loro attribuite. Per
promuovere lo sviluppo economico,
la coesione e la solidarietà sociale,
per rimuovere gli squilibri
economici e sociali, per favorire
l’effettivo esercizio dei diritti della
persona o per provvedere a scopi
diversi dal normale esercizio delle
loro funzioni, lo Stato destina
risorse aggiuntive ed effettua
interventi speciali in favore di
determinati Comuni, Province, Città
metropolitane e Regioni.
I Comuni le Province le Città
metropolitane e le Regioni hanno
un loro patrimonio, attribuito
Art. 119
“Le Regioni hanno autonomia finanziaria
nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi della
Repubblica, che la coordinano con la finanza
dello Stato, delle Province e dei Comuni.
Alle Regioni sono attribuite tributi propri e
quote di tributi erariali, in relazione ai bisogni
delle Regioni per le spese necessarie ad
adempiere le loro funzioni normali.
Per provvedere a scopi determinati, e
particolarmente per valorizzare il
Mezzogiorno e le Isole, lo Stato assegna per
legge a singole Regioni contributi speciali.
La Regione ha un proprio demanio e
patrimonio, secondo le modalità stabilite con
legge della Repubblica”.
125
secondo i principi generali
determinati dalla legge dello Stato.
Possono ricorrere all’indebitamento
solo per finanziare spese di
investimento. E’ esclusa ogni
garanzia dello stato sui prestiti dagli
stessi contratti”.
L’articolo 120 della Costituzione è
sostituito dal seguente:
“Art. 120 – la Regione non può
istituire dazi di importazione o
esportazione o transito tra le
Regioni, né adottare provvedimenti
che ostacolino in qualsiasi modo la
libera circolazione delle persone e
delle cose tra le Regioni, né limitare
l’esercizio del diritto al lavoro in
qualunque parte del territorio
nazionale.
Il Governo può sostituirsi a organi
delle Regioni, delle Città
metropolitane, delle Province e dei
Comuni nel caso di mancato
rispetto di norme e trattati
internazionali o della normativa
comunitaria oppure di pericolo
grave per l’incolumità e la sicurezza
pubblica, ovvero quando lo
richiedono la tutela dell’unità
giuridica o dell’unità economica e
in particolare la tutela dei livelli
essenziali delle prestazioni
concernenti i diritti civili e sociali,
prescindendo dai confini territoriali
dei governi locali. La legge
definisce le procedure atte a
garantire che i poteri sostitutivi
siano esercitati nel rispetto del
principio di sussidiarietà e del
principio di leale collaborazione”.
Art. 120
“La Regione non può istituire dazi
d’importazione o esportazione o transito fra
le Regioni.
Non può adottare provvedimenti che
ostacolino in qualsiasi modo la libera
circolazione delle persone e delle cose fra le
Regioni.
Non può limitare il diritto dei cittadini di
esercitare in qualunque parte del territorio
nazionale la loro professione, impiego o
lavoro”.
All’articolo 123 della Costituzione
è aggiunto, in fine, il seguente
comma:
“In ogni Regione, lo statuto
disciplina il Consiglio delle
autonomie locali, quale organo di
consultazione fra la Regione e gli
Art. 123
“Ciascuna Regione ha uno statuto che, in
armonia con la Costituzione, ne determina la
forma di governo e i principi fondamentali di
organizzazione e funzionamento. Lo statuto
regola l’esercizio del diritto di iniziativa e del
referendum su leggi e provvedimenti
126
enti locali”. amministrativi della Regione e la
pubblicazione delle leggi e dei regolamenti
regionali.
Lo statuto è approvato e modificato dal
Consiglio regionale con legge approvata a
maggioranza assoluta dei singoli componenti,
con due liberazioni successive adottate ad
intervallo non minore di due mesi. Per tale
legge non è richiesta l’apposizione del visto
da parte del Commissario del Governo. Il
Governo della Repubblica può promuovere la
questione di legittimità costituzionale sugli
statuti regionali dinanzi alla Corte
costituzionale entro 30 giorni dalla loro
pubblicazione.
Lo statuto è sottoposto a referendum popolare
qualora entro tre mesi dalla sua pubblicazione
ne faccia richiesta un cinquantesimo degli
elettori della Regione o un quinto dei
componenti il Consiglio regionale. Lo statuto
sottoposto a referendum non è promulgato se
non è approvato dalla maggioranza dei voti
validi.
In ogni Regione, lo statuto disciplina il
Consiglio delle autonomie locali, quale
organo di consultazione fra la Regione e gli
enti locali.
L’articolo 127 della Costituzione è
sostituito dal seguente:
“Art. 127 – Il Governo, quando
ritenga che una legge regionale
ecceda la competenza della
Regione, può promuovere la
questione di legittimità
costituzionale dinanzi alla Corte
costituzionale entro sessanta giorni
dalla sua pubblicazione. La
Regione, quanto ritenga che una
legge o un atto avente valore di
legge dello Stato o di un’altra
Regione leda la sua sfera di
competenza, può promuovere la
questione di legittimità
costituzionale dinanzi alla Corte
costituzionale entro sessanta giorni
dalla pubblicazione della legge o
dellì’atto avente valore di legge”.
Art. 127
“Ogni legge approvata dal Consiglio
regionale è comunicata al Commissario che,
salvo il caso di opposizione da parte del
Governo, deve visitarla nel termine di trenta
giorni dalla comunicazione.
La legge è promulgata nei dieci giorni dalla
opposizione del visto ed entra in vigore non
prima di quindici giorni dalla sua
pubblicazione. Se una legge è dichiarata
urgente dal Consiglio regionale, e il Governo
della Repubblica lo consente, la
promulgazione e l’entrata in vigore non sono
subordinate ai termini indicati.
