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zanella storia del arte Contemporanea10

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Storia dell’arte 2012/2013

Biennio specialistico : storia dell’arte contemporanea,

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El Anatsui, Versatility, 2006alluminio e filo di rame, 487,7 x 584,6 cmLos Angeles, Fowler Museum et UCLA

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Subodh Gupta, Very Hungry God, 2006acciaio inossidabilecollezione privata

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Arte africana contemporanea

Nel XIX secolo fu abolito lo schiavismo, rimpiazzato progressivamente, rimpiazzato da un governo coloniale contestato si dall’inizio dagli intellettuali locali. Da questo periodo di stravolgimenti politici e tecnologici sono nate le tre tendenze dell’arte visiva africana: lo sviluppo della fotografia, la resistenza delle tradizioni locali, cerimonie, maschere, pratiche di guarigione, tessuti e abiti, e l’ emergenza di nuove forme d’arte in pittura, incisione, scultura, arte pubblica e istallazioni. Il tentativo degli olandesi di concorrenza al batik indonesiano ha aperto lo sbocco a una nuova tradizione di tessuti stampati africani.

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La fotografia è comparsa nelle città della costa ovest dell’Africa dagli anni 1840, praticata da africani, afroamericani o europei. Le tradizioni africane del ritratto e dell’illustrazione evitano l’esotismo e il primitivismo già sfruttati dagli europei. La fotografia è diventata un modo ricercato di rappresentazione del sé: nelle case africane, le foto mischiano le nozioni di stato, di moda, di tradizione e di modernità. Tra i ritratisti di primo piano il Maliano Seydou Keita (1921-2001) lavorava a Barnako negli anni 1950.

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Zwelethu Mhtetwa, Senza titolo, seie dei tagliatori di canna da zucchero, 2003Fotografia a colori, 14,8 x 19,3 cm, Parigi, Centro Georges Pompidou

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La pittura

Il primo pittore moderno dell’Africa Subsahariana a utilizzare il cavalletto, la tela e i colori ad olio è stato Aina Onabolu (1882-1963) di Lagos, in Nigeria. Fu seguito da Ben Enwonwu (1921-1994), primo artista di reputazione internazionale. La pubblicità fatta a questi sviluppi in Nigeria, ha avuto seguito in Uganda. Alla fine degli anni 1950, un gruppo di studenti guidati da Uche Okeke (1933), Bruce Onobrakpeya (1932) e altri artisti intraprendenti, riforma il programma di studio sotto il titolo «Natural Synthesis»: ricercano una coerenza tra miti, racconti, arti corporee, sostenendo che queste tradizioni possono arricchire l’arte nigeriana moderna

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Uche Okeke, Fiori in un vaso, 1960gouache su carta, 56x 38 cmNew York, Skoto GalleryQuesto quadro è un esempio del lavoro dell’artista in questo periodo. Da allora il Nigeria ha visto crescere il sostegno locale, nazionale e individuale dell’arte e in diverse università sono stati creati dei dipartimenti di “belle arti” o di grafica. Intanto, mentre delle scuole d’arte aprono le porte in tutti i paesi, l’apprendistato diretto resta un punto di partenza della pratica delle arti visive, come nelle pitture di insegne del congolese Chéri Samba (1956) e del ganiano Kwamw Akoto (1950, conosciuto anche come Almighty God). Ogni tanto appare qualche visonario come Frédéric Bruly Bouabré (1923). Della Costa d’Avorio, funzionario civile, sceglie il disegno, dopo una visione dell’attività cosmica, come guida per comprendere il mondo.

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Romuald Hazoumé, La Senegalese, 1992recipiente di plastica e stoffa

Romuald Hazoumé (1962) diventa un artista ritrovando dei volti nei rifuiti di plastica abbandonati a Porto-Novo. La sua opera è rappresentativa di una nuova generazione di artisti, fuori dalle traiettorie di formazione abituali. Hazoumé ha attirato l’attenzione grazie a queste maschere che non erano destinate né a essere portate, né a partecipare a delle performances; mettevano semplicemente l’accento sulle possibilità antropomorfiche dei recipienti di plastica buttati via e attiravano l’attenzione sulle enormi quantità di rifiuti accumulati nelle città africane. La Senegalese porta un pezzo di stoffa come foulard tradizionale; sebbene ispirata da maschere iniziatiche, questa ha piuttosto un valore sociale e non religioso.

