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Miniere di Stato Cave in disuso, ville abbandonate sperdute nella campagna del nisseno e piene di documenti, interessi privati, connessioni pericolose, bonifiche mai effettuate e pochi controlli. Su tutto, quell’ingente business chiamato rifiuto, che arricchisce le ma- fie d’ogni parte d’Italia. di Saul Caia e Rosario Sardella 4 | maggio/giugno 2015 | narcomafie L’affare ‘sotterraneo’

Miniere di Stato

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Miniere di StatoCave in disuso, ville abbandonate sperdute nella campagna del nisseno e piene di documenti, interessi privati, connessioni pericolose, bonifiche mai effettuate e pochi controlli. Su tutto, quell’ingente business chiamato rifiuto, che arricchisce le ma-fie d’ogni parte d’Italia.

di Saul Caia e Rosario Sardella

4 | maggio/giugno 2015 | narcomafie

L’affare ‘sotterraneo’

Nella villetta dei misteri se-polti. A qualche chilometro da Serradifalco, in provincia di Caltanissetta, c’è una villa abbandonata. La casa è a pochi passi da una miniera, quella di Bosco Palo. Nel giardino giacciono lastre d’amianto e rifiuti urbani. La struttura sembra essere sopravvissuta a un terremoto. Dell’interno non sopravvive più nulla. Quel che invece resta sono un centinaio di fogli buttati in terra. Docu-menti. Alcuni sono in buono stato, altri meno. Raccontano di una vicenda fosca. Sono certificati di provenienza e avvenuto trattamento di rifiuti speciali. In alto, in bella vista, il logo e il nome della società operatrice, la Aria srl. Da uno dei documenti, compilato dal direttore sanitario, si deduce di che materiale si tratti: siringhe, garze, liquidi speciali e farmaci scaduti. E poi servizi di diali-si e delle camere operatorie, solventi, reflui di radiologia, materiale di medicazione e tra-sfusionale monouso. In basso, c’è il riferimento al luogo di destinazione finale, il Consor-zio Igiene Ambiente di Coriano, Forlì. In evidenza il timbro del firmatario e dell’Usl di riferi-mento, mentre a fine pagina troviamo anche il riferimento all’impianto di smaltimento che ha contro-bollato il documento. In un altro documento c’è solo un elenco di località e date: Rimini, Riccione, Cattolica, Mi-sano Adriatica, San Giovanni. Finanche la Repubblica di San Marino. Secondo questo foglio, c’è un carico di 565mila chilo-grammi di rifiuti ospedalieri speciali da smaltire. Oltre ai fogli, nella casa c’è quel che sembra un libro contabile.

All’interno sono conservati un elenco di assegni, cambiali, fatture, assicurazioni di furgoni, biglietti di viaggi in aereo e treno, pernottamenti in albergo, ma anche scontrini di gioielle-rie e bollette della luce. Il tutto riferito alla Aria srl di Catania, che oggi però non esiste più. La documentazione fa riferimento alla titolare e amministratrice della società, Maria Di Gioia. Nel 1995, il suo nome è stato coinvolto nell’operazione Aste-rix1, condotta da Erminio Ame-lio e Salvatore De Luca, allora sostituti procuratori di Palermo. L’inchiesta aveva portato ad emettere 15 ordinanze di custo-dia cautelare e 9 provvedimenti di sospensione dalle cariche pubbliche in seguito ad accer-tamenti sull’irregolarità dello smaltimento dei rifiuti solidi e tossici delle Usl di Palermo e provincia, che venivano ritirati e stoccati violando le norme vigenti. In carcere era anda-to anche Nicolò Cammarata, all’epoca commissario straor-dinario della Usl provinciale di Palermo, che, secondo la rico-struzione, aveva una relazione con l’amministratrice dell’Aria srl e che avrebbe favorito ille-citamente per aggiudicarsi il servizio di smaltimento dei rifiuti ospedalieri delle Usl si-ciliane. L’azienda, secondo i magistrati, “non disponeva dei requisiti necessari per svolge-re il servizio”, protrattosi per oltre due anni nonostante la concessione fosse prevista per soli sei mesi.

