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Maria Bruna Pasticci Barbara Belfiori

Appunti dalle Lezioni di

Malattie Infettive

Corso di Laurea in Tecniche della Prevenzione nell'Ambiente e nei Luoghi di Lavoro

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Autori

Maria Bruna Pasticci

Professore associato di Malattie Infettive, Dipartimento di Medicina, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università degli Studi di Perugia

Barbara Belfiori

Dirigente medico, Clinica di Malattie Infettive, Dipartimento di Medicina, Ospedale Santa Maria della Misericordia, Perugia

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Presentazione

Quando ho iniziato l’esperienza didattica nel Corso di Laurea in Tecniche della Prevenzione nell’Ambiente e nei Luoghi di Lavoro, ho verificato che non c’è un libro di testo in cui vengono prese in esame le patologie infettive di maggiore impatto per gli studenti di questo Corso di Laurea, per cui ho cercato di riassumere e riorganizzare gli appunti delle lezioni per offrire agli studenti un testo più strutturato delle diapositive utilizzate durante le ore di didattica frontale.

Ho condiviso il lavoro con la Dr. ssa Barbara Belfiori, che si è occupata per molto tempo della problematiche delle infezioni a trasmissione parenterale, in particolare di quelle da virus della immunodeficienza acquisita e delle epatiti nel personale sanitario, e quindi ho lasciato a lei la trattazione di queste patologie.

Ringrazio la Dr. ssa Belfiori per la preziosa collaborazione.

Maria Bruna Pasticci

Perugia Ottobre 2016

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Indice

1. Interazione macrorganismo/microrganismo pag. 5

2. Agenti eziologici di infezione pag. 6

3. Patogenesi delle malattie infettive pag. 9

4. Laboratorio di microbiologia: accertamenti diagnostici pag. 12

5. Prevenzione delle infezioni pag. 18

6. Tetano

pag. 24

7. Rabbia

pag. 27

8. Febbre tifoide pag. 32

9. Brucellosi pag. 35

10. Tossinfezioni alimentari pag. 40

11. Botulismo pag. 52

12. Amebiasi pag. 56

13. Malaria pag. 60

14. Febbre bottonosa pag. 66

15. Malattia di Lyme pag. 68

16. Leptospirosi pag. 72

17. Leismaniosi pag. 75

18. Legionellosi pag. 80

19. Carbonchio o antrace pag. 84

20. Tubercolosi pag. 87

21. Infezioni trasmesse da artropodi pag. 93

22. Infezione da virus della immunodeficienza umana (HIV) pag. 101

23. Epatiti pag. 107

24. Bibliografia pag. 116

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Capitolo 1. Interazione macrorganismo/microrganismo

L’interazione macrorganismo/microrganismo non è sempre uguale, perché si possono

avere variabili relative a entrambi. Le diverse condizioni sono indicate nella Tabella 1.1.

Tabella 1.1: interazione macrorganismo/microrganismo (Modificata da M. Moroni, S. Antinori, V. Vullo. Manuale di Malattie Infettive. Elsevier, Milano, 2009).

Condizione Definizione

Simbiosi Il macrorganismo e il microrganismo traggono reciproco vantaggio Contaminazione Presenza di microrganismi patogeni senza replica Colonizzazione Presenza di microrganismi patogeni con replica, senza invasione dei

tessuti e manifestazioni cliniche Infezione Acquisizione di un microrganismo patogeno Malattia Presenza di microrganismi patogeni con replica, invasione dei

tessuti e manifestazioni cliniche

Le variabili più rilevanti del macrorganismo sono rappresentate dal suo stato di salute,

mentre quelle del microrganismo sono la virulenza, la patogenicità, la concentrazione o la

carica infettante. Un altro aspetto è rappresentato dalle modalità con cui il microrganismo

si trasmette, dalla maggiore o minore capacità che esso ha di resistere nell’ambiente

esterno e dalla sua contagiosità. La trasmissione può essere diretta da uomo a uomo o

indiretta tramite oggetti, alimenti o vettori animati. Il meningococco, il virus del morbillo e

quello della varicella sono poco resistenti e si inattivano rapidamente nell’ambiente

esterno; la trasmissione di questi microrganismi richiede un contatto diretto con il soggetto

infetto (trasmissione diretta). I virus dell’epatite resistono in forma infettante a lungo, anche

mesi, nei liquidi attraverso i quali si può trasmettere l’infezione.

La contagiosità rappresenta la facilità con cui la malattia si diffonde da un ospite all’altro.

Non tutte le patologie infettive sono contagiose allo stesso modo: mentre la varicella è

una patologia estremamente contagiosa, l’endocardite non è contagiosa. Quando l’ospite

ha una alterazione dei meccanismi di difesa, si possono sviluppare anche patologie da

microrganismi originati dall’ospite stesso (flora endogena) e non acquisiti dall’esterno.

Le patologie infettive classiche sono la conseguenza dell'interazione del macrorganismo

immunocompetente con un microrganismo patogeno. La guarigione coincide con

l’eradicazione del patogeno. Le patologie opportuniste, invece, sono quelle che si

realizzano in ospiti con difese immunitarie deficitarie, e sono causate da microrganismi a

bassa virulenza.

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Capitolo 2. Agenti eziologici di infezione

Si possono considerare agenti di infezione i batteri o schizomiceti, i virus e i viroidi, i miceti

e i parassiti.

I batteri sono microrganismi unicellulari con organizzazione cellulare semplice,

procariotica. Possono avere forma sferica (cocchi), allungata (batteri), arcuata (vibrione) o

a spirale (spirochete), e quando crescono su un terreno solido formano aggregati visibili

ad occhio nudo detti "colonie". La loro struttura cellulare, procedendo dall’esterno,

prevede: la parete cellulare, la membrana citoplasmatica, il citoplasma, la membrana

nucleare che racchiude il nucleo e un filamento di DNA.

La parete cellulare è un involucro rigido che avvolge il corpo batterico. La sua componente

fondamentale è il peptidoglicano, una sostanza glicopeptidica costituita da catene

polisaccaridiche composte da N-acetil-glicosamina e N-acetil-muramico interconnesse da

ponti oligo-peptidici, con prevalenza diversa nei batteri Gram-negativi e in quelli Gram-

positivi. La parete cellulare è presente in tutte le specie batteriche ad esclusione dei

micoplasmi, e manca di acido muramico nelle clamidie.

La membrana citoplasmatica che avvolge il citoplasma presenta la tipica struttura

trilamellare, e a differenza delle cellule eucariotiche manca degli steroidi. La sua funzione

è quella di regolare il passaggio dei prodotti del metabolismo batterico, di provvedere alla

sintesi di alcuni componenti della parete e della capsula e di intervenire nei meccanismi di

replicazione del batterio; inoltre, contiene alcuni enzimi respiratori.

Il citoplasma e il materiale nucleare sono costituiti in gran parte da acqua, proteine, lipidi,

carboidrati e minerali. Il citoplasma ha un alto contenuto di RNA organizzato per l’80% in

ribosomi (RNA ribosomiale), o per la restante quota in forma solubile (RNA solubile).

Il materiale genico, o cromosoma batterico, è una lunga catena di DNA. In alcune specie

sono presenti frammenti di DNA extracromosomici e non indispensabili per la

sopravvivenza del batterio. Sono definiti "episomi" quando possono anche alternare la loro

posizione extra cromosomica, integrandosi con il DNA cromosomico, o "plasmidi" quando

questa integrazione non è possibile. Più frequentemente questi frammenti

extracromosomici codificano per caratteri di resistenza agli antibiotici e possono essere

scambiati tra batteri della stessa specie, ma anche di specie diverse.

La morfologia, la reazione alla colorazione di Gram, la tolleranza alla presenza di O2 e la

motilità vengono utilizzati per distinguere i batteri, che sulla base di queste caratteristiche

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e alcune prove di laboratorio vengono suddivisi in famiglia, genere e specie (ad esempio,

famiglia Enterobatteriacee, genere Serratia, specie Serratia marcenscens).

Le spirochete, i micoplasmi, le ricketsie e le clamidie sono batteri che hanno caratteristiche

morfologiche strutturali e funzionali diverse da quelle dei batteri comuni.

Le spirochete formano filamenti spiraliformi e flessibili, e le specie patogene comprendono

tre diversi generi: Borrelia, Treponema, Leptospira.

I micoplasmi mancano di parete cellulare, hanno steroidi nella membrana cellulare e

dimensioni molto piccole, e crescono solo su terreni acellulari specifici.

Le rickettsie sono piccoli cocco-bacilli pleiomorfi parassiti intracellulari obbligati, e quasi

tutte richiedono un vettore per il mantenimento in natura e per il passaggio all’uomo,

perché perdono la vitalità nell’ambiente esterno.

Le clamidie sono anch'esse parassiti intracellulari obbligatori, e nelle cellule ospiti

producono tipiche inclusioni intra citoplasmatiche. Non dispongono di meccanismi

energetici, e quindi dipendono dal macrorganismo per la sopravvivenza. Si identificano tre

diverse specie patogene per l’uomo: Chlamydiae trachomatis, C. psittaci, C. pneumonae.

I virus sono agenti filtrabili, sub cellulari e sub microscopici, che mancano di meccanismi

energetici e biosintetici. La composizione dei virus non è comparabile con quella della

cellula procariotica, e la replicazione richiede la partecipazione attiva della cellula ospite.

Dal punto di vista strutturale, presentano il “core” di acido nucleico (DNA o RNA) e il

“capside” che lo avvolge, di natura proteica. Le proteine del capside e dell’acido nucleico

sono strettamente integrate a formare il nucleocapside, che nei virus più semplici si

presenta in forma di unità ripetute (capsomeri). La membrana esterna lipoproteica non è

sempre presente. Alcuni virus più grandi hanno all’interno una polimerasi che permette di

iniziare la replica virale rapidamente, dopo l’ingresso nell’ospite.

I viroidi sono semplici molecole di RNA circolare, senza proteine associate ma dotati di

capacità infettante.

I miceti o funghi e i parassiti hanno dimensioni maggiori e sono più evoluti, con

organizzazione e struttura simile a quella degli organismi superiori (vegetali, animali).

I miceti o funghi sono microrganismi eucariotici. È possibile identificare:

a) i miceti superiori, classe Basidiomycets, che mancano di un ruolo infettivo per la specie

umana anche se alcune specie, quando ingerite, sono velenose (ad es. Amanita);

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b) le muffe, che si sviluppano con micelio filamentoso (ife);

c) i lieviti, formati da cellule ovoidali e sferiche che si riproducono per gemmazione.

Alcuni funghi crescono sia come muffe che come lieviti: sono detti "dimorfi" e sono

endemici di alcuni paesi. Appartengono ai funghi dimorfi: Istoplasma capsulatum,

Coccidiodies immitis, Blastomyces dermatitidis e altri.

I parassiti comprendono i protozoi, gli elminiti e gli atropodi.

I protozoi sono microrganismi unicellulari eucariotici (hanno un vero nucleo), con struttura

cellulare chiaramente differenziata in citoplasma e nucleo; relativamente grandi, sono

considerati le più basse forme di vita animale e si riproducono per scissione binaria o

multipla (fase schizogonia). Alcuni possiedono anche forme sessuate; altri hanno cicli

asessuati e sessuati in ospiti diversi e alcune specie, quando le condizioni di vita

diventano sfavorevoli, possono dare origine a forme cistiche.

Gli elminti sono classificati sulla base del loro aspetto e di quello delle loro uova;

producono infezioni asintomatiche fino a forme gravi in relazione alla specie, alla carica

infettante e alle caratteristiche dell’ospite.

Gli atropodi comprendono numerose specie e possono provocare patologie con diversi

meccanismi, inclusa la trasmissione di altri agenti infettivi.

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Capitolo 3. Patogenesi delle malattie infettive

Fattori del microrganismo

I diversi microrganismi hanno diversa capacità di produrre malattia, cioè una differente

patogenicità. La patogenicità è espressa dalla virulenza, dall'invasività, dall'aderenza e

dall'eventuale produzione di tossine (Tabella 3.1). In base alla patogenicità, i

microrganismi possono essere suddivisi in simbionti, commensali e patogeni.

Tabella 3.1: fattori di patogenicità dei microrganismi (Modificata da M. Moroni, S. Antinori, V. Vullo. Manuale di Malattie Infettive. Elsevier, Milano, 2009).

Fattore Definizione

Virulenza Capacità di danneggiare le cellule dell’ospite. Variazioni di patogenicità dei vari ceppi o tipi di una stessa specie.

Aderenza Capacità del microrganismo di aderire ad uno specifico recettore cellulare.

Invasività Capacità di penetrare e diffondere. Produzione di tossine Sostanze capaci di dare specifiche condizioni patologiche.

Fattori di difesa dell’ospite

I fattori di difesa dell’ospite alle infezioni comprendono fattori non immunitari e fattori

immunitari.

Fattori di difesa non immunitari

Tra i fattori non immunitari un ruolo prominente è occupato dalla barriera cutanea e da

quella mucosa, che quando sono integre bloccano il passaggio dei microorganismi. In

alcune situazioni è possibile identificare la lesione cutanea o mucosa, che è la “porta di

ingresso” attraverso la quale il microorganismo è penetrato nell’ospite. Un altro fattore

protettivo è la flora microbica presente su ogni superficie dell’ospite, e specifica per ogni

sito, che interferisce con l’impianto di microorganismi patogeni occupando i siti recettoriali

di alcune cellule.

Alla difese non immunitarie contribuiscono anche fattori umorali come il complemento e la

fagocitosi ad opera dei macrofagi e dei leucociti polimorfonucleati; alcuni di questi fattori

sono il presupposto per l’attivazione e l’amplificazione di meccanismi di difesa immunitari

specifici, con la produzione delle citochine.

Alcune condizioni fisiologiche o anomalie funzionali dei tessuti/organi possono

rappresentare situazioni che facilitano le patologie infettive. Per esempio, la gravidanza

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favorisce un decorso più grave della varicella e dell'influenza ma anche della tubercolosi, e

favorisce infezioni dell’apparato urinario. Malattie croniche del cuore e dei polmoni

predispongono invece a complicanze polmonari dell'influenza.

Fattori di difesa immunitari

I fattori immunitari comprendono l’immunità umorale, da cui dipende la produzione di

immunoglobuline da parte delle plasmacellule, e l’immunità cellulare legata ai linfociti T.

Le plasmacellule sono la tappa finale del processo di maturazione dei linfociti B

dipendenti, e producono cinque diversi tipi di immunoglobuline: le IgG, che sono le più

abbondanti, le IgM, che di regola compaiono precocemente all’inizio del processo infettivo,

le IgA, presenti in modesta quantità nel siero, che si trovano prevalentemente sulle

mucose dove partecipano alla difesa locale, le IgD, la cui funzione non è nota, e infine le

IgE, che intervengono nelle reazioni di tipo anafilattico di varie patologie allergiche come

ad esempio nell’asma, e in alcune malattie parassitarie. Le cellule che producono IgE si

trovano soprattutto nei tessuti linfatici delle mucose respiratorie e gastrointestinali.

La comparsa di anticorpi non coincide sempre con la protezione immunitaria dalla

malattia. La presenza di anticorpi contro il virus dell’epatite C (HCV), nella totalità dei casi

non significa guarigione dall’HVC; al contrario, la presenza di anticorpi neutralizzanti anti-

polio è indice di protezione dalla polio.

L’immunità cellulare o tessutale (CMI) dipende dai linfociti T a lunga sopravvivenza degli

organi linfatici che circolano anche attraverso il sangue, e riveste un ruolo importante nella

resistenza ad alcuni microrganismi e ad alcuni patogeni intracellulari obbligati tra cui i

micobatteri, nel rigetto dei trapianti e nella risposta ai tumori. L’espressione più classica di

questo tipo di immunità è la risposta cutanea alla inoculazione di antigeni di

Mycobacterium tuberculosis nell’avambraccio, nota come test cutaneo della tubercolosi

(TST).

I linfociti T derivano dai precursori midollari che migrano nel timo durante la vita fetale e il

primo periodo dopo la nascita. I linfociti T sono pochi nel midollo osseo dove prevalgono

quelli B, e sono il 60% dei linfociti circolanti nel sangue. I linfociti T hanno recettori

antigene specifici e sono attivati dagli antigeni preparati dai macrofagi. Dal contatto

linfocita T/antigene specifico derivano l’attivazione di altri linfociti e la produzione di cellule

citotossiche e di citochine, che agiscono a loro volta sulla rete immunitaria stessa.

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Numerose condizioni cliniche, in alcuni casi provocate da mutazioni genetiche ereditarie,

in altri indotte da stati patologici come la Sindrome da Immunodeficienza Acquisita (AIDS),

comportano un anomalo funzionamento dell’immunità specifica con associate complicanze

infettive.

Risposta del macrorganismo all'infezione

Le malattie infettive si manifestano in genere con uno stato tossinfettivo più o meno

accentuato che comporta malessere, astenia, mialgia, cefalea, inappetenza, sudorazione.

Nelle forme prolungate, la cute e le mucose presentano un certo grado di pallore dovuto

all’anemia. Frequente la perdita di peso. La febbre è un altro parametro quasi costante, ed

è importante identificare quattro valori al giorno, insieme a quello della frequenza cardiaca.

Di ausilio per l’inquadramento diagnostico risultano anche le caratteristiche della curva

termica: valore massimo, ritmo giornaliero, tipo di curva, associazione con brivido e/o con

alterazioni della frequenza cardiaca.

Per quanto riguarda gli esami ematochimici, le malattie infettive ad eziologia batteria in

prevalenza determinano un incremento del numero dei globuli bianchi (leucocitosi), dei

neutrofili (neutrofilia), della velocità di eritrosedimentazione (VES) e delle proteina C-

reattiva (PCR).

Nell’inquadramento diagnostico delle malattie infettive hanno valore anche i dati relativi

allo stile di vita del soggetto, al lavoro e alle attività ricreative, inclusi i viaggi. Inoltre, è

importante la conoscenza dei vari stadi della malattia caratterizzati da durata e sintomi

specifici. In particolare, sono da differenziare il periodo di incubazione, di invasione, di

stato, di remissione e di convalescenza, e sapere che la malattia si può manifestare in

modo diverso (forme atipiche) o con i sintomi delle complicanze (forme complicate).

Per quanto riguarda il decorso, si distinguono forme acute, subacute e croniche in base

all’intensità dei sintomi e alla durata di essi: meno di 2 mesi per le patologie acute, 2-6

mesi per le subacute e oltre 6 mesi per le croniche.

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Capitolo 4. Laboratorio di microbiologia: accertamenti diagnostici

Le patologie infettive sono suscettibili di diagnosi eziologica, e quindi di terapia specifica.

Il laboratorio di microbiologia può intervenire su entrambi gli aspetti mediante esami diretti

alla dimostrazione del microrganismo o di parti di esso in materiali biologici (Tabella 4.1),

della risposta immunitaria umorale (risposta anticorpale) o cellulo-mediata indotta dal

contatto con il microrganismo (metodo indiretto), e alla valutazione dell'attività di specifici

antimicrobici mediante lo studio della sensibilità in vitro.

Tabella 4.1: dimostrazione diretta dei microrganismi.

Metodo Tecnica

Osservazione Esame microscopico a fresco Esame microscopico dopo colorazione semplice (blu di metilene, arancio di acridina, cotton-blu, iodio, e al.) Esame microscopico dopo colorazione differenziale (Gram, Ziehl-Neelsen, e al.)

Isolamento Coltura Ricerca antigeni Immunofluorescenza, agglutinazione, sonde con o senza

amplificazione e al. Biologia molecolare Ricerca di materiale genico con o senza amplificazione

Esame microscopico

Per l’esame microscopico di batteri e miceti è possibile utilizzare diverse colorazioni,

alcune delle quali sono riportate in Tabella 4.2.

Tabella 4.2: alcune colorazioni utilizzate per batteri, miceti e parassiti.

• Gram

• Blu di metilene • Arancio di acridina • Ziehl-Neelsen • Auramina-rodamina • Calcofluor white • Cotton blu • May-Grunwal Giemsa modificato • Immunofluorescenza diretta o indiretta • Inchiostro di China • Liquido di Lugol (soluzione iodio-iodurata al 2%)

La colorazione di Gram permette di differenziare tra batteri Gram-negativi e Gram-positivi

sulla base delle affinità tintoriali della parete batterica per il cristal violetto (colorazione blu

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dei Gram-positivi) o la fucsina idro-alcolica (colorazione rosa dei Gram-negativi); vedi

Figura 4.1a e 4.1b.

Figura 4.1: Colorazione di Gram: cocchi Gram-positivi (4. 1a), batteri Gram-negativi (4.1b).

La acido alcol resistenza dei micobatteri viene utilizzata per evidenziare nei campioni i

bacilli alcol-acido resistenti come Mycobacterium spp. (Figura 4.2).

Figura 4.2: Colorazione di Ziehl-Neelsen: bacilli alcol-acido resistenti da espettorato.

L’esame microscopico consente anche di valutare la presenza di cellule infiammatorie nel

campione che si sta esaminando e di correlare il reperto microscopico con il risultato

dell’esame colturale, rafforzando l’evidenza eziologica del microorganismo/i identificato/i.

Terreni di coltura per batteri

Sono disponibili terreni di coltura liquidi, utilizzati per inoculare materiali sterili come il

sangue o il liquido cerebrospinale, che favoriscono la crescita del microrganismo presente

nel campione, e terreni solidi nei quali è possibile valutare le caratteristiche morfologiche

4.1a 4.1 b

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delle colonie batteriche, che sono utilizzati per la semina di campioni non sterili. Si

possono inoltre utilizzare terreni con resine, quando il paziente ha già assunto antibiotici, o

terreni che favoriscono la crescita dei microrganismi anaerobi, oppure terreni selettivi che

rendono più facile lo sviluppo di alcune specie rispetto ad altre (ad es. il brodo selenite,

utilizzato per la ricerca di Salmonella spp. nelle feci).

Lo sviluppo dei microrganismi nel terreno liquido viene rilevato macroscopicamente

osservando l’intorbidamento del brodo stesso, oppure mediante sistemi automatizzati che

rilevano variazioni di densità del liquido. Al contrario del terreno liquido, nelle piastre di

terreno solido la crescita coincide con la rilevazione delle colonie batteriche sulla

superficie della piastra (Figura 4.3a e 4.3b); è possibile valutare eventuali differenze

morfologiche, che corrispondono a specie microbiche diverse.

Figura 4.3: piastre di agar cioccolato con sviluppo di colonie di stafilococchi (4.3a), e piastre di agar sangue con sviluppo di colonie di streptococchi β-emolitici (4.3b)

L’identificazione di specie e le prove di sensibilità, indipendentemente dalla metodica

utilizzata, non possono prescindere dalla presenza di colonie isolate, e quindi dalla coltura

su piastra.

Dopo essere inoculati, i terreni sono messi in incubazione per un periodo variabile fino a

qualche settimana; possono essere incubati a diversa temperatura, con differente

concentrazione di O2 o in anaerobiosi, oppure in atmosfera arricchita di anidride carbonica

(CO2), a seconda della specie che si sta ricercando.

4. 3a 4. 3b

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Emocolture

Sono utilizzate per la diagnosi eziologica delle infezioni setticemiche. Di solito vengono

inoculati terreni non selettivi, che supportano la crescita della maggior parte dei batteri. Il

prelievo va fatto prima di somministrare la terapia antibiotica, in numero di 2/3 set (1 set =

1 brodo per aerobi e 1 brodo per anerobi), a distanza di 15 minuti nei pazienti più gravi o a

distanza di 2 ore in quelli stabili, subito prima della puntata febbrile. Vengono inoculati 10

ml di sangue per bottiglia e i campioni vengono mantenuti a temperatura ambiente in

caso di chiusura del laboratorio. Generalmente si procede con la subcoltura solo in caso di

positività e cioè intorbidamento macroscopico del brodo o rilevazione della crescita con

sensori.

Urine getto intermedio

Con tale termine si intende il campione prelevato in contenitori sterili, dopo aver urinato

alcune gocce, in modo tale da ridurre l’eventuale contaminazione con batteri presenti a

livello dell’uretra e dei genitali. Possono essere esaminati anche campioni prelevati da

catetere, da puntura sovra pubica o da cistostomia.

Non va mai esaminata la punta del catetere urinario, e il campione deve essere

processato entro 2h dal prelievo. Generalmente, sono considerate significative urino

colture con conte di batteri ≥105 colonie formanti unità (CFU)/ml. Se il campione non

centrifugato viene colorato con la colorazione di Gram e all’esame microscopico si rilevano

batteri, con una quasi totale certezza si può ritenere che la concentrazione di patogeni

nelle urine sarà ≥105 CFU/ml.

In alcuni condizioni, elencate nella Tabella 4.4, e a giudizio del medico, è possibile

considerare significative urino colture con cariche batteriche <105 CFU/ml

Tabella 4.4: condizioni in cui sono significative cariche batteriche urinarie <105 CFU/ml (modificata da Mandell, Duglas, and Bennet. Principles and Practice of Infectious Disease. Philadelphia 7th Ed, 2010).

• Età pediatriche • Maschi • Presenza di catetere vescicale • Recente terapia antibiotica • Introduzione di abbondante quantità di liquidi • Presenza di sintomi urinari e leucociti nel sedimento • Ostruzione delle vie urinarie • Pielonefrite ematogena

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Feci

I campioni fecali sono esaminati per la diagnosi di diarrea infettiva, compresa la diarrea da

antibiotici causata da Clostridium difficile. I campioni sono raccolti in contenitori non

necessariamente sterili, ma non devono essere contaminati da carta igienica o urine. Per

sintomi insorti almeno 3 giorni dopo il ricovero in ospedale, non dovrebbero essere

ricercati patogeni enterici quali Salmonella spp o Yersinia spp, mentre è appropriata la

ricerca di C. difficile. Colture per Aeromonas, Plesiomonas, Yersinia, Shigella, Listeria

vengono generalmente allestite su specifica richiesta del medico, mentre E.coli O157

entero-emorragico deve essere ricercato in tutti i pazienti con feci ematiche e sindrome

emolitico-uremica. Le feci possono essere esaminate anche per la ricerca di Clostridium

botulinum nei pazienti con sospetto botulismo. In questi casi, sono di ausilio nella diagnosi

anche i test che evidenziano la tossina nelle feci, ma soprattutto è significativa la sua

dimostrazione nel sangue. Per la ricerca di Mycobacterium tuberculosis nei casi di

tubercolosi intestinale, e di M. avium complex nelle micobatteriosi disseminate dei pazienti

con infezione da immunodeficienza acquisita (HIV/AIDS), sono esaminati 2 gr di feci

formate e 5 gr di feci liquide, che sono decontaminate prima di essere seminate negli

specifici terreni di coltura.

