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Università degli Studi dell’Aquila Dipartimento di Scienze Umane Area di Lettere e Filosofia Corso di Laurea in Culture per la comunicazione Tesi di Laurea Roberto Ettorre Welfare e lotta alla povertà Relatore prof. Mario Di Gregorio Il relatore Il candidato Prof. Mario Di Gregorio Roberto Ettorre Anno Accademico 2013/2014

Tesi Welfare e lotta alla povertà

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Università degli Studi dell’Aquila

Dipartimento di Scienze Umane – Area di Lettere e Filosofia

Corso di Laurea in Culture per la comunicazione

Tesi di Laurea

Roberto Ettorre

Welfare e lotta alla povertà

Relatore prof. Mario Di Gregorio

Il relatore Il candidato

Prof. Mario Di Gregorio Roberto Ettorre

Anno Accademico 2013/2014

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ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

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A Nonna Forestina,

per ringraziarla delle tante volte in

cui mi parlò dell’importanza della Cultura

come strumento di emancipazione e libertà.

“La carta” gridò Scarpone con la collera di chi finalmente vede l’inganno con i propri

occhi. La vista di Baldissera non arrivava fin là. “C’è già la carta?” egli chiese ansioso.”

Allora il tradimento è compiuto.” Attorno alla carta noi vedemmo raggrupparsi loro signori

e far circolo per qualche minuto e infine scambiarsi inchini, strette di mano,

congratulazioni; ma le loro voci non giungevano fino a noi. (Più tardi ci dissero che la

perdita dell’acqua sarebbe durata dieci lustri e che questa proposta sarebbe stata avanzata

in nostro favore da don Circostanza; ma nessuno di noi sapeva quanti mesi o quanti anni

facessero dieci lustri.)

Fontamara, Ignazio Silone

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ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

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INDICE

INTRODUZIONE ............................................................................................................................... 4

BREVE STORIA DEL WELFARE ................................................................................................... 9

WELFARE STATE, ORIGINI E USO DEL TERMINE ............................................................................................... 9 UNA BREVE STORIA DELLE POLITICHE DI WELFARE E LOTTA ALLA POVERTÀ: DAL MEDIOEVO A BISMARCK 13

LA SVOLTA NOVECENTESCA: IL RAPPORTO BEVERIDGE................................................. 25

IL WELFARE INGLESE ALL’INIZIO DEL NOVECENTO....................................................................................... 25 BIOGRAFIA DI WILLIAM BEVERIDGE ............................................................................................................ 28 LIBERALISMO E LIBERALISMO SOCIALE: ANTESIGNANI, CONTRADDIZIONI E MERITI NELLO SVILUPPO DEL

WELFARE ...................................................................................................................................................... 37 IL RAPPORTO BEVERIDGE ............................................................................................................................ 42 I TRE PILASTRI .............................................................................................................................................. 44

WELFARE E MERITOCRAZIA: MODERNITÀ O RITORNO AL PASSATO? .......................... 51

DEFINIZIONE DI “MERITOCRAZIA” ................................................................................................................ 51 BIOGRAFIA DI MICHAEL YOUNG .................................................................................................................. 52 UN RITORNO INDIETRO ................................................................................................................................. 59

CONCLUSIONE .............................................................................................................................. 65

BIBLIOGRAFIA .............................................................................................................................. 68

SITOGRAFIA ................................................................................................................................... 70

L’AUTORE .................................................................................................................................................... 71

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ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

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Per conquistare un futuro bisogna prima sognarlo

Marge Piercy

L'ignoranza è un'erba cattiva, che i dittatori possono coltivare tra i loro simili,

ma che nessuna democrazia può permettere tra i propri cittadini

Sir. William Henry Beveridge

INTRODUZIONE

La crisi economica che stiamo vivendo dal 2007 ha drasticamente modificato il concetto di

relazione fra Stato e cittadini, portando enormi trasformazioni sui sistemi di welfare

precedentemente conosciuti, in Italia e in Europa.

La crisi ha provocato uno spostamento di ricchezze dal lavoro alla rendita ed ha allargato la

forbice relativa alla sperequazione nella distribuzione del reddito. Questo fenomeno ha

sottratto sempre più risorse al Welfare dei paesi coinvolti, depotenziando i sistemi di

protezione sociale e allo stesso tempo tagliando i servizi dedicati ai cittadini in condizione

di bisogno. Gli utili delle imprese, negli ultimi anni, invece che essere reinvestiti nelle stesse

aziende che li hanno prodotti allo scopo di migliorare i processi produttivi, investire in

ricerca, aumentare la forza lavoro e quindi produrre più ricchezza reale da sottoporre poi a

giusta tassazione per finanziare lo Stato Sociale, sono stati diretti verso investimenti

finanziari e rendite che non producono ricchezza reale da redistribuire e che sono soggetti,

paradossalmente, ad una minor tassazione.

David Ricardo (1772 – 1823), vissuto a cavallo fra il settecento e l’ottocento, economista e

pensatore liberale inglese, quindi non certo un socialista marxista, affermava che coloro i

quali godevano di rendita avrebbero dovuto subire una maggior tassazione in quanto le loro

ricchezze non venendo utilizzate per essere reimmesse nel ciclo produttivo, non potevano

produrre a loro volta ulteriore ricchezza per la comunità.

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ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

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Nonostante la finanza sregolata sia una delle prime responsabili dell’odierna crisi economica,

dopo i noti fatti relativi alla bolla speculativa dei mutui subprime statunitensi e alle

conseguenti aggressioni dei mercati ai debiti degli Stati, le politiche internazionali volte al

superamento della crisi si sono dimostrate ampiamente insufficienti ad affrontare le gravose

conseguenze della stessa.

Al posto di optare per politiche espansive in grado di restituire fiato alle economie dei paesi

in crisi e di regolamentare il mercato finanziario, le istituzioni internazionali, in primis

l’Unione europea, hanno adottato iniziative economiche volte al contenimento

dell’indebitamento degli Stati, favorendo a conti fatti l’economia finanziaria a scapito della

crescita dell’economia reale.

Pecca di tale decisione è quello di non considerare la spesa sociale un investimento verso il

paese, bensì un semplice debito.

Non sottraendo le spese per gli investimenti al monte dei capitoli di spesa identificati come

debiti puri, gli stati per diminuire il deficit hanno operato grossi tagli alla spesa pubblica

destinata al sociale, al fine di adeguarsi agli obblighi contenuti nei trattati internazionali.

Personalmente ritengo che un forte impegno dello stato in ambito sociale sia una condizione

imprescindibile affinché l’economia fiorisca, il Welfare deve essere considerato un

investimento.

L’iniziativa politica sul welfare in questi anni si è orientata verso misure in grado di sottrarre

quanti più cittadini possibili ai benefici dello Stato Sociale con la scusa di dover “stringere

la cinghia” e di dover fare dei “sacrifici” imposti dai vari enti sovranazionali in nome della

stabilità economica del paese. L’Italia in questo ha dato grossa dimostrazione di tenere più

al rigore di bilancio che alla vita dei cittadini e delle cittadine, nonostante le decisioni

economiche degli amministratori pubblici, come afferma la legge, debbano essere

improntate alla condotta del “buon padre di famiglia”. Potrebbe mai, un padre di famiglia,

considerare le spese per mandare all’Università i suoi figli o per acquistare un apparecchio

odontoiatrico delle semplici voci del bilancio familiare e non, invece, un investimento sul

futuro della propria prole? Il Parlamento italiano ha fissato i propri obiettivi di bilancio

attraverso l’approvazione di una legge ordinaria nel 2012 attuativa degli obiettivi di

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ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

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riequilibrio di bilancio frutto non di un atto normativo del Parlamento Europeo ma di un

Trattato Internazionale, il: “Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell'unione

economica e monetaria”, meglio conosciuto come “Fiscal Compact”, la norma approvata

è una lettura rigida e ortodossa dell’accordo internazionale, causa storture e deprime

l’economia del paese. Alcuni economisti tra i quali anche premi Nobel come Kenneth Arrow,

Peter Diamond, William Sharpe, Eric Maskin e Robert Solow, in un appello rivolto al

presidente Obama, nel luglio 2011, dichiaravano quanto segue:

“A balanced budget amendment would mandate perverse actions in the face of recessions.

In economic downturns, tax revenues fall and some outlays, such as unemployment benefits,

rise. These so-called built-in stabilizers increase the deficit but limit declines of after-tax

income and purchasing power. To keep the budget balanced every year would aggravate

recessions. “1

“An overall spending cap, which is part of some proposed amendments, would further limit

Congress’s ability to fight recessions through either the built-in automatic stabilizers or

deliberate changes in fiscal policy. Even during expansions, a binding spending cap could

harm economic growth because increases in high-return investments — even those fully paid

for with additional revenue — would be deemed unconstitutional if not offset by other

spending reductions. A binding spending cap also would mean that emergency spending (for

example on natural disasters) would necessitate reductions elsewhere, leading to increased

volatility in the funding for non-emergency programs”2

1 Un emendamento sul pareggio di bilancio avrebbe effetti perversi in caso di recessione. Nei

momenti di difficoltà economica diminuisce il gettito fiscale e aumentano alcune spese tra cui i

sussidi di disoccupazione. Questi ammortizzatori sociali fanno aumentare il deficit, ma limitano la

contrazione del reddito disponibile e del potere di acquisto. Chiudere ogni anno il bilancio in pareggio

aggraverebbe le eventuali recessioni. Tr. It a cura di Keynes Blog, in

http://keynesblog.com/2012/03/12/lappello-dei-premi-nobel-contro-il-pareggio-di-bilancio/

2 Un tetto di spesa, previsto da alcune delle proposte di emendamento, limiterebbe ulteriormente la

capacità del Congresso di contrastare eventuali recessioni vuoi con gli ammortizzatori già previsti

vuoi con apposite modifiche della politica in materia di bilancio. Anche nei periodi di espansione

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ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

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Gli autori in sostanza criticano l’applicazione di rigide norme di bilancio tra le quali il

pareggio dei conti, che in un periodo di recessione, caratterizzato dalla diminuzione

dell’occupazione e del gettito fiscale, rendono impensabile il non ricorrere a strumenti di

sostegno per i redditi ed i consumi delle fasce più deboli della popolazione. Inoltre, gli autori

sostengono che tali interventi debbano essere applicati anche attraverso l’indebitamento

degli stati.

Queste politiche restrittive di bilancio non vengono considerate adeguate neanche nei periodi

di espansione economica, poiché un tetto rigido di spesa potrebbe danneggiare la crescita

economica a causa del fatto che gli investimenti ad elevata remunerazione, anche quelli

interamente sostenuti dall'aumento del gettito, sarebbero ritenuti non compatibili con i

vincoli di bilancio inseriti in Costituzione.

Che le spese sociali siano un investimento non serve che lo dica un luminare della scienza,

ce lo suggerisce il buon senso. Senza crescita dell’economia reale e stabilità, i moderni

sistemi di Welfare diventano insostenibili fornendo alibi a chi vuole smantellare o indebolire

il moderno sistema di protezione sociale.

La tesi che intendo quindi sostenere in questo elaborato è che esiste un rapporto causale fra

forti economie avanzate e sviluppo delle politiche di Welfare, in cui i due fattori sono l’uno

moltiplicatore dell’altro.

Inizierò con un breve viaggio nella storia del Welfare nel primo capitolo.

dell'economia, un tetto rigido di spesa potrebbe danneggiare la crescita economica perché gli

incrementi degli investimenti ad elevata remunerazione – anche quelli interamente finanziati

dall'aumento del gettito – sarebbero ritenuti incostituzionali se non controbilanciati da riduzioni della

spesa di pari importo. Un tetto vincolante di spesa comporterebbe la necessità, in caso di spese di

emergenza (per esempio in caso di disastri naturali), di tagliare altri capitoli del bilancio mettendo in

pericolo il finanziamento dei programmi non di emergenza. Tr. It a cura di Keynes Blog, in

http://keynesblog.com/2012/03/12/lappello-dei-premi-nobel-contro-il-pareggio-di-bilancio/

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Nel secondo capitolo mi concentrerò in particolare sulle vicende storiche e sociali inglesi

che portarono all’elaborazione del primo moderno sistema di protezione sociale. Ispiratore

di molti altri sistemi sociali di protezione in Europa e nel resto del mondo.

Nel capitolo seguente cercherò di analizzare il dibattito attuale sul concetto di meritocrazia

come elemento discriminante per l'accesso ai servizi di welfare. In questo capitolo, cercherò

di dimostrare che la meritocrazia è solo un modo per giustificare moralmente le

diseguaglianze sociali. Si oppone quindi diametralmente al concetto di Welfare.

Nella conclusione proverò a tirare le somme di questo modesto lavoro concentrandomi sulla

dimostrazione della tesi che intendo sostenere sulla scorta di quanto scritto nelle pagine

precedenti.

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ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

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Capitolo 1

Breve storia del welfare

Welfare state, origini e uso del termine

Nella storia è possibile rinvenire diversi nomi che hanno assunto le comunità politiche in

relazione alle forme di governo. Queste forme di governo si sono differenziate in particolare

sul ruolo che ad esse andava attribuito. Già Aristotele, interrogandosi su quale dovesse essere

il rapporto fra cittadini e democrazia, offrirà una concezione politica del ruolo del governo

secondo la quale il:

"[...] nesso concettuale [...] fra cittadinanza e democrazia - in una realtà storica che non

conobbe l'istituto della rappresentanza politica - prevede cittadini liberi dal bisogno, con

tempo libero a disposizione per potersi dedicare alla vita politica [...]".3

A partire dalla polis greca passando per i concetti romani di Repubblica e Civitas fino ad

arrivare alle città-stato italiane, le forme di governo e i termini per designarle mutarono

costantemente accanto al dibattito sugli obblighi che la forma di governo doveva attribuirsi

rispetto al popolo. Il moderno concetto di Stato designa l’unità politica comprensiva della

popolazione. Il concetto moderno di <<Stato sociale>> o <<Stato del benessere>> interpreta

una missione dello Stato che trae origine da antiche riflessioni. Ovvero che lo Stato debba

occuparsi di perseguire il bonum commune, il bene collettivo, quindi di assicurare anche

attraverso l’uso della forza: la pace, l’ordine e la giustizia.

Nel corso del Medioevo la riflessione sui compiti dello Stato si sposta su posizioni meno

materiali. Il teologo viennese Nikolaus Von Dinkelsbul, durante il concilio di Costanza del

3 G. Zanetti, Il pensiero politico di Aristotele, in Il pensiero politico. Idee, teorie, dottrine. A cura di

Carlo Dolcini, Volume primo: Età antica e Medioevo. Torino, Utet, 1999, 61.

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1414, affermò alla presenza di re Sigismondo che gli obblighi dell’imperatore consistevano

nel perseguire pax et tranquillitas, commodum et salus del mondo e felicitas del popolo.4

Questa responsabilità venne intesa come responsabilità nella salvezza delle anime dei sudditi

dell’impero.

Nel corso del settecento con la graduale trasformazione dei sudditi in cittadini, i pensatori

politici iniziano ad interrogarsi sugli strumenti che il governo avrebbe dovuto adottare per

garantire la felicità materiale del popolo. Videro la luce i primi provvedimenti dei sovrani

illuminati per elevare lo status del popolo. Essi vennero definiti paternalisti, poiché

escludevano i lavoratori e i cittadini dalle decisioni di merito ed erano affidati

esclusivamente alla buona volontà del sovrano che si presumeva operasse per il bene

collettivo.

Nell’ottocento, alla definizione prodotta dalla riflessione dei pensatori tedeschi sulla teoria

dello Stato secondo cui esso è neutrale e apartitico, Marx ed Engels contrappongono una

visione diametralmente opposta. Scriverà Engels nel 1883:

“Marx ed io siamo stati dell’avviso, fin dal 1845, che una delle conseguenze ultime della

futura rivoluzione proletaria sarà la progressiva dissoluzione dell’organizzazione politica

indicata con il nome Stato. Lo scopo principale di tale organizzazione è sempre stato quello

di garantire, attraverso la violenza armata, l’oppressione economica della maggioranza

lavoratrice da parte di una minoranza soltanto facoltosa. Con lo scomparire di una

minoranza soltanto facoltosa scompare anche la necessità di un potere armato statale o

repressivo”5

L’autore rifiuta l’idea di Stato come elemento neutrale e garante ma lo considera uno

strumento nelle mani della classe dominante attraverso il quale essa impone e mantiene il

proprio potere sulle classi subalterne.

Nell’accezione della prima metà dello scorso secolo, il termine Stato indicava non solo,

come già accennato precedentemente, l’insieme delle organizzazioni governative e del

4 J. Dominicus, Sacrorum Conciliorum Nova et Amplissima Collectio, vol. 28, Graz, 1961, pag. 516-

519. 5 S. Ghisu, Breve introduzione alla storia critica delle idee, IPOC, 2012, pag. 74.

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popolo, ma esso trovava la sua definizione nei compiti che ad esso venivano affidati. Dallo

Stato si poteva dunque pretendere il diritto alla partecipazione politica e:

“[…] anche la garanzia di alcuni diritti sociali fondamentali, tra cui il diritto al

sostentamento o al lavoro”6

I concetti di “Stato del benessere” o “Stato sociale” si affermano sull’onda delle riflessioni

politiche in merito ai compiti dello Stato. Adolph Wagner, economista tedesco di idee

socialiste, già nel 1879 utilizzò i termini in senso positivo. Egli fu il creatore della celebre

Legge di Wagner sull’aumento della spesa pubblica, secondo la quale la spesa pubblica tende

ad aumentare più che proporzionalmente rispetto all’aumento del reddito pro-capite poiché,

all’aumentare del reddito, i cittadini chiedono allo Stato servizi più complessi e costosi.

I termini in questione vennero invece utilizzati in senso negativo dal Governo Von Papen,

nella fase finale della Repubblica di Weimar. Il 4 giugno 1932, Von Papen diramava questo

comunicato:

“I governi postbellici hanno creduto di poter ridurre ampiamente le preoccupazione

materiali del lavoratori e dei datori di lavoro incrementando il socialismo di Stato. Hanno

tentato di trasformare lo Stato in una sorta di Stato del benessere, indebolendo così le forze

morali della nazione”7

In questo comunicato il Cancelliere equipara lo Stato del benessere al socialismo di Stato,

affermando che la riduzione delle preoccupazioni materiali del popolo possa in un qualche

modo comprometterne le capacità morali.

In Gran Bretagna il termine Welfare, intorno al 1900, iniziò ad essere utilizzato in senso

moderno da economisti liberali come Hobson, che parlava di welfare policy intendendo le

politiche statali di miglioramento delle condizioni materiali della classe operaia, al di là

dell’assistenza ai poveri.8

6 G. A. Ritter, Storia dello Stato sociale, Bari, Laterza, 2011, pag. 10. 7 Comunicato del 4 giugno 1932, in Ernst Rudolf Huber (a cura di), Dokumente zur deutschen

Verfassungsgeschichte, vol. 3, Stuttgart-Berlin-Köln-Mainz 1966, pag. 486. 8 G. A. Ritter, Storia dello Stato sociale, Bari, Laterza, 2011, pag. 11.

