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Vittorio Alfieri (Asti, 16 Gennaio 1749 – Firenze 8 ottobre 1803)

Presentazione alfieri by palamaza

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Vittorio Alfieri (Asti, 16 Gennaio 1749 – Firenze 8 ottobre 1803)

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L’infanzia La formazione all’Accademia Reale di Torino I viaggi Gli amori Tra l’Illuminismo e il Romanticismo L’individualismo alfieriano Le tragedie Dentro la tragedia: Antigone Le Rime Le Satire Le Commedie Le prose politiche La vita scritta da esso

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L’INFANZIAVittorio Alfieri nasce dal conte di Cortemilia Antonio Amedeo Alfieri e dalla savoiarda Monica Maillard de Tournon (già vedova del marchese Alessandro Cacherano Crivelli). Il padre muore nel primo anno di vita di Vittorio e la madre si risposa nel 1750 con il cavaliere Carlo Giacinto Alfieri di Magliano. Dei due fratelli che aveva, Giuseppe Maria muore dopo pochi mesi di vita e la sorella Giulia viene mandata in monastero ad Asti. Rimane unico figlio in casa. Un «buon prete», seppure «ignorantuccio», don Ivaldi, gli insegna a leggere e a scrivere e sarà il suo maestro per quattro anni. Nel 1756 ,a soli sette anni, un naturale «umor malinconico» lo porta a un ingenuo tentativo di suicidio (ingoia erba che crede velenosa). Vive nella residenza paterna di Palazzo Alfieri fino all’età di nove anni.

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Ritratto di Monica Maillard.

Ritratto di Giulia Alfieri.

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Asti, Palazzo Alfieri, camera natale di Vittorio Alfieri. Cartolina anni '60.

Palazzo Alfieri, facciata.

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LA FORMAZIONE ALL’ACCADEMIA REALE DI TORINO

Nel 1758, per volere del suo tutore, lo zio Pellegrino Alfieri, fu iscritto all'Accademia Reale di Torino, dove compì i suoi studi di grammatica, retorica, filosofia, legge. Secondo la Vita il soggiorno in Accademia non giova né alla salute di Vittorio, che vi si ammalò spesso, né alla sua formazione culturale: sono anni di «infermità, ed ozio, e ignoranza». Ma secondo un suo biografo, Sirven, Alfieri ha esagerato nel disprezzare gli studi fatti all’Accademia: proprio ad essi anzi, nei quali aveva posto preminente il latino (versioni, versi, amplificazioni in latino) egli dovrebbe la patina latineggiante poi affiorante nelle tragedie. E avrà modo di fare personali, seppur disordinate, letture.

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TOMMASO BORGONIO, GIOVANI CHE GIOCANO A PALLONE NEL CORTILE DELL’ACCADEMIA REALE DI TORINO.

Nell’Accademia veniva praticato il “gioco del pallone, dove veniva considerato «giuoco lecito». Vittorio Alfieri ne è una testimonianza diretta e nella Vita racconta : «In quell’anno di pretesa rettorica mi venne fatto di ricuperare il mio Ariosto, rubandolo a un tomo per volta al sottopriore, che se l’era innestato fra gli altri suoi libri in un suo scaffale esposto alla vista. E mi prestò opportunità di ciò fare il tempo in cui andavamo in camera sua alcuni privilegiati, per vedere dalle di lui finestre giuocare al pallon grosso, perché dalla camera sua, situata di faccia al battitore, si godeva assai meglio il giuoco che non dalle gallerie nostre che stavangli di fianco».

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Dopo la morte dello zio, nel 1766 lasciò l'Accademia non terminando il ciclo di studi che lo avrebbero portato all'avvocatura e si arruolò nell'Esercito, diventando "portinsegna" nel reggimento provinciale di Asti.