Per le colture virali sono necessarie colture cellulari, con conseguenti maggiori difficoltà

tecniche.

Risposta della immunità specifica

La dimostrazione della risposta immunitaria specifica, mediante la ricerca di anticorpi o

con la valutazione della risposta cellulo-mediata, sono due metodiche indirette che

possono essere utilizzate per la diagnosi eziologica di patologia infettiva.

La presenza di anticorpi può avere significato di infezione pregressa, di immunità o di

infezione in atto. Di norma gli anticorpi presenti in fase acuta di malattia sono

immunoglobuline della classe IgM. La presenza di IgM è infatti più precoce rispetto a

quella delle IgG, e non persiste oltre 6 mesi. Gli anticorpi della classe IgG sono invece

prodotti più tardivamente e perdurano per periodi lunghi, spesso per tutta la vita. Una

variazione del loro titolo ≥4 volte nell’arco di 2 settimane è anch'essa indice di infezione

acuta.

L’esempio più classico della risposta cellulo-mediata è la prova cutanea per la tubercolosi,

nota con gli acronimi TST o PPD, e permette la diagnosi di contatto con Mycobacterium

tuberculosis (Figura 4.5a e 4.5b).

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Figura 4.5: test di intradermoreazione tubercolinico (4.5a) http://enfamilia.aeped.es/sites/enfamilia.aeped.es/files/styles/4col/public/images/articulos/1024px-mantoux_tuberculin_skin_test.jpg?itok=LQ297qG1, risposta positiva (4.5b).

Sensibilità in vitro ai chemioterapici

Le prove di sensibilità vengono più comunemente eseguite per i batteri, inclusi i

micobatteri, con metodiche diverse che vanno dal test di diffusione su agar alla

determinazione della minima concentrazione batteriostatica (MIC), per la quale si possono

utilizzare diversi metodi.

Il test di diffusione misura l’alone di inibizione della crescita batterica, mentre il metodo

della MIC definisce la concentrazione di antibiotico che inibisce la crescita del batterio. È

anche possibile valutare la sensibilità definendo la presenza dei geni codificanti per una

specifica resistenza.

4. 4a 4. 4b

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Capitolo 5. Prevenzione delle infezioni

Il problema delle infezioni ospedaliere – o meglio infezioni correlate all'assistenza –

nasce formalmente nel 1950, con l'obiettivo di prevenire la trasmissione ospedaliera delle

infezioni da Staphylococcus aureus. Successivamente sono state prese in considerazione

altre patologie e sono stati creati comitati di controllo specifici, con l’obbiettivo di

monitorare l’incidenza e i fattori di rischio, e di elaborare protocolli specifici di gestione

delle procedure a maggior incidenza di complicanze infettive. Più recentemente, le

infezioni associate all’assistenza sono state incluse negli eventi indesiderati dell'assistenza

sanitaria, e l’obbiettivo principale dei comitati di controllo è la prevenzione, piuttosto che il

monitoraggio.

La prevenzione delle infezioni correlate all'assistenza si basa su alcuni punti che, con

possibili variazioni nelle diverse strutture sanitarie, includono: 1) sorveglianza; 2)

isolamento dei pazienti con patogeni trasmissibili; 3) identificazione e gestione di una

epidemia; 4) educazione; 5) salute del personale; 6) monitoraggio dell’uso degli antibiotici;

7) sviluppo di protocolli di prevenzione; 8) igiene dell’ambiente; 9) valutazione di nuovi

prodotti. Alcune strutture sanitarie comprendono anche il miglioramento della qualità

assistenziale e della sicurezza del paziente.

Isolamento

È un insieme di procedure volte a prevenire la trasmissione di microrganismi patogeni o

potenzialmente patogeni dal malato o dal portatore ad altri soggetti, pazienti, operatori

sanitari o visitatori. È costoso, interferisce con l'assistenza e va riservato ai casi necessari.

Dal punto di vista clinico bisogna distinguere la colonizzazione dalla malattia. La

colonizzazione è una situazione in cui il soggetto dal quale si isola un microorganismo non

presenta sintomi (ad es. febbre, leucocitosi), mentre la malattia coincide con la comparsa

di manifestazioni legate alla replicazione del microorganismo e alla invasione tissutale. La

colonizzazione abitualmente precede l’infezione, e i microrganismi che colonizzano

possono essere trasmessi.

Negli ultimi decenni si è assistito a un aumento del numero di pazienti che necessitano di

isolamento, oltre che a una più globale applicazione delle precauzioni che devono essere

attuate non solo nell’ambiente ospedaliero per diverse ragioni: per citarne alcune,

l’incremento dei casi di tubercolosi e delle infezioni da microorganismi multi resistenti ai

chemio antibiotici, e la comparsa di nuove epidemie come quella da coronavirus, virus

influenzali e virus Ebola. Tali eventi hanno anche determinato la trasformazione di alcuni

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reparti di degenza in degenze differenziate, atte alla gestione del paziente con specifiche

patologie e al controllo della loro diffusione mediante il rafforzamento delle precauzioni

standard e la rielaborazione di linee guida specifiche.

Precauzioni standard

Il termine di precauzioni standard – che sostituisce quello di precauzioni universali e

isolamento dalle superfici corporee – si riferisce alle procedure adottate per la prevenzione

della trasmissione di microorganismi con il sangue e altri liquidi biologici. Queste

procedure si applicano in tutti i casi in cui il soggetto viene in contatto con il sangue e altri

liquidi biologici, escluso il sudore, indipendentemente dal fatto che essi siano contaminati

macroscopicamente da sangue, o con la cute e le mucose di un altro soggetto/paziente.

Consistono in: 1) praticare l'igiene delle mani prima di indossare i guanti, subito dopo aver

sfilato i guanti e tra un paziente e l’altro, prima di indossare di nuovo i guanti; 2) indossare

i guanti prima del contatto con il sangue e liquidi biologici (eccetto sudore), secrezioni e

escrezioni, indipendentemente se contaminate da sangue, cute non integra e mucose; 3)

indossare la maschera con protezione per mucose e il camice per procedure che

prevedono possibili schizzi o aerosol di liquidi biologici; 4) mai rincappucciare, piegare o

spezzare aghi e strumenti taglienti, che vanno eliminati in appositi contenitori rigidi.

Il lavaggio delle mani serve a rimuovere sporcizia macroscopicamente evidente, e a

prevenire il trasferimento di batteri da casa all’ospedale e le infezioni acquisite in

ospedale.

Si stima che meno del 50% degli operatori sanitari si attiene a questa procedura e che

l’aumento della pratica del 1,5-2,0% potrebbe ridurre del 25-50% l’incidenza delle infezioni

correlate alla assistenza. Molte di queste patologie sono infatte trasmesse per contatto,

principalmente delle mani, e il metodo più utile per la prevenzione delle infezioni

nosocomiali è proprio il lavaggio delle mani. Il lavaggio rimuove facilmente i

microorganismi transitori (in genere patogeni nosocomiali); al contrario i microorganismi

residenti – come stafilococchi coagulasi negativi, corinebatteri, micrococchi poco virulenti

e quindi con patogenicità limitata e in situazioni specifiche – difficilmente vengono

allontanati con il lavaggio. Per l’igiene delle mani, che si ribadisce va praticata prima e

dopo il contatto e subito dopo aver sfilato i guanti, si utilizzano soluzioni a base di alcol,

mentre Il lavaggio con sapone è da riservare quando le mani sono macroscopicamente

sporche.

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Oltre al lavaggio delle mani, gli operatori che lavorano in reparti con pazienti a più alto

rischio di infezioni devono porre particolare cura anche all’igiene delle unghie,

mantenendo la lunghezza di quelle naturali a meno di1/2 cm ed evitando quelle artificiali e

gli smalti.

I guanti sono indossati dagli operatori per prevenire la contaminazione delle mani con

microorganismi, e per prevenire l’esposizione al sangue o ad altri liquidi biologici

potenzialmente infetti. L’uso di guanti non sostituisce il lavaggio delle mani. I guanti

devono essere cambiati dopo aver toccato un sito contaminato, come una ferita infetta,

prima di toccarne uno non contaminato.

I dispositivi di protezione individuale come i camici, le maschere chirurgiche, le maschere

con filtri e le maschere con schermi devono essere indossate per procedure che

comportino la possibilità di contaminazione cutanea o mucosa con schizzi, aerosol di

sangue o altre secrezioni del paziente.

Le precauzioni standard contemplano anche l’uso di maschere chirurgiche per evitare la

contaminazione del campo operatorio durante procedure invasive come gli interventi

chirurgici, il posizionamento di cateteri vascolari, la puntura lombare e altre.

È indispensabile usare solo siringhe e aghi monouso, come anche farmaci in confezione

monouso. Ogni dispositivo tagliente va eliminato in appositi contenitori.

Precauzioni specifiche

Per quanto riguarda le precauzioni specifiche si devono considerare la modalità con cui i

microrganismi si trasferiscono da un soggetto all’altro o dall’ambiente all’ospite (Tabelle

5.1 e 5.2).

Nella trasmissione per via aerea possono intervenire particelle di dimensioni ≤5µ, che si

producono mentre il paziente parla, tossisce, starnuta o è sottoposto a procedure

diagnostiche come la broncoscopia, o a procedure terapeutiche come ad esempio

l’aerosol terapia. Queste particelle di piccole dimensioni restano sospese nell’aria e

possono essere inalate raggiungendo le vie aeree inferiori. Inoltre si possono spostare da

uno spazio all’altro, per cui è indispensabile che il soggetto infetto sia ricoverato in una

camera singola, se possibile con pressione negativa, e che le porte della camera siano

sempre chiuse. Alcune patologie infettive sono sempre trasmesse per via aerea ma con

particelle di dimensioni superiori a 5µ; l’ospite si infetta quando le goccioline si depositano

sulle mucose del naso, della bocca e/o delle congiuntive. Queste particelle non sono

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sospese e non si spostano da una camera all’altra, per cui il paziente viene ricoverato in

una camera singola non a pressione negativa.

Nella trasmissione per contatto il microrganismo viene trasferito per contatto diretto con il

soggetto, o indiretto per il contatto con oggetti o superfici contaminate.

Tabella 5.1: precauzioni standard nei diversi tipi di isolamento (modificata da Mandell, Duglas, and Bennet. Principles and Practice of Infectious Disease. Philadelphia 8th Ed, 2015).

Aerea ≤5µ Goccioline >5µ Contatto

Camera di degenza

Camera singola

Pressione negative

Porta chiusa

Camera singola

Porta può rimanere aperta

Camera singola,

Apparecchiature destinate

Maschera Maschera con protezione filtrante >98% (FFP3) o respiratori per operatore, m. chirugica per il paziente

Maschera chirugica per il paziente

Schermo facciale/protezione occhi per tutte le procedure che generano aerosol o schizzi di sangue, liquidi corporei secrezioni, escrezioni

Camice per tutte le procedure che generano aerosol o schizzi di sangue, liquidi corporei secrezioni, escrezioni

Lasciare il camice in camera per isolamento da contatto

Guanti per toccare sangue, liquidi biologici, secrezioni, escrezioni, mucose, cute non integra.

Rimuovere dopo l’uso e prima di toccare superfici, oggetti non contaminate e altri pazienti

Indossare prima di entrare in camera per isolamento da contatto

Lavaggio delle mani dopo contatto con sangue, liquidi, secrezioni, escrezioni oggetti, superfici contaminate, dopo sfilato i guanti e tra un paziente e l’altro

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Tabella 5.2: precauzioni in relazione alle diverse patologie (modificata da Mandell, Duglas, and Bennet. Principles and Practice of Infectious Disease, Philadelphia 8th Ed, 2015).

Aerea ≤5µ Droplet >5µ Contatto

Sintomi Rash vescicolare; Rash maculo-papulare con rinite e febbre;

Tosse febbre e infiltrati lobi superiori;

Tosse febbre, in HIV+ certo o sospetto

Febbre, sintomi respiratori in paz contatto o viaggio SARS

Meningite;

Rash petecchiale o emorragico con febbre;

Tosse parossistica o persistente in epidemie di pertosse

Diarrea infettiva;

Diarrea da antibiotici;

Rash vescicolare;

Infezioni respiratorie in neonati e bambini;

Colonizzazione o infezione da *MDR;

Ascessi o ferite che non possono essere coperte

Patologie o eziologia accertata/ sospetta

Morbillo;

Tubercolosi polmonare o laringea;

**Varicella;

**Varicella-Zoster disseminato o in ospite immunocompromesso

**SARS

**Vaiolo

**Adenovirus (neonati e bambini);

Difterite laringea;

Meningite o epiglottidite da H.

influenzae;

Polmonite da H.influenzae (neonati, bambini)

Infezioni da meningococco;

Parotite;

Polmonit da Mycoplasma;

Parvovirus B19;

Pertosse;

Peste polmonare;

Rosolia;

Faringite, polmonite da S. pyogenes, scarlattina

**Adenovirus (neonati e bambini);

Cellulite, ulcere da decubito;

C. difficile;

Congiuntivite virale acuta;

Difterite cutanea;

Epatie A;

E.Coli 0157;

Enterovirus;

Febbre emorragica;

HSV (neonatale, disseminato, primario grave);

Infezioni cute e sottocute da S. pyogenes e S. aureus;

**MDR;

Parainfluenza (bambini e neonati);

Pidocchi;

Rotavirus;

Rosolia congenita;

Virus Respiratorio Sinciziale (neonati, bambini, immunocompromessi);

SARS;

Scabbia;

**Varicella;

**Vaiolo;

**Varicella-Zoster

Yersiniosi;

Leggenda *MDR=multi-drug resistant microorganisms,**isolamento da contatto e aereo

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Per quanto riguarda il controllo delle infezioni nel personale sanitario durante l’attività

lavorativa, sono disponibili protocolli specifici per la profilassi delle infezioni a trasmissione

parenterale come le epatiti e il virus HIV, la tubercolosi e altre. Anche in questo contesto

l’educazione, la diffusione delle informazioni e l’applicazione corretta dei protocolli sono

aspetti imprescindibili per un efficace controllo.

Profilassi attiva e passiva

La profilassi attiva si basa sull’uso dei vaccini. Rispetto all'immunità passiva ha il vantaggio

di conferire immunità di lunga durata (mesi-anni), ma ha lo svantaggio che la protezione

richiede alcune settimane, e quindi non permette la prevenzione immediata di una

patologia infettiva. Sono disponibili vaccini costituti da microrganismi vivi attenuati o

vaccini con patogeni uccisi, vaccini con antigeni ricavati dai patogeni o sintetizzati in vitro

oppure con tossine del microrganismo inattivate (anatossine).

In alcune situazioni viene somministrata contemporaneamente una profilassi attiva e una

profilassi passiva, come ad esempio la profilassi post esposizione per il tetano nei soggetti

non vaccinati o che hanno perso l’immunità, e in quelli non immuni al virus della epatite B

ed esposti al rischio di infezione.

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Capitolo 6. Tetano

Definizione

Si tratta di una patologia infettiva caratterizzata dallo stato di contrattura persistente della

muscolatura striata con esacerbazioni parossistiche, causata dalla tossina di Clostridium

tetani.

Eziologia

C. tetani è un bacillo Gram-positivo, anerobio, sporigeno (nei preparati da campioni

biologici o colture vecchie può apparire Gram-incerto). Le spore sono molto resistenti, con

capacità di germinare indefinita. Esse resistono all'ebollizione per alcune ore, e sono

uccise dal calore umido in autoclave a 120°C per 15 min. Alcuni disinfettanti come lo iodio,

la gluteraldeide e l’acqua ossigenata hanno azione battericida correlata al tempo di

contatto. La riproduzione di C. tetani avviene in condizione di assoluta anaerobiosi e

questo aspetto, insieme alla vaccinazione, limita il numero dei casi della malattia.

Epidemiologia

L’incidenza globale del tetano è di 1 milione di casi all’anno (18/100.000), per la maggior

parte in pazienti dopo i 60 anni e di sesso femminile. Nei paesi economicamente meno

sviluppati il tetano è gravato da una mortalità del 20-30%, che nel 50% dei casi riguarda i

neonati; al contrario, nei paesi più industrializzati la mortalità è molto bassa.

C. tetani è molto diffuso in natura, ed è presente in quantità abbondante nei terreni coltivati

con concimi animali e nell’intestino degli erbivori. Il clima tropicale e il terreno argilloso

sono ulteriori condizioni che favoriscono lo sviluppo del microrganismo. C. tetani è stato

identificato anche nelle feci umane con un'incidenza pari al 5%, ma l’intestino umano non

è l’habitat ottimale e il batterio vi persiste solo per periodi limitati.

Patogenesi e sintomi

Il tetano è provocato dalla tossina di C. tetani, la tetanospasmina, codificata da un

plasmide. La tossina dal focolaio d’infezione raggiunge il sistema nervoso centrale (SNC)

attraverso le terminazioni nervose motrici periferiche e le terminazioni pre-sinaptiche delle

vie inibitorie, inibendo la liberazione dei neurotrasmettitori delle cellule inibitorie e

lasciando le vie motorie prive dell'azione inibitrice, con conseguente ipertono e spasmi

involontari. La tossina colpisce anche il sistema nervoso autonomo, provocando uno stato

di ipereccitazione simpatica secondario alla mancata inibizione della liberazione di

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adrenalina con episodi di aumento della frequenza cardica (tachicardia) e della pressione

arteriosa (ipertensione).

Il periodo di incubazione del tetano – cioè l’intervallo tra l’ingresso del microrganismo e il

primo sintomo – dura da pochi giorni a settimane o mesi, in media 4-21 giorni, e nella

maggior parte dei casi è asintomatico. In alcuni pazienti viene riferita dolenzia in

corrispondenza della ferita, fascicolazioni dei muscoli, senso di malessere e insonnia.

Al periodo di incubazione segue il periodo di invasione o onset, che corrisponde

all’intervallo tra il primo sintomo e la prima contrazione generalizzata e ha durata variabile.

In questa fase fanno la comparsa le contratture muscolari persistenti, irriducibili e

dolorose. I primi muscoli colpiti sono in genere i masseteri, e clinicamente si manifesta il

trisma, cioè la impossibilità di aprire la bocca. La contrattura dei muscoli mimici del volto è

rappresentata clinicamente dal risus sardonico. La contrattura dai muscoli della bocca si

estende progressivamente ai muscoli del collo, del tronco e degli arti. La contrattura dei

muscoli faringei provoca disfagia, cioè l'incapacità di deglutire.

Su questo quadro di contrazione generalizzata si inseriscono contratture spastiche.

Il quadro clinico può essere più o meno grave e si differenziano 3 gradi di tetano in base

alla durata del periodo di incubazione, alla lunghezza del periodo di invasione o di onset,

alla diffusione e intensità delle crisi parossistiche (Tabella 6.1).

Tabella 6.1: classificazione del tetano (S. Pauluzzi. Corso di lezioni di malattie infettive, 2° Ed. Galeno, Perugia, 1988).

Tipo di tetano Durata incubazione gg

Durata invasione gg

Sintomi

I° grado >14 >6 Trisma Assente disfagia Accessi tetanici spesso assenti Accessi brevi e circoscritti

II° grado 7-14 3-6 Trisma, Disfagia Contrattura generalizzata Accessi tetanici relativamente frequenti Assente dispnea e cianosi

III° grado <7 <3 Disfagia molto intensa e grave, causa di aspirazione tracheale Accessi frequenti, prolungati e violenti. In alcuni casi si manifesta spasmo laringeo

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In tutte le forme di tetano manca la febbre. L’evoluzione clinica del tetano, se non

interviene la morte nella fase acuta, è la guarigione.

Diagnosi e terapia

La diagnosi di tetano è clinica. Utile anche la determinazione del titolo di anticorpi anti-

tetano nel siero. Il trattamento prevede la somministrazione di antitossina, la vaccinazione,

la toilette della ferita chirurgica e la terapia antibiotica.

La profilassi post esposizione è riportata nella Tabella 6.2

Tabella 6.2: profilassi post esposizione del tetano (modificata da DN Gilbert, HF Chambers, GM Eliopoulous, MS Saag. The Sanford Antimicrobial guide to antimicrobial therapy. Sperryville VA. 44th Ed. 2014).

Leggenda: TD=Vaccino tetano e difterite, TIG=immunoglobuline tetano.

Immunizzazione Ferite sporche Ferite pulite

TD TIG TD TIG

Non nota o <3 dosi

SI SI SI NO

>3 dosi SI se ultima dose >5 anni

NO NO se ultima dose <10 anni

NO

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Capitolo 7. Rabbia

La rabbia è una malattia infettiva acuta sostenuta dal virus rabico. È una zoonosi che può

colpire tutti gli animali a sangue caldo; accidentalmente anche l’uomo si può ammalare,

manifestando una encefalite a esito quasi costantemente letale.

Eziologia

In virus della rabbia è un virus della famiglia Rabdhovirus, genere Lyssavirus. Il virione

contiene RNA e all’esterno un involucro e un capside con simmetria elicoidale. Il virus

cresce su uova embrionate di pollo, di anatra e diverse linee cellulari umane e animali. È

inattivato da solventi lipidici, ultravioletti, luce solare e dal calore a 60°C per 5’.

Il virus appena isolato dall’animale viene definito virus “da strada” e provoca la malattia

dopo un periodo di incubazione generalmente lungo; si replica anche nei tessuti extra

nervosi e forma inclusioni citoplasmatiche nei neuroni, i corpi di Negri, che sono materiale

nucleo-capsidico. Passaggi successivi, nel cervello di coniglio, danno origine al “virus

fisso”. Il virus così modificato è caratterizzato da un periodo di incubazione più breve, 4-6

giorni, da una maggiore patogenicità per il coniglio ma minore per l’uomo; si replica solo

nel tessuto nervoso, e raramente forma corpi inclusi.

Epidemiologia

Tutti gli animali a sangue caldo sono suscettibili alla rabbia, ma solo alcuni trasmettono

l’infezione. L’uomo in genere è contagiato dagli animali domestici.

La rabbia è una zoonosi diffusa in tutto il mondo con l’eccezione di alcune isole

dell'Australia, l’Antartide, la Nuova Zelanda, il Regno Unito, l’Irlanda e le Hawai.

Si identificano due forme diverse di malattia: la rabbia urbana trasmessa dal cane e quella

silvestre, nella quale intervengono gli animali selvatici. La prima è legata al randagismo dei

cani ed è scomparsa in Italia. Rimane in alcune aree dei Balcani, nei paesi dell’ex URSS,

in gran parte dell’Africa, Asia, Sud-America. La rabbia silvestre è diffusa in Europa e

anche in Italia settentrionale, tra le volpi e altri animali. Le volpi diffondono l’infezione con il

morso agli altri animali selvatici, ma possono essere colpiti anche bovini, gatti, e cani

domestici e randagi.

Mentre in Europa i cani e gli animali selvatici rimangono la causa più frequente di rabbia,

in alcuni paesi anche i carnivori, i piccoli roditori (scoiattoli, topi, cincillà e altri) e i pipistrelli

insettivori possono trasmettere il virus rabico.

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La rabbia dei pipistrelli è stata diagnosticata in molti stati dell’Europa e in particolare in

Olanda, Danimarca e Germania, ma anche in Polonia, Francia, Spagna, Regno Unito,

Svizzera, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ucraina e Russia. Gli studi molecolari hanno

dimostrato una differenziazione genetica fra i Lyssavirus responsabili della rabbia e nei

pipistrelli insettivori europei sono stati identificati due genotipi, denominati rispettivamente

European Bat Lyssavirus 1 e 2 (EBLV1 e EBLV2). La prevalenza di EBLV nei pipistrelli è

ancora limitata; delle 33 specie di pipistrelli insettivori presenti in Europa, circa il 95% dei

casi ha interessato Eptesicus serotinus, ma molte altre specie di pipistrelli sembrano

coinvolte nell’epidemiologia dell’EBLV. Il riscontro di Lyssavirus nei pipistrelli insettivori

europei, i casi di rabbia in animali domestici e selvatici riconducibili al virus rabbico dei

pipistrelli e i rari casi di rabbia dei pipistrelli nell’uomo, hanno messo in luce rischi inattesi e

sono emersi interrogativi in merito ai metodi utilizzati per il controllo della rabbia, inclusa

l’efficacia della profilassi vaccinica post esposizione.

L’infezione è trasmessa dall’animale infetto all’uomo con la saliva tramite morsicatura,

graffio, leccamento di cute non integra o mucose anche integre. È possibile anche la

trasmissione aerea, nelle grotte che ospitano i pipistrelli. Il virus non penetra la cute

integra. Rarissimi sono i casi di trasmissione inter-umana mediante trapianto di cornea,

anche se il soggetto malato di rabbia elimina il virus con saliva e con le urine.

Nel cane la saliva è infetta 3-7 giorni prima della comparsa dei sintomi clinici. Il contatto

con animali rabici dà malattia nel 50% dei casi circa.

Patogenesi e sintomi

Il virus penetra tramite la morsicatura, il graffio o il leccamento di cute non integra o

mucose anche integre. Il virus non penetra la cute integra. Durante il periodo di

incubazione, in genere di 10 giorni di durata, il virus si replica nei miociti (cellule

muscolari), poi oltrepassa la giunzione neuro muscolare ed entra nel sistema nervoso

centrale tramite gli assoni sensitivi e motori e a questo punto, l’infezione non può più

essere arrestata dall’immunizzazione. Nei neuroni midollari ha un’altra fase di replicazione

poi il virus diffonde a tutto il SNC, provocando una encefalite rapidamente progressiva. A

questo punto il virus, seguendo una direzione centrifuga, con le terminazione dei nervi

periferici viene disseminato a tutti gli organi.

Quanto più è alto l’inoculo virale e la concentrazione di virus nella regione interessata,

tanto più breve è il periodo di incubazione e la gravità della malattia. Il periodo di

incubazione della rabbia varia da 10 giorni-alcuni anni, in media 1-3 mesi.

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Nella fase prodromica il paziente presenta febbre, anoressia, cefalea, malessere,

formicolii, parestesie, dolore nella zona della morsicatura.