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Arte e apartheid

Nell’Africa del Sud del XIX secolo, le tradizioni della popolazione nera esprimono la discriminazione sessuale, l’iniziazione alla maturità, la guerra e la gerarchia sociale. Nelle regioni rurali e nei municipi neri cresce l’interesse per la pittura, la scultura, le arti grafiche e le istallazioni. Alcuni artisti come Gérard Sekoto (1913-1933) sono allora costretti a vivere e lavorare in Europa. Sotto il regime dell’apartheid si considerava poco prudente insegnare l’arte ai neri africani nonostante si siano sviluppati dei progetti artistici cono il sostegno dei bianchi, come il Polly Street art Centre di Johannesburg negli anni 1950 o l’Arte Centre Rorke’s Drift nel Natal negli anni 1960. Dopo la chiusura di Polly Street alcuni artisti bianchi come Bill Ainslie (1934-1989) aprono il loro atelier agli artisti africani tra i quali David Koloane (1938)

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Jackson Hlungwanu, Il trono di Jackson, 1989legno e acciaio, 120x70x80 cmGauteng, Randburg Gallery

Questi artisti e altri tra i quali Penny Siopsis (1953) e Jane Alexander (1959) mettono in evidenza le ferite dell’apartheid mentre le fotografie di Zwelethu Mthethwa (1960) rivelano la continuazione dell’eredità ineguale. Allo stesso momento, nel Transvaal rurale, Jackson Hlungwanu (1923-2010) continua il suo lavoro di guarigione del mondo costruendosi una propria New Jerusalem. Il Trono di Jack è un esempio tipico della sua scultura rude e possente.

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Romuald Hazoumé, ARTicle 14, 2005istallazioneLondra, October Gallery

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L’artista e l’opera

Hazoumé è nato a Porto-Novo (Repubblica del Benin), una città cosmopolita dalle radici storiche essendo stata il porto principale dell’impero di Oyo e mercato di tutti i tipi, anche di schiavi. Questa regione è il soggetto di Hazoumé. Negli anni 1980 la sua opera ha risonanza internazionale e nel 1992 è consacrato dalla mosra «Out of Africa» alla galleria Saatchi a Londra e nel 2007 è premiato a Kassel.ARTicle 14 deve il suo nome all’ipotetico articolo 14 delle costituzioni africane: «Sbrigatela da solo». L’istallazione è un omaggio ai mercanti di strada che lottano per la sopravvivenza nelle città dell’Africa occidentale. È anche una critica al consumismo e alla globalizzazione: calzoncini da calcio, portatili, giochi di plastica o DVD sono importati in Africa. Hazoumé mette l’accento sull’ineguaglianza del commercio tra Europa e Africa che oltretutto invade di rifiuti il continente. Il riutilizzo degli oggetti di recupero mette anche in evidenza la capacità del popolo africano di sbrigarsela con poco. Dietro al carretto si vedono delle fotografie panoramiche di mercati di strada che in qualche modo contrastano con l’immagine del carretto.

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Yue Minjun, Esecuzione, 1995olio su tela, 150 x 300 cmcollezione privata

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L’arte dell’Estremo Oriente

La vendita di Esecuzione di Yue Minjun (1962) per 5,9 milioni di dollari da Sotheby’s a Londra nel 2007, ne fa l’opera più cara d’arte contemporanea cinese. La sua somiglianza con Los fucilamientos de 3 mayo di Goya, illustra l’influenza dell’iconografia occidentale in Oriente. Il volto con le pupille chiuse e il riso fisso (autoritratto) è il motivo ricorrente della composizione; suggerisce la dissimulazione delle emozioni.

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Cina

L’arte contemporanea cinese, ancora giovane, ha già passato diverse tappe. La politica di liberalizzazione degli anni 1970 ha condotto a un periodo di attività frenetica. Gli artisti hanno arricchito la loro ispirazione delle performances e delle mostre che gli davano per la prima volta accesso all’arte contemporanea occidentale e hanno sperimentato ogni stile e mezzo. Tuttavia, dopo le manifestazioni brutalmente represse di piazza Tienanmen nel 1989, si pongono sempre di più la questione dell’identità culturale. Appare la «pop art politica» che porterà alla pop art e al «realismo cinico» che si interessa direttamente alle questioni sociopolitiche. Artisti come Zhang Xiaogang (1958) si interessano al passato del loro paese in opere come quele della serie «Bloodline» (1997); ma il governo che considera sovversiva l’arte contemporanea, impedisce a questi artisti di esporre in pubblico.