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Il definitivo esorcismo del termine Welfare fu adoperato grazie al pensiero di uno dei

massimi esponenti del socialismo cristiano inglese: William Temple, arcivescovo di York

(1929-42), successivamente arcivescovo di Canterbury e primate della Chiesa anglicana

(1942-44). Egli utilizzò l’espressione in un tentativo di:

“caratterizzare il radicale contrasto con lo Stato di potenza e di guerra dei nazisti”9

Questa accezione del termine venne utilizzata in un momento di forte scontro ideologico e

militare fra la democrazia liberale inglese e la Germania nazista di Hitler. Il Governo Inglese

paventava la realizzazione di un Welfare State in chiave propagandistica per contrastare la

fama di Stato-protettore dei propri cittadini della Germania nazista.10

Nel giugno 1941, il Ministro del lavoro britannico Arthur Greenwood, incaricò William

Beveridge, economista e sociologo inglese, di dirigere il Committee on Social Insurance and

Allied Services. Il compito di questa commissione, nelle intenzioni del Governo, avrebbe

dovuto essere estremamente modesto limitandosi ad una semplice ricognizione del sistema

di assistenza esistente. Infatti il sistema di protezione sociale inglese dell’epoca non era

affatto ordinato ma frammentato, disomogeneo e sperequativo. Ciò generava disparità di

trattamento e numerose inefficienze in particolare a danno di bambini e di alcune categorie

di anziani. In realtà Beveridge non si limiterà ad una ricognizione delle criticità esistenti ma

intraprenderà un progetto molto più ambizioso. Questo progetto di lavoro porterà alla

pubblicazione di quello che è oggi considerato il testo fondativo del Welfare State ovvero il:

Report of the Inter-Departmental Committee on Social Insurance and Allied Services,

meglio conosciuto come Rapporto Beveridge. Il Rapporto prevedeva un piano di azione

contro quelli che Beverdige definiva i cinque giganti che tenevano schiava l’umanità: il

bisogno, la malattia, l’ignoranza, la miseria e l’ozio. Tuttavia il termine Stato del benessere

9 Cfr. Lo sviluppo del welfare state in Europa e in America, a cura di P. F Lora e A.J. Heidenheimer,

Bologna, Il Mulino,1993, pag 28. 10 D. Benassi, William Beveridge e il piano del 1942: alle origini del Welfare State in Alle origini del

Welfare State, Il Rapporto su assicurazioni sociali e servizi assistenziali, Saggi di U.Ascoli, D.

Benassi, E. Mingione, Milano, Franco Angeli, 2013, pag. 17.

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venne contestato dallo stesso Beveridge che preferiva parlare di Social service state per

sottolineare che il cittadino aveva anche doveri oltre che diritti.11

Una breve storia delle politiche di Welfare e lotta alla povertà: dal medioevo a

Bismarck

Durante il Medioevo l’iniziativa volontaria privata cristiana a sostegno dei poveri, supplì

inadeguatamente alla mancanza di uno Stato sociale. Le istituzioni del Medioevo infatti

erano del tutto insufficienti a garantire la sicurezza sociale e il sostentamento dei bisognosi

o degli inabili al lavoro, compito che era perlopiù affidato a famiglia e parenti. Il

Cristianesimo individuò la povertà come uno dei suoi maggiori settori d’intervento. Questo

perché l’uomo medioevale considerava la proprietà privata legittima ma al tempo stesso era

considerato doveroso e “cristiano” donare il superfluo ai poveri. Quando la Chiesa iniziò ad

organizzarsi sul territorio, la carità materiale venne considerata dai primi sacerdoti un

considerevole strumento di propaganda per avvicinare credenti, sottraendoli così alle

superstizioni pagane.

L’assistenza della Chiesa nei confronti dei poveri iniziò ad organizzarsi nel VI secolo con

colui che venne definito il primo uomo del Medioevo: Gregorio Magno. Egli, quando

divenne pontefice nel 570 d.C. col nome di Gregorio I, redistribuì le rendite dei vasti

possedimenti della Chiesa a fini caritatevoli attraverso le “sante industrie” che lui stesso creò

e che servivano ad elargire direttamente ai poveri i sussidi materiali.

Anche Papa Callisto e Papa Fabiano operarono nel senso di meglio organizzare le opere

assistenziali in favore dei bisognosi.

Dal IV al VI secolo sorsero i primi centri residenziali, i primi ospedali guidati da donne

aristocratiche e cominciarono a svilupparsi anche le prime istituzioni specializzate

nell’assistenza alle persone in condizione di bisogno.

Nel corso dell’VIII secolo furono create le prime “diaconie”, enti che provvedevano a fornire

assistenza religiosa e sociale. Sempre nello stesso secolo, presero piede le “domus cultae”

11 Cfr. Josè Harris, William Beverdidge. A Biography, Oxford, Oxford University Press, 1977, pag.

448,459.

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ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

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ovvero fattorie che funzionavano alla stregua delle attuali cooperative agricole, organizzate

per produrre e distribuire cibo ai cittadini indigenti.12

Si iniziarono a costituire, nell’alto Medioevo, le prime corporazioni. Queste organizzazioni,

raggruppavano persone che esercitavano la medesima professione, in special modo mercanti

e artigiani. Queste associazioni operavano su diversi fronti a favore degli associati:

garantivano loro il lavoro, educavano gli apprendisti al mestiere e, attraverso

l’autotassazione, provvedevano all’assistenza dei loro associati malati o invalidi e alle loro

famiglie.

Inoltre esisteva un obbligo di tutela da parte dei proprietari terrieri e dei datori di lavoro nei

confronti dei loro dipendenti ed una consuetudine che a quel tempo si andava affermando:

la carità dei ricchi e dei sovrani. Difatti il modello preminente di vita cristiana che si andò

affermando in quel periodo, vedeva ricchi e potenti in una gara a chi si dimostrava essere

più caritatevole. Questo perché da un lato si poteva così ostentare la propria ricchezza e

dall’altro ci si poteva garantire la salvezza della propria anima aiutando la Chiesa nelle opere

pie o agendo direttamente l’azione caritatevole.

Le fondazioni di beneficenza dell’epoca, sostenevano gli Ospedali, nei quali veniva dato

rifugio a poveri e mendicanti oltre che ai prebendari, uomini e donne che cedevano

all’Ospedale i propri beni in cambio di cibo e alloggio durante la vecchiaia.

A quell’epoca la povertà era un fenomeno di massa, si stima che nel tardo Medioevo circa il

10-20% della popolazione residente nelle città della Germania Meridionale, dipendeva dalle

istituzioni caritatevoli.

“La miseria era considerata un <<fenomeno costante>>, <<naturale ed inevitabile come

le catastrofi naturali >>, un destino per chi ne era colpito, un problema sociale minaccioso

e terribile in costante aumento dopo il XIII secolo”13

A fronte del disprezzo e dell’umiliazione sociale a cui i poveri dovevano “naturalmente”

sottostare, sorsero nell’XI, XII e XIII secolo ordini monastici che facevano della povertà,

del rifiuto del denaro e della civiltà moderna i loro caposaldi, abbracciando volontariamente

12 D. Buracchio, A. Tiberio, I Servizi sociali tra memoria e progresso, Roma, EISS, 1996. 13 G. A. Ritter, Storia dello Stato sociale, Bari, Laterza, 2011, pag. 35.

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ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

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una vita terrena povera come quella che aveva dovuto vivere Cristo. In questo senso essi si

preparavano già alla vita dopo il ritorno del Messia sulla terra.

Coloro i quali rimanevano esclusi dall’elemosina diretta dei potenti o dall’assistenza delle

corporazioni venivano assistiti dalle parrocchie e dalle varie altre articolazioni caritatevoli

della Chiesa. Questo compito a livello locale veniva affidato a Monasteri e Chiese, che si

occupavano di ammalati, mendicanti, invalidi e malati di mente, avvalendosi delle

elargizioni dei potenti o attraverso il ricavato di specifiche imposte locali.

Nel XV secolo con lo sviluppo dell’urbanizzazione, i fenomeni sociali connessi alla povertà

iniziarono a divenire un problema dilagante specie nelle città sovrappopolate. Se da un lato

si iniziò a cercare di rafforzare i sistemi di assistenza ai bisognosi14, dall’altro i controlli sui

poveri aumentarono iniziando a classificare in maniera decisa i diversi gradi di povertà. I

mendicanti iniziarono ad essere suddivisi fra coloro i quali erano stanziali e “appartenevano”

all’ambito locale, e coloro i quali invece erano di passaggio. Il soccorso delle istituzioni

caritatevoli, fatta questa distinzione, si concentrò prevalentemente sui poveri del luogo. Il

dilagante fenomeno della povertà che, come ho già accennato, aveva una dimensione enorme

portò le organizzazioni a tentare di distinguere i poveri “immeritevoli”, ovvero coloro che

pur essendo abili a lavoro per presunta pigrizia mendicavano dai poveri “meritevoli”, che

erano finiti in una situazione di bisogno per condizioni oggettive: vecchi, malati, storpi,

vedove, orfani. I poveri che erano classificati come “immeritevoli” dalle rigide selezioni

istituzionali erano perseguitati. Ai falsi poveri e falsi mendicanti poteva essere addirittura

inflitto il carcere, cosa sino ad allora desueta, poiché essi sottraevano ingiustamente le

elemosina. Le pene potevano esser comminate non solo al diretto interessato ma anche a chi

elargiva donazioni a poveri considerati “immeritevoli”.

“La povertà dei bisognosi abili al lavoro non era più ritenuta – come nel Medioevo – un

destino o un’espressione di particolare vicinanza al Signore, né come accadde all’inizio del

XX secolo – un frutto dei rapporti sociali, bensì la conseguenza di ozio, prodigalità o

imprevidenza, e quindi un difetto morale del singolo, che bisognava correggere. Come

strumento di risoluzione del problema della povertà, ma anche come punizione o educazione

14 G. A. Ritter, Storia dello Stato sociale, Bari, Laterza, 2011, pag. 36.

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ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

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del singolo – in particolare dei bambini poveri – all’indipendenza economica, il lavoro

coatto assunse un’importanza centrale”15

L’autore ci propone la visione medioevale del concetto di povertà intesa come colpa. Da ciò

deduciamo anche che la povertà veniva intesa come un elemento naturale, sempre esistito e

che sempre esisterà, e perciò inestirpabile nel profondo. Nel mentre nell’alto Medioevo la

povertà era vista come un elemento di vicinanza a Cristo al punto che nacquero ordini

religiosi che facevano della povertà una condotta monastica. Nel XX secolo, come vedremo

in seguito, la povertà sarà invece considerata in relazione alle condizioni oggettive date dai

rapporti sociali ed economici. In questo periodo del Medioevo invece si afferma la visione

per la quale la povertà è intesa come colpa morale. Il giudizio della società nei confronti

della povertà muta considerevolmente in senso negativo, portando le istituzioni dell’epoca a

promulgare norme sempre più severe nei confronti dei mendicanti. La repressione divenne

ancora più marcata nelle zone calviniste e luterane dell’Europa settentrionale, dove l’etica

del lavoro protestante mal si conciliava con una visione bonaria e pietista della povertà.

Nell’etica protestante di allora il povero era colui che era fuori dalla grazia del Signore, e

chissà quali colpe aveva dovuto commettere per esser stato punito da Dio con la povertà.

Tuttavia in questo periodo nascono anche istituti che non colpevolizzano tout court la

povertà e non operano attraverso internalizzazioni e lavoro coatto. Gli oratori di san Filippo

Neri, gli ospedali di san Giovanni di Dio (gli attuali “Fatebenefratelli”) e l’opera di san

Vincenzo De Paoli ne sono testimonianze. Queste organizzazioni religiose iniziarono a

ricercare ed ideare soluzioni per gli annosi problemi dell’epoca come, ad esempio: tutela

dell’infanzia abbandonata, l’ignoranza della gioventù povera, l’isolamento degli anziani.

Tutto ciò si configura come un approccio alle questioni sociali nel più moderno spirito

“sociale e umanitario”.16

Venne affrontato anche il problema dell’usura con la creazione dei primi Monti di pietà ad

opera della Chiesa Cattolica.

15 Ivi, pag. 38. 16 D. Buracchio, A. Tiberio, Società e servizio sociale. La centralità delle politiche sociali, Milano,

FrancoAngeli, 2012, pag.118.

Page 17: Tesi Welfare e lotta alla povertà

ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

17

La diffusione delle pene detentive e delle case di correzione per i mendicanti abili al lavoro

portò una quantità considerevole di manodopera a basso costo poiché gli “ospiti” spesso

venivano obbligati a lavorare e lasciati allo sfruttamento dei datori di lavoro. All’inizio del

XVI secolo l’uso della pena denominata: “remo in galera” riservata a poveri e mendicanti,

venne incoraggiata per supplire alla penuria di rematori liberi per le flotte di navi e fornire

così forza-lavoro a un costo molto basso.17

Fra le tappe fondamentali dello sviluppo delle politiche di “assistenza sociale” annoveriamo

il provvedimento chiamato Poor Law. La norma venne approvata per venire incontro alla

carenza assistenziale dovuta alla soppressione degli istituti monastici a seguito dell’entrata

in vigore della riforma anglicana.18 Nei fatti essa è da considerarsi come la prima legge di

“assistenza sociale” in Europa.19 La Poor Law venne emanata nel 1601 da Elisabetta I,

rimase in vigore fino al 1834. Essa è la sintesi di tutti i precedenti provvedimenti in materia

di assistenza. Questa disposizione prevedeva l’istituzione degli overseers of the poor, essi

erano gli ispettori dei poveri il cui lavoro era a loro volta controllato dai giudici di pace. La

nuova regolamentazione non solo ridisegnava gli strumenti amministrativi attraverso i quali

intervenire ma determinava gli scopi dell’assistenza, ovvero: avviare al lavoro i ragazzi

poveri, aiutare i poveri invalidi e anziani, cercare lavoro ai poveri abili al lavoro. Questi

ultimi spesso venivano internati nelle cosiddette work-houses allo scopo di introdurli al

lavoro coatto. Queste divennero tristemente note come le “Bastiglie del terrore”20, luoghi

di sfruttamento e lavori forzati di cui molto ha raccontato anche Charles Dickens. Permaneva

la concezione della povertà come colpa individuale ed essa non veniva combattuta cercando

di estirpare le ragioni che la producevano. All’epoca la povertà veniva combattuta

esclusivamente allo scopo di lenire le sue conseguenze sociali.

17 A. Brancati, Popoli e civiltà, Firenze, La nuova Italia, 1989. 18 Dizionario di Storia moderna e contemporanea, Poor Laws, in:

http://www.pbmstoria.it/dizionari/storia_mod/p/p179.htm 19 D. Buracchio, A. Tiberio, Società e servizio sociale. La centralità delle politiche sociali, Milano,

FrancoAngeli, 2012, pag.120.

20 B. Geremek, La pietà e la forca. Storia della miseria e della carità in Europa, Editore

Laterza, pag. 157.

Page 18: Tesi Welfare e lotta alla povertà

ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

18

“Il bisognoso restava l’oggetto dell’assistenza pubblica solo per la sua pericolosità

sociale”21

La questione del pauperismo era dunque derubricata a mera questione di ordine pubblico e

di debolezza caratteriale del singolo. Il problema dei bisognosi venne dunque lasciato in

mano allo Stato e ai Comuni, pur non impedendo forme di assistenza privatistiche sia laiche

che religiose. Nei secoli XVI e XVII la repressione nei confronti dei poveri toccò il suo picco

massimo. Internamenti, pene corporali eseguite in pubblico e editti emanati con l’obiettivo

di espellere i poveri dalle città si diffusero in tutt’Europa.

Nel corso del XVII secolo iniziarono a svilupparsi e diffondersi in Europa le prime riflessioni

riguardo la necessità di affrontare il tema degli ordinamenti giuridici in termini “razionali”.

Si iniziò a rifiutare l’idea secondo la quale il potere era di diretta emanazione divina e si

diede più peso al consenso dei cittadini come giustificazione del potere stesso. Al problema

della povertà ci si iniziava ad avvicinare partendo dal presupposto che per eliminarla era

necessario sradicare le ragioni politiche, sociali ed economiche che la producevano. Essa

iniziò ad essere vista non più come un fatto naturale o una prova di vicinanza a Cristo ma

come un fatto sociale. Con la laicizzazione del pensiero in Europa si andò anche estinguendo

l’ascetismo medioevale22 che della povertà aveva addirittura fatto una virtù. Alla diffusione

di questa convinzione contribuirono gli illuministi. Essi, infatti, credevano che:

“[…] la povertà non fosse un male eterno ed inestirpabile. Il problema della povertà doveva

essere risolto, in sintonia con la fede generale nel progresso verso un’umanità razionale,

dal punto di vista oggettivo attraverso l’eliminazione delle sue cause e l’incremento delle

possibilità produttive e lavorative, e dal punto di vista soggettivo attraverso un’educazione

migliore, soprattutto dei giovani23”

Mentre il Medioevo era stata l’epoca della carità, l’Età Moderna fu l’epoca dell’assistenza.

Questo fu il momento in cui si gettarono le basi della moderna concezione di aiuto ai cittadini

e alle cittadine in stato di bisogno. Alla punizione corporale, al lavoro coatto e agli editti di

21 D. Buracchio, A. Tiberio, Società e servizio sociale. La centralità delle politiche sociali, Milano,

FrancoAngeli, 2012, pag.119. 22 H.J. Laski, Le origini del liberalismo europeo, Firenze, La Nuova Italia, 1962. 23 G. A. Ritter, Storia dello Stato sociale, Bari, Laterza, 2011, pag. 43.

Page 19: Tesi Welfare e lotta alla povertà

ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

19

espulsione dalle città si sostituì un’idea di assistenza basata sulla solidarietà tra gli uomini.

Un’idea per la quale l’uomo iniziava ad essere portatore di diritti in sé, cui quindi spettava

il diritto alla felicità e assistenza dallo Stato in caso di necessità.

In campo organizzativo si iniziò a provvedere alla statalizzazione dei servizi di assistenza.

La laicizzazione, l’ateismo e più in generale il pensiero settecentesco illuminista, iniziarono

ad essere in forte contrasto con il concetto di carità cristiana. Essa aveva infatti una

caratteristica saliente: quella di occuparsi nell’immediato dei bisogni degli assistiti senza

tuttavia volgere lo sguardo verso le cause che generavano la povertà. Inoltre spesso gli

interventi ecclesiali in campo religioso era disomogenei e disorganizzati.

“Tutto questo rendeva vani gli sforzi, toglieva efficacia ai risultati di queste iniziative,

peraltro già contestate dai nuovi orientamenti dello spirito pubblico24”

Ad esempio Giuseppe II d’Asburgo-Lorena (1741 – 1790), realizzò una riforma allo scopo

di confiscare i beni degli ordini religiosi come: ospedali, ospizi e orfanotrofi. Egli realizzò

quindi strutture pubbliche in cui veniva garantito ai poveri l’accesso all’assistenza. Il

pensiero dell’epoca, grazie a personaggi del calibro di Rousseau o Hobbes, si indirizzò

sempre più verso un’idea di società che vedeva l’assistenza come un diritto del cittadino e

non come una supplica che il povero doveva rivolgere all’organizzazione di riferimento.

A partire dalla metà del XVIII secolo si avviò una grande processo di desegregazione dei

poveri da quelli che erano diventati centri di detenzione invece che strutture di recupero. Si

iniziarono a promuovere politiche di assistenza domiciliare, a carico dello Stato, sulla scorta

delle riflessioni politiche e giuridiche dei parlamenti e dei Governi che ispiravano la loro

azione alla Rivoluzione francese. Si arrivò, come già accennato in precedenza, ad una fase

embrionale di politiche moderne di welfare e di prevenzione della povertà, riassumibili nella

seguente affermazione:

“Non è un uomo povero perché nulla possiede, ma perché non lavora25”

Sotto la spinta degli ideologhi illuministi furono introdotte anche integrazioni nel testo della

Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino compresa nella Costituzione francese del

24 D. Buracchio, A. Tiberio, I servizi sociali tra memoria e progetto, Roma, EISS, 1996. 25 Montesquieu, Lo spirito delle leggi, Ginevra, 1748, Cap.29.

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ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

20

settembre 1791, secondo cui bisognava “creare ed organizzare un’istituzione generale per

l’assistenza pubblica, per allevare i bambini abbandonati, aiutare i malati poveri e procurare

lavoro alle persone sane povere, che non riescono a procurarselo autonomamente”,

bisognava inoltre creare un’istruzione elementare pubblica e gratuita 26 . Anche la

Costituzione francese del 1793 subì ulteriori modifiche sotto la spinta dei giacobini, che

vollero inserire nella carta alcuni primi diritti sociali, affermando espressamente che lo Stato

doveva assistere i cittadini poveri sia garantendo loro un lavoro, per quelli che erano abili,

sia garantendo i necessari mezzi per la sussistenza a coloro i quali non erano abili. Bisogna

tuttavia sottolineare come i principi sanciti sulla carta non ebbero un reale riscontro sia a

causa della mancanza di uno Stato bene articolato con le sue strutture sul territorio, sia a

causa del fatto che le spese belliche drenavano ingenti somme e così facendo il sistema

dell’assistenza pubblica veniva costantemente definanziato.

