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8/18/2019 Zanker, Augusto e Il Potere Delle Immagini http://slidepdf.com/reader/full/zanker-augusto-e-il-potere-delle-immagini 1/356 Augusto e il potere delle immagini di Paul Zanker Storia dell’arte Einaudi 1

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Augusto e il poteredelle immagini

di Paul Zanker 

Storia dell’arte Einaudi 1

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Edizione di riferimento:Paul Zanker, Augusto e il potere delle immagini, trad. it. diFlavio Cuniberto, Einaudi, Torino 1989Titolo originale: Augustus und die Macht der Bilder © C. H. Beck’sche Verlagsbuchhandlung (Oskar Beck),München 1987

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Indice

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Premessa 7Cenni bibliografici 11

Introduzione 16

capitolo primoImmagini contraddittorie. La repubblica al tramonto 11

La statua onoraria e il nudo 22Contraddizioni nella forma e nel messaggio 25Propaganda famigliare e crisi della classe dirigente 28L'immagine urbana di Roma come specchiodella situazione politica e sociale 34La «villa» e la nascita della sfera privata 41

capitolo secondo

Immagini antagoniste. La lotta per il potere assoluto 46Divi filius 46Le statue trionfali del giovane Cesare 50Identificazioni mitologiche 57Le serie numismatiche di Ottaviano 67Le immagini problematiche di Antonio 70Antagonismo edilizio e varietà formale 78Il Mausoleo 84

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Indice

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capitolo terzoLa grande svolta.I nuovi segni e il nuovo stile politico 89

Il Foro come palcoscenico della famiglia Giulia 89I simboli della vittoria 89Il vincitore si ritira 92Res publica restituta 94Il titolo di «Augusto» e il nuovo ritratto 104

capitolo quartoIl programma di rinnovamento culturale 108

1. pietas 110

 Aurea Templa 113Nuovi programmi figurativi 119Feste e rituali 122Le alte cariche sacerdotali 126Sacerdozio e status sociale 131

2. publica magnificentia 137Il princeps scende in campo contro il lusso privato 138Ville per il popolo 141

La presenza della famiglia imperialenell’immagine urbana 145Applauso e ordine. Il teatro come luogo d’incontrofra il princeps e il popolo 148Immagine urbana e ideologia 154

3. mores maiorum 159La riforma dei costumi 159Il princeps come modello 162

Toga e stola 165

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Indice

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capitolo quintoLo scenario mitico del nuovo Stato 168

1. aurea aetas 169Si inaugura l’età dell’oro 169Fecondità e pienezza 175I tralci del paradiso 180Vittoria e pace 183

2. il mito, la storia, il presente 190

Dal mito di famiglia al mito di Stato 191Venere e Marte 193Enea e Romolo 198

Un’immagine riveduta della storia romana 2063. «principes iuventutis». il ruolo dei successori

nel mito di stato 211

Gli eredi e la stirpe di Venere 212Tiberio e Druso generali dell’impero 218Tiberio come successore 221Il ruolo di Giove 224

capitolo sestoIl linguaggio formale del nuovo mito 233

Il riutilizzo degli originali classici e arcaici 235Il significato sacrale della forma arcaica 237Le implicazioni morali della forma classica 239Composizioni «atticiste» 244Il valore simbolico della citazione 247

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Indice

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capitolo settimoLe nuove immagini e la vita privata 254

Moda e lealismo 255

La privatizzazione del messaggio 261Gusto e mentalità 265Proiezioni bucoliche 270Mentalità e autorappresentazione 274

capitolo ottavoLa diffusione del mito imperiale 279

La reazione dei Greci 279Le città fanno a gara nel culto dell’imperatore 285Il culto imperiale in Occidente 290Le élites urbane e il programma augusteo 296Marmo e autocoscienza 302

Conclusione 311

Note 318

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Premessa

L’architettura e le arti figurative rispecchiano lostato di una società e i suoi sistemi di valori ma anche isuoi momenti di trasformazione e di crisi. Tuttavia,come noto, è difficile analizzare determinate opere d’ar-te quali testimonianze storiche di uno specifico messag-gio. Questo libro intende mostrare come un mutamen-to di sistema politico possa condurre allo sviluppo di unnuovo linguaggio visivo, che riflette e nello stesso tempocondiziona in modo essenziale l’evoluzione della men-

talità. Secondo gli orientamenti moderni della ricerca cisiamo interrogati anzitutto sui moventi sociali e il con-testo psicologico dei processi di trasformazione. Laforma dell’opera d’arte non sarà allora meno interes-sante del suo contenuto: perché lo «stile» è a sua voltauna testimonianza storica complessa.

Poche volte nella storia le arti furono messe al ser-vizio del potere politico in modo cosí diretto come nel-l’età augustea. Le immagini dei poeti e degli artisti par-lano di un mondo felice, in cui un grande sovrano gover-na in pace un impero universale. E come dimostra nonda ultimo la pubblicità, che continua a utilizzarle, alcu-ne di queste immagini conservano ancora intatto il pro-prio potere di suggestione.

A un’immagine canonica e idealizzata dell’arte augu-stea si arrivò solo negli anni trenta. La sistemazioneurbanistica della Roma fascista, con i suoi restauri e i

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suoi lavori di scavo, portò per la prima volta alla luce,o perlomeno a conoscenza dei contemporanei, monu-

menti importanti come il Mausoleo e il Foro di Augu-sto, il Teatro di Marcello e l’Ara Pacis. Fatalmente, lecelebrazioni per il secondo millennio della nascita diAugusto, nel 1937, indussero il regime e i suoi sosteni-tori più o meno convinti a utilizzare l’arte romana nelsuo insieme, e in particolare quella augustea, nel quadrodi una estetizzazione del nuovo potere e dei suoi mega-lomani progetti imperiali. E in una forma o nell’altra lanostra visione dell’arte augustea è ancora condizionata

dall’immagine fissata in quegli anni. È vero, peraltro,che la figura di Augusto aveva avuto i suoi critici findall’ antichità, e non solo di parte «repubblicana» comeTacito, Voltaire, Gibbon e Mommsen. Anche negli annitrenta non mancano le voci contrastanti, come il cele-bre libro di Ronald Syme, The Roman Revolution, pub-blicato in Inghilterra nel 1939. Purtroppo, nel sugge-stivo capitolo The Organisation of Opinion l’arte e

l’architettura sono del tutto trascurate, e anche oggi èdiffusa convinzione fra gli storici che le opere d’arteabbiano un puro interesse estetico: buon materiale perlibri illustrati, ma privo di un valore documentario auto-nomo rispetto alle fonti scritte. Un atteggiamento, que-sto, a cui hanno contribuito non poco anche gli storicidell’arte e gli archeologi con le loro interpretazioni«immanenti» all’opera stessa e il loro disinteresse per ilcontesto storico delle opere figurative.

Quando non si limita a riprendere i panegirici augu-stei degli anni trenta, dopo la seconda guerra mondialela ricerca si concentra significativamente su problemi dinatura formale. Soprattutto nell’archeologia tedesca,dominata dall’idea della superiorità dell’arte greca, ilvalore dell’arte augustea viene ricondotto al suo classi-cismo e alla sua qualità artigianale. Il significato atem-porale di quell’arte deriverebbe – come anche nel caso

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di un Virgilio o di un Orazio – dalla sua capacità di rin-novare e trasmettere le forme greche, nonostante la fun-

zione politica delle sue opere. In Italia, l’illustre archeo-logo di formazione marxista Ranuccio Bianchi Bandi-nelli contestava invece il significato storico dell’arteaugustea proprio a causa del suo classicismo, visto comel’espressione di un sistema politico reazionario. A par-tire dalla fine degli anni sessanta, e riprendendo le ricer-che di Ronald Syme e Andreas Alföldi, l’interesse deglistudiosi si sposta sul valore propagandistico dei messag-gi figurativi, alla ricerca peraltro infruttuosa di occulte

strategie di potere.Negli ultimi anni l’interesse per Augusto e la sua

epoca ha conosciuto uno sviluppo straordinario: soprat-tutto in Germania, negli Stati Uniti e in Inghilterra sisvolgono regolarmente convegni di studi, mentre l’edi-toria contribuisce non solo con pubblicazioni specializ-zate o rivolte agli «addetti», ma anche con libri son-tuosamente illustrati e destinati a un pubblico più

ampio. A Berlino si sta preparando attualmente unagrande mostra sul tema. Si tratta solo di una tipica ten-denza «postmoderna», conformemente all’interessegenerale per tutto ciò che è «classico»? O entra in giocoanche il fascino di una società tranquilla e ordinata, delsovrano dal volto umano, capace di garantire benesseree sicurezza per tutti, mecenate della poesia e dell’archi-tettura e tutore, insieme, di una severa moralità?

Il presente volume riprende e sviluppa i temi delle Jerome Lectures da me tenute tra il 1983 e il 1984 adAnn Arbor e alla American Academy di Roma. Senza lastimolante esperienza di quelle lezioni non avrei trova-to il coraggio necessario per pubblicare questo lavoro disintesi. Gli inviti rivoltimi dall’Institute for AdvancedStudy di Princeton (1982) e dal Wolfson College diOxford (1985) mi hanno consentito di approfondire epoi di portare a termine la ricerca. Colgo l’occasione per

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esprimere la mia gratitudine a questi Istituti e ai colle-ghi, in particolare a P. H. von Blanckenhagen, J.

d’Arms, G. Bowersock, J. Griffin, Ch. Habicht, D.Scott, D. e H. Thompson, Z. Yavetz. Devo anche moltoal seminario organizzato a Oxford da F. Millar, con lapartecipazione degli studiosi locali.

Gli stimoli, gli aiuti e gli incoraggiamenti che ho rice-vuto nei lunghi anni della mia ricerca sono cosí molte-plici che mi è impossibile sciogliere qui tutti i miei debi-ti di gratitudine. Vorrei però almeno ricordare gli amici,i colleghi e gli studenti di Monaco per i loro preziosi

aiuti e suggerimenti, e in particolare Ch. Meier e H. vonHesberg, ma anche O. Dräger, D. Lauenstein, M. Pfan-ner e R. Senff.

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Cenni bibliografici.

Dobbiamo qui limitarci a una serie di indicazioni schematiche. Perla bibliografia più recente cfr. le utili informazioni contenute in D. Kie-nast, Augustus, Darmstadt 1982. Per uno sguardo panoramico, cfr. oraN. Hannestad, Roman Art and Imperial Policy, Aarhus 1986, la cui riccabibliografia può servire come utile integrazione alla nostra. Il volumericcamente illustrato di E. Simon, Augustus, Kunst und Leben in Rom

um die Zeitenwende, München 1986, dove la materia è suddivisa per

generi, è uscito mentre il nostro libro era in corso di stampa. Ricor-diamo infine il recentissimo Kaiser Augustus und die verlorene Republik,

catalogo della mostra allestita a Berlino nel 1988.Le sigle e le abbreviazioni sono, di regola, quelle del Deutsches

Archäologisches Institut (cfr. «Archäologischer Anzeiger», 1985, pp.757 sgg.).

Per l’indice delle illustrazioni e dati relativi, cfr. oltre, pp.XI-XXVIII.

Abbreviazioni e sigle più usate.

AA «Archäologischer Anzeiger».ABr P. Arndt e F. Bruckmann (a cura di), Griechi-

 sche und Römische Porträts.ActaAArtHist «Acta ad archaeologiam et artium historiam

pertinentia».AJA «American journal of Archaeology».AM «Mitteilungen des Deutschen Archäologischen

Instituts, Athenische Abteilung».ANRW  Aufstieg und Niedergang der römischen Welt .App., Bell. civ. Appiano, Bella civilia.ArchCl «Archeologia classica».Asc. in Cic., Scaur . Asconio, commentario a Cicerone, Pro Scauro.Aug., De Civ. Dei Agostino, De Civitate Dei.

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BCH «Bulletin de correspondance hellénique».BdA «Bollettino d’arte».BJb «Bonner Jahrbücher des Rheinischen Landes-

museums in Bonn und des Vereins von Alter-tumsfreunden im Rheinlande».

BSR «Papers of the Britisch School at Rome».BullCom «Bullettino della Commissione archeologicacomunale di Roma».Cass. Dio. Cassio Dionigi.Cic. Cicerone.» Att . Epistulae ad Atticum.

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1984.Crawford Crawford, Roman Republican Coinage, London1974.

CVA Corpus Vasorum Antiquorum.Fittschen-Zanker I K. Fittschen e P. Zanker, Katalog der römisc-

ben Porträts in den capitolinischen Sammlangen,1985, vol. I.

Dio. Cass. Dione Cassio.Dion. Hal. Dionigi di Alicarnasso.

» Ant. Rom.  Antiqaitates Romanae.» Vett. orat. De veteribus oratoribus.Flor. Floro.Front., Aqu. Frontino, De aquae ductu urbis Romae.Gell. Gellio.Giard J.-B. Giard, Bibliothèque Nationale. Catalogue

des Monnaies de l’Empire Romain, Paris 1976,vol. I.

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Gros, Aurea Templa P. Gros, Aurea Templa. Recherches sur l’archi-

tecture religieuse de Rome à l’époque d’Auguste,Roma 1976.

Guida Ruesch A. Ruesch, Guida illustrata del Museo Nazionale

di Napoli, Napoli 1908.Gymnasium «Gymnasium. Zeitschrift für Kultur der

Antike und humanistische Bildung».Helbig I-IV W. Helbig, Führer durch die öffentlichen Samm-

lungen klassischer Altertümer in Rom, vol. I(1963); vol. II(1966); vol. III (1969); vol. IV(1972).

HBr P. Hermann, Denkmäler der Malerei des Alter-tums.

Hist. Aug ., Alex. Sev. Historia Augusta, Alessandro Severo.Hölscher, Victoria T. Hölscher, Victoria Romana, Mainz 1967.Hölscher, Staatsdenkmal T. Hölscher, Staatsdenkmal und Publikum,

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Instituts». Jos. Flavio Giuseppe.

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 JRS «The Journal of Roman Studies».Katalog Berlin Kaiser Augustas und die verlorene Republik, Ber-

lin 1988.Kienast D. Kienast, Augustus, Darmstadt 1982.Liv. Livio.Luc. Lucano.

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MemAmAc «Memoires of the American Academy inRome».

MdI «Mitteilungen des Deutschen ArchäologischenInstituts».

MEFRA «Mélanges de l’Ecole française de Rome, Anti-quité».

MM «Madrider Mitteilungen».MuM Münzen und Medaillen AG Basel.Nash, Bildlexikon E. Nash, Bildlexikon zur Topographie des

antiken Rom, vol. I (1961); vol. II (1962).Nep., Att. Nepote, Atticus.

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» Sert . Sertorius.Prop. Properzio.Quint. Quintiliano.RE Paulys Realencyclopädie der classischen Alter-

tumswissenschaft. Neue Bearbeitung .RevNum «Revue Numismatique».RIA «Rivista dell’Istituto nazionale d’Archeologia

e storia dell’arte».

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Introduzione

Quando il Senato romano si riuní per deliberaresulle onoranze funebri di Augusto, uno dei senatori pro-pose che l’intera epoca del defunto imperatore venissechiamata  saeculum Augustum e accolta cosí nel ca-lendario (Suet., Aug. 1oo). Per quanto la proposta potes-se nascere da motivi opportunistici, la sensazione diaver attraversato una svolta epocale era allora diffusis-

sima. Dopo gli oscuri decenni delle guerre civili, Romaera vissuta per quarantacinque anni nella pace e nellasicurezza: la monarchia aveva dato finalmente un’am-ministrazione ordinata all’Imperium, una disciplina all’e-sercito, «pane e giochi» alla  plebs e un grande slancioall’economia. Il Romano guardava ora al suo imperocon una forte coscienza della propria missione morale.Ma agli inizi del potere assoluto augusteo (31 a. C.)regnava il pessimismo: molti ritenevano che lo Stato,travolto dalla propria immoralità, fosse sull’orlo dellarovina. Come si giunse allora a un cosí drastico muta-mento di clima, che grazie all’opera dei poeti augusteiavrebbe condizionato l’immagine futura del  saeculum Augustum?

La cultura romana è segnata in modo decisivo dalrapido processo di ellenizzazione iniziato nel secondosecolo a. C. con la conquista dell’Oriente greco, una

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società dalla struttura ancora arcaica si trovò sommersadalla cultura del mondo ellenistico, e i vincitori, diver-

samente da quanto suole accadere, dovevano portarne alungo le conseguenze: «Graecia capta ferum victoremcepit et artis intulit agresti Latio» (Hor., Ep. II 1, 156).

Le ripercussioni sulle abitudini di vita, la religione,la morale, la mentalità furono enormi. Il contrasto fra imores maiorum e quella che i conservatori avrebbero pre-sto demonizzato come luxuria non poteva essere piùgrande. Da un lato, nelle città greche, uno stile di vitaimprontato a una raffinata cultura, le splendide sceno-

grafie del potere monarchico, la tradizione della culturaclassica ateniese, le scuole filosofiche, il pensiero razio-nale, ma anche i culti misterici per soddisfare le esigenzereligiose più individuali; dall’altro, una religione arcaica,tagliata su misura per un popolo di contadini e inscindi-bilmente connessa alla sfera politica, i solidi legami delleantiche famiglie patriarcali, uno stile di vita semplice equasi immutato da molte generazioni, una cultura po-

vera, senza lettere e senza immagini. Non c’è da stupir-si che l’incontro/scontro fra due mondi cosí diversi potes-se scatenare conflitti e insicurezze profonde.

Tanto più che il processo di ellenizzazione si svol-geva in una società esposta a rapidi mutamenti politicie nella capitale di un impero oppressa da un enorme cari-co amministrativo. Le vittorie militari e l’espansioneeconomica avevano portato a una grande concentrazio-ne di ricchezza e di beni fondiari nelle mani di pochi,alla fuga dalle campagne e alla formazione di grandimasse urbanizzate. I grandi eserciti professionali ave-vano creato nuove forme di clientela, cosí da attribuireai generali vittoriosi un potere politico parallelo a quel-lo dello Stato. Il tumultuoso evolversi delle situazionipatrimoniali rendeva più labili le tradizionali barriere diclasse: nuovi gruppi in rapida ascesa, come gli alti fun-zionari delle città italiche e i ricchi liberti, premevano

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per ottenere un riconoscimento e il diritto di partecipa-re alla vita politica. Ne nacque un antagonismo genera-

lizzato, la cui posta in gioco non era più, come nella vec-chia aristocrazia, il servizio della res publica, ma il pri-mato personale e l’interesse economico.

La rapida importazione dei modelli greci – e delleimmagini greche – svolse in questi processi un ruoloimportante. Alle famiglie romane già ellenizzate, soprat-tutto a quelle dei generali trionfatori, esse offrivanouna cornice efficace in cui mettere in scena il propriocosmopolitismo e le proprie ambizioni politiche. Ma su

molti contemporanei quelle immagini avevano un effet-to irritante: troppo forte era il loro contrasto con la tra-dizione. I valori tradizionali e antimoderni si cristallizza-rono nella nota ideologia della romanità e dello Statoromano: ideologia che si trovava però spesso smentitanei fatti. Il primo capitolo del libro intende mostrarecome le immagini importate dalla Grecia non solo ab-biano rispecchiato quei processi di dissoluzione, ma

abbiano contribuito alla crisi del tradizionale sistema divalori. Senza questo sfondo, senza cioè il potere distrut-tivo delle immagini, il nuovo linguaggio visuale dell’etàaugustea resterebbe incomprensibile.

Dopo il tramonto definitivo della vecchia res publi-ca durante le lotte per il potere tra Cesare e Pompeo, epoi tra Ottaviano e Antonio, i Romani cominciarono ainterrogarsi sulle cause di quel generale disorientamento,e ne addossarono la colpa in primo luogo all’abbandonodegli antichi dèi e dei patrii costumi (mores maiorum). Imotivi strutturali rimanevano oscuri. Ma la visione diun’antica Roma semplice e devota,

di una classe politica disinteressata e di un popolocontadino pronto al sacrificio – visione elaborata peral-tro nei palazzi sontuosi della capitale – rimase vuotaretorica di fronte alla realtà delle cose. I tumultuosimutamenti delle ultime generazioni avevano reso pro-

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blematica non solo la res publica ma la sua stessa iden-tità culturale.

Dopo aver raggiunto il potere assoluto (31 a. C.),Augusto si misurò punto per punto con i problemi evi-denziati dagli slogan conservatori. Con un programmaculturale di ampio respiro, perseguito con coerenzalungo un arco di oltre vent’anni, egli si propose, e otten-ne nei fatti, un sostanziale rinnovamento della menta-lità collettiva. Ai fasti celebrativi dei grandi generalioppose il culto del sovrano eletto dagli dèi; allo scandalodel lusso privato, un programma di grandiose opere pub-

bliche ( publica magnificentia); all’indifferenza religiosa eall’immoralità, una campagna di rinnovamento religio-so e morale ( pietas e mores).