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Zhang Huan, estratto dalla performance Family treeNew York, 2008

Alcuni artisti si esiliano in Occidente. Zhang Huan (1965) in particolare presenta una serie di performances: in Famili tree invita tre calligrafi a scrivere dei testi cinesi sul suo viso, fino a che questo non diventa completamente nero. In occasione dei Giochi Olimpici di Pechino del 2008, alcune restrizioni – almeno quelle che riguardavano l’arte apolitica – si allentano e diversi artisti ritornano in Cina, apportando nuove idee e nuove influenze.

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La serie «Boodline» di Zhang Xiaogang del 1997

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I dettagli

I cinesi considerano la società come una grande famiglia che deve essere unita. I difensori di questo modello pretendono che gli individui si vedano attribuire all’interno della famiglia delle responsabilità nelle loro relazioni e verso l’esterno passeranno ciò che hanno appreso nel nucleo familiare, collaborando alla pace e all’armonia della società …. L’artista si interroga su ciò che resta dell’individualità in una cultura che dà priorità ai bisogni della società. Per questa serie si ispira ai ritratti di famiglia realizzati in studio durante la rivoluzione culturale (1966-1976). I membri della famiglia, che sembrano maschere imperturbabili sono praticamente intercambiabili. Le macchie gialle evocano le macchie delle vecchie foto, ma potrebbero essere anche macchie di nascita.

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Il bambino

Il bambino corrisponde al fulcro del ritratto. Lo sguardo dello spettatore è attirato dal suo volto giallo che contrasta con gli altri. I suoi genitali sono visibili e indicano quasi una vulnerabilità del personaggio. Dalle orecchie esce una linea rossa che si ritrova negli altri personaggi e rappresenta il legame di sangue che li unisce e in senso più largo i legami storici e culturali che legano i personaggi alla società.

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Il modello Un ritratto del XVIII secolo

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Giappone

In Giappone le arti visive soffrivano da un po’ di tempo del giudizio negativo degli occidentali. Ben che i concetti occidentali abbiano largamente stimolato l’arte giapponese, hanno avuto l’effetto di distruggerne l’integrità. Per comprendere l’arte giapponese di oggi, bisogna ricordare questa frattura identitaria. La sconfitta del Giappone alla fine della Seconda Guerra mondiale e la dominazione delle forze culturali e politiche americane hanno pesato sullo sviluppo dell’arte giapponese del dopoguerra. L’apertura del padiglione giapponese alla Biennale di Venezia nel 1956 annuncia il ritorno del Giappone nel mondo artistico internazionale. Ratificato definitivamente dieci anni dopo, con la prima mostra Gutai a parigi, alla galleria Stadler.

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Yayoi Kusama, Camera-specchio (zucca), Se il movimento Gutai costituisce un caso a parte, forse, in generale molti artisti giapponesi sono legati ai movimenti d’avanguardia occidentali. Ne risultano opere come l’istallazione Camera-specchio (zucca) di Kusama (1929). L’opera psichedelica di questo artista rimanda all’arte astratta e op art. Gli specchi della stanza dal colore di una zucca moltiplicano all’infinito i pallini che circondano lo spettatore sin dal suo ingresso in questo spazio.

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Mariko MoriA partire dagli anni 1980 l’arte giapponese eccita la curiosità; appare come un prodotto ibrido di una società dallo sviluppo tecnologico estremo, un coacervo unico di antico e di moderno. Con l’esplosione della bolla economica negli anni 1990 e la crisi, la società giapponese si confronta ad una sfida senza precedenti e i giovani artisti si interrogano sulla natura dell’identità giapponese. Ne derivano opere come quelle di Mariko Mori e di Takashi Murakami che hanno allargato l’audience dell’qrte giapponese.