Anche in Germania le idee illuministiche sollecitarono parte della società ad intervenire

contro la povertà. Difatti all’epoca sorsero diverse società filantropiche tedesche come

l’Associazione di Lubecca per lo sviluppo di attività di pubblica utilità o la Società di Kiel

dei liberi amici dei poveri. La filantropia si distingueva dalla carità cristiana poiché essa

trovava le sue radici nelle teorie illuministe dell’epoca di uguaglianza e fratellanza di tutti

gli uomini. Mentre la filantropia disponeva nella sua riflessione gli uomini in rapporto con

la società e li considerava in sé stessi, la carità cristiana poneva gli esseri umani sempre in

relazione col divino. Anche in Germania queste idee si tradussero in atti normativi e così si

determinò l’obbligo per lo Stato di mantenere coloro i quali non avevano altri mezzi per farlo

autonomamente e di provvedere ad assegnare un lavoro, secondo le rispettive capacità, a chi

era in grado di eseguirlo. Questi principi vennero traslati in norme nel Codice generale

prussiano del 1794. Quest’ultimo riconosceva esplicitamente che compito dello Stato era

quello di perseguire il benessere del singolo.

All’inizio del XIX secolo, a seguito della Rivoluzione industriale inglese che via via si

propagò anche nel continente, la povertà divenne un fenomeno dilagante. Il Pauperismo, il

nome dato alla povertà di massa, provocò molteplici risposte da parte degli Stati. In Francia

e in Inghilterra si tentò di porre rimedio al pauperismo attraverso politiche che riducevano

26 G. A. Ritter, Storia dello Stato sociale, Bari, Laterza, 2011, pag. 46.

Page 21: Tesi Welfare e lotta alla povertà

ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

21

l’assistenza sociale pubblica ai bisognosi, sulla scorta delle riflessioni liberali dell’epoca.

Tra questi ultimi era opinione diffusa che la causa della povertà dilagante era dettata dalle

eccessive premure dello Stato assistenziale che – con le sue politiche di sostegno ai poveri –

disincentivava e deresponsabilizzava i cittadini alla ricerca di un lavoro e all’auto sussistenza,

favoriva i matrimoni sconsiderati e rovinava il contribuente. Furono questi gli anni in cui

venne fortemente ridimensionato l’intervento dello Stato nell’assistenza pubblica mentre le

strutture di tipo mutualistico e di stampo sindacale iniziarono la loro ascesa per sopperire

alle mancanze dello Stato.

Nella Francia del XIX secolo la povertà era un fenomeno che aveva assunto proporzioni

enormi. Oltre alla già citata industrializzazione e inurbazione di massa, l’aumento della

povertà era anche dovuto all’assenza quasi totale dell’assistenza religiosa e alla volontà delle

classi sociali ricche e dominanti di limitare l’imposizione fiscale e l’apparato burocratico

dello Stato. In Francia:

“La principale istituzione assistenziale pubblica era costituita dai cosiddetti bureaux de

bienfaisance, che, controllati e finanziati essenzialmente da notabili del luogo, ricevevano

limitati sussidi statali. Nel 1847 essi esistevano però solo in un quarto dei comuni francesi

[…]”27

L’autore conferma che nella Francia di quegli anni l’assistenza era delegata ai privati con

qualche piccola integrazione da parte dello Stato. A giustificazione del non interventismo

statale intervennero le teorie liberali che vedevano la legiferazione in merito alle questioni

sociali come un’indebita interferenza della politica, che andava quindi a contraddire i

principi del laissez faire.

In Inghilterra le teorie liberali e utilitaristiche spinsero il parlamento britannico a varare una

riforma dei servizi assistenziali: la riforma sui poveri del 1834. Erano più di duecento anni

che il sistema assistenziale inglese non subiva modifiche e precisamente dal 1601, anno in

cui la Regina Elisabetta I emanò la “Poor law”, la prima legge di “assistenza sociale” del

mondo europeo 28 . Con la riforma del 1834 il ruolo dello Stato nell’assistenza venne

27 G. A. Ritter, Storia dello Stato sociale, Bari, Laterza, 2011, pag. 51. 28 D. Buracchio, A. Tiberio, Società e servizio sociale. La centralità delle politiche sociali, Milano,

FrancoAngeli, 2012, pag. 120.

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ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

22

fortemente ridimensionato, i criteri per accedere ai vari sostegni divennero fortemente

restrittivi. Tornava in auge l’idea per la quale la povertà era una colpa individuale, non

venivano affatto considerate le condizioni sociali, economiche e politiche. Le politiche di

assistenza più che un aiuto divennero un avvertimento, un ammonimento a cercare a tutti i

costi l’indipendenza e risparmiare soldi per la vecchiaia per evitare lo stigma sociale

dell’assistenza pubblica. Tuttavia le cause della povertà, al di là delle debolezze caratteriali

del singolo, andavano ricercate altrove:

“[…] la mancanza, nelle campagne, di sufficienti occasioni di guadagno e la disoccupazione

congiunturale e stagionale nelle zone industriali. Per la massa di lavoratori non qualificati,

considerato il salario basso e spesso non regolarmente pagato, era inoltre impossibile

risparmiare per i momenti di bisogno o per la vecchiaia29”

Molta dell’analisi politica dell’epoca sulle cause della povertà non era in grado di spingersi

oltre un recinto al cui centro vi era l’individuo con le sue presunte debolezze caratteriali. La

società nel suo complesso, con le sue strutture economiche e sociali, non era ancora vista

come una discriminante oggettiva rispetto alle condizioni di vita materiali delle persone. Il

lavoro nelle workhouses, con la riforma del 1834, rafforzò il suo carattere di semi regime

carcerario a lavoro forzato. Coloro i quali entravano in questi istituti venivano persino privati

dei loro diritti civili. Gradualmente, grazie anche ad un vasto movimento d’opinione che

spingeva per una lotta alla povertà in chiave non punitiva, le workhouses si trasformarono in

asili per l’infanzia e centri per gli anziani poveri perdendo il loro carattere di centri di

detenzione e lavoro coatto. A cavallo tra il XVIII e il XX secolo, in Inghilterra:

“[…] si cominciò a verificare un movimento dal basso tendente all’affermazione e al

riconoscimento giuridico di diritti sociali dei poveri e dei bisognosi con l’obiettivo di

garantire il diritto al lavoro e alla protezione di tutti i lavoratori30”

Come ho già scritto in precedenza, la deresponsabilizzazione dello Stato nei confronti del

benessere dei cittadini e delle cittadine, produsse automaticamente un aumento delle società

29 G. A. Ritter, Storia dello Stato sociale, Bari, Laterza, 2011, pag. 55. 30 F. Di Flumeri, Fondamenti del servizio sociale, Roma, EISS, 1992, pag. 27.

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ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

23

di mutuo soccorso che si organizzavano in difesa degli interessi dei loro associati e attorno

a degli ideali comuni di difesa delle classi lavoratrici. Le Friendly society erano:

“[…] organization formed voluntarily by individuals to protect members against debts

incurred through illness, death, or old age. Friendly societies arose in the 17th and 18th

centuries and were most numerous in the 19th century. Friendly societies had their origins

in the burial societies of ancient Greek and Roman artisans. In the Middle Ages the guilds

of Europe and England extended the idea of mutual assistance to other circumstances of

distress, such as illness. The friendly societies went a step further by attempting to define the

magnitude of the risk against which it was intended to provide and how much the members

should contribute to meet that risk. Offshoots of the friendly societies include trade unions,

fraternal orders (such as the International Order of Odd Fellows), and life insurance

companies. Today some insurance companies in the United Kingdom and in other countries

of the Commonwealth still refer to themselves as friendly societies31”

Prima di passare al successivo capitolo, dove avrò modo di parlare della Storia

contemporanea dello sviluppo del Welfare con un focus sul noto Rapporto Beveridge, in

questi ultimi paragrafi del capitolo intendo scrivere riguardo un fondamentale passaggio

31 Enciclopedia Britannica, Friendly society, in:

http://www.britannica.com/EBchecked/topic/220217/friendly-society

Le Friendly society erano costituite volontariamente da individui allo scopo di proteggere i loro

membri contro i debiti contratti a causa di malattie, morte o vecchiaia. Le Friendly society sorsero

nei secoli XVII e XVIII e raggiunsero il picco numerico nel XIV secolo. Le Friendly society traevano

le loro origini nelle forme di mutuo aiuto degli antichi artigiani funebri greci e romani. Nel Medioevo

le corporazioni d'Europa e Inghilterra estesero l'idea di mutua assistenza ad altre circostanze di

disagio, come la malattia. Le Friendly society sono andate un passo oltre, tentando di definire l'entità

del rischio contro il quale si intendeva fornire assistenza e quanto i membri avrebbero dovuto

contribuire per rispondere a tale rischio. Propaggini delle società di mutuo soccorso comprendono i

sindacati, gli ordini fraterni (come ad esempio l'Ordine Internazionale di Odd Fellows), e le

compagnie di assicurazione. Oggi, alcune compagnie di assicurazione nel Regno Unito e in altri paesi

del Commonwealth, si riferiscono ancora a se stesse come Friendly society. Trad. aut.

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ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

24

nella nascita del moderno Welfare: l’introduzione delle assicurazioni sociali obbligatorie in

Germania.

Il 1883 fu l’anno in cui Otto Eduard Leopold von Bismarck-Schönhausen (1815 – 1898)

introdusse il primo sistema di assicurazioni sociali obbligatorie per i lavoratori che, a

differenza dei precedenti sistemi assicurativi attuati dalle Friendly societies o dai Sindacati,

estendevano la loro protezione a un numero maggiore di lavoratori. Oltre a ciò, il sistema

ideato da Bismarck superava il concetto corporativo. Questo sistema assicurativo verrà poi

preso a modello nella realizzazione di altri sistemi di protezione sociale in molti altri paesi.

Tuttavia Bismarck, nella realizzazione di questo piano, non vene spinto da forti idealismi

filantropici bensì dalla necessità di assicurare la pace sociale nello Stato. Difatti Bismarck

utilizzò la leva dell’interventismo statale, in compartecipazione con i lavoratori e la

componente datoriale, più per questioni di opportunità politica che per motivi strettamente

umanitari. La sua riforma incontrò la forte opposizione dei Sindacati che temevano che

l’introduzione di nuove forme assicurative da parte dello Stato andasse a danneggiare le loro

numerose istituzioni assicurative. Oltre a ciò, i Sindacati ritenevano inaccettabile che parte

del “premio” assicurativo venisse pagato dagli operai32. E’ importante ricordare che tra le

cause politiche che spinsero Bismarck ad attuare questo modello di protezione sociale, vi fu

la volontà di ottenere il consenso della classe operaia tedesca verso lo Stato monarchico e

indebolire la socialdemocrazia e i sindacati socialisti.

32 G. A. Ritter, Storia dello Stato sociale, Bari, Laterza, 2011, pag. 65.

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ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

25

Capitolo 2

La svolta novecentesca: il Rapporto Beveridge

Il welfare inglese all’inizio del novecento

Agli inizi del novecento, in Inghilterra, parallelamente al già citato aumento delle società di

mutuo soccorso o Friendly societies, la legislazione nazionale sul lavoro inizia a

incrementare le tutele per i lavoratori. Anche la legislazione sociale, grazie all’intervento del

Governo liberale guidato da Herbert Henry Asquith (1852 – 1928) con Llyod George (1863

– 1945) in qualità di Cancelliere dello scacchiere (Ministro delle Finanze), si evolve e viene

abolito il sistema punitivo di governo della povertà istituito con la riforma della Poor law

del 1834. In linea cronologica, nel corso di qualche anno, la legislazione sociale britannica

compie dei passi in avanti: nel 1905 viene approvato il Workmen Act che introduce una forma

elementare di assistenza per i disoccupati, offrendo forme di sussidio statale concesse alle

aziende in cambio dell’assunzione di disoccupati; nel 1906 viene approvato il Workmen

Compensation Act il quale fissava la compensazione che un operaio poteva richiedere al

datore di lavoro in caso di infortunio lavorativo; nel 1908 viene introdotta una norma che

dava luogo ad una forma embrionale di sistema pensionistico non contributivo per il gli

anziani con più di settanta anni chiamata Old Age Pension Act. Quest’ultimo atto offriva un

minimo contributo settimanale per gli anziani indigenti, escludendo coloro i quali non

avessero mai lavorato nella loro vita, coloro i quali risiedevano in Inghilterra da meno di

vent’anni, i malati psichiatrici, coloro che era stati condannati per ubriachezza o che erano

considerati poco avvezzi al lavoro. Infine, nel 1911, viene approvato il National Insurance

Act. Questo provvedimento viene spesse identificato come fondativo del moderno Welfare

Page 26: Tesi Welfare e lotta alla povertà

ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

26

state, poiché introduce una prima forma di assicurazione sanitaria e un sussidio di

disoccupazione33.

Questa serie di riforme venne attuata parallelamente ad un grosso dibattito che si sviluppò

in seno al Partito liberale inglese diviso fra sostenitori del “Liberalismo classico”, devoti

all’idea di uno Stato non interventista e sostenitori del “Liberalismo moderno o sociale”, i

quali propugnavano l’idea secondo la quale lo Stato dovesse intervenire per lenire i problemi

sociali dei cittadini. Da quello che ho scritto, è facile evincere che in quel periodo ebbero la

meglio i sostenitori della seconda teoria. Il successo della visione “sociale” del Liberalismo

fu favorita da una serie di fattori e contingenze: il successo della legislazione sociale in

Germania, la crescita del movimento sindacale e il timore da parte di una fetta del partito

liberale inglese che il malcontento popolare e la povertà diffusa potessero fomentare

ribellioni in seno al popolo o adesioni di massa agli ideali marxisti. Un altro importante fatto

che portò anche l’opinione pubblica britannica a schierarsi a favore dell’intervento dello

Stato fu la pubblicazione di due distinte ricerche sulle cause della povertà. Mentre prima era

opinione diffusa che le cause della povertà fossero da ricercare nell’ozio e nella debolezza

morale dei singoli, queste ricerche dimostrarono scientificamente che non era così.

“Independently of each other, two wealthy businessmen, Charles Booth and Seebohm

Rowntree, sponsored major investigations into the extent and causes of poverty in British

cities.

Booth and Rowntree's findings agreed on two key points:

up to 30% of the population of the cities were living in or below poverty levels,

the conditions were such that people could not pull themselves out of poverty by their

own actions alone. Booth and Rowntree both identified the main causes of poverty

33 D. Benassi, William Beveridge e il piano del 1942: alle origini del Welfare State in Alle origini del

Welfare State, Il Rapporto su assicurazioni sociali e servizi assistenziali, Saggi di U.Ascoli, D.

Benassi, E. Mingione, Milano, Franco Angeli, 2013, pag. 11.

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ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

27

as being illness, unemployment and age - both the very young and the old were at

risk of poverty.34”

I due autori, separatamente, trassero le stesse conclusioni. Le cause della povertà erano in

assoluta prevalenza oggettive e solo lo Stato poteva intervenire per porvi rimedio.

L’attuazione di queste riforme sociali pose però il problema di dove trovare i finanziamenti.

Nel 1909, Llyod George, in qualità di Cancelliere dello scacchiere, propose una riforma

tributaria volta all’aumento delle tasse sui beni di lusso, i liquori, il tabacco, i redditi e i

terreni per finanziare le riforme sociali. Questa trovò una forte opposizione da parte dei

grandi proprietari terrieri, ben rappresentati nella Camera dei lord, che infatti posero il veto

sul testo. Questo fatto irritò notevolmente il Governo Liberale e provocò una crisi

istituzionale senza precedenti. Il potere di veto affidato alla Camera alta, iniziò ad esser

giudicato sproporzionato e classista da gran parte delle forze parlamentari. A seguito di ciò

il Parlamento inglese, non senza fatica, approvò una riforma che limitava il potere di veto

della Camera alta. Il governo liberale riuscì ad approvare questa riforma istituzionale grazie

al sostegno parlamentare dei laburisti e dei nazionalisti irlandesi. Nel 1910, la riforma

tributaria, ritornata in Parlamento, venne finalmente approvata grazie alle limitazioni del

potere di veto della Camera dei lord. L’approvazione di questa riforma voluta dal Governo

liberale, diede ulteriore slancio alle riforme sociali.

Sul versante del Diritto allo studio, grande importanza ebbe l’atto con il quale il Parlamento

Britannico, nel 1914, introdusse l’obbligatorietà dei pasti gratuiti agli scolari. Questa, più di

altre riforme, aumentò la scolarizzazione poiché divenne vantaggioso per i genitori poveri

mandare i loro figli a scuola per farli mangiare gratuitamente. Una prima sperimentazione

della gratuità dei pasti scolastici venne già attuata nel 1906 ma ebbe esiti fallimentari. Le

34 History, Liberal government 1906 to 1914, Motives of Liberal reforms in sito web Bbc

http://www.bbc.co.uk/bitesize/higher/history/liberal/motives_lib/revision/1/

Indipendentemente l’uno dall’altro, due ricchi uomini d’affari, Charles Booth e Seebohm Rowntree,

finanziarono importanti ricerche riguardo l’estensione e le cause della povertà nelle città britanniche.

Booth e Rowntree si trovarono d’accordo su due punti chiave:

1. più del 30% della popolazione delle città viveva nella soglia di povertà o al di sotto di essa,

2. le condizioni erano tali che le persone non avrebbero potuto uscire con le loro solo forze

dalla condizione di povertà. Sia Booth che Rowntree identificarono le maggiori cause della

povertà in: malattia, disoccupazione e anzianità, sia i giovani che gli anziani erano a rischio

di povertà. Trad. aut.

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ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

28

istituzioni locali, alle quali era demandato il compito di fornire i pasti, a causa della scarsità

di risorse non davano totale attuazione a quello che in questa sperimentazione non era un

obbligo di legge ma un’indicazione. Quando, nel 1914, l’erogazione dei pasti venne resa

obbligatoria, il numero dei beneficiari aumentò esponenzialmente generando effetti positivi

sia sulla salute pubblica che sui tassi di alfabetizzazione.

Il National Insurance Act del 1911, che come ho scritto prima viene considerato un atto

fondativo del moderno Welfare state, poiché introduce una primitiva forma di assistenza

sanitaria per i lavoratori e un sussidio di disoccupazione, non era esente da problematiche.

La prima stortura, la più evidente, è che ad essere assicurati erano solo i lavoratori. Le loro

famiglie, compresi anziani e bambini, erano al di fuori della copertura sanitaria. E lo erano

anche disoccupati e inoccupati. Conseguenzialmente “la copertura sanitaria appariva

decisamente inadeguata, con solo il 43% della popolazione adulta assicurata grazie al

National Insurance Act35”.

I sistemi di protezione sociale inglesi, nei decenni seguenti, crescono senza un

coordinamento provocando azioni e interventi disomogenei sul territorio. A causa di questo,

negli anni 30, l’Inghilterra aveva un:

“[…] sistema di protezione sociale […] estremamente frammentato sia nella gamma di

prestazioni sia nel sistema di governo, ricco di eccezioni e casi particolari, poco inclusivo e

decisamente iniquo36”

A fronte di ciò, nel 1941, il Ministro del lavoro inglese Arthur Greenwood (1880 – 1954),

volle istituire una commissione con l’incarico di vagliare tutte le storture del sistema, fare

un resoconto dettagliato e proporre soluzioni per una migliore organizzazione delle

prestazioni sociali. La Presidenza della commissione fu affidata a Sir. William Beveridge,

all’epoca Rettore dell’University College di Oxford.

Biografia di William Beveridge

35 D. Benassi, William Beveridge e il piano del 1942: alle origini del Welfare State in Alle origini del

Welfare State, Il Rapporto su assicurazioni sociali e servizi assistenziali, Saggi di U.Ascoli, D.