Dopo alcuni giorni si manifesta uno stato di ansia e irritabilità, oppure di depressione. A

volte sono presenti anche sudorazione, salivazione, aumento della sensazione dolorosa e

del tono muscolare, polipnea (aumento della frequenza respiratoria), midriasi (dilatazione

delle pupille) e gradualmente nel giro di una settimana si instaurano tutti i segni della fase

di eccitazione o furiosa, che può persistere fino al decesso. In questa fase l’ansia è

angosciante, è presente cefalea intensa, rachialgie, ipertonia muscolare con tremori e

spasmi laringo-tracheo-bronchiali che possono essere provocati dal semplice movimento

dell’aria (aerofobia) e dalla ingestione di acqua (idrofobia). Le crisi di aggressività e le

convulsioni diventano sempre più frequenti e il decesso sopraggiunge dopo 4-5 giorni, in

genere per insufficienza respiratoria. Abituali anche le convulsioni, le alterazioni della

frequenza cardiaca e del ritmo del respiro, ritenzione urinaria e stipsi.

In alcuni casi alla fase furiosa segue la fase paralitica nella quale gli spasmi muscolari si

risolvono e compaiono emiplegie, paralisi dei nervi cranici, incontinenza urinaria, apatia,

torpore fino al coma e all’exitus per insufficienza cardiaca.

In altri casi ancora, nella rabbia paralitica manca del tutto la fase eccitatoria, e dalla fase

prodromica si passa a uno stato di coma irreversibile, senza le tipiche manifestazioni

eccitatorie.

Durante tutta la malattia il paziente è lucido.

A tutt’oggi, non c’è alcuna terapia certa disponibile, una volta che i sintomi sono iniziati. In

letteratura viene segnalato un solo paziente sopravvissuto senza terapia post esposizione

(PET) e trattato con protocollo Wisconsin (ribavirina+amantadina), oltre a tre pazienti

sopravvissuti con PET.

Profilassi/Trattamento post esposizione

Lavare tutte le ferite con acque e sapone e irrigare con iodio povidone.

Se necessario somministrare al più presto anticorpi antirabici umani e HDCV (human

diploid cell vaccine) inattivato. Il vaccino inattivato, preparato da colture di cellule diploidi

umane, è privo degli effetti collaterali (encefalomielite demielinizzante) che

caratterizzavano i vaccini usati in precedenza e preparati su embrione d’anatra o tessuti

cerebrali animali; inoltre, ha una maggiore potenza immunogena, con risposta anticorpale

presente nel 100% dei casi. Il vaccino viene inoculato nella regione deltoidea nei giorni 3,

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7, 14, 28 post esposizione. In alcune categorie di lavoratori la vaccinazione può/deve

essere somministrata a scopo preventivo e, in questo caso, sono sufficienti tre dosi, nei

giorni 0, 7, 21 o 28 con richiami ogni 2-3 anni, monitorando il titolo di anticorpi proteggenti.

La profilassi anti rabbica sembra essere sicura in gravidanza e quindi può essere

somministrata, se indicato.

Tabella 7.1: terapia post esposizione (modificata da M Moroni, R Esposito, F De Lalla. Malattie infettive. Masson, Milano, 2003).

(http://www.cdc.gov/ncidod/dvrd/rabies/Prevention&Control/ACIP.htm)

Specie animale Condizione dell’animale Trattamento del soggetto

Cane, gatto, furetto 1) Sano o osservabile per 10 giorni

2) Rabbia, sospetto rabbia

3) Sconosciuto (fuggito)

1) Nessuno se l’animale non manifesta sintomi

2) RIG (1)

e HDCV (2)

3) Consultare operatore di sanità pubblica eventualmente RIG e HDCV

Roditori, felini carnivori, pipistrelli, scimmie, ungulati

Considerare rabidi fino a prova contraria

RIG e HDCV

Bestiame (ovini, caprini, equini, ecc), roditori

Consultare operatore di sanità pubblica eventualmente RIG e HDCV

Leggenda: 1) RIG Ig Umane antirabbia, 2) Human Diploid Cell Vaccine.

In caso di morso da animale è necessario seguire una procedura specifica definita dal

Servizio di Sanità Pubblica ed eventualmente provvedere alla vaccinazione. Di seguito

viene riportata la modulistica da compilare e da inviare via FAX al Servizio di Sanità

Pubblica della Regione Umbria (Figura 7.1).

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Figura 7.1: schema di segnalazione morso animale da inviare al Servizio di Sanità Pubblica della Regione

Umbria.

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Capitolo 8. Febbre tifoide (tifo addominale, ileo-tifo)

È una infezione sistemica causata da Salmonella typhi che si manifesta con febbre,

alterazioni del sensorio, disturbi dell’apparato digerente, ingrandimento della milza

(splenomegalia), esantema maculo-papuloso, riduzione del numero dei globuli bianchi

(leucopenia) e dei neutrofili (neutropenia).

Microbiologia

Salmonella tiphy appartiene alla famiglia delle Enterobatteriacee, specie Salmonella.

S. typhy ha come unico ospite l’uomo. L’infezione è trasmessa per via oro-fecale ed è

dovuta alla contaminazione di acqua o cibi con materiale fecale di malati o portatori sani. I

portatori sono più pericolosi nel diffondere l’infezione in quanto asintomatici, e possono

eliminare il microrganismo nell’ambiente anche per tutta la vita.

Particolare importanza nella diffusione della malattia riveste la contaminazione delle acque

dolci utilizzate per l’irrigazione e dell’acqua di mare con allevamenti di frutti di mare con

materiale fecale umano.

Condizioni di acloridia (ridotta concentrazione di acido dello stomaco), dismicrobismo

intestinale e quantità di microrganismi ingeriti sono correlati con la suscettibilità dell’ospite

all’infezione. L’infezione dovuta all'ingestione di acqua contaminata richiede una carica

batterica più bassa e un periodo di incubazione più lungo. Un numero di 10-100

microorganismi è sufficiente a causare il tifo anche in soggetti sani.

La più alta incidenza di tifo si registra nel Sud-Est asiatico con oltre 100 casi/100.000

abitanti/anno. L’incidenza è correlata con la scarsa presenza di adeguate norme igieniche.

In Italia si osservano casi sporadici di importazione, contratti soprattutto durante soggiorni

o viaggi in paesi con maggiore incidenza. Da considerare anche la possibilità di

trasmissione sessuale.

Patogenesi e sintomi

Dopo ingestione, e superata la barriera gastrica, S. tiphy penetra a livello dell’intestino

tenue e si localizzata nel tessuto linfatico dell’intestino con replicazione all’interno dei

macrofagi e delle cellule reticolo-endoteliali e successiva invasione ematica, che coincide

con l’inizio delle manifestazioni cliniche.

Il periodo di incubazione ha durata di circa 1-2 settimane (3-60 giorni).

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La malattia non trattata viene classicamente suddivisa un 4 settenari con sintomi specifici,

che corrispondono in parte allo stadio evolutivo delle lesioni anatomiche intestinali

riassunte nella Tabella 8.1.

Tra le possibili complicanze citiamo la perforazione intestinale, l’emorragia intestinale,

l’epatite acuta tifoidea, la colecistite, l’endocardite e l’encefalite.

Tabella 8.1: manifestazioni cliniche del tifo in relazione alle settimane di malattia (modificata da M. Moroni, R. Esposito, F. De Lalla. Malattie infettive. Masson, Milano, 2003).

1° settimana

p. di invasione

2° settimana

p. di stato

3° settimana

p. anfibolico

4° settimana

p. decremento

Graduale incremento della temperatura fino a 40-41°C

cefalea,

assenza sudorazione se non dopo antipiretici, mucose asciutte

epistassi, lingua impaniata, arrossata ai margini (lingua a dardo),

Inappetenza, disturbi dell’alvo con prevalenza di stipsi, dolenzia e gorgoglio alla palpazione in fossa iliaca dx, meteorismo e distensione addominale, bradicardia relativa

Emocoltura positiva nel 90% dei casi

Febbre subcontinua 39-40°C, stato tifoso (immobilità, sonnolenza, amimia, fino al sopore), mucose molto asciutte, addome molto meteorico, pastoso in questa fase compare diarrea con feci liquide a pure di piselli, roseole tifoidee, splenomegalia, bronchite con tosse secca, rantoli e ronchi (fenomeno tossico non da localizzazione di salmonella)

Curva termica fortemente remittente, distacco delle escare con possibili emorragie (10%) e perforazioni intestinali (3% dei casi)

Curva termica in riduzione fino alla normalizzazione

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Diagnosi

L’anamnesi epidemiologica accurata è un elemento importante nella diagnosi di tifo, oltre

all’esame obiettivo del paziente. Dati di laboratorio orientativi sono un numero basso di

globuli bianchi, neutrofili e eosinofili nel sangue.

Elementi di estrema utilità sono le lesioni cutanee (roseole tifose), le emocolture positive in

oltre 90% dei casi nel primo settenario di malattia, e la sierodiagnosi di Widal. Questo test

è una reazione ematica con la quale si possono ricercare anticorpi anti antigene somatico

O, che compaiono per primi e ridiscendono in 2-3 mesi, e anticorpi anti antigene flagellare

H, che aumentano più tardivamente e rimangono elevati per anni, con minore significato

diagnostico. La reazione di Widal di solito è positiva solo al secondo settenario, e

significativa quando il titolo di anticorpi è ≥100. Da evidenziare che anticorpi anti-O e anti-

H sono positivi anche in caso di vaccinazioni o infezioni con altre salmonelle, ma in questi

casi il titolo, e soprattutto quello degli anti O, è più basso e più fugace.

La coprocoltura (coltura delle feci) è positiva nel 75% dei casi durante il 3° settenario in

pazienti non trattati e non ha utilità nella diagnosi di tifo ma nell’identificazione dei

portatori.

Terapia e profilassi

La terapia si basa sulla somministrazione di antibiotici per via endovenosa nei casi più

gravi, o per via orale nelle forme più lievi.

La malattia va notificata e il paziente deve essere posto in isolamento da contatto, con

accurata igiene dell’ambiente. I familiari devono essere controllati per 20 giorni dall’ultimo

contatto, e devono essere ricercati i portatori nei familiari mediante coprocoltura.

È disponibile un vaccino orale o iniettivo con batteri uccisi che produce una protezione dei

riceventi in circa l’80% dei casi con durata di non oltre 6 mesi, e un vaccino orale

attenuato cui si associa immunità in circa il 75-90% dei casi, che persiste per circa 2 anni.

Evitare l’ingestione di acqua o alimenti (mitili, frutta, verdura, latte non pastorizzato)

contaminati da materiali fecali contenenti Salmonella. Gli insetti, in particolar modo le

mosche, possono fungere da vettori passivi. L’uomo, malato o portatore, è l’unica sorgente

di infezione.

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Capitolo 9. Brucellosi

È una malattia infettiva febbrile che colpisce alcuni animali e l’uomo (antropo-zoonosi),

nota anche con i nomi di febbre maltese, o febbre ondulante o febbre folle; può avere un

decorso sia acuto che sub acuto, ma esistono infezioni croniche e forme recidivanti.

Microbiologia

Le brucelle sono cocco-batteri Gram-negativi, che crescono lentamente in atmosfera

arricchita di CO2 e richiedono un'incubazione prolungata. Non producono esotossine, e

l’effetto patogeno è dato dalle endotossine della parete cellulare.

Le brucelle sono moderatamente sensibili al calore e uccise a 60°C per 10’. Vanno

facilmente incontro alla dissociazione tra forme lisce e rugose, con perdita della virulenza.

Nel siero degli ospiti suscettibili sono presenti specifiche sostanze che favoriscono la

crescita delle forme lisce virulenti.

In passato erano identificate 6 specie diverse di brucelle (B. melitensis, B. abortus, B. suis,

B. canis, B. ovis, B. neotomae, B. pinnipediae, B. ceti, B. microti) (Tabella 9.1), ma studi

genomici hanno definito che esiste una sola specie (B. melitensis) con diverse bio-varianti.

Tuttavia, si tende a mantenere la vecchia nomenclatura.

Epidemiologia

Il serbatoio naturale delle brucelle sono gli animali domestici da cui l’infezione viene

trasmessa all’uomo. La trasmissione interumana è eccezionale.

Nell’animale infetto le brucelle provocano aborto e sono eliminate con i prodotti abortivi, le

secrezioni vaginali, le feci e le urine. Di notevole significato per la diffusione della malattia

è l’eliminazione delle brucelle con il latte; infatti, soprattutto nelle mucche, le brucelle

causano una mastite cronica con la presenza del batterio nel latte che può persistere per

tutta la vita. Anche le carni degli animali malati sono infette. Nell’ambiente le brucelle

possono sopravvivere a lungo (settimane nella polvere e mesi nell’acqua) e contaminare

anche alimenti vegetali (ortaggi) e aree lontane.

L’infezione umana avviene principalmente per ingestione di latte crudo o derivati freschi da

latte non pastorizzato in cui le brucelle possono sopravvivere fino a 6 mesi a 4-8°C o di

altri alimenti contaminati; per via transcutanea, tramite il contatto di piccole lesioni cutanee

con materiali infetti; oppure per via aerea o congiuntivale, mediante inalazione o contatto

con batteri dispersi nell’aria.

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La malattia è prevalentemente rurale e primaverile; a rischio maggiore sono alcuni

lavoratori come allevatori, veterinari e macellai.

In Italia la malattia ha un andamento tendente alla diminuzione con un calo significativo e

continuo del numero dei casi di malattia, la maggior parte dei quali sono acquisiti in alcune

regioni del sud o di importazione per viaggi o soggiorni in paesi con minore controllo.

Tabella 9.1: specie di brucella, ospite animale e patogenicità per l’uomo (modificata da Mandell, Duglas, and Bennet. Principles and Practice of Infectious Disease. Philadelphia 7th Ed, 2010).

Specie Ospite Patogena per l’uomo

B. melitensis Capre, pecore, cammelli Si

B. abortus Bovini Si

B. suis Maiali Si

*B. canis Cani Si

B. ovis Pecore, capre No

B. neotomae Topi No

B. pinnipediae Pinnipedi (foche, leoni di mare, tricheco)

Si/No

B. ceti Cetacei (delfini, balene) Si/No

B. microti Volpi No

*Rara l’infezione dell’uomo

Patogenesi e sintomi

Il microrganismo penetra per via mucosa (orale, respiratoria, congiuntivale), cutanea

(piccole lesioni di continuo). Sembra dotato di scarsa resistenza in ambiente acido, quindi

sopravvive difficilmente nell’ambiente acido dello stomaco.

I microrganismi che sfuggono alla fagocitosi e alla uccisione dei neutrofili migrano nei

linfonodi regionali, dove si moltiplicano con successiva invasione ematica e diffusione a

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tutti gli organi, in particolare a quelli ricchi di cellule monociti e macrofagi, quindi midollo

osseo, linfonodi, milza, fegato.

Negli organi si osservano aspetti di iperemia, degenerazione, necrosi produttiva con

formazione dei tipici granulomi. I granulomi, da cui il nome di reticolo-endotelite

granulomatosa della brucellosi, sono formati da linfociti, plasmacellule, cellule epiteliodi,

cellule giganti e microrganismi localizzati all’interno della cellula. Nelle forme produttive e

croniche si possono avere anche reperti di una patologia da immunocomplessi del rene,

articolazioni, occhio clinicamente evidenti come glomerulonefrite, artrite e uveite. La

necrosi con aspetti colliquativi o purulenti è più intensa nelle forme ipertossiche.

Il quadro clinico della brucellosi è estremamente polimorfo sia per decorso (acuta, sub-

acuta tossica) che per gravità (subclinica, tipica, ipertossica). In alcuni casi si hanno

esclusivamente manifestazioni da localizzazione d’organo.

Dopo un'incubazione di 2-3 settimane (8-10 giorni), raramente fino a mesi, insorge un

quadro clinico generalmente subacuto con febbre o febbricola ad andamento del tutto

irregolare, e ben tollerata. Le condizioni generali del paziente sono discrete anche quando

la temperatura raggiunge valori superiori a 39°C. Altre manifestazioni sono: dolori delle

grosse articolazioni, dei muscoli, cefalea, anoressia, sudorazione abbondante con odore

caratteristico (stallatico). È descritto anche ingrossamento del fegato, della milza e dei

linfonodi.

Il decorso spontaneo comporta la remissione delle manifestazioni nell’arco di qualche

settimana, e la tendenza alla guarigione in alcuni mesi. Nei casi a decorso subacuto i

sintomi si protraggono per anni con interessamento generale o di organo.

In corso di brucellosi cronica le localizzazioni più spesso evidenti sono a carico del

sistema nervoso con meningite (più frequente), encefalite, mielite, meningo-radicolite; a

carico dell'apparato locomotore con osteo-artrite (sacro-ileite e coxite più frequente),

spondilite fino pseudo-Pott; dell'apparato urogenitale con pielonefrite, orchite; dell'apparato

cardiovascolare con endocardite (ulcero-vegetante a prognosi grave); e dell'apparato

emolimfopoietico con linfoadenopatie marcate, splenomegalia marcata. Altre possibili

localizzazioni sono respiratorie, oculari, cutanee (sopratutto alle mani, con lesioni

eritemato-papulari pruriginose).

La brucellosi in gravidanza si associa ad aborto spontaneo nel 43% dei casi nei primi 2

mesi, e a morte intrauterine nel 2% dei casi nel 3° trimestre. Il rischio abortivo viene ridotto

con la terapia.

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Da ricordare che la brucellosi può essere trasmessa dalla madre la figlio anche con il

latte.

Diagnosi

Per quanto riguarda gli esami di laboratorio, nella brucellosi si ha un moderato incremento

della velocità di eritro-sedimentazione (VES), e la conta dei globuli bianchi è normale o

diminuita.

La coltura del sangue è positiva nel 70% delle infezioni da B. melitensis e nel 50% di

quelle da B. abortus. La coltura dell’aspirato midollare è più sensibile dell'emocoltura,

sopratutto nelle forme a decorso protratto e croniche.

Altre indagini utili ai fini diagnostici sono la ricerca degli anticorpi mediante reazione di

agglutinazione di Wright o altre metodiche.

Il test di agglutinazione è positivo, con titolo 1:160, nel 90-95% delle infezioni acute e

subacute a partire da 14 giorni. La percentuale di positività si riduce fino al 40% nelle

infezioni croniche per la presenza di anticorpi incompleti (IgG), con possibilità anche di

falsi negativi del test. In questi pazienti la presenza di anticorpi incompleti può essere

evidenziata ripetendo il test dopo l’aggiunta di antiglobuline umane (reazione di

agglutinazione secondo Coombs).

Anche le indagini di biologia molecolare sono ampiamente utilizzate.

Terapia e profilassi

La terapia umana si avvale della somministrazione di antibiotici per periodo prolungati,

usati in associazione soprattutto nelle forme croniche e subacute.

Per la profilassi sono essenziali: la vaccinazione degli animali, il controllo sierologico

periodico dei bovini e degli ovi-caprinii anche nelle regioni ufficialmente indenni da

brucellosi, la diagnosi tempestiva della malattia negli animali, l’abbattimento degli animali

che risultino infetti, l'esclusione dal consumo umano di latte da animali infetti, la

pastorizzazione del latte da tutti gli animali, le misure di biosicurezza negli allevamenti

positivi con isolamento degli animali infetti in attesa dell’invio al mattatoio, le disinfezioni e

la bonifica dei pascoli, il controllo dei lavoratori a rischio, l’uso di guanti protettivi per certi

lavoratori, i vaccini per uso umano in alcune categorie a rischio.

Nei laboratori diagnostici di microbiologia o anatomia patologica vanno prese adeguate

protezioni durante le attività in grado di creare aerosol o schizzi al di fuori di laboratori

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classe II. In particolare, si deve prestare massima attenzione nel pipettare, centrifugare,

frantumare, agitare, sonicare e aprire contenitori con materiale infetto.

Vaccini

Sono disponibili vaccini con batteri morti, vaccini da batteri vivi e attenuati, e vaccini

preparati con frazioni batteriche.

Il vaccino ucciso è indicato per il solo uso veterinario (vaccinazione di ovini, bovini) ed è

sconsigliato nell’uomo, in quanto può scatenare gravi reazioni allergiche.

I vaccini vivi attenuati disponibili sono:

� B. abortus RB51 bovini

� B. abortus S19 bovini

� B. melitensis Rev-1 capre

I capi vaccinati con vaccini vivi attenuati non hanno risposta sierologica, per cui rimane la

possibilità di utilizzare le indagini sierologiche per la diagnosi in caso di malattia.

È possibile l’esposizione accidentale dell’uomo, con sviluppo dei sintomi della brucellosi.

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Capitolo 10. Tossinfezioni alimentari

Si tratta di un gruppo eterogeneo di malattie dovute all'ingestione di alimenti contaminati

da microrganismi patogeni, batteri, virus e parassiti, oppure tossine batteriche che

possono essere preformate nell’alimento o sintetizzate dopo l’ingestione.

In prevalenza sono patologie a ciclo oro-fecale con un breve periodo di incubazione e

sintomi gastrointestinali. Si possono avere casi isolati oppure forme epidemiche, ad

insorgenza improvvisa e con il coinvolgimento di coloro che hanno consumato lo stesso

alimento (alcuni membri della famiglia o partecipanti a un banchetto), e si esauriscono una

volta che finisce il consumo dell’alimento. Le manifestazioni cliniche e il periodo di

incubazione tendenzialmente indirizzano verso l’agente eziologico.

Gli alimenti possono essere anche veicolo di tossine non batteriche (Tabella 10.1), e

alcune presenti nei pesci (Tabella 10.2) o nei funghi (Tabella 10.3) provocano quadri clinici

sovrapponibili a quelli delle tossinfezioni alimentari da microrganismi.

Tabella 10.1: intossicazione alimentare da tossine non batteriche (modificata da Mandell, Duglas, and Bennet. Principles and Practice of Infectious Disease. Philadelphia 7th Ed, 2010).

Sintomi Insorgenza Eziologia

Nausea, vomito, dolori addominali

≤1h (5-15 min) Metalli pesanti (rame, zinco, cadmio, stagno) provocano irritazione della mucosa gastrica e intestinale

Parestesie, orticaria, broncospasmo, nausea, vomito

≤1h Intossicazione da pesce a carne rossa (tonno, alici, sgombri, et al.) o crostacei che contegno nelle carni alte concentrazioni di istidina. Tali pesci se non conservati correttamente in seguito all’azione di batteri (generalmente Klebsiella o Proteus) trasformano istidina in istamina, una delle sostanze tossiche responsabile dei sintomi

Nausea, vomito, parestesie, insufficienza renale

≤1 -24h Funghi

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Tabella 10.2: intossicazione da tossine presenti nei pesci e nei crostacei (modificata da Mandell, Duglas, and Bennet. Principles and Practice of Infectious Disease. Philadelphia 7th Ed, 2010).

Sindrome Insorgenza Durata Alimento

Intossicazione da istamina 5 min- 1h Poche ore Pesce a carne rossa e crostacei ricchi di istidina

Ciguatera (dolori addominali, crampi nausea, vomito, diarrea preceduti o seguiti da parestesie diffuse, alterazioni del visus)

1-6h Pochi giorni-permanente

Grandi pesci predatori di barriera dei mari tropicali (barracuda) che hanno ingerito dinoflagellati produttori di ciguatossine

Intossicazione da molluschi paralitica (parestesie del volto, labbra, bocca, estremità, paresi muscolare e difficoltà respiratorie e alla deglutizione. Nelle forme più gravi paralisi dei muscoli respiratori e arresto del respiro)

5 min-4h Poche ore-pochi giorni

Mitili, granchi, vongole che hanno ingerito dinoflagellati produttori di saxitossina

Intossicazione da molluschi neurotossica (NSP)

Tutti i molluschi contaminati da tossine di dinoflagelalti associati al fenomeno delle maree rosse

Intossicazione da molluschi amnesica (amnesia, vomito dolori addominali, diarrea, confusione mentale senza compromissione delle capacità cognitive)

Pochi giorni-permanenti

Molluschi contaminati da tossina (acido domoico) prodotto da diatomee

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Tabella 10.3: intossicazione da funghi (modificata da Mandell, Duglas, and Bennet.

Principles and Practice of Infectious Disease. Philadelphia 7th Ed, 2010)

Manifestazioni Specie micotica Tossina

Delirio Amanita muscaria, Amanita

pantherina Acido ibotenico e muscimolo

Iperattività parasimpatica (salivazione, lacrimazione, sudorazione, alterazione del visus, dolori addominali, diarrea)

Inocybe spp

Clytcybe spp

Muscarina

Allucinazioni, sonnolenza, disforia

Psilocybe spp

Panaelousybe spp

Psilocibina

Reazione disulfiram con assunzione di alcolici

Coprinus atramentarius Coprina

Gastroenterite Molti Diverse tossine

Tornando alle tossinfezioni alimentari da microrganismi, i quadri clinici più frequenti sono:

gastroenterite acuta, sindrome dissenterica, sindrome colerica, colite cronica. Altri quadri

clinici sono il botulismo, le sindromi sistemiche (sepsi e meningoencefalite da Listeria),

oltre alle manifestazioni post infettive come l’artrite reattiva e la sindrome di Guillan-Barré.

Numerosi microrganismi sono in grado di provocare un quadro clinico di tipo

gastroenterico, e nelle Tabelle 10.4 e 10.5 sono indicati alcuni aspetti epidemiologici,

clinici, di laboratorio e patogenetici.

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Tabella 10.4: agenti eziologici di alcune tossinfezioni alimentari e alimento implicato

Microorganismo Alimento

Salmonella spp Uova, creme, pollame, verdure, carne, acqua

Staphylococcus aureus Creme, gelati, latticini, prosciutto (S. aureus resiste al sale..), carne, pesce

Clostridium perfringens Carne

Bacillus cereus

incubazione 1-6 h

Bacilusi cereus

incubazione 8-12 h

Farine, cereali, creme, budini

Carne, vegetali

Vibrio parahaemoliticus Pesce, frutti di mare, crostacei

Campylobacter jejuni et al Carne, pollame, latte, acqua

Listeria monocytogenes Formaggi, latte, gelati, anche un’epidemia con cioccolato al latte non pastorizzato, carni di vitello, suini e polli e vegetali

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Tabella 10.5: agenti eziologici di tossinfezioni alimentare, clinica, laboratorio, patogenesi (modificata da Mandell, Duglas, and Bennet. Principles and Practice of Infectious Disease. Philadelphia 7th Ed, 2010).