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Takashi Murakami, 727, 1996acrilico su tela montata su tavola, 300 x 450 cmNew York, MoMA

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Quest’opera, una delle prime di Murakami, illustra la sua visione artistica e la sua tecnica. Mescola elementi artistici occidentali e giapponesi. Il suo titolo rimanda a una marca di cosmetici giapponesi e a un tipo di aereo a reazione civile. Sembra che Murakami abbia trovato questa diversità di significato originale e divertente. L’immagine centrale è una delle prime versioni di un suo personaggio ricorrente, Mr DOB, che creò nel 1993. Questa entità ambigua, amalgama di Doreamon (un gatto robot di una serie manga popolare in Giappone) e del personaggio dei giochi video Sonic the Hedgedog, incarna lo sviluppo complesso dei manga e dei film d’animazione giapponesi del dopoguerra. E guardando bene c’è anche una certa rassomiglianza con Mickey Mouse. Per Murakami l’influenza della sottocultura americana sul Giappone del dopoguerra è legato alla stasi della cultura, della società e della politica giapponesi.

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Il richiamo alla tradizione

Se la composizione in tre pannelli evoca quella dei paraventi giapponesi tradizionali, mette anche l’accento sull’aspetto piatto dell’immagine. Spesso Murakami utilizza fondi monocromi per produrre una superficie liscia ma come si vede dalla patina, data con diversi strati di pittura applicata e grattata, come nei quadri nihonga del XIX secolo. Allo stesso tempo l’onda ricorda quelle delle xilografie di Hokusai. Murakami confronta lo stile tradizionale al movimento fluido delle animazioni contemporanee e dell’immaginario manga.

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Mr Dob

IL personaggio di Mr Dob, entità minacciosa che cambia in continuazione impregna la società giapponese fino a divenire una sorta di referenza onnipresente. Il nome compare nell’immagine D sull’oreccchio sinistro, la O è sulla fronte e la B sull’orecchio destro . È un’abbreviazione di una parola giapponese dobojite che significa perché e viene da un film d’animazione IL Generale Inakappe. La bocca con i denti appuntiti che fa pensare ad un ghigno malevolo è un motivo che si ritrova in diversi personaggi di Murakami. IL personaggio vuole essere assurdo, aggressivo, ma anche sottolineare l’assenza di significato del quadro.

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Corea

In Corea del Sud il contesto nel quale i movimenti artistici emergono maggiormente dopo la guerra di Corea era puramente locale, come lo erano le fonti artistiche alle quali si riferivano gli artisti, dalla pittura all’inchiostro e dalla porcellana bianca alla cheramica buncheong. La maggior parte degli artisti sudcoreani scoprirono l’arte occidentale nel loro paese e più tardi studiando all’estero. I temi di identità, del movimento e della comunicazione saranno esplorati nel corso degli anni 1990 da artisti il cui lavoro era già riconosciuto. È il caso della performance Cities on the Move- 2727 km Bottari Truck (1997) di Kimsooja (1957). Ma le tradizioni coreane restano importanti e alcuni movimenti come il Munginimhoe (gruppo della foresta d’inchiostro) si esprimono con tecniche tradizionali e altri rimandano alla pittura popolare.

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Kimsooja, Cities on the Move-2727 km Bottari Truck, 1997fotografia della performance da un cortometraggio

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Il nomadismo e altri temi

L’artista sudcoreana Kimsoja lavora su una vasta gamma di media: video, istallazioni, performances e fotografie. Esplora il nomadismo, il ruolo delle donne nella società e le relazioni dell’individuo con la società e con se stesso. In un tentativo di sottolineare le somiglianze e le differenze tra le diverse culture e le loro convinzioni spirituali, fa riferimento alla cristianità, al buddismo zen, al confucianesimo, allo sciamanismo e al taoismo.

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Bottari TruckIn questa performance l’artista è seduta su un ammasso di bottari che significa pacchi multicolori attaccati su un camion. La gente del popolo utilzza i pacchetti per trasportare ogni cosa, ma fare i pacchetti indica che la donna deve partire dalla sua casa. Tranquilla, immobile e solitaria ha percorso 2727 km in undici giorni attraverso la Corea nel 1997. Ha rivissuto la sua infanzia nomade seguendo la sua famiglia di militari. Vuole anche dire che il corpo è come uno dei pacchetti trasportati dal camion. Il Bottari Truck è un progetto a lungo termine che ha istallato con una struttura di specchi alla biennale di Venezia del 1999 (Dappertutto o Bottari Truck in Exile) e l’ha dedicato ai rifugiati del Kosovo. Nel 2005 a Colonia in una ex prigione nazista. L’opera è tra l’introspettivo e l’impegno politico, cambiando in continuazione punti di riferimento. Nei cideo si vede la sagoma dell’artista : silhouette anonima davanti al paesaggio che sfila, potrebbe essere chiunque, un rifugiato dalla guerra, una donna che rientra in famiglia, un emigrante, un vagabondo….