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Ottiene dal re, Carlo Emanuele, licenza di viaggiare per un anno, sembra, secondo un’ipotesi dei due maggiori biografi di Alfieri, Bertana e Sirven, per prepararsi a poter intraprendere la carriera diplomatica. Il 4 ottobre parte in compagnia di un aio inglese, il prete cattolico John Tuberville Needham, di due giovani, uno fiammingo e uno olandese, e di cinque servitori. Uno di essi è il suo cameriere Francesco Elia , «uomo di sagacissimo ingegno», che rimarrà al suo servizio fino al 1785, e che gli sarà prezioso nelle più diverse incombenze, non ultima quella di curarlo delle molte infezioni veneree che Alfieri contrarrà durante i suoi viaggi. Nel corso di questi Elia riferiva regolarmente sul comportamento e la salute del padrone (ma a insaputa dell’interessato) al cognato, Giacinto Canalis conte di Cumiana, marito di Giulia Alfieri.

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I VIAGGIDopo varie tappe quali Milano, Parma, Bologna, Firenze Lucca, Pisa, Livorno,

Siena nel 1767 giunge a Parigi dove conosce Luigi XV che gli pare un

monarca tronfio e sprezzante. Anche la città lo delude. Passa il suo tempo «fra i

passeggi, i teatri, le ragazze di mondo, e il dolore quasi che continuo».

Nel 1768 parte per Londra. Rimane ammirato e

rapito dell’Inghilterra e degli inglesi. Fa intensa vita di società.

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Lo stesso anno parte per l’ Olanda, dove vive il suo primo amore con la moglie del barone Imhof, Cristina. Costretto a separarsene per evitare uno scandalo, tenta il suicidio, fallito per il pronto intervento di Elia, il suo fidato servo.

Rientra a Torino, dove alloggia in casa di sua sorella Giulia. Vi rimane fino al compimento del ventesimo anno di età, quando, entrando in possesso della sua cospicua eredità, decide di lasciare nuovamente l'Italia.

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Tra il 1769 e il 1772, in compagnia del fidato Elia, compie il secondo viaggio in Europa partendo da Vienna,e passando per Berlino, toccando la Svezia e la Finlandia, giungendo in Russia, dove non volle neppure essere presentato a Caterina II, avendo sviluppato una profonda avversione al dispotismo.

Raggiunge Londra ,dove conosce Penelope Pitt, moglie del visconte Edwadd Ligonier, con la quale instaurò una relazione amorosa. In seguito allo scandalo per l’adulterio fu costretto a lasciare la donna.

Riprende così il suo girovagare, prima in Olanda, poi in Francia, Spagna e infine Portogallo. Nel 1772 termina il suo girovagare e ritorna a Torino.

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Torino, Bernardo Bellotto (1745), Torino,Galleria Sabauda

Vienna nel XVIII secolo, Bernardo Bellotto, (1760), Kunsthistorisches Museum, Vienna

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GLI AMORI

Cristina Emerentia LeiweAi primi di giugno del 1768, Alfieri e il servo Elia giunsero in Olanda, “un ameno e ridente paese”, durante la stagione estiva. Si fermarono a L’Aia, dove il diciannovenne conte visse “in una terribile maniera” il primo vero amore, per Cristina Emerentia Leiwe van Aduard, sposata al barone Giovanni Guglielmo Imhof, “ricchissimo individuo”, il primo “intoppo amoroso”, uno degli episodi più melodrammatici o sentimentalmente esuberanti dell’autobiografia. E’ Elia a sanare tutte le frenesie dell’addolorato disperato animo del padrone, determinato a morire in seguito all’allontanamento di quella “gentil signorina, sposa da un anno, piena di grazie naturali, di modesta bellezza, e di una soave ingenuità”.

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Pitt Ligonier Penelope

Nel 1771, a Londra, Alfieri visse una appassionata relazione amorosa con Penelope Pitt , figlia dell’uomo politico George Pitt, già inviato britannico a Torino. Penelope aveva sposato nel 1766 il visconte Edward Ligonier. Accortosi il Ligonier della relazione, sfidò Alfieri a duello, accontentandosi di ferire il rivale all’avambraccio destro. Secondo quanto scrive Elia anche il Ligonier riportò due leggere ferite. Nei giorni seguenti il Ligonier chiese e ottenne il divorzio.Avendo, in seguito, Penelope confessato ad Alfieri che, oltre che con lui, tradiva il marito con un palafreniere, l’aristocratico piemontese, dopo non poche esitazioni, la abbandonò. Più tardi, Penelope sposò un militare.