Diarrea non infiammatoria (entero-tossina o aderenza/invasione superficiale)

Diarrea Infiammatoria (invasione, cito-tossine)

Invasione e moltiplicazione nelle cellule linfatiche o reticoloendoteliali

Localizzazione

danno

Intestino tenue prossimale

Colon Intestino tenue distale

Clinica Diarrea acquosa Diarrea infiammatoria Tifo

Esame delle feci

Assenza di leucociti,

Assenza o lieve aumento di lattoferrina

Presenza di leucociti, aumento di lattoferrina

Presenza di monociti

Microrganismi E. coli (ETEC),

Clostridium perfringens,

Bacillus cereus,

Staphylococcus aureus,

Rotavirus,

Norovirus,

E.coli (EPEC, EAEC)

Shigella,

E. coli (EIEC, EHEC),

Salmonella enteritidis,

Vibrio parahemolyticus,

Clostridium difficile,

Campilobacter jejuni

Leggenda: E. coli EAEC=enteroaggregativo, EHEC=enteroemorragico, EIEC=enteroinvasivo, EPEC=enteropatogeno, ETEC=enterotossico, LT=termolabile, ST=termostabile,

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Staphylococcus aureus

Circa il 50% di Stafilococco aureo può produrre una tossina termostabile (100°C per 30’)

capace di provocare una sintomatologia gastroenterica con un intervallo molto breve tra

l’ingestione dell’alimento che contiene la tossina e l’insorgenza dei sintomi. Si tratta di una

esotossina di cui si conoscono 5 diversi tipi antigenicamente distinti (A-D), e tutti

termostabili.

La principale riserva di S. aureo è l’uomo, che può essere malato (foruncolosi) o portatore

sano (naso, faringe, ascelle). La produzione di tossina avviene al di fuori dell’ospite

nell’alimento (latte, latticini, creme, gelati, prosciutto, carne in scatola, pesce) che se

inquinato dallo stafilococco durante la preparazione e conservato in maniera inappropriata

permette lo sviluppo dello stafilococco e la produzione e la liberazione della esotossina,

che si accumula nell’alimento senza alterarne le caratteristiche organolettiche.

L’ingestione di cibi contenenti tossina in quantità sufficiente determina dopo un periodo di

incubazione di 4-6 h dolori addominali, diarrea, vomito, astenia, scialorrea, sudorazione,

ipotensione.

In alcune situazioni, nell’alimento è presente solo la tossina ma non S. aureus.

L’evoluzione della malattia è benigna, e la terapia consiste essenzialmente nella

reidratazione.

Gastroenteriti da salmonella

Le salmonelle sono enterobatteri Gram-negativi non formanti spore, anaerobi facoltativi e

mobili che crescono nei comuni terreni di coltura. Resistono al congelamento in acqua e a

talune sostanze chimiche come i sali biliari o il verde brillante, che invece inibiscono altri

enterobatteri e pertanto vengono aggiunti ai terreni di coltura per il loro isolamento dalle

feci.

Dal punto di vista biochimico le salmonelle non fermentano il lattosio, riducono i nitrati a

nitriti, non possiedono citocromo ossidasi, producono acido e di solito gas dal glucosio con

l’eccezione di S. tiphy che, a differenza dalle altre salmonelle, produce acido ma non gas

dal glucosio.

La struttura antigenica delle salmonelle comprende antigeni flagellari (H) inattivati dal

calore (≥60°C) che danno una risposta anticorpale prevalentemente IgG, antigeni somatici

(O) di natura lipoproteina, termostabili (100°C) inducenti prevalentemente una reazione

anticorpale di tipo IgM, antigene K situato all’estremità periferica del batterio e antigene Vi

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termolabile (60°C per 1 h), la cui presenza è incostante e in passato si legava alla

virulenza. La caratterizzazione di questi antigeni in laboratorio permette di differenziare le

numerose specie di salmonelle presenti in natura ma essendo una metodica piuttosto

indaginosa, in genere è fatta solo in laboratori di riferimento e nella maggior parte dei casi

ci si limita al riconoscimento degli antigeni somatici O identificando i 6 principali gruppi (A,

B, C1, C2, D, E) a cui appartengono all’incirca il 99% delle salmonelle patogene per

l’uomo e per gli animali a sangue caldo.

La più recente revisione tassonomica delle salmonelle identifica 2 sole specie nelle quali si

differenziano 7 sotto-specie e 2500 siero-tipi (sierovar), vedi Tabella 10.6. La specie S.

enterica sottospecie enterica include le salmonelle non tifoidee e S. typhy. I sierotipi più

diffusi in Italia sono: S. typhimurium, S. enteritidis, S. panama, S. heidelberg.

Il serbatoio delle salmonelle è prevalentemente animale, ma S. tiphy, S. partyphi A, B e C

hanno come unico ospite l’uomo.

Le salmonelle si ritrovano nel pollame, incluse le uova per contaminazione del guscio,

nelle carni per contaminazione con materiali vari, in tutti gli animali domestici (cani, gatti,

criceti, tartarughe), nei frutti di mare, nelle verdure e nelle acque contaminate. Esistono i

portatori umani cronici o transitori da identificare prontamente in ambiente lavorativo e/o

ospedaliero, tra cui soprattutto i reparti pediatrici.

La trasmissione delle salmonelle è per via oro-fecale. I microrganismi, acquisiti tramite

acqua o alimenti contaminati, dopo aver superato la barriera gastrica hanno un'azione

patogena diretta della mucosa intestinale, senza produzione di tossine.

Le mosche sono vettori passivi di questi batteri e possono trasportare il microrganismo

dalle feci agli alimenti.

La patogenicità e la gravità delle manifestazioni cliniche dipendono dal sierotipo e dalla

carica di batteri ingerita (≥106 unità formanti colonie - CFU). Alcuni sierotipi causano più

facilmente disseminazione setticemica (S. cholerae suis), ma globalmente le setticemie

e/o le localizzazione d’organo sono più frequenti in soggetti con patologie croniche,

infezione da HIV, anemie emolitiche come la drepanocitosi (osteomieliti) e schistosomiasi.

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Tabella 10.6: classificazione delle salmonelle (modificata da Mandell, Duglas, and Bennet.

Principles and Practice of Infectious Disease. Philadelphia 7th Ed, 2010).

Salmonella specie e sottospecie N° sierotipi Habitat usuale

S. enterica, sotto specie enterica (I) 1504 Animali a sangue caldo

S. enterica, sotto specie salmae (II) 502 *Animali a sangue freddo

S. enterica, sotto specie arizonae (IIIa)

95 *Animali a sangue freddo

S. enterica, sotto specie di-arizonae

(IIIb) 333 *Animali a sangue freddo

S. enterica, sotto specie houtenae (IV)

72 *Animali a sangue freddo

S. enterica, sotto specie indica (VI) 13 *Animali a sangue freddo

S. bongori (V) 22 *Animali a sangue freddo

Totale 2541

Leggenda: *causa anche di infezioni umane

Il quadro clinico delle tossinfezioni alimentari da salmonella è caratterizzato da:

incubazione tra le 6-48h, febbre ± elevata, vomito, diarrea con feci infiammatorie, dolori

addominali, disidratazione, ± alterazioni elettrolitiche e risoluzione in pochi giorni, 3-7.

La diagnosi si basa sull’isolamento del microrganismo dalle feci.

Il trattamento prevede la somministrazione di antibiotici per 48-72h o fino a

defervescenza, l’idratazione e la correzione dell’eventuale squilibrio elettrolitico.

La prognosi è favorevole, ma può essere più grave nelle età estreme e nei pazienti

immunocompromessi. Importante valutare anche lo stato di “portatore”, definendo un

protocollo di controllo della diffusione del microrganismo.

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Altri agenti eziologici di tossinfezione alimentare

Bacillus cereus

B. cereus è un batterio Gram-positivo, sporigeno aerobio-anaerobio facoltativo, isolato

facilmente nel terreno, nella polvere e nei vegetali. È isolato anche dal latte e dagli

insaccati (salsicce). Gli alimenti più frequentemente contaminati dal batterio o dalle spore

sono le farine, i cereali, le creme, i budini, i gelati e la purea di patate. Questa malattia

consiste in una patologia gastro-enterica con vomito e diarrea dovuta all’effetto di una

enterotossina che si può ritrovare negli alimenti o viene prodotta nell’intestino. Il batterio

produce due diversi tipi di tossine correlate a due diverse forme cliniche. Una,

termostabile, associata al consumo di cereali e farine, dopo un breve periodo di

incubazione di 1-6 h provoca nausee e vomito senza diarrea. L’altra, termolabile, dopo un

periodo di incubazione più lungo di 8-12 h, causa prevalentemente dolori addominali e

diarrea, ed è associata al consumo di carni e vegetali.

Clostridum perfringens

C. perfringens è ubiquitario nell’ambiente, e si isola dalle feci animali e umane. La malattia

è acquisita per il consumo di carne poco cotta, raffreddata lentamente, solo riscaldata o

conservata male (tra 5-60°C) e contaminata da spore. Alla germinazione delle spore e allo

sviluppo della forma vegetativa segue la produzione di tossina responsabile delle

manifestazioni cliniche. L’enterotossina di C. perfringens tipo A può essere presente

nell’alimento o prodotta nel tratto gastro-enterico.

La patologia insorge dopo un periodo di 8-20 h dall'ingestione di alimenti contaminati ed è

caratterizzate da dolori addominali, diarrea e nausea. In rarissimi casi si manifesta anche

vomito. Le feci non sono infiammatorie, e cioè non mostrano globuli bianchi. A volte si può

avere anche febbre e sintomi sistemici. La diagnosi si basa sulla presenza di C.

perfringens in concentrazione ≥105 nelle feci e nell’alimento.

Vibrio parahaemolyticus

Questo microrganismo è il principale agente eziologico di tossinfezioni alimentari in

Giappone, ed è legato all'ingestione di pesce crudo, frutti di mare e crostacei inquinati. Il

periodo di incubazione è di 12-72 h, cui segue diarrea con sangue, nausea, vomito, dolori

addominali crampiformi, febbre, brivido e cefalea.

La sintomatologia ha in media una durata di 1-5 giorni, la prognosi è favorevole e non è

nota la trasmissione interumana né la condizione di portatore, per cui non è necessario

l’isolamento del paziente.

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Campylobacter spp.

Campylobacter spp sono batteri Gram-negativi, mobili. Si conoscono diverse specie di cui

alcune causano più frequentemente quadri gastro-intestinali, mentre altre sono associate

a patologie sistemiche (Tabella 10.7).

Tabella 10.7: specie di Campylobacter e quadri clinici (modificata da Mandell, Duglas, and Bennet. Principles and Practice of Infectious Disease. Philadelphia 7th Ed, 2010).

Patologia intestinale Patologia extra- intestinale

C. jejuni

C. coli

C. upsaliensis

C. lari

C. fetus

C. fetus

Ogni specie associata a manifestazioni intestinali può dare patologie extra intestinali

Campylobacter spp. si trova nel lume intestinale di numerosi animali della catena

alimentare umana come pollame, bovini, suini e ovini ma non negli uccelli, nei cani e nei

gatti. Dagli animali infetti il microorganismo viene eliminato con le feci e contamina

l’ambiente. L’uomo si può infettare attraverso l’ingestione di acqua o di alimenti

contaminati. È noto il anche contagio inter-umano con trasmissione oro-fecale.

L’incubazione è in genere di 2-4 giorni (media 1-7), cui seguono sintomi generici e

febbricola 24-48 ore prima dei sintomi gastro-enterici. Le feci sono infiammatorie, ma

prevalentemente ematiche, in numero di 10-15 scariche al giorno con dolore addominale e

febbre.

Eccezionale, se non nelle infezioni da C. fetus, e nei pazienti immunocompromessi per

quelle da C. jejuni, le complicanze setticemiche con focolai metastatici in altri

organi/apparati.

Per la diagnosi si utilizza la copro-coltura con inoculazione di specifici terreni e

incubazione in microaerofilia. La terapia prevede anche la somministrazione di

antimicrobici.

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Lysteria monocytogens

Si tratta di un batterio Gram-positivo, aerobio-anaerobio facoltativo, asporigeno, catalasi

positiva, mobile che cresce a temperature tra 1-45°C.

La listeriosi è principalmente una zoonosi dei bovini e degli ovini.

L. monocytogens ha diffusione ubiquitaria nel terreno, nella vegetazione in

decomposizione e nelle acque stagnanti. Può essere isolata dalle feci di numerose specie

di mammiferi incluso l’uomo (5%). Di conseguenza molti alimenti possono essere

contaminati, inclusi i vegetali crudi, il latte non pastorizzato, i formaggi e le carni di vitello e

pollo sia freschi che congelati, e anche cucinati.

L’infezione nell’uomo provoca una gastroenterite febbrile, di recente identificazione, che si

manifesta generalmente in forma di piccole epidemie dopo una incubazione compresa tra

6 h-10 giorni. Se l’infezione viene contratta in gravidanza può provocare aborto, sepsi e

meningiti nella donna gravida e nel neonato. Anche negli anziani, nei diabetici e nei

soggetti immunocompromessi si possono avere quadri con interessamento sistemico e del

sistema nervoso centrale.

Infezioni gastro-intestinali da virus

Negli ultimi decenni alcuni virus sono stati associati a malattie gastro-enteriche. Questi

agenti virali sono responsabili della maggior parte dei decessi nei bambini con età <5 anni

nei paesi a più basso regime economico, e fonte di notevole morbosità in quelli

industrializzati. Si possono presentare in forma sporadica o epidemica che interessa

comunità come famiglie, scuole, ospedali.

Sotto il profilo epidemiologico si distinguono forme cliniche che coinvolgono bambini e

adulti, presentandosi in epidemie più o meno estese nell’ambito di comunità scolastiche o

gruppi di soggetti che hanno consumato lo stesso alimento, o in forma sporadica,

soprattutto nel periodo invernale che colpisce soggetti tra 6-24 mesi.

L’infezione diffonde per via oro fecale. Un possibile veicolo è anche l’acqua contaminata e

i frutti di mare provenienti da acque costiere infette. Viene descritta anche una diffusione

per via aerea soprattutto nella infezioni da Norwalk virus. I contatti adulti di bambini

sintomatici possono risultare infetti, e quindi trasmettere l’infezione anche se asintomatici.

La malattia è in genere autolimitante; la terapia consiste nella somministrazione di liquidi e

nel mantenere adeguati livelli di elettroliti.

Nella tabella 10.8 sono riassunte le caratteristiche cliniche delle principali intossicazioni

alimentari di origine virale.

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Tabella 10.8: Caratteristiche cliniche delle più frequenti gastro-enteriti virali (modificata da Moroni M, Esposito R, De Lalla F. Malattie Infettive. Masson, Milano, 2003).

Infezioni alimentari parassitarie

Gli alimenti e l’acqua possono essere veicolo, oltre che di batteri e virus, anche di

parassiti, e in particolare di: amebe, Toxoplasma gondii (carne non cucinata), Trichinella

(cacciagione, maiale non cucinata), Giardia (alimenti crudi), Criprosporidium (succo di

mela non pastorizzato), Anisakis (pesce crudo) e al.

Agente Incubazione Durata

malattia

Sintomi Febbre Diagnosi

Norwalk e

Norwalk simili

24-48 h 1-3 giorni Nausea,

vomito, diarrea

acquosa

Rara Sierologia, PCR

Rotavirus 24-72 h 4-8 giorni Vomito, diarrea

acquosa

Si PCR, metodi

immunologici nelle

feci

Altri virus

(Calicivirus,

Astrovirus,

Adenovirus)

10-72 h 2-9 giorni Nausea,

vomito, diarrea,

malessere

Si Sierologia, PCR,

isolamento virale

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Capitolo 11. Botulismo

È una intossicazione alimentare grave, causata dall'ingestione di alimenti contaminati da

tossina botulinica prodotta da Clostridium botulinum.

C. botulinum è un bacillo Gram-positivo, anaerobio, sporigeno (spore sub terminali),

diffuso in natura nel terreno, negli ambienti marini e lacustri e nell’intestino di pesci e di

diverse specie di animali.

Le spore vengono uccise a 120°C. La presenza di sale e l’ambiente acido le rendono più

sensibili al calore, in ambiente alcalino o neutro sono uccise solo se esposte a 100°C per

5 h. Resistono a basse temperature fino a -18°C.

Alla germinazione delle spore e allo sviluppo di forme vegetative si associa la produzione

di tossina della quale si identificano 7 tipi, denominati A, B, C, D, E, F, G. I tipi A, B, E e

eccezionalmente il C e l’F sono responsabili di malattia umana, il tipo C e il tipo D causano

malattia prevalentemente negli animali. La produzione di tossine in condizioni di

anaerobiosi è favorita da temperature >30°C, tuttavia, la tossina E viene sintetizzata

anche a temperatura di 6°C. Inoltre, la tossina E viene acquisita con il consumo di carne e

di pesce.

La tossina botulinica è termolabile e distrutta dal calore, 100°C per 20 minuti, ma resiste

al pH acido dello stomaco.

Il botulismo alimentare, legato alla ingestione di cibo contaminato da tossina, è la forma

più comune di malattia. Sono descritti casi di botulismo intestinale che segue l’ingestione

di spore e la produzione di tossina nell’intestino, la maggior parte dei quali riportati nei

neonati di età <12 mesi e in relazione al consumo di miele.

In rarissime circostanze si può sviluppare il botulismo anche in seguito alla penetrazione di

spore con le ferite che nella maggior parte delle volte sono lesioni secondarie alla

inoculazione sottocutanea di eroina in soggetti tossicodipendenti. In questi pazienti che

presentano i sintomi del botulismo è possibile avere anche rialzo della temperatura per la

concomitanza di un'infezione della ferita.

Sono descritti rarissimi casi di botulismo secondario all'inalazione di aerosol di spore di C.

botulinum con l’uso di cocaina o in seguito a diffusione delle tossina botulinica come arma

biologica.

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Il botulismo è una malattia rara, grazie alla diffusa consapevolezza di questa grave

patologia. In Italia sono diagnosticate poche decine di casi all’anno.

L’uomo e diverse specie animali si possono ammalare di botulismo. La malattia si associa

al consumo di cibi conservati e contaminati da tossina. I cibi freschi, anche se contaminati

da spore, sono innocui. La produzione di tossina in condizioni ottimali è lenta, 2-14 giorni,

ed eccezionalmente si forma in meno di 12 h.

La tossina ingerita con alimenti è assorbita dallo stomaco e dall’intestino in tutta la

lunghezza. La tripsina e altri enzimi digestivi ne potenziano l’azione.

La tossina agisce sulla conduzione nervosa con paralisi muscolare o disfunzione

parasimpatiche. La tossiemia persiste per oltre 10 giorni.

Clinica

Dopo un intervallo di 12-36 ore, con range di 2h-14gg, che corrisponde al periodo di

incubazione, si manifestano disturbi gastroenterici come nausea, vomito, dolori addominali

e meteorismo che non dipendono dalla tossina; seguono astenia, stanchezza, giramento

di testa, paralisi e disturbi secretori con secchezza della bocca e del faringe, secchezza

congiuntivale.

Le paralisi hanno andamento discendente e sono simmetriche. Le paralisi più precoci e

costanti sono dei nervi oculomotori (III, IV, VI nervo cranico) con strabismo divergente,

ptosi palpebrale e diplopia, dei nervi oculari intrinseci (parasimpatico) con paralisi

dell’accomodazione e incapacità a vedere da vicino, midriasi non reattiva alla luce e a

volte anisocoria e visus annebbiato. L’interessamento dei nervi cranici inferiori si manifesta

con disturbi della deglutizione e della fonazione. Più raramente possono essere colpiti i

muscoli degli arti. Talora la paralisi della muscolatura liscia porta a distensione

addominale, stipsi, ileo paralitico, ritenzione urinaria, mancato aumento della frequenza

cardiaca in presenza di abbassamento della pressione arteriosa o cambiamenti posturali,

ipotermia.

Il sensorio è integro e sono assenti disturbi della sensibilità. Anche la febbre manca, a

meno che il paziente non presenti complicanze infettive.

La causa principale di morte è la paralisi respiratoria e le complicanze infettive secondarie.

Il botulismo è gravato da una elevata letalità soprattutto in condizioni di scarsa disponibilità

di metodiche di supporto e rianimatorie. Globalmente vengono indicate le seguenti

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percentuali di letalità: tipo A 60-70 %, B 10-30 % e E 30-50 %, globalmente ridotta al

10% con adeguata terapia.

La guarigione permette il recupero totale dei deficit neurologici senza immunità, in quanto

anche in questa malattia come nel tetano la dose letale è molto bassa e inferiore a quella

immunogena.

Tabella 11.1: sintomi più frequenti di botulismo (modificata da Mandell, Duglas, and Bennet. Principles and Practice of Infectious Disease. Philadelphia 7th Ed, 2010).

Sintomi %

Disfagia 96

Midriasi con pupille dilatate e fisse 95

Bocca asciutta 93

Diplopia 91

Disartria 84

Visione indistinta 65

Nausea 64

Diagnosi

La diagnosi è più facile in presenza di un'epidemia.

Per la conferma nei casi sospetti si possono utilizzare test che consentono l’identificazione

della tossina nel sangue, nel succo gastrico, nelle feci oppure nell’alimento. Il metodo più

sensibile per l’identificazione della tossina è l’inoculazione del filtrato in cavie o topolini di

laboratorio, al quale segue il decesso per paralisi motoria e midriasi in 2 giorni con effetto

inibitorio dell’antitossina. L’esame colturale con l’isolamento di C. botulinim dal sangue,

dalle feci e dal cibo implicato è raramente positivo.

La terapia si avvale di procedure che consentono di bloccare l’ulteriore assorbimento di

tossina: in particolare lavanda gastrica, clisteri, purganti (se non è presente paralisi

intestinale), somministrazione di antitossina, polivalente (anti-A,B,E) di cavallo. Se è stato

possibile individuare la tossina in causa, invece del siero polivalente è somministrato siero

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monovalente. È disponibile anche un'antitossina umana, generalmente utilizzata per il

trattamento dei bambini.

Una volta confermata la diagnosi, nel caso indice è consigliato somministrare antisiero in i

dose inferiori alla dose necessaria anche alle persone asintomatiche che hanno

consumato lo stesso cibo contaminato.

Il botulismo va evitato con una preparazione e conservazione del cibo adeguata, un forte

indice di sospetto, una pronta diagnosi e una tempestiva somministrazione di antitossina.

Negli USA, per il personale a rischio come i tecnici di laboratorio e i militari, è disponibile

un vaccino con anatossina pentavalente (ABCDE).

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Capitolo 12. Amebiasi

Entamoeba histolytica è un protozoo intestinale invasivo che causa l’amebiasi. Il termine

amebiasi sta a indicare la presenza di E. histolytica nell’organismo, ed è indipendente

dalle manifestazioni cliniche. Si possono avere infezioni senza invasione dei tessuti

(presenza del parassita nel lume intestinale con emissione di cisti), oppure malattie di tipo

colitico con invasione della parete intestinale ed eventualmente disseminazione e

localizzazione in altri organi.

Esistono diverse specie di amebe e tutte possono infettare l’uomo, ma solo E. histolytica è

in grado di invadere la parete intestinale e causare forme disseminate. Tra le specie non

patogene si trovano E. dispar, morfologicamente indistinguibile da E. histolytica ma

differenziabile mediante caratterizzazione genomiche e metodiche immuno-emzimatiche,

Entamoeba dispar, Iodameba butschlii, Entamoeba coli, Endolimax nana, Entamoeba

polecki e Entamoeba hartmanni. Ognuna di queste specie può infettare il lume

dell’intestino, e è generalmente considerata non patogena. Eccezionalmente E. polecki,

Dientamoeba fragilis e Lodamoeba bustchlii sono state associate a quadri diarroici.

Entamoeba gengivalis vive nel cavo orale. Naegleria, Acanthamoeba, Balamuthia e

Sappina sono amebe che vivono libere nelle acque dolci e possono causare

meningoencefaliti acute e subacute, e infezioni dell’occhio in forma di cheratiti.

Ciclo evolutivo di E. histolytica

Il ciclo vitale di E. histolytica comincia con la forma cistica quadri-nucleata presente nelle

feci e nell’ambiente. Le cisti possono sopravvivere nelle feci a 15°C ≤12 giorni, nell’acqua

a 15°C per settimane e a 4-8°C per alcuni giorni. Resistono anche al congelamento. Le

cisti, dopo essere ingerite e aver superato la barriera gastrica, si sviluppano nel colon in

trofozoiti (4 da ogni ciste). I trofozoiti sono in grado di aderire, invadere i tessuti e evadere

le difese immunitarie, oltre che degradare le IgA secretorie e nel lume intestinale si

moltiplicano per divisione binaria, fino a quando le condizioni chimico fisiche (perdita di

acqua delle feci) non determinano di nuovo la formazione di cisti; sono presenti nelle feci

diarroiche ma non sopravvivono nell’ambiente esterno, e non costituiscono un problema

per la diffusione.

Le cisti hanno una parete spessa e rifrangente, dimensioni di 9-16 µ, 2-4 nuclei in

relazione allo stadio maturativo, fine cromatina nucleare periferica, nucleolo centrale e

corpi cromatoidi. I trofozoiti sono più grandi 10-60 µ, un unico nucleo. Il citoplasma

contiene numerosi vacuoli e vi si possono trovare batteri ed eritrociti fagocitati.

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Epidemiologia e sintomi

L’amebiasi è un'infezione molto diffusa, e circa il 10% della popolazione mondiale è infetta

da E. histolytica ed E. dispar. La prima è invasiva in circa il 10% dei casi, mentre E. dispar

è più frequentemente non patogena.

La diffusione di amebe è influenzata da fattori sociali, igienici ed economici, ma la gravità

della patologia è determinata da fattori immuni dell’ospite. Le amebe sono diffuse nei

paesi con temperature comprese intorno a 25°C a Giugno a Nord dell’Equatore e a

Gennaio a Sud dell’Equatore, inclusa l’Italia. L’infezione è conseguenza dell'ingestione di

cibi e di acqua contaminata da cisti. È possibile anche la trasmissione inter-umana per via

sessuale.

La lesione amebica intestinale tipica è l’ulcera a bottone di camicia o a fiasco (più piccola

in superficie che nella sottomucosa); il fondo è ricoperto da cellule necrotiche, i margini

sono sottominati e l’infiammazione è scarsa se non vi è superinfezione batterica. Nei casi

più gravi l’ulcera interessa la parete intestinale a tutto spessore, fino a provocare una

perforazione intestinale e una peritonite amebica. Nelle forme croniche si possono formare

stenosi e pseudo tumori parassitari.

Dopo l’intestino, l’organo più colpito è il fegato. Nell’ascesso epatico il danno epatico è

causato soprattutto dagli enzimi dei lisosomi dei neutrofili e dei monociti che circondano i

trofozoiti.

Amebiasi intestinale non invasiva: il paziente in assenza di sintomi elimina cisti di E.

hystolitica con le feci (portatore asintomatico).