Benassi, E. Mingione, Milano, Franco Angeli, 2013, pag. 13. 36 Ivi, pag. 12.

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ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

29

Ritengo opportuno scrivere alcune note biografiche di Beveridge poiché molte di esse

segneranno profondamente le sue convinzioni politiche e sociali e incideranno

massicciamente nelle idee alla base del suo rapporto.

Nasce a Rangpur, Bengala (India) il 5 marzo 1879 in una famiglia benestante. Il padre, Henry

Beveridge era un giudice funzionario coloniale, la madre Annette Akroyd, era la sua seconda

moglie. Beveridge si trasferisce quasi subito a Londra, dove inizia a frequentare nel 1892 il

prestigioso istituto Charterhouse nel quale vince una borsa di studio.

Vi rimane cinque anni, nel 1897 si iscrive al Balliol College, istituto estremamente

prestigioso e uno dei collegi costituenti l’Università di Oxford. Nel 1899 Beveridge conosce

Tonybee Hall. Questa struttura, fondata da Samuel Augustus (1844 – 1913) e Henrietta

Barnett (1851 – 1936), era una sorta di “centro di formazione” dove gli studenti universitari

e i docenti vi si trasferivano per vivere in prima persona la durezza delle condizioni di vita

materiale della classe operaia. Oltre a questo, studenti e docenti, scambiavano le loro

conoscenze con i poveri che vivevano nel quartiere in un rapporto paritario, di reciproco

accrescimento.

“Gli studenti universitari – la futura classe dirigente del paese – venivano invitati a

trasferirsi in questo quartiere degradato per studiare la vita dei meno privilegiati, per

favorire una qualche forma di istruzione e per offrire un aiuto personale. Durante il loro

tempo libero avrebbero potuto avviare programmi educativi e culturali per i loro vicini di

casa […] L’obiettivo base […] era porre in contatto uomini e donne istruite (e, di norma,

appartenenti ai ceti abbienti) con i poveri, per un mutuo beneficio, cosicché attraverso il

lavoro comune e la reciproca conoscenza venisse favorito lo scambio di risorse e di valori

umani dei due gruppi di popolazione. L’atteggiamento di superiorità da <<dama di

beneficenza>>, ancora prevalente nelle società caritatevoli, veniva sostituito dalla

cooperazione e dall’apprendimento tanto delle persone colte che dei lavoratori, dando vita

a gruppi misti di lettura e discussione37.”

37 B. Bortoli, I giganti del lavoro sociale, Grandi donne (e grandi uomini) nella storia del Welfare,

Trento, Erickson, 2013, pag. 186.

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ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

30

Beveridge si laurea in legge nel 1902 e nell’anno seguente inizia a lavorare a Tonybee Hall

come vicedirettore, con compiti inerenti la gestione amministrativa e formativa dell’istituto.

Nel 1905 viene assunto come giornalista esperto di problemi sociali al Morning Post, dove

lavora fino al 1908.

In questo periodo entra in contatto con i coniugi Beatrice Potter Webb (1858 – 1943) e

Sidney Webb (1859 – 1947). I coniugi, grazie alla ricchezza accumulata dal padre di lei che

le permise di vivere di rendita, poterono dedicare la loro intera esistenza allo studio. I due

fondatori della Fabian Society, un’organizzazione di stampo socialdemocratico, intendevano

raggiungere una società socialista attraverso libere elezioni e un parlamento democratico. La

Fabian Society è stata una delle organizzazioni fondatrici del Partito Laburista inglese.

L’incontro con i coniugi influenzò profondamente Beveridge, facendo maturare in lui la

considerazione che la disoccupazione fosse un problema intrinseco alla produzione

industriale e non una debolezza morale del singolo. Di fatti Beatrice Webb era

profondamente convinta di questo in quanto <<collaborò come intervistatrice alla poderosa

ricerca, avviata nel 1886 dal cugino Charles Booth38, sulle condizioni dei poveri di Londra

e i dati raccolti la convinsero ancor di più della necessità di individuare altri strumenti per

migliorare la vita degli indigenti: salari più elevati, abitazioni migliori, istruzione e

programmi sanitari pubblici>>39.

La convinzione riguardo la superiorità dei sistemi di tipo assicurativo rispetto a quelli basati

sulla valutazione del merito del richiedente assistenza, venne ancor più rafforzata dopo il

suo viaggio in Germania, nel 1907. Viaggio che Beveridge fece per studiare da vicino il

sistema pensionistico elaborato da Bismarck.

Gli articoli che Beveridge pubblica sul Morning Post riguardo le questioni sociali, suscitano

l’interesse dei membri della Royal Commission on the Poor Laws. Beveridge viene invitato

dalla commissione a produrre alcuni rapporti sulla questione della disoccupazione. Questi

ultimi finiscono anche nelle mani dell’allora capo del Board of Trade: Winston Churchill

38 Cfr. pag. 21. 39 B. Bortoli, I giganti del lavoro sociale, Grandi donne (e grandi uomini) nella storia del Welfare,

Trento, Erickson, 2013, pag. 189.

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ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

31

che rimane impressionato e incarica il giovane Beveridge, allora trentenne, <<di predisporre

lo schema assicurativo sulla disoccupazione adottato nel 190940>>.

Beveridge inizia una lunga carriera all’interno dell’amministrazione pubblica britannica che

però non lo sottrarrà all’impegno politico e accademico.

Nel 1911 lo stesso collabora alla stesura del National Insurance Act41la cui impostazione

legislativa finale non lo convince poiché in contraddizione con la sua idea non meritocratica

di accesso ai benefici assistenziali. Prosegue la sua carriera nell’amministrazione pubblica

lavorando prima nel Ministry of Munitions, occupandosi della manodopera, e poi al Ministry

of Food, dove si occuperà del razionamento dei prodotti alimentari e del controllo dei prezzi.

Il suo ultimo incarico, il più prestigioso come funzionario di Governo, lo assolve in qualità

di Segretario Permanente del ministro.

Nel 1919 inizia a dirigere la London School of Economics. La scuola, fondata dai coniugi

Webb, grazie alle abilità accademiche e amministrative di Beveridge diviene una delle più

prestigiose dell’epoca, attirando a sé docenti internazionali e un numero di studenti di anno

in anno sempre maggiore. Inoltre la London School of Economics sotto la sua direzione

diviene <<l’avamposto e la fucina delle idee più innovative in materia di economia pubblica

di quegli anni42>>. La scuola nasceva con l’intento di promuovere lo studio di materie ancora

poco diffuse nelle università come l’antropologia, la sociologia e gli studi economici.

Quando Beveridge lascia questo incarico, nel 1937, viene eletto direttore dello University

College della Oxford University.

Tre anni prima, nel 1934, si impegna nella direzione dell’Unemployment Insurance Statutory

Commitee, organo consultivo del Ministero del Lavoro e questo impiego lo porta a svolgere

diverse inchieste in molte cittadine britanniche. Questi viaggi gli permetteranno di scoprire

40 Ivi, pag. 191. 41 Cfr. pag 22. 42 B. Bortoli, I giganti del lavoro sociale, Grandi donne (e grandi uomini) nella storia del Welfare,

Trento, Erickson, 2013, pag. 191.

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ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

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ancora più da vicino le dure condizioni di vita materiali della classe operaia, cosa che lo

spingerà verso posizioni politiche più radicali a favore della classe lavoratrice43.

La sua fama di persona con un carattere poco diplomatico, gli preclude la possibilità di

accedere a incarichi di alto prestigio. Nel 1939, allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale,

le sue aspettative vengono infatti disattese. Convinto che sarebbe stato coinvolto attraverso

importanti incarichi nello sforzo bellico, grazie anche all’esperienza maturata durante il

primo conflitto mondiale, viene prima nominato responsabile delle esenzioni alle armi

dall’allora Ministro del lavoro Ernest Bevin (1881 – 1951), successivamente il Ministro, a

cui Beveridge non piaceva a causa del suo carattere, riesce a trasferirlo in un ruolo di minor

importanza.

Nel 1941, il nuovo Ministro del lavoro, Arthur Greenwood (1880 – 1954), lo incarica di

presiedere una commissione d’inchiesta interministeriale allo scopo di studiare un piano di

assicurazioni sociali. Beveridge assume questo incarico con delusione non sapendo che sarà

proprio questa “inchiesta” a renderlo universalmente famoso come fondatore del Welfare

State.

Non è un caso che questa commissione inizi il suo lavoro parallelamente alla Seconda Guerra

Mondiale. I regimi Nazi-fascisti non erano estranei ad una visione sociale dello Stato. Mentre

la Germania nazista godeva ancora degli effetti sociali benefici della Riforma di Bismarck,

in Italia, Benito Mussolini (1883 – 1945), forte del suo passato socialista, si prodigherà in

alcune riforme sociali di forte impatto. La Gran Bretagna e gli alleati, sul fronte esterno,

utilizzeranno i nuovi sistemi di protezione sociale come strumenti di propaganda di guerra

in chiave anti nazionalsocialista. Questo per mostrare ai cittadini e alle cittadine degli stati

nemici che era possibile coniugare libertà civili garantendo al contempo un prototipo di

diritti sociali.

Sul versante interno, la promessa di uno Stato post-bellico più equo, con un sistema sociale

in grado coniugare capitalismo e lotta alla povertà ovvero in grado di trovare un agile

compromesso fra classe lavoratrice e capitalisti, servirà ai Governi liberali come sprono per

43 D. Benassi, William Beveridge e il piano del 1942: alle origini del Welfare State in Alle origini del

Welfare State, Il Rapporto su assicurazioni sociali e servizi assistenziali, Saggi di U.Ascoli, D.

Benassi, E. Mingione, Milano, Franco Angeli, 2013, pag. 16.

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i soldati al fronte, per i cittadini rimasti in patria impegnati nello sforzo bellico e per mostrare

che dopo l’austerità del tempo di guerra lo Stato assicurerà pace e tranquillità sociale al

popolo. A questo scopo, un formato ridotto del Rapporto Beveridge verrà inviato a tutti i

soldati inglesi al fronte. Il rapporto viene tradotto anche in Italiano e Tedesco allo scopo di

favorirne la diffusione nei due paesi nemici, è significativo segnalare come appunti

dettagliati sul Rapporto saranno ritrovati nel bunker di Adolf Hitler (1889 – 1945).

Traduzioni clandestine del Rapporto circolano negli ambienti antifascisti dei paesi occupati44,

dalla Germania nazista arrivano invece invettive contro quello che i nazisti definiscono un

piano frutto di una “frode plutocratica al popolo inglese” o la prova di come i paesi Alleati

si stiano avvicinando al nazionalsocialismo45. Dello stesso avviso furono le reazioni in Italia:

“Si diffonde la notizia del piano Beveridge e subito gli esegeti in camicia nera iniziano ad

affermare come il fascismo abbia da gran tempo superato questi traguardi, e tutto il sistema

previdenziale fascista si regga su principi ineguagliabili di giustizia e moralità46”

Da questi dati emerge come la guerra non avesse un unico fronte, quello bellico, ma che lo

scontro avvenisse anche su altri versanti. I due schieramenti erano impegnati a propagandare

l’uno al popolo dell’altro il loro miglior modo di intendere i compiti e i doveri sociali dello

Stato nei confronti dei propri cittadini. Le politiche sociali, durante la Seconda Guerra

Mondiale, si trasformarono anch’esse in strumenti di propaganda interna ed esterna. Ciò che

Beveridge era impegnato a proiettare nell’immaginario collettivo di allora riguardava

prioritariamente il ruolo dello Stato nel periodo post-bellico. A tal proposito Beveridge

scriverà nel suo Report:

“ Vi saranno anche altri i quali obietteranno che per quanto possa sembrare desiderabile di

ricostruire un sistema di assicurazioni sociali o di fare altri progetti per quando la pace

sarà tornata nel mondo, tali preoccupazioni devono essere scartate in questo momento e

tutti gli sforzi della nazione devono essere concentrati sulle urgenti cure della guerra […]

Ma tre fatti essenziali rimangono: che ogni cittadino darà ogni sua energia tanto più

44 Luigi Troiani, Attualità del Rapporto Beverdige, in:

http://www.oikonomia.it/index.php/it/2013/ottobre-2013-oikonomia-buon-governo-angelicum/11-

oikonomia-2013/ottobre-2013/12-attualita-del-rapporto-beveridge 45 J. Harris, William Beveridge, A Biography, Oxford, Clarendon Press, 1997, pag. 365. 46 A. Cherubini, Storia della previdenza sociale, Roma, Editori Riuniti, 1997, pag. 347.

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ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

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volentieri se potrà avere l’impressione che il Governo avrà pronti al momento opportuno

piani e progetti per il miglioramento delle condizioni universali; e che se questi piani e

progetti dovranno essere pronti in tempo, bisogna che siano preparati sin da ora47”

La pubblicazione del Beveridge’s Report il cui titolo completo era “Social Insurance and

Allied Services, Report by Sir William Beveridge” si trasforma in un vero e proprio evento

editoriale per l’epoca. Nel giro di poco tempo il rapporto vende oltre 200.000 copie più altre

400.000 di una versione ridotta48. Come si evince dal titolo, sarà Beveridge ad intestarsi la

paternità dell’opera, anche se frutto del lavoro di un’intera commissione interministeriale.

Tuttavia egli non verrà successivamente coinvolto nella discussione per tradurre le sue

deduzioni e il suo modello in atti normativi. Presumibilmente, a fronte del fatto che il suo

carattere continuava ad esser considerato dalle alte sfere della politica di allora poco avvezzo

al compromesso e scarsamente diplomatico.

Nel 1944 si candida al Parlamento inglese con il Partito liberale e viene eletto nel seggio

elettorale di Berwick-on-Tweed (Northumberland). Con la crisi del Governo di unità

nazionale guidato da Winston Churchill nel 1945 si andrà ad elezioni anticipate, i Liberali

subiranno una pesante sconfitta e Beveridge non verrà rieletto. Il 1945 sarà però anche l’anno

in cui vedrà la luce un lavoro di Beveridge dal titolo Full Employment in a Free Society49.

Commissionato alcuni anni prima da un gruppo di uomini d’affari, in questo ultimo lavoro

egli elabora le sue riflessioni riguardo la “piena occupazione”, sulla scorta di quanto già

elaborato da John Maynard Keynes (1883 – 1946) nel suo celeberrimo lavoro dal titolo:

Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta pubblicato nel 1936. In

quest’opera Beveridge abbraccia le teorie economiche di Keynes, postulando che anche lo

Stato deve assumersi il compito di mantenere un elevato livello di occupazione50 e che la

47 William Beverdige, Il Piano Beveridge, Compendio ufficiale della relazione di Sir William

Beveridge al Governo Britannico, in Alle origini del Welfare State, Il Rapporto su assicurazioni

sociali e servizi assistenziali, Saggi di U.Ascoli, D. Benassi, E. Mingione, Milano, Franco Angeli,

2013, pag. 132. 48 D. Benassi, William Beveridge e il piano del 1942: alle origini del Welfare State in Alle origini del

Welfare State, Il Rapporto su assicurazioni sociali e servizi assistenziali, Saggi di U.Ascoli, D.

Benassi, E. Mingione, Milano, Franco Angeli, 2013, pag. 17. 49 W. Beveridge, L’impiego integrale del lavoro in una società libera, Torni, Einaudi, 1948. 50 G. Sta., Occupazione piena, in Enciclopedia Treccani

http://www.treccani.it/enciclopedia/occupazione-piena_%28Enciclopedia-Italiana%29/

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ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

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regolazione dell’occupazione debba agire non tanto sull’offerta di lavoro quanto sulla

domanda51. In questo modo Beveridge si allontana definitivamente dal modello economico

“Classico” o “Liberista” secondo cui basterebbe evitare rigidità verso il basso dei salari per

poter ripristinare un buon livello occupazionale.

Nel 1946 Beveridge viene nominato barone ed entra dunque nella Camera dei lord. Diviene

immediatamente leader dei liberali nella Camera alta e inizia finalmente a partecipare ai

dibattiti dai quali scaturiranno gli atti normativi che hanno come fonte la sua indagine. Tra

questi ricordiamo: il National Insurance Act ,l’Industrial Injuries Act, il National Health

Service Act e il National Assistance Act.

Non tutti i provvedimenti approvati dal Parlamento rispecchieranno fedelmente

l’impostazione del suo rapporto, tanto è vero che egli non verrà mai ascoltato ufficialmente

dal Governo britannico per esporre probabili linee guida di attuazione dei suggerimenti

espressi nella sua indagine. Tuttavia, anche ad un occhio inesperto, non sfugge che le idee

generali alla base di tutti i provvedimenti di Welfare dal 1946 in poi avranno

un’impostazione decisamente ispirata al Beveridge’s Report.

Il National Deposit Friendly Society, una delle più grandi società di mutuo soccorso allora

esistenti, nel 1946, chiede a Beveridge di redigere un’analisi sull’andamento delle pratiche

di mutuo soccorso in Inghilterra che, come ho scritto precedentemente, erano molto diffuse

nell’Inghilterra vittoriana. La lunga tradizione delle Friendly Society britanniche che, lo

ricordo, si basavano sul principio del mutuo aiuto sembrava cozzare con le nuove politiche

interventiste e universaliste dello Stato52 che intendevano sostituirsi agli istituti privati nella

gestione dell’assistenza sociale. Questa, però, non era la visione di Beveridge il quale non

affermava affatto che l’individuo non potesse agire in autonomia, o tramite strutture, per

soddisfare ulteriormente i propri bisogni (che non fossero stati quelli minimi materiali a cui

51 D. Benassi, William Beveridge e il piano del 1942: alle origini del Welfare State in Alle origini

del Welfare State, Il Rapporto su assicurazioni sociali e servizi assistenziali, Saggi di U.Ascoli, D.

Benassi, E. Mingione, Milano, Franco Angeli, 2013, pag. 17. 52 D. Benassi, William Beveridge e il piano del 1942: alle origini del Welfare State in Alle origini

del Welfare State, Il Rapporto su assicurazioni sociali e servizi assistenziali, Saggi di U.Ascoli, D.

Benassi, E. Mingione, Milano, Franco Angeli, 2013, pag. 18.

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ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

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doveva pensare lo Stato) o bisogni collettivi. Ce lo dimostra l’introduzione del capitolo

“Progetti di pace in tempo di guerra” tratto dal Rapporto di Beveridge:

“Vi sono molti che pensano che la ricerca della protezione sociale sia uno scopo errato,

perché per essi le parole “protezione” e “sicurezza” significano qualcosa che non va

d’accordo con l’iniziativa, con lo spirito di avventura, e con la responsabilità individuale.

Ma questa non è la giusta interpretazione della Protezione Sociale quale viene progettata

in questa relazione. Questo piano non è stato fatto perché venga concesso a tutti qualcosa

gratuitamente e senza fatica, o qualcosa che li liberi per sempre da responsabilità

individuali”53

Come afferma l’autore, la responsabilità individuale nei confronti di se stessi e della società

è un pilastro fondamentale nel modello sociale da lui proposto. Da ciò se ne deduce che

anche l’iniziativa privata volta all’auto tutela, come potevano essere le Friendly Society, era

non solo accettata da Beveridge ma auspicata.

Il rapporto Voluntary Action: A Report on methods of Social Advance, vede la luce del 1948

ed è il frutto del lavoro commissionato dal National Deposit Friendly Society di cui ho

accennato precedentemente. Sarà proprio in quest’opera che Beveridge metterà in guardia la

società inglese dal delegare tutti i compiti allo Stato, scrivendo nel suo ultimo lavoro:

“La formazione di una buona società dipende non dallo Stato ma dai cittadini, che agiscono

individualmente o in libere associazioni. La felicità o l’infelicità della società in cui viviamo

dipende da noi stessi quali cittadini, non dallo strumento del potere politico che noi

chiamiamo Stato. Lo Stato deve incoraggiare l’azione volontaria in ogni specie per il

progresso sociale.”54

Grazie alla popolarità conquistata durante la pubblicazione del suo primo rapporto,

Beveridge continua ad influenzare il dibattito inglese sul Welfare ancora per diverso tempo.