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Penelope (Pitt), Viscountess Ligonier

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Gabriella Falletti di Villafalletto

Di ritorno dai viaggi, Alfieri si stabilisce a Torino, in quella “magnifica casa” di piazza San Carlo, e, negli anni dal ’73 al ’75, conduce una “vita giovenile oziosissima”, sfondo dell’ennesimo “tristo amore” (la “terza ebrezza d’amore) foriero di “infinite angosce, vergogne, e dolori”, per Gabriella falletti di Villafalletto. È proprio in questa situazione che, essendo “avvezzo” a vedere presso “quella signora” “alcuni bellissimi arazzi”, che rappresentavano vari fatti di Cleopatra e d’Antonio, Alfieri elegge questi personaggi a protagonisti della prima tragedia, poi ripudiata, quell’Antonio e Cleopatra iniziata nel ’74 e messa in scena al Teatro Carignano il 16 giugno del ’75, ottenendo “ingiusti e non meritati applausi” dalla “platea di Torino”.

 

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La contessa d'AlbanyGaleotto fu il disegno...

« Un dolce foco negli occhi nerissimi accoppiato (che raro addiviene) a candidissima pelle e biondi capelli davano alla di lei bellezza un risalto, da cui difficile era di non rimanere colpito o conquisto. » (da Vita di V. Alfieri, Epoca quarta, 1777, capitolo V)

Alfieri e la contessa d'Albany, F. X. Fabre, 1796, Torino, Museo Civico di arte antica.

« La mia unica donna » « La vita della mia vita » «...la dolce metà di me stesso » «La persona che ho sovra ogni altra cosa venerata ed amata »

(Vittorio Alfieri, Vita scritta da esso)

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A Firenze avviene l'incontro tra Vittorio Alfieri, giovane ventottenne e la contessa d’Albany, nobile dama, intellettuale cosmopolita. Il loro amore è un vero e proprio colpo di fulmine e dal momento dell'incontro sarà un susseguirsi di difficoltà e stratagemmi per potersi amare.

Dopo la morte del marito, Carlo Edoardo Stuart, pretendente al trono d'Inghilterra, la contessa vive apertamente il suo amore con Alfieri. A Parigi dal 1786 al 1791, diviene noto ed apprezzato il circolo culturale della contessa nella casa di Rue de Bourgogne, dove una sala del trono ricorda agli ospiti l'alto rango della padrona di casa.

La Rivoluzione costringe i due amanti a fuggire dalla Francia e a tornare a Firenze dove alloggiarono nel Palazzo Gianfigliazzi. Qui la contessa assunse il ruolo di musa ispiratrice del grande poeta e letterato italiano trasformando il suo appartamento nel luogo di incontro della migliore cultura europea fra cui Madame de Stael e Ugo Foscolo. Vive gli ultimi anni animato da un odio sempre più feroce contro i Francesi, che si sono ormai impadoniti dell’Italia con le campagne napoleoniche. Muore a Firenze l’8 ottobre 1803.

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La contessa d'Albany nel dipinto di François-Xavier Fabre

Veduta del Lungarno col Ponte di Santa Trinita, I Palazzi Gianfigliazzi sono quello all'estrema sinistra e quello seguente.

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Gli ambienti aristocratici però si abbandonarono alle maldicenze quando presso la coppia di amanti si aggiunse un pittore francese François-Xavier Fabre.

Fabre ritrasse più volta Luisa, in atteggiamenti pacati e misurati, privi di enfasi. Luisa, a sua volta, prendeva lezioni di disegno da Fabre. Certo è che, durante quelle lezioni, tra Fabre e la contessa nacque una relazione che non passò inosservata ai contemporanei.