Le testimonianze. Salvato-re Alaimo, ex assessore della provincia di Caltanissetta, è convinto che molti dei rifiuti speciali e ospedalieri siano stati

sepolti all’interno della miniera di Bosco Palo. «Di notte, arriva-vano dei grossi tir che sostavano in una piazzola poco distante dalla casa – ci racconta – poi con i camioncini piccoli da un quintale e mezzo, prendevano la merce contenuta nei camion più grandi e la trasportavano qui, all’interno della villa». L’andirivieni, durato fino al 1994, è confermato dagli abitan-ti della zona e nel marzo 1991 i carabinieri della stazione di San Cataldo verificarono e ac-certarono la presenza di rifiuti speciali ospedalieri nella villet-ta. In seguito alla segnalazione dei militari, l’amministratrice dell’Aria srl (ex Sicilconsa) venne iscritta nel registro degli indagati in un processo pena-le svoltosi a Caltanissetta, nel quale le fu contestata la viola-zione di alcune norme in merito allo smaltimento di rifiuti. La vicenda però si chiuse subito con l’oblazione richiesta dalla stessa imputata. Quel che non si conosce inve-ce è la destinazione finale dei rifiuti transitanti dalla villetta. «Secondo me li portavano là – spiega Alaimo indicando le gole della vicina miniera di Bosco Palo». Dopo il blocco dell’attività produttiva, le minie-re sono state tombate e, in molti casi, i pozzi allagati. «Non si può escludere a priori che questi siti siano stati utilizzati per smaltire rifiuti più o meno pericolosi – ci spiega Salvatore Caldara, diri-gente dell’Azienda Regionale per la Protezione dell’Ambiente Sicilia - Questo lo si potrà ve-rificare solamente quando sarà possibile accedere alle cavità sotterranee che al momento, per ovvi motivi di sicurezza, sono state tombate con delle

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piattaforme di calcestruzzo».Impossibile accedere, dunque. Come impossibile è effettuare analisi e carotaggi in profondi-tà. Per questo, durante la pri-ma ispezione nel sito, i tecnici dell’Arpa si erano fermati solo a un’analisi di superficie, che non permise “di identificare l’emettitore delle radiazioni prodotte”. Per chiarire perché il sopralluogo dell’Arpa sia stato parziale e limitato solo a un’area della miniera, abbiamo chiesto spiegazioni a Caldara. «Utilizzando altra strumenta-zione, è stata fatta una seconda campagna di controlli tra il 2011 e il 2012 che sembrereb-be confermare la nostra prima valutazione: la radioattività ri-levata è riferita alla presenza del potassio che si trova negli scarti di lavorazione della miniera». Nel frattempo, la Direzione di-strettuale antimafia di Caltanis-setta ha in mano un fascicolo intitolato Smaltimento illecito di rifiuti speciali, e sta portando

avanti le proprie indagini. Al momento, l’unica certezza è la presenza delle coperture degli impianti realizzate con pannelli di amianto che, deteriorati a causa delle intemperie, sprigio-nano nell’aria le fibre tossiche. A questo bisogna aggiungere la perdita di olio dielettrico, fuoriuscito dai macchinari di trivellazione e le masse di sale accumulate nei capannoni o in apposite aree della miniera.«Andrebbe caratterizzata l’area e poi bisognerebbe fare tutta una serie di valutazioni – ci spiega il dirigente Caldara – perché rimuovere quei quan-titativi di rifiuti è un’opera ciclopica. Stiamo parlando di una discarica di proporzioni enormi, di dimensioni pari a più campi di calcio. Quindi sarebbe opportuno valutare che tipo d’intervento svolgere».