53 W. Beverdige, Il Piano Beveridge, Compendio ufficiale della relazione di Sir William Beveridge

al Governo Britannico, in Alle origini del Welfare State, Il Rapporto su assicurazioni sociali e

servizi assistenziali, Saggi di U.Ascoli, D. Benassi, E. Mingione, Milano, Franco Angeli, 2013,

pag. 131. 54 W. Beveridge, L’azione volontaria, Milano, Edizioni di Comunità, 1954.

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ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

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Muore nella sua casa, ad Oxford, il 16 Marzo 1963 all’età di 84 anni.

Liberalismo e Liberalismo sociale: antesignani, contraddizioni e meriti nello sviluppo

del welfare

Prima di addentrarmi nella disamina del rapporto vorrei chiarire per quali misure questo

lavoro viene considerato fondatore del moderno Welfare State, segnalare alcuni antesignani

del Liberalismo sociale e evidenziare alcune contraddizioni nelle teorie liberali. Negli anni

quaranta del Novecento Beveridge ebbe il merito di definire <<un modello di politica sociale

che parve imporsi indipendentemente dalle contrapposizioni politiche fra conservatori e

progressisti>>55 equilibrio tuttora conservato in diversi paesi europei dove, nei fatti, le

politiche sociali non vengono affatto messi in discussione, né da destra né da sinistra.

Tuttavia, prima di Beveridge, l’approccio Liberale ai diritti dei cittadini e delle cittadine era

stato quasi esclusivamente imperniato su ideali legati ai diritti politici e civili dei singoli. E

leggeremo nei prossimi paragrafi il perché scrivo “quasi”. Ipocritamente per buona parte dei

Liberali, specie quelli che definiamo “classici”, in una democrazia, ai cittadini, non devono

essere concessi i diritti basilari ovvero quei diritti che rispondono a bisogni materiali, poiché

ognuno deve essere artefice del proprio destino e non possono esser premiati gli “oziosi”

men che meno con un intervento dello Stato, che deve ben guardarsi dall’interessarsi delle

condizioni sociali dei singoli. Appare oggi più che scontato che i diritti basilari sono

imprescindibili poiché, se essi non sono soddisfatti, i diritti politici e individuali divengono

inesigibili.

Altre contraddizioni nel Liberalismo pre-Beveridge, le mette bene in luce Lucio Magri, che

scrive:

“[…] quali contraddizioni irriducibili marcarono, per secoli, il liberalismo tra ideali

solennemente affermati (la comune natura umana, la libertà di pensiero e di parola, la

sovranità conferita al popolo) e pratiche che li smentivano in modo permanente (schiavismo,

dominazione coloniale, espulsione dei contadini dalle terre comuni, guerre di religione)?

55 C. Galli, E. Greblo, S. Mezzadra, Il pensiero politico del Novecento, a cura di Carlo Galli,

Bologna, Il Mulino, 2005 pag. 178.

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ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

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Contraddizioni di fatto ma legittimate nel pensiero: l’idea che alla libertà non potessero né

dovessero accedere se non coloro che avessero per censo e cultura, perfino per razza e

colore, la capacità di esercitarla saggiamente; e l’idea correlativa che la proprietà dei beni

era un diritto assoluto e intoccabile e dunque escludeva il suffragio universale”56

Dall’analisi di Magri ne consegue che essendo la proprietà dei beni un diritto assoluto, si

esclude ogni forma di redistribuzione della ricchezza. Così facendo, lo Stato, non ha i mezzi

necessari per garantire, ad esempio, un’adeguata istruzione o sostegni materiali ai cittadini

e alle cittadine indigenti. Questa condizione, come ho scritto prima, rende inesigibili i diritti

civili e politici.

Aver trasformato i cittadini e le cittadine da semplici portatori di diritti politici a portatori di

diritti sociali è, senza ombra di dubbio, un merito sia del Liberalismo sociale impersonato

da Beveridge (e non solo) sia dei tanti movimenti legati ai nuovi soggetti sociali che la

Rivoluzione industriale aveva prodotto.

Il vero balzo qualitativo che produce il Rapporto Beveridge, non è tanto rappresentato

dall’architettura istituzionale che lui disegna, quanto dall’espressione di un principio:

l’universalismo dell’accesso alle prestazioni sanitarie. A differenza di chi lo ha preceduto,

Beveridge afferma che l’accesso alle prestazioni mediche dev’essere aperto a tutti e tutte a

prescindere dal fatto che essi o esse abbiano o meno un lavoro regolare. Il Rapporto stabilisce

un limite materiale al di sotto del quale il cittadino o la cittadina diviene schiavo/a del

bisogno e non è in grado di provvedere né a se stesso/a né al benessere collettivo della

comunità in cui vive.

A questo compromesso e a questo posizionamento politico nei confronti del “bisogno”, il

Liberalismo socialista o “New Liberalism” giunge a seguito di anni di riflessioni e dibattiti,

alle volte laceranti, specie per la rappresentanza partitica della cultura politica Liberale

inglese. Si pensi, a questo proposito, alle idee di John Stuart Mill, prodromiche per alcuni

versi rispetto al “New liberalism”, nelle quali il Mill tentava di coniugare individualismo e

politiche sociali. Il Liberalismo, per il filosofo, non sarebbe stato veramente compiuto se non

avesse accolto in sé anche le istanze sociali. Comprendere la complessa struttura di pensiero

56 L. Magri, Il sarto di Ulm, Milano, Il Saggiatore, 2011, pag. 13,14.

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ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

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di Mill è cosa lunga, e non possiamo qui soffermarci, si tenga tuttavia in considerazione che

egli addirittura sviluppa una critica al surplus. Il surplus, o plusvalore, nelle successive teorie

di stampo marxista è rappresentato da quel valore aggiunto ottenuto a seguito della

reificazione delle materie prime, grazie dunque al lavoro degli operai, e che viene acquisito

dal capitalista a scapito dell’operaio.

“Il surplus…grande o piccolo che sia, viene solitamente strappato ai produttori, o dal

governo al quale sono soggetti, o dagli individui i quali, o perché superiori, o perché

approfittano dei sentimenti religiosi o tradizionali di subordinazione, si sono dichiarati

padroni della terra”57

In queste righe egli quindi afferma che la questione legata al plusvalore è una questione di

classe. Un’affermazione che, da sola, potrebbe rendere chiaro il perché Mill viene

considerato colui che ha avvicinato liberalismo e socialismo.

“Among the active members of the (Fabian) society were George Bernard Shaw; the

reverend Stewart Headlam, an eccentric curate of Radical wiews; Helen Taylor, the step-

daughter of John Stuart Mill who was active in many advanced causes”58

E’ interessante notare come la figliastra di Mill, Helen Taylor (1831 – 1907), fosse membro

della Fabian society.

Ma c’è dell’altro. Mill ritiene errata l’idea secondo cui si debba semplicemente abolire la

proprietà privata. Ritiene invece corretto incidere pesantemente sui meccanismi di

redistribuzione della ricchezza avanzando anche una proposta che potremmo definire di

"capitalismo senza capitalisti”. Secondo il filosofo, il peso che la classe operaia assumerà

nella vita politica di lì a poco sarà decisivo. Arriva a postulare l’idea per la quale nel futuro

non vi sarà lotta di classe ma l’organizzazione della produzione attraverso aziende rette da

associazioni di operai e capitalista o, in altri casi, sole associazioni di operai. Per Mill, lo

57 J. S. Mill, Principles of Political Economy, Toronto, University of Toronto Press, 1965,

pag. 13 (tr. It. Principi di economia politica, Torino, UTET, 1983) 58 The Letters of Sidney and Beatrice Webb: Volume 1, Apprenticeships, Edited by Norman

Mackenzie, Cambridge, 1978, pag. 75. Tra i membri attivi della Società Fabiana vi furono

George Bernard Shaw; il reverendo Stewart Headlam, un eccentrico curato di idee radicali;

Helen Taylor, la figliastra di John Stuart Mill che fu attiva in tante cause avanzate. Trad.

aut.

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ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

40

spirito e la pratica cooperativistica, riusciranno a garantire pacificamente un’equa

distribuzione delle ricchezze ed un’uguaglianza sostanziale. Autogestendo l’azienda e

provvedendo ad eleggere tra loro rappresentanti pro tempore, gli operai saranno in grado di

coordinare la produzione e dividere equamente la ricchezza prodotta. Secondo il Filosofo

inglese, il cooperativismo cancellerà tutte le distinzioni sociali, salvo quelle giustamente

meritate per le attività personali.59

Mill verrà profondamente influenzato dalle posizioni di Jeremy Bentham (1749 – 1832),

massimo teorizzatore del principio filosofico chiamato “Utilitarismo”. Bentham offrirà il suo

contributo anche nel campo del pensiero sociale criticando aspramente le Poor law per la

loro inadeguatezza ad affrontare il problema della povertà dilagante. Obiettivo di Bentham

non è l’abolizione delle Workhouses quanto una loro migliore organizzazione sotto la guida

di principi utilitaristi. Bentham, nella sua celebre e controversa opera: il Panopticon60, offre

un modello ideale di carcere utilitarista, in cui un unico secondino è in grado di sorvegliare

contemporaneamente tutti gli internati grazie alla struttura edificata in forma circolare. La

legislazione “sociale” delle Poor law, sempre secondo Bentham, va completamente rivisitata

poiché gli interventi di assistenza che produce sono frammentati, propagandano l’ozio e la

negligenza, sono fortemente stigmatizzanti nei confronti di chi ne fa ricorso e perpetuano la

povertà anziché risolverla. Per il filosofo combattere il pauperismo secondo principi

utilitaristi, vuol dire efficientare la macchina delle case di lavoro coatto, facendo svolgere

agli internati lavori realmente utili, in grado di poter creare un utile da utilizzare per

abbassare la pressione fiscale. Bentham propone inoltre di incentivare la scolarizzazione dei

poveri che ne sono privi per poterli agevolmente reinserire all’interno di società private.

“Limate talune asprezze e impazienze della fase “panoptica” del loro maestro, molti suoi

continuatori troveranno nel pensiero di Bentham stimoli per lavorare concretamente alla

riforma delle Poor law e per ribadire l’ampiezza dei compiti dello stato, che dalla garanzia

59 G. Bedeschi, Liberalismo, Enciclopedia Treccani in:

http://www.treccani.it/enciclopedia/liberalismo_%28Enciclopedia-delle-scienze-

sociali%29/ 60 J. Bentham, a cura di M. Foucault e M. Perrot, Panopticon ovvero la casa d'ispezione, tr.

It a cura di V. Fortunati, Marislio Editore, 1997.

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ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

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dei diritti individuali deve estendersi a funzioni sociali come l’istruzione, l’assistenza dei

poveri in funzione dell’inserimento nel lavoro, la tutela della salute.”61

Bentham dunque rappresenta un antesignano, seppur tra luci e ombre, della variante sociale

del Liberalismo poiché ha avuto il merito, come ci suggerisce l’autore della citata opera, di

aver contribuito ad estendere i diritti sociali dei cittadini e quindi i compiti dello Stato nei

loro confronti. Tuttavia la sua critica alle Poor law non è esente da contraddizioni avendo

lui ideato nella sua fase “panoptica” un modello di carcere fortemente repressivo e quasi

“orwelliano”. Probabilmente una soluzione addirittura meno auspicabile delle stesse

Workhouses.

Dal punto di vista filosofico Mill sarà, seppur con sfumature differenti, un seguace

dell’utilitarismo Benthamiano. Vediamo qual è la differenza sostanziale nel pensiero dei due

autori in merito. Il principio filosofico dell’utilitarismo è quell’idea per la quale ciò che è

“bene” e “giusto” è ciò che aumenta la felicità degli esseri umani. Ne consegue, di converso,

che ciò che è “male” o “ingiusto” sia rappresentato dall’opposto della felicità. Bentham

accosta alla felicità il principio del “piacere”, a tal proposito scriverà:

“La natura ha posto il genere umano sotto il dominio di due supremi padroni: il dolore e il

piacere. Spetta a essi soltanto indicare quel che dovremmo fare, come anche determinare

ciò che è giusto o ingiusto”62

Mill aggiungerà una distinzione:

“Riconoscere che alcune specie di piacere sono più desiderabili ed hanno maggior valore

che altre, è perfettamente conciliabile con il principio di utilità. Sarebbe assurdo se, mentre

nella valutazione delle altre cose le considerazioni qualitative hanno il loro posto accanto

alle considerazioni quantitative, nella valutazione dei piaceri si dovesse dipendere

unicamente dalle considerazioni quantitative.”63

61 C. De Boni, Lo stato sociale nel pensiero politico contemporaneo: L'Ottocento, Firenze,

University Press, 2007, pag. 63. 62 J. Bentham, Introduzione ai principi della morale e della legislazione, a cura di E.

Lecaldano, Torino, Utet, 1998, pag. 89. 63 J.S. Mill, Utilitarismo, Bologna, Cappelli, 1981, pag. 59.

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ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

42

L’autore, a differenza di Bentham, ipotizza che vi siano piaceri migliori di altri e dunque

persone in grado di godere appieno di piaceri superiori. Coloro che sono in gradi di godere

dei piaceri superiori, secondo Mill dovrebbero far parte di quella classe dirigente che

determina e amministra le azioni volte alla promozione della felicità generale. Se ci sono

persone che sanno godere saggiamente e più degli altri di alti piaceri, si spiega, in parte,

l’origine della contraddizione in seno al Liberalismo che Lucio Magri evidenzia, ovvero

“l’idea che alla libertà non potessero né dovessero accedere se non coloro che avessero per

censo e cultura, perfino per razza e colore, la capacità di esercitarla saggiamente”. Questa

concezione di Mill legata ad una visione verticista dei piaceri è comunque alla base di una

visione “aristocratica” del potere tanto quanto lo è una visione “meritocratica” del potere

come vedremo nel capitolo successivo. Pone, inoltre, seri interrogativi: chi determina la

nozione di piacere? Chi determina le differente fra alti e bassi piaceri? Gli ideali di libertà e

di uguaglianza del Liberalismo si scontrano vivacemente con queste considerazioni.

Nel 1949, il sociologo Thomas Humprhrey Marshall (1893 – 1981), tiene una conferenza

intitolata Cittadinanza e classe sociale in cui le teorie Liberali sociali e, in definitiva,

progressisti e conservatori del blocco occidentale sembrano trovare un punto, un’intesa sulla

nozione di cittadinanza. Marshall, nella conferenza, rilegge la storia politica degli ultimi

decenni come un progressivo includere soggetti che prima erano esclusi all’interno della

sfera della cittadinanza. Operazione che culmina poi con il rifiuto della libertà formale,

sancita nelle teorie liberali classiche, per approdare al concetto di riconoscimento di alcuni

fondamentali diritti sociali dell’uomo. Per il sociologo la cittadinanza è un concetto che

include una sfera di diritti che devono essere garantiti a chi appartiene ad una comunità,

diritti che lui intende come portatori di un’uguaglianza umana sostanziale. Per Marshall lo

Stato sociale è un compromesso fra classe capitalista e proletaria. Anche se egli ammette che

comunque le classi sociali continueranno ad esistere, il sociologo afferma che in uno Stato

sociale esse possono cooperare poiché le differenze di classe sono legittimate sotto l’aspetto

della giustizia sociale grazie agli strumenti messi a disposizione dal Welfare.

Il Rapporto Beveridge

Page 43: Tesi Welfare e lotta alla povertà

ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

43

Il Rapporto e più in generale la discussione sulla necessità di un intervento dello Stato

nell’economia e a sostegno delle fasce deboli della popolazione, si inserisce in un quadro

storico ben determinato che favorisce la nascita di politiche di Welfare. Prima lo sforzo

bellico e poi la ricostruzione, specie in Inghilterra, fanno da collante fra le diverse fasce

sociali della popolazione che iniziano davvero a provare un senso di unità nazionale. Questo

produce nell’Inghilterra del dopoguerra un inedito senso delle priorità interclassista che vede

al primo posto i bisogni della collettività. Questo clima, prima permetterà a Beveridge di

scrivere un piano in cui si prospetta un grande investimento dello Stato, poi al Primo Ministro

Attlee di approvare agilmente le riforme ispirate dal Piano. Tuttavia è da notare che:

“[…] sarebbe sbagliato ritenere che il Rapporto sia frutto esclusivamente di quelle

circostanze. Al contrario, Beveridge era andato maturando le basi ideologiche e politiche

della sua proposta lungo tutta la sua esperienza da amministratore e studioso”64

In particolare, grazie all’esperienza amministrativa maturata durante la prima guerra

mondiale egli comprende che lo Stato può intervenire laddove nessun’altro può, ed influire

così nei grandi processi socio-economici. Questa considerazione è per lui importante poiché

scioglie un dualismo che lo pervade per tutta la sua esistenza, quello fra le libertà individuali

e l’intervento dello Stato nella sfera privata degli individui.

La versione originale del Rapporto Beveridge è composta di 170 pagina più altre 130 di

appendice. Complessivamente è strutturato in sei parti e contiene decine di tabelle con dati

molto specifici riguardo l’applicazione della riforma da lui delineata. La prima parte,

Introduzione e sommario, contiene i principi generali a cui si inspira il Rapporto, le

innovazioni nel campo dell’assistenza sociale che intende apportare e gli obiettivi. La

seconda parte, chiamata Le principali modifiche che vengono proposte e la loro ragione di

essere, come suggerisce il titolo descrive in maniera dettagliata le 23 proposte del piano. La

terza parte, Tre problemi speciali, si sostanzia invece nella descrizione delle tre

problematiche che Beveridge ipotizza siano ostative nei confronti della realizzazione del suo

piano, ovvero: la domanda di un sostegno sociale durante un contenzioso aperto (ad esempio:

64 D. Benassi, William Beveridge e il piano del 1942: alle origini del Welfare State in Alle origini

del Welfare State, Il Rapporto su assicurazioni sociali e servizi assistenziali, Saggi di U.Ascoli, D.

Benassi, E. Mingione, Milano, Franco Angeli, 2013, pag. 23.

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ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

44

incidente sul lavoro, divorzio, ecc); come agiscono i differenziali nel costo della vita nella

determinazione dei sostegni monetari; la questione riguardante l’età pensionabile e

l’introduzione del nuovo sistema pensionistico. La quarta parte, Bilancio preventivo della

protezione sociale, indica con un dettaglio impressionante le voci di spesa di ogni singolo

provvedimento e le modalità per il loro finanziamento attraverso il sistema contributivo e

assicurativo. Nella quinta parte, la commissione guidata da Lord Beveridge, si dedica

nell’elencare le somme dei sostegni da destinare agli indigenti, sulla scorta di un’accurata

analisi dei bisogni. La quinta parte è chiamata: Piano di protezione sociale. Nella sesta ed

ultima parte, Protezione sociale e politica sociale, si determinano i tre presupposti essenziali

affinché la riforma possa avere un esito positivo: la creazione di un sistema sanitario

nazionale universale, l’attivazione di sussidi per l’infanzia ed una condizione economica

tendente al pieno impiego. Nell’analisi di questi tre pilastri mi dedicherò in maniera

particolare.

I tre pilastri

Affinché il nuovo sistema di Welfare funzioni, nel Rapporto vengono indicate tre misure

indispensabili: la creazione di un Sistema Sanitario Nazionale universale, una politica

economica che tenda alla piena occupazione e sussidi per l’infanzia. Per Beveridge infatti la

disoccupazione e quindi la conseguente dipendenza del disoccupato dal regime di sostegno

sociale deve essere transitoria. Per questo, sulla scorta delle politiche keynesiane, Beveridge

chiede che come presupposto della sua riforma il Governo attui politiche economiche anti-

cicliche e strategie di promozione dell’occupazione. Sostegni economici devono essere

garantiti nelle fasi di mancanza di lavoro, qualsiasi sia la causa: disoccupazione, malattia,

infortunio, invalidità. Per Beveridge di fatti la sicurezza di un reddito è il fattore più

importante di tutti ma:

“La sicurezza di un reddito […] se viene considerata quale solo o principale fattore di

felicità umana, è talmente inadeguata che non varrebbe nemmeno la pena di proporla.