Nonostante le malignità sul comportamento libero della nobildonna sembrarono trovare conferma nel 1824, quando, alla morte della contessa, il pittore francese ne divenne erede universale, si deve a lei la pubblicazione postuma delle opere alfieriane ma soprattutto l'autorizzazione ottenuta di seppellire le spoglie del poeta in Santa Croce nel monumento che lei stessa commissionò a Canova.

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Firenze, Basilica di Santa Croce, il monumento funebre di Alfieri scolpito da Canova, raffigurante l'Italia afflitta per la morte del poeta.

François-Xavier Fabre.

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ALFIERI TRA L'ILLUMINISMO E IL ROMANTICISMO

« ma non mi piacque il vil mio secol mai:/e dal pesante regal giogo oppresso,/sol nei deserti tacciono i miei guai » (Tacito orror di solitaria selva, in Rime)

Le influenze letterarie di Alfieri provengono dagli scritti di Montesquieu, Voltaire, Rousseau, Helvétius, che l'astigiano conobbe nei suoi viaggi in Europa.Lo studio ed il perfezionamento della lingua italiana avvennero con la lettura dei classici italiani e latini (Dante e Petrarca per la poesia, Virgilio per il verso tragico). Il suo interesse per lo studio dell'uomo, per la concezione meccanicistica del mondo, per l'assoluta libertà e l'avversione verso il dispotismo, collegano Alfieri alla dottrina illuminista.

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Jean-Jacques Rousseau e Voltaire . Due dei massimi esponenti della corrente illuministica.

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I temi letterari illuministici, volti a chiarificare le coscienze e ad apportare il progresso sociale e civile, sono affrontati dal poeta non in modo distaccato, ma con l'emotività e le inquietudini del pensiero Romantico. Alfieri è considerato dalla critica letteraria come l'anello di congiunzione di queste due correnti ideologiche, ma l'astigiano al contrario dei più importanti scrittori illuministi dell'epoca, quale Parini, Verri, Beccaria, Voltaire, che sono disposti a collaborare con i monarchi "illuminati" (Federico di Prussia, Caterina II di Russia, Maria Teresa d'Austria) e ad esporre le proprie idee nei salotti europei, rimane indipendente e reputa umiliante questo genere di compromesso. D'altronde Alfieri fu un precursore del pensiero romantico anche nel suo stile di vita, sempre alla ricerca dell'autonomia ideologica e nel non accettare la netta distinzione settecentesca fra vita e letteratura, nel nome di valori etico-morali superiori.

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L’INDIVIDUALISMO ALFIERIANO

Fin da giovane Vittorio Alfieri dimostrò un energico accanimento contro qualsiasi forma di potere che appare iniqua e oppressiva. Anche il concetto di libertà che egli esalta non possiede precise connotazioni politiche o sociali, ma resta un concetto astratto. La libertà alfieriana, infatti, è espressione di un individualismo eroico e desiderio di una realizzazione totale di se. Questa ansia di infinito, di illimitato è il tipico titanismo alfieriano, che caratterizza, in modo più o meno marcato, tutte le sue opere. Ciò che viene tanto osteggiato da Alfieri è molto probabilmente la percezione di un limite che rende impossibile la grandezza, tanto da procurargli costante irrequietezza, angosce e incubi che lo costringono a cercare nei suoi innumerevoli viaggi ciò che può trovare soltanto all'interno di se stesso. Il sogno titanico è accompagnato da un costante pessimismo che ha le radici nella consapevolezza dell'effettiva impotenza umana.

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LE TRAGEDIE Il Settecento fu prodigo di tragedie. L'interesse per il genere era nato dall'influenza del teatro francese (Racine, Corneille). L'Alfieri non fece che porsi in questa corrente apportandovi un originale contributo (non però su quello formale, perché qui si attenne al rispetto delle unità aristoteliche di luogo e tempo). Dotato di un fortissimo senso della libertà e insofferente a ogni tirannide, egli infatti concepì il teatro come mezzo di educazione civile e politica e l'artista come "sacerdote dell'umanità". Convinto che la storia sia maestra di vita, portò sulla scena i grandi personaggi, quelli secondo lui più adatti a suscitare l'amore per la libertà e l'odio contro la tirannide: Saul, Mirra, Polenice, Antigone, Agamennone, Oreste, Filippo, Rosmunda, Maria Stuarda e molti altri .