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Lotus: zone of Zero

Duemila lanterne sospese in forma di loto e il suono di canti tibetani, gregoriani e islamici avviluppavano l’auditorium di Lotus: zone of zero nel 2008 alla Galleria Ravenstein di Bruxelles. Questa realizzazione mescolava credenze religiose e significati culturali diversi. Il fiore di loto simbolizza i concetti buddisti di purezza e di causa e effetto. La struttura forma dei cerchi come il rosone di una chiesa. Il cerchio è anche alla base dei motivi dell’arte islamica e dei mandala indu e buddisti.

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L’arte dell’America Latina

La maggior parte delle opere prodotte nel corso del XX secolo in America Latina esprime la storia coloniale della regione e mira a creare una identità indipendente di influenza europea. Gli artisti d’America Latina, in generale, hanno voluto reinterpretare le origini della loro terra. Gli elementi locali ne sono stati rappresentati in maniera eclettica e i simboli sono stati rivisitati. Così un opera come Abaporu (1928) di Tarsila Do Amaral (1886-1973) ha ispirato il «movimento antropofago» che mirava a risituare alcuni elementi della cultura europea, in un contesto «più brasiliano». Più recentemente le opere di artisti come Vladimir Cybil (1967) e Andre Juste (1956) di Haïti o la messicana Betsabée Romero (1963) hanno restaurato l’importanza dei simboli nazionali.

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Ciro Meireies, Mission-Mission (come costruire una cattedrale), 1987 materiali vari, 235 x 600 x 600 cmZurigo, collzione Daros-Latinoamerica

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..Il brasiliano Cildo Meireles (1948) si interessa all’arte politica a partire dal colpo di stato militare del maresciallo Castelo Branco, sostenuto dagli Stati Uniti nel 1964. La sua opera rimanda alle pressioni politiche e religiose e la sua realizzazione più conosciuta Mission Mission è una istallazione che esplora l’azione delle missioni gesuite in Paraguay, in Argentina e in Brasile a partire dal 1610. In questa opera, un tappeto di 600.000 monetine è steso sotto un soffitto di ossa e questi due elementi sono legati da una colonna di ostie che simbolizza il tentativo dei missionari per salvare la popolazione locale dal cannibalismo convertendoli al cattolicesimo. …

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…Numerosi artisti dell’America latina hanno lasciato il loro paese, spesso perché sono stati costretti; questa emigrazione provoca un’ibridazione culturale della loro opera. Nella maggior parte dei casi la marginalizzazione, la disoccupazione e l’instabilità politica hanno costretto gli artisti all’esilio. L’artista cubana Ana Mendieta (1948-1985) è stata vittima dell’operazione Peter Pan (un programma lanciato agli inizi degli anni 1960 dal governo americano che voleva offrire un rifugio ai figli delle famiglie cubane opposte al regime rivoluzionario). Questo spostamento le è costato una grande parte della sua identità culturale e spesso nelle sue opere, sculture, fotografie, performances questa esperienza ritorna.

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Ana Mendieta She Got Love a Torino