Bisogna quindi che sia accompagnata dalla dichiarazione di una ferma decisione di usare i

poteri dello Stato, nella misura in cui sarà necessario, per garantire a tutti, anche se non

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ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

45

un’assoluta continuità di lavoro, almeno una seria possibilità di trovare un’occupazione

produttiva”65

Per l’autore promozione dell’occupazione e sostegno alla disoccupazione devono andare di

pari passo poiché Lord Beveridge ha maturato la consapevolezza che <<una lunga

dipendenza dai sussidi può scoraggiare la ricerca di una nuova occupazione>>66.

Beveridge però ammette che una quota di disoccupazione è inevitabile:

“Nelle industrie a occupazione stagionale un ritmo di lavoro ineguale è inevitabile; in un

sistema economico soggetto a mutamenti ed a progresso è impossibile evitare alti e bassi

nella prosperità dei singoli datori di lavoro e delle industrie speciali […] non (si) pretende

l’abolizione completa della disoccupazione, ma solo l’abolizione della disoccupazione in

massa, e quella disoccupazione che si protrae di anno in anno per uno stesso individuo”67

Nel Rapporto è previsto l’impatto, in termini di costi per lo Stato, che la Riforma avrà

andando a dover intervenire in una situazione sociale, quella del dopoguerra, segnata da una

disoccupazione di massa, scarsi consumi e mancanza di reddito per le famiglie. Beveridge,

nel suo Piano di Protezione Sociale, si premura di affrontare questo nodo, affermando che la

sua Riforma è in grado di assicurare indennità per una media di disoccupazione al 15%. In

generale, nelle tabelle relative ai bilanci, Beveridge espone in tutta chiarezza la sostenibilità

economica della riforma.

Le indennità infantili sono un ulteriore condicio sine qua non affinché il piano possa operare

i benefici sperati. Beverdige dà ormai per scontato che nessuno metta più in discussione il

sostegno che deve essere accordato agli adulti che hanno in carico i figli. Non già per

65 W. Beverdige, Il Piano Beveridge, Compendio ufficiale della relazione di Sir William Beveridge

al Governo Britannico, in Alle origini del Welfare State, Il Rapporto su assicurazioni sociali e

servizi assistenziali, Saggi di U.Ascoli, D. Benassi, E. Mingione, Milano, Franco Angeli, 2013,

pag. 123. 66 D. Benassi, William Beveridge e il piano del 1942: alle origini del Welfare State in Alle origini

del Welfare State, Il Rapporto su assicurazioni sociali e servizi assistenziali, Saggi di U.Ascoli, D.

Benassi, E. Mingione, Milano, Franco Angeli, 2013, pag. 26. 67 W. Beverdige, Il Piano Beveridge, Compendio ufficiale della relazione di Sir William Beveridge

al Governo Britannico, in Alle origini del Welfare State, Il Rapporto su assicurazioni sociali e

servizi assistenziali, Saggi di U.Ascoli, D. Benassi, E. Mingione, Milano, Franco Angeli, 2013,

pag. 123.

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ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

46

deresponsabilizzare il genitore dall’allevare la propria prole, ma per affermare che lo Stato

è pronto ad accettare una nuova fetta di responsabilità nella cura dei nuovi cittadini britannici.

Di fatti, come viene ben spiegato nel testo della Riforma, il costo del mantenimento della

prole deve:

“[…] essere condiviso tra i genitori e la comunità, e questo può ottenersi in due modi: sia

col concedere per ogni figlio un sussidio che sia minore del costo di mantenimento, sia con

l’escludere dal sussidio un figlio in ogni famiglia, ed accordarne invece uno più importante

od a piena quota per ciascuno degli altri figli”68

L’autore postula questa affermazione in relazione al fatto che lui considera adeguato il

salario medio di un padre di famiglia per mantenere due persone (moglie e figlio). Il concetto

di un onere diviso fra Stato ed individuo sembra permeare completamente la sua proposta di

Riforma ed è perfettamente in linea con l’ideologia di Beveridge il quale non nasconde le

forti responsabilità individuali che si hanno nel determinare la propria esistenza. La ragione

dell’importanza dei sussidi infantili, anche in ragione degli ulteriori benefit, la scriverà la

stessa commissione nella premessa della sesta parte del Rapporto:

“[...] è inutile cercare di garantire un reddito sufficiente per la sussistenza mentre il lavoro

è interrotto per disoccupazione od invalidità, se non si provvede ad un reddito sufficiente

anche durante il periodo di lavoro” 69

La commissione rigetta però le integrazioni al salario che i Comuni garantivano nelle riforme

sociali precedenti, causando gravi storture poiché i datori di lavoro scaricavano sul pubblico

l’onere di un salario dignitoso:

“[…] un minimo nazionale per famiglie, qualunque sia il numero dei famigliari, non può

essere ottenuto con un sistema di salari che devono essere basati sulla capacità produttiva

del lavoratore e non sul numero dei suoi famigliari”70

68 W. Beverdige, Il Piano Beveridge, Compendio ufficiale della relazione di Sir William Beveridge

al Governo Britannico, in Alle origini del Welfare State, Il Rapporto su assicurazioni sociali e

servizi assistenziali, Saggi di U.Ascoli, D. Benassi, E. Mingione, Milano, Franco Angeli, 2013,

pag. 113. 69 Ivi, pag. 111. 70 Ibid.

Page 47: Tesi Welfare e lotta alla povertà

ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

47

Ritornano due concetti: quello della responsabilità individuale e la critica ai precedenti

sistemi di integrazione salariale a cui ho appena accennato. Nel Rapporto, si richiama anche

l’importanza che i sussidi avranno nel favorire un aumento della natalità, poiché renderanno

più facile concepire altra prole senza danneggiare i figli già nati.

Il terzo pilastro su cui si basa la Riforma di Beveridge è un Sistema Sanitario Nazionale

universale. Per i membri della Commissione: <<il recupero della salute è un dovere dello

Stato e dell’ammalato stesso, prima di ogni altra considerazione>>71. Questa citazione, tratta

dal Rapporto, delinea chiaramente l’approccio alla questione dell’assistenza sanitaria da

parte di Beveridge. Come ho già avuto modo di scrivere, l’elemento centrale e innovativo

della Riforma proposta da Beveridge è senza ombra di dubbio l’universalismo dell’accesso

alle cure mediche, destinate sia a chi ha un lavoro che a chi è disoccupato. L’ottica entro la

quale si sviluppa il ragionamento di Beveridge riguardo il Sistema Sanitario Nazionale è

quella di riabilitare il prima possibile l’individuo malato, per renderlo di nuovo operativo

come forza lavoro. E’ un vantaggio anche per i capitalisti, secondo il pensiero Liberale, avere

i lavoratori in salute e in grado di produrre. A questo, secondo Beveridge, deve pensare lo

Stato con il suo intervento:

“[…] un esteso servizio sanitario nazionale assicurerà ad ogni cittadino ogni forma di

assistenza di cui possa aver bisogno, ed in qualsiasi modo gli sia necessaria, fornita da

medici, da specialisti o da consulenti, sia a domicilio sia in appositi istituti, come pure

provvederà apparecchi oftalmici, dentari, o chirurgici, infermieri e levatrici, ed il servizio

di riabilitazione dopo un infortunio”72

Di fianco al Sistema Sanitario Nazionale, Beveridge non esclude che possano coesistere

istituti sanitari di diritto privato, a cui se vorranno i cittadini che hanno i soldi per pagare

potranno accedere.

Ecco disegnato il quadro entro il quale la riforma potrà espandersi e attuare tutti i benefici

che si propone. E’ un quadro che ruota tutto intorno all’eliminazione del “bisogno” e teso

71 W. Beverdige, Il Piano Beveridge, Compendio ufficiale della relazione di Sir William Beveridge

al Governo Britannico, in Alle origini del Welfare State, Il Rapporto su assicurazioni sociali e

servizi assistenziali, Saggi di U.Ascoli, D. Benassi, E. Mingione, Milano, Franco Angeli, 2013,

pag. 117. 72 Ibid.

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ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

48

alla riabilitazione lavorativa del cittadino o della cittadina. La situazione di bisogno e

l’intervento dello Stato con i sostegni, devono essere sempre azioni transitorie. La

responsabilità dell’individuo nella ricerca di un lavoro, nel farsi curare e nell’avere cura della

propria prole, sono elementi indispensabili per il Welfare disegnato da Beveridge.

Lo stesso scriverà nel paragrafo 11 del suo Report:

“[…] il benessere collettivo deve essere raggiunto attraverso una stretta cooperazione fra

lo Stato e l’individuo. Lo Stato deve offrire protezione in cambio di servizi e contribuzioni,

e nell’organizzazione di tale protezione lo Stato non deve soffocare né le ambizioni, né le

occasioni, né le responsabilità; stabilendo pertanto un minimo di attività nazionale non deve

però paralizzare le iniziative che portano l’individuo a provvedere più di quel dato minimo,

per se stesso e per la sua famiglia”73

Per l’autore non è solo la povertà a minare lo sviluppo della nazione. Egli elenca gli altri

quattro “giganti” che la Riforma si propone di sconfiggere: l’ignoranza, la malattia, l’ozio e

lo squallore. Per Beveridge, il momento più appropriato per proporre una riforma di ampio

respiro è proprio la ricostruzione, il periodo post-bellico, periodo nel quale le differenze

sociali si sono attenuate, lo spirito nazionale si è ravvivato e nel paese c’è aria di

cambiamento. Citando degli studi condotti qualche anno prima in alcune città inglesi come

Londra, York, Bristol, ecc., l’autore mostra come dall’analisi degli esiti di queste indagini

emerga chiaramente che la povertà è principalmente dovuta alla mancanza di reddito causata

dalla perdita di lavoro. Una porzione più piccola, evidenzia come la causa delle condizioni

di povertà sia da individuare nella sproporzione fra il reddito percepito e il numero dei

famigliari. Appare ora chiaro il perché la Riforma prenda in seria considerazione il sostegno

al reddito delle persone che perdono il lavoro e lo strumento degli assegni famigliari.

Tra i vari principi che sono alla base di questo sistema di assicurazione sociale, ve ne sono

due che ritengo importante evidenziare. Il sistema assicurativo ideato da Beveridge si regge

in base ad una contribuzione che non è progressiva ma uguale per tutti, ricchi e poveri,

73 W. Beverdige, Il Piano Beveridge, Compendio ufficiale della relazione di Sir William Beveridge

al Governo Britannico, in Alle origini del Welfare State, Il Rapporto su assicurazioni sociali e

servizi assistenziali, Saggi di U.Ascoli, D. Benassi, E. Mingione, Milano, Franco Angeli, 2013,

pag. 48.

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ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

49

indipendentemente dai mezzi di cui sono provvisti, gli assicurati pagano una quota fissa. A

questa quota fissa di contributo corrisponde una quota fissa di benefici di sussistenza.

Nel rapporto viene poi specificato in cosa consistono questi benefici e vengono, inoltre,

delineati tre tipi di protezione: l’assicurazione sociale, dove si provvede al pagamento in

contanti , che è però condizionato ai contributi obbligatori versati in precedenza; l’assistenza

nazionale, che prevede l’erogazione di contributi monetari, una volta verificata la situazione

di bisogno, indipendentemente dai contributi versati anteriormente; l’assicurazione

volontaria, ovvero forme integrative di previdenza sociale a cui può accedere colui il quale

ritenga che i benefici dello Stato siano insufficienti a garantire il proprio stile di vita.

Il principio alla base del sistema proposto è che tutti i contribuenti paghino un uguale

contributo per un uguale beneficio. Beveridge critica il sistema di progressività dell’imposta

poiché lo ritiene nei fatti una tassa sul reddito per un servizio che l’autore definisce

“speciale”. Un’unica eccezione viene fatta rispetto la contribuzione relativa alle

“occupazioni più rischiose”. E’ previsto nel piano che i datori di lavoro proprietari di aziende

ad alto rischio versino un’imposta <<proporzionata ai rischi incorsi e alle paghe>> 74 .

Saranno esclusi dal versamento contributivo unicamente anziani, minori e disabili. Questi

ultimi, secondo Beveridge, potranno essere gli unici a dipendere a tempo indeterminato dal

sistema di assistenza pubblica. Inoltre, saranno esclusi dal versamento contributivo coloro

che, nel periodo di transizione tra il vecchio e il nuovo sistema, non avranno maturato i

requisiti per richiedere il sussidio ma ormai per età non siano più in grado di lavorare. Quelli

che oggi definiamo gli “esodati”. Nei cinque giganti che Beveridge afferma di voler

sconfiggere trova posto anche l’ozio. Nel solco della tradizione assistenziale inglese, il piano

disegnato ripropone il meccanismo della Less Elegibility. Per evitare che i sostegni

divengano più vantaggiosi del lavorare, il rapporto determina una quota di reddito minimo

in cui ciascun cittadino deve rientrare che è notevolmente disincentivante per chi intende

sopravvivere esclusivamente grazie ai sostegni pubblici. Questo meccanismo trova la sua

radice nella modifica legislativa delle Poor law effettuata nel 1834, la quale prevedeva che

74 W. Beverdige, Il Piano Beveridge, Compendio ufficiale della relazione di Sir William Beveridge

al Governo Britannico, in Alle origini del Welfare State, Il Rapporto su assicurazioni sociali e

servizi assistenziali, Saggi di U.Ascoli, D. Benassi, E. Mingione, Milano, Franco Angeli, 2013,

pag. 93.

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ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

50

le condizioni di vita all’interno delle workhouses dovessero essere notevolmente peggiori

della condizione di povertà all’esterno della struttura, di modo che questo venisse

considerato un deterrente per richiedere il pubblico sostegno.

In ultimo, ma non per ordine di importanza, viene ipotizzato dal Rapporto la creazione di un

unico dicastero deputato alla protezione sociale. Unificare tutte le competenze in un unico

Ministero, invece di essere spalmate in maniera disomogenea fra tanti uffici, ha prodotto un

notevole balzo qualitativo nell’elargizione dei sostegni sociali. Contribuendo così ad una

migliore organizzazione delle prestazioni, ad una minore sperequazione di trattamento dei

cittadini e a un’ottimizzazione delle risorse impiegate.

Tra luci ed ombre, il rapporto Beveridge in qualche modo rimane ancorato ad una visione

“punitiva” della povertà anche se in misura nettamente inferiore rispetto al passato. Questo

fatto rappresenta di certo un’ombra nella visione dell’autore come d’altronde la mancata

progressività dell’imposta che finanzia il sistema. Di contro, è innegabile il progresso

rivoluzionario prodotto dall’universalismo delle prestazioni sanitarie e dalla visione del

cittadino come portatore anche di diritti sociali ed economici.

La diffusione del Welfare in Europa ha garantito pace sociale, pace fra gli Stati e uno

sviluppo socio-economico senza precedenti nella storia del Vecchio Continente.

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ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

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Capitolo 3

Welfare e meritocrazia: modernità o ritorno al passato?

Oggi l’accesso ad alcune prestazioni sociali, come ad esempio le borse di studio, è

subordinato all’acquisizione di specifici “meriti”. Il dibattito su Welfare e meritocrazia,

ovvero sulla possibilità di accedere ad alcune prestazioni sociali previa verifica di alcuni

requisiti di merito, affascina alcuni commentatori e politici in Italia e altrove. Per essere più

precisi, il tipo di welfare cui faccio riferimento è chiamato Modello particolaristico-

meritocratico, in cui lo Stato definisce la politica sociale come uno strumento correttivo del

mercato e dove il grado di benessere cui un soggetto ha diritto dipende dalla sua posizione

nel mercato del lavoro. Il Rapporto Beveridge sembra grandi linee ritrovarsi nella

definizione di modello particolaristico-meritocratico.

Come ho accennato all’inizio, in Italia, l’esempio più chiaro di Welfare meritocratico è

adottato nelle politiche per il Diritto allo studio. Il primo anno il voto di maturità diventa

sempre più determinante per accedere ai benefici, oppure raggiungere un tetto di crediti

annuali serve come requisito per poter mantenere la borsa di studio e così via.

Anche le stesse Università, allo scopo di scoraggiare gli studenti fuori corso, provvedono

all’istituzione di blocchi creditizi per potersi iscrivere di anno in anno oppure emanano

provvedimenti che aumentano le tasse a chi è in ritardo con gli studi. La meritocrazia sembra

aver affascinato il sistema formativo italiano più che altri settori dello Stato.

Definizione di “meritocrazia”

Page 52: Tesi Welfare e lotta alla povertà

ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

52

Il termine “meritocrazia” venne coniato dal sociologo inglese Michael Young e citato per la

prima volta nel suo celebre libro Rise of meritocracy75, pubblicato nel 1958 in Inghilterra e

nel 1961 in Italia dalle celebri Edizioni di comunità, casa editrice fondata da Adriano Olivetti.

La definizione di Meritocrazia che Young offre nella sua opera è abbastanza distante anche

della definizione che oggi, in Italia, l’immaginario collettivo sembra affidarle. Nel libro, per

definire il merito, viene addirittura utilizzata una formula. Il merito è ridotto ad un equazione:

M=Iq+E dove M sta per merito, IQ per quoziente intellettivo e E per sforzo76. Detto ciò con

il termine meritocrazia si intende un sistema di governo in cui, la selezione per l’accesso alle

cariche pubbliche, si effettua attraverso criteri di merito. Oggi invece nel nostro paese questo

termine viene percepito come il contrario di clientelismo o nepotismo, invece che come un

sistema di governo in cui amministra chi è più intelligente e volenteroso.

Ritengo utile, come già fatto con Beveridge, ripercorrere alcune tappe della vita del

sociologo inglese.

Biografia di Michael Young

Michael Young nasce a Manchester il 9 Agosto 1915. Figlio di un violinista e critico

musicale di origini australiane e di una attrice e pittrice di origini irlandesi. Molto piccolo si

trasferisce a Melbourne dove vive fino all’età di otto anni. Quando i genitori divorziano,

torna in Inghilterra e inizia a frequentare diverse scuole. Entra finalmente nella Dartington

Hall, scuola di chiara impostazione progressista ove non erano praticate le punizioni

corporali, non vi era nessuna segregazione dei sessi e latino e greco non erano materie di

studio obbligatorie. Studia alla London School of Economics, quella fondata dai coniugi

Webb77, diviene avvocato e inizia ad esercitare la professione nel 1939.

Si iscrive nel Partito laburista inglese, ottiene alcuni incarichi governativi durante il Governo

Attlee, ma lascia la carriera amministrativa nel 1950. Nel 1952 inizia un dottorato presso la

London School of Economics e approfondisce i temi legati al governo locale e alle

problematiche abitative. Fonda l’“Institute of Community Studies”, che utilizzerà come

75 M. Young, L’avvento della meritocrazia, Edizioni di Comunità, 1961. 76 F. Raciti, L’Imbroglio della meritocrazia, Città di castello (PG), Editori riuniti, 2013, pag. 11. 77 Cfr. Pag. 28.

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ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

53

veicolo principale per esplorare le sue idee di riforma sociale. Il suo obiettivo principale era

quello di fornire ai cittadini maggior voce in capitolo nella determinazione delle politiche

che li riguardavano.

In quegli stessi anni è coautore, insieme a Peter Willmott (1923 – 2000), di diverse ricerche

sociali. Nel 1958, scrive e pubblica il celebre romanzo distopico: “Rise of meritocracy”, è

interessante notare che la pubblicazione del romanzo viene proposta in principio alla Fabian

society78 che però, stranamente, si rifiuta di pubblicarlo.

Successivamente si dedica a svariate ricerche sociali sull’istruzione che producono, tra il

1965 e 1976, diverse riforme istituzionali riguardo il sistema scolastico inglese.

Negli anni cinquanta e sessanta aiuta a fondare diverse associazioni e istituzioni fra cui:

l’Associazione dei Consumatori e diverse libere Università. Fondò anche una Language Line,

allo scopo di aiutare chi aveva difficoltà con la lingua inglese nell’accesso ai servizi pubblici.