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Le tragedie ruotano attorno a un personaggio principale; gli altri hanno una funzione accessoria. Il finale in genere è di due tipi: suicidio o tirannicidio. Gli argomenti sono presi dalla storia o dalla Bibbia, con predilezione per i soggetti greco-romani. L'azione si svolge in 5 atti. Il verso adoperato: endecasillabo sciolto, ma è trattato in maniera molto dura, nervosa, concisa. Alla base di ogni vicenda sta il fato, cioè una forza al di sopra dell'uomo, che lo costringe a reagire. I protagonisti, pur prigionieri delle loro passioni, proprio in questa lotta con il fato rivelano la loro forza, la loro carica emotiva. E' assente ogni preoccupazione realistica. Non c'è sfondo teatrale che ambienti i personaggi, e neppure intreccio o azione. Il linguaggio non è colloquiale ma oratorio, solenne. I dialoghi son quasi dei monologhi (si è sordi alle parole altrui). In questo Alfieri si allontana decisamente dall'Arcadia.

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L’ANTIGONEAntigone è una tragedia mitologica rivista più volte,da Vittorio Alfieri, pubblicata per la prima volta nel 1783 e rielaborata fino al 1789.

La storia di Antigone rientra nel cosiddetto "ciclo di Tebe" ed è la continuazione della vicenda, narrata da Alfieri in Polinice, di Polinice ed Eteocle, i due fratelli che si erano dati la morte per la contesa del trono di Tebe.

Questa tragedia segue, nello svolgimento principale, la storia di Antigone come ci è stata tramandata nella celebre tragedia di Sofocle. Nella tragedia alfieriana, caratterizzata da dialoghi brevi e intensi, i personaggi rimangono identici dall'inizio alla fine, impermeabili a qualsiasi cambiamento, statici.

La protagonista, Antigone, è la sorella di Polinice e Eteocle e vive unicamente per essere utile al vecchio padre Edipo ormai cieco. Il resto della sua vita è soltanto morte e odio. Giocasta, madre e involontariamente moglie di Edipo, da cui ebbe Polinice ed Eteocle, si è uccisa poco dopo la terribile catastrofe con cui si conclude Polinice.

Alla morte dei suoi nipoti Polinice ed Eteocle, Creonte, tiranno liberticida, mosso soltanto da avidità di potere, si è impossessato del trono di Tebe, impedendo a chiunque, pena la morte, di organizzare per Polinice i riti funebri necessari per assicurare pace alla sua ombra, mentre ha permesso i funerali di Eteocle.

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Antigone di Vittorio Alfieri.Asti, cortile di Palazzo Alfieri(1959), regia di Gianfranco de Bosio, compagnia teatrale "Centro nazionale studi alfieriani", scene di Eugenio Guglielminetti.

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LE RIME 

Accanto alle tragedie vanno subito collocate le Rime per le quali l'Alfieri merita un posto di privilegio nella tradizione lirica del Settecento. Si tratta di circa 300 componimenti (canzoni, odi, sonetti ecc). Nelle "Rime" il poeta traduce, in una autobiografia poetica, le sue esperienze umane, i suoi più segreti e contrastanti sentimenti, le sue meditazioni e le sue riflessioni sulla realtà contemporanea e sui miti della sua cultura, la sua sofferta e complessa visione del vivere. Giustamente è riconosciuta l'eccellenza dei sonetti che riflettono le più autentiche e segrete voci dell'interiorità del poeta. Molti sono di ispirazione amorosa per la contessa d'Albany: si configurano come un diario; l'amore non è inteso come galanteria, bensì come condizione fondamentale del vivere come sommo bene terreno, come conquista di una più alta ed autentica umanità. In altri sonetti troviamo il tema della malinconia; in un sonetto l'Alfieri disegna il proprio ritratto fisico e morale.