Mafia e miniere. Il binomio che lega le cave estrattive siciliane a Cosa nostra ha una storia lunga. Parliamo di un’epoca in cui gli “uomini d’onore” avevano grossi appezzamenti di terreni e in molti casi si erano guadagnati la fama di imprenditori. Uno di questi, Calogero Vizzini, è stato tra i più influenti capi mafia della storia siciliana e azionista di maggioranza della miniera di Gessolungo, in provincia di Caltanissetta, oltre che di altre attività estrattive. Si racconta che nel 1922 avesse fatto parte di una missione internazionale a Londra, con i dirigenti della Montecatini e il futuro ministro delle finanze Guido Jung. Sco-po: trattare con altri industriali il prezzo dello zolfo. Un memoriale redatto dal Partito Comunista in Sicilia e

trasmesso nel 1964 alla Com-missione parlamentare di in-chiesta sulla mafia, raccoglie minuziosamente ogni singola infiltrazione mafiosa presente nelle cave della provincia di Caltanissetta. Qualsiasi attività che ruota attorno all’estrazione dei minerali è d’interesse della mafia, dalla manutenzione degli impianti al trasporto, passando per l’assunzione dei lavoratori. Nel complesso di Bosco e Palo, i sali potassici viaggiano sui camion di Vincenzo Arnone, uomo d’onore e compare di Gengo Russo. La sua azienda aveva vinto la gara d’appalto realizzata dalla Montecatini Spa, con un notevole ribasso del prezzo stabilito. Poco distante c’è Trabia Tallarita controllata dalla famiglia Di Cristina di Riesi; a Trabonella invece sono ancora una volta gli uomini di Vizzini e i mafiosi di Recalmuto a comandare.

Telecomandi e tritolo. «Sa quanti uomini d’onore lavo-ravano a Pasquasia? Una quin-dicina. E facevamo anche le riunioni all’interno della minie-ra; faccia il conto di quante mi-niere ci sono in Sicilia. Le cave nell’isola sono tutte in mano nostra». È il 4 dicembre 1992, seduto davanti la Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia c’è Leo-nardo Messina, detto Narduzzo, figura di spicco della famiglia di Cosa nostra a Caltanissetta e da alcuni mesi collaboratore di giustizia. Messina era stato dipendente dell’Idrofont, una ditta pulita di San Cataldo, nel-la quale ricopriva la mansione di assistente al sottosuolo a Pasquasia, una delle più gran-di miniere di sale potassico

6 | maggio/giugno 2015 | narcomafie

d’Europa, situata tra Enna e Caltanissetta.Durante l’audizione, presieduta da Luciano Violante, il boss, soffermandosi sull’attentato di Capaci confessa: «Non ab-biamo bisogno di comprare l’esplosivo all’estero perché le cave in Sicilia sono tutte in mano nostra». Un concet-to ribadito anche durante il processo Leopardo celebrato a Caltanissetta: «Tutto quello che volevamo io l’ho uscito dalla miniera – le parole di Messi-na – da detonatori elettrici a dinamite. Noi rubavamo tutto all’Italkali, un anno l’azienda disse che gli mancavano dalla contabilità 400 kg di dinamite». Lui è l’ultimo pentito ascoltato da Paolo Borsellino.

1992, l’anno delle stragi. Messina racconta che tra feb-braio e marzo di quell’anno si era tenuta una riunione nel ter-ritorio di Enna, alla quale aveva preso parte la Cupola – Riina, Provenzano, Giuseppe Madonia e Santapaola – e che nel corso di quella riunione era stata de-cisa l’eliminazione di Giovanni Falcone. Con molta probabilità il vertice di Cosa nostra aveva deciso di attuare una nuova strategia stragista e di colpire anche vecchie amicizie, come l’onorevole democristiano Sal-vo Lima e l’esattore Nino Salvo. Narduzzo era stato aggiornato sugli esiti del summit dal suo amico Liborio Micciché, detto Borino, all’epoca consigliere per la Provincia di Enna.Lima era stato anche il referente della mafia negli affari che ruo-tavano attorno a Pasquasia, aiu-tando la cooperativa La Pietrina che si occupava della pulizia dei nastri dei macchinari e che