Durante l’ultimo periodo della sua vita Young si concentra particolarmente nell’aiutare le

persone anziane. E’ co-fondatore dell’Università della Terza Età, nella quale riunisce e

favorisce lo scambio di informazioni e conoscenze fra persone anziane senza nipoti e giovani

senza nonni.

Nel 1978, gli viene affidato il titolo di Baron Young of Dartington.

Estremamente deluso dall’accezione positiva che la parola meritocrazia assume nel dibattito

politico, il 29 giugno 2001, pubblica una lettera sul quotidiano The Guardian indirizzata al

Primo Ministro di allora Tony Blair, nella quale lo rimprovera per l’utilizzo del termine che

lo stesso sta compiendo. A scanso di equivoci e per rendere chiaro il pensiero di Young a

proposito del modello di Governo da lui stesso ideato nel suo libro distopico, pubblico

l’intera lettera.

“I have been sadly disappointed by my 1958 book, The Rise of the Meritocracy. I coined a

word which has gone into general circulation, especially in the United States, and most

recently found a prominent place in the speeches of Mr Blair. The book was a satire meant

to be a warning (which needless to say has not been heeded) against what might happen to

78 Cfr. Pag 26.

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ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

54

Britain between 1958 and the imagined final revolt against the meritocracy in 2033. Much

that was predicted has already come about. It is highly unlikely the prime minister has read

the book, but he has caught on to the word without realising the dangers of what he is

advocating. Underpinning my argument was a non-controversial historical analysis of what

had been happening to society for more than a century before 1958, and most emphatically

since the 1870s, when schooling was made compulsory and competitive entry to the civil

service became the rule. Until that time status was generally ascribed by birth. But

irrespective of people's birth, status has gradually become more achievable.

It is good sense to appoint individual people to jobs on their merit. It is the opposite when

those who are judged to have merit of a particular kind harden into a new social class

without room in it for others. Ability of a conventional kind, which used to be distributed

between the classes more or less at random, has become much more highly concentrated by

the engine of education. A social revolution has been accomplished by harnessing schools

and universities to the task of sieving people according to education's narrow band of values.

With an amazing battery of certificates and degrees at its disposal, education has put its seal

of approval on a minority, and its seal of disapproval on the many who fail to shine from the

time they are relegated to the bottom streams at the age of seven or before. The new class

has the means at hand, and largely under its control, by which it reproduces itself. The more

controversial prediction and the warning followed from the historical analysis. I expected

that the poor and the disadvantaged would be done down, and in fact they have been. If

branded at school they are more vulnerable for later unemployment. They can easily become

demoralised by being looked down on so woundingly by people who have done well for

themselves. It is hard indeed in a society that makes so much of merit to be judged as having

none. No underclass has ever been left as morally naked as that. They have been deprived

by educational selection of many of those who would have been their natural leaders, the

able spokesmen and spokeswomen from the working class who continued to identify with the

class from which they came. Their leaders were a standing opposition to the rich and the

powerful in the never-ending competition in parliament and industry between the haves and

the have-nots. With the coming of the meritocracy, the now leaderless masses were partially

disfranchised; as time has gone by, more and more of them have been disengaged, and

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ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

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disaffected to the extent of not even bothering to vote. They no longer have their own people

to represent them. To make the point it is worth comparing the Attlee and Blair cabinets.

The two most influential members of the 1945 cabinet were Ernest Bevin, acclaimed as

foreign secretary, and Herbert Morrison, acclaimed as lord president of the council and

deputy prime minister. Bevin left school at 11 to take a job as a farm boy, and was

subsequently a kitchen boy, a grocer's errand boy, a van boy, a tram conductor and a

drayman before, at the age of 29, he became active locally in Bristol in the Dock Wharf,

Riverside and General Labourers' union.

Herbert Morrison was in many ways an even more significant figure, whose rise to

prominence was not so much through the unions as through local government. His first job

was also as an errand boy and assistant in a grocer's shop, from which he moved on to be a

junior shop assistant and an early switchboard operator. He later became so influential as

leader of the London county council partly because of his previous success as minister of

transport in the 1929 Labour government. He triumphed in the way Livingstone and Kiley

hope to do now, by bringing all London's fragmented tube service, buses and trams under

one unified management and ownership in his London passenger transport board. It made

London's public transport the best in the world for another 30-40 years and the LPTB was

also the model for all the nationalised industries after 1945. Quite a few other members of

the Attlee cabinet, like Bevan and Griffiths (miners both), had similar lowly origins and so

were also a source of pride for many ordinary people who could identify with them.

It is a sharp contrast with the Blair cabinet, largely filled as it is with members of the

meritocracy.

In the new social environment, the rich and the powerful have been doing mighty well for

themselves. They have been freed from the old kinds of criticism from people who had to be

listened to. This once helped keep them in check - it has been the opposite under the Blair

government. The business meritocracy is in vogue. If meritocrats believe, as more and more

of them are encouraged to, that their advancement comes from their own merits, they can

feel they deserve whatever they can get. They can be insufferably smug, much more so than

the people who knew they had achieved advancement not on their own merit but because

they were, as somebody's son or daughter, the beneficiaries of nepotism. The newcomers can

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ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà

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actually believe they have morality on their side. So assured have the elite become that there

is almost no block on the rewards they arrogate to themselves. The old restraints of the

business world have been lifted and, as the book also predicted, all manner of new ways for

people to feather their own nests have been invented and exploited. Salaries and fees have

shot up. Generous share option schemes have proliferated. Top bonuses and golden

handshakes have multiplied.

As a result, general inequality has been becoming more grievous with every year that passes,

and without a bleat from the leaders of the party who once spoke up so trenchantly and

characteristically for greater equality. Can anything be done about this more polarised

meritocratic society? It would help if Mr Blair would drop the word from his public

vocabulary, or at least admit to the downside. It would help still more if he and Mr Brown

would mark their distance from the new meritocracy by increasing income taxes on the rich,

and also by reviving more powerful local government as a way of involving local people and

giving them a training for national politics. There was also a prediction in the book that

wholesale educational selection would be reintroduced, going further even than what we

have already. My imaginary author, an ardent apostle of meritocracy, said shortly before

the revolution, that "No longer is it so necessary to debase standards by attempting to extend

a higher civilisation to the children of the lower classes". At least the fullness of that can

still be avoided. I hope.”79

79 M. Young, Down with meritocracy, The Guardian, 29 giugno 2001, in

http://www.theguardian.com/politics/2001/jun/29/comment Sono stato amaramente deluso dal mio

libro del 1958 The Rise of Meritocracy. Ho coniato una parola che è entrata nel linguaggio corrente,

in particolare negli Stati Uniti, e che più recentemente ha trovato un posto privilegiato nei discorsi di

Mr. Blair. Il libro era una satira che intendeva lanciare un allarme (che, non c’è bisogno di dirlo, non

è stato ascoltato) contro quello che sarebbe potuto accadere in Inghilterra tra il 1958 e la immaginata

rivolta finale contro la meritocrazia del 2033. Molto di quello che è stato predetto è già successo. E’

molto improbabile che il Primo Ministro abbia letto il libro, infatti ha colto il termine senza

comprendere i pericoli di ciò che stava promuovendo. Ad avvalorare il mio argomento era un’analisi

storica non controversa su ciò che era accaduto alla società per più di un secolo, prima del 1958, e

con più forza dal 1870, quando l’istruzione scolastica è stata resa obbligatoria e la competizione per

l’accesso nell’amministrazione dello Stato è diventata la regola. Fino a quel momento lo status

sociale era generalmente assegnato dalla nascita. Ma a prescindere dalla condizione di nascita delle

persone, un buono status è diventato gradualmente più raggiungibile. E’ di buon senso assumere le

singole persone sulla base del loro merito. Diventa l’opposto di quando quelli che considerano di

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avere un merito particolare si irrigidiscono in una nuova classe sociale senza lasciare spazio agli altri.

Le capacità di tipo tradizionale, che solitamente sono distribuite tra le classi più o meno a caso, sono

diventate molto più concentrate, per via dello stimolo dell’istruzione. Una rivoluzione sociale è stata

portata a termine costringendo le scuole e le università al compito di selezionare le persone secondo

una rigida certificazione delle competenze considerate importanti. Con una straordinaria gamma di

certificati e lauree a disposizione, l’istruzione ha dato il suo benestare a una minoranza, e il suo

marchio di disapprovazione sulla moltitudine di quelli che non sono riusciti a brillare, relegati al

segmento della formazione più bassa all’età di 7 anni o prima. La nuova classe ha sotto il proprio

controllo i mezzi economici e gli strumenti per utilizzarli riproducendo se stessa. La predizione più

controversa e l’allarme sono derivate dall’analisi storica. Io prevedevo che i poveri e gli svantaggiati

sarebbero stati abbandonati, e infatti lo sono stati. Se etichettati a scuola sono poi più esposti alla

disoccupazione. Possono diventare facilmente umiliati dall’essere guardati dall’alto verso il basso in

modo così traumatico da quelle persone che si sono fatte strada da sole. E’ davvero difficile in una

società che costruisce così tanto sulla base del merito, esserne giudicati privi, nessuna classe

subalterna è stata mai lasciata moralmente nuda così tanto come questa. Sono stati privati dalla

selezione dell’istruzione molti di quelli che avrebbero dovuto essere i loro naturali leader, degli abili

portavoce della classe lavoratrice che si sono sempre identificati con la classe da cui provenivano e

che sono precedentemente stati in continua opposizione ai ricchi e ai potenti in una competizione tra

ricchi e poveri senza fine, in parlamento e in fabbrica. Con l’arrivo della meritocrazia, le attuali masse

senza leader sono state gradualmente emarginate; col passare del tempo, un maggior numero di loro

si è isolato e disaffezionato al punto da non essere più interessato a votare: non hanno avuto più

neppure i loro rappresentanti. Per indicare il punto, vale la pena indicare i governi Attlee e Blair. I

due membri più influenti del Governo nel 1945 erano Ernest Bevin, Ministro degli Esteri, e Herbert

Morrison, presidente del consiglio e Vice Primo Ministro. Bevin ha lasciato la scuola a 11 anni per

andare a lavorare come contadino, è poi stato ragazzo di bottega, fattorino per una drogheria,

camionista, conducente di tram e ancora prima di carrozze. A 29 anni, è poi diventato attivo

nell’ambito dell’Unione dei Lavoratori dei porti Wharf, Riverside, e General a Bristol. Herbert

Morrison è stata una non meno importante figura. Anche il suo primo lavoro era stato fare il fattorino

e il garzone in una drogheria, da cui si è mosso per diventare ragazzo di bottega e presto operatore

di un centralino telefonico. Più tardi è diventato molto influente come leader nel Consiglio della

Contea di Londra, in parte per i suoi precedenti successi come Ministro dei Trasporti nel governo

laburista del 1929. Egli ha trionfato in un modo che Livingstone e Kiley possono solo sperare oggi

per se, portando tutti i servizi frammentati della metro, degli autobus e trami di Londra sotto un’unica

amministrazione e un’unica proprietà dalla sua Commissione dei trasporti per passeggeri di Londra.

Ha fato dei trasporti pubblici di Londra i migliori per altri 30-40 anni e la Lbtp (London passengers

transport board) è stata un modello per tutte le industrie nazionalizzate dopo il 1945. Un buon numero

dei membri del Governo Attlee, come Bevan e Griffiths (entrambi minatori), avevano simili umili

origini e questo era anche un motivo di orgoglio per molte persone ordinarie che potevano

identificarsi in loro. E’ in grande contrasto con il governo Blair, largamente composto com’è da

membri della meritocrazia. Nel nuovo ambiente sociale, i ricchi e i potenti hanno avuto un grande

successo. Sono stati liberati dalle critiche di vecchio stampo che provenivano da persone che

dovevano essere ascoltate per forza. Questo un tempo aiutava a tenerli sotto controllo ma sotto il

governo Blair è stato l’opposto. L’affare della meritocrazia è di moda. Se i meritocratici sono convinti,

e molti di loro sono incoraggiati ad esserlo, che i loro vantaggi derivano dai loro rispettivi meriti,

loro possono pensare di meritarsi qualsiasi cosa ottengano. Possono essere intollerabilmente

compiaciuti, molto più delle persone che sapevano di aver fatto carriera, perché figli di qualcuno,

beneficiari del nepotismo. Gli ingenui possono davvero pensare che coloro hanno la vittoria morale

dalla loro parte. Le élite sono diventate così sicure di se che non c’è quasi nessun ostacolo alle

ricompense che pretendono di attribuirsi. I vecchi vincoli dell’economia mondiale sono stati rimossi

e, come il libro aveva anche previsto, tutti i diversi modi di fare successo sono stati sperimentati. I

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Nella lettera che Young scrive a Blair è possibile rintracciare tutto il pensiero del celebre

sociologo. Critico verso un’organizzazione dello Stato meritocratico poiché tramite la sua

stessa struttura priva le classi subalterne dei loro naturali leader, lasciando queste ultime sole

e abbandonate a loro stesse. A dimostrazione di questo fatto, egli afferma che negli ultimi

anni le diseguaglianze in Inghilterra sono aumentate e sempre meno lavoratori sono conviti

che qualcuno possa davvero rappresentare le loro istanze in fabbrica o in parlamento.

La critica di Young alla meritocrazia passa proprio attraverso la spoliazione che essa effettua

nei confronti delle classi lavoratrici delle loro intelligenze, creando nei fatti un’aristocrazia

basata sul merito, nella quale chi determina cosa è meritevole e cosa non lo è, è parte stessa

della classe dominante. Una sorta di auto-valutazione per poter perpetuare nel tempo il loro

stesso potere.

Il vero dramma della meritocrazia è che essa, leggendo l’articolo, fornisce un alibi di ferro a

chi ce l’ha fatta, a chi è riuscito a farsi da solo; essa diviene nei fatti una legittimazione

morale delle diseguaglianze.

Appare poi davvero notevole il risultato del confronto che Young effettua tra i membri del

Governo Attlee, che non a casa furono nei fatti gli attuatori in parte del Rapporto Beveridge

pur senza mai averlo interpellato di persona, coi membri dell’allora governo di Tony Blair.

La meritocrazia ha trionfato e chi non ce la fa non solo è, in fondo, convinto di meritarsi la

propria condizione ma è anche spoliato dei propri leader.

Michael Young muore il 15 gennaio 2002 all’età di 86 anni.

loro salari sono arrivati alle stelle e hanno proliferato generosi dividendi di opzioni. Top bonus e

buonuscite d’oro si sono moltiplicate. Come risultato, la diseguaglianza generale è diventata più

profonda ogni anno che passa, e senza un belato dai leader del partito che una volta predicava più

uguaglianza per missione e con grande insistenza. Si può ancora fare qualcosa per una società così

tanto meritocratica e polarizzata? Potrebbe essere d’aiuto se Mr. Blair volesse togliere la parola dal

suo vocabolario pubblico, o almeno ammettere il suo lato negativo. Potrebbe aiutare ancora di più se

lui e Mr. Brown segnassero la loro distanza dalla meritocrazia aumentando le tasse sul reddito dei

ricchi, e anche rinvigorendo i governi locali coinvolgendo le persone fornendo loro strumenti per

partecipare alla vita politica nazionale. Nel mio libro era previsto che la selezione su larga scala

dell’educazione sarebbe stata reintrodotta, andando anche oltre rispetto a quella che già abbiamo. Il

mio autore immaginario, un ardente apostolo della meritocrazia, osservava prima della rivoluzione

che “non è più necessario abbassare gli standard medi cercando di civilizzare i figli delle classi

inferiori”. L’ampiezza di questo disastro può essere ancora limitata. Spero. Tr. It. A cura di Fausto

Raciti.

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Un ritorno indietro

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, grazie alle politiche keynesiane e ai nuovi modelli sociali

che si erano imposti, la promessa di una società più equa e giusta era stata in qualche modo

rispettata. In Europa non esisteva paese che non avesse implementato il proprio sistema di

assistenza sociale, grazie anche alla spinta morale di un mondo finalmente in pace. Tuttavia

le diseguaglianze continuavano a permanere. Il fascino esercitato dai regimi socialisti

doveva essere placato. Le élite si riorganizzavano per affrontare un periodo di relativa quiete

ma il pericolo della diffusione di idee socialiste nei paesi Alleati doveva essere fermato.

Bisognava trovare un ulteriore compromesso fra classe lavatrice e capitalismo, i sistemi di

Welfare non erano ancora pienamente sviluppati, e le diseguaglianze comunque

permanevano. Come poter sottrare le classi subalterne alle sirene di una società ancora più

giusta e senza diseguaglianze? Semplice, diffondendo il concetto che la tua situazione di

povertà era meritata e che se non eri stato in grado di arricchirti era solo ed esclusivamente

colpa tua. Bisognava però trovare una modalità, la quanto più falsamente oggettiva, per

determinare la diseguaglianza. I fautori della meritocrazia individuarono come strumento il

sistema dell’istruzione. L’idea di meritocrazia venne utilizzata per la prima volta con un

accezione positiva, da un gruppo di liberal statunitensi, tra cui Daniel Bell (1919 – 2011).

L’idea era quella di trovare una “Terza via” fra socialismo egualitario e disinteresse totale

verso le diseguaglianze sociali. Il metro di giudizio per giustificare le diseguaglianze doveva

essere meritocratico. Ovvero la promessa era che ogni singolo individuo, a prescindere dalla

propria posizione sociale di partenza, grazie ad una valutazione del suo merito, poteva

scalare le vette più alte della piramide sociale. Occorreva solo garantire un uguaglianza delle

opportunità grazie alla scolarizzazione di massa. Sarebbero stati i risultati scolastici a

determinare il posizionamento sociale dell’individuo. Analizzando l’idea di meritocrazia

sulla scorta delle analisi fatte nelle pagine precedenti, pare che sia ritornato in auge l’antico

meccanismo di selezione fra poveri meritevoli e immeritevoli di stampo medioevale, ma

decisamente in forma meno rozza e sicuramente più raffinata. Oggi, specie nei paesi

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anglosassoni, l’idea di meritarsi una posizione sociale subalterna è pienamente introiettata

all’interno dell’individuo, non serve rinchiuderli nelle workhouses, sono loro stessi ad auto

stigmatizzarsi. Un modo per far sembrare che lo Stato abbia le mani pulite, le opportunità ti

sono state garantite ma tu non sei stato in grado di coglierle per tuoi difetti naturali o per

scarso rendimento.

Dopo gli Stati Uniti questo dibattito ha influenzato anche i politici del vecchio continente,

di destra e di sinistra. Il caso più eclatante è ovviamente la “Terza via” di Blair, in cui la

meritocrazia trova un posto determinante nel ridisegnare i nuovi assetti della selezione

sociale inglese. Fino ad arrivare all’elogio del merito fatto da Veltroni, in Italia, nella

campagna elettorale per le politiche del 2008. I fautori della meritocrazia danno per scontato

che i sistemi formativi possano davvero selezionare escludendo ogni influenza rispetto alla

classe sociale di partenza. Dimostrerò che non è così e dimostrerò anche che il concetto di

merito è in realtà una nebulosa poco chiara, e incline ad interpretazioni di stampo elitario.

Assumiamo come definizione di merito quella data da Young nel suo libro, ovvero che il

merito è determinato dalla somma dell’intelligenza più lo sforzo del singolo. Il dibattito sul

Quoziente intellettivo sta appassionando molti ricercatori in giro per il globo. Un’ultima

ricerca interessante, è quella condotta da Keith Stanovich, professore di sviluppo umano e

psicologia all’Università di Toronto. Per lo studioso i test del QI sono in grado di valutare

solo alcune facoltà mentali, escludendone altre. Inoltre egli afferma che anche i cervelloni

possono compiere azioni stupide e viceversa. Basti pensare che George W. Bush, due volte

presidente degli Stati Uniti d’America, con un quoziente intellettivo pari a 120, abbia

ripetutamente fatto alcune uscite pubbliche giudicate stupide persino dai suoi stessi colleghi

di partito.