Un programma del genere richiedeva un nuovo lin-guaggio figurativo. Si tratterà dunque di esaminare icomplessi rapporti tra l’instaurazione della monarchia,la riforma della società e i mutamenti avvenuti nellasfera delle immagini e nell’intero sistema della comuni-

cazione visiva. Le esperienze moderne hanno fatto ipo-tizzare in questo caso l’esistenza di un preciso apparatopropagandistico, che però non ci fu. Quello che ci appa-re, a posteriori, come un raffinato sistema di propa-ganda, risultò da un intreccio fra le iniziative celebrati-ve del sovrano e gli omaggi più o meno spontanei offer-tigli dalla popolazione: un processo che non sembraobbedire, in gran parte, ad alcuna regia occulta. E sitratterà di mostrare come i soggetti coinvolti nell’ela-borazione del nuovo linguaggio abbiano contribuito aquel processo, e quali interessi e vincoli sociali abbianogiocato nella sua diffusione.

Se in seguito parleremo sempre di «mondo» e di«linguaggio» figurativo o visivo, sarà appunto per sot-tolineare che l’obiettivo primario del lavoro non è l’in-terpretazione dei singoli monumenti: sono già statidescritti e analizzati abbastanza spesso, e in un tono che

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ricorda non di rado i panegirici dei poeti augustei. Quelche mi interessa è, invece, l’insieme delle immagini e il

loro effetto sui Romani del tempo. E per immaginiintendo qui non solo le opere d’arte, gli edifici e levisioni poetiche, ma anche i rituali religiosi, l’abbiglia-mento, le cerimonie di Stato e gli atteggiamenti delsovrano: insomma tutte le forme di rapporto socialesuscettibili di assumere una valenza visiva. Quello chemi interessa sono i rapporti tra le immagini e il loroeffetto sull’osservatore.

Un mondo figurativo cosí inteso rispecchia lo stato

interiore di una società e permette di cogliere aspetti del-l’immaginario contemporaneo di cui spesso non rimanetraccia nelle fonti letterarie.

Il potere delle immagini si concretizza secondo unoschema circolare: anche i potenti finiscono per soggia-cere alla suggestione dei propri simboli. Sono i loro stes-si slogan, e naturalmente quelli degli avversari, a con-dizionare in modo decisivo la loro identità e il loro

ruolo. Quanto ai destinatari, le immagini non si ridu-cono affatto a semplici portatori di un messaggio poli-tico: anche in questo caso, e si tratterà di farlo vedere,esse vengono via via interiorizzate e usate come espres-sione di virtù e di valori personali.

Il significato delle immagini in epoca augustea nonconsiste però tanto nel fatto di pubblicizzare la monar-chia: cosa che sarebbe stata pressoché superflua rispet-to al popolo e inefficace rispetto all’aristocrazia repub-blicana. Senza le legioni e le enormi ricchezze persona-li di Augusto le immagini non sarebbero servite a nulla.Ma la loro efficacia a lungo termine sulla mentalità gene-rale rappresenta un fattore storico di cospicua impor-tanza. Determinati valori, come il programma di rinno-vamento religioso, acquistarono realtà solo attraverso lavastissima cassa di risonanza del linguaggio figurativo.Ma, soprattutto, attraverso le immagini poté prendere

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forma un mito imperiale e statale dalla semplice fisio-nomia eziologica e capace di imporsi come una realtà

autonoma rispetto alle circostanze storiche effettive.Un mito capace di filtrare la realtà stessa e di produrreper intere generazioni la certezza di vivere nel miglioredegli Stati possibili e nella pienezza dei tempi.

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Capitolo primo

Immagini contraddittorie.La repubblica al tramonto

La statua onoraria e il nudo.

Quando, ancora nella prima metà del II secolo a. C.,fu eretta a Roma una magnifica statua di bronzo inonore di un grande generale, è probabile che la suacompleta nudità abbia avuto un effetto assai irritantesulla maggior parte dei Romani del tempo. Nella suafisicità poderosa la statua è un tipico esempio di arteellenistica: la figura sembra richiamare il celebre Ales-

 sandro con la lancia di Lisippo, mentre il taglio deicapelli e della barba e l’espressione appassionata fannopensare ai ritratti dei sovrani macedoni. Ma se la sta-tua è del tutto simile a quella di un dinasta macedonee proviene da una bottega greca, l’assenza della fasciaregale mostra che non si tratta di un re ellenistico bensí,evidentemente, di un Romano, forse anzi di un vinci-tore dei re macedoni.

Nel mondo ellenistico una statua del genere servi-va a celebrare virtù e qualità sovrumane: la nudità e lafigura eretta ricordavano le statue degli dèi o degli eroi,stabilendo un confronto tra il soggetto raffigurato e imodelli familiari della mitologia. Ma la tradizione roma-na non conosceva questo tipo di confronto e di esalta-zione personale. La statua celebrativa tipica della res publica era, fin dall’antico, la statua togata, ed erano gliattributi e i contrassegni della toga stessa a qualificare

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il soggetto nelle sue funzioni politiche o sacerdotali,ossia come console, pretore, augure e cosí via. La

sobrietà e l’egualitarismo delle statue togate rispec-chiava la rigida disciplina politica delle magistratureannuali. Il controllo reciproco fra i membri della clas-se aristocratica non consentiva alcuna speciale esalta-zione dei meriti individuali né tanto meno una cele-brazione di qualità sovrumane. Anche il generale vit-torioso riceveva una statua togata, e perfino in caso ditrionfo non veniva raffigurato in armi ma con la togatrionfale, come imponeva la rigida separazione degli

ambiti domi e militiae. Temendo che i «grandi» potes-sero sfruttare politicamente la propria gloria militare,il Senato non permise – finché fu padrone delle suedecisioni – che venissero erette statue equestri o lori-cate, com’era invece consuetudine per i sovrani e igenerali ellenistici. Silla, che tante norme aveva tra-sgredito, fu significativamente il primo a cui il Senatoabbia fatto erigere nel Foro un monumento equestre

«ufficiale». I senatori non potevano però impedire chequeste statue di maniera ellenistica venissero, ad esem-pio, dedicate privatamente in un santuario a scopo voti-vo, come aveva fatto già nel 209 a. C. Quinto FabioMassimo, erigendo la propria statua equestre in Cam-pidoglio accanto al colosso di Ercole proveniente dallacampagna tarentina (e da lui consacrato).

Già in epoca piuttosto antica troviamo dunque, nelcuore stesso della vita politica, un linguaggio figurativocontraddittorio. Ma se le statue ellenistiche con cavalloe armatura, e malgrado l’aura carismatica, potevanoancora m qualche misura conciliarsi con la tradizione inquanto omaggio per un servizio reso militarmente allapatria, una statua nuda doveva apparire inconcepibile eurtante, almeno agli inizi del processo di ellenizzazione.

Per gli avversari politici che capivano il linguaggiogreco dell’apoteosi, la prestanza fisica della statua era

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Dopo il trionfo su Giugurta ed i Cimbri beveva sempre inun cantaro, perché si diceva che Dioniso, guidando dall’A-

sia il suo corteo dopo il trionfo in India, avesse usato un boc-cale di questo tipo: cosí a ogni sorso di vino poteva con-frontare le sue vittorie con quelle del dio (Val. Max., III 6,6).

E che la massa fosse favorevole alla nuova mentalitàlo dimostrano ad esempio gli onori tributati negli annisettanta a Quinto Cecilio Metello il Pio per i suoi mode-sti successi contro Sertorio in Spagna:

Le città lo accolsero con sacrifici ed altari. Egli si facevamettere corone sul capo e prendeva parte a sontuosi ban-chetti dove brindava indossando la toga trionfale, mentrespeciali congegni gli facevano scendere sulla testa figure al-legoriche della Vittoria nell’atto di porgere corone e tro-fei, e cori di fanciulli e di donne cantavano inni di vitto-ria in suo onore (Plut., Sert. 22).

Lo spettacolo dei condottieri romani era insommadecisamente provocatorio. Oltre alle testimonianze ico-nografiche, dobbiamo mettere nel conto i rituali e lemessinscene: l’intero stile di vita dei romani filellenidiventava una sfida per i tradizionalisti. E se a Roma leleggi senatorie contro il lusso e le spese eccessive ( sump-tus) riuscirono ad arginare per qualche tempo la nuovamoda, nulla potevano contro la rapida ellenizzazionedella sfera privata, soprattutto nelle ville: dove molti

celebravano feste ispirate a un senso dionisiaco dellavita, si facevano iniziare ai Misteri e ne immortalavanoil ricordo nelle proprie case.

Contraddizioni nella forma e nel messaggio.

Il mondo figurativo della tarda repubblica era piùvario e artisticamente molto più suggestivo dell’arte di

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epoca imperiale, regolata da una rigida disciplina diStato. L’incontro fra i ricchi committenti romani, sti-

molati dal forte antagonismo sociale e dal desiderio diautoaffermazione, e la consumata abilità degli artistiellenistici, creò una situazione del tutto particolare. Èvero però che se oggi ne avvertiamo il grande fascinoformale, nel contesto specifico della Roma di allora quel-le immagini devono aver parlato un linguaggio assai con-traddittorio. Le nuove statue celebrative ne sono unbuon esempio.

I sovrani ellenistici esercitavano un potere illimita-

to, e gli artisti esprimevano questa aura sovrumana raf-figurandoli come gli dèi e gli eroi. A Roma, invece,anche il più fortunato dei condottieri doveva rientrarenei ranghi una volta deposto il suo incarico, e nonimporta se si sentiva ancora baciato dalla grazia. Gliattributi delle statue celebrative non corrispondevanodunque alla situazione reale. Eppure, non solo i generalitrionfatori ma anche personaggi di secondo piano e sem-

plici magistrati di provincia furono presto contagiati dalnuovo linguaggio. All’epoca di Cesare, sulle piazze delmercato delle città romane si potevano ammirare le sta-tue dei notabili locali, nudi o in armatura, coi muscolitesi e in atteggiamenti pieni di pathos. Il risultato del-l’uso inflazionato di queste nuove immagini fu che essepersero il loro significato originario, riducendosi a vaghisimboli di successo. Per tradurre in immagini un fortemessaggio di potere occorrevano pertanto iniziative sem-pre più dispendiose: occorreva moltiplicare il numerodelle statue e accrescerne le dimensioni.

In una situazione di questo genere anche gli esiti for-mali non erano privi di contraddizioni. Come mostra lastatua in bronzo conservata al Museo delle Terme, in unprimo tempo era stato ripreso lo stile patetico dei ritrat-ti di sovrani ellenistici, ma poiché questo stile non siadattava alle tradizioni della nobiltà romana, col suo

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culto dell’anzianità e i suoi modi austeri, si impose pocoalla volta un ritratto di tipo realistico. Gli artisti greci

che ritraevano i membri dell’aristocrazia romana posse-devano da tempo buone conoscenze anatomiche, ma nelcampo del ritratto le avevano utilizzate fino ad alloracon una certa parsimonia. A distoglierli da questa tra-dizione fu la mentalità dei loro nuovi committentiromani, e in particolare la crescente rivalità personale trai vari aristocratici che assegnava un peso sempre mag-giore al singolo con le sue particolari mansioni e le suepeculiarità: di qui probabilmente la sete di ritratti capa-

ci di fissare quel che di unico e di inconfondibile vi eranel singolo individuo. Ad ogni modo, mai nell’Anti-chità si ebbe una rappresentazione cosí accurata delcarattere individuale come nella Roma del I secolo a. C.Si consideri soltanto il distacco ironico del ritratto diCesare, il volto probo di Pompeo o l’energica durezzadel ricco Crasso, e si pensi per contrasto ai ritratti uffi-ciali, dall’espressione impersonale e standardizzata, di

tarda età augustea. La presenza fisica immediata trion-fava allora su ogni norma estetica: ci si faceva raffigu-rare con la massima naturalezza, magri o grassi, giova-ni o vecchi, magari sdentati, calvi o con qualche verru-ca. Nella maggior parte di questi ritratti l’espressione èrigida e severa, ma non vi è per il resto alcuna valoriz-zazione in senso etico o estetico, né alcun richiamo amodelli esemplari come più tardi in età imperiale. Se daun lato questo realismo rispecchia l’emanciparsi del sin-golo da un rigido sistema di valori, il contrasto fra laquotidianità di queste fisionomie e l’imponenza eroicadelle figure statuarie tradisce tutta la distanza fra l’in-genua ripresa dei modelli stranieri e le esigenze affattodiverse della realtà romana.

Anche i ritratti sono però colpiti, non di rado, dallastessa contraddizione, e se da un lato si vuole fissare lapeculiarità di un volto, si pretende poi di conferirgli un

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certo pathos eroico con la ripresa di moduli ellenistici.Cosí il ciuffo di capelli sulla fronte di Pompeo ci ricor-

da con evidenza lampante che il personaggio raffigura-to si considerava, dopo le sue vittorie, un nuovo Ales-sandro. Probabilmente Pompeo si era proprio fatto pet-tinare cosí, come si vedeva nelle raffigurazioni del Mace-done: il taglio dei capelli (anastole) traduce per cosí direin immagine il titolo di  Magnus che appunto ad Ales-sandro si richiamava. Durante il corteo trionfale, delresto, il venticinquenne Pompeo aveva indossato la cla-mide di Alessandro in luogo della rituale toga picta, e

aveva tentato di entrare in Roma su un carro trainatoda elefanti (con scarso successo, perché la Portatriumphalis era troppo stretta e Pompeo aveva dovutoproseguire su un tiro di cavalli). Qui è la concreta formaartistica a rispecchiare un contrasto di valori: da un latol’ammirazione per le grandi figure carismatiche delmondo ellenistico, dall’altro la volontà di restare fedelialla repubblica, e la preoccupazione di ridurre i «gran-

di» a semplici servitori dello Stato. Davvero curiosa eincongrua quella chioma leonina sulla borghese probitàdel volto di Pompeo!

Il caso di Pompeo non è comunque un’eccezione.Nel ritratto di un vecchio sdentato, conservato a Caglia-ri, il particolare cosí poco eroico della bocca serrataforma un contrasto non meno stridente con l’ambizio-sa capigliatura. Anche nel ritratto di Ottaviano Augu-sto giovinetto, l’espressione segnata e nervosa appare innetto contrasto col pathos del portamento.

Propaganda famigliare e crisi della classe dirigente.

Contraddizioni stilistiche, ridondanza di contenuti,ambiguità e difficoltà di comprensione sono aspetti sin-tomatici anche in altri settori dell’arte «politica». Per

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quanto riguarda l’arte ufficiale della tarda repubblica, ilproblema è stato studiato a fondo da Tonio Hölscher, e

anche qui le immagini e lo stile figurativo appaiono unospecchio fedele della situazione sociale e politica.Seguendo l’iconografia numismatica dalla fine del II

secolo in avanti, è possibile vedere come emergano sem-pre più in primo piano gli interessi personali dei vari fun-zionari della Zecca. Fino ad allora le monete portavanoeffigi pressoché costanti, con cui non solo il Senato mal’intera cittadinanza poteva identificarsi (ad esempioDioniso, i Dioscuri, la dea Roma, Giove Vittorioso,

bottini di guerra). Ora invece i giovani nobili sfrutta-vano il loro incarico annuale presso la Zecca (che rap-presentava l’inizio della carriera politica) per celebrarele glorie di famiglia, o anche, più tardi, i propri (spessoinsignificanti) meriti personali. Cosí ad esempio, all’e-poca della dittatura di Silla, un certo Gaio ManilioLimetano usa entrambe le facce di una moneta per van-tare secondo la moda del tempo l’origine della sua fami-

glia niente meno che dal dio Ermes e dal suo presuntofiglio Odisseo. Ma troviamo qualcosa di simile anche inuno dei maggiori monumenti ufficiali dell’età tardorepubblicana, la cosiddetta base di Enobarbo di Mona-co e Parigi: un grande rilievo votivo in cui un censoredella fine del ii secolo fa ritrarre il sacrificio rituale cele-brato al termine della sua magistratura. La scena sareb-be molto realistica se non fosse per la presenza del dioMarte, in contrasto con la religiosità romana tradizio-nale, e conforme invece al linguaggio iconografico deibassorilievi votivi greci. Negli altri tre scomparti delbasamento si veniva poi trasportati senz’altro nel mondodel mito greco: una scena rappresenta il carro nuziale diPoseidone e Anfitrite, circondato da uno splendido cor-teo di ninfe e tritoni. La raffigurazione, di una spicca-ta sensualità e di qualità artistica molto superiore allascena del census, proveniva da una bottega greca o del-

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l’Asia Minore e venne riutilizzata dal censore per il suomonumento votivo: viene interpretata perlopiù come

un’allusione a una vittoria navale del censore, ma è piùprobabile che la scena nuziale – tutt’altro che guerresca– intendesse celebrare l’origine della sua famiglia dal diodel mare.

Troviamo qui due sistemi di valori affatto diversi:l’albero genealogico e le immagini seducenti del mitogreco sono, per il nostro magistrato, non meno impor-tanti dei suoi meriti politici. Anche ammesso che per luie per i Romani colti del tempo la cosa non costituisse un

problema, la massa della popolazione non poteva certovedervi un richiamo all’austera moralità dell’anticaRoma repubblicana. Ma per le famiglie ellenizzate legenealogie mitologiche erano molto più che un purogioco di società: esse davano un contributo importanteall’immagine pubblica dei Romani grecomani, che sen-tivano cosí di appartenere in tutto e per tutto al mondogreco e non dovevano più vergognarsi delle proprie ori-

gini. Ma perché quelle Nereidi impudiche e quei Trito-ni lascivi? Esporre queste immagini in un pubblicomonumento consacrato alla rappresentazione di unrituale ufficiale non doveva apparire provocatorio? Nonsi correva il rischio di esaltare quel singolo personaggiomolto al di là dei suoi meriti di funzionario investito diuna magistratura annuale?

Non tutti i nobili potevano fregiarsi di ascendenzemitiche o storiche cosi universalmente note o far conia-re monete che rimandavano a Bruto o a Marcello, o aifamosi edifici che i loro antenati avevano fatto costrui-re nella città. In molti casi l’effigie risultava compren-sibile ed efficace solo nelle cerchie ristrette delle fami-glie antagoniste. Già la decifrazione delle lunghe scrit-te, a volte estremamente abbreviate, richiedeva una pre-cisa conoscenza della storia di famiglia. Qualche segnoisolato e astratto poteva alludere ad avvenimenti molto

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lontani nel tempo e poco conosciuti, e in ogni caso moltedi quelle monete coperte di fitte indicazioni telegrafiche

non facevano riferimento a un orizzonte storico collet-tivo.Era ormai raro il caso che l’effigie di una moneta

offrisse un sostegno alla res publica vacillante. Per capi-re fino a che punto i funzionari potessero allontanarsidal terreno politico si può citare l’esempio di QuintoPomponio Musa, che nel 66 a. C. fece coniare una seriedi ben dieci denari con l’effigie di Apollo sul recto e quel-la dell’Ercole Musagete e delle nove muse sul verso, e

tutto questo al solo scopo di richiamare l’attenzione sulsuo bel nome. Sono esempi che converrà tenere presen-ti per meglio valutare il significato delle monete augu-stee, dove al contrario ogni effigie intende propaganda-re lo Stato e la sua guida.

Un chiaro sintomo della crisi sociale in atto verso lafine della repubblica è che il bisogno di affermazionepersonale e il generale antagonismo portarono ovunque

a forme di esibizionismo eccessive, anche da parte digente che non poteva né voleva aspirare a un successosociale. Quella che era in origine una gara dell’aristo-crazia al servizio dello Stato degenerò in una febbriledimostrazione di ricchezza e di successo: per quantomodesto fosse il palcoscenico sociale che si poteva uti-lizzare allo scopo.

Ne sono un esempio considerevole le dispendiosecostruzioni funerarie che negli ultimi decenni dellarepubblica e ancora in età augustea si allinearono sem-pre più numerose lungo le grandi vie d’accesso alla cit-tà. I liberti benestanti, orgogliosi della propria cittadi-nanza romana e della libertà acquisita anche per i lorofamigliari, si facevano raffigurare con la toga e assiemeai loro parenti sulle tombe di famiglia fatte costruire sulmargine delle strade. Il fornaio Eurisace, anche lui unoschiavo affrancato, si vantava invece del suo successo

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professionale come fosse un servizio reso all0 Stato.Messe le mani su un terreno molto in vista in un cro-

cicchio vicino alla città, escogitò per la sua tomba unasoluzione originale: la costruzione è formata da alti cilin-dri verticali la cui forma ricorda quella dei granai usatidal fornaio. Il fregio vanta invece il suo sistema razio-nale di panificazione.