era amministrata proprio da Miccichè e da Raffaele Bevilac-qua, esponente della corrente andreottiana della Dc e consi-derato sotto-capo della stessa ‘provincia’ mafiosa. Secondo la ricostruzione di Messina, agli atti del processo Andre-otti, Salvo Lima, contattato da Bevilacqua, aveva a sua volta fatto pressioni su Francesco Morgante (presidente dell’I-talkali), per convincerlo a dare dei lavori anche a La Pietrina, che da qualche mese era stata esclusa dalle commesse. Dopo l’intermediazione, la coopera-tiva di Micciché e Bevilacqua fu reinserita.«Noi (inteso come Cosa nostra, ndr) eravamo i padroni della miniera – racconta Messina – perché loro (riferito all’Italkali, ndr) si occupavano di scavare il sale e noi invece ci occupavamo di controllare le gallerie». Le miniere erano i fortini di Cosa nostra. «A Pasquasia c’erano tutti: Miccichè, Mazzarisi, Ar-none», spiega il collaboratore di giustizia. Degli altri due abbiamo già parlato prima, Arnone invece era riferito a Paolino, titola-re di un’azienda di trasporti e considerato uomo d’onore della famiglia di Serradifalco, arrestato durante l’operazione Leopardo condotta dalla Pro-cura di Caltanissetta nel 1992.

La miniera atomica. Da cir-ca vent’anni sono tante le in-chieste giudiziarie che si sono susseguite sulla miniera di Pasquasia. Tuttavia, ad oggi, non sappiamo cosa nascon-dano quelle gallerie. Secondo uno studio dell’Arpa Sicilia, delle Asp di Enna e Palermo e i rilevamenti dei vigili del

fuoco (commissionati dalla Pro-cura di Enna), nella miniera ci sarebbero 9 mila quintali di amianto per 15 milioni di chili di terreno contaminati. Nel 2011, erano finiti sotto in-dagine Raffaele Lombardo (che ricopriva la duplice funzione di governatore e commissario delegato in materia di bonifica e risanamento ambientale), gli assessori Piercarmelo Russo e Giosuè Marino, e il consegna-tario della miniera Pasquale La Rosa. Per loro, l’accusa conte-stava i reati di omissione d’atti d’ufficio e la gestione di rifiuti – amianto, nello specifico – non autorizzata. Il processo è attualmente in corso.

La chiusura e l’abbandono. Nel 1992 la miniera, attiva dal ’59 e terzo polo estrattivo al mondo per sali potassici, ferma la produzione. Ufficialmente perché gli scarti di lavorazione finivano nei fiumi Salso e Sa-lito. Nel ’91 la Regione stanzia 70 miliardi di lire per la co-struzione di impianti di depu-razione a scarico controllato. I concorrenti tedeschi della Kali und Sulz, però, impugnano la proposta siciliana a Bruxelles, perché ritengono che favorisca l’Italkali (società a capitale mi-sto che la gestiva insieme alla Regione Sicilia), ponendola in una posizione privilegiata sul mercato. Ne segue una lunghis-sima battaglia giuridico-legale tra la commissione europea e la Regione Sicilia, conclusasi a favore dell’Italia. Nel dicembre del 1992 la Giunta regionale rende pubblico l’appalto, ag-giudicato dal raggruppamento di imprese Astaldi spa. Ma di nuovo tutto si blocca perché, secondo gli uffici regionali, la

“disponibilità economica non risultava sufficiente per l’insie-me delle opere del progetto”. Il tempo passa, i lavori non ini-ziano mai, i soldi scompaiono.

Gli studi dell’Enea. Parallela-mente all’estrazione mineraria, alla fine degli anni ’70, la Co-munità Europea chiese a tutti i Paesi membri di realizzare degli studi per cercare siti idonei a ospitare minerali radioattivi, di bassa e di alta intensità, con un decadimento che poteva rag-giungere i 25 mila o i 100 mila anni. L’elenco prevedeva 134 siti, e tra i 12 situati in Sicilia c’era Pasquasia. Negli anni ’80, l’Ente nazionale per l’energia atomica (Enea) e l’Italkali firma-rono un accordo quinquennale che consentiva agli scienziati di realizzare nella cava un la-boratorio a 400 metri di pro-fondità, per studiare le argille del sottosuolo e capire se era possibile costruire un deposito nucleare. I quotidiani riportano la notizia e la popolazione, spaventata dall’ancora recente disastro di Chernobyl, insorge. A farsi portavoce della battaglia è il sindaco di Enna, il demo-cristiano Emanuele Lauria, che spinge la Regione a intervenire. Si apre un dibattito che portera alla revoca dell’autorizzazione allo studio. Nello stesso tempo, la Procura di Enna pone i sigilli al laboratorio. «Il nostro era uno studio sperimentale – spiega a Narcomafie il professor Enzo Farabegoli, che negli anni ’80 prese parte agli studi – non c’era niente di nascosto o di segreto, realizzavamo dei report che sono ancora oggi consultabili all’Enea. Le posso confermare che non c’è neppure un granello radioattivo dentro la miniera».