Diarrea senza dissenteria: è la manifestazione clinica più comune. In questi casi il

paziente presenta alterazione intestinali, ma mancano nelle feci il muco e il sangue.

Dissenteria amebica o colite amebica acuta: la malattia ha un'incubazione mal definibile, in

genere sono indicati da 2-3 giorni fino a mesi. L’esordio è subdolo con anoressia,

meteorismo, dolori addominali e diarrea. È presente dolorabilità addominale ed aumento

della peristalsi. Dopo 1-3 settimane si passa al periodo di stato nel quale si hanno 10-20

scariche al giorno di feci con muco e sangue. Le forme più gravi hanno scariche solo di

sangue. Nelle feci i leucociti sono scarsi o assenti, perché lisati dalle amebe. Il paziente

riferisce tenesmo rettale, febbricola o assenza di febbre. Nel sangue mancano eosinofilia e

neutrofilia. Nel caso di aumento della temperatura va ricercata una superinfezione

batterica.

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La colite fulminante è rarissima: si manifesta in soggetti defedati, immunocompromessi,

gravidanza e ha una letalità elevata per perforazione intestinale.

Colite amebica cronica non dissenterica: si manifesta in pazienti con amebiasi acuta non

trattata a distanza di mesi dalla infezione. È caratterizzata da episodi ricorrenti di diarrea

mucosa, perdita di peso, meteorismo e dolori addominali. Va in diagnosi differenziale con

le malattie infiammatorie croniche dell’intestino. Gli esami parassitologici possono essere

ripetutamente negativi; l’esame endoscopico mostra piccole lesioni ulcerative e si possono

vedere trofozoiti nelle biopsie. I test sierologici sono generalmente positivi e di ausilio nella

diagnosi. Lo 0,5-1% dei soggetti può sviluppare un ameboma: ispessimento della parete

intestinale (cieco o colon ascendente) e una massa di dimensioni considerevoli (fino a 30

cm) che sporge nel lume intestinale.

Amebiasi extraintestinale, ascesso amebico epatico: si tratta di una complicanza

dell’amebiasi acuta o tardiva di infezioni anche asintomatiche. Si manifesta a settimane o

mesi dalla infezione intestinale. L’esordio è acuto con febbre elevata e dolore addominale,

oppure subacuto con perdita di peso, dolore addominale modesto e febbre non elevata.

Generalmente si registra un aumento degli indici di infiammazione/infezione come VES,

leucocitosi neutrofila, e un incremento degli indici di colestasi e delle transaminasi.

Oltre alla localizzazione epatica si può avere l'interessamento di altri organi tra cui il

polmone, la cute (amebiasi cutanea con lesioni necrotico ulcerative perineali, facilmente

sanguinanti), il cervello, la milza e l’apparato genitale.

Diagnosi

Sono utilizzati: esame parassitologico delle feci, esame microscopico aspirato ascesso,

esame endoscopico, esame istologico, ricerca di anticorpi (Tabella 12.1).

Profilassi

La prevenzione delle infezioni da E. hystolytica si basa sull'osservanza delle norme

igieniche. Le cisti di E. histolytica e E. dispar sono uccise a temperature >50°C e <-5°C, e

resistono ai normali trattamenti di disinfezione delle acque con cloro a basse dosi.

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Tabella 12. 1: esami diagnostici in pazienti con amebiasi (modificata da Moroni M, Esposito R, De Lalla F. Malattie Infettive. Masson, Milano, 2003).

Sensibilità %

Metodica Campione Specificità per E. histolytica

Colite amebica Ascesso epatico

Microscopico Feci No 25-60 8-44

Microscopico Aspirato Si NA 25

Ricerca antigeni

Feci Si 90 Generalmente negativo

Ricerca antigeni

Aspirato Si NA 100

PCR Feci Si 90 -

Coltura e analisi isoenzimi

Feci Si Metodo di scelta Metodo di scelta

*Ricerca anticorpi

Siero (diagnosi precoce)

Si 75-80 75-80

*Ricerca anticorpi

Siero (convalescente)

Si >90 >90

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Capitolo 13. Malaria

Si tratta di una malattia parassitaria causata da sporozoiti del genere Plasmodium,

trasmessa all’uomo da zanzare femmine del genere Anopheles.

Eziologia

Il genere Plasmodium comprende quattro diverse specie patogene per l’uomo: P.

falciparum, P. vivax, P. ovale e P. malariae. Occasionalmente l’uomo può essere infettato

anche da specie patogene per altri primati come P. knowlesi, P. cynomolgi e P. simium.

Il ciclo biologico dei plasmodi comprende una fase asessuta (schizogonica) nell’uomo e

una sessuata (sporogonica) nella zanzara. La fase asessuata ha diversi aspetti

morfologici. Gli sporozoiti sono inoculati dalla zanzara e maturano a livello epatico

trasformandosi in criptozoiti che rimangono latenti nel fegato, e merozoiti che si trovano

nella circolazione e nelle emazie. I merozoiti si trasformano in trofozoiti e schizonti multi

nucleati che si ritrovano all’interno delle emazie; meroziti e gametociti sono presenti in

circolo.

Ciclo biologico

Gli sporozoiti inoculati dalla zanzare nell’uomo maturano a livello epatico (fase

esoeritrocitaria primaria o schizogonia tessutale primaria). La moltiplicazione intracellulare

epatica porta a criptozoiti e criptomerozoiti. La rottura dell’epatocita con la conseguente

liberazione di merozoiti nei capillari sinusoidali e quindi nella circolazione precede la fase

asessuata eritrocitaria (schizogonia eritrocitaria). I criptozoiti epatici di P. vivax e P. ovale

possono non andare incontro alla fase shizogonica eritrocitaria per anni.

P. falciparum causa la terzana maligna. I globuli rossi parassitati contengono numerosi

trofozoiti ad anello, generalmente con doppio castone, elementi marginali e di dimensioni

normali. La presenza di schizonti e gametociti in circolo è rara.

P. vivax è l’agente eziologico della terzana benigna, ha trofozoiti di forma irregolare,

spessi, nucleo eccentrico, GR aumentati di volume, amebodi, contengono granulazioni di

Shuffner .

P. ovale si differenzia per l’evidenza nei globuli rossi che appaiono ingranditi e deformati di

trofozoiti in fase di crescita.

P. malariae causa la quartana, ha trofozoiti ad anello unico con alcune forme a banda che

occupano tutta la cellula eritrocitaria, che conserva dimensioni normali.

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Nella Tabella 13.1 sono riportate le caratteristiche morfologiche più significative dei globuli

rossi parassitati, e nella Tabella 13.2 sono indicati alcuni aspetti clinici della malaria in

relazione alla specie di Plasmodium.

Tabella 13.1: caratteristiche morfologiche delle emazie parassitate (modificata da Moroni M, Esposito R, De Lalla F. Malattie Infettive. Masson, Milano, 2003).

P. falciparum P. vivax P. ovale P. malariae

Emazie parassitate

Dimensioni Normali Aumentate Aumentate Normali/

Diminuite

Età Indifferente Giovane Giovane Mature

Forma Normale Normale Ovalare Normale

Granulazioni +-- ++ +++ +--

Morfologia plasmodi

N.parassiti/

eritrocita

1,2 anche 3 1, raro 2 1, raro 2 1

Trofozoita Talvolta binucleato

Ameboide Ameboide A banda

Gametociti A banana Sferici Sferici Sferici

Plasmodium knowlesi è il parassita malarico del vecchio mondo con caratteristiche

morfologiche simili a quelle di P. malariae, e in alcune fasi anche di P. falciparum e P.

vivax, con conseguenti possibili errori di diagnosi.

Fino a qualche anno fa si pensava che P. knowlesi fosse causa di malaria solo nella

scimmia Macaca mulatta e Paplio anubi, ma nel 1965 fu riportato il primo caso di malaria

umana da P. knowlesi, seguito da un altro caso nel 1971. Nel 2004 è stata segnalata una

epidemia a Kapit Division, Stato di Sarawak, Borneo Malese, e contemporaneamente è

stato segnalato che Anopheles latin, vettore di questo plasmodio che si pensava confinato

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alle scimmie, può pungere anche l’uomo sopratutto al tramonto nelle foreste e/o ai limiti

delle foreste.

Tabella 13.2: caratteristiche cliniche della malaria in relazione alla specie (modificata da Moroni M, Esposito R, De Lalla F. Malattie Infettive. Masson, Milano, 2003).

P.falciparum P.vivax P.ovale *P.malariae

Incubazione 6-15 giorni 12 giorni-1 mese

15 giorni-talora più

20 giorni->anni

Periodicità degli accessi

48 ore (terzana maligna)

48 (terzana benigna)

48 (terzana benigna)

72 (quartana)

Accessi secondary

No Si, fino a 5 anni Si, fino a 2-3 anni

No

Parassitemia

Media 100.000 30.000 1000 5000

Massima > 2.000.000 100.000 100.000 100.000

Leggenda *merozoiti possono rimanere silenti nelle emazie per anni

La malaria è endemica nelle aree tropicali del mondo, in Africa, Asia, Oceania e America

latina, pur con una distruzione in continua evoluzione. La malattia è condizionata

dall’habitat del vettore (Anopheles) e dal numero di soggetti con gametociti, e viene

trasmessa da persona a persona mediante la puntura del vettore. Anopheles gambiae

complex, e in particolare A. funestus, trasmette la malaria con estrema efficienza

nell’Africa sub-Sahariana. La malaria viene trasmessa soprattutto durante la stagione delle

piogge.

In Africa sono presenti infezioni da P. falciparum, P. vivax, P. malariae e P. ovale, in

Asia quelle da P. falciparum, e nel Sud-Est quelle da P. knowles, ma sono presenti anche

focolai di infezioni da P. ovale. L’ampio uso di clorochina è associato allo sviluppo e alla

diffusione di clorochino resistenza di P. falciparum, che negli anni ha acquisito resistenza

anche ad altri farmaci ,compresa la meflochina. Per quanto riguarda le altre specie, sono

stati identificati problemi di resistenza a clorochina e primachina per P. vivax.

Complessivamente, ogni anno sono diagnosticati 300-500 milioni di casi e da 1 a 3,5

milioni di decessi per malaria.

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Nei paesi non endemici come l’Italia, dove non è presente il vettore, la malaria è

diagnosticata nei visitatori da paesi endemici per motivi di lavoro o di vacanza.

La malaria da aeroporto è secondaria alla puntura in aeroporto con un vettore infetto

presente in aereo proveniente da paesi endemici.

La malaria può essere contratta anche con trasfusioni di sangue, trapianto d’organo e uso

di siringhe in comune.

Il periodo di incubazione è in relazione alla specie, pur con qualche variazione. Segue il

periodo di prima invasione, nel quale il sintomo principale è una febbre irregolare ma

quasi mai intermittente, comunque preceduta da brivido. L’irregolarità della curva termica

dipende dall'asincrona lisi delle emazie. Altre manifestazioni non sempre presenti sono

cefalea, vomito, rachialgie, diarrea, rantoli a medie-grosse bolle all’auscultazione del

torace e ingrandimento della milza.

Nel periodo di stato è tipico l’attacco malarico nel quale si susseguono diverse fasi. La

prima fase del brivido, che dura da ½h a 1 h, il paziente manifesta brivido e freddo intenso,

cefalea, vomito, pressione diminuita, polso piccolo e frequente. La temperatura inizia a

salire. Nello stadio del calore, della durata di 2-7 h, la temperatura raggiunge valori elevati,

la cute è arrossata e asciutta, la pressione arteriosa aumentata e non è raro il delirio. Nello

stadio della sudorazione-defervescenza si manifesta una sudorazione profusa con

normalizzazione della temperatura. L’accesso malarico recidiva ogni 48 h nella terzana da

P. falciparum, P. viviax, P. ovale, e ogni 72 h nella quartana da P. malariae.

Prescindendo dalle complicanze e dalla forma perniciosa che si associano solo alle

infezioni da P. falciparum, il decorso spontaneo della malaria è favorevole con episodi

successivi di febbre che si esauriscono dopo 3-4 mesi nelle infezioni da P. falciparum, più

a lungo in quelle da altre specie.

Le forme di malaria grave sono definite dalla presenza di almeno uno dei seguenti sintomi:

1) Malaria cerebrale (alterazione della coscienza e convulsioni) 2) Distress respiratorio 3) Prostrazione (deplezione liquidi e disturbi elettroliti) 4) Iperparassitemia (>500.000 parassiti/mm3 or ~5% dei globuli rossi) 5) Anemia grave (in aree endemiche <5gr/dl) 6) Ipoglicemia < 40mg/dl 7) Ittero 8) Insufficienza renale 9) Emoglobinuria (Urine scure)

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10) Shock 11) Incapacità di assumere cibo e liquidi 12) Vomito incoercibile 13) Iperpiressia Temperatura >40ºC.

In presenza di questi sintomi e di un dato epidemiologico c’è indicazione alla terapia anche

se l’esame emoscopico è risultato negativo.

Figura 13.1: esame microscopico: 13.1a) goccia spessa evidenza di trofozoiti; 13.1b): striscio sottile in paziente con malaria da P. falciparum, evidenza di trofozoiti all’interno delle emazie.

13.1a

13.1b

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Diagnosi

L’esame cardine nella diagnostica della malaria è l’esame del sangue per la ricerca del

parassita (emoscopia), da prelevare all’inizio dell’attacco malarico. Il vetrino con la goccia

spessa nel quale il numero dei parassiti è concentrato 20-40 volte per campo, per cui ha

una sensibilità superiore, va colorato con la colorazione di Giemsa. Lo striscio di sangue

sottile, più importante per l’identificazione della specie di plasmodio, viene colorato con la

stessa metodica dopo essere stato fissato. Entrambe le tecniche possono essere utilizzate

anche per definire il grado di parassitemia. Falsi negativi dell'emoscopia si possono avere

nelle infezioni con bassa parassitemia ma anche in quelle gravi, nelle quali le emazie

infette possono rimanere bloccate nei capillari.

Nella diagnosi della malaria, e soprattutto per le infezioni da P. falciparum, sono molto

sensibili anche i test rapidi, che si basano sulla ricerca di antigeni del parassita e sono

anche di facile esecuzione da parte di personale non esperto nella diagnosi di malaria.

Prevenzione

Considerando che la femmina di Anopheles punge prevalentemente al tramonto, è

consigliato evitare la permanenza all’esterno dopo il tramonto, utilizzare emanatori di

vapori al piretro, zanzariere, insetticidi spray e repellenti cutanei e coprire tutte la parti del

corpo. Queste semplici misure da sole possono ridurre i casi di malaria, e quindi i decessi

per malaria, di 10 volte.

La chemioprofilassi consiste nella somministrazione di farmaci con attività contro i

plasmodi.

Con l’eccezione del Malarone, un farmaco che associa atovaquone e proguanil, i farmaci

utilizzati agiscono sui parassiti dopo che sono entrati nelle emazie, per cui vanno

proseguiti per quattro settimane dopo il rientro dalle aree a rischio. Il Malarone, che agisce

anche sui parassiti nella fase di replica eso-eritrociraria del fegato, viene prescritto fino a

7 giorni dopo il rientro.

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Capitolo 14. Febbre bottonosa

La febbre bottonosa, o malattia da zecche del Mediterraneo, è una malattia infettiva nella

maggior parte dei casi benigna, causata da Rickettsia conorii e trasmessa all’uomo dalla

zecca del cane Rhipicephalus sanguineus.

La zecca si infetta pungendo animali domestici (cane) o selvatici (cani, conigli, ovini e

bovini). Una volta acquisito il microrganismo, le zecche rimangono infette tutta la vita e

trasmettono l’infezione per via trans-ovarica anche alla progenie. L’uomo, quando

occasionalmente viene punto dalla zecca infetta, acquisisce il microrganismo attraverso la

puntura.

R. conorii appartiene al genere Rickettsiae. Morfologicamente è un piccolo cocco-bacillo

Gram-negativo, ha uno stretto parassitismo intracellulare, non è coltivato su terreni per

l’isolamento dei batteri e perde rapidamente l’infettività nell’ambiente esterno.

La febbre bottonosa è diffusa nel bacino del Mediterraneo. In Italia sono diagnosticati

all’incirca 1000 casi all’anno concentrati soprattutto in Sicilia, Sardegna, Calabria e Lazio.

L’incidenza è maggiore nei mesi estivi.

Sintomatologia

Dopo un periodo di incubazione di 5-7 giorni il paziente manifesta febbre elevata, cefalea,

astenia, artomialgie, congiuntivite, talora alterazione del sensorio. Frequentemente, in

corrispondenza della puntura della zecca è presente una lesione cutanea di tipo escara

necrotica (tache noire) con linfoadenopatia satellite, che successivamente cadendo lascia

un’ulcerazione.

Dopo 3-4 giorni compare l’esantema maculo-papulare (lenticolare), a volte con impronta

emorragica, che inizia dagli arti inferiori e poi diffonde a tutto il corpo interessando anche

le palme delle mani e le piante dei piedi.

Il quadro regredisce nel giro di 2 settimane. Raramente sono presenti complicanze

polmonari, cardiache, encefaliche.

Diagnosi

In presenza della tache noire e del dato anamnestico la diagnosi è facile e può essere

confermata con la ricerca di anticorpi del tipo IgM.

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Terapia e Profilassi

La malattia può essere trattata con la somministrazione di antibiotici.

Si previene evitando il morso delle zecche e rimuovendo al più presto e con delicatezza

quelle che vengono trovate attaccate alla cute.

Da non dimenticare anche di verificare se il paziente ha un'efficace protezione contro il

tetano.

Figura 14. 1: rash di paziente con febbre bottonosa.

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Capitolo 15. Malattia di Lyme

La malattia di Lyme è una antropozoonosi trasmessa da una zecca del genere Ixodes che

infetta i mammiferi e i piccoli roditori.

I primi casi di questa patologia furono identificati nel Connecticut nel 1977, e la malattia fu

denominata artrite di Lyme, poiché la manifestazione predominante era l’artrite.

Successivamente, è stato chiarito l’aspetto sistemico e la malattia è stata rinominata

malattia di Lyme.

I casi non trattati presentano tre fasi, la prima caratterizzata da manifestazioni cutanee:

eritema cronico migrante. La seconda ha manifestazioni neurologiche e cardiologiche,

nello specifico meningite, paralisi di Bell e miocardite, oltre a sintomi osteo-articolari diffusi.

La terza fase provoca manifestazioni articolari e encefalitiche. Non raro in questa fase

anche l’interessamento cutaneo in forma di acrodermite cronica atrofizzante.

Eziologia

L’agente eziologico della malattia di Lyme appartiene al phylum spirochete, specie Borrelia

di cui sono state identificate 3 diverse specie patogene per l’uomo: B. burgdorferi sensu

stricto, presente negli Stati Uniti e in minor misura in Europa e Asia, B. afzelii e B. garinii

presente in Europa e Asia. Ciò oltre al fatto che si possono avere anche infezioni con

diverse specie contemporaneamente può giustificare la diversità delle manifestazioni

cliniche nelle diverse aree geografiche. Alle 3 specie patogene si aggiungono altre 9

raramente responsabili di malattie nell’uomo.

Epidemiologia

B. burgdorferi viene trasmessa con la puntura di zecche del genere Ixodes: I. scapularis e

I. dammini nei paesi nord est e medio orientali degli USA e I. pacificus (zecca del cervo) in

quelli dell’ovest degli USA, I. ricinus (zecca della pecora) in Europa, e I. persulcatus

(zecca della taiga) in Asia. Il serbatoio in natura è rappresentato dall’animale infetto e

l’uomo si infetta occasionalmente con la puntura della zecca come il cane e il cavallo.

Le zecche hanno un ciclo vitale di tre anni in tre fasi: larva, ninfa, acaro adulto. Per lo

sviluppo richiedono un pasto ematico da un ospite vertebrato; in particolare le ninfe si

nutrono prevalentemente dai roditori, mentre gli adulti da animali di media, grossa taglia e

più spesso dai cervi. In natura l’infezione è mantenuta dagli ospiti con spirochetemia e

anche con il passaggio delle spirochete tra le larve e le ninfe. L’uomo, come altri animali

vertebrati, sono punti occasionalmente. La trasmissione avviene durante il pasto ematico

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per rigurgito del contenuto dello stomaco della zecca o per inoculazione della saliva

infetta.

La zecca, e in particolare la ninfa, è talmente piccola che può non essere vista, e

trasmette più facilmente l’infezione soprattutto quando adesa all’ospite per oltre 36-48 ore.

Nei paesi a clima temperato l’attività delle zecche è massima nel periodo maggio-ottobre;

in particolare, nel periodo primaverile sono più attive le ninfe, e in quello autunnale gli

adulti.

Le zecche generalmente vivono nei boschi, nella terra umida, e si aggrappano anche

all’erba alta, a cespugli, ad arbusti e alberi e rami bassi. I prati e i giardini sono un habitat

ideale per le zecche, specialmente ai bordi dei boschi e delle foreste o nei pressi di vecchi

muri in pietra, aree in cui prosperano cervi e topi.

Le zecche possono mordere ovunque ma preferiscono certe aree del corpo, come dietro

le orecchie, la parte posteriore del collo, le ascelle, l’inguine e dietro le ginocchia.

In Italia i primi casi sono stati descritti nel 1987, e l’infezione sembrerebbe più frequente in

Liguria, Friuli, Veneto e nell'area dell’appennino tosco-emiliano. La malattia di Lyme è

presente nel nord-est degli Stati Uniti, Wisconsin, California, Oregon, nelle regioni

temperate dell’Europa, in Scandinavia, paesi dell’ex Unione Sovietica, Cina, Corea,

Giappone.

Il periodo di incubazione della malattia di Lyme dura in media 3-14 giorni, e talora anche

più di un mese.

La malattia inizia a livello cutaneo, ed in seguito compaiono sintomi a carico di diversi

organi e apparati. Nei casi non trattati la spirocheta può sopravvivere per anni nel liquido

sinoviale e nel sistema nervoso centrale.

La lesione cutanea (Figura 15.1) si sviluppa in corrispondenza del morso della zecca.

All’inizio consiste in una piccola maculo papula rossa che poi si estende fino a divenire e

ha un aspetto anulare, con al centro un’area di colorito rosso acceso o vescicolare o

anche necrotica; all’interno di essa o in altre sedi si possono formare altre lesioni con

morfologia simile, ma di dimensioni inferiori (eritema cronico migrante). Spesso sono

presente anche linfonodi reattivi regionali e sintomi sistemici: febbre, cefalea, meningismo,

malessere, dolori articolari e muscoalri e astenia. In alcuni anche ingrossamento del

fegato e della milza. L’eritema regredisce nel giro di qualche settimana, mentre le artralgie

e l’astenia possono persistere anche mesi. In questa fase si possono identificare le

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borrelie nei preparati bioptici della cute; la risposta anticorpale è scarsa o ancora non

evidenziabile.

Figura 15.1: lesione cutanea primitiva della malattia di Lyme (megalo eritema infettivo).

La seconda fase è legata alla diffusione delle borrelie per via ematogena al sistema

nervoso centrale, al cuore, all’apparato muscolo scheletrico e nuovamente alla cute.

Il terzo stadio della malattia di Lyme si sviluppa da poche settimane a 2 anni dall’eritema

cronico migrante nel 60% dei soggetti non trattati, con artriti recidivanti o croniche o

manifestazioni tardive neurologiche di tipo enecefalo-mielite progressiva, oppure lesioni

cutanee quale l’acrodermatite cronica atrofizzante.

La trasmissione di B. burgdorferi al feto, per quanto possibile, sembra essere molto rara.

Tuttavia, sono stati segnalati casi di sicuro riscontro di infezione fetale con disseminazione

di borrelie a diversi organi e morte intrauterina.

La diagnosi si basa sul sospetto clinico, il dato anamnestico di morso da zecca (anche se

questo evento non viene riferito dalla maggior parte dei pazienti) e la presenza delle

lesioni cutanee tipiche del primo stadio della malattia. La conferma viene con l’isolamento

colturale di Borrelia o l’identificazione del genoma oppure indagini sierologiche.

La terapia consiste nella somministrazione di antibiotici per un periodo adeguato.

Complessivamente, il rischio di contrarre la malattia di Lyme dopo una puntura di zecca è

molto basso. La prevenzione della malattia di Lyme consiste nell’evitare i morsi da zecca

limitando il contatto con il suolo, le foglie e la vegetazione soprattutto nel mese di maggio,

giugno e luglio, quando le zecche sono più pericolose perché più piccole e più difficili da

scoprire. Inoltre, indossare scarpe e stivali chiusi, camicie a maniche lunghe e pantaloni

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lunghi, pantaloni inseriti negli stivali o nelle scarpe, abiti color pastello che aiutano a

vedere facilmente le zecche; tenere i capelli lunghi raccolti o tirati indietro in un cappello

per una maggiore protezione, non sedersi sull’erba, verificare dopo una passeggiata che

sul corpo non ci siano zecche.

Dopo un morso di zecca è sconsigliata la profilassi antibiotica di routine. Se la zecca è

particolarmente ripiena di sangue e ci sono difficoltà a controlli clinici, si può prescrivere

un antibiotico per 10 giorni; in tutti i casi, non va trascurato di verificare che il soggetto

punto abbia una adeguata protezione antitetanica.

Negli Stati Uniti è disponibile un vaccino consigliato in soggetti che vivono o si recano in

aree a rischio, la cui efficacia è del 46% dopo 2 somministrazioni e del 76% dopo la terza

dose.

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Capitolo 16. Leptospirosi

La leptospirosi è un'antropozoonosi sostenta da diversi sierotipi di leptospira, spirochete

parassite di numerosi animali domestici e selvatici. È una malattia con andamento a volte

subclinico, altre volte con manifestazioni ad insorgenza acuta di diversa gravità che

corrispondono alla fase setticemica, e talora seguite da localizzazioni in alcuni organi

bersaglio come rene, fegato o sistema nervoso centrale.

Eziologia

Le leptospire sono batteri filamentosi Gram-negativi, 12-15 µ x 0,1, mobili (rotazione,

traslazione, ripiegamento su se stessi), che sono visibili solo al microscopio in campo

scuro, e all’esame istologico dei tessuti dopo impregnazione argentica dei preparati.

Crescono lentamente su terreni acellulari, particolarmente ricchi di albumina e siero

fresco.

Nel genere Leptospira, Famiglia Leptospiraceae, ordine Spirochetales, sono comprese

due specie: L. biflexa non patogena e L. interrogans, cui appartengono almeno 200 siero-

varianti che sono patogene. Le più frequenti in patologia umana sono L.

icterohaemorrhagiae (agente del morbo di Weil), L. pomona, L. canicola, L. bataviae, L.

grippotyphosa, L. australis, L. sejroe e L. hyos.