A questo livello sociale la rivalità e l’esibizionismo– di fronte ai conoscenti o ai colleghi di corporazione –aveva ancora un significato. Ma per le grandi famiglie del-l’aristocrazia senatoria molto spesso non era più cosí: si

trattava di famiglie enormemente ricche, ma ormai esclu-se dalla lotta per il potere. Di fronte a Pompeo e Cesa-re, Antonio e Ottaviano, la maggior parte dei nobili nonaveva più alcuna chance. È significativo che una delletombe più monumentali degli anni intorno al 30 a. C. siastata costruita per una matrona il cui prestigio socialeconsisteva unicamente nell’essere la figlia di un consoledi antica famiglia aristocratica e la moglie di uno degli

uomini più ricchi di Roma, il figlio di Gaio Crasso.caeciliae q. cretici f. metellae crassi: cosí suonala breve iscrizione, sicura della universale popolarità diquei nomi. La tomba fu costruita su un leggero rialzo delterreno in uno dei punti più suggestivi della via Appia.Si compone di tre parti: uno zoccolo quadrato, una tor-re cilindrica (che ha forse il significato di un altare cir-colare) e un tumulus oggi scomparso che doveva ricor-dare i tumuli di età arcaica e sottolineare cosí l’anticaorigine della famiglia. Lo zoccolo e il cilindro servivanocome sostegno trionfale del tumulo, che era la parte«parlante» della tomba. Come decorazione fu scelto untrofeo di armi celtiche, che doveva ricordare i modestisuccessi militari, di cui certo i contemporanei non sape-vano nulla, riportati dal marito come questore di Cesa-re nelle Gallie.

L’esempio fa vedere come l’esibizionismo della vec-

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chia classe dirigente fosse ormai dispendioso e gratuito:si commemorava un membro qualsiasi della famiglia,

privo di meriti personali, e che poteva tutt’al più richia-mare alla memoria quelli degli antenati o dei parenti.Qui, come anche in altri casi, forma e messaggio si con-traddicono in modo decisamente grottesco: solo pochianni prima che venisse costruito il Mausoleo di CeciliaMetella il Senato aveva fatto erigere per il console Irziocaduto in battaglia per la res publica, un monumentofunebre che appare al confronto quasi insignificante. Ilmerito e il prestigio acquisiti nell’ambito del tradizionalecursus honorum non avevano più ormai alcun riscontronel linguaggio monumentale.

Anche le forme architettoniche dei monumenti fune-bri sono già di per sé eloquenti. Il bisogno ossessivo diprimeggiare portò a sfruttare tutte le possibilità offertedal linguaggio dell’architettura celebrativa. Oltre alleforme consuete dell’aedicula, dell’altare e del tempio, siritornò ai tumuli arcaici e perfino alle piramidi, si imi-

tarono monumenti commemorativi e facciate di palaz-zi. Chi puntava sulle dimensioni del monumento, chiinvece sull’accumulo degli elementi architettonici. Nelmonumento sepolcrale dei Giulii a St-Rémy in Proven-za si trovano sovrapposti non meno di tre elementidiversi: su uno zoccolo a forma di altare si innalza unarco trionfale (quadrifrons), e su questo un tempietto cir-colare con le statue dei defunti, che in questo ibridocomplesso risultano quasi invisibili agli sguardi dei pas-santi. L’accumulo estremo di elementi formali finiscequi per rendere poco chiara la funzione specifica delmonumento.

Questo eclettismo formale è senz’altro di derivazio-ne ellenistica, ma il suo sviluppo ipertrofico, e più anco-ra l’affollarsi delle costruzioni lungo le vie d’accesso aRoma o ad altre città italiche, è un motivo caratteristicodella società tardo repubblicana. Vedremo come questa

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situazione interessi ancora i primi edifici monumentalidell’età augustea, per poi cedere il passo a un nuovo

ordine di cui anche il linguaggio figurativo sarà unamanifestazione.

L’immagine urbana di Roma come specchiodella situazione politica e sociale.

Prima della svolta augustea anche l’immagine urba-na di Roma doveva fornire uno specchio sconcertante

della situazione politica e sociale. L’esperienza quoti-diana ci insegna l’enorme valore simbolico degli edifici,pubblici o privati che siano, delle strade e delle piazze:l’immagine complessiva di una città in una certa situa-zione storica rappresenta un coerente sistema di comu-nicazione visiva, in grado di influenzare gli abitantianche a livello inconscio per il fatto stesso della suacontinua presenza. All’epoca delle guerre sociali e civi-

li, delle proscrizioni e delle lotte di potere, e sullo sfon-do di continui disordini e scontri di piazza, l’aspettourbano di Roma deve aver parlato ai contemporanei unlinguaggio poco rassicurante. Naturalmente le impres-sioni mutavano con la prospettiva: vista da una villa, peresempio dall’attuale Pincio, la città mostrava un aspet-to diverso dai quartieri affollatissimi del centro, con iloro isolati tetri, angusti e marcescenti.

A partire dalla dittatura di Silla il lusso delle abita-zioni private incominciò a dilagare in modo sfrenatoanche a Roma e il contrasto ricchezza/povertà segnòpiù profondamente l’immagine urbana. Davanti allemura sorsero ville sontuose come i giardini di Lucullo(sull’attuale Pincio), il cui magnifico prospetto a colon-nati sovrapposti non aveva molto da invidiare ai granditempli a terrazza tardo repubblicani delle città laziali.Chi abitava nelle «brutte e strette vie» (Cic., Leg. agr .

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II 96), rese ancora più buie dalle costruzioni aggettantia mo’ di balcone, e durante la visita mattutina aveva

negli occhi la grandezza e lo splendore dei palazzi urba-ni di uno Scauro (Plin., Nat. hist. 36,6) o di un Vedio,nei cui atrii si raccoglievano ogni mattina centinaia diclienti per il saluto al patronus (Vitr., VI 5,2), poteva toc-care con mano la distanza fra ricco e povero. La cresci-ta rapidissima della popolazione aveva scatenato ovun-que la fame di case e la speculazione immobiliare. L’a-bitudine di costruire edifici troppo stretti e troppo altisu fondamenta esigue e con materiali scadenti provoca-

va crolli e incendi quasi quotidiani (Plut., Crass. 2) efaceva di alcuni quartieri della città vecchia, come lefamigerate insulae di Marco Crasso, altrettanti focolai diinstabilità sociale. In questo dedalo di tortuose viuzze igrandi palazzi sorgevano come piccole città murate.

La situazione edilizia della città non corrispondevaaffatto al suo rango di capitale. Già alla corte di FilippoV di Macedonia (intorno al 182 a. C.) l’aspetto misero e

antiquato di Roma era oggetto di battute scherzose (Liv.,40,5,7), ma anche centocinquant’anni più tardi la suaimmagine urbana non poteva in alcun modo competerecon le città greche dell’Oriente. Mentre le antiche cittàdella Campania e del Lazio (come ad esempio Capua,Tivoli, Palestrina) facevano a gara da tempo nella costru-zione di splendidi santuari, di moderni edifici pubblici,di strade e piazze, ed era spesso l’aristocrazia locale aprendersi cura dell’aspetto urbano, la situazione di Romaera ulteriormente peggiorata. Ormai da decenni nonc’era nessuno, né il Senato né i vari «grandi», che aves-se una veduta d’insieme della città. Nel II secolo a. C. ilSenato aveva ancora tenuto a freno l’espandersi del lussoprivato, mentre i magistrati provvedevano ai problemipiù urgenti posti dalla rapida crescita urbana: vennerocostruiti magazzini per i cereali, condotte idriche, stra-de, ponti e basiliche, centri della nuova vita economica

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internazionale. Anche i vecchi templi erano stati rinno-vati con una certa regolarità. Ma dalle prime grandi crisi

interne all’epoca dei Gracchi (133-121 a. C.) i lavori direstauro nei templi e negli edifici pubblici furono inter-rotti, e soprattutto si rinunciò a elaborare un coerentepiano urbanistico. Non è un caso che quando Cesare,poco prima di morire, si pose il problema della situazio-ne edilizia della città, i suoi progetti sconfinassero subi-to nell’utopia: quella di canalizzare il Tevere, di costrui-re un teatro gigantesco sul fianco del Campidoglio versoil Campo Marzio, e un’intera nuova città ellenistica, con

strade ad angolo retto, piazze e marciapiedi. Pensava evi-dentemente che la vecchia Roma non si potesse più sal-vare (Suet., Iul . 44; Cic., Att. XIII 33a,I).

Anche questo stato di cose fu una conseguenza delrapido processo di acculturazione. Fin dalla metà del II

secolo i grandi generali cercavano sempre nuove occa-sioni per mettersi in mostra e gesti di facile presa dema-gogica. Ma elaborare un piano organico di sviluppo urba-

no o provvedere agli impianti idrici e ai sistemi di cana-lizzazione sarebbe stata un’impresa lunga e poco spetta-colare. Anche il restauro dei vecchi templi non offrivagrandi opportunità di gloria personale, tanto più che inquesti casi occorreva rispettare precise norme religiose.D’altra parte il Senato si opponeva per motivi politici emorali alla costruzione di grandi edifici per il tempo libe-ro, come i teatri e le terme: si volevano evitare quelleassemblee e manifestazioni popolari a sfondo politicoche erano usuali nei teatri greci. Il Senato permise sol-tanto la costruzione di effimeri teatri di legno in occa-sione delle grandi feste religiose, e poiché le masse nondovevano ricevere un’educazione alla greca che le espo-nesse al pericolo dell’ozio, non si parla a Roma di ginnasio di pubbliche terme come quelle che gli abitanti dellecittà campane conoscevano già nel il secolo a. C. L’atti-vità edilizia dei «grandi» si limitò pertanto in larga misu-

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ra alla sfera «privata», sviluppandosi soprattutto nellaforma dei monumenti votivi, consacrati perlopiù in pri-

vato solo (su un fondo privato) a una divinità protettri-ce. Si trattava spesso di costruzioni imponenti, giacchéla finalità votiva poteva giustificare qualsiasi forma diautocelebrazione. Anche un intero teatro poteva cosírispondere a una destinazione religiosa: quando Pompeo,nel 57 a. C., osò costruire il primo grande teatro, nono-stante il suo enorme peso politico ritenne ancora neces-sario giustificare la poderosa cavea come «base d’appog-gio» per il piccolo tempio dedicato alla sua patrona Ve-

nere Vittrice (Tert., De spect . 10).Se il Senato poté impedire per alcune generazioni

che privati cittadini costruissero edifici dedicati altempo libero, non era però in grado, da parte sua, diaffrontare imprese edilizie in cui tutti potessero iden-tificarsi. E tanto meno avrebbe saputo elaborare unvero piano urbanistico. Quello che era ovvio nella fon-dazione di una nuova colonia romana, a Roma diventa-

va impossibile.Il Tempio della Concordia nel Foro, ad esempio, fufatto restaurare dal Senato nel 121 a. C. proprio dallospietato nemico dei Gracchi Lucio Opimio: per i parti-giani dei Gracchi il tempio divenne cosí il monumentodella loro sconfitta. Dopo l’8o a. C. Silla e Catulo vol-lero creare un simbolo dell’ordine ristabilito nella pode-rosa struttura del Tabularium sul colle del Campidogliosopra il Foro, e ricostruirono con grande spesa (ma congravi ritardi) il tempio di Giove Ottimo Massimo. Mail nuovo Tabularium non celebrava la res publica comu-ne, bensí il predominio degli ottimati in un Senato la cuidebolezza diventava ogni giorno più evidente. Il nuovotempio di Giove Capitolino, che pure avrebbe dovutorappresentare la maiestas del popolo romano anche agliocchi dei forestieri, poteva fregiarsi delle splendidecolonne dell’Olympieion che Silla aveva portato da

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Atene ma non raggiungeva in alcun modo un livelloestetico degno di una città cosmopolita. Anche questo

caso è sintomatico. Per motivi religiosi non era statopossibile modificare il podio e la pianta, ma le colonneellenistiche di marmo ovviamente non si adattavano allapianta preesistente, col risultato che il frontone doratodel tempio, sovraccarico secondo l’uso di motivi orna-mentali, era troppo ripido e gravava pesantemente sullecolonne troppo alte (Gell., II 1o).

La fedeltà alla tradizione impediva di riprendereintegralmente la fisionomia dei templi ellenistici in un

simile monumento di Stato. Ma poiché si voleva esserenello stesso tempo conservatori e cosmopoliti, sorgeva-no ovunque soluzioni di compromesso esteticamentecontraddittorie, e problematiche da un punto di vistareligioso. La nuova immagine votiva di Giove OttimoMassimo fu affidata a un artista attico, il quale realizzòuno Zeus classicheggiante nella tradizione greco-clas-sica delle statue crisoelefantine. Ma il fatto che le anti-

che statue di terracotta venissero sostituite da opere diquesto tipo non poteva non avere conseguenze sul sen-timento religioso.

I santuari «privati» del Campo Marzio contenevanoprovocazioni di altro genere. I generali trionfatori edifi-cavano templi ellenistici di marmo alla loro divinità pro-tettrice e ne adornavano gli sfarzosi porticati con celebriopere dell’arte greca, bottino di guerra. Ma proprio alcentro del recinto sacro poteva trovarsi perfino la statuamonumentale del vincitore, mentre le statue delle divi-nità finivano in secondo piano nelle nicchie dei portica-ti, come si vede in un rilievo contemporaneo provenien-te dall’anfiteatro di Capua, I secolo a. C. Quando Quin-to Cecilio Metello il Macedone fece erigere nella porti-cus da lui costruita sul Campo Marzio (146 a. C.) il cele-bre gruppo equestre di Lisippo che mostrava Alessandrocon i compagni caduti al Granico, non si trattava solo di

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una magnifica occasione per esporre la preda di guerrama anche di un omaggio reso al massimo eroe del mondoellenistico: dal punto di vista delle tradizioni repubbli-cane, un omaggio perlomeno sospetto.

Mentre i capi facevano costruire edifici lussuosi perle loro divinità personali, molti fra i culti più antichidella città caddero nell’oblio. Qualcuno potrà anche

essersi chiesto, come il vecchio Catone, se le nuove sta-tue nude di marmo greco avrebbero protetto Romacome le vecchie statue di argilla. Alla vista degli antichisantuari e delle antiche cappelle in declino, i modernitempli marmorei dei trionfatori dovevano comunqueapparire in una luce ambigua:

Quanto piú grandi e felici sono di giorno in giorno lesorti del nostro Stato e quanto piú cresce la sua potenza

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Roma, Campo Marzio in epoca tardo repubblicana con portici e san-tuari votivi.

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– ormai arriviamo in Grecia e in Asia, che sono piene dilascive seduzioni, e mettiamo le mani sui tesori dei re –,

tanto più mi viene il timore che siano quelle cose a pren-dere possesso di noi, più che noi di esse. Le opere d’artegiunte in questa nostra città da Siracusa sono – credetemi –qualcosa di minaccioso. Sono già in troppi, a quanto vedo,a lodare e ammirare i fasti di Atene e Corinto e a deriderele figure di argilla nei frontoni dei templi romani.

Queste, secondo Livio, le parole di Catone già nel195 a. C. (Liv., 34,4,3).

Le costruzioni «private» dei «grandi» raggiunserouna nuova dimensione con il teatro di Pompeo e il nuovoForo di Cesare, la cui grandezza corrispondeva alleambizioni dei due personaggi nel pieno tramonto dellares publica.

Il teatro di Pompeo testimoniava un culto della per-sonalità che in Roma non aveva precedenti: si vedeva-no dovunque statue e immagini che rimandavano alle

vittorie dell’imitatore di Alessandro. Il teatro era peròanche uno spettacolare dono fatto alla popolazione, e diuna tale presa demagogica che indusse Cesare a farealtrettanto: egli cercò di schiacciare Pompeo pubbliciz-zando non solo le proprie imprese (davanti al tempio sor-geva un monumento equestre di Alessandro che ora por-tava il ritratto di Cesare), ma anche la sua origine divi-na. Cosí il tempio che dominava il Foro era consacratoa Venere Genetrix, capostipite della sua famiglia. Uti-lizzando senza scrupoli il tempio e il Foro per le sue com-parse in pubblico, Cesare fu il primo dei «grandi» a pro-clamare apertamente la propria umanità divina (Suet.,Iul . 78,2). E mentre il teatro di Pompeo sorgeva comei portici dei trionfatori fuori del  pomerium nel CampoMarzio, il nuovo Foro di Cesare era nel cuore dellacittà, proprio accanto al vecchio Foro. Il fatto che l’an-tica Curia, appena restaurata, venisse demolita per far

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posto alla nuova costruzione, e che il comitium con la tri-buna degli oratori (fino ad allora un luogo sacro) venis-

se semplicemente sopraelevato aveva dunque un precisosignificato simbolico.Come vedremo, i due grandi edifici di rappresen-

tanza fatti costruire da Ottaviano prima della battagliadi Azio – il Tempio di Apollo sul Palatino e il Mauso-leo – non sono da meno come esempi di culto della per-sonalità: senza alcun riguardo per le tradizioni della res publica, il loro scopo era unicamente quello di pubbli-cizzare l’immagine di un capo carismatico.

Tra i tumultuosi mutamenti e i disordini di queglianni, l’immagine dell’urbs offriva dunque ben pochimotivi di identificazione con lo Stato, e poteva anziagire come una fonte di sotterranea inquietudine. Difronte alla miseria delle istituzioni essa non offriva inogni caso immagini «edificanti» che potessero rafforza-re la fiducia nelle sorti dello Stato romano. La stella delbuon tempo andato non brillava più: quelle che si ave-

vano davanti agli occhi non erano le immagini simboli-che di una solida moralità collettiva, da assumere comeun punto di riferimento, ma monumenti che dichiara-vano il declino dello Stato e il trionfo degli interessi pri-vati. Tutto nella città testimoniava lo strapotere e leambizioni politiche dei «grandi».

La «villa» e la nascita della sfera privata.

Abbiamo considerato finora solo l’ambiente visivodella capitale e le sue contraddizioni. Nelle antiche cittàdella Campania e del Lazio il processo di ellenizzazionesi era svolto in forma assai meno problematica: cosí adesempio Pompei possedeva già nel II secolo a. C. un tea-tro di pietra, un pubblico stabilimento termale e forseanche un ginnasio. Il Tempio della Fortuna a Palestri-

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na e il Tempio di Ercole a Tivoli superavano, per lagrandiosa imponenza delle loro strutture architettoni-

che, perfino i grandi edifici dell’Oriente. Con le sue stra-de e le sue piazze Capua presentava l’aspetto di unamoderna città ellenistica (Cic., Leg . agr . II 95 sg.). Perle grandi famiglie cosmopolite di queste città, impe-gnate nel commercio con l’Oriente, le novità culturalinon creavano problemi di concorrenza e di conserva-zione del potere come avveniva invece per i senatoriromani: l’ideologia romana non aveva qui nessun peso.

Nel clima più libero della Campania, già verso la

metà del II secolo gli aristocratici filelleni si costruironole prime lussuose case di campagna, più o meno neglistessi anni in cui il Senato dava i primi segni di ostilitàverso la cultura greca. Queste ville furono un primo esintomatico prodotto della nuova cultura: qui le formedi vita importate dalla Grecia potevano attecchire inpiena libertà per poi trasmettersi alla vita pubblica.

Il fenomeno della villa rappresenta ai suo inizi una

sorta di «valvola di sfogo» sociale. Un podere visitatooccasionalmente poteva trasformarsi in una splendida casadi villeggiatura, dove anche l’aristocratico più fedele allatradizione poteva abbandonarsi agli svaghi lussuosi dellacultura greca approfittando della lontananza da Roma edei periodi di ferie: «a Roma infatti – fa dire Ciceroneall’oratore M. Antonio (console nel 99 a. C.) – ciò non eraconsentito». Venne cosí a prodursi quella spaccatura trasfera privata e sfera pubblica che doveva poi segnare cosíprofondamente la futura società europea. Le enormi ten-sioni politiche e personali a cui aveva portato il contrastofra la cultura greca (oggetto di avida emulazione) e i moresmaiorum cercavano un equilibrio in una netta separazio-ne di ambiti, e fu proprio nella tensione fra otium (iltempo libero, la vita in campagna) e negotium (il dovere,l’attività politica a Roma) che prese forma quel senso deldovere cosí tipico dell’ideologia romana.