7 | maggio/giugno 2015 | narcomafie

Diversi anni dopo, ancora Le-onardo Messina racconta al Procuratore antimafia Luigi Vigna che il Sisde si era inte-ressato parallelamente allo stu-dio dell’Enea. Pare infatti che i servizi segreti in forma ufficiosa avrebbero chiesto ai funzionari pubblici locali il nulla osta per seppellire materiale di natura militare altamente nocivo.

In Commissione antimafia. Alcuni anni dopo la chiusura, nel 1997, l’avvocato agrigentino Giuseppe Scozzari, deputato de La Rete e componente della Commissione antimafia, porta all’attenzione del Governo la vicenda di Pasquasia e il pos-sibile occultamento di rifiuti speciali. «Avevo parlato con molti minatori del luogo – ci racconta Scozzari – i quali mi avevano segnalato un movi-mento di camion che entravano e uscivano in orari e giorni inconsueti, considerando so-prattutto che la cava era chiusa e abbandonata già da alcuni anni». Scozzari scrive un’in-terrogazione parlamentare per informare e chiedere chiarezza al Governo, consegnando lo stesso atto alla Procura di Cal-tanissetta e alla Commissione di cui era componente.Il Procuratore della Repubblica nissena è Giovanni Tinebra, che in quegli anni si sta occupan-do delle stragi di Capaci e via D’Amelio e che viene convocato a Roma dalla Commissione. Durante l’audizione, il magi-strato spiega che di Pasquasia «i giornali se ne erano occupati a sproposito» e che la fuga di notizie avrebbe «ingenerato un allarme superiore alla portata della questione». Ma tornando a parlare dei possibili sospetti

che ruotavano attorno alle cave, spiega che «abbiamo tutta una serie di indicatori che ci por-tano a sospettare una pesante presenza di Cosa nostra nell’at-tività di raccolta, stoccaggio e smaltimento di rifiuti speciali e tossici». A un certo punto però il magistrato chiede di passare alla seduta segreta. A distanza di anni, Scozzari, pre-sente all’audizione, ha spiegato che «probabilmente all’epoca dire che si stava indagando su Pasquasia poteva essere un fattore di rischio».Fu l’ultima occasione ufficiale in cui si parlò di occultamen-to di rifiuti nelle cave. Solo nel 2003 Giuseppe Regalbuto. presidente della Commissione speciale sulle miniere dismesse dell’Unione regionale province siciliane (Urps), chiese ai ma-gistrati di Caltanissetta lumi sugli sviluppi delle indagini. Sergio Lari, procuratore capo, rispose che c’erano stati degli accertamenti su «noti indagati» per reati di «smaltimento ille-cito di rifiuti anche radioattivi all’interno della miniera», ma che «tali atti tuttavia non sono ostensibili in quanto coperti da segreto».«Questo – aggiunge Scozzari – è un altro dei dilemmi di questo Paese: come mai il Governo non ha mai fatto chiarezza sul-la triste storia delle miniere, chiuse per volontà privata e per complicità pubblica».