Il Governo della Repubblica, quanto ritenga
che una legge approvata dal Consiglio
regionale ecceda la competenza della Regione
o contrasti con gli interessi nazionali o con
quelle di altre Regioni, la rinvia al Consiglio
regionale nel termine fissato per
127
l’opposizione del visto.
Ove il consiglio regionale le approvi di nuovo
a maggioranza assoluta dei suoi componenti,
il Governo della Repubblica può, nei quindici
giorni dalla comunicazione, promuovere la
questione di legittimità davanti alla Corte
costituzionale, o quella di merito per
contrasto di interessi davanti alle Camere. In
caso di dubbio, la Corte decide di chi sia la
competenza”.
Al secondo comma dell’art. 132
della Costituzione, dopo le parole:
“Si può, con” sono inserite le
seguenti: “l’approvazione della
maggioranza delle popolazioni della
Provincia o delle Province
interessate e del Comune o dei
Comuni interessati espressa
mediante”
Art. 132
“Si può, con referendum e con legge della
Repubblica, sentiti i Consigli regionali,
consentire che Province e Comuni, che ne
facciano richiesta, siano staccati da una
Regione ed aggregati ad un’altra”.
L’articolo 115, l’articolo 124, il
primo comma dell’art. 125,
l’articolo 128, l’articolo 129 e
l’articolo 130 della Costituzione
sono abrogati.
Art. 115
“Le Regioni sono costituite in enti autonomi
con propri poteri e funzioni secondo i principi
fissati nella Costituzione.
Art. 124
“Un commissario del governo, residente nel
capoluogo della Regione, soprintende alle
funzioni amministrative esercitate dallo Stato
e le coordina con quelle esercitate dalla
Regione”
Art. 125
“Il controllo di legittimità sugli atti
amministrativi della Regione è esercitato, in
forma decentrata, da un organo dello Stato,
nei modi e nei limiti stabiliti da leggi della
Repubblica. La legge può in determinati casi
ammettere il controllo di merito, al solo
effetto di promuovere, con richiesta motivata,
il riesame della deliberazione da parte del
Consiglio regionale”.
Art. 128
“Le province e i comuni sono anche
circoscrizioni di decentramento statale e
regionale.
Le circoscrizioni provinciali possono essere
suddivise in circondari con funzioni
esclusivamente amministrative per un
128
ulteriore decentramento”.
Art. 130
“Un organo della Regione, costituito nei modi
stabiliti da legge della Repubblica, esercita,
anche in forma decentrata, il controllo di
legittimità sugli atti delle Province, dei
Comuni e degli altri enti locali.
In casi determinati dalla legge può essere
esercitato il controllo di merito, nella forma
di richiesta motivata agli enti deliberanti di
riesaminare la loro deliberazione”.
129
BIBLIOGRAFIA
• G. Berti G.C. De Martin (2001) Le autonomie territoiraliali : dalla riforma
amministrativa alla riforma costituzionale, Giuffrè, Milano.
• U. Caretti, Il principio di sussidiarietà e i suoi riflessi sul piano
dell’ordinamento comunitario e dell’ordinamento nazionale. Quaderni
costituzionali 1993/n.1
• M. Cammelli, Amministrazione e (interpreti) davanti al nuovo titolo V della
Costituzione, Le Regioni 2001/n.6.
• M. Cammelli, Dopo il titolo V: quali poteri locali? Le Regioni 2002/n.1.
• Berti G. Governo tra Unione Europea e Autonomie Territoriali: Le Regioni
2002/n.1.
• F. Pizzetti (2001) Nuovo ordinamento amministrativo e Principio di
Sussidiarietà…. www.senato.it
• F. Pizzetti (2002) Le linee generali del nuovo ordinamento amministrativo
italiano fra riforme amministrative e riforme costituzionali, www.giustizia.it
• A. D’Atena, Costituzione e Principio di Solidarietà. Quaderni costituzionali
2001/n.1.
• L. Rosa, 3Il principio di sussidiarietà” nell’insegnamento sociale della
Chiesa. La formulazione del principio e la sua interpretazione.
Aggiornamenti sociali, 1962/n.11.
• T.F. Gipponi, Regioni versus Enti Locali: un (mai sopito) conflitto riaperto
dalla riforma del titolo V della Costituzione? Quaderni Costituzionali
2001/n.1
• A. Rinella, Il principio di Sussidiarietà: definizioni, comparazione e modello
d’analisi, Padova, 1999.
• G. Rucco. Il principio di sussidiarietà quale criterio del recente processo di
riorganizzazione del sistema pubblico italiano, www.senato.it
• T. Gruppi – M. Olivetti, La repubblica delle autonomie – Regioni ed enti
locali nel nuovo titolo V. Giappichelli Torino (2001)
• D. Sorace, La disciplina generale dell’azione amministrativa dopo la riforma
del titolo V della Costituzione, Le Regioni 2002 n.4.
130
• A. Celotto, Le funzioni amministrative regionali. Giappichelli, Torino (2001)
• F. Pizzolato, Il principio di sussidiarietà. Giappichelli, Torino (2001).
• A. Rinella, Osservazioni in ordine alla ripartizione delle competenze tra
Comunità Europea e Stati membri alla luce del principio di sussidiarietà.
Quaderni 1994/n.3 – 2001/n.9.
• G. Falcon, Il nuovo titolo V della parte II della Costizuione, Le Regioni,
2001/n.9.
• R. Bin – La funzione amministrativa nel nuovo titolo V., Le Regioni,
2002/n.3.
Siti Internet utilizzati per la ricerca
1. www.senato.it
2. www.riformecostituzionali.it
3. www.regioni/province/comuni/costituzione.it
4. www.unioneeuropea.it
Recommended