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Le ville divennero rapidamente il centro del nuovolusso ellenistico. Si ha anzi l’impressione che i freni

morali della vita cittadina alimentassero il bisogno quasipatologico di una vita più libera ed estroversa, cir-condata dai piaceri e dagli agi della «campagna». L’e-spansione di questo mondo privato fu favorita dal decli-no dell’autorità senatoria e raggiunse il suo culmineall’epoca di Lucullo, Pompeo e Cesare. L’idea della vil-leggiatura come tranquilla occasione di svago in mezzoai libri e agli amici degenerò: la villa finí per diventare,come tutto il resto, un simbolo di prestigio e di ric-

chezza, mentre a Roma cadevano le ultime barriere con-tro il lusso delle abitazioni private.

Il Romano intellettualmente curioso si accostava allacultura greca come a un tutto organico. Munite di por-tici, sale e locali di ricreazione, di biblioteche e pinaco-teche, di giardini e ambienti battezzati nostalgicamentecon nomi di istituzioni culturali, come  gymnasium,lyceum, palaestra, o di celebri località del mondo greco,

le ville diventarono un vero campionario della culturagreca, animato dalla presenza fisica di filosofi e artistiche vi ricreavano il loro ambiente d’origine. Gli origi-nali raccolti dai collezionisti come Verre (pretore nel 74a. C.) sono andati in gran parte perduti, ma le copie dimarmo e di bronzo ritrovate in molte ville dànno unabuona idea di come le opere di scultura, distribuite neivari ambienti della casa, servissero a evocare le diversesfere del mondo greco: nella biblioteca c’erano le statueo i busti dei grandi poeti, dei filosofi e degli oratori,mentre nei porticati detti gymnasia si vedevano statue diatleti, di Ermes, Eracle e Atena. Attraversando i giar-dini si incontravano figure dionisiache e gruppi erotici.Oppure era di scena il mondo del mito omerico, comenella grande villa di Sperlonga che lo ambientava addi-rittura in una grotta naturale. Isolate dal loro contestooriginario e raccolte con spirito eclettico e programma-

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tico, quelle sculture rappresentavano la grecità in quan-to puro patrimonio spirituale, e invitavano a una vita

contemplativa, tra libri e begli oggetti, una vita raccol-ta in se stessa, lontana dagli obblighi politici.La migliore idea d’assieme di una villa romana non

la dànno però i luoghi di scavo ma la villa-museo fattacostruire a Malibu in California da Paul Getty, il magna-te del petrolio, riproducendo fedelmente la Villa deiPapiri di Ercolano. Le copie di bronzo sparse tra i por-tici e i giardini riproducono una parte delle statue ritro-vate nella villa durante gli scavi settecenteschi, e offro-

no nel loro insieme (sono circa ottanta tra statue ederme) il miglior esempio di quello che poteva essere unarredo statuario completo. L’aspetto più interessantedal nostro punto di vista è però la totale assenza ditematiche romane: come in quasi tutte le ville a noinote non troviamo né raffigurazioni dei miti «politici»romani, né ritratti di eroi o di personaggi storici, o deigrandi intellettuali della storia recente, né rappresenta-

zioni allegoriche di valori e virtù romane. C’erano inve-ce, accanto ai ritratti dei poeti greci, dei filosofi e deglioratori, le raffigurazioni dei sovrani ellenistici: i modelliammirati dalla classe senatoria non erano consoli e gene-rali, ma Alessandro e i sovrani dei regni ellenistici. Latradizione politica romana non trova spazio nel mondodell’otium. Solo con Augusto le immagini del mondopolitico romano entreranno nella sfera privata, e solo inepoca imperiale si troveranno nelle case private ritrattidei sovrani, viventi o defunti.

Non meno istruttive sulle tendenze intellettuali, leambizioni e la psicologia della classe dirigente sono poile decorazioni pittoriche parietali nel cosiddetto «stilearchitettonico», quali le troviamo in ville grandi e pic-cole, ma anche in case urbane di Roma e Pompei. Con-viene partire anzitutto dagli esempi più antichi, databi-li probabilmente al ii secolo a. C.: rappresentano pare-

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ti intarsiate con diverse qualità di marmi preziosi, spes-so con profili di colonne sovrapposte e scorci di colon-

nati. La pittura doveva sostituire illusionisticamentel’ambientazione sognata oppure accrescere il lusso effet-tivo, offrendo agli inquilini della casa immagini di favo-losa ricchezza: uno scenario tangibile che riunisse quan-to vi era di più sontuoso in fatto di architetture e dimateriali. Certe piccolissime camere da letto dalle pare-ti decorate con scorci illusionistici, in una ridda di sug-gestioni ottiche contraddittorie, sembrano testimoniareun bisogno senz’altro nevrotico di sfarzose e grandiose

prospettive architettoniche. Ci si può chiedere se fossepossibile abbandonarsi a sonni tranquilli in un ambien-te come la piccola camera da letto della villa di Bosco-reale o della Villa dei Misteri. È più facile pensare chequelle selve di colonne perseguitassero gli abitatorianche in sogno.

Anche in questo caso, nessun soggetto che abbia ache fare con la vita a Roma, né vi troviamo allusioni alla

vita di campagna del senatore-possidente (a differenza,per esempio, dalle pitture illusionistiche nei castelli enelle ville barocche). Troviamo, invece, vedute di san-tuari spesso di grande effetto scenografico: quei santuariche sorgevano attigui ai palazzi dei sovrani ellenistici, eche forse, in qualche caso, venivano costruiti ancheall’interno delle ville e dei palazzi più sontuosi. Nonscorci di natura libera ma parchi raffinati e pinacotechedecorate di erme, grandi quadri di principi ellenistici, unfilosofo greco che sembra cosí vicino da toccarlo, unrituale di iniziazione dionisiaco in cui gli abitanti dellavilla si confondono col seguito del dio, e vedute di pae-saggio con scene mitiche: un mondo di sogno, fatto dilusso e cultura greca. Come le statue, le immagini pit-toriche dovevano evocare associazioni erudite e soddi-sfare almeno nella fantasia un bisogno di splendore e dibellezza. Più tardi, dopo la svolta augustea, queste pare-

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ti saranno viste invece come un’espressione di luxuria edi ipocrisia, come mostra la nuova decorazione parieta-

le progettata all’epoca dei ludi saeculares.La «fuga» nella cultura greca poteva comportareaddirittura un rituale di travestimento: prima disprofondarsi in una poltrona ai piedi di un ritratto diPlatone o di Aristotele, per filosofare o leggere i poeti,non di rado il romano colto indossava il mantello grecoe sandali greci e si metteva una corona sul capo (Cic.,Rab. Post. 26). Si sentiva allora letterato e artista, Grecofra i Greci. E in questa veste si faceva addirittura

immortalare: ne è un esempio eloquente una statua delcommediografo greco Posidippo (III secolo a. C.), adat-tata nel volto e nella capigliatura al ritratto di un roma-no del I secolo a. C. Significativamente però, il Roma-no grecofilo si preoccupava di mettere in mostra il suorango sociale: per raffigurare i suoi calzari da senatorelo scultore dovette applicargli stringhe di bronzo. Anchenella statua del cosiddetto giovane oratore greco, che

nella Villa dei Papiri era fra quella di Eschine e quelladi un antico poeta, vediamo immortalati i tratti di uncontemporaneo, forse il proprietario della villa: il tagliodei capelli è quello tipico degli anni intorno al 30 a. C..

Togliendosi la toga nel tempo libero il Romano depo-neva per cosí dire la sua stessa romanità. Il sorgere diuno spazio vitale privato e alternativo, sottratto allasfera della res publica, evidenziava il declino di un inte-ro sistema di valori; ci si abituava con una certa disin-voltura a vivere in due mondi, a parlare due lingue e adavere una doppia morale. I piaceri di cui si godeva a casapropria diventavano, nei discorsi fatti in pubblico,oggetto di riprovazione.

Il mondo dell’otium offriva una cornice stimolanteal godimento della cultura greca e allo sviluppo di unavita intellettuale libera dagli obblighi di Stato, era unmondo in cui si poteva trovare rifugio dal caos delle

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guerre civili e dalle miserie di una vita politica in decli-no, e sperimentare con successo nuove possibilità esi-

stenziali. E insieme ai libri, le immagini e le statuediventarono il contrassegno emblematico della nuovasituazione. Se prima un membro dell’aristocrazia pote-va realizzarsi solo nel servizio della res publica, ora ilmondo dell’otium gli offriva la possibilità di un’esisten-za libera da incarichi politici. Non c’è dubbio che la cul-tura delle ville, con i suoi valori estetici e il suo lusso,abbia reso più facile il passaggio alla monarchia per un’a-ristocrazia ormai indebolita.

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Capitolo secondo

Immagini antagoniste.La lotta per il potere assoluto

Dopo la morte di Cesare nel 44 a. C. la lotta per lasuccessione durò tredici anni. Il linguaggio delle imma-gini e delle forme architettoniche svolge in questa faseun ruolo importante, ma benché compaiano alcunenovità destinate a interessanti sviluppi, le contraddi-zioni del linguaggio visivo rimangono le stesse del perio-do precedente. Il declino del vecchio sistema politicotoccò il culmine. L’uso di forme e simboli greci, proble-matici e ambigui, da parte di Ottaviano e di Antonio,

fu cosí massiccio da far pensare a due sovrani ellenisti-ci in lotta per il dominio su Roma.

«Divi filius».

Quando il diciannovenne C. Ottavio scese sul ter-reno di guerra per entrare in possesso della sua eredità– era il 44 a. C. – il nome di Cesare, suo prozio e padreadottivo, era il suo unico asso nella manica. Rinunciandoa fare uso del cognomen, in questi casi abituale, si fecechiamare fin dall’inizio C. Cesare (il nome Ottaviano èuna convenzione moderna). Il ragazzo che secondoAntonio «doveva tutto al suo nome» (Cic., Phil .13,11,24), non voleva lasciare dubbi sulle sue intenzio-ni. «Possa ottenere gli onori e la posizione di mio padre,che rivendico»: cosí esclamava già alla fine dell’anno 44

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in un’assemblea popolare, indicando con gesto enfaticola statua del dittatore assassinato (Cic.,  Att . 16,15,3).

Quell’immagine fece colpo. La nobiltà era costernata,perfino gli amici del giovane Cesare rimasero stupefat-ti. «Da uno cosí non vorrei essere salvato», fu il com-mento di Cicerone.

Subito dopo aver raggiunto il potere assoluto nell’anno 31 a. C., Ottaviano modificò il suo stile politico.Nell’anno 27 «ripristinò» la repubblica (era questa laformula ufficiale), e come «salvatore dei cittadini»ottenne allora il titolo onorifico di  Augustus. Da quel

momento fece tutto il possibile per tagliare i ponti colpassato: e non senza buone ragioni, giacché molte dellecose accadute dopo il 44 andavano dimenticate. Quelloche era stato detto allora, e il modo in cui lo si eradetto, era in funzione della lotta per il potere. E qui larivalità tra i due antagonisti aveva avuto un ruolo deci-sivo, condizionando le rispettive «immagini» e la lorotraduzione nel linguaggio delle forme artistiche.

Si trattava anzitutto di mantenere viva tra i vetera-ni e la  plebs la memoria di Cesare. Nell’amministrarequesto capitale politico decisivo il partito del giovaneCesare procedette con grande determinazione, comedimostrano la campagna per divinizzare il dittatoreassassinato e per l’utilizzazione sistematica di una come-ta, il sidus Iulium, come segno di prosperità.

Quando Ottaviano, contro la volontà dei direttiresponsabili, volle celebrare nel luglio del 44 i ludi Vic-toriae Caesaris, che ancora Cesare aveva celebrato inonore di Venere, in cielo comparve puntualmente unacometa. Riferirà più tardi nella sua biografia che lacometa era stata vista per sette giorni in tutto il mondo,e che dappertutto era stata interpretata come un segnodella divinizzazione di Cesare. Subito dopo venne con-sacrata nel Foro una statua di Cesare, e fu lui stesso amettere sul suo capo una stella: ma «dentro di sé aveva

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salutato quella stella con gioia, come un segno della suafutura ascesa» (Plin., Nat . hist . II 93-94).

Apprendiamo da altre fonti che fu naturalmente lostesso Ottaviano a propagare la credenza nella stella, cheegli mise il sidus Iulium su tutte le statue di Cesare, e cheda allora la stella brillava anche sul suo elmo. Anche unaruspice di nome Vulcazio diede il suo contributo,interpretando la cometa come l’annuncio di una nuovaetà felice, e pensando bene di morire subito dopo il fau-sto responso (Serv. in Verg., Ecl . IX 46 sg.). La stelladiventò subito un segno di prosperità e si diffuse dap-

pertutto, su monete, anelli, sigilli e cosí via.Nel 42 a. C. Ottaviano stabilí che il culto di Cesa-

re (Divus Iulius) entrasse ufficialmente nella religione diStato, e ne impose la venerazione in tutte le città d’I-talia. Da allora poté chiamarsi Divi filius, figlio del nuovodio. Sorsero altari dappertutto e in un punto del Foromolto in vista si iniziò la costruzione di un tempio cheapparve nell’effigie di una moneta già alcuni anni prima

della fine dei lavori.La moneta è un buon esempio del modo pregnantein cui il linguaggio delle immagini viene utilizzato daisostenitori di Ottaviano. Nel timpano compare ben visi-bile il sidus Iulium e subito sotto la scritta dedicatoriaDIVO IULIO, cosí sproporzionata da risultare peren-toria. Di fianco al tempio si vede l’altare commemora-tivo che, con gesto carico di effetto, venne più tardiintegrato nell’edificio. L’altare era infatti un segno diparticolare intensità emotiva: dopo l’assassinio del dit-tatore lo aveva eretto spontaneamente la folla sul luogodel rogo funebre.

Ben presto anche i poeti iniziarono a cantare la stel-la di Cesare e a farla brillare in tutte le occasioni impor-tanti. Anche sulle monete la stella continua a compari-re, soprattutto in relazione alla celebrazione dell’«etàdell’oro» ( saeculum aureum) e all’investitura dei princi-

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pi ereditari Gaio e Lucio. L’efficacia simbolica dellastella poggiava sulla tendenza universalmente diffusa a

lasciarsi influenzare dai segni celesti, sull’abile sfrutta-mento della credulità popolare e sull’uso mirato di sim-boli ricorrenti nelle manifestazioni pubbliche.

La maggior parte delle immagini diffuse nei primianni dai seguaci di Ottaviano hanno a che fare più omeno direttamente con Cesare. Le monete d’oro con la sella e la corona ricordavano, ad esempio, i tentativi diesporre la sedia dorata di Cesare e la corona tempesta-ta di pietre preziose, con cui Ottaviano si era audace-

mente proposto di riaccendere la passione popolare.Quanto a Venere ed Enea, era stato lo stesso Cesare afarli raffigurare sulle sue monete come segno dell’origi-ne divina della gens Iulia. Riprendendo queste immagi-ni il giovane Cesare rivendicava per sé anche le originidivine ed eroiche della  gens Iuli. Marco Antonio nonpoteva contrapporre nulla di simile. E a tutto questo siaggiungeva la somiglianza del figlio col padre messa in

risalto da numerose monete dei primi anni. La giovaneetà di Ottaviano si prestava magnificamente al gioco:ora lo troviamo raffigurato con tratti spiccatamente ado-lescenziali, ora come un giovane eroe. E anche qui ilpensiero va all’immagine «standard» del giovane Ales-sandro Magno, che contribuí a diffondere sul giovaneerede di Cesare un’aura di eccezionalità.

Persino i momenti più drammatici e più gravi pote-vano rivestire un significato simbolico e rafforzare il giàstretto legame tra il Divus Iulius e il Divi filius. Cosí, adesempio, corse voce che la testa dell’assassino di Cesa-re, Bruto, era stata mandata a Roma per essere depostaai piedi della statua di Cesare (Suet.,  Aug . 13; Dio.Cass., 48,14). E si diceva che la scena orribile del mas-sacro di trecento perugini fosse avvenuta, in memoriadel dies nefastus dell’assassinio di Cesare, presso un alta-re del Divus Iulius (41 a. C.).

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Se si pensa alla disordinata propaganda famigliaredegli ultimi decenni, lo sfruttamento politico sistemati-

co delle immagini era senz’altro una novità.

Le statue trionfali del giovane Cesare.

Si trattava anzitutto di riconoscere pubblicamente equanto prima le qualità militari del Divi filius e i suoimeriti verso lo Stato. Di queste qualità e questi meritierano un’espressione visibile le statue celebrative che gli

venivano offerte ufficialmente. La prima statua, inau-gurata da Ottaviano ancora diciannovenne il 2 gennaiodel 43, fu per lui sotto vari aspetti la più importante: unastatua equestre dorata da sistemare sopra o accanto latribuna degli oratori (i rostra). Il monumento era statodeciso dal Senato e dal popolo insieme a una serie dialtre onorificenze, e doveva proclamare, nel punto piùsimbolico della città, che a pochi mesi dalla sua comparsa

sulla scena l’erede di Cesare era già un’importante forzapolitica. Non solo il Senato decretava che gli arruola-menti illegali di truppe voluti da Ottaviano erano un«merito» straordinario verso lo Stato, ma assegnavainoltre al «ragazzo» un posto di prestigionel Senatostesso, il diritto di candidarsi con dieci anni di anticiposull’età prevista dalla legge a tutte le magistrature piùelevate, e, soprattutto, gli conferiva un imperium inpiena regola. Il giovane Cesare poteva ora agire comecondottiero al servizio della repubblica. Non c’è da stu-pirsi che proprio quella statua diventasse per lui il sim-bolo della sua rapida ascesa politica. Prima ancora chela statua venisse portata a termine e collocata sui rostra,i partigiani di Ottaviano ne facevano coniare l’effigie sualcune monete.

Su una delle prime monete si vede il futuro monu-mento accompagnato da due pregnanti segni aggiuntivi:

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il cavallo poggia su un’asta, sotto la quale uno speronedi nave (rostrum) indica appunto nella tribuna degli ora-

tori (ornata di rostra) il luogo di destinazione. Il bastoneda augure nella mano di Ottaviano allude alla sua auto-nomia come comandante militare. Le lettere S[enatus]C[onsultus] sottolineano infine che l’onorificenza traevaorigine da un decreto ufficiale del Senato: segno, tuttoquesto, di una forte volontà di legittimazione. E si trat-tava di una onorificenza ben dispendiosa per un giova-ne che non aveva ancora rivestito alcuna carica, per nonparlare di esperienze militari! Tanto più che il monu-

mento doveva affiancare le statue equestri di Silla, Pom-peo e Cesare. Il Senato non poteva far capire più chiara-mente quanto poco gli importasse ormai delle proprietradizioni. Come mostrano le monete dell’anno 43 a. C.,la statua fu pensata dapprima con il cavallo in posizio-ne di riposo, simile al monumento di Silla. Ma poidiventò un cavallo al galoppo. Il nuovo schema compa-re per la prima volta sulle monete del 41 a. C., e questa

volta con la scritta programmatica e demagogica POPU-LI IUSSU («per decreto del popolo »). Era dunque ilpopolo – non il Senato, nei cui riguardi Ottaviano avevaperso ormai ogni ritegno – che aveva decretato l’ono-rificenza! La raffigurazione più precisa della statua sitrova nelle monete coniate un paio di anni più tardi: essenon mostrano il Divi filius nelle vesti di condottiero, maa torso nudo e con un mantello svolazzante attorno aifianchi. In questa veste piena di pathos, la superioritàdel nuovo monumento sulla statua di Silla apparivaschiacciante. Anche il braccio teso assumeva nel nuovocontesto un significato più generale come allusione alpotere assoluto. Il figlio del «divo» Cesare appariva quicome i Dioscuri sulle vecchie monete repubblicane: nonpiù un condottiero della Repubblica, ma un salvatoremandato dal cielo.

L’immagine corrisponde fedelmente ai panegirici di

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Cicerone in Senato, che esaltava le imprese del divinusadulescens come superiori a quelle di Silla e di Pompeo

(Phil . 5,16,42). È vero che anche Silla aveva fatto inci-dere sotto la sua statua la scritta carismatica IMPERA-TOR FELIX, ma se non altro si era ancora fatto raffi-gurare con la toga. E poiché le due statue erano l’una difianco all’altra, il confronto si imponeva da sé. Che ilSenato non si curasse ormai nemmeno di un ossequioformale alle tradizioni, risulta dall’iscrizione dedicatoriache indicava espressamente l’età del diciannovenneOttaviano (Vell. Pat., 2,61,3). Proprio Cicerone del

resto, l’eloquente avvocato della res publica, aveva para-gonato in Senato il giovane Cesare ad Alessandro, for-nendo cosí una qualche giustificazione a quegli onoristraordinari (Phil . 5,17,38).