Mamma Regione e gli enti in-formali. Aveva già capito tutto l’ingegnere Domenico La Ca-vera, detto Mimì, uno dei pro-motori della So.Fi.S. (Società Finanziaria siciliana), nonché ideatore di Sicindustria, il ramo distaccato nell’isola di Confin-

dustria: «Il sale e il potassio erano da considerarsi il nostro tesoro. Dopo che si dimostrò che lo zolfo non era più eco-nomicamente valido e troppo costoso anche in termini di vite umane. Inoltre l’impossibilità della burocrazia regionale di agire in senso imprenditoria-le e tanto altro ancora, fece scomparire il sale dalle nostre produzioni. Insomma la Sicilia dopo lo zolfo poteva diventare la regina del sale. Non fu così».Siamo negli anni Cinquanta, la Regione ha affidato il timone del nuovo programma econo-mico all’avvocato Vito Guarrasi, nominato Segretario generale del piano quinquennale per la ricostruzione della Sicilia. Ha il compito di gestire in maniera autonoma e diretta qualsiasi de-cisione o trattativa in merito alle vicende economico-finanziarie che riguardano il territorio iso-lano. Vito è figlio di Raffaele, ricco proprietario terriero di Alcamo, dal quale eredita i vi-gneti del famoso vino Rapitalà. Guarrasi ha amicizie importanti: Enrico Mattei e Eugenio Cefis, e i banchieri Enrico Cuccia e Michele Sindona. L’avvocato appartiene inoltre alla sezione siciliana dell’antica loggia della Massoneria universale di rito scozzese antico e accettato, Su-premo Consiglio d’Italia, che si riunisce segretamente a Palermo, dove incontra boss mafiosi, ma anche magistrati, imprenditori, avvocati. Conosce per esempio i fratelli Ignazio e Nino Salvo (considerato l’esattore di Cosa nostra), Salvatore Greco Ciaschi-teddu, ovvero il capo della prima ‘commissione’ della mafia, ed il cugino Totò Greco detto l’in-gegnere, entrambi appartenenti alla famiglia di Ciaculli.

La So.Fi.S. A dieci anni dalla sua costituzione, l’ente regio-nale conta 55 partecipazioni azionarie in svariate società e debiti stimati intorno ai 3 miliardi di lire. L’idea di una Regione imprenditrice scric-chiola. Ma invece di rivede-re le strategie economiche, la politica dà vita a nuovi enti. Nascono l’Ente minerario ci-ciliano (Ems), la Società chi-mica mineraria ciciliana (So.Chi.Mi.Si) e l’Ente sviluppo industriale (Espi). A gestirne i fondi è Graziano Verzotto, democristiano di area Fanfani, veneto di nascita ma siciliano d’adozione, che qualche anno prima aveva accompagnato Enrico Mattei nella direzione dell’Eni. Verzotto non ha solo importanti contatti politici e imprenditoriali. Nel settembre 1960 insieme al boss catanese Giuseppe ‘Pippo’ Calderone, detto Cannarozze d’argento per via di una protesi metallica alla gola, è testimone di nozze del padrino Giuseppe Di Cristina, capo dell’omonima famiglia di Riesi e figura di spicco di Cosa nostra in Sicilia. Molti anni dopo, proprio in una società regionale controllata da Ver-zotto, il boss Di Cristina viene assunto come tesoriere.La famiglia di Riesi controlla anche la miniera Trabia Talla-rita, a metà strada tra i paesi di Riesi e Sommatino, nell’entro-terra della Sicilia. In contrasto con le leggi regionali e i regola-menti, usavano per il trasporto degli operai camion malsicuri anziché gli autobus come da legge prescritto. A Riesi tutti conoscevano la situazione, ma le autorità competenti non in-tervennero. Le autorità erano loro, i Di Cristina.

8 | maggio/giugno 2015 | narcomafie

La carriera di Verzotto è stronca-ta negli anni Settanta da un’in-chiesta congiunta delle procure di Milano e Palermo sui fondi neri che l’Ems aveva dirottato sui conti svizzeri di Sindona. Viene spiccato un mandato di cattura e per evitare l’arresto fugge latitante in Libano.Dalla ricostruzione degli in-quirenti emerge che l’Ente mi-nerario, il quale già disponeva di una concessione di finanzia-menti con il Banco di Sicilia, deposita svariate somme in altri due istituti di credito: la Banca Unione di Michele Sindona e la Banca Loria, successivamente confluita nella Banca di Mi-lano, di cui lo stesso Verzotto risultava consigliere d’ammi-nistrazione. Nell’inchiesta si fa riferimento a una parte di pagamenti d’interessi – tra il 5 e 6% – che venivano conta-bilizzati nei bilanci dell’Ems, mentre la parte restante – tra il 1,25 e il 2,5% – era versata direttamente in nero. Secondo gli inquirenti, circa 120 milioni di lire vengono intascati da uo-mini vicini a Verzotto, tramite assegni e contanti.