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Il sonetto traccia un ritratto dell’uomo “libero nato”

Uom di sensi, e di cor, libero natoUom di sensi, e di cor, libero nato, fa di se' tosto indubitabil mostra. or co' vizi e i tiranni ardito ei giostra, ignudo il volto, e tutto il resto armato:

or, pregno in suo tacer d'alto dettato, sdegnosamente impavido s'inchiostra; l'altrui vilta' la di lui guancia innostra; ne' visto e' mai dei dominanti a lato.

Cede ei talor, ma ai tempi rei non serve; abborrito e temuto da chi regna, non men che dalle schiave alme proterve.

conscio a se' di se stesso, uom tal non degna l'ira esalar che pura in cor gli ferve; ma il sol suo aspetto a non servire insegna.

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LE SATIRE

Pensate fin dal 1777 e riprese più volte nell'arco della sua vita, sono componimenti sui "mali" che afflissero l'epoca del poeta. Sono diciassette.

Nelle Satire l'Alfieri condanna: commercio borghese, clericalismo e anticlericalismo, re, nobili e militari, il popolo e i precettori.

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LE COMMEDIE

Alfieri scrisse sei commedie:•L'uno •I pochi •I troppi •L'antidoto •La finestrina •Il divorzio

Qui condanna: monarchia assoluta ne L'uno, oligarchia assoluta ne I pochi, democrazia assoluta ne I troppi. Condanna i grandi uomini, perché nella vita privata sono incoerenti (La finestrina) e i matrimoni nobiliari per interesse (Il divorzio). Condivide: la monarchia costituzionale di tipo inglese o della vecchia Venezia (L'antidoto).

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LE PROSE POLITICHE

•Della tirannide• Del principe e delle lettere•Panegirico di Plinio a Trajano•La Virtù sconosciuta

Nelle opere politiche Alfieri espone le proprie teorie politico letterarie rielaborando i temi libertari ed antitirannici in una prosa energica e sostenuta.

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• Della tirannide (due libri) il primo libro mette a fuoco i puntelli della tirannide: paura e viltà dei cittadini, ambizione,lusso, milizia, clero, nobiltà. Il secondo libro spiega come può vivere sotto un tiranno colui che non vuol rinunciare alla propria libertà interiore (sdegnosa solitudine come ideale dell'uomo libero che si oppone al dispotismo e se gli si preclude una vita dignitosa può scegliere il suicidio). Il trattato si chiude con l'esaltazione del tirannicidio. • Del principe e delle lettere è un'opera di interesse politico - letterario, che analizza il rapporto fra potere politico e letteratura libera. Il principe, consapevole della propria funzione politica ed il letterato memore della propria missione, sono antagonisti inconciliabili (conflitto tiranno / eroe delle tragedie: il letterato è l'eroe). Alfieri condanna il mecenatismo, ritenuto dannoso e corruttore Il trattato si chiude con una esortazione a liberare l'Italia dai barbari.

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• Panegirico di Plinio a Traiano. Alfieri si propone di riscrivere l'omonima opera di Plinio il Giovane, accusato di cortigianeria, per mostrare come uno scrittore libero dovrebbe parlare ad un ottimo principe consigliandolo a deporre il potere e a restituire al popolo la libertà. Plinio in occasione della nomina a consul suffectus pronuncia il panegirico di Traiano, iniziando il genere letterario degli encomi degli imperatori. • La virtù sconosciuta è un elogio classico-rinascimentale, retorico, celebrativo dell'amico Gori Gandellini e della sua virtuosa, solitaria levatura morale.