Anche un’altra statua, non meno significativa, ci ènota solo attraverso le monete. Poiché la troviamo nellastessa serie insieme ad altri monumenti della città, dove-va trattarsi anche in questo caso di un monumento

importante. La statua celebrava la vittoria su Sesto Pom-peo nella battaglia navale di Nauloco (36 a. C.), e anchequi Ottaviano è raffigurato nudo, secondo un modulostilistico tipico dell’arte tardo classica. Il probabilemodello era una famosa statua di Lisippo raffigurantePosidone. In quanto vincitore di una battaglia navaleOttaviano regge in mano come trofeo l’aplustre (aphla- ston) di una nave nemica. La lancia tenuta con la sini-stra lo qualifica come generale, mentre il piede destro èappoggiato su una  sphaera, simbolo della terra e dellavolta stellata, e perciò di potere universale.

Questo efficace modulo figurativo era già stato usatopresso i sovrani ellenistici per rappresentare le virtùdivine del personaggio in questione. Benché all’epoca diOttaviano il modulo, molto sfruttato, avesse certamen-te perso vigore, il luogo di esposizione e le caratteristi-che del personaggio potevano ancora farne, come in

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questo caso, il veicolo di un messaggio molto forte.Negli anni dopo la morte di Cesare, Sesto Pompeo,

figlio di Gneo Pompeo Magno, era riuscito a costruirsiuna specie di regno marittimo con sede in Sicilia, oppo-nendosi al triumvirato di Ottaviano, Antonio e Lepido.Dopo le prime vittorie su Ottaviano e i suoi generali,Pompeo era solito vantarsi di essere come suo padresotto la speciale protezione di Nettuno, e anzi di esser-ne stato adottato come figlio. Evidentemente, servivaanche a lui un’origine divina. Cosí, invece del mantelloda generale portava una clamide di colore blu mare,

offriva in sacrificio al «padre» Nettuno dei tori dallecorna dorate e, sempre in suo onore, arrivava al puntodi gettare in mare dei cavalli vivi (Dio. Cass., 48,48,5).

Sesto godeva di grande popolarità presso la  plebsromana. Durante una pompa nell’anno 40 a. C. una sta-tua del dio del mare fu portata nel Circo: la folla diedesegni di esultanza e dimostrò cosí il suo favore per ilfiglio di Nettuno contro il figlio del Divo Cesare. Que-

st’ultimo fece ritirare allora la statua dal corteo dichia-rando che avrebbe vinto anche «contro la volontà diNettuno», ma il gesto provocò una sommossa durantela quale furono rovesciate le statue di Ottaviano e deglialtri due triumviri. In questi anni, dunque, la comparsadi un’immagine del dio del mare o dei suoi attributi sim-bolici in un contesto politico veniva senz’altro riferita aSesto Pompeo. Già negli anni 42-40 a. C. quest’ultimoaveva celebrato i suoi successi nella guerra navale facen-do coniare monete con effigi mitologiche «in tema»:oltre a vari simboli delle vittorie ottenute e ai ritratti delpadre e del figlio vi troviamo l’effigie di Nettuno e diScilla, sua aiutante contro Ottaviano.

Su una moneta di questa serie compare una statua ilcui modulo figurativo è identico a quello della statua diOttaviano. Anche qui non si tratta di una raffigurazio-ne del dio ma di una statua di Sesto Pompeo (o del padre

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Gneo Pompeo) in atteggiamento vittorioso: come inquella di Ottaviano il vincitore tiene un aplustre nella

mano, mentre il piede è poggiato su un rostro. Ai latidell’ambizioso monumento sono raffigurati i due «fra-telli di Catania», che secondo la leggenda avevano sal-vato in modo spettacolare i loro genitori. La storia, giàriprodotta su monete più antiche, era ben nota al pub-blico romano come esempio di  pietas verso i genitori.L’intento di Pompeo è qui di giocare sui concetti di pie-tas e di pius: epiteto, questo, che aveva aggiunto al pro-prio nome in segno, appunto, di devozione alla figura del

padre. E si trattava ovviamente anche di una frecciatacontro il giovane Cesare, che dalla battaglia di Filippitanto si vantava della propria pietas filiale. La vittoria delfiglio di Pompeo sull’erede di Cesare viene dunque cele-brata sulla moneta come una tardiva rivincita sullo stes-so Cesare, che aveva sconfitto Pompeo presso Farsalo.Su questo sfondo il monumento alla vittoria, fatto eri-gere dallo stesso Ottaviano o dai suoi sostenitori, acqui-

sta il significato di una precisa risposta polemica allapropaganda del vecchio avversario.Per comprenderne il significato fino in fondo occor-

re tuttavia riferirlo a un’altra statua dello stesso tipofatta erigere un decennio prima in onore di Cesare sulCampidoglio. Era una statua di bronzo in cui la sphae-ra sotto il piede veniva intesa come simbolo dell’Ecu-mene, ossia dell’intero mondo abitato (Dio. Cass.,43,14,6), mentre sotto la statua si leggeva la scritta«poiché egli è un semidio». Scritta che più tardi Cesa-re fece cancellare, forse per evitare un richiamo cosídiretto e urtante alla sua pretesa natura divina.

Ora, la statua di Sesto era riferita a una precisa vit-toria militare: il piede del vincitore poggiava sul rostrumdi una nave nemica. Il piede di Ottaviano poggiavainvece – come quello di Cesare – niente meno che sulglobo terrestre. Prima ancora della battaglia decisiva di

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Azio, Ottaviano, in quanto Divi filius, proclamava dun-que a chiare lettere la propria candidatura al potere

assoluto che era stato di suo padre.Il terzo monumento era una colonna commemorati-va munita di rostri (columna rostrata), un’altra dellesolenni onorificenze con cui il Senato volle celebrare lasua vittoria su Sesto Pompeo:

Tra gli onori che gli furono decretati egli accettò una ova-tio [ingresso solenne nella città, il cosiddetto «piccolotrionfo»], una festa annuale nei giorni delle sue vittorie e

una statua dorata nel foro, che doveva raffigurarlo nellostesso abito col quale era entrato in città. La statua dove-va essere posta su una colonna decorata coi rostri delle navicatturate. L’immagine fu collocata con un’iscrizione in cuisi leggeva come egli avesse riportato in mare e in terra lapace, per lungo tempo sconvolta dalle discordie (App.,Bell. civ. 5,130).

Dione riferisce anche di altre onorificenze, tra cui ildiritto di portare sempre la corona di alloro. E in effet-ti il ritratto di Ottaviano sul recto di questa moneta èmunito della corona di alloro, a differenza di tutti glialtri ritratti della serie. Anche in questo caso il luogo diesposizione e il suo riferimento all’attualità politica con-ferivano alla statua un significato e una forza particola-ri. La forma del monumento riproduceva la colonnacommemorativa di Duilio, che ricorda la sua vittorianavale sui Cartaginesi del 260 a. C.: con estrema disin-voltura una vittoria riportata nella guerra civile venivamessa sullo stesso piano di una vittoria contro un nemi-co esterno, al punto che le due statue si trovavano fian-co a fianco sulla tribuna degli oratori. D’altra parte ilparticolare prestigioso della mantellina svolazzante face-va allusione all’ingresso trionfale del vincitore in città.È probabile, infatti, che anche Ottaviano, seguendo l’e-

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sempio del grande Pompeo e di Sesto, avesse rinunciatoin quell’occasione alla toga romana per portare come

Alessandro e i re ellenistici una clamide greca.Per avere un’idea di come apparisse la testa di Otta-viano in queste statue possiamo riferirci alle copie diquello che fu il suo primo ritratto ufficiale, risalente, aquanto risulta dalle effigi di alcune monete, agli anniintorno al 40 a. C. Il prototipo fu realizzatoprobabilmente per l’erezione di qualche importante sta-tua commemorativa, forse proprio la statua dei rostra.Già all’epoca della tarda repubblica era consuetudine

riprodurre per mezzo di calchi i ritratti originali dei«grandi», e utilizzarne le copie, magari ingrandite oridotte, su altre statue commemorative, oppure mone-te, gemme e via dicendo. Il ritratto di Ottaviano ci pre-senta un giovane dal volto ossuto, gli occhi piccoli e l’e-spressione inquieta. A differenza dei futuri ritratti diAugusto, esso sembra riprodurre fedelmente le fattezzedel personaggio, del giovane ambizioso e avido di pote-

re; ma, come in altri ritratti romani dell’epoca, l’esitoartistico è contraddittorio, giacché il pathos eroico delportamento mal si accorda con la minuziosa caratteriz-zazione del volto e con la pacatezza dello stile.

I modelli di queste tre statue, collocate nel cuore diRoma e rese popolari dalle effigi delle monete, eranoimmagini di sovrani ellenistici in netto contrasto con letradizioni della repubblica. Lo stesso uomo che nel 36a. C. aveva promesso ad alta voce in Senato la restitutio

della forma repubblicana, si faceva ora celebrare nellesue statue come i sovrani ellenistici dell’Oriente. Si trat-tava di immagini polemiche e demagogiche, miranti acelebrare i trionfi del Divi filius e ad annunciare la suacandidatura al Principato. Il linguaggio delle immaginiera più chiaro ed aperto di quanto veniva detto in Sena-to, e poteva anche piacere alla massa, anche se il mes-saggio appariva più che problematico. Perché il giovane

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Cesare non era un sovrano ellenistico: era dal 42 a. C.«triumviro per la restitutio della res publica», e doveva

muoversi su una scena politica condizionata da leggi etradizioni affatto diverse. Quelle immagini potevanosuggellare la sua vittoria schiacciante, ma non era un lin-guaggio con cui si potesse formulare a Roma un pro-gramma politico: le immagini parlavano infatti del capoe delle sue ambizioni di potere, ma non dello Stato e delsuo futuro. Restava quello, ad ogni modo, il linguaggiodei protagonisti, e ad esso non c’erano alternative.

Identificazioni mitologiche.

Era da tempo usanza della nobiltà romana far risali-re la propria stirpe a eroi o divinità della Grecia. Si imi-tavano in questo modo le grandi case reali ellenistiche esoprattutto, richiamandosi agli antenati troiani, si riven-dicava la propria appartenenza «originaria» al mondo

greco. Invocare la protezione di questo o quel dio, fre-giarsi della sua vicinanza o identificarsi con questa oquella figura mitica era un «gioco di società» che sullascena esibizionistica della tarda repubblica doveva svol-gere un ruolo sempre più importante. Se le allusioni diPompeo a Eracle e Dioniso erano metafore ben familia-ri con cui illustrare i trionfi guerreschi in Oriente, Cesa-re non ebbe alcuna esitazione a dichiarare apertamentela propria natura umano-divina. E non solo fece costrui-re alla sua «antenata» Venere Genitrice il grande tem-pio nel nuovo Foro, ma nel vestibolo del tempio davaudienza ai senatori «stando seduto» (Suet., Iul. 78). L’e-sempio del Neptunius dux (Hor., Epod . 9,7) Sesto Pom-peo mostra con quanta naturalezza, dopo la morte diCesare, anche figure di secondo piano reclamassero persé un’origine eletta e una parentela divina. Nelle suc-cessive lotte per il potere il gioco delle identificazioni

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mitologiche forní ai vari contendenti un ulteriore terre-no di scontro.

Ma il mito non era solo uno strumento di propagan-da politica. Proprio nello scontro fra Marco Antonio eOttaviano si può vedere come le immagini e le figure delmito potessero influenzare col tempo anche l’ideologiaprivata dei diversi protagonisti e condizionarne il mododi agire. Furono soprattutto le grandi figure di Dioni-so-Bacco e di Apollo a fornire in determinate situazionidei veri e propri modelli di identificazione, grazie ai qualiAntonio e Ottaviano poterono ritagliare il quadro di rife-

rimento entro cui soddisfare le aspettative generali.La miseria del presente con la sua anarchia politica

e l’impossibilità di dare al futuro contorni precisi forníun terreno ideale per indovini e astrologi, per l’attesautopica di un salvatore e di una nuova età felice. Ilclima spirituale da cui nacque la famosa quarta Eglogadi Virgilio testimonia un’attesa quasi nevrotica condi-visa anche dai ceti più colti. In una situazione di que-

sto genere gli appelli e le parole d’ordine filorepubbli-cane di un Cicerone non avevano ormai più alcun effet-to. Chi voleva il potere doveva venire incontro a que-ste aspettative di salvezza e presentarsi nei panni del«salvatore», e l’unico linguaggio visivo disponibile atale scopo era quello del mito greco. Un linguaggio anco-ra di grande efficacia, anche se in molti casi, entrandoin conflitto con le tradizioni dello Stato, si dimostròun’arma a doppio taglio. La fatale identificazione diMarco Antonio con la figura di Dioniso ne è l’esempiomigliore.

La gens Antonia faceva risalire le proprie origini a unmisterioso figlio di Eracle, di nome Antonio. MarcoAntonio ne fece addirittura riprodurre l’immagine sullesue monete, contrapponendolo – con idea non propriofelice – alla grande figura di Enea, figlio di Venere. Ilparagone con Eracle lo lusingava:

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La barba armoniosa, l’ampia fronte e il naso aquilino gliconferivano quell’aspetto virile che si riconosce nei dipinti

e nelle statue di Eracle, e lo facevano sembrare simile a lui(Plut., Ant . 4).

L’identificazione con Eracle aveva successo soprat-tutto nei suoi rapporti spavaldi e affabili con la truppa.Il richiamo a Eracle aveva del resto precisi riscontrifigurativi: i sostenitori dei triumviri non esitavano aportare sul proprio anello l’immagine del loro idolo e aservirsene come sigillo. Un gesto di omaggio che si usava

d’altronde non solo in ambito politico, ma anche versofilosofi e poeti.

Quando però Antonio giunse in Asia dopo la sud-divisione dell’impero fra i triumviri (42 a. C.), gli sioffrí, sulla scia di Alessandro, un modello di identifi-cazione di gran lunga più efficace e più globale: la fi-gura di Dioniso. Un ruolo, questo, a cui sembravanopredestinarlo il suo carattere appassionato, la sua gene-

rosità e ingenuità, l’amore per il vino e le feste orgia-stiche, le donne facili e le storie d’amore spettacolari.Il nuovo Dioniso fece ricordare ai Greci i giorni del reMitridate:

Quando Antonio entrò in Efeso, donne vestite da bac-canti, uomini e fanciulli vestiti da Satiri e da Pan lo gui-darono attraverso la città, ove non si vedeva altro cheedera e tirsi ed arpe e zampogne e flauti, mentre il popo-

lo inneggiava a lui come Dioniso Benefico e Soave (Plut., Ant . 24).

E quando questo generale romano, nelle vesti di Dio-niso-Osiride, incontrò a Tarso la regina d’Egitto in quel-le di Afrodite-Iside, furono in molti a pensare che ilvolto di Roma fosse mutato, come se si fosse all’iniziodi una nuova età più felice:

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Cleopatra giunse su una nave dalla poppa d’oro, con le veledi porpora spiegate al vento. I remi argentei la spingeva-

no muovendosi ritmicamente al suono dei flauti, dellesiringhe e delle cetre. La regina era distesa sotto un bal-dacchino trapunto d’oro: era vestita e acconciata come le

 Afroditi che si vedono nei quadri, e una frotta di fanciullitravestiti da Amori le facevano aria ai due lati con venta-gli. Le schiave più belle erano accanto ai timoni e allegomene in veste di Nereidi e di Cariti. E sulle rive si span-devano meravigliosi aromi d’incenso (Plut., Ant . 26).

Non è certo un caso che questi confronti con Eracleo Dioniso comportino sempre un riferimento figurativo:se i travestimenti davano vita alle forme del mito e del-l’arte, le immagini onnipresenti degli dèi ne erano insie-me la cornice e il riflesso. È difficile per noi oggicomprendere quale potere emanassero quei costumi equelle immagini: un potere di suggestione che agiva nonsolo sugli spettatori, ma sugli attori stessi. Dioniso e

Afrodite non volevano dire semplicemente «vino» e«amore», ma erano immagini di una pienezza vitalesenza lacune. In una sontuosa atmosfera conviviale sicompiva un rito: la liberazione dalla quotidianità. Unavita fatta di lusso e di piaceri inebrianti come quella dicui Antonio faceva sfoggio ad Atene e ad Alessandriarappresentava non solo nell’Oriente ellenistico un mes-saggio di riscatto e di liberazione, una via d’uscita dallamiseria e la promessa di un futuro felice. Gli abitanti diAlessandria capivano bene il significato di quelle statuein cui Antonio-Dioniso veniva raffigurato come un gio-vane dal fisico superbo, gli occhi languidi e la boccadischiusa, le lunghe vesti trasparenti e il cantaro inmano.

Quando Antonio, dopo la vittoria sugli Armeni, feceil suo ingresso in Alessandria nelle vesti di Dioniso trion-fante, per gli abitanti della città fu una vera e propria

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festa: il Romano aveva dimostrato di essere davvero il«nuovo Dioniso». E se in precedenza Antonio poteva

aver recitato quella parte per puro calcolo, ad Alessan-dria, nel palazzo di Cleopatra, vi si era ormai calato conpiena convinzione, e i suoi ultimi anni di vita ne furo-no condizionati per intero. Celebrò la fine della guerracon grandiosi festeggiamenti, andò incontro a Ottavia-no come Dioniso col suo tiaso e anche all’approssimar-si della fine restò fedele al suo stile di vita:

Sembrava quasi che fosse lieto di avere accantonato ogni

speranza. [...] Antonio e Cleopatra sciolsero il loro famo-so tiaso – quello degli «Artisti della vita inimitabile» – perfondarne un altro, non inferiore a quello per raffinatezza,splendore e lusso, a cui diedero il nome di «Amici fino allamorte» (Plut., Ant . 71).

Nella notte prima della presa di Alessandria, gli abi-tanti della città credettero di sentire i clamori di un tiaso

attraversare la città verso l’accampamento di Ottaviano:Molti pensarono allora che il dio avesse abbandonatoAntonio: il dio a cui era più simile e che aveva preso amodello in tutte le sue azioni (Plut., Ant . 75).

Tale era ormai il potere delle immagini su di lui, cheanche Antonio avrà provato la stessa sensazione.

Quanto a Ottaviano, il suo ruolo in Italia era affat-to diverso. Nella sua qualità di Divi filius egli aveva ere-ditato insieme alla clientela di Cesare anche il suo cari-sma. Ma per quanto forte potesse essere questo carismatra i veterani e la plebe, almeno nei primi anni, sullafigura di Cesare pesava l’ombra della tirannide, e soprat-tutto il ricordo della guerra civile, che non aveva nullada offrire alle comuni attese di redenzione. Queste ulti-me invece furono catalizzate dalla giovane età di Otta-

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viano, che si trovò cosí avvolto fin dall’inizio da un’ auradi predestinazione e di leggenda.

La «leggenda» di Ottaviano risponde a uno stereo-tipo diffuso. Già da bambino aveva poteri sovrumani,e perfino le rane gli obbedivano. Più tardi, traendo i suoiprimi auspici come generale, aveva trovato il fegatodegli animali sacrificati rivolto verso l’interno, e all’as-sunzione del suo primo consolato gli erano apparse,come già a Romolo, dodici oche. Molti sogni e segni pre-monitori mettevano il fanciullo in relazione con il solee le stelle, conformemente alla comune attesa di una

nuova età del mondo e di un signore inviato dal cielo.Il neonato era uscito dalla culla e lo avevano poi trova-to su un’alta torre, rivolto verso il sole. Non soltanto ilpadre e la madre avevano sognato del resto un figlio«solare» e «stellare», ma si diceva che anche un perso-naggio illustre come l’ex console Cicerone avesse vistoin sogno un bambino che scendeva dal cielo lungo unacatena dorata e riceveva una sferza dal Giove Ca-

pitolino. Poiché una parte di queste storie circolava findai primi anni non c’è da stupirsi che già all’ingresso diOttaviano in Roma la folla abbia creduto di vedereintorno al sole un cerchio luminoso.

Immagini e poi ancora immagini! Tutto questo nonpoteva non lasciare tracce nell’animo del fanciullo pro-digio. Ancora vivo Cesare, quando lo sconosciuto GaioOttavio studiava ad Apollonia, l’astrologo Teagenecadde in ginocchio ai suoi piedi: aveva visto la singola-re costellazione sotto cui era avvenuta la sua nascita esalutava in lui il futuro padrone del mondo.

Da quel momento ebbe una tale fiducia nel suo destino chefece pubblicare il suo oroscopo e, più tardi, coniare unamoneta d’argento col segno zodiacale del Capricorno, nelquale era nato (Suet., Aug . 94).