Il business delle bonifiche. Il primo vero passo per la bonifica di una miniera in Sicilia è stato fatto a Pasquasia, quando la Regione ha incaricato la società Sviluppo Italia di redigere un piano di messa in sicurezza del sito. Gli interventi prevedevano la possibilità di realizzare una nuova discarica all’interno del perimetro della miniera. Tutta-via, la presenza di 9 quintali di eternit e il fatto che tutti i capannoni fossero realizzati in cemento-amianto, resero im-possibile ogni attività. Senza contare il fatto che mancava-

no i siti per accogliere un tale quantitativo di rifiuto speciale. Il sito è stato inoltre oggetto di ripetuti sabotaggi: l’ultimo è accaduto nel dicembre 2013, quando ignoti provocarono la fuoriuscita di olio dielettrico. Nessuno sembrò accorgersi di nulla, neanche il servizio di vigilanza che, interpellato dal consegnatario dei siti minerari dismessi Pasquale Larosa (at-tualmente sotto processo per omissioni di atti d’ufficio e disastro ambientale), riferì di non aver notato alcuna anoma-lia nell’area interessata.Per la bonifica, il ministero dell’Ambiente stanziò venti milioni di euro. Ad aggiudicarsi l’appalto fu la 1 Emme soluzio-ni ambientali srl di Bergamo. Ma l’azienda Consap di Milano decide di fare ricorso al Tar, sostenendo che i suoi avversari bergamaschi «non avrebbero i titoli» per aggiudicarsi la gara. Dopo alcuni mesi di dibattito, fu il Tar del Lazio a conferma re la decisione presa dal mi-nistero e a consentire l’inizio dei lavori. Quando tutto però sembrò risolto, ad intervenire fu la Direzione distrettuale an-

timafia di Caltanissetta, poiché notò anomalie nel lavoro della 1 Emme. Le indagini portano all’arresto di cinque persone trovate con un grosso quantita-tivo di rame e altri rifiuti ferrosi che secondo gli inquirenti sono stati rubati nel sito minerario. In particolare, i giudici dispon-gono dei campionamenti su cinque semirimorchi che tra-sportavano 106 tonnellate di “cemento-amianto” prelevato nella cava. I tecnici dell’Ar-pa e del Noe analizzano un pacco di onduline per ogni semirimorchio, constatando che “la superficie delle lastre non è stata preliminarmente trattata per rendere efficace il riferimento incapsulante” e che “la vernice incapsulante, necessaria al fine di evitare l’aero-dispersione delle fibre di amianto, risulta non unifor-memente distribuita” . In altre parole, la bonifica realizzata sui pannelli d’amianto è stata parziale e incompleta.Ad avvalorare la tesi degli in-quirenti ci sono anche le in-tercettazioni ambientali. Nel corso di un dialogo tra un di-pendente e un tecnico della 1

9 | maggio/giugno 2015 | narcomafie

Emme si fa riferimento proprio al trattamento dei pannelli in amianto, che “per risparmiare” viene fatto solo “su una parte” e non su tutta la lastra. Queste dichiarazioni evi-denziano, secondo i giudici, “l’esistenza di un più ampio sistema di illegalità all’interno del sito con la consapevolezza e l’iniziativa dei referenti della società appaltatrice”. Nel corso delle operazioni viene sequestra-ta una somma di denaro trovata all’interno di automezzi prove-nienti dal casertano, sul quale si sarebbe dovuto trasportare il rame. Le ipotesi di reato su cui si procede vanno dal traffico illecito di rifiuti tossico-nocivi all’associazione per delinquere finalizzata alla frode in pubbli-che forniture e a vari reati con-tro la pubblica amministrazione e la fede pubblica.«Non c’è dubbio che le mi-niere – spiega a Narcomafie il procuratore della Repubblica di Caltanissetta Sergio Lari – in Si-cilia come in altri luoghi, siano oggetto di grande interesse. Il problema della messa in sicu-rezza delle cave abbandonate e dell’eliminazione dei rifiuti tossici e nocivi, soprattutto l’a-mianto, costituisce una grande attrazione per le imprese che operano in questo settore».Camion pieni di tonnellate di rame prelevate dalle miniere e trasportati da corrieri in Cam-pania. Un nuovo business tra mafia e camorra casertana.