Ana Mendieta. She Got Love è una grande retrospettiva europea dedicata all’artista cubano-americana Ana Mendieta (1948-1985). La mostra sarà aperta al pubblico dal 30 gennaio prossimo nei suggestivi spazi della Manica Lunga. Il progetto, a cura di Beatrice Merz e Olga Gambari, si propone di rileggere la figura dell’artista come pioniera della performance e video, body art, fotografia, land art e scultura nel ventesimo secolo. Uno dei contributi unici di Mendieta è la sintesi di queste forme in un linguaggio visivo fresco che ha influenzato una generazione di giovani artisti. Con oltre un centinaio di lavori realizzati dall’artista tra il 1972 e il 1985, la mostra presenta il suo personalissimo alfabeto visionario e materico, magico e poetico, politico e progressista. Proprio l’identità femminile di Mendieta ha influenzato il suo lavoro d’artista già a partire dalle radici culturali dell’infanzia a Cuba per estendersi all’artista icona femminile negli Stati Uniti. Nel suo lavoro, Mendieta esplora temi come l’esistenza individuale, vita e morte, violenza, amore, sesso, rinascita e sradicamento, in un modo coerente che trascende l’universale e lo spirituale. Spesso mimetizzando il suo corpo nella Natura, nel vissuto di Mendieta compaiono diversi luoghi, da Cuba agli Stati Uniti all’Italia, in una ricerca delle origini personali e collettive. Segno inconfondibile delle sue opere è, infatti, una caratteristica silhouette femminile, un autoritratto essenziale realizzato in terra, fango, piume, fiori, foglie, cenere, polvere da sparo, rami, alberi, conchiglie, erba, ghiaccio, roccia, cera, corteccia, muschio, sabbia, sangue, acqua, fuoco. Queste forme ibride di performance, sculture site-specific e documentazione esprimono la sua volontà di ricongiungimento a un’eterna e universale energia cosmica dove l’elemento umano, quello naturale e quello divino convivono. Ogni performance dell’artista sarà presentata come un ambiente profondo e avvolgente raccontato con video, schizzi, fotografie e documenti che creano l’ingresso mentale e fisico all’originale ambientazione del lavoro. Il titolo della rassegna, She Got Love, deriva da una delle opere filmiche di Mendieta in cui l’artista scarabocchia le parole in rosso sangue attraverso una porta bianca. Il film rientra nella selezione di opere che saranno proiettate nell’ambito della mostra.In occasione della retrospettiva sarà pubblicato per i tipi di Skira un esaustivo catalogo con testi dei curatori, apparati bio-bibliografici e una ricca selezione di immagini, parte delle quali inedite.La mostra corrisponde all’evento dell’anteprima mondiale di Itali-Ana, Mendieta in Rome, un documentario sulla ricerca artistica di Mendieta durante gli anni di residenza presso l’American Academy in Rome. Il film, prodotto da Corazon Pictures e diretto da Raquel Cecilia Mendieta, verrà proiettato per tutta la durata della rassegna.La mostra è realizzata in stretta collaborazione con l’Estate of Ana Mendieta e la Galerie Lelong. La mostra è realizzata grazie al contributo della Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT e con il supporto tecnico di Kuhn & Bülow Insurance Broker, Berlino

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Ana Mendieta

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Art Chicano

Con questo termine si designa quella arte della regione frontaliera tra Stati Uniti e Messico dove l’unione di due culture ne crea una nuova. La maggior parte delle opere della Mendieta sono pubbliche, o meglio create nella strada e in luoghi pubblici.

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Fernando Bryce (Perù)

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Molti paesi dell’America latina hanno soffertto di un sottosviluppo economico, politico e sociale. L’artista peruviano fernando Bryce (1965) ha elaborato una critica dei problemi dell’America Latina attraverso una serie di disegni a matita e a inchiostro fondati sulla propaganda del dipartimento della Difesa degli USA a partire dagli anni 1950. Queste brochures facevano la promozione del turismo; la serie «Al sud della frontiera» (2002) mette in discussione gli stereotipi e la credibilità dei documenti stampati.

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Léon Ferrari, La civiltà occidentale e cristiana, 1965olio su gesso e plastica, 200x120x60 cmBuenos Aires Collezione dell’artista

L’argentino Leon Ferrari è conosciuto per i suoi soggetti politici e religiosi. In quest’opera Gesù è crocifisso sulla fusoliera di un bombardiere americano, chiara protesta contro l’imperialismo degli USA e in quel caso contro la guerra nel Viet-Nam

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L’eredità dei muralisti

La mancanza di sicurezza e la violenza sociale in America latina hanno raggiunto talvolta dimensioni impressionanti, in particolare in Veneziela, in Messico in Equador, in Colombia e in Brasile. Ispirato da David Siqueiros (1896-1974), uno dei grandi muralisti dell’arte messicana, Rafael Cauduro (1950) tratta alcuni dei suoi soggetti nel suo affresco Storia della giustizia in Messico (2002) commissionato dal tribunale supremo del Messico.