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Il capricorno si trova infatti raffigurato abbastanzapresto su monete e paste vitree che i seguaci di Otta-

viano portavano come semplici anelli. Più tardi la costel-lazione verrà riprodotta in occasione di vittorie e trat-tati di pace, per ricordare che Augusto era stato desti-nato dalle stelle alla salvezza dello Stato. A partire dal30 a. C. la sua data di nascita venne festeggiata uffi-cialmente come giorno di prosperità. Tutti questi segnimiracolosi richiedevano un quadro comune di ri-ferimento, una cornice mitologica unitaria in cui inse-rirli. Le fonti letterarie e i monumenti, benché solo par-

zialmente conservati, ci permettono di ricostruire il pro-cesso che portò poco per volta Ottaviano a interpretareil ruolo del favorito di Apollo: un processo stimolato dalconfronto con l’avversario e dalla sua identificazione conla figura di Dioniso e che gli forní la cornice mitologicanecessaria per assumere in pieno il suo ruolo futuro.

Un momento decisivo sembra essere stato la batta-glia di Filippi (42 a. C.), in cui cesariani e anticesariani

avevano usato come grido di guerra la stessa parola d’or-dine: «Apollo». Fin dall’epoca di Silia, Apollo e i suoisimboli (il tripode, la Sibilla, la cetra, la sfinge) eranocomparsi sulle monete come augurio di un futuro miglio-re. Associato alla testa di Libertas e ai pugnali dei sica-ri il tripode aveva assunto con Bruto e Cassio il valoredi un messaggio preciso: la liberazione dal tiranno e ilristabilimento della repubblica come premessa di tempimigliori. Ma chi aveva ancora fiducia in un ripristino delregime senatorio? La battaglia di Filippi aveva mostra-to che Apollo stava dalla parte degli eredi di Cesare.D’altra parte era stato un membro della gens Iulia a farcostruire in Roma il primo Tempio di Apollo e proprioCesare aveva dato nuovo splendore ai suoi giochi (i ludi Apollinares). Quando Antonio poco più tardi si presentòin Oriente come il nuovo Dioniso, fu dunque cosa ovviaper Ottaviano puntare tutto su Apollo. E appunto tra-

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vestito da Apollo Ottaviano sarebbe apparso nel «ban-chetto dei dodici dèi», di cui si sentí parlare poco più

tardi (Suet.,  Aug . 70): un banchetto che provocò loscherno e l’irritazione della plebe, costretta alla famedall’embargo dei cereali ordinato da Sesto Pompeo.Come mostrano le notizie provenienti da Alessandriaqueste feste somiglianti a mascherate barocche nonerano però affatto rare: durante un festino in costumecon Antonio e Cleopatra, si era visto nientemeno che ilconsole del 42, Munazio Planco, comparire travestito daGlauco (divinità marina), col corpo nudo dipinto di blu

e una coda da pesce, e improvvisare un ballo a quattrozampe. Anche in occasioni private le mascherate dioni-siache erano frequenti. Come risulta dal noto fregiodella villa dei Misteri a Pompei il travestimento stimo-lava la fantasia degli ospiti.

Nello stesso periodo l’erede di Cesare incominciò ausare come sigillo l’immagine della sfinge, il simbolo delregnum Apollinis profetizzato dalla Sibilla (Plin., Nat.

hist. 37,1,10; Suet.,  Aug . 50). L’animale dell’oracoloentrò cosí a far parte del linguaggio visivo augusteo, co-me anche la corona d’alloro che Ottaviano portava orasempre più spesso in occasione delle feste. Si diffuseroproprio allora storie miracolose che si riferivano all’i-dentità apollinea di Ottaviano. Si diceva, ad esempio,che fosse stata una palma miracolosa a far decidere l’a-dozione del ragazzo da parte di Cesare. Quanto a Livia,poco dopo le sue nozze con Ottaviano si narrava cheun’aquila le avesse lasciato cadere in grembo una galli-na con un ramo d’alloro nel becco: nella villa di Livia ilramoscello sarebbe poi diventato quel grande albero dacui i futuri Cesari erano soliti staccare l’alloro della vit-toria. Già negli anni trenta si era poi diffusa la voce cheAzia, la madre di Ottaviano, avesse concepito il figlionon dal padre (presunto) ma da Apollo in forma di ser-pente, e una storia simile era già circolata a proposito di

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Olimpia, la madre di Alessandro. La storia del serpen-te era molto conosciuta, e un piccolo cammeo di vetrodimostra che essa fu sfruttata dai sostenitori di Otta-viano in chiave propagandistica.

Considerata questa affinità apollinea, non fa mera-viglia che Ottaviano abbia attribuito la sua vittoria defi-nitiva su Sesto Pompeo proprio all’aiuto di Apollo e di

sua sorella Diana. Un santuario di Diana sorgeva, for-tunatamente, anche nelle vicinanze di Nauloco, dove siera svolto lo scontro navale decisivo, mentre la costru-zione del tempio di Apollo sul Palatino sarebbe l’adem-pimento di un voto fatto da Ottaviano durante la bat-taglia (36 a. C.).

È affascinante vedere con quanta coerenza Ottavia-no abbia tenuto fede nei successivi vent’anni al suo pro-gramma «apollineo», o anche, in altri termini, come

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Roma. Palatino. Tempio di Apollo e Casa di Augusto. Una rampa (R)collega l’abitazione, posta più in basso, e il peristolio, direttamente colpiazzale del tempio.

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abbia sviluppato nel segno di Apollo la sua missione e ilsuo programma di «salvezza». Il tempio di Apollo fu

costruito proprio accanto alla sua residenza, e fu l’in-tervento personale di Apollo a risolvere la battaglia deci-siva di Azio. Nella bellezza atemporale del nuovo ritrat-to di Ottaviano, di poco posteriore, i contemporaneipotevano scorgere tratti apollinei, e anche la guerra con-tro i Parti e la riforma dei costumi del 18 a. C. avven-nero nel segno di Apollo. E quando i tempi furonomaturi per la solenne inaugurazione del  saeculumaureum, ancora una volta Augusto invocò la speciale

protezione di Apollo e di Diana e depose i Libri Sibilli-ni – redatti da lui stesso – in una custodia d’oro ai piedidelle rispettive statue di culto: a garantire che la nuovaera sarebbe durata in eterno.

L’esempio più spettacolare dell’«affinità» apollineadi Ottaviano sta nel fatto che la sua residenza privatacomunicava direttamente col tempio di Apollo sul Pala-tino. Come hanno mostrato gli scavi recenti, la casa

comunicava mediante una rampa col piazzale del tem-pio:non si poteva trovare un modo più efficace per sot-tolineare lo stretto rapporto tra il favorito di Apollo eil suo dio. La casa in sé era relativamente modesta, maper effetto della rampa l’intera area del tempio entravaa far parte della residenza imperiale. Anche in questocaso Ottaviano aveva imparato dai sovrani ellenistici: aPergamo e ad Alessandria il santuario costituiva l’«aladi rappresentanza» del palazzo reale. L’idea di «abita-re presso il dio» nacque subito dopo la battaglia diNauloco: un fulmine si era abbattuto proprio di fiancoalla casa di Ottaviano, mostrando cosí che il dio desi-derava il suo tempio in quel punto. Era una posizionesuggestiva, in alto sopra il Circo Massimo, in un luogoche ricordava Romolo e i primi tempi di Roma.

Il richiamo mitologico ad Apollo doveva risultarestraordinariamente adatto alla causa di Ottaviano e allo

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sviluppo del suo programma politico. Ad Apollo – sino-nimo di morale e disciplina – si potevano riferire tutti i

punti programmatici che sarebbero affiorati nel corsodella sfida con Antonio e più tardi nella messa a puntodel nuovo regime. Già all’epoca degli accordi di Brindisi(che nell’anno 40 a. C. avevano suddiviso l’impero indue zone, l’Oriente e l’Occidente, assegnandole ai duetriumviri, e relegando Lepido in Africa), quando Otta-viano e Antonio si invitavano a pranzo il primo adotta-va uno stile «soldatesco» e «romano», mentre lo stile diAntonio era piuttosto «asiatico-egizio» (Dio. Cass.,

48,30). Apollo era il Purificatore, contrario a ogni formadi eccesso, e in quanto tale poteva ben rappresentare laparte dell’Italia che nello scontro decisivo si contrappo-neva all’Oriente e alla sua luxuria, all’Egitto con le suedivinità dalla testa animale e il suo libertinaggio. Madopo la vittoria, Apollo si trasformò, diventando il can-tore con la cetra, il dio della pace e della conciliazione.E come dio profetico della Sibilla e della Sfinge poteva

finalmente inaugurare la nuova età tanto attesa.

Le serie numismatiche di Ottaviano.

Apollo offriva del resto un campo d’azione molto piùvario di Dioniso, che nel clima culturale di Alessandriaaveva vincolato Antonio a un ruolo estremamente defi-nito. Accanto ad Apollo e a Diana trovavano postoinfatti anche altre divinità. Non solo Nettuno, che erapassato da Sesto Pompeo a Ottaviano, ma anche la pro-genitrice Venere e con lei Marte vendicatore, Mercurioe lo stesso Giove si misero al seguito del dux Italiae,quando si trattò di fare una scelta decisiva. Cosí alme-no annunciavano i molti e splendidi denari d’argento cheOttaviano fece coniare in parte già prima della battagliadi Azio e con cui pagava le sue truppe.

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Queste monete, su cui si trovano raffigurate anchele tre statue di cui si è parlato in precedenza, furono

emesse – come oggi le serie di francobolli – in serie didue e di tre, dove le immagini delle varie divinità si tro-vavano associate a raffigurazioni di Ottaviano. Tra leprime serie coniate ne troviamo due di tre monete cia-scuna.

Mentre una di esse mostra sul recto la testa delladivinità e sul verso un’immagine di Ottaviano a figuraintera, sull’altra abbiamo rispettivamente il ritratto diOttaviano sul recto e, sul verso, le stesse divinità della

prima serie, ma questa volta a figura intera. Se allineia-mo le monete con le tre dee e poi i loro  pendants, pos-siamo leggerle come una serie programmatica continua.Sulla prima moneta Ottaviano si rivolge al suo esercitoe al suo seguito nel gesto della adlocutio prima della bat-taglia di Azio: ma l’obiettivo della battaglia è la Pace,che porta la cornucopia e l’alloro. Sulla seconda Otta-viano guida il suo esercito alla battaglia con gesto pieno

di pathos: qui è sotto la protezione di Venere Genitrice,che su una delle monete porta una ricca collana, mentresull’altra guarda pensosa le armi di Marte, e sullo scudobrilla significativamente il sidus Iulium. La terza mone-ta festeggia il vincitore: ed è appunto la Vittoria a cor-rergli incontro sul globo, mentre Ottaviano è raffiguratoa sua volta nella posa di Nettuno, la stessa posa della sta-tua celebrativa che abbiamo esaminato. Nella situazio-ne precedente alla battaglia di Azio si trattava di un pro-gramma inaugurale, che corrispondeva del resto puntoper punto ai topoi utilizzati dal discorso di Ottavianoprima della battaglia, cosí come lo conosciamo dallaredazione più tarda di Dione Cassio (50,24 sgg.): ilricordo delle vecchie imprese, la protezione degli dèi, labenedizione della pace come frutto della vittoria.

Anche altre monete della stessa emissione di denarid’argento si possono ordinare in serie analoghe. Cosí ad

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esempio i due monumenti onorari per la vittoria su SestoPompeo (il trofeo e l’arco) si trovano associati alla Curia

fatta ricostruire da Ottaviano per tener fede alla pro-messa di restaurare il vecchio Stato. La moneta con lacolumna rostrata faceva il paio con una dedicata al dioMercurio, garante di pace e prosperità.

Mai in precedenza erano state coniate a Roma mone-te cosi belle. In questo caso l’estetica fu messa al servi-zio della politica. In contrasto con le monete tardorepubblicane, perlopiù sovraccariche e poco leggibili, lachiarezza e la semplicità delle nuove monete doveva

richiamare l’attenzione, tanto più che la scritta potevalimitarsi qui al solo nome di Cesare. Erano immagini cheparlavano da sole, e che il fondo neutro rendeva anchepiù suggestive. La struttura composita delle serie pote-va inoltre stimolare un certo collezionismo, e anche que-sto contribuí a richiamare l’attenzione sui contenuti.

Dal punto di vista dell’identificazione mitologica,questa serie presenta una coppia di monete di partico-

lare interesse. Su una di esse è raffigurata l’erma di undio, sull’altra la rispettiva testa (in entrambi i casi colfascio di fulmini). Ma la divinità – e anche qui si trattasenza dubbio di un monumento urbano – ha la fisiono-mia inconfondibile di Ottaviano. Il nuovo principe arri-va dunque al punto di far coincidere la propria immagi-ne con quella del dio, come avevano fatto i sovrani elle-nistici e lo stesso Antonio in Oriente, e sia pure con divi-nità diverse.

Già Sesto Pompeo aveva fatto coniare monete dovel’effigie del dio Giano aveva i tratti del padre GneoPompeo, come augurio di pace; e potrebbe essere que-sto il precedente delle due singolari monete di Ot-taviano, la cui interpretazione risulta non facile. L’ermapotrebbe riferirsi a Iupiter Feretrius, il cui tempio in rovi-na sul Campidoglio era stato ricostruito da Ottaviano suconsiglio di Tito Pomponio Attico subito prima della

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battaglia di Azio (Nep.,  Att . 20,3): il tempio sarebbestato costruito in origine da Romolo, che vi avrebbe con-

sacrato le armi di un nemico da lui stesso ucciso ( spoliaopima). Alla vigilia della battaglia il gesto assumeva unforte significato simbolico. E l’erma fatta effigiare sullanostra moneta più o meno nello stesso periodo potreb-be essere la nuova immagine destinata al culto di GioveFeretrio in sostituzione di quella originaria. Il fascio difulmini al di sotto dell’erma è in ogni caso un attributodi Giove, anche se non manca un preciso riferimentoalla vittoria di Ottaviano, raffigurato sul verso della

seconda moneta in toga e sulla sella curulis, con la figu-ra della Vittoria nella mano: magistrato e sovrano altempo stesso.

Ci troviamo qui di fronte a una concezione pro-grammatica ricorrente: la «parentela» divina di Otta-viano è associata a una promessa di vittoria e di ritornoall’ordine. I famosi denari d’argento sembrano dunquerispecchiare, almeno quelli qui esaminati, la situazione

 precedente la battaglia decisiva. Quelle monete ebberosenza dubbio un gran numero di osservatori attenti. Adifferenza dalla nostra epoca, sommersa di stimoli visi-vi, la comparsa di nuove immagini era allora un avveni-mento. E in questo caso si trattava di un’intera serie diimmagini, belle a vedersi e coniate in metallo prezioso.Le monete ebbero una circolazione particolarmente mas-siccia e diffusa, come dimostrano gli scavi, soprattuttonella parte occidentale dell’impero.

Le immagini problematiche di Antonio.

Non curandosi dell’effetto che le sue monete e le sueinsegne potevano avere a Roma e in Italia, Marco Anto-nio facilità il compito agli avversari. Nella campagna didiffamazione che impegnava i due rivali a colpi di lette-

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re, pamphlets e pubblici discorsi, Antonio fece ricorso aisoliti topoi della vecchia maniera aristocratica, accusan-

do Ottaviano di vigliaccheria e di slealtà e rinfaccian-dogli l’oscurità delle sue origini, mentre i seguaci diOttaviano sfruttarono senza pietà il tema della sua iden-tificazione mitologica col dio Dioniso. Le parole d’ordi-ne che avevano già guidato la reazione ai misteri dioni-siaci offrivano un comodo arsenale per denunciare le fan-tasie dionisiache di Antonio come espressione di luxuriae di esotica immoralità: il genere di vita che Antonioconduceva in Oriente con Cleopatra e la sua corte era

un esempio di quella corruzione e di quella effeminatezzache stavano portando Roma verso l’abisso. Gli anzianiricordavano come il re Mitridate avesse minacciato lapotenza di Roma presentandosi come un nuovo Dioni-so alla testa dell’Oriente, mentre Ottaviano, il favoritodi Apollo, appariva come uomo d’ordine e tutore dellamoralità. Già in passato, del resto, Apollo si era schie-rato a fianco dei Romani nei momenti critici.

Dopo la rottura definitiva, gli attacchi contro Anto-nio si fecero brutali: lo accusavano di essere ormai undegenerato, un effeminato e un senza dio, sempre ubria-co e succube di Cleopatra. Come spiegare altrimenti ilfatto che un generale romano donasse i territori con-quistati ai figli della regina d’Egitto, e disponesse nel suotestamento di essere sepolto in Alessandria al fianco diCleopatra? Antonio non era più un Romano, e una guer-ra contro di lui non poteva essere una guerra civile.

La sede del comando militare diventò il suo «palazzoreale». Antonio talvolta portava alla cintola un pugnale ditipo orientale, e si abbigliava in un modo incompatibile coni costumi della sua patria. Anche in pubblico si mostravasdraiato su un divano [come Dioniso] o su un trono dora-to [come un re]. Nei dipinti e nelle statue si faceva raffi-gurare insieme a Cleopatra come Osiride o Dioniso, men-

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tre la regina era Selene o Iside. Fu soprattutto questo asuscitare l’impressione che Antonio fosse stregato da lei

(Dio. Cass., 50,5).Questa campagna di diffamazione volta a mobilita-

re l’Italia in vista della guerra ebbe naturalmente il suopunto forte nei pubblici discorsi, ma non mancano testi-monianze figurative da cui risulta, anche in questo caso,un intreccio indissolubile di parola e immagine: ed è pro-prio dal ricorso a determinate immagini che l’attaccoverbale traeva la propria efficacia.

Le statue che raffiguravano Antonio nelle vesti diDioniso si potevano vedere solo in Oriente, ma il par-tito di Ottaviano fece tutto il possibile per evocare ilfatto scandaloso, né la cosa presentava difficoltà. Dap-pertutto si potevano vedere statue di Dioniso su cuirichiamare l’attenzione, e i loro tratti femminei poteva-no suggerire facilmente l’immagine di Antonio. Rivol-gendosi a un pubblico colto, Marco Valerio Messala

Corvino fece ricorso probabilmente a un’argomentazio-ne più articolata: le sue due orazioni polemiche (perdu-te), de Antonii statuis e contra Antonii litteras nacqueroin ogni caso in questo clima, ed è probabile che attac-cassero le statue di Dioniso e il sontuoso stile «asiano»dei discorsi di Antonio come manifestazioni della stes-sa immoralità.

Un bell’esempio di questa diffamazione su basi mito-logiche è il paragone – già usato con Pericle – di Antoniocon Eracle, innamorato di Onfale e dedito al suo servizio:

Come nei dipinti si vede Onfale portar via ad Eracle la suadava e spogliarlo della pelle di leone, cosí Cleopatra spes-so disarmava Antonio e lo riduceva a un suo trastullo. Eglisi lasciava distrarre da affari importanti e dagli impegni diguerra solo per oziare e divertirsi con lei sulle spiagge diCanopo e Tafosiride (Plut., Ant . et Dem. 3,3).

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Una scena simile era raffigurata su una coppa d’ar-gento di prima epoca augustea, estremamente raffinata,

il cui modello fu messo a disposizione di un laboratoriodi ceramica aretino. La coppa d’argento è andata per-duta, ma si sono conservati in compenso diversi stampid’argilla e frammenti di coppe con lo stesso disegno.Doveva trattarsi di un oggetto piuttosto diffuso.

Eracle-Antonio è seduto, in morbide e trasparentivesti femminili, su un cocchio trainato da centauri. Sivolge con sguardo languido verso Onfale, che lo seguesu un secondo cocchio, mentre due ancelle lo assistono

con un ventaglio e un parasole: l’eroe è ormai effeminatoe la sua pelle si è fatta delicata (cfr. Hor., Epod . 9,15sg.). Ben altra fierezza è invece nell’atteggiamento diOnfale-Cleopatra, che porta la pelle di leone come copri-capo e tiene in mano la clava dell’eroe, mentre un’an-cella le porge una coppa di grandezza superiore al natu-rale: evidente allusione a Cleopatra, che i seguaci diOttaviano dipingevano come dedita al bere (Hor., Carm.

1,37 e Prop., 3,11,56). Sulla maggior parte delle raffigu-razioni gli uomini intenti a marciare dietro il cocchioportano una lancia, allusione, anche questa, ai «dorifo-ri» della guardia di Cleopatra (e secondo gli attacchi diOttaviano si trattava di soldati romani costretti a que-sto ruolo umiliante). Sull’esemplare che abbiamo ripro-dotto le guardie portano invece in spalla degli oggetti asagoma larga, forse degli enormi corni potorii destinatia placare la sete insaziabile della ebria regina.