Anche per David Perkins, docente di Scienze del ragionamento alla Harvard Graduate

School, avere un alto quoziente intellettivo è un fattore positivo, ma non è certo sinonimo di

intelligenza tout court.80

80 QI sopra la media? Non basta, essere “smart” è molto di più, La Repubblica, 3 novembre 2009,

in http://www.repubblica.it/2009/11/sezioni/scienze/quoziente-intellettivo/quoziente-

intellettivo/quoziente-intellettivo.html

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E’ chiaro che il fascino della misurazione matematica dell’intelligenza abbia rapito molti

sostenitori della meritocrazia ma, purtroppo o per fortuna, la realtà è molto più complessa.

Oltretutto, la misurazione del QI presuppone che l’intelligenza:

“[…] sia una capacità generale e omogenea che si manifesta in modo simile nei diversi

campi in cui l’individuo si applica”81

Affermazione alquanto dibattuta in campo psicologico.

Esistono tante altre teorie riguardanti le intelligenze. Ne cito una che sfugge ad ogni

misurazione matematica, ma che mi sembra essere un’ipotesi alquanto ragionevole. La teoria

delle Intelligenze multiple di Gardner (1983). In questa teoria si considera l’intelligenza non

come un monolite bensì composta da abilità differenti.

“Gardner, in particolare, ipotizza l’esistenza di 7 forme di intelligenza:

1. Linguistica, collegata alla sensibilità per il significato, il suono, l’ordine delle parole

e per le diverse funzioni del linguaggio;

2. Musicale, corrispondente alla capacità di distinguere il significato e l’importanza di

una serie di suoni organizzati ritmicamente;

3. Logico-matematica, consistente nella capacità di operare su simboli e parole,

stabilendo rapporti e formulando regole;

4. Spaziale, equivalente alla capacità di percepire forme e riconoscere elementi in

diversi contesti;

5. Corporea, riferita alla capacità di usare il proprio corpo per fini espressivi e pratici;

6. Intrapersonale, dipendente dalla capacità di capire se stessi, i propri sentimenti e di

esprimerli

7. Interpersonale, riguardante la capacità di cogliere la personalità e le intenzioni

altrui e di influire sugli altri.

Gardner ha ipotizzato anche l’esistenza di due ulteriori intelligenze, denominate

“naturalistica”, riferita alla capacità di risolvere problemi o creare prodotti traendo spunto

da materiali e caratteristiche dell’ambiente naturale (Darwin ne costituirebbe un eminente

81 L. Mecacci, Manuale di Psicologia generale, Firenze, Giunti, 2001, pag. 216.

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esempio), e “spirituale”, o “esistenziale” (di cui potrebbe essere prototipo Gandhi),

collegata alla profondità nel cogliere il significato della vita e della realtà”82

Il perché si utilizzi ancora la teoria del QI, peraltro formulata in tempi remoti e precisamente

nel 1912 da William Stern (1871 – 1938) solo per accontentare chi, in funzione meritocratica,

vuole che sia un semplice quoziente numerico a determinare l’intelligenza e la futura

posizione sociale di una persona, resta per me un dilemma.

Anche la nozione di sforzo individuale si presta a delle ambiguità. Scrive Fausto Raciti a tal

proposito:

“Anche questo (lo sforzo individuale) è un prodotto sociale, strettamente correlato coi valori

in cui si è cresciuti e, in fondo, non misurabile”83

Per comprendere le storture di un sistema di selezione sociale su base meritocratica basta

analizzare i dati sulla mobilità. Sembra di ritornare ai dibattiti di stampo medioevale, come

prima la povertà era considerata una colpa e frutto esclusivamente dell’inettitudine

dell’individuo, anche oggi i ragazzi che entrano in un sistema formativo sono giudicati

esclusivamente in base al risultato, escludendo che i fattori sociali (famiglia di provenienza,

reddito, zone rurali o cittadine) possano in qualche modo influire sul rendimento scolastico.

Il lettore avrà sicuramente da obiettare che è per questo che esistono le Borse di studio e le

altre provvidenze fornite dallo Stato per garantire il Diritto allo studio, peccato però che

queste stese provvidenze vengano sempre più elargite tramite criteri meritocratici. Un cane

che si morde la coda.

Anche il sistema scolastico italiano è improntato ad una forte selezione già all’età di 13 anni.

Qualche anno fa, alla fine delle scuole medie, le insegnanti consegnavano un foglietto ai

genitori dei bambini con su scritto la scuola superiore consigliata. Istituto professionale,

Istituto tecnico o Liceo, rispettivamente i destinatari erano coloro che andavano molto male

a scuola, coloro che andavano così così e, infine, al Liceo erano destinati i bravi. In Italia, il

destino sociale del bambino è segnato all’età di 13 anni.

82 Ivi, pag. 217, 218. 83 F. Raciti, L’Imbroglio della meritocrazia, Città di castello (PG), Editori riuniti, 2013, pag. 36.

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Nel segnare questo destino, quanto dipende dallo scarso rendimento del bambino e quanto

invece da fattori sociali? Quanto la promessa di una scuola meritocratica e selezionatrice è

stata in realtà una scusa per giustificare le diseguaglianze, invece che fornire veramente

opportunità a tutti e tutte? Ce lo dicono i dati.

Il Rapporto Istat 2012 recita testualmente le seguenti parole:

“L’Italia, infatti, pur avendo registrato un’alta mobilità assoluta, è tuttora un paese

caratterizzato da una scarsa fluidità sociale. Come emerge dagli indici di mobilità sociale

relativa, la classe sociale di origine influisce in misura rilevante sul risultato finale,

determinando rilevanti disuguaglianze nelle opportunità offerte agli individui: al netto degli

effetti strutturali, tutte le classi (in particolare quelle poste agli estremi della scala sociale)

tendono a trattenere al loro interno buona parte dei propri figli e i cambiamenti di classe

sono tanto meno frequenti quanto più grande è la distanza sociale che le separa. Il sistema

di istruzione, che dovrebbe essere lo strumento principale per sostenere la mobilità sociale,

offre invece migliori opportunità ai figli delle classi superiori: il livello della famiglia di

origine risulta essere discriminante nel determinare sia gli esiti scolastici, sia i percorsi

d’inserimento nel mercato del lavoro. Peraltro, l’analisi dei dati relativi al mercato del

lavoro italiano evidenzia come le minori opportunità di occupazione e lo svantaggio

retributivo delle donne siano fra le cause più rilevanti di disuguaglianza, mentre l’instabilità

del lavoro, generalmente associata a retribuzioni inferiori alla media, è diventata

un’ulteriore, ed altrettanto importante, causa di disuguaglianza nei risultati socio-

economici”84

Considerando che l’intelligenza è distribuita in maniera casuale fra le classi sociali, così

come la determinazione e l’inclinazione all’impegno, ecco sfatato il mito della meritocrazia.

Quello che conta, se sei di una classe sociale inferiore, non è quanto ti impegni. Quello che

conta è la tua famiglia di origine, da dove parti. Essere meritocratici, ovvero trattare tutti allo

stesso modo a prescindere dalle condizioni di partenza è un’uguaglianza formale, una finta

opportunità. Come scrivevano bene Don Lorenzo Milani e i suoi alunni nel famoso libro

Lettera a una professoressa:

84 Istat, Rapporto annuale 2012, Cap. 4, Pag. 4 in http://www.istat.it/it/files/2012/05/Capitolo_4.pdf

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“La più accanita protestava che non aveva mai cercato e mai avuto notizie sulle famiglie

dei ragazzi: <<Se un compito è da quattro io gli do quattro>>. E non capiva, poveretta,

che era proprio di questo che era accusata. Perché non c’è nulla che sia ingiusto quanto far

le parti uguali fra diseguali”85

Daniele Cecchi, docente di Economia politica all’Università degli studi di Milano, ha

dedicato nel 2008 una ricerca sul tema. Ha studiato un campione di studenti lombardi di una

terza media. Quello che è emerso è che: <<il destino scolastico futuro degli alunni viene

progressivamente segnato dalle origini sociali, delle quali non portano alcuna

responsabilità>>. Lo studioso è andato anche oltre, affermando che anche gli insegnanti si

fanno influenzare dalla classe di appartenenza del bambino. Dai risultati della sua ricerca

emerge inoltre che: << il figlio di un genitore laureato ha una probabilità nulla di ricevere

un orientamento verso la formazione professionale e molto raramente (meno del 10%) una

indicazione di un istituto di formazione professionale. È invece possibile l’opposto: il figlio

di genitori analfabeti (che sono meno del 2% del campione) ha una probabilità su cinque di

ricevere l’indicazione di un liceo>>86.

Proseguire nel legare gli strumenti di Welfare per il sostegno al Diritto allo studio a criteri

meritocratici, non farà che aumentare le disparità sociali e diminuire la mobilità sociale del

paese. Don Milani e i ragazzi della Scuola di Barbiana rimproverando un’ipotetica

professoressa dalla bocciatura facile, scrivono un pezzo memorabile:

“Allora sostenete che Dio fa nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri. Ma Dio

non fa questi dispetti ai poveri. E’ più facile che i dispettosi siate voi”87

Per queste motivazioni che ho esposto, affermo che il vero Welfare, inteso come strumento

di emancipazione sociale, non dovrebbe guardare all’uguaglianza delle opportunità (cosa

che come abbiamo visto è assai difficile, se non impossibile) ma guardare all’uguaglianza

85 Scuola di Barbiana, Lettera ad una Professoressa, Pisa,Libreria Editrice Fiorentina, pag 55. 86 S. Favasulli, In terza media è il ceto a decidere che superiori farai, Linkinkiesta in

http://www.linkiesta.it/come-scegliere-la-scuola-superiore 87 Scuola di Barbiana, Lettera ad una Professoressa, Pisa, Libreria Editrice Fiorentina, pag 60.

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dei risultati. Poiché: << […] è più onesto dire che tutti i ragazzi nascono eguali e se in seguito

non lo sono più, è colpa nostra e dobbiamo rimediare>>88.

CONCLUSIONE

La tesi che intendo sostenere in questo elaborato è che esiste una forte correlazione causale

tra sistemi di Welfare adeguati e sviluppo economico-sociale di un paese. Nella scrittura di

questo testo, la questione che più mi ha interrogato è perché, dopo una crisi epocale come

questa, gli Stati non pensano ad un’adeguata azione di ammodernamento e rafforzamento

dei sistemi di welfare. In fondo, questa crisi, non è un ulteriore prova che il mercato da solo

non è in grado di redistribuire la ricchezza? Non si ha timore che le politiche di austerity

possano esasperare le condizioni sociali dei cittadini, producendo profonde fratture fra le

classi sociali o permettendo il dilagare di tendenze xenofobe? Le ultime piccole crisi

economiche a partire dagli anni settanta del novecento e quest’ultima forte crisi, a differenza

delle precedenti, non hanno prodotto un significativo balzo in avanti dei diritti sociali dei

cittadini come risposta politica. Hanno invece prodotto l’esatto opposto. Un forte impulso

alle politiche Bismarckiane, venne offerto dalla grande crisi economica di fine ottocento. La

grande crisi economica che gli succedette, quella del 1929, ha senza ombra di dubbio

accelerato la diffusione delle idee keynesiane che poi hanno prodotto il “New deal” di

Roosvelt negli Stati Uniti, o progetti di riforma sociale come quello di Beveridge nel vecchio

continente. Il lettore attento di certo obietterà che il debito pubblico degli Stati di allora era

nettamente inferiore a quello degli Stati di oggi. Questa affermazione è, in parte, errata. Basti

vedere il debito pubblico statunitense negli anni trenta e quaranta del secolo scorso. Tuttavia

il lettore non avrà di che obiettare in relazione al fatto che la grande guerra aveva prosciugato

le casse degli Stati vincitori e che i paesi dell’Asse erano invece distrutti dai bombardamenti.

Senza dubbio ogni periodo storico ha le sue peculiarità ed è sempre difficile fare paragoni

ma Beveridge utilizzò il momento di crisi internazionale economica, politica e sociale del

dopoguerra per rifondare un nuovo patto con i cittadini inglesi. Un nuovo patto basato su un

nuovo sistema di Welfare, che è riuscito a far uscire l’economia inglese dalla crisi, anche

88 Ivi, pag 61.

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grazie ad una manodopera più istruita, più in salute e in grado di avere le risorse per

consumare e acquistare ciò che le industrie inglesi producevano. Negli Stati Uniti le riforme

sociali di Roosvelt e il “New deal”, fecero riprendere la domanda interna.

“Il New Deal americano rappresenta […] il primo tentativo concreto, dotato di una certa

coerenza e sistematicità, di contrastare i fallimenti del mercato e della sua presunta capacità

di autoregolarsi mediante un piano di riforme economiche e sociali di vasta portata”89

Il piano di Roosvelt contribuì in maniera decisiva a far vendere alle aziende americane ciò

che avevano prodotto, e che prima delle riforme non riuscivano a vendere a causa della forte

contrazione dei consumi post crisi.

Il Governo laburista guidato da Attlee, sulla scorta delle indicazione contenute nel Piano

Beveridge, riuscì in meno di un quinquennio a tradurre in atti normativi il piano. Questi

provvedimenti insieme ad una scolarizzazione sempre più di massa permisero lo sviluppo di

nuovi e moderni comparti industriali in cui si utilizzava una manodopera sempre più

specializzata. Questo a sua volta procurò un benessere sempre più diffuso poiché era oramai

chiaro, a destra e a sinistra, che solo l’intervento dello Stato poteva intervenire in questi

processi socio-economici di così vasta portata. I cittadini consumavano, le aziende

vendevano e il sistema di assicurazioni sociali era sostenibile poiché questo processo

generava le necessarie entrate tributarie.

Nei paesi del sud del mondo, tra i quali l’Africa, meno del 10%90 della popolazione ha

accesso a sistemi di protezione sociale. Molte costituzioni di paesi Africani si pongo come

obiettivo quello di assicurare protezione sociale ai propri cittadini. Come la percentuale

dimostra, questo accade in pochissimi casi. L’inadeguatezza e la debolezza dei Governi

africani gioca sicuramente un ruolo determinante in questa faccenda. Così come lo gioca

l’alto livello di corruzione e la spoliazione delle risorse naturali ad opera delle grandi

multinazionali. A mio modo di vedere però tutto questo è insufficiente a fornire un’adeguata

spiegazione per così alti livelli di povertà. E’ l’inesistenza di sistemi di protezione sociale,

89 U. Ascoli, Il Piano Beveridge: modernità e attualità dell’impianto, in Alle origini del Welfare

State, Il Rapporto su assicurazioni sociali e servizi assistenziali, Saggi di U.Ascoli, D. Benassi, E.

Mingione, Milano, Franco Angeli, 2013, pag. 148. 90 L. Rakoto, The Evolution of African Social Welfare Systems, in

http://globalvoicesonline.org/2012/06/08/the-evolution-of-african-social-welfare-systems/

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che assicurano una redistribuzione delle ricchezze, così come l’assenza di altri strumenti di

Welfare come l’istruzione o la sanità pubblica, a generare un così alto livello di povertà in

Africa e negli altri paesi del Sud del mondo.

Se ancora non bastasse questa riflessione, anche abbastanza ovvia, per capire il nesso causale

che c’è tra sistemi di Welfare avanzati e forti sistemi economici basta analizzare alcuni casi

relativi ai paesi del nord Europa. Scrive Enzo Mingione a proposito:

“[…] ci sono sistemi di welfare, come quelli dei paesi scandinavi, che avendo maturato una

più alta capacità di sviluppare misure di protezione universalistica riescono in qualche

modo già oggi ad attenuare i rischi di una società più eterogenea e instabile”91

Scrive Il Sole 24 ore a proposito della Danimarca:

“La Danimarca dovrebbe crescere del'1,6%, grazie soprattutto ai consumi privati e agli

investimenti delle imprese. La terra di Amleto primeggia tra i quattro per l'alto livello di

spesa sociale che vale ben un terzo del Pil. I cittadini ricambiano, tanto che il Paese incassa

il massimo dei voti secondo l'indicatore dell'Ocse sulla qualità della vita”92

Il Welfare garantisce qualità della vita, dignità per i cittadini e le cittadine e sviluppo

economico e sociale. Le prove a sostegno di questa tesi sono evidenti.

In conclusione, ritengo inevitabile fare un passaggio su meritocrazia e welfare. Dai dati che

ho esposto nel capitolo 3, appare evidente come la meritocrazia sia nei fatti un modo per

garantire alle élite la perpetuazione del loro potere. L’unico elemento positivo rintracciabile

nelle teorie meritocratiche è quello di un forte investimento in scuola e cultura. Ma se la

scuola, invece di essere uno strumento di livellamento, si trasforma esclusivamente in uno

strumento di selezione in base a criteri di merito senza considerare le condizioni oggettive

degli alunni, allora essa si fa strumento di coloro i quali intendono sfruttare il concetto

meritocratico tutto a loro vantaggio, sapendo di partire almeno due o tre posizioni avanti gli

altri. Per questo accostare Welfare e meritocrazia è un ossimoro. Accedere a prestazioni di

91 E. Mingione, Il Piano Beveridge e il nuovo Welfare, in Alle origini del Welfare State, Il Rapporto

su assicurazioni sociali e servizi assistenziali, Saggi di U.Ascoli, D. Benassi, E. Mingione, Milano,

Franco Angeli, 2013, pag. 174. 92 C. Bussi, In Scandinavia l’oasi europea della crescita, Il Sole 24, in http://24o.it/vlADg

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Welfare attraverso criteri meritocratici è anch’esso un modo per continuare a generare

scarsissima mobilità sociale, in Italia e nel resto dei paesi interessati da questi meccanismi.

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L’autore

Sono nato a Pescara 27 anni fa. Mi sono diplomato ragioniere

programmatore all'ITCG "G. Manthonè" e adesso sto per laurearmi

in Culture per la comunicazione presso l'Università degli studi

dell'Aquila. Ho dedicato una parte importante della mia vita agli

altri: prima fondando una famosa associazione di Pescara, la

SO.HA – GiovaniCittadiniAttivi, di cui tutt'ora sono il Vice

Coordinatore, poi dedicandomi con impegno e passione alla

Politica con la p maiuscola.

Nel corso del tempo ho avuto modo di sperimentare anche altre esperienze associative e

sociali: ho svolto un anno di servizio civile presso il Centro servizi per il Volontariato di

Pescara, sono tra i soci fondatori dell'Aisec (Associazione italiana Servizio Civile) e ho

vissuto un'importante esperienza nell'Udu (Unione degli universitari) nei miei anni vissuti

all'Aquila. Assieme ai tanti amici che ho trovato nel mondo dell'associazionismo ho

realizzato decine di progetti: ripetizioni gratuite, corsi, iniziative culturali e tante battaglie

politiche: da quelle per il diritto alla casa a quelle per le sale studio fino alle nostre importanti

iniziative contro il depotenziamento della Biblioteca Provinciale "G. D'Annunzio" e in

favore del Diritto allo studio.

Sono tutte cose di cui vado tremendamente orgoglioso e che rappresentano un pezzo decisivo

nella mia formazione umana, sociale e politica. Adesso sto portando avanti, assieme a tanti

altri, un progetto per giovani in difficoltà denominato ACT – Agire, comprendere,

trasformare. L'elemento più prezioso che ho appreso nel corso di queste esperienze, è la

profonda stima per gli esseri umani, considerazione che ha plasmato la mia visione del

mondo portandomi a definirmi un Socialista Umanista. A mio modo di vedere, le azioni

dell'uomo e le sue Politiche devono essere tutte incentrate al soddisfacimento, al benessere

e alla felicità dell'uomo stesso che deve vivere in armonia con l'ambiente circostante non

dissipando le risorse naturali e non inquinando.

Welfare e lotta alla povertà di Roberto Ettorre è distribuito con Licenza Creative Commons

Attribuzione - Non commerciale 4.0 Internazionale.

Based on a work at www.robertoettorre.eu/tesi-welfare-e-lotta-alla-poverta.pdf.

Roberto Ettorre