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Rafael Cauduro

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Vik Muniz, Medusa marinara, 1997,fotografia istantanea a colori9x 11 cmNew Yorc, MoMA

Vik Muniz (1961) non trova obbiettivi reali nell’arte politica: preferisce donare le opere delle sue mostre alle organizzazioni caritative che si occupano dei bambini brasiliani. Il suo lavoro si appropria spesso delle immagini europee che reinterpreta sotto forma di assemblaggi di oggetti per poi fotografarli. In Medusa Marinara ha disposto in un piatto degli spaghetti e della salsa di pomodoro imitanto la testa di Medusa di Caravaggio.

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L’arte indiana

La scena artistica indiana è complessa e composta di opere spesso in totale rottura con la tradizione della pittura e della scultura modernista. Dopo l’indipendenza dell’India nel 1947, le nuove istituzioni artistiche pubbliche e le università incoraggiano lo sviluppo di un’arte modernista, al centro di un mercato nazionale in piena espansione. Ma rapidamente il silenzio del governo lascia le gallerie prendere piede. La pittura e la scultura sono quelle più apprezzate dal rigime conservatore; bisogna attendere gli anni 1990 affinché il video, l’istallazione e la performance facciano la loro apparizione. È allora che la scena artistica indiana diviene più complessa e abbandona definitivamente le preoccupazioni formali del modernismo e le tematiche nazionaliste degli inizi.

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..Nel corso degli anni 1990, con la globalizzazione dell’economia indiana, l’arte indiana su apre sul mondo: gli scambi artistici si moltiplicano attraverso il mondo e l’arte acuista una nuova visibilità fuori del paese, soprattutto con le biennali e triennali internazionali.Lo sviluppo delle tecnologie della comunicazione permette di intensificare i contatti con le istituzioni artistiche straniere e di ottenere dei fondi esterni. Tutto ciò facilita il ritorno di spazi espositivi indipendenti e non commerciali che favoriscono le esperienze degli artisti locali nel campo dei nuovi media, performances e istallazioni. Negli anni 1990, alcuni artisti riconosciuti come Nalini Malani (1946) e Navjot Altaf, entrambe donne, si dedicano al video e all’istallazione. Alla fine del decennio, una nuova generazione di artisti, tra cui Subodh Gupta (1946) e Sonia Khurana (1968), si lanciano in esperienze sullo spazio, la performance e le nuove tecnologie.

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Subodh Gupta, Curry, 2005acciaio inossidabile, 82 x 102,5 cm

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Atul Dodiya, Mahalaxmi, 2002,smalto su saracinesca e altri materiali, 274 x 185 cmcollezione privata

All’epoca il mercato nazionale è ancora pauroso e quello nazionale mostra poco interesse. Ma in maggio 2005 con l’espansione dell’economia indiana il mondo internazionale dell’arte si volta verso il sud est asiatico e indiano mentre le case di vendite si interessano più da vicino degli artisti locali come Atul Dodiya (1959) e Rajeev Lochan (1956).Dodiya ha un successo internazionale con i suoi quadri iperrealisti, le sue istallazioni e la serie di pitture che realizza su saracinesche. In questo, la pittura dietro rappresenta tre ragazze che si impiccarono per economizzare al padre il denaro della loro dote. …

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Rejeev Lochan, opera della serie «Visione della realtà», 1998prova fotografica, olio e acrilico,collezione privata

Lochan lavora con diversi media sulla percezione delle immagini. «Se la tecnologia mi aiuta ad esprimere la mia arte, io la utilizzo». In questa serie ritocca una fotografia in bianco e nero togliendo gli elementi «indesiderabili» e aggiungendone altri con pittura o pastello.

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Nuove forme di espressione artistica

Anche se il mercato dell’arte è sempre dominato dalla pittura, i nuovi media e le istallazioni hanno acquisito un loro posto in India. Sul fondo della prosperità economica e i rivolgimenti sociali e politici, l’opera di Navjot Altaf (donna) si interessa ai lavoratori di Mumbai. L’istallazione video Mumbai Meri Jaan del 2004 per esempio rendiconta delle tribolazioni dei migranti e di tre ragazzini di strada, offrendo uno specchio della negligenza nei confronti delle categorie disagiate.

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Il gruppo Raqs media esplora lo spazio urbano, l’esplosione degli stereotipi locali e l’evoluzione delle modalità di produzione e di condivisione del sapere, sottolineando spesso il potere che deriva dal controllo dell’identità e dall’utilizzo della nozione di autenticità.

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KD Vyas Correspondence: Vol. 1, 2006Raqs Media Collective