La leptospirosi è una malattia presente in tutto il mondo con alcune siero-varianti come L.

icterohaemorrhagica e L. canicola ubiquitarie e altre, come L. batviae presente solo in

alcuni paesi.

Il principale serbatoio delle leptospire sono i ratti, i roditori selvatici e gli animali domestici

come il cane, il gatto, il maiale, i bovini e gli ovini. Questi animali possono essere portatori

permanenti o transitori dopo uno stato di malattia più o meno evidente. Nell’animale infetto

le leptospire si riproducono nei reni e sono eliminate con le urine in concentrazioni molto

elevate, anche ≥106 colonie formanti unità/ml di urina, producendo un significativo

inquinamento dell’ambiente dove sopravvivono con temperature ≥22°C nel terreno umido,

nel fango e nelle acque dolci e stagnanti per lunghi periodi. Al contrario, hanno breve

sopravvivenza nei terreni asciutti.

Clinica

L’uomo si infetta con la penetrazione delle leptospire attraverso la cute sana o macerata o

attraverso le mucose, sia orale che congiuntivale.

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Dopo un'incubazione di 1-2 settimane, a volte più breve di 4-5 giorni, si ha una fase

setticemica (prima fase) della durata di 6-9 giorni, durante la quale si ha una distribuzione

sistemica di leptospire e una reazione infiammatoria dei vasi sanguigni (vasculite) con

lesioni endoteliali che facilitano la localizzazione dei microorganismi in alcuni organi (rene,

fegato e SNC), e possibili complicanze emorragiche. A volte segue una seconda fase con

manifestazioni di localizzazione con accentuazione del danno vascolare, e reazioni

infiammatorie anche da immunocomplessi. Gli organi colpiti sono rene, fegato e sistema

nervoso centrale. La gravità dipende dalla varietà sierologica in causa, e alcuni pazienti

hanno manifestazioni aspecifiche e subcliniche.

Infezioni da L. icterohaemorrhagiae – Morbo di Weil

Dopo un incubazione di 7-14 giorni, ma anche più breve (4-5) o più lunga (3 settimane), la

prima fase di malattia si manifesta con inizio brusco con brivido, febbre (39°-40° C),

mialgie intense e diffuse, artralgie, cefalea, anoressia, nausea, vomito, congiuntivite,

bradicardia relativa ± ingrossamento del fegato e della milza della durata di 5-7gg, seguita

da defervescenza per 1-2 giorni e quindi una seconda fase con ripresa della febbre fino a

39-40°C e manifestazioni da danno epatico con ittero color arancio (vasodilatazione),

manifestazioni emorragiche del naso, della cute e delle congiuntive, danno renale con

albuminuria, cilindruria, ematuria microscopica, iperazotemia, danno polmonare con

polmonite o sindrome da distress respiratorio, o cardiaco con miocardite.

La guarigione è indicata dalla caduta della febbre per lisi dopo 14-20 gg, con regressione

dell’ittero e dell’insufficienza renale.

In alcuni casi il quadro clinico è grave fino al decesso. Si possono avere anche forme

asintomatiche, ma il quadro clinico in parte è determinato dal sierotipo.

Infezioni da L. pomona, L. canicola, L. batavia – Meningite dei giovani porcai,

sindrome meningea a liquor limpido

Anche questa malattia ha spesso decorso bifasico. È caratterizzata da cefalea

intensissima, mialgie intense, ± esantema per circa 10 giorni. Anche in queste infezioni

possono avere decorso aspecifico, forme febbrili pure, lieve sofferenza epatica. In ogni

caso le mialgie sono molto importanti.

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Diagnosi

La diagnosi di leptospirosi non è facile nelle forme “non Weil “; di ausilio sono le indagini

sierologiche per la ricerca di anticorpi agglutinanti, positive tardivamente anche dopo 30

giorni di malattia e con persistenza della positività per tutta la vita, e la siero diagnosi con

ricerca di IgM con metodiche immuno-enzimatiche, positiva già nella prima settimana.

Nella seconda settimana di malattia è possibile ricercare le leptospire nelle urine,

mediante esame microscopico con campo oscuro.

Profilassi

L’elemento principale è la derattizzazione, il controllo degli animali e degli allevamenti e la

vaccinazione degli animali, di efficacia non assoluta. I cani possono eliminare leptospire

con le urine anche se vaccinati.

Indispensabile anche usare protezioni nel fare determinati lavori.

In alcune situazione è possibile somministrare un antibiotico prima dell’esposizione e

subito dopo. Oppure una volta la settimana, per tutto il tempo dell’esposizione.

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Capitolo 17. Liesmaniosi

Si tratta di una malattia provocata da protozoi del genere Leishmania, che infetta l’uomo e

animali domestici e selvatici. Nell’uomo la leismaniosi si può manifestare in forma

generalizzata (leismaniosi viscerale) o localizzata, coinvolgendo la cute o le mucose

(leismaniosi muco cutanea).

Le leismanie sono protozoi asessuati dixeni, cioè con un ciclo di sviluppo nell’insetto. Non

è nota una replicazione sessuata, e quella asessuata avviene per divisione binaria

longitudinale.

Le leismanie sono classificate come famiglia Trypanosomatidae, phylum Mastigophora,

genere Leishmania. Esistono diverse specie che hanno differente distribuzione geografica,

differenti vettori e ospiti animali, ma ancora persistono incertezze e difficoltà nella

classificazione (Tabella 17.1).

In passato si pensava che le diverse specie fossero responsabili di un diverso quadro

clinico, ma ogni specie può causare forme viscerali o infezioni localizzate a seconda delle

caratteristiche del parassita, che nella stessa specie può includere diverse sottospecie,

detti zimodemi, di cui alcuni più specificatamente dermotropi o viscerotropi (ad es., in Italia

le forme viscerali sono causate da zimodemi viscerali di L. infantum, e quelle

dermatologiche da zimodemi cutanei di L. infantum) oltre che dallo stato immunologico

dell’ospite.

Dal punto di vista morfologico, nell’uomo il parassita ha corpo rotondeggiante di 2-3µ, non

ha flagello e viene chiamato amastigote mentre nel vettore, e in particolare nel tratto

digestivo e nella proboscide, ha un corpo allungato a pera di 10-15µ, flagellato, detto

promastigote.

In Italia il serbatoio delle leismanie è rappresentato prevalentemente dai cani domestici, in

Africa anche da alcuni roditori, mentre nel continente indiano l’unico serbatoio sembra

essere l’uomo.

L’uomo si infetta dopo la puntura del vettore, un insetto dittero ematofago noto come

“pappatacio”, genere Lutzomya nelle Americhe e Phlebotomus in ogni altro paese. Delle

otto specie di flebotomo presenti in Italia, quattro sono vettori dimostrati di L. infantum, e

P. perniciosus è il più efficace. L’attività di flebotomi è tipicamente stagionale, e le femmine

ematofaghe sono presenti solo durante i mesi caldi dell’anno, da maggio a

settembre/novembre. Alle nostre latitudini e in condizioni ambientali idonee, l’intero ciclo di

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sviluppo dei flebotomi (uovo, larva, pupa e adulto) può richiedere 7-8 settimane. I

flebotomi hanno abitudini notturne e sono attivi dal crepuscolo all’alba.

Le misure di controllo contro le forme larvali dei flebotomi vettori della leismaniosi non

sono realizzabili per l’impossibilità di localizzare gli innumerevoli focolai delle larve in

natura, e la lotta è possibile solo contro i vettori adulti. Anche la riduzione della

popolazione dei flebotomi attraverso l’impiego di insetticidi è limitata per vari motivi, e

quindi la prevenzione della leismaniosi è indirizzata a limitare il contatto tra vettore e ospite

mediante l’uso topico di principi attivi ad effetto protettivo contro la puntura.

Le popolazioni più suscettibili all'infezione sono i bambini con meno di 10 anni, i giovani

adulti se sovraesposti e i pazienti immuno-compromessi.

Tabella 17.1: le più frequenti specie di Leishmania in relazione al quadro clinico prevalente (modificata da Mandell, Duglas, and Bennet. Principles and Practice of Infectious Disease. Philadelphia 7th Ed, 2010).

Complesso Specie Patologia

L. donovani L. donovani,

L. infantum,

L. chagasi

Leismaniosi viscerale

L. tropica L. tropica L. cutanea del vecchio mondo

L. major L. major L. cutanea del vecchio mondo

L. aethiopica L. aethiopica L. cutanea del vecchio mondo

L. mexicana L. mexicana,

L. amazonensis,

L. venezuelensis

L. cutanea del nuovo mondo

L. braziliensis L. brazilienseis,

L. peruviana

L. cutanea e viscerale del nuovo mondo

L. guyanensis L. guyanensis,

L. panamensis

L. cutanea del nuovo mondo

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Epidemiologia

La leismaniosi è diffusa nel mondo tranne che in Australia, Oceania e Antartide. Il numero

totale di individui a rischio raggiunge i 350 milioni, e l’Organizzazione Mondiale della

Sanità (OMS) e l’Organizzazione Mondiale dela Salute (WHO) stimano 12 milioni di

persone infettate nel mondo, con 500.000 nuovi casi di leismaniosi viscerali e 1,5 milioni di

forme muco-cutanee ogni anno.

Le manifestazioni cliniche della leismaniosi sono diverse da forme viscerali, cutanee pure

(bottone di oriente) e muco-cutanee, in relazioni alla patogenicità e al tropismo del

parassita e alla risposta immunlogica dell’ospite.

Circa il 90% delle forme viscerali si trova nel Sub-continente indiano, nel Sudan e in

Brasile, ma sono presenti casi in tutto il bacino del mediterraneo inclusa l’Italia e in

particolare in Sicilia e nelle regioni centro meridionali (Figura 17.1). Nel Sud-Est

dell’Europa la leismaniosi viscerale rappresenta un'importante patologia in pazienti con

infezioni da HIV/AIDS e altre condizioni che inducono un deficit della immunità.

Le forme cutanee sono più numerose nel Medio Oriente (Afghanistan, Arabia, Siria, Iran) e

nelle Americhe (tranne Canada, Cile, e Uruguay). La leismaniosi cutanea è un'importante

problematica in persone che per vari motivi si trasferiscono nelle aree endemiche.

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Figura 17.1: distribuzione di Lesihmania spp in Italia (Gradoni e al.).

Patogenesi, Diagnosi

Il vettore con la puntura inocula il parassita in forma di promastigote; esso viene

fagocitato dai macrofagi cutanei dove si trasforma in amastigote, si replica e infetta altri

macrofagi, propagando l’infezione al sistema reticolo endoteliale.

Diverse citochine e chemochine hanno un ruolo di regolazione positivo o negativo sulla

malattia.

La diagnosi si basa sulla dimostrazione del parassita (amastigoti) nei tessuti. Il puntato

midollare ha un tasso di positività del 60- 85%, e la puntura della milza del 98%.

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Per la coltura si usa il terreno Novy Mac Neal Nicolle (NNN) e incubazione a 22-26° C;

altri accertamenti diagnostici sono i test sierologici e la ricerca di antigeni nelle urine.

La profilassi della liesmaniosi si basa sulla diagnosi e la cura degli animali infetti: l’uomo,

nei paesi in cui è l’uomo la riserva dell'infezione, e il cane negli altri paesi.

In considerazione che il cane è il principale ospite serbatoio della leishmaniosi viscerale

zoonotica, in attesa della messa a punto di un efficace vaccino protettivo per il cane, ogni

sforzo va indirizzato a evitare la puntura dei flebotomi mediante l’uso topico di principi attivi

ad effetto protettivo. La protezione dalla puntura protegge l’animale dall’infezione ma limita

anche la diffusione del parassita quando l’animale è già infetto. Inoltre, è essenziale

proteggere gli animali anche dopo la terapia, poiché anche se clinicamente guariti

continuano ad essere infettanti, seppur in misura ridotta, per il flebotomo vettore.

Al momento non è disponibile per la prevenzione delle leishmaniosi un vaccino umano.

L’unico vaccino registrato (in Brasile) non ha dimostrato sufficiente evidenza di efficacia e

non si attiene agli standard europei di sicurezza.

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Capitolo 18. Legionellosi

In termine legionellosi sta a indicare le malattie causate da Legionella spp.: la polmonite,

le infezioni extrapolmonari focali e una malattia febbrile pura, la febbre di Pontiac.

Complessivamente, si stima che L. pneumophila è responsabile del 1-5% dei casi di

polmonite.

L. pneumophila è l’agente eziologico della polmonite, detta anche malattia dei legionari

perché i primi casi di malattia furono diagnosticati nel 1976, nel corso di un'epidemia di

polmonite tra i legionari riuniti a Philadelphia. In quell'occasione furono coinvolte 221

persone, e 34 andarono incontro a decesso. Dopo 6 mesi, McDade e Shepard

identificarono l’agente eziologico della epidemia in un batterio Gram-neg di difficile

isoalmento. Negli anni successivi furono messi a punto test sierologici specifici, e altre

epidemie da Legionella furono identificate in modo retrospettivo.

Legionella spp. sono batteri Gram-neg piccoli, con esigenze nutrizionali particolari; per lo

sviluppo richiedono terreni di coltura arricchiti di L-cisteina, ferro, α-ketoglutarato e

carbone - BCYEα medium. Sono batteri aerobi obbligati, che crescono a temperature tra

20-42 °C in 4-5 giorni, ma possono essere necessari periodi più prolungati.

Sono state identificate oltre 50 specie, di cui 20 capaci di infettare l’uomo. L. pneumophila

comprende 16 diversi siero-gruppi e L. pneumophila siero-gruppo 1, responsabile della

epidemia del 1976 a Philadelphia, causa il 70-90% dei casi di legionellosi nei quali il

microorgansimo viene isolato e tipizzato.

L. pneumophila siero-gruppo 1 comprende diversi sottotipi ma il sottotipo Pontiac, Joly

monoclonal type 2 (Mab2) o Dresden monoclonal type3/1 (Mab3/1), è responsabile di oltre

il 90% dei casi di infezione.

Epidemiologia

Le legionelle sono ubiquitarie nelle acque dolci ma anche nelle acque costiere a

temperature comprese tra 5->50°. Le temperature più alte comprese tra 25-40°C

supportano meglio la crescita del microrganismo. Recentemente sono state associate a

infezioni da legionella anche pozzanghere di acqua piovana, acque di inondazione, acqua

per il lavaggio delle strade e delle finestre. Nelle stesse acque si possono trovare anche

amebe a vita libera (Acanthamoeba, Naegleria, Hartmannella), e la loro presenza

supporta lo sviluppo delle legionelle che si moltiplicano più attivamente all’interno delle

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amebe. L’infezione delle amebe è anche una forma di sopravvivenza per le legionelle a

condizioni ambientali difficili, come cambiamenti della temperatura o altro.

Un'altra forma di resistenza delle legionelle ai cambiamenti ambientali sfavorevoli è la

trasformazione del metabolismo batterico a uno stato più basso e la formazione di biofilm,

nel quale il batterio rimane vitale ma non si replica e non è coltivabile in laboratorio. La

possibile distruzione del biofilm con liberazione massiva di microrganismi può essere la

causa di importante contaminazione delle acque e di epidemie. Un frammento di biofilm o

una singola cisti amebica contengono 104 batteri, e possono causare infezione nell’uomo.

Le legionelle sono presenti a bassissime concentrazioni in acque fredde potabili trattate

con disinfettanti, usualmente a concentrazione inferiore a 1 batterio/L di acqua; tuttavia, la

loro concentrazione può aumentare significativamente in condizioni di bassi flussi di acqua

e sviluppo di biofilm. Le legionelle sono state isolate dal 80% delle torri di acqua dei

condizionatori di aria e dal 3-50% degli impianti acqua calda delle abitazioni e delle

industrie. L. longbeachae, contrariamente a L. pneumophila si trova anche nel terreno, e

alcune infezioni umane da questa specie sono associate a esposizione a terreno

contaminato.

L’infezione è causata dall'inalazione e probabilmente anche dalla microaspirazione di

batteri nel polmone.

Nonostante la loro diffusione nell’ambiente, le infezioni causate da Legionella spp sono

rare, e probabilmente sono necessarie una serie di situazioni concomitanti perché si

manifesti la malattia. Un aspetto significativo nelle cavie è dato dalla diversa virulenza dei

ceppi e da differenti stati fisiologici del microrganismo (crescita in biofilm o sessile).

Tuttavia, il principale fattore è rappresentato dalla massiva presenza di microrganismi e

dalla loro diffusione nell’ambiente in modo appropriato a indurre la malattia (ad es.

aerosol). Nella cavia è stato visto che inoculi di 10-102 batteri/mL sono sufficienti a

provocare la malattia, mentre 105 per causare la morte dell’animale. Nell’uomo non è nota

a tutt’oggi la quantità di batteri in grado di produrre la malattia.

Malattia dei legionari

Polmonite acuta essudativa. La malattia inizia dopo 2-10 (in media 4-6) giorni dalla

esposizione. Sono riportati casi anche con range di 1-28 giorni di incubazione.

La malattia inizia con cefalea, dolori ai muscoli, astenia, anoressia, febbre, brividi, dolori

addominali e diarrea, manifestazioni che possono essere fuorvianti e non indicative di

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infezione delle vie respiratorie inferiori. In questa fase l’esame del torace generalmente

evidenziata sintomi di consolidazione polmonare, e l’esame radiologico del torace è

generalmente positivo. Dopo qualche ora o qualche giorno si manifesta anche tosse, con

espettorazione nel 50% dei casi e dolore toracico.

Altri sintomi suggestivi di legionellosi sono la dissociazione temperatura/frequenza

cardiaca, la confusione mentale, le convulsioni, segni neurologici focali, ipo-natremia, ipo-

fosforemia, aumento degli enzimi epatici, delle creatininkinasi e delle latticodeidrogenasi,

la riduzione dei globuli bianchi (leucopenia) e delle piastrine (trombocitopenia), e il rilievo

di leucociti nelle urine.

Per la diagnosi si possono utilizzare vari test (Tabella 18.1).

Tabella 18.1: test per la diagnosi eziologica di legionellosi da (modificata da Mandell, Duglas, and Bennet. Principles and Practice of Infectious Disease. Philadelphia 7th Ed, 2010).

Test Coltura Antigene

Urine IFA Sierologia PCR

Campione

Secrezioni

respiratorie, liquido

pleurico, sangue,

biopsie/

autopsie

Urine Come

coltura

Siero

(doppio

campione)

Secrezioni

respiratorie,

urine

Sensibilità 20-95% 60-95% 20-50% 20-70% 20-75%

Specificità 100% >99% 99% 95-99% 90-95%

Commenti Positività lenta, non

tutti i laboratori

Semplice,

Specifico,

Sensibile

Persiste per

mesi dopo il

trattamento

Non tutti i

laboratori Tardiva

Non

Standardizzata

Non kit

commerciali

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Prevenzione

Non ci sono vaccini disponibili. L’aver superato l’infezione non previene una eventuale

reinfezione. In situazioni di rischio elevato e in ospiti selezionati è possibile considerare

una profilassi antibiotica.

È di estrema importanza il monitoraggio dell'adeguatezza delle acque potabili, di quelle di

raffreddamento degli impianti di condizionamento dell’aria, della progettazione e del

mantenimento delle spa. Comunque, identificare legionelle nelle acque non è

matematicamente associato allo sviluppo di legionellosi, e considerando che è possibile

avere fluttuazioni della loro presenza legate al flusso dell’acqua e allo stato metabolico del

microrganismo, non è raccomandato il monitoraggio microbiologico del sistema di fornitura

delle acque potabili.

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Capitolo 19. Carbonchio o antrace

Il carbonchio è la prima malattia nella quale fu definita la eziologia batterica, confermando

i quattro i criteri enunciati da Robert Kock per stabilire la relazione di causa-effetto tra un

microrganismo e una malattia. È una zoonosi che colpisce animali selvaggi e domestici e

occasionalmente l’uomo; inoltre, nei paesi industrializzati negli ultimi anni il carbonchio ha

attirato l’attenzione come malattia correlata al bioterrorismo.

Eziologia

Bacillus anthracis è Gram-positivo, aerobio, sporigeno, capsulato, disposto in catene

parallele e lunghe. Le spore si formano in condizioni di aerobiosi e non nei tessuti

dell’ospite infetto, fino a che esso è vivo. Solo dopo la morte dell’animale, quando la

carcassa è esposta ai livelli di O2 dell’atmosfera, si liberano le spore che mantengono la

patogenicità nel terreno e nei prodotti animali anche per anni.

La virulenza batterica è conferita dalla capsula che inibisce la fagocitosi e da due

esotossine, con diversi effetti sul sistema immunitario e di danno cellulare. Sia la capsula

che le tossine sono determinate da un plasmide.

Epidemiologia

B. anthracis è presente soprattutto in Africa, Asia e nel bacino Mediterraneo. La malattia

colpisce bovini, ovini, equini e in genere erbivori ungulati, che acquisiscono l’infezione

pascolando nei campi inquinati dalle spore eliminate con gli escrementi e le carcasse degli

animali infetti, oppure alimentandosi con frumento contaminato da spore. Anche la

puntura, il vomito e le feci di mosche che si sono nutrite con carcasse infette è stato

correlato all'inoculazione di spore o di forme vegetative di bacillo antrace nell’animale. È

stato visto che gli avvoltoi, dopo essersi nutriti con carcasse infette, eliminano spore di

bacillo con le feci per oltre 2 settimane.

Il carbonchio prevalentemente è una malattia professionale. L’uomo si infetta per contatto

con animali malati o loro prodotti come carne, ossa, corna, pelli e anche oggetti ricavati da

essi come lana, tamburi, tappeti, fertilizzanti; anche le mosche intervengono nella

trasmissione umana. Il soggetto si infetta attraverso piccole soluzioni di continuo della cute

ma anche attraverso la via inalatoria, ed eccezionalmente attraverso la mucosa gastro-

enterica.

Le manifestazioni cliniche più frequenti sono quelle cutanee (carbonchio cutaneo), seguite

dalle infezioni polmonari, gastro-intestinali e setticemiche.

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Carbonchio cutaneo

Il periodo di incubazione di questa forma clinica è in media 2-5 giorni, dopo i quali si

sviluppa la lesione iniziale rappresentata da una piccola papula pruriginosa, che in meno

di 24 h evolve in una vescicola che si circonda di tessuto eritematoso e edematoso. La

vescicola in pochi giorni si trasforma in crosta, che aderisce ai tessuti sottocutanei e ha un

anello di nuove piccole vescicole. In 7-8° giornata si definisce la tipica escara

tondeggiante, infossata, circondata da cute edematosa e arrossata sulla quale sono

evidenti altre croste, evoluzioni delle vescicole secondarie. Dopo 3 settimane la crosta

cade, residuando edema che può essere molto importante e l’unica manifestazione clinica.

Se il carbonchio cutaneo interessa la parte superiore del torace, il collo e il volto può

anche portare a compressione della trachea (edema maligno). Non sempre coesistono

segni sistemici come febbre – che in genere non raggiunge valori elevati – cefalea o

malessere.

Carbonchio da inalazione e gastro-intestinale

L’incubazione media del carbonchio non cutaneo in media è 10 gg, e le manifestazioni

cliniche e il decorso sono riassunti nelle Tabelle 19.1 e 19.2.

Tabella 19.1: carbonchio polmonare (modificata da Mandell, Duglas, and Bennet, Principles and Practice of Infectious Disease. Philadelphia 7th Ed, 2010).

Fasi Sintomi

Primo stadio: esordio insidioso (1-4 gg) Febbre, malessere, tosse non produttiva,

precordialgie

Secondo stadio: rapida progressione (24 h) Dispnea Tumefazione dei linfonodi

Si può avere edema del collo, del torace,

cianosi, shock settico, meningismo

Il quadro radiografico è di una mediastinite con versamento pleurico, mancano

generalmente infiltrati.

L’evoluzione è quasi sempre letale per complicanze settiche e meningo encefaliche

(meningite a liquor torbido-emorragico).

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La setticemia è la forma clinica più grave e incide per il 5% dei casi. Può essere

secondaria a localizzazione cutanea, polmonare o intestinale, e si manifesta con febbre

elevata, alterazioni del sensorio, insufficienza respiratoria, renale e cardiaca.

La diagnosi di carbonchio è facile nelle forme cutanee e molto complessa per le altre

forme cliniche ,nelle quali il dato epidemiologico dell’esposizione è fondamentale.

Tabella 19.2: carbonchio intestinale (modificata da Mandell, Duglas, and Bennet, Principles and Practice of Infectious Disease. Philadelphia 7th Ed, 2010).

Fasi Sintomi

Prima fase (2-5 gg dopo l’ingestione) Febbre, nausea, vomito, diarrea , dolori

addominali, enterorragie, ematemesi

Seconda fase (2-4 gg dopo l’insorgenza

dei sintomi)

Riduzione dei dolori addominali, comparsa

di ascite, tossiemia generalizzata, possibili

perforazioni intestinali

È possibile confermare con la coltura e le indagini sierologiche (anticorpi verso la tossina

letale e tossina dell’edema) la diagnosi di carbonchio.

Profilassi

Il controllo degli animali, la decontaminazione dei foraggi contaminati, il corretto

smaltimento delle carcasse infette e la vaccinazione degli animali sani, sono gli aspetti

essenziali della prevenzione del carbonchio. Nelle categorie professionali a rischio è

possibile somministrare un vaccino con batteri uccisi con 3 dosi a distanza di 2 settimane

l’una dall’altra, seguite da altre 3 dosi dopo 6 mesi e una di richiamo annualmente. Inoltre,

è indispensabile seguire norme scrupolose durante la manipolazione di carni infette. Nei

soggetti esposti alle spore di B. anthracis è indispensabile prescrivere una terapia

antibiotica specifica per 6 settimane.

Non è necessario isolare i malati.

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Capitolo 20. Tubercolosi

La tubercolosi (TB) è una patologia infettiva, contagiosa, causata da Mycobacterium

tuberculosis complex. Le manifestazioni cliniche coinvolgono più spesso il polmone, ma

possono essere interessati altri organi e apparati e si possono avere anche forme

disseminate, cioè con localizzazione contemporanee in più organi.

M. tuberculosis complex comprende diverse specie: M. tuberculosis responsabile di

infezioni umane, M. bovis causa di infezione nei bovini e nell’uomo (Tabella 20.1), M.

africanum e M. canetti raramente responsabili di tubercolosi umana in Africa, M. microtii,

M. caprae e M. pinnipedii agenti della tubercolosi rispettivamente nei roditori, nel

bestiame e nelle balene e raramente anche nell’uomo.