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Quando si parla di qualche personaggio dall'esistenza singolare si dicono frasi come: "La sua vita fu un romanzo" oppure "Il suo capolavoro fu la sua vita". Queste frasi sembrano fatte apposta per Vittorio Alfieri, il cui capolavoro, la sua "Vita", è l'autobiografia forse più celebre e più bella dell'intera letteratura italiana; questa vita è un vero e proprio romanzo pieno di scene "forti", di passioni travolgenti, di tentati suicidi, di ideali, di enfasi, di un indomabile furore e sdegno nei confronti di ogni tipo di meschinità.

LA VITA SCRITTA DA ESSO

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La Vita scritta da esso è l'autobiografia di Vittorio Alfieri. L'opera rimase incompiuta e venne pubblicata postuma nel 1804.Il racconto venne suddiviso dallo stesso Alfieri in quattro "epoche": puerizia, adolescenza, giovinezza e maturità.

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PARTE PRIMA

Epoca Prima - Puerizia

Tratta dei primi nove anni vissuti nella casa della madre ed è suddiviso in cinque capitoli.

Epoca Seconda - Adolescenza

Tratta degli otto anni "d'ineducazione", ozio e il suo primo viaggio.È suddiviso in dieci capitoli.

Epoca Terza - Giovinezza

Tratta dei dieci anni di viaggi e dissolutezze e della conoscenza del suo fido servo Elia, che gli salverà la vita.

Suddiviso in quindici capitoli.

Epoca Quarta - Virilità

Tratta dei trenta e più anni di composizioni, traduzioni, e studi diversi.La prima parte è suddiviso in diciannove capitoli. L'autore smette di scrivere la biografia mentre era in Francia, a Parigi, all'inizio dei tumulti francesi.

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PARTE SECONDA

Prosegue con la seconda parte che arriva fino al trentunesimo capitolo. L'Alfieri continua il racconto dei suoi viaggi, l'arrivo in Firenze, l'inizio del recitare...

« ...Questo mi fece entrare in un nuovo perditempo, quello del recitare... »

...l'avvicinamento alle grandi letture latine e gli studi di Omero, Pindaro, lo studio autodidatta del greco e di Orazio.

E conclude con il capitolo Tregesimoprimo.

« A rivederci, o lettore, se pur ci rivedremo, quando io barbogio, sragionerò anche meglio, che fatto non ho in questo capitolo ultimo della mia agonizzante virilità. A dì 14 maggio 1803, Firenze. »

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ALFIERI E LA MASSONERIA

Nel I capitolo dell'Epoca quarta della Vita, riferito all'anno 1775, l'Alfieri narra che durante un banchetto di liberi muratori declamò alcune rime:

Egli chiede scusa ai fratelli se la sua musa inesperta osa cantare i segreti della loggia. Poi il capitolo in terzine prosegue menzionando il Venerabile, il primo Vigilante, l'Oratore, il Segretario.Negli elenchi della massoneria piemontese il nome dell'Alfieri non è mai comparso. I suoi primi biografi supposero che egli fosse stato iniziato in Olanda o in Inghilterra, nel corso di uno dei suoi viaggi giovanili.È assodato che moltissimi suoi amici furono massoniL'Alfieri compare alcuni anni dopo, al numero 63 dell'elenco nel Tableu des Membres de la Respectable Loge de la Victoire à l'Orient de Naples in data 27 agosto 1782, con il nome di "Comte Alfieri, Gentilhomme de Turin". La sua affiliazione alla loggia di Napoli fu sicuramente favorita dai frequenti soggiorni in quella città e soprattutto dall'importanza che Napoli accrebbe nei confronti della massoneria, dal momento che i Savoia,di lì a poco chiusero ogni attività massonica in Piemonte. Con il sopraggiungere in Europa dei venti rivoluzionari che sfoceranno poi nella rivoluzione francese, l'Alfieri prese le distanze dalla massoneria, forse perché essa accentuò l'impegno giacobino, antimonarchico, anticlericale, o forse anche per quel suo aspetto caratteriale indipendente fino all'ossessione. Nella satira di Le imposture (1797) si scaglierà contro i suoi vecchi confratelli apostrofandoli come "fratocci" che imbambolavano gli adepti per farne creature proprie, ingenuo piedistallo per i furbi.