Contro l’accusa di ubriachezza Antonio si difende-va in un’orazione, purtroppo andata perduta (ma con-servatasi fino ai primi anni dell’impero), dall’eloquentetitolo de ebrietate sua. Oltre a respingere le accuse ingiu-stificate è probabile che Antonio vi facesse anche l’elo-gio del suo dio, il Liberatore e il nemico degli affanni.Lo scritto era rivolto a un pubblico non solo in grado dileggere, ma intriso di cultura ellenistica, aperto alle

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usanze conviviali e al clima dei festini dionisiaci: nonera, a Roma, un pubblico poco numeroso né poco

agguerrito, se è vero che un simposiasta poteva farsiimmortalare col cantaro in mano.Nonostante la campagna diffamatoria, Marco Anto-

nio continuava dunque ad avere i suoi sostenitori. C’e-rano a Roma persone che

lodavano la sua vita «lussuriosa» e gaudente (tryphai), i suoieccessi e la sua autoesaltazione come un esempio di sere-na umanità e come un magnifico spettacolo di felicità e di

potere (Plut., Mor . 56 E).

I suoi ammiratori erano soprattutto nei circoli della jeunesse dorée, attratta da quello stile di vita orientale ededita, in privato, ai piaceri dell’arte e della cultura.Un’idea di quel mondo possono darcela i poetae novi ele elegie di un Tibullo o di un Properzio. In due saggiaffascinanti, Jasper Griffin ha mostrato lo stretto rap-

porto tra poesia e vita che contraddistingueva questi cir-coli intellettuali e come, in particolare, Properzio abbiavisto nella figura di Antonio il modello eroico di una vi-ta consacrata all’eros. Nell’immaginazione del poeta ilgrande generale finisce per incarnare un ideale di vitaedonistico, esplicitamente contrapposto ai valori dellavirtus romana. Quando già Ottaviano aveva ormai con-solidato il suo imperium, Properzio canta ancora in que-sto modo i piaceri di una notte d’amore:

In una sola notte ciascuno di noi può diventare un dio. Setutti desiderassero condurre una vita come questa e mettersia giacere con le membra appesantite dal vino, non ci sareb-bero piú spade crudeli, né navi da guerra, né il mare di Aziosballotterebbe gli scheletri dei nostri uomini, né Roma stre-mata dovrebbe più sciogliere nel lutto i suoi capelli per itrionfi ottenuti contro se stessa (Prop., II 15,40-47).

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Tutto questo era molto audace. Non si trattava sol-tanto di una critica alla guerra civile, ma di un vero e

proprio ideale di vita alternativo. Che questo fosseanche l’ideale di Marco Antonio e dei suoi seguaci, alpunto da pubblicizzarlo sulle monete, risulta per esem-pio da una singolare «emissione navale»: sul recto vedia-mo, l’uno di fronte all’ altro, i ritratti di Antonio e diOttavia, la sorella di Ottaviano che Antonio aveva spo-sato in prime nozze, come fosse una coppia regnanteegizia. Sul verso ritroviamo i due nelle vesti di Posido-ne e Anfitrite a spasso per il mare come una coppia di

amanti felici. Il triumviro abbraccia beatamente la sposasu un cocchio trainato da ippocampi: la scena, trattadalla poesia erotica, vale nello stesso tempo come sim-bolo del rinnovato patto politico e come un omaggio aipiaceri della vita. Ma a differenza dei poeti, liberi di pro-clamare la propria indifferenza verso la politica, gli affa-ri e la guerra, Antonio era un personaggio pubblico.Che il loro idolo avesse il coraggio di riprodurre sulle

monete l’effigie della moglie Ottavia e poi dell’amanteCleopatra, era motivo di entusiasmo per gli appassiona-ti della poesia sentimentale. Ma con queste immagini, econ dichiarazioni dello stesso tenore, Antonio si espo-neva fatalmente agli attacchi della propaganda avversa-ria. E fu proprio l’impossibilità di conciliare la menta-lità ellenistica con i valori tradizionali di Roma a deter-minare in ultima analisi il suo scacco.

La simbologia mitica era però per i contemporaneianche un canale attraverso cui esprimere la propria sim-patia per l’uno o l’altro dei due contendenti, ossia perl’uno o l’altro stile di vita. Il linguaggio figurativo– anche in oggetti di uso privato come le decorazionidomestiche, le stoviglie o i sigilli – risulta intriso di allu-sioni politico-letterarie molto più di quanto finora sisupponesse. Cosí ad esempio nelle pitture parietali delcosiddetto secondo stile gli attributi simbolici di Apol-

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lo e di Diana rimandano agli sviluppi quasi simultaneidel programma politico di Ottaviano. A questo propo-

sito rivestono un particolare interesse due rilievi di tipo-logia tardo ellenistico-imperiale e destinati a decorare lepareti di una casa: se ne sono conservate molte repliche,assegnabili per ragioni stilistiche ai primi decenni dopola morte di Cesare.

Molto simili nello sfondo architettonico e nei prin-cipi compositivi, i due rilievi differiscono invece com-pletamente per il carattere delle figure. Sul primo vedia-mo Dioniso col suo corteo orgiastico e accompagnato dal

suono dei flauti mentre entra nella casa di un suo ado-ratore. Quasi senza volerlo, vien da pensare all’ingres-so di Antonio in Efeso. Il dio ebbro si appoggia a un pic-colo satiro, mentre un secondo si affretta a sfilargli i cal-zari. Accanto al padrone di casa, che saluta il dio congesto ospitale, vediamo una donna sdraiata sulla klineche guarda con stupore l’immagine miracolosa. Lemaschere ai piedi del letto rimandano al mondo del tea-

tro. Alle spalle del dio, su un alto pilastro in forte evi-denza, un bassorilievo votivo in suo onore. Su un’altrareplica si vede invece – assai meno adatta a una scenadi privata felicità – una Vittoria su un tiro di cavalli algaloppo.

Sul secondo bassorilievo, la Vittoria ha un ruolomolto più importante. In un recinto sacro la triade apol-linea incede solennemente verso un altare, dove la Vit-toria versa del vino nella patera del dio. Sullo sfondovediamo un tempio che in altre repliche appare munitodi grandi acroteri in forma di Vittoria. Ai due lati delcorteo vediamo infine alti pilastri che sorreggono un tri-pode o una statua di Apollo in stile arcaicizzante.

Anche se l’iconografia dei due bassorilievi risale inparte a un’epoca anteriore, la crescente polarizzazioneetico-politica intorno alle figure di Apollo e Dionisocostringeva a vederli con occhi nuovi. Il significato poli-

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tico delle figure era evidente, e poco importa che lacosa fosse intenzionale o meno: un Romano dell’epoca

che avesse assistito alla spettacolare ricostruzione deltempio di Apollo non poteva guardare con occhi «neu-trali» il tempio sullo sfondo o l’immagine della Vittoria.

In contrasto col linguaggio formale ellenistico-baroc-co del corteo di Dioniso, i personaggi del rilievo apolli-neo sono raffigurati in uno stile ieratico-arcaicizzante: èquesto infatti il linguaggio che il nuovo regime dovevapresto adottare in armonia con la sua politica di rinno-vamento religioso. Il contrasto stilistico dei due bassori-

lievi sembra rispecchiare del resto l’opposta mentalità deidue schieramenti: anche in campo oratorio Antonio eraun seguace dello «stile asiano», sontuoso e immaginifico(Suet., Aug. 86,2), appunto «orientale», che i classicisti(o atticisti), e con loro lo stesso Ottaviano, considerava-no non solo esteticamente sgradevole, ma anche moral-mente corrotto. Come dirà più tardi Seneca, «talis homi-nibus fuit ratio qualis vita» (Ep. 114, 1).

Sui pregi e i difetti delle due scuole stilistiche ilmondo ellenistico aveva discusso a lungo, ma ora il pro-blema assumeva un significato politico: il fatto esteticodiventava una questione di morale e di visione delmondo. Non solo il contenuto delle immagini, ma anchelo stile veniva politicizzato. E si vedrà più tardi in chemisura la scelta «atticistica» di Ottaviano abbia condi-zionato l’immagine dell’arte augustea.

In ogni caso, dopo la vittoria di Ottaviano l’arte«patetica» dell’ellenismo non poteva avere un grandefuturo. I ritratti realistici dei grandi capi, le drammati-che scene di massa e il tumulto delle battaglie non hannospazio nell’arte ufficiale augustea, perché quello era illinguaggio della retorica «asiana», simbolo dei vizi edella corruttela orientale in cui Antonio era caduto.

Ci si può domandare a questo punto come sarebbe-ro andate le cose se la vittoria fosse toccata ad Antonio.

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Certo la monarchia si sarebbe ugualmente realizzata eanche lo sviluppo di una «cultura di massa», ma su molti

punti gli sviluppi sarebbero stati diversi, e soprattuttosarebbe stata diversa la figura dell’imperatore, più vici-na, c’è da presumere, ai modelli delle monarchie elleni-stiche (a cui Nerone cercherà di avvicinarsi più tardi).E questo avrebbe rafforzato il legame emotivo tra ilmonarca e il popolo. L’impero avrebbe assunto le carat-teristiche di un principato? Forse le spinte verso unareligione di salvezza sarebbero sfociate in un culto delsovrano. È significativo che tra le molte figure mi-

tologiche presenti sullo sfondo dell’impero non si trovimai quella di Dioniso. La figura del dio si era «brucia-ta» con la sconfitta di Antonio.

In campo artistico è facile immaginare che, se la guer-ra avesse avuto un esito diverso, il classicismo non sisarebbe imposto con tanta forza, l’arte sarebbe rimastaellenistica e l’intera cultura romana sarebbe diventatamolto più «asiana». Ma sono ovviamente discorsi oziosi.

 Antagonismo edilizio e varietà formale.

Dopo i poderosi edifici «di rappresentanza» fatticostruire da Pompeo e da Cesare, il decennio del secon-do triumvirato (42-32 a. C.) non vide nascere altrimonumenti di grandezza comparabile. E tuttavia l’at-tività degli architetti romani rimase frenetica: moltilavori furono progettati o iniziati, anche se la maggiorparte di essi furono portati a termine solo dopo la bat-taglia decisiva. E fu cosí che anche gli ex partigiani diAntonio dovettero accogliere nei propri edifici il lin-guaggio figurativo del nuovo signore.

Ottaviano fu in quegli anni il protagonista dell’atti-vità edilizia romana, anche se non mancarono altri com-mittenti a cui si deve la costruzione di templi e di edi-

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fici pubblici. Il clima di concorrenza favorí la comparsadi progetti insoliti, con una crescente abbondanza di ele-

menti decorativi e di forme ibride. Il santuario di Apol-lo e il colossale mausoleo nel Campo Marzio fatticostruire da Ottaviano superarono tuttavia per dimen-sioni e sontuosità ogni altro edificio.

Mai prima di allora Roma aveva assistito a tantitrionfi in cosí breve tempo e per motivi di cosí pocaimportanza. I trionfatori non erano, in genere, politi-camente indipendenti, e i loro edifici, finanziati col bot-tino di guerra, miravano anche a rafforzare la presenza

dei rispettivi partiti sulla scena politica della città. Maa differenza di quanto sarebbe accaduto in seguito,anche i partigiani di Ottaviano, che in virtù della suapresenza dominava la scena romana, conservarono unacerta libertà nella scelta degli edifici da costruire. I pro-getti di quegli anni offrono perciò un’interessante testi-monianza sia dei nuovi indirizzi programmatici cheerano «nell’aria», sia dell’eclettismo stilistico che pre-

cede l’imporsi del classicismo augusteo.Dopo che Cesare intraprese il restauro del tempio diQuirino anche altri personaggi incominciarono a pren-dersi cura dei templi in rovina, raccogliendo cosí l’ap-pello di Varrone. Munazio Planco, tornato in trionfo exGallia, pose mano alla ricostruzione del venerabile tem-pio di Saturno nel Foro Romano. Gaio Sosio, un altrosostenitore di Antonio, progettò dopo il suo trionfosulla Giudea (34 a. C.) un nuovo tempio di Apollo incirco. Un seguace di Ottaviano, Gaio Domizio Calvino,che nell’anno 36 era tornato trionfatore dalla Spagna,fece ricostruire la Regia del Foro distrutta poco primada un incendio. Lucio Cornificio, uomo di umili originiche aveva dato buone prove contro Sesto Pompeo ed eratornato in trionfo ex Africa nell’ anno 33, intraprese laricostruzione dell’ antico tempio di Diana sull’Aventi-no (tempio della plebs).

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Come appare da un frammento della Forma Urbis che

ne riporta la pianta, il tempio di Diana Cornificia supe-rava senz’altro in grandiosità il tempio di Apollo fattocostruire da Ottaviano, almeno per quanto riguarda l’e-dificio del tempio vero e proprio: si trattava di un tem-pio diptero, nella tradizione della Grecia orientale, conotto colonne frontali e una doppia fila di colonne lungoi lati, mentre il tempio di Apollo aveva solo sei colonnefrontali e mezze colonne laterali. Il tempio di Diana,progettato tre anni dopo quello di Apollo, tradisceinsomma la chiara volontà di superare il rivale. Ancheil nuovo tempio di Apollo fatto costruire da Gaio Sosioin circo si proponeva del resto di «battere» il tempio sulPalatino con una disposizione più fitta delle colonne euna sontuosa architettura interna.

Resta il fatto che il santuario fatto costruire da Otta-viano superava tutti gli altri templi per l’impianto sce-nografico e il suo rapporto organico con la casa del com-

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Piante in scala dei templi di Apollo di Ottaviano e di Gaio Sosio. Ilprogetto più tardo (a destra) ha caratteristiche più sontuose.

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mittente. Costruito su un’alta base, il tempio di Apollosul Palatino dominava il Circo Massimo con una solu-

zione scenografica di grande effetto molto simile ai san-tuari di Palestrina e di Tivoli. Anche la struttura d’in-sieme del complesso, con le sue varie parti distribuite supiù piani (scale, boschetto sacro, casa di Augusto, por-tico delle Danaidi, biblioteche, cortili e giardini, oltreall’area del tempio stesso) era, a Roma, senza prece-denti. È probabile che il complesso si sia sviluppatopoco per volta in un clima di forte antagonismo edilizio.La vista del tempio dal Circo Massimo e il colpo d’oc-

chio che da esso si poteva avere sull’Aventino e sulnuovo tempio di Cornificio, dovevano essere comunquequalcosa di grandioso.

Anche il rapido sviluppo dell’ornamentazione nelsenso di una crescente varietà e ricchezza di elementi for-mali si spiega con questo clima di spiccato antagonismoe la decisa volontà di emergere. Si può vedere ad esem-pio come la cornice a mensole, appena accolta nell’archi-

tettura del tempio, abbia raggiunto in pochi anni solu-zioni di estrema raffinatezza formale. Dalle sempliciforme del tempio di Saturno e della Regia si passa inpochi anni alla ricchezza ornamentale del tempio di Apol-lo Sosiano. Lo stesso vale per le basi delle colonne, i capi-telli, i fregi e le architravi. Gaio Sosio (console nel 32a. C.) aveva combattuto ad Azio dalla parte di Antonio,ma era poi passato a Ottaviano, ottenendone la grazia.La particolare sontuosità del tempio era dunque intesasoprattutto come un atto di omaggio ad Apollo e al suofavorito, e anche il corteo trionfale raffigurato nel fregionon era quello del suo costruttore, ma di Ottaviano. Laricompensa non mancò: nei ludi saeculares del 17 a. C.,Gaio Sosio, l’ex partigiano di Antonio, compariva nelcorteo dei sacerdoti di Apollo, i XV viri sacris faciundis.

Prima ancora dunque che la politica culturale diAugusto innalzasse la decorazione architettonica a prin-

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cipio ideologico (secondo la formula «il meglio agli dèi»),già negli anni trenta e nei primi anni venti l’accanita

rivalità tra i numerosi committenti contribuí ad arric-chire, in breve spazio di tempo, il vocabolario delleforme ornamentali.

Nella varietà delle soluzioni planimetriche e nel-l’avvicendarsi degli ordini corinzi, ionici e dorico-etru-schi si rispecclaiava ancora l’esuberanza formale deltardo ellenismo. Siamo ancora lontani dall’unità stilisticache sarà propria dei templi protoaugustei: unità che nonsarà il punto d’arrivo di uno sviluppo coerente, ma piut-

tosto, come vedremo, la conseguenza delle premesseideologiche adottate dagli architetti di Augusto nellacostruzione dei loro templi «esemplari».

Alla varietà degli stili architettonici corrisponde lavarietà degli orientamenti nella retorica, nella letteraturae nell’arte. Un buon esempio di questo eclettismo sonoi Monumenta Asinii Pollionis. Console nell’anno 40 a. C.,Pollione era stato un cesariano e aveva trionfato sui

Partini in Dalmazia nel 39; ritiratosi quindi dalla vitapolitica aveva scritto una cronaca degli avvenimenti deltempo non priva di elementi critici verso lo stesso Otta-viano. Uomo di buona cultura letteraria, Asinio Pollio-ne fece restaurare col bottino di guerra l’ Atrium liberta-tis ai piedi del Campidoglio: una scelta, questa, che nelclima politico di quegli anni non suonava come un gestodi lealtà verso i triumviri. Adempiendo quello che erastato un desiderio di Cesare, Pollione incluse fra i suoimonumenta anche la prima biblioteca pubblica di auto-ri greci e latini. Alle pareti della biblioteca erano appe-si i ritratti dei vari autori, e l’unico personaggio viven-te a cui toccò questo onore fu il poligrafo Terenzio Var-rone, di cui avremo ancora occasione di parlare. Labiblioteca greco-latina che anche Ottaviano farà costrui-re poco più tardi nel santuario di Apollo va intesa comeuna risposta in chiave di antagonismo.

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Alla biblioteca di Pollione era collegata una splendi-da collezione d’arte, di cui possiamo farci un’idea grazie

alla descrizione di Plinio il Vecchio. Asinio Pollioneamava l’arte ellenistica in tutte le sue forme. Vi si pote-va ammirare perfino la composizione teatrale del ToroFarnese, mentre i satiri e le menadi, i centauri, le statuedi Dioniso, le Naiadi e cosí via conferivano un caratteresereno alla raccolta, ambientata probabilmente in un giar-dino. Il tutto doveva apparire in vistoso e forse anche pia-cevole contrasto con il programma arcaicizzante eclassicheggiante di Ottaviano, la cui austera solennità

avrebbe avuto presto un esempio nel Tempio di Apollo.Come la biblioteca, anche la collezione d’arte di Asi-

nio Pollione era aperta al pubblico: «spectari monu-menta sua voluit» (Plin., Nat . hist . 36,33). Aspetto, que-sto, che poteva accordarsi coi programmi del futuro princeps assai meglio dei gusti «asiani» del collezionista.Nel teso clima politico che precedette la nuova guerracivile anche questo «monumento» dichiaratamente

impolitico doveva assumere un significato di parte: ipoeti elegiaci vi si saranno sentiti a proprio agio. Ma Asi-nio Pollione fu l’unico committente «neutrale» di que-gli anni, non a caso uno dei pochi «grandi» che nella bat-taglia decisiva di Azio non abbiano parteggiato per nes-suno dei due contendenti.

Quanto più la tensione si acuiva, tanto più demago-gica diventava l’attività edilizia dei sostenitori di Otta-viano. Statilio Tauro era tornato trionfatore ex Africa

nell’anno 34, e subito dopo aveva iniziato la costruzionedi un primo anfiteatro di pietra, di dimensioni ancoramodeste (consacrato nel 29 a. C.): sorgeva sul CampoMarzio, nelle vicinanze del Circo Flaminio, ed era desti-nato in particolare ai ludi dei gladiatori e ai combatti-menti con gli animali feroci (Dio. Cass., 51,23,1).

Statilio Tauro era uno di quegli uomini di modestaorigine che, arricchitisi enormemente come generali di

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Ottaviano, erano arrivati a costruirsi case principeschesenza tuttavia entrare veramente nell’agone politico. Il

rappresentante più significativo di questa categoria eraperò Marco Vipsanio Agrippa, che fu fino alla suamorte, avvenuta nell’anno 11 a. C., il «numero due» delregime. Nello stesso anno in cui Statilio diede inizio allacostruzione del suo anfiteatro, Agrippa rivestí a titolodimostrativo, e pur essendo già stato console, la magi-stratura edile che presiedeva tra l’altro ai lavori pubbli-ci e agli spettacoli. E secondo un concetto ormai con-solidato (Front., Aqu. 98), incominciò subito a occuparsi

con estrema energia del trascurato assetto urbano dellacittà.