Tabella 20.1: caratteristiche di M. tuberculosis e M. bovis (modificata da Mandell, Duglas, and Bennet. Principles and Practice of Infectious Disease. Philadelphia 7th Ed, 2010).

M. tuberculosis M. bovis

Unico ospite uomo

Aerobico

Debole gram-positivo, alcol-acido resistente

Crescita lenta

Colonie non pigmentate, produzione niacina e catalasi. La catalasi non è prodotta dai ceppi resistenti a isoniazide, riduce nitrati

Raramente infetta l’uomo (aree limitate di diffusione es. San Diego 3% dei casi di tubercolosi)

Debole Gram-positivo, alcol-acido resistente

Crescita lenta

Colonie non pigmentate, non produce niacina ma produce catalasi con l’eccezione ceppi resistenti a isoniazide, non riduce nitrati

I micobatteri sono bacilli alcol-acido resistente (AFB) con la colorazione di Zhiel-Neelsen,

e crescono lentamente in terreni di coltura specifici solidi come il Lowenstain-Jensen o

Middlebrook 7H11, o in brodi come il BACTEC, il MIGIT, e altri.

Dopo la crescita è possibile identificare la specie mediante prove biochimiche o tecniche di

biologia molecolare. Sono disponibili anche metodiche di biologia molecolare che

consentono l’identificazione di M. tubercolosis complex direttamente dai campioni

biologici, come per esempio le secrezioni respiratorie con notevoli accelerazione dei tempi

di diagnosi microbiologica.

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L’esame colturale è un elemento importante ed essenziale nella indagini microbiologiche

per la malattia tubercolare perché, oltre a confermare la diagnosi di tubercolosi, indica la

vitalità del microorganismo. Inoltre, consente di definire la sensibilità dell’isolato ai farmaci

antitubercolari assolutamente necessaria, in considerazione della presenza in alcuni paesi

di ceppi di M. tuberculosis resistenti ai farmaci antitubercolari. A questo riguardo, di

particolare gravità sono gli isolati multi-drug resistant (MDR), cioè resistenti

contemporaneamente a isoniazide e rifampicina, e gli isolati extremly resistant (XDR), con

resistenza a isoniazide e rifampicina, più un fluorochinolone e uno dei tre farmaci anti

tubercolati di seconda linea iniettabili come amikacina, capreomicina e kanamicina (World

Health Organization, Ottobre 2006).

Epidemiologia

In Italia i nuovi casi/anno di TB sono lo 0,5%. L’incidenza è superiore negli immigrati, nei

quali è pari a quella del paese di origine.

Nella maggior parte dei casi la TB è trasmessa per aerosol di particelle di dimensioni <5µ,

sospese nell’aria, che raggiungono gli alveoli polmonari e si producono con il parlare,

tossire, starnutire e con i colpi di tosse. Anche gli aerosol che si formano durante la

medicazione di ferite cutanee sono implicati nella trasmissione.

Di rilievo il fatto che l’aria della camera del paziente con TB bacillifera è contagiosa anche

in assenza del paziente, per cui è indispensabile utilizzare gli appositi dispositivi di

sicurezza entrandovi.

Particelle di dimensioni >5µ non sono associate alla diffusione della TB, perché se

vengono inalate sono espulse con la tosse.

Il rischio di infezione è correlato all'infettività del caso indice, cioè alla quantità di batteri

che il paziente con TB disperde nell’ambiente, ed è superiore se l’esame microscopico del

paziente è positivo. Dipende anche dal tipo di contatto, ed aumenta con contatti ravvicinati

e prolungati (Tabella 20.2).

Altri fattori di rischio per la diffusione della patologia tubercolare sono l’affollamento e la

minore resistenza all’infezione, che si realizzano più frequentemente in soggetti con

condizioni di disagio sociale come senza tetto, alcolismo, tossico-dipendenza e

immigrazione.

Anche bambini, gravide, soggetti anziani e pazienti immunocompromessi sono a rischio

più alto di TB. Negli ultimi decenni è stato registrato un aumento dei casi di tubercolosi

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anche per la infezione da virus della immunodeficienza acquisita (HIV/AIDS), vedi Tabella

20.3.

Tabella 20.2: fattori di rischio per la diffusione della TB (modificata da Mandell, Duglas, and Bennet. Principles and Practice of Infectious Disease. Philadelphia 7th Ed, 2010).

Condizione Rischio

Esame microscopico positivo (carica 10.000 AFB/ml)

Aumentato

Terapia Rapida riduzione contagiosità (2 settimane nelle infezioni da M.tuberculosis multi-sensibile)

Infezione da M.tuberculosis multi-resistente (MDR-TB)

Documentare 3 espettorati negativi (esame microscopico), 3 giorni consecutivi (> 3 settimane) (CDC 1994)

L’esame microscopico può persistere positivo per prolungati periodi dopo l’inizio della terapia (negatività delle colture)

Tabella 20.3: fattori di rischio per TB (modificata da Mandell, Duglas, and Bennet. Principles and Practice of Infectious Disease. Philadelphia 7th Ed, 2010).

Fattore di rischio Note

Affollamento

Minore resistenza all’infezione e alla malattia

età, gravidanza, fattori genetici

Immigrazione Pari al paese di origine

Senza tetto, alcolismo, tossicodipendenza, altro disagio sociale, immunocompromessione inclusa infezione da HIV

Incremento dei casi di TB conseguenza della diffusione dell’HIV e della immigrazione

Paziente bacillifero (diretto e/o coltura +)

Carica 100-100000 CFU/ml

Contatto ravvicinato e prolungato

Consigliati almeno 6 scambi di aria/ora

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Patogenesi e Clinica

I micobatteri tubercolari inalati con le particelle di aria di dimensioni ≤5µ raggiungono gli

alveoli polmonari periferici (sub pleurici) dei lobi inferiori, dove il flusso di aria è maggiore.

Qui vengono fagocitati dai macrofagi polmonari che nei primi giorni/settimane non

riescono a controllarne la replicazione. La fagocitosi macrofagica dei micobatteri

determina la liberazione di citochine infiammatorie che richiamano altre cellule

immunitarie, nello specifico i linfociti T helper. I loro mediatori chimici sono in grado di

richiamare altri macrofagi e di attivarli.

I macrofagi attivati diventano i principali effettori della uccisione dei micobatteri, e quindi

del controllo della infezione.

Nella reazione dell’ospite all'infezione tubercolare intervengono anche fenomeni di

ipersensibilità ritardata responsabili della necrosi di macrogafi non attivati, cioè di

macrofagi in grado di fagocitare micobatteri ma non in grado di provocarne l’uccisione.

Durante i primi giorni dal contatto può verificarsi la migrazione di alcuni macrofagi con

micobatteri fagocitati, ma non uccisi, nei linfonodi regionali, da dove possono superare il

filtro linfatico e trasportare i microrganismi in altri organi.

Dopo circa tre settimane dal contatto, ma talora anche dopo più tempo, la risposta

dell'immunità cellulo mediata è completa e può essere diagnosticata mediante il test

cutaneo con la tubercolinica, una proteina purificata di micobatteri (TST).

A questo punto il focolaio polmonare iniziale e le localizzazioni secondarie possono

guarire e restare silenti, progredire (infezione progressiva), oppure risvegliarsi dopo

qualche mese o anni. Complessivamente, con forti esposizioni e nelle condizioni di minore

resistenza del soggetto esposto a pazienti con tubercolosi bacillifera elencate nelle Tabelle

19.2 e 19.3, il rischio di progressione della infezione da M. tuberculosis a tubercolosi in

soggetti non immunocompromessi è stimato essere del 3-4% nel 1° anno, e

successivamente del 5-15% per tutta la vita.

Per quanto riguarda le manifestazioni cliniche della tubercolos, si possono avere: la

infezione tubercolare polmonare primaria (complesso primario), che nella maggior parte

dei casi decorre in forma subclinica e poi viene controllata dal sistema immunitario, la

tubercolosi polmonare primaria evolutiva, la tubercolosi polmonare post primaria e la

tubercolosi extra polmonare.

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Diagnosi

La diagnosi di tubercolosi si avvale dell’esame clinico e della conferma eziologica con test

di laboratorio. Sono utilizzate sia indagini classiche, come l’esame microscopico con

colorazioni che evidenziano la capacità di M. tuberculosis di resistere alla decolorazione

con acido e alcol come la colorazione di Ziehl-Neelsen (Figura 20.1a), sia esami colturali

utilizzando specifici terreni di coltura (Figura 20.1b).

Qualora positivo, l’esame colturale va sempre associato alle prove di sensibilità in

considerazione del problema della farmaco-resistenza, soprattutto in pazienti originari da

paesi dove la malattia è più presente.

Per la diagnosi eziologica di tubercolosi è possibile utilizzare anche prove di biologia

molecolare che consentono di identificare la presenza di materiale genetico di M.

tuberculosis direttamente nei campioni biologici, come le secrezioni respiratorie. In questo

caso tuttavia non è possibile valutare la sensibilità del micobatterio ai farmaci

antitubercolari, con l’eccezione della rifampicina.

Terapia

Tutte le forme di tubercolosi richiedono un trattamento per un periodo prolungato di alcuni

mesi, con un'associazione di farmaci e uno stretto monitoraggio dell'efficacia e di eventuali

effetti indesiderati.

Con il termine di tubercolosi latente si intende il soggetto con test tubercolinico cutaneo

(TST) positivo senza alcuna manifestazione clinica di tubercolosi. Anche questi soggetti,

se non sussistono controindicazioni, necessitano di terapia per un periodo di 9 mesi e con

uno solo dei farmaci che vengono utilizzati per la terapia della tubercolosi, soprattutto se il

soggetto presenta fattori di rischio che facilitano l’evoluzione dalla forma latente alla

tubercolosi attiva.

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Figura 20.1a): esame microscopico dell’espettorato dopo colorazione di Ziehl-Neelsen

evidenza di bacilli alcol-acido resistenti; 20.1b): colonie di M. tuberculosis su terreno di

Lowenstein-Jensen.

20.1a

20.1b

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Capitolo 21. Infezioni trasmesse da artropodi

Gli artopodi (zanzare, zecche, flebotomi) possono trasmettere numerose infezioni virali

all’uomo e ad altri animali. I virus trasmessi dagli artropdi sono denominati genericamente

arbovirus. Attualmente, alcuni sono stati riclassificati sulla base di caratteristiche fisico-

chimiche in cinque famiglie, mentre altri sono rimasti non classificati. Le cinque famiglie

sono: Togaviridae, Flaviviridae, Bunyaviridae, Reoviridae e Rhabdoviridae.

Gli arbovirus sono tutti virus a RNA, e la maggior parte possiede un involucro sensibile ai

solventi dei lipidi.

Le malattie da arbovirus sono diffuse nelle regioni temperate ma soprattutto nelle regioni

tropicali, dove c’è abbondanza di vettori e di ospiti. Il ciclo biologico dei virus prevede ospiti

vertebrati non umani e artopodi vettori ematofagi, principalmente zanzare e zecche. Per

alcuni virus il ciclo richiede più di un ospite vertebrato e diversi vettori: alcuni infettano più

ospiti, altri sono trasmessi da più di un vettore, e il loro mantenimento in natura è favorito

dal passaggio del virus alla progenie attraverso le uova. L’uomo si infetta quando si

intromette nel focolaio naturale per qualche cambiamento dell’ecosistema.

Nella maggior parte dei casi gli arbovirus si moltiplicano attivamente nell’intestino e nelle

ghiandole salivari dell’artopode vettore, che trasmette il virus a un ospite vertebrato.

Questo può avere una malattia clinicamente manifesta o una infezione subclinica. Sia

l’ospite infetto sintomatico che quello con infezione subclinica costituiscono una riserva del

virus.

Tranne poche eccezioni, come la Dengue e la febbre gialla, l’uomo e gli animali domestici

fungono solamente da ospite terminale, nel senso che la loro infezione non contribuisce

alla diffusione del virus, avendo valori di viremia non sufficienti alla prosecuzione del ciclo

biologico.

L’infezione umana nella maggior parte dei casi ha un andamento subclinico.

Dal punto di vista clinico, le principali malattie umane da arbovirus possono essere:

1) forme febbrili spesso accompagnate da manifestazioni esantematiche come la

Dengue;

2) febbri emorragiche come la febbre emorragica di Omsk;

3) epatiti come la febbre gialla;

4) nevrassiti e meningiti come la meningite da virus toscana.

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Infezioni febbrili esantematiche

Nella Tabella 21.1: virus associati alle più frequenti malattie con manifestazioni esantematiche (modificata da Moroni M, Esposito R, De Lalla F. Malattie Infettive. Masson, Milano 2003).

Famiglia Genere Virus Patologia Distribuzione

geografica

Togaviridae Alfavirus Chikungunya

O’nyong-nyong

Sindbis

Mayaro

Fiume Ross

Febbre Chikungunya

Febbre

O’nyong-nyong

Infezione da v. Sindibis

Infezione da v. Mayaro

Infezione da v. fiume Ross

Africa, Sud-Est Asia

Africa orientale

Africa, Ex-URSS, Finlandia, Svezia, Asia

America cetro-sud

Australia, Nuova Guinea, Figi, Samoa, Cook

Flaviviridae Flavivirus Dengue Dengue

Febbre del Nilo occidentale

Aisa, Africa, Oceania, Australia, Americhe

Africa, Medio oriente, india; indoneisa, Stati Uniti, Canda, ex-URSS

Buniaviridae Phlebovirus Febbre da flebotomi

Febbre della valle del Rif

Febbre da flebotomi

Febbre della valle del Rift

Bacino Mediterraneo, Balcani, America centrale, Cina, Africa su-tropicale

Africa

Reoviridae Coltivirus Febbre delle zecche del Colorado

Febbre delle zecche del Colorado

Colorado, Canada

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Dengue

La prima descrizione della Dengue – “malattia delle ossa rotte” – risale al 1780, quando si

verificò un'epidemia di Dengue a Philadephia. Nel 1903 fu definito che la malattia veniva

trasmessa dalle zanzare, e nel 1906 fu evidente l’eziologia virale. Successivamente, nel

1944 fu possibile isolare in vitro il virus Dengue, e furono identificati diversi sierotipi

(Dengue 1- 4) diversamente distribuiti nelle aree di endemia. I sierotipi 1, 2, 3, 4 sono

prevalenti nel Sud-Est asiatico, il 2 nelle isole del Pacifico, il sierotipo 1 e 4 in quelle dei

Caraibi. In Africa occidentale si ritrovano i sierotipi 1 e 2, in quella orientale i sierotipi 2 e 3

e in quella centro-meridionale i sierotipi 1, 2 e 4. In Europa il virus Denge può essere

trovato in Grecia, Sicilia ed Egitto.

Oltre che nell’uomo, sono descritte infezioni tra le scimmie delle foreste in Asia e in Africa,

ma le infezioni animali sembrano essere poco significative per l’uomo, la cui infezione è

sufficiente a mantenere il virus.

Il vettore responsabile della trasmissione della Dengue è una zanzara del genere Aedes,

principalmente Aedes aegypti. In Asia e Oceania intervengono anche A. albopictus

(zanzara tigre), A. polynesiensis e altre specie.

L’habitat del vettore è rappresentato prevalentemente dai depositi di acqua in stretto

contatto con gli insediamenti umani; la difficoltà di controllare il vettore e la limitata

possibilità di utilizzare insetticidi adeguati favorisce l’infezione umana.

La zanzara trasmette il virus con la puntura. Essa si infetta pungendo il soggetto viremico,

e dopo l’infezione necessita di un periodo di 10-21 giorni prima che possa infettare a sua

volta. Tuttavia, considerato che la vita della zanzara è di 1-4 settimane, durante le quali

può pungere diverse volte al giorno, ogni zanzara può infettare diverse persone.

Non è certo se esista la trasmissione interumana, ma sono possibili casi secondari a

trasfusioni di sangue, trapianti di organo o di midollo, puntura accidentale con ago,

contatto mucoso con sangue di soggetti infetti. Il virus può essere trasmesso anche dalla

madre al feto, con rischio aumentato quando l’infezione materna è poco prima del parto, si

calcola 5 settimane prima, e con l’allattamento.

Quando in un territorio è presente il vettore, l’introduzione del virus in una popolazione

suscettibile, usualmente da un viaggiatore viremico, è seguita dall’infezione del 50-70%

dei soggetti. Una protezione crociata per i diversi sierotipi è minima, e sono riconosciute

epidemie ricorrenti con l’introduzione di un nuovo siero tipo. In considerazione che le

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infezioni secondarie provocano la forma clinica di Dengue emorragica (DE), epidemie con

nuovi sierotipi sono il presupposto per un aumento dei casi di DE. Nei bambini il rischio di

sviluppare DE è del 100%.

Patogenesi e clinica

Il periodo di incubazione della Dengue è di 4-7 giorni.

La puntura della zanzara, con l'inoculazione del virus, è seguita dalla replicazione virale

nei linfonodi regionali e dopo 2-3 giorni dalla viremia, che persiste per 5 giorni, e dalla

disseminazione virale in diversi tessuti. Dopo 4-6 giorni segue la clearance virale e il

miglioramento.

Quasi tutti i pazienti sono viremici al momento della febbre, ma il virus non è più presente

nel sangue alla defervescenza.

L’intensità delle manifestazioni varia con l’età, ed è più lieve nei giovani adulti e nel

sierotipo 2 e 4.

Nella forma classica di infezione primaria la Dengue è una malattia febbrile con cefalea,

dolori muscolari e rash. La febbre è elevata con brivido; dopo 3-4 giorni, con la progressiva

riduzione della temperatura si manifesta il rash maculare, a volte scarlattiniforme, che

risparmia palme e suole, risolve con desquamazione e può lasciare lesioni petecchiali

soprattutto alla parte estensoria degli arti. Si possono avere anche modeste manifestazioni

emorragiche che sono diverse dalle emorragie che si instaurano in corso di Dengue

emorragica.

Diagnosi

Si basa sulla presenza di febbre e mialgie, e sulla valutazione della provenienza da paesi

ad endemia di Dengue. Per la conferma è possibile utilizzare indagini sierologiche, e in

particolare si possono cercare anticorpi IgM o IgG; in quest'ultimo caso è necessario

dimostrare un aumento di titolo di almeno 4 diluizioni tra 2 campioni di sangue, prelevati a

distanza l’uno dall’altro di almeno 2 settimane.

In fase acuta di malattia è possibile ricercare antigeni virali con indagini sierologiche o

mediante test di biologia molecolare.

La profilassi della Dengue si identifica essenzialmente con la lotta al vettore e l’isolamento

del paziente in fase viremica. I vaccini attenuati vivi non hanno dato risultati.

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Chikungunya

Questo virus è endemico dell'Africa sub-Sahariana, India, Sud-Est asiatico e isole del

Pacifico. In Africa rurale il virus è mantenuto in alcune specie di scimmie e nelle zanzare

delle foreste; in particolare, Aedes africanus e A. furcifer causano epidemie nella stagione

delle piogge.

La prima epidemia italiana si è verificata in Romagna, al confine tra le province di

Ravenna-Forli-Cesena, con 130 casi accertati e 1 decesso in un paziente anziano. Il

paziente indice era un paziente indiano affetto dalla malattia in visita di parenti, e Aedes

albopictus (zanzara tigre) presente nel territorio è stato riconosciuto come il vettore

associato alla trasmissione.

Il periodo di incubazione dell'infezione da virus Chikungunya è di 3-5 giorni;

successivamente si manifestano febbre, mialgie, cefalea, astenia, artarlgie delle grosse

articolazioni e delle interfalangee prossimali e rash maculo-papulare, prevalente al tronco

e alle estremità, che interessa anche palme e piante e risolve in 4-5 giorni senza

desquamazione.

La durata complessiva dei sintomi è di 7-10 giorni.

Il sospetto diagnostico è piuttosto semplice in corso di epidemie. Per la conferma, nelle

prime fasi della malattia si possono utilizzare colture virali e tecniche di biologia

molecolare da sangue. Le indagini sierologiche sono più utili a malattia conclamata e in

fase di risoluzione.

Infezioni del sistema nervoso centrale

Gli artropodi possono trasmettere all’uomo numerose specie di virus responsabili di

infezione del sistema nervoso centrale che si manifestano come meonigiti, encefaliti o

meningoencefaliti. Ricordiamo (Tabella 21.2) i virus della encefalite equina, encefalite

equina venezuelana, ecefalite Giapponese, encefalite di Saint Louis, encefalite da zecca,

encefalite della valle Murray, Rocio, encefalite californiana, West Nile, menigoecefalite da

virus Toscana.

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Tabella 21.2: alcuni Arbovirus agenti di infezioni del sistema nervoso centrale e loro distribuzione geografica (modificata da Moroni M, Esposito R, De Lalla F. Malattie Infettive. Masson 2003).

Famiglia Genere Specie Vettore Distribuzionegeografica

E. equina

occidentale

Zanzare Stati Uniti occidentali,

Canada, America

centrale, Argentina,

Brasile

E. equina

orientale

Zanzare Stati Uniti orientali,

America centrale,

Argentina, Brasile

Togaviridae Alphavirus

E. venezuelana Zanzare America centrale,

America del Sud

E. S. Louis Zanzare Stati Uniti, America

centrale, Argentina,

Brasile

E. giapponese Zanzare Asia

E. della valle del

Murray

Zanzare Australia, Nuova Guinea

Rocio Zanzare Brasile

West Nile Zanzare Africa, Medio Oriente,

India

Pwsassan Zecche America settentrionale

Flaviviridae Flavivirus

E. da zecche Zecche Russia, ex-Iugoslavia,

Slovenia, Ungheria,

Polonia, Repubblica Ceca

Buniavirus E. californiana,

La Crosse

Zanzare America settentrionale

Virus Toscana Flebotomi Italia, paesi Mediterraneo

Bunyaviridae

Phlebovirus

Uukuniemi Zecche Finlandia, Scandinavia,

Europa centrale e est

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Infezioni da virus Toscana

Il virus Toscana, famiglia Bunyaviridae genere Phlebovirus, è trasmesso attraverso la

puntura di flebotomi, in particolare Phlebotomus perniciosus e P. perfilewi. È presente

nelle regione centrali dell’Italia e in diverse nazioni dell’area Mediterranea.

Nella maggior parte dei casi si tratta di un'infezione inapparente, rilevata solo dalla

presenza di anticorpi specifici nel sangue. I pazienti sintomatici manifestano il quadro

clinico di una meningoencefalite, con reperti del liquido cerebrospinale caratteristici delle

meningiti virali. Il decorso della malattia in prevalenza è benigno, con guarigione senza

sequele neurologiche.

La diagnosi si basa sulla dimostrazione di antigeni virali medianti tecniche di biologia

molecolare e anticorpi specifici di classe IgM nel siero.

West Nile

Uno degli arbovirus più diffusi, è stato isolato per la prima volta nel 1937 dal sangue di una

donna febbrile nella zona ovest dell’Uganda. Subito dopo fu dimostrata la trasmissione tra

i vertebrati, e in particolare tra gli uccelli dalle zanzare, e nel 1950 furono evidenti le

possibili complicanze neurologiche. Dieci anni dopo furono descritte piccole epidemie nei

cavalli e nell’uomo nella Francia del Sud, e nel 1990 fu rilevato un notevole aumento dei

casi con diffusione del virus anche nelle regioni sud-est dell’Europa, in Russia e in

America.

Un picco di incidenza è stato riportato nel 2003: 10.000 casi totali, di cui 286 con

manifestazioni neurologiche. Tuttavia, dal 2004 è stata osservata una riduzione del

numero delle infezioni, e a tutt’oggi si registrano all’incirca 1000-1500 casi neurologici

all’anno.

Il virus causa una malattia negli uccelli e viene trasmesso dalla puntura delle zanzare.

Negli Stati Uniti d’America sono identificate 300 specie diverse di uccelli e 62 specie di

zanzare con infezione. Alcune epidemie sono preannunciate da una moria tra gli uccelli.

L’infezione è stata dimostrata anche in 30 specie diverse di vertebrati, i quali tuttavia non

hanno una viremia sufficiente da infettare la zanzare durante il pasto (ospiti terminali) e

quindi trasmettere l’infezione. Anche l’uomo è un ospite terminale.

Tra le diverse specie di zanzare il genere Culex sembra essere la più rilevante nel ciclo

enzootico, ma la specie varia in relazione all’area geografica considerata.

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La zanzara resta infetta per tutta la sua vita; il virus può essere trasmesso alle uova, e

questo consente la sua sopravvivenza nel periodo invernale.

Da alcuni anni anche in Italia e in particolare in Emilia-Romagna, considerata l’intensa

circolazione del virus West Nile riscontrata nelle aree di pianura, è stato attivato un piano

di sorveglianza e lotta al vettore Culex pipien, zanzara comune, per cercare di prevedere e

prevenire la diffusione del virus.

L’infezione ha un periodo di incubazione di 2-6 giorni, fino a >14 giorni in pazienti

immunocompromessi. Nei paesi endemici la maggior parte delle infezioni sono in età

infantile. L’infezione si manifesta con forme febbrili e casi di encefalite grave (1%) anche

mortale (1‰); il rischio di interessamento neurologico e la letalità aumentano con l’età del

soggetto.

È possibile la trasmissione interumana mediante trasfusioni di sangue ed organi; è stata

riportata anche la trasmissione verticale con l’allattamento.

La diagnosi prevede test di laboratorio su liquido cerebro-spinale e siero per la ricerca di

anticorpi IgM e IgG, e si può ricercare il genoma virale su sangue o LCS. Nell’uomo

questo esame è generalmente negativo fino a 5 giorni dall’inizio dei sintomi.

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Capitolo 22. Infezione da virus della Immunodeficienza umana (HIV)

Il virus dell’immunodeficienza umana (HIV), è l’agente eziologico dell’AIDS (Sindrome

della Immunodeficienza Acquisita).

Questa malattia infettiva è caratterizzata da un grave deficit della risposta immunitaria che

favorisce l’insorgenza di infezioni opportunistiche e di insolite forme di tumori maligni.

Eziologia e Modalità di infezione

L’HIV, di cui sono attualmente noti i sierotipi 1 e 2, appartiene alla famiglia retroviridae e al

genere Lentivirus; è un virus a RNA. Il primo sierotipo è ubiquitario ed è responsabile della

maggior parte dei casi di AIDS. Il secondo, presente soprattutto in Africa occidentale, è

meno virulento e provoca una malattia a decorso più attenuato.