Commissioni, interrogazioni e atti parlamentari. La com-plessa vicenda delle minie-re siciliane è stata più volte portata all’attenzione del go-verno nazionale, sollecitato da numerose interrogazioni

parlamentari. La prima in as-soluto, come già detto, è stata quella dell’ex deputato della Rete Giuseppe Scozzari, inte-ressato alle vicende societarie dell’Italkali, azienda a capitale privato e detentrice per il 49% delle miniere dell’isola gestite insieme alla Regione Sicilia per mezzo dell’Ente minerario siciliano. Diversi anni più tardi, agli inizi degli anni 2000, il deputato palermitano Vincenzo Fragalà, del gruppo Alleanza Nazionale, chiede al Governo Berlusconi di far luce sulle motivazioni che hanno porta-to alla chiusura di Pasquasia. Nel testo dell’interrogazione, l’avvocato era convinto che il blocco produttivo fosse stato provocato da “un condizio-namento venuto da altri due protagonisti dell’oligopolio”, all’epoca Canada e Germania. Al termine della carriera politi-ca, Fragalà torna a interessarsi delle vicende minerarie dell’i-sola scrivendo – nel gennaio 2010 – una lettera ad Adolfo Urso (suo compagno di partito e sottosegretario dello Sviluppo economico) per invitarlo ad un incontro a Enna per discu-tere della possibile riapertura di Pasquasia. Un mese dopo l’avvocato viene aggredito a colpi di mazza uscendo dal suo studio legale vicino al palazzo di giustizia di Palermo. Muore in ospedale dopo tre giorni di coma. Malgrado le tante ipotesi fatte dagli inquirenti, le inda-gini non hanno portato a iden-tificare esecutori e mandanti.Un contributo alla verità sulle miniere siciliane è arrivato con la realizzazione della video inchiesta Miniere di Stato, tra-smessa su RaiNews e finalista del premio ‘Roberto Morrione’,

che traccia un possibile qua-dro sullo smaltimento di rifiuti all’interno delle miniere.I documenti trovati nella vil-letta dei misteri a Serradifalco sembrano avvalorare quest’ul-tima tesi, e per questo motivo il deputato Erasmo Palazzotto di Sinistra ecologia e libertà, interroga i ministeri dell’Am-biente e dell’Interno affinché facciano luce sulla vicenda, chiedendo inoltre di spiegare i tempi relativi alle bonifiche. «Nell’interrogazione, che non ha ancora ricevuto risposta – aggiunge lo stesso Palazzotto successivamente – appare logico ipotizzare che l’area mineraria dismessa tra le provincie di Enna e Caltanissetta, a causa della totale mancanza di vigilanza, possa essere identificata come l’area finale dello stoccaggio ille-gale dei rifiuti speciali. Anche per via di una forte presenza mafiosa nel territorio».I componenti del Movimento 5 Stelle dell’Assemblea regio-nale siciliana hanno chiesto e ottenuto l’istituzione di una sot-tocommissione di studio sui siti minerari siciliani legata alla terza commissione (quella alle Attivi-tà produttive). «Siamo in una fase di studio – spiega Giancarlo Cancelleri, capogruppo M5S all’Ars – inizialmente proce-deremo con la mappatura dei siti, poi incroceremo i dati con le informazioni relative agli studi sanitari dei luoghi, per capire se c’è una correlazione tra l’inquinamento del terri-torio e le malattie, soprattutto oncologiche. Infine, abbiamo intenzione di proporre un piano di bonifica che possa portare successivamente alla riapertura dei siti e usufruire delle miniere come luoghi turistici».

10 | maggio/giugno 2015 | narcomafie