Senza nulla sottrarre al tesoro dello Stato Agrippa riparòtutte le strade e gli edifici pubblici, ripulí le cloache enavigò egli stesso nel sottosuolo sulla Cloaca Massima finoal Tevere (Dio. Cass., 49,43).

L’iniziativa era di quelle destinate a restare nellamemoria: la sporcizia di intere generazioni veniva spaz-zata via in un sol colpo. Ma il maggior merito di Agrip-pa fu la sistemazione dell’approvvigionamento idrico.Dapprima fece riparare tutti gli acquedotti della città,poi ne fece costruire di nuovi. I lavori avrebbero richie-sto naturalmente molto tempo, ma l’importante era ini-ziarli: la gente doveva accorgersi che col giovane Cesa-re e la sua classe dirigente stavano davvero arrivandotempi migliori e che, mentre Antonio regalava il suo de-naro agli alessandrini, loro invece sapevano fare qualcosaper il popolo, anche in un momento cosí difficile.

Agrippa non esitò a utilizzare sistemi estremamentedemagogici. La durata dei ludi publici fu estesa a 59 gior-ni, ma non mancarono altre iniziative da «paese di Cuc-cagna»: si facevano pubbliche distribuzioni di olio e disale, le terme erano aperte tutto l’anno a uomini e

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donne, a teatro venivano gettate delle tessere tra la follacon le quali si potevano ottenere denaro o vestiti. Nel

circo venivano esposti oggetti bellissimi a completadisposizione del pubblico, e perfino dal barbiere ci sipoteva far radere a spese dello Stato. Agrippa sapevacome far divertire il popolo. Nel Circo Massimo fecesistemare su alte colonne un nuovo dispositivo per con-tare i giri nelle corse dei cavalli: significativamente, ilgrande vincitore della battaglia navale di Nauloco scel-se allo scopo dei luccicanti delfini d’argento. Tutto ciòserviva a dimostrare che anche sotto Ottaviano, e mal-

grado tutti gli appelli alla virtus e all’austerità, si potevavivere bene. Il successo fu grande (Hor., Sat . 2,3,185).I popolarissimi «delfini» venivano riprodotti persinosulle lampade.

Il Mausoleo.

Ottaviano aveva ereditato da Cesare tutta una seriedi edifici incompiuti o soltanto progettati: la basilicaGiulia, la nuova Curia, un teatro e vari altri. Egli stessoaveva iniziato a Filippi (42 a. C.) la costruzione di ungrande tempio dedicato a Marte Ultore, mentre il tem-pio del Divus Iulius nel Foro era a sua volta incompiuto.Ma volle procedere con calma, concentrando anzitutto lesue energie sui due edifici a cui era più legata la suaimmagine personale, il tempio di Apollo e il Mausoleo.

Per quale motivo Ottaviano, appena trentenne, sifece costruire un cosí grandioso monumento funebreproprio negli anni (32-28 a. C.) che videro la sua con-quista del potere assoluto? La ricerca più recente hamesso in relazione l’idea e le caratteristiche dell’edificiocol testamento di Antonio, che Ottaviano aveva illegal-mente reso pubblico. Accanto ad altre disposizioni testa-mentarie, politicamente equivoche, esso conteneva il

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desiderio – fatale per la sua immagine pubblica – di esse-re sepolto ad Alessandria insieme a Cleopatra. Nei

discorsi propagandistici dei sostenitori di Ottaviano eraquesta la prova che Antonio intendeva trasferire la capi-tale dell’impero ad Alessandria e fondare cosí una mo-narchia di stampo ellenistico. Dopo la presa di Alessan-dria, Ottaviano volle naturalmente che il cadavere diAntonio fosse sepolto nella tomba dei Tolomei: intan-to, mentre il rivale giaceva al fianco dei sovrani d’E-gitto, a Roma sorgeva, gigantesco, il monumento fune-bre del vincitore. Questa spiegazione è molto verosimi-

le, anche se considera più il momento della propagandache l’inizio effettivo dei lavori. L’atmosfera di attesa edi tensione che precedette la battaglia di Azio e la fre-nesia della vittoria subito dopo dànno comunque all’e-dificio, quasi mostruoso per forma e dimensioni, unsignificato molto chiaro. Nell’anno 28 a. C. i lavorierano cosí avanti che la parte adibita a giardino ( silvaeet ambulationes: Suet., Aug . 100) poté essere aperta al

pubblico. Dunque un monumento alla fedeltà romanadel dux Italiae? Potrebbe essere questo, in effetti, ilmovente immediato della costruzione, anche se il suopotere evocativo sembra andare molto al di là di questo.

In primo luogo voleva essere una dimostrazione dellagrandezza e della potenza del suo committente, e non atorto fu denominato fin dall’inizio «mausoleo»: espres-sione, questa, che riassume lo stupore per un edificiocolossale, di dimensioni mai viste, e paragonabile soloalla tomba di Mausolo, re della Caria, considerato unadelle sette meraviglie del mondo (IV secolo a. C.). Nep-pure le tombe dei re della Numidia erano cosí grandi. Ilconfronto col monumento funebre di Cecilia Metella,ma soprattutto con quelli dei consoli Irzio e Pansa nelCampo Marzio (43 a. C.), parla da sé.

Secondo l’usanza ellenistica l’edificio era situato inposizione dominante e panoramica tra il Tevere e la via

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Flaminia. L’imponenza della massa architettonica erapoi sottolineata dal vasto giardino che la separava dal

terreno costruito all’intorno. Benché la rovina odiernasi trovi molto al di sotto del livello stradale, il muro cilin-drico perimetrale, alto circa nove metri, ha ancora unaspetto poderoso. L’edificio era largo 87 metri e altoquasi 40, e consisteva di due masse cilindriche rivestitedi travertino oppure in marmo e separate da un terra-pieno obliquo ricoperto di alberi. Strabone lo vide quan-do era stato ultimato da poco:

Molto ragguardevole è il cosiddetto Mausoleion, un’alturaartificiale che sorge lungo il fiume sopra un alto zoccolo dimarmo bianco, ed è ricoperta fino alla cima di piante sem-preverdi. Sulla sommità c’è una statua bronzea dell’impe-ratore Augusto. Nel tumulo si trovano la sua tomba e quel-le dei suoi parenti ed amici. Dietro il tumulo vi è unboschetto sacro, molto grande e con magnifici vialetti, ein mezzo alla radura il recinto (ustrinum) dove il corpo di

Augusto fu bruciato (Strab., 5,3,8).

Per via della parte piantata ad alberi Strabone pensadunque a un tumulus, una forma che i contemporaneiassociavano alle tombe degli antichi eroi (ad esempio

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Monumenti funebri a confronto: a) Mausoleo di Mausolo ad Alicar-nasso (iv secolo a. C.); b) monumento funebre ufficiale del console A.Irzio (caduto nel 43 a. C.); c) Mausoleo di Augusto; d) Tomba di Ceci-lia Metella (raffronto schematico di J. Ganzert).

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nelle necropoli etrusche), e che utilizzavano a volteanche per i propri monumenti sepolcrali. Ma questo

cono coperto di alberi era, come nel sepolcro di CeciliaMetella, solo una parte dell’insieme. I due cilindri bian-cheggianti potevano essere interpretati, infatti, comeun poderoso basamento per la statua, che a giudicaredalle dimensioni del Mausoleo doveva essere a sua voltacolossale.

Che nella Roma dell’epoca esistessero realmente que-ste statue colossali lo dimostra una testa alta circa unmetro e mezzo, conservata in Vaticano. Sebbene le cioc-

che dei capelli siano state rifatte in età barocca, si trattacon ogni evidenza di un ritratto di Ottaviano (del primotipo). I lineamenti sottili del giovane volto ossuto sonoinconfondibili. E poiché difficilmente la testa provienedalla statua del Mausoleo, si può vedere in essa un’altrapreziosa testimonianza della sconfinata ambizione concui Ottaviano si presentava allora sulla scena politica.

Una volta ultimato, il Mausoleo appariva senza dub-

bio come un poderoso monumento alla Vittoria; anchela sua forma ricorda del resto certi «trofei» di epoca piùtarda, come quello di St. Tropez. I piccoli obelischi eret-ti ai lati dell’ingresso probabilmente dopo la vittoria sul-l’Egitto sottolineavano questo aspetto dell’edificio.

Come si è visto nel monumento dei Giulii a St-Rémy, anche l’architettura sepolcrale tardo repubblica-na conosceva queste combinazioni di elementi formalieterogenei. È comunque significativo che il Mausoleo,dalle dimensioni cosí grandiose, non possieda una formacoerente. Il clima frenetico che precedette la battagliadi Azio e la necessità di «schiacciare» i propri avversa-ri politici non erano condizioni favorevoli alla nascita diun nuovo linguaggio formale. La struttura complicata,la contaminazione eclettica di elementi formali diversie la decorazione minuziosa non garantiscono una scan-sione efficace della massa architettonica. L’ambiguità

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del vocabolario formale tradisce anche qui la scarsa chia-rezza del messaggio.

Se il nome popolare dell’edificio era «mausoleo»– un nome senz’altro felice e ricorrente anche nelle iscri-zioni – la sua denominazione ufficiale era invece tumu-lus Iuliorum: una formula anticheggiante, che sottoli-neava però con chiarezza le ambizioni dinastiche delnuovo sovrano. Le future cerimonie funebri dell’etàaugustea, a cominciare dalle esequie di Marcello (23a. C.), verranno a confermarlo.

Ottaviano non volle apparire come un monarca né

prima, né tantomeno dopo la restitutio rei publicae. Vole-va dimostrare di essere il più forte, e l’unico in grado dirimettere ordine nello Stato. Ma la situazione di anta-gonismo e la dipendenza da un linguaggio figurativo«importato» dall’esterno favorirono anche qui la com-parsa di forme ipertrofiche. Come nelle statue onorariee nei ritratti pieni di pathos alessandrino, le dimensioniambiziose di questa architettura regio-ellenistica coin-

cidevano solo in parte col contenuto del messaggio.Ma nel caso del futuro Augusto ciò non ebbe con-seguenze negative. A differenza della vecchia classe ari-stocratica, la massa della popolazione, in gran parte elle-nizzata e ben disposta verso un regime monarchico,avvertí l’efficacia di questo linguaggio, per quanto con-traddittorio e ambivalente. Alla vista del Mausoleo edella residenza in cui il giovane Cesare andò ad abitarepresso il tempio di Apollo, nell’antica città romulea,non potevano esserci dubbi su chi avrebbe retto i desti-ni di Roma. Questo retroscena architettonico, che per-durò anche dopo il 27 a. C., non va dimenticato se sivuole valutare correttamente lo «stile repubblicano», lapersonale riservatezza e la pietas del futuro princeps.

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Capitolo terzo

La grande svolta.I nuovi segni e il nuovo stile politico

Dopo la battaglia di Azio (31 a. C.) e la presa diAlessandria (30 a. C.) il vincitore fu accolto, a Orientecome a Occidente, da una valanga di onori. Il tempo del-l’incertezza era finito. Ora si sapeva chi era il capo, achi bisognava rivolgere suppliche e lodi. Il potere, aRoma, si incarnava finalmente in un uomo solo.

I sudditi fecero a gara con lo stesso Ottaviano nel-l’esaltazione della sua immagine: a Roma, dove il suostile «da diadoco» raggiunse il culmine, usava come

sigillo l’effigie di Alessandro. Agrippa progettò unPantheon per il culto del sovrano, in cui la statua del Divi filius doveva comparire accanto a quelle del padre (divi-nizzato) e degli dèi protettori (Dio. Cass., 53,27). IlSenato e il popolo lo accolsero nelle loro preghiere,inclusero il suo nome nel carmen Saliare e decretaronolibagioni in suo onore in tutti i banchetti pubblici e pri-vati (Dio. Cass., 51,29). Il gigantesco Mausoleo e iltempio di Apollo – il dio della vittoria – si avviarono acompimento.

Il Foro come palcoscenico della famiglia Giulia.

Un esempio evidente della disinvoltura con cui Otta-viano «occupò» dopo la vittoria l’intera città con i suoiedifici e le sue insegne è dato dalla trasformazione del

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Foro romano. Nell’agosto dell’anno 29 a. C. il vincito-re celebrò con grande pompa un triplice trionfo sull’Il-

liria, sull’Egitto e «per la vittoria di Azio». Nell’ambi-to dei festeggiamenti consacrò nel Foro il tempio delDivus Iulius, deciso fin dal 42 a. C., e la nuova Curia,anch’essa in costruzione da molti anni e che avrebbeassunto più tardi l’epiteto di «Giulia». Anche questi dueedifici furono decorati con trofei egizi come monumen-ti alla vittoria.

La facciata della Curia si trova riprodotta su unamoneta della serie di cui abbiamo discusso in preceden-

za: sulla sommità si vede la Vittoria alata, in equilibrio sulglobo e con la corona nella mano destra. Come acroterilaterali figurano statue di altre divinità che erano inter-venute ad Azio, muniti di un’ancora e di un remo, come

sembra di poter riconoscere sugli esemplari più nitidi.

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Foro Romano intorno al 10 d. C. Pianta schematica.

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All’interno della Curia, Ottaviano fece sistemare lastatua originale della Vittoria proveniente da Taranto e

da lui considerata come la sua patrona personale. Moltoprobabilmente era stato lui a far collocare la statua– opera del primo ellenismo – sul globo dove ora lavediamo. La dea teneva ora in mano le «armi del botti-no egizio», e cosí armata fu esposta nel punto più «stra-tegico» della sala delle riunioni, su un pilastro dietro ilseggio dei consoli. E lí, alla presenza di un tale mo-numento, si riuniva ogni giorno il Senato.

Anche il tempio di Cesare e la nuova tribuna fatta

costruire davanti ad esso furono decorati con oggetti delbottino di guerra: nella cella del tempio si trovavanoaccanto al celeberrimo quadro di Apelle raffigurante laVenere Anadiomene, che ricordava la progenitrice dellacasa Giulia. Sulla facciata della nuova tribuna furonoinvece inseriti i rostra delle navi egizie catturate, e poi-ché la nuova tribuna era di fronte alla vecchia, i rostridella battaglia di Azio venivano a trovarsi di fronte a

quelli catturati nel 338 a. C. agli abitanti di Anzio eapplicati sulla vecchia tribuna: un confronto obbligatoche equiparava senza esitazioni la vittoria di Ottavianonella guerra civile a una «storica» vittoria navale dellavecchia repubblica. Come se ciò non bastasse, il Sena-to adulante volle sottolineare lo stretto legame tra il vin-citore e il nuovo dio dedicando a Ottaviano un arcotrionfale proprio accanto al tempio di Cesare.

Accanto alla vecchia tribuna si trovavano già ilmonumento equestre di Ottaviano del 43 a. C. e lacolumna rostrata eretta per la vittoria di Nauloco. Nonmolto lontano, davanti alla basilica Giulia, furono oraerette altre quattro colonne di bronzo decorate con dei«rostri»: le aveva fatte fondere Ottaviano col bronzo deirostra presi alle navi nemiche.

Con questi monumenti fatti costruire da Ottaviano,o comunque in suo onore, il Foro assumeva un nuovo

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volto. Dovunque si volgesse lo sguardo c’era qualcosache ricordava il vincitore. Cosí, ad esempio, nel timpa-

no del nuovo tempio di Saturno, finito anch’esso dapoco, là dove ci si poteva aspettare una raffigurazionedel dio delle messi si vedevano invece dei tritoni inten-ti a soffiare nelle loro conchiglie (Macr., Sat . I 8,4): conquesti esseri marini, che tutti allora conoscevano comefigure tutelari della vittoria di Azio, il committenteMunazio Planco si univa al plauso generale. Più tardi,quando un altro arco trionfale celebrerà la vittoria suiParti, quando Tiberio avrà fatto costruire gli sfarzosi

templi marmorei dei Dioscuri e della Concordia e lo stes-so Augusto avrà intitolato alla memoria dei principiGaio e Lucio Cesare la basilica Giulia (ampliata) e losplendido portico decorato antistante la basilica Emilia,allora il cuore politico dello Stato non sarà che un unicopalcoscenico per la famiglia Giulia. I monumenti dellarepubblica saranno ormai sullo sfondo, testimoni, certo,di una storia gloriosa, ma eclissati dallo splendore del

presente.

I simboli della vittoria.

La quantità e la ricchezza dei monumenti rischia difar dimenticare quanto vi fu di problematico nelle cele-brazioni della vittoria di Azio: una vittoria in cui nonera permesso chiamare lo sconfitto per nome. Antonioera stato un grande personaggio, i suoi figli erano i nipo-ti del vincitore e vivevano nella sua casa, molti dei«nemici» uccisi erano stati cittadini romani. Poiché dun-que non era possibile raffigurare direttamente il rivalesconfitto, né era possibile d’altronde ridurre la conqui-sta del potere assoluto a una semplice vittoria sull’Egit-to, gli artisti dovettero ricorrere al linguaggio dell’a-strazione e del simbolismo. Come mostra la decorazio-

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ne del tempio di Cesare e della Curia, fu lo stesso Ot-taviano a indicare la strada con pochi simboli di facile

lettura: parti di navi e navi intere, creature marine, del-fini e la Vittoria sul globo. Immagini che avevano il van-taggio di essere facilmente riproducibili e di poter esse-re usate dappertutto anche in combinazione con altrisegni.

Fino ad allora i monumenti costruiti a Roma nonavevano avuto alcuna risonanza oltre le mura della città,e il linguaggio visivo della politica romana si era rivoltoquasi esclusivamente al pubblico della capitale. Anche

sotto Augusto non vi furono al riguardo mutamentisostanziali, ma ora tutto l’impero guardava verso Roma,e quei simboli cosí semplici e comprensibili furono rece-piti ovunque.

Cosí ad esempio i rostri di bronzo furono imitatianche in marmo, diventando in tal modo dei monu-menti autonomi con una propria decorazione figurativa.Ce ne dà una buona idea uno «sperone» di marmo con-

servato a Lipsia e proveniente come altri pezzi simili dauna città italica. Esso è decorato su entrambi i lati configure in rilievo: da una parte ancora un Tritone con unaconchiglia, dall’altra un uomo armato con una lancia(forse Agrippa) che viene incoronato da una Vittoria.Non conoscendo le circostanze del ritrovamento nonpossiamo stabilire se il rostro provenga da un monu-mento pubblico o da una tomba.

I nuovi simboli si diffusero a macchia d’olio. Comeanche la Vittoria sul globo, delfini e tritoni decorativi sitrovano presto nelle case private, nelle tombe e sullesuppellettili. Su semplici antefisse troviamo ad esempiola Vittoria in combinazione col Capricorno o dei delfiniassociati a rostri e altri simboli commemorativi. E anchemolti privati usavano i nuovi simboli come sigilli. Delfi-ni, navi e rostri compaiono a volte su anelli e paste vitreeinsieme all’effigie del vincitore, e vedremo più tardi

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come a partire da questi elementi si sia formato col tempoun vero e proprio linguaggio figurativo «privato».

Nel corso degli anni la battaglia di Azio assunse lafisionomia di un episodio mitico, evento fondatore delnuovo potere imperiale. Il puro fatto storico venne viavia idealizzato, e già subito dopo la battaglia non siesitò a paragonare la vittoria con quelle degli ateniesisulle Amazzoni e sui Persiani: nel timpano del suo nuovotempio dedicato ad Apollo, Gaio Sosio fece sistemareuna Amazzonomachia originale di epoca classica, e anco-ra nell’anno 2 a. C., in occasione della consacrazione del

Foro di Augusto, quest’ultimo fece rappresentare la bat-taglia di Salamina in un bacino artificiale realizzatoapposta per lo spettacolo (naumachia) (Dio. Cass.,55,10,7). Come nelle battaglie eroiche di Atene, anchead Azio si era combattuto contro la barbarie orientale.

Anche in seguito, dovendo celebrare nuove vittorieo altri avvenimenti di rilievo, artisti e poeti non faran-no altro che richiamarsi a questa battaglia di fonda-

mentale importanza. Cosí, ad esempio, quando la cittàdi Arausio (la provenzale Orange) fece erigere un son-tuosissimo arco di trionfo per l’imperatore e i principivittoriosi, probabilmente dopo le vittorie di Druso eTiberio sulle tribù alpine, il Senato della città fece raf-figurare negli angoli del timpano, accanto ai trofei diarmi galliche, delle grandi «nature morte» in rilievo conparti di navi di ogni genere e tritoni armati di timone.

I semplici simboli di Azio segnano l’inizio di unnuovo linguaggio figurativo di cui seguiremo nei prossi-mi capitoli lo sviluppo e la diffusione. Si trattava, inprimo luogo, di immagini semplici e univoche, soprat-tutto