I Lentivirus sono virus caratterizzati da lenta manifestazione clinica, in grado di indurre

disordini neurologici ed immunosoppressivi. La principale caratteristica di HIV è infatti il

tropismo virale per i linfociti T e i macrofagi esprimenti molecole CD4; clinicamente, questo

si traduce in una diminuzione delle difese immunitarie e nello sviluppo di patologie

opportunistiche o di tumori specifici.

Il rischio di infezione varia in relazione alla modalità di esposizione. Esistono tre diversi

modi di trasmissione: per via ematica, per via sessuale e per via materno-fetale (Figura

22.1).

Via ematica (parenterale): con la trasfusione di sangue o emoderivati infetti (oggi

praticamente eliminato grazie a un maggiore controllo delle unità di sangue, al trattamento

degli emoderivati e alla selezione dei donatori); con lo scambio di siringhe con soggetto

sieropositivo (attraverso l’inoculo di piccole quantità di sangue contaminato); contatto

accidentale con aghi o strumenti taglienti infetti.

Via sessuale: rapporti sia omosessuali che eterosessuali non protetti dal profilattico. Tale

modalità è la via di trasmissione più diffusa nel mondo.

Via materno-fetale: la madre sieropositiva per HIV può trasmettere l’infezione durante la

gravidanza, al momento del parto e con l’allattamento. È un tipo di trasmissione

particolarmente rilevante in Africa, soprattutto perché il latte materno non viene sostituito

con quello artificiale.

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Figura 22.1: modalità di trasmissione della infezione da HIV. https://www.google.it/search?q=modalit%C3%A0+trasmissione+hiv&biw=1026&bih=669&source=lnms&tbm=isch&sa=X&ved=0ahUKEwjWoLKk7KfOAhVM6RQKHdDmBnMQ_AUICCgD#imgdii=xqpbO5Z6A-UJDM%3A%3BxqpbO5Z6A-UJDM%3A%3BwHhK2AZ8_6ZyeM%3A&imgrc=xqpbO5Z6A-UJDM%3A.

HIV è stato trovato in tutti i liquidi biologici dei soggetti infetti (urina, feci, liquido pleurico,

etc.), ma la trasmissione per queste vie è epidemiologicamente irrilevante.

La trasmissione per gli operatori sanitari con puntura accidentale è di circa 0.1-0.3%,

perché si tratta comunque di un virus abbastanza labile nell’ambiente esterno. Al contrario,

il rischio di infezione da HBV in seguito a uno stesso incidente è 45-120 volte maggiore.

HIV viene inattivato completamente dalle alte temperature (56°-60°C per 30’), e

velocemente dai comuni disinfettanti come l’ipoclorito di sodio 1.0%, l'alcool etilico 70% e i

solventi di lipidi come l’etere.

È sensibile ai valori estremi di pH (10’ a pH>10 o pH< 6) ed è estremamente labile

all’essiccamento (la quantità di virus normalmente presente nei fluidi corporei sopravvive

al massimo alcuni minuti in ambiente secco). L’ambiente esterno in cui resiste meglio

(15gg circa) sono i liquidi di coltura, ma diminuisce se la temperatura viene portata a 37°C.

Il virus non si trasmette attraverso: strette di mano, saliva, lacrime, sudore, muco, vestiti,

asciugamani, lenzuola, punture di insetti.

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Quadri Clinici

L’infezione da HIV evolve secondo tre stadi principali:

1. infezione primaria;

2. infezione latente;

3. AIDS conclamato.

Il parametro su cui si basa la distinzione è l’andamento nel tempo della viremia plasmatica

(copie di virus nel plasma) e della quantità dei linfociti T CD4+ e CD8+ (che rappresentano

l’immunità cellulo-mediata).

In assenza di terapia antiretrovirale, l’AIDS conduce il soggetto all’exitus in media entro 10

anni.

L’infezione primaria è un’infezione acuta, e rappresenta il momento in cui il virus infetta le

cellule bersaglio e si diffonde agli organi linfoidi. Il paziente può essere asintomatico o

presentare una sintomatologia aspecifica di tipo influenzale o simil mononucleosica. È

associata ad alti livelli di viremia nel sangue. La comparsa di una risposta immunitaria

specifica (ma non protettiva) induce un calo della replica virale entro 4-6 settimane

dall’esposizione.

Dopo la siero conversione, i pazienti entrano di norma in una fase asintomatica e

clinicamente stabile che può durare anni. Clinicamente questo periodo è associato ad una

marcata linfadenopatia generalizzata, caratterizzata dalla presenza di linfonodi tumefatti e

non dolenti. Il periodo asintomatico è caratterizzato da viremia plasmatica relativamente

bassa e dal graduale esaurimento dei linfociti T CD4+ .

Inesorabilmente si arriva alla fase di AIDS conclamato, dove la deplezione dei linfociti

CD4+ è talmente grave che diventa impossibile fronteggiare l’avvento delle infezioni

opportunistiche che, insieme a gravi forme di tumore, rappresentano la maggiore causa di

morte dei soggetti infetti.

Diagnosi di laboratorio

La diagnosi è prevalentemente indiretta, di tipo sierologico. Si basa sulla rilevazione della

presenza di anticorpi virus-specifici e comprende due tipi di test: il test di screening

(metodo ELISA) e il testi di conferma (Western Blot).

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Terapia

Si avvale dell’utilizzo dei farmaci antiretrovirali somministrati in associazione. La terapia,

una volta iniziata, andrà assunta cronicamente per tutta la vita del paziente.

Per l’AIDS c’è l’obbligo di denuncia.

Profilassi post esposizione

Un trattamento a parte va riservato alla profilassi post esposizione (PPE o PEP

dall’acronimo inglese), ovvero alla somministrazione di farmaci antiretrovirali nelle ore

immediatamente successive a un evento considerato ad alto rischio di infezione.

Tradizionalmente si distingue in occupazionale e non occupazionale. Sia che si tratti di

incidente occupazionale (puntura accidentale con ago o tagliente contaminato da sangue

infetto o contaminazione mucosa con liquidi biologici infetti), sia che si tratti di scambio di

siringhe o rapporti sessuali non protetti con persone a rischio, la PPE rappresenta

un’importante opportunità per ridurre la probabilità di contagio.

Generalmente, in ogni ospedale è previsto un protocollo per la gestione degli incidenti

occupazionali e non occupazionali a rischio biologico, al fine di garantire l’eventuale

somministrazione della terapia antiretrovirale secondo quanto previsto dalle Linee Guida

internazionali.

Poiché il rischio di trasmissione varia in rapporto alla singola esposizione, la prescrizione

della terapia richiede un’attenta valutazione del rischio di contagio e va eseguita da

personale medico qualificato.

La terapia preventiva deve essere iniziata il più presto possibile: l’efficacia massima si ha

nelle prime 4 ore, ma può essere iniziata fino a 72 ore dopo l’evento e proseguita per un

totale di quattro settimane.

Il test per la ricerca degli anticorpi anti HIV andrà effettuato al tempo zero (ossia al

momento dell’incidente), a 3 e a 6 mesi. Al termine di tale periodo, se il test rimane

negativo la persona non sarà più considerata a rischio di siero conversione.

Nelle tabelle che seguono sono enunciate le raccomandazioni nazionali in materia.

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Tabella 22.1: protocollo post esposizione file:///C:/Documents%20and%20Settings/ThinkCentre/Documenti/Downloads/protocollo%20operativo%20e%20modulistica%20(1).pdf

Profilassi antiretrovirale Esposizione a

rischio raccomandata considerata sconsigliata

A. modalità - ferita o puntura

con ago o altro

tagliente

- contaminazione

congiuntivale

- contaminazione di cute lesa o

altre mucose

- ferita da morso

- contaminazione di cute

integra

A. materiale

biologico

- sangue

- liquidi

contenenti

sangue visibile-

liquido

cerebrospinale-

materiale ad

elevata

concentrazione

virale (colture,

sospensioni

concentrate di

virus)

- liquido amniotico

- liquido sinoviale

- liquido pleurico

- liquido pericardico

- liquido peritoneale

- tessuti

- materiale di laboratorio-

sperma o secrezioni genitali

femminili

- urine

- vomito

- saliva

- feci

A. paziente

fonte

- infezione HIV

nota

- sierologia HIV non nota o

riferita negativa

- paziente fonte non noto o

non disponibile

Paziente fonte negativo

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106

Figura 22.2: protocollo post esposizione file:///C:/Documents%20and%20Settings/ThinkCentre/Documenti/Downloads/protocollo%20operativo%20e%20modulistica%20(1).pdf.

Profilassi post-esposizione Tipo di esposizione

Raccomandata Considerata Sconsigliata

Sessuale fonte HIV + -rapporto anale recettivo

o insertivo

-rapporto vaginale

recettivo o insertivo

-sesso orale recettivo con

eiaculazione

-sesso orale recettivo

senza eiaculazione o

insertivo

-schizzo di sperma in

mucosa congiuntivale

Sesso oro-vaginale tra donne

Sessuale

fonte HIV non nota ma

a rischio

-rapporto anale recettivo -rapporto anale insertivo

-rapporto vaginale

recettivo o insertivo

-sesso orale recettivo con

eiaculazione

Altre situazioni

Sessuale

fonte HIV non nota

-rapporto anale recettivo Tutte le altre situazioni

parenterale

fonte HIV +

scambio di ago/siringa ferita con ago durante :

- colluttazione

- rapina

aggressione con ago

ferita da morso

contaminazione di cute

lesa

contaminazione di mucosa

parenterale

fonte HIV non noto ma

a rischio

scambio di ago/siringa

ferita con ago durante :

- colluttazione

- rapina

aggressione con ago

ferita da morso

contaminazione di cute

lesa

contaminazione di mucosa

puntura con ago abbandonato nell’ambiente

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Capitolo 23. Epatiti

L’epatite virale è un processo infiammatorio che interessa il fegato e può essere causato

da diversi fattori quali farmaci, malattie autoimmuni, esposizione a tossici e virus.

Tra i virus identificati e riconosciuti come responsabili della maggior parte delle epatiti virali

acute e croniche vi sono il virus dell’epatite A (HAV), E, (HEV), B (HBV), C (HCV) e Delta

(HDV). Questi virus differiscono tra loro per dimensione, peso molecolare, genoma, ciclo

replicativo, assetto antigenico, vie di trasmissione ed evoluzione clinica dell’infezione

(Tabella 23.1).

Tabella 23.1: virus epatitici maggiori e caratteristiche dell’infezione (Modificata da Mandell, Duglas, and Bennet. Principles and Practice of Infectious Disease. Philadelphia 8th Ed, 2015).

Virus HAV HBV HCV HEV

Classificazione Picorna-viridae Hepadna-

viridae

Flavi-viridae Calici-viridae

Genoma RNA DNA RNA RNA

Trasmissione

oro-fecale

sessuale

sangue

Possibile

Raramente

No

No

Raramente

No

Possibile

Incubazione

(gg)

15-50 30-180 15-150 15-60

Cronicizzazione No Sì Sì Sì (negli

immunodepressi)

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Epatite da HAV

Agente eziologico e sue caratteristiche

L’epatite A è ubiquitaria e rappresenta la forma di epatite virale più diffusa al mondo. È

particolarmente presente nei Paesi in via di sviluppo, visto che la sua diffusione è legata

alle condizioni igienico-sanitarie.

L’agente eziologico (HAV) è un piccolo virus a singola catena di RNA e privo di

rivestimento, facente parte della famiglia dei Picornavirus. Resiste alla temperatura di

60°C per un’ora, a concentrazioni di 1 ppm di etere e cloro per 30 minuti, ed è inattivato

dal calore umido a 100°C per 5 minuti. Possiede un solo determinante antigenico.

L’infezione induce la produzione di anticorpi IgM e IgG.

Il virus penetra per via orale e si moltiplica nell’epitelio intestinale prima di arrivare al

fegato, dove si moltiplica attivamente negli epatociti, provocando lesioni di tipo

degenerativo-necrotico. Nell’ultima parte del periodo di incubazione, il virus viene eliminato

con le feci.

Epidemiologia

La malattia è diffusa in tutto il mondo, con maggiore frequenza nelle zone tropicali e

subtropicali. La diffusione del virus HAV dipende da diversi fattori:

- Densità della popolazione

- Condizioni socio-economiche

- Abitudini alimentari ecc.

Nelle zone a basso livello socio economico, la malattia colpisce quasi esclusivamente

l’infanzia. Nelle regioni ad alto tenore di vita, invece, l’infezione interessa prevalentemente

l’età adulta.

Modalità di trasmissione

Sorgente di infezione: l’uomo malato.

Il virus è eliminato attraverso le feci qualche settimana prima della comparsa dell’ittero fino

ad alcuni giorni dopo.

Periodo di contagiosità: fase preclinica, asintomatica.

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L’infezione si trasmette per via oro-fecale da persona a persona. L’epidemiologia è tuttavia

sostenuta attraverso alimenti ed acqua che risultino contaminati da materiali di scarico e

attraverso operatori alimentari infetti. I più comuni veicoli alimentari sono rappresentati da

molluschi, frutta e verdura consumate crude, e da tutti gli altri alimenti per la cui

preparazione venga utilizzata l’acqua senza che sia previsto un periodo di cottura.

Il contagio può avvenire anche mediante il sangue e i suoi derivati, ma è eccezionale per

la breve durata della viremia. Presenta soprattutto un andamento stagionale simile a

quello della febbre tifoide.

Quadro clinico

Periodo di incubazione: 10-50 giorni, in media 25-28 giorni.

Periodo preitterico: in media 1 settimana. Si presenta con astenia, profondo malessere,

anoressia e nausea, talvolta associati a dolore all’ipocondrio di destra; in genere non

supera i 38-38.5°C.

Periodo itterico: in media 2-4 settimane, dove prevalgono i sintomi tipici del danno epatico

(urine ipercromiche, feci acoliche e ittero). Aumento delle transamminasi.

Forme atipiche di epatite virale A: forme fulminanti, gravi o subacute e a decorso protratto.

Diagnosi

La diagnosi è eziologica e si effettua con la ricerca delle IgM anti –HAV nel siero di

pazienti in fase acuta o convalescenti.

È possibile effettuare la ricerca diretta del virus nelle feci e nel sangue mediante PCR.

Prevenzione

Isolamento per non più di 7 giorni, a partire dalla scomparsa dell’ittero. Miglioramento delle

condizioni igienico-sanitarie, igiene personale soprattutto delle mani. Educazione sanitaria.

Immunoprofilassi passiva, ossia somministrazione di immunoglobuline pre e post

esposizione, per tutti quei soggetti esposti a un rischio immediato in contesti particolari

(epidemie e altre situazioni).

Immunoprofilassi attiva, ossia vaccinazione con virus inattivi. Nelle aree ad alta

endemiadovrebbero essere sottoposti tutti i bambini; nelle aree a bassa endemia la

vaccinazione è indicata nei soggetti a rischio.

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Epatite da virus E (HEV)

Forma di epatite conosciuta prima come NANB.

L’agente eziologico denominato HEV è un piccolo virus a RNA a simmetria icosaedrica,

privo di involucro. Isolato per la prima volta nel 1983, non può essere coltivato in vitro né si

conosce il meccanismo di replica a livello epatico.

Colpisce prevalentemente i giovani adulti. Nel siero di pazienti e di convalescenti è stato

ritrovato un anticorpo anti-HEV.

Epidemiologia e Modalità di trasmissione

Risulta endemica in molti Paesi in via di sviluppo (Centro e Sud-Est asiatico, India, Medio

Oriente, Africa settentrionale, orientale, occidentale, America del Sud e Messico), e

vincolanti sono le condizioni igienico-sanitarie. Nei Paesi industrializzati rappresenta

tuttavia una malattia emergente: sebbene la maggior parte dei casi riguardi persone che

ritornano da viaggi in aree endemiche, è stato riscontrato un aumento nel numero dei casi

autoctoni anche in Italia.

La trasmissione avviene per via oro-fecale, e la principale modalità di infezione è

rappresentata dall’assunzione di acqua contaminata da feci. Può dar luogo ad epidemie

protratte o a casi sporadici.

Il virus ha un’alta prevalenza nei maiali, che potrebbero rappresentare il serbatoio. È da

considerare quindi una zoonosi. L’infezione può avvenire per esposizione professionale o

per contatto diretto con secrezioni o organi contaminati, non ultimo l’ingestione di alimenti

contaminati poco cotti o crudi.

Quadro Clinico

Periodo di incubazione: 6 settimane

Il decorso della malattia è simile a quello causato dal virus dell’epatite A. Si differenzia

solo per il numero maggiore delle forme fulminanti e per la sintomatologia piuttosto grave

nelle donne in gravidanza, specialmente nel terzo trimestre.

La diagnosi eziologica si basa sulla ricerca degli anticorpi specifici anti-HEV mediante

tecniche imunoenzimatiche e Western Blot.

Non è disponibile una profilassi immunitaria.

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Epatite da virus B (HBV)

L’epatite B è una malattia del fegato trasmissibile determinata dal virus dell’epatite B.

La persona infettata, nella forma acuta, sviluppa un quadro che può variare in gravità da

una forma pauci o asintomatica a una malattia severa che richiede il ricovero.

Alcune persone sono in grado di contrastare efficacemente l’infezione e di eliminare il

virus. In altri soggetti l’infezione persiste (epatite cronica B; 5-10%) e nel tempo può

determinare seri problemi, quali: epatite cronica attiva, cirrosi, insufficienza epatica, cancro

epatocellulare.

Eziologia e Modalità di infezione

Il virus dell'epatite B, conosciuto già dagli anni '60, è un virus con genoma a DNA,

appartenente alla famiglia degli Hepadnavirus.

È formato da una parte interna, denominata core e contenente il genoma e strutture

proteiche, e da un involucro esterno, denominato envelope. Nel core sono identificabili due

diversi antigeni, l'HBcAg e l'HBeAg, mentre dell'envelope fa parte l'antigene di superficie

HBsAg (il significato di questi antigeni è illustrato in seguito).

Figura 23.1: struttura HBV https://atlantemedicina.files.wordpress.com/2009/10/800px-hepatitis_b_virus_v2.jpg?w=450

Le modalità di infezione ricalcano quelle dell’HIV: l’HBV di solito è trasmesso attraverso il

sangue, lo sperma e i liquidi vaginali, ma è molto più contagioso (50-100 volte più

dell’HIV).

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Schematicamente possiamo distinguere:

- Trasmissione sessuale

- Trasmissione ematica: trasfusione di sangue o emoderivati (oggi praticamente

scomparsa); pratiche parenterali (punture o ferite con materiali contaminati da sangue

infetto). Inoltre, poiché HBV resiste a lungo nell’ambiente, è possibile che l’infezione si

trasmetta attraverso la condivisione di oggetti personali quali spazolini da denti, rasoi,

siringhe (trasmissione per via parenterale in apparente).

- Trasmissione verticale: dalla madre al figlio in epoca perinatale.

Quadri clinici

Clinicamente il quadro dell’epatite acuta da HBV è indistinguibile da quello causato da

altre epatiti virali. Può essere asintomatica o presentarsi in una forma più grave tale da

richiedere il ricovero.

La caratteristica di questa epatite è che può evolvere in infezione cronica; il rischio

aumenta con il diminuire dell’età al momento dell’infezione. È la forma cronica

responsabile della morbilità e della mortalità correlate al virus dell’epatite B perché può

portare alla cirrosi, all’insufficienza epatica e al tumore epatocellulare.

Diagnosi

La diagnosi si basa sui markers sierologici che consentono anche di distinguere tra una

forma acuta, una forma cronica e una infezione superata.

HBsAg: antigene di superificie che si presenta nella fase acuta dell’infezione e in coloro

che presentano una forma cronica. Tali soggetti possono trasmettere l’infezione.

AntiHBsAg: anticorpi che compaiono nelle persone che hanno superato l’infezione. Sono

presenti anche nei soggetti vaccinati.

Anti HBcAg: anticorpi contro l’antigene del core, compaiono nei soggetti che hanno

contratto l’infezione e persistono per tutta la vita. Si possono avere anticorpi IgM presenti

in fase acuta e entro un anno dalla infezione, e IgG che persistono tutta la vita.

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113

Terapia

La terapia negli ultimi anni ha trovato grande giovamento dall’avvento di nuovi farmaci

antivirali che hanno notevolmente migliorato la prognosi rallentando la progressione verso

le complicanze.

Prevenzione

Imprescindibile è l’educazione sanitaria nei soggetti portatori di HBsAg e dei loro

conviventi, così come dei soggetti a particolare rischio di infezione parenterale come i

tossicodipendenti e coloro che pratichino rapporti sessuali non protetti.

Esiste una immunoprofilassi passiva con immunoglobuline specifiche e una

immunoprofilassi attiva, da eseguire con la vaccinazione (in Italia resa obbligatoria in tutti i

neonati a partire dal 1991).

Come per l’HIV, anche per l’epatite da HBV è prevista una profilassi post esposizione nei

soggetti che abbiano avuto contatto con liquido biologico a rischio per virus a trasmissione

ematica; in questo caso, sempre dopo valutazione specialistica, la profilassi (quando

indicata) si basa sulla somministrazione sia delle immunoglobuline che della prima dose di

vaccino.

Il trattamento con immunoglobuline e vaccino è riservato anche ai neonati da madre

HBsAg positiva.

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Epatite da virus C (HCV)

L’infezione da HCV è la causa principale di malattia epatica cronica nel mondo. Le

persone che si infettano con il virus C spesso presentano una fase acuta completamente

asintomatica, ma tendono a cronicizzare in circa il 75-90% dei casi.

Per il virus HCV, a differenza di HAV e HBV, non esiste ancora un vaccino efficace.

Eziologia e modalità di infezione

Il virus HCV appartiene alla famiglia dei flaviviridae, è un virus a RNA a singola elica. È

costituito da una particella sferica provvista di rivestimento esterno. Caratteristica

peculiare (come di tutti i virus a RNA) è la sua grande variabilità genomica che ha portato

ad identificare 7 genotipi principali. È inattivato dal calore secco a 60°C, dal cloroformio e

dai solventi organici.

Il rischio di trasmissione dell’infezione a seguito di puntura con ago contaminato è di circa

il 2%; tale valore è intermedio tra il rischio di trasmissione di HIV (0.3%) e HBV (30%).

La principale modalità di trasmissione, quella cioè che sostiene l’epidemiologia, è la via

parenterale “classica”, quindi uso di sangue e emoderivati infetti (oggi praticamente

scomparso), uso promiscuo di aghi e siringhe per la somministrazione di sostanze

psicotrope. Altre modalità sicuramente meno efficienti sono l’esecuzione di tatuaggi e

piercing, e le pratiche di manicure e pedicure con strumenti non sterilizzati.

Quadri clinici

L’epatite acuta sintomatica si riscontra in una minima percentuale di soggetti che

contraggono l’infezione ed è clinicamente indistinguibile da tutte le altre epatiti ad eziologia

virale.

L’epatite cronica decorre per anni in modo asintomatico o poco sintomatico,

manifestandosi con astenia e raramente con dispepsia. Spesso infatti la diagnosi è un

riscontro occasionale, formulata cioè durante indagini che il paziente esegue per altre

ragioni. Addirittura, anche nei quadri di cirrosi la malattia non dà segno di sé, e può

rivelarsi improvvisamente con la comparsa di complicanze come ascite, emorragia

digestiva o epatocarcinoma.

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Diagnosi

La maggior parte delle infezioni da HCV resta non diagnosticata, in quanto asintomatica

nell’80% dei casi.

Per la diagnosi sono necessari due test distinti, eseguibili attraverso un prelievo ematico. Il

primo ricerca gli anticorpi anti HCV che tutti i soggetti venuti a contatto col virus

sviluppano, anche se questo test non è in grado di distinguere se l’infezione è pregressa o

ancora attiva. Pertanto, nei soggetti che risultano positivi va eseguito un secondo esame

ricercando l’HCV-RNA, che risulterà positivo in caso di infezione attiva.

Terapia

Il trattamento dell’epatite cronica C ha come obiettivo l’eradicazione del virus, ma il

successo non è scontato perché dipende da numerosi fattori tra cui il genotipo e

l’evoluzione della malattia.

Per anni il trattamento si è avvalso dell’uso di Interferone associato a Ribavirina che

portava a discreti risultati, a seconda del genotipo. Negli ultimi anni sono disponibili in

commercio nuovi farmaci antivirali diretti che hanno rivoluzionato le percentuali del

successo terapeutico, risultando estremamente efficaci.

Prevenzione

Come già accennato, per il virus HCV non è attualmente disponibile alcun tipo di

immunoprofilassi specifica. Pertanto si può agire solo tentando di migliorare le norme

igieniche in generale, e ottimizzando i provvedimenti atti a prevenire la diffusione del virus

per via parenterale.

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24. Bibliografia

1) M. Moroni, S. Antinori, V. Vullo. Manuale di Malattie Infettive. Elsevier, Milano, 2009.

2) Mandell, Duglas, and Bennet. Principles and Practice of Infectious Disease. Philadelphia 8th Ed, 2015.

3) Mandell, Duglas, and Bennet. Principles and Practice of Infectious Disease. Philadelphia 7th Ed, 2010.

4) S. Pauluzzi. Corso di lezioni di malattie infettive, 2° ed, Galeno Perugia, 1988.

5) DN Gilbert, HF Chambers, GM Eliopoulous, MS Saag. The Sanford Antimicrobial guide to antimicrobial therapy. Sperryville VA. 44th Ed. 2014.

6) Moroni M, Esposito R, De Lalla F. Malattie Infettive. Masson 2003.

http://enfamilia.aeped.es/sites/enfamilia.aeped.es/files/styles/4col/public/images/articulos/1024px-mantoux_tuberculin_skin_test.jpg?itok=LQ297qG1.

file:///C:/Documents%20and%20Settings/ThinkCentre/Documenti/Downloads/protocollo%20operativo%20e%20modulistica%20(1).pdf.

https://www.google.it/search?q=modalit%C3%A0+trasmissione+hiv&biw=1026&bih=669&source=lnms&tbm=isch&sa=X&ved=0ahUKEwjWoLKk7KfOAhVM6RQKHdDmBnMQ_AUICCgD#imgdii=xqpbO5Z6A-UJDM%3A%3BxqpbO5Z6A-UJDM%3A%3BwHhK2AZ8_6ZyeM%3A&imgrc=xqpbO5Z6A-UJDM%3A.

https://atlantemedicina.files.wordpress.com/2009/10/800px-hepatitis_b_virus_v2.jpg?w=450.

http://www.cdc.gov/ncidod/dvrd/rabies/Prevention&Control/ACIP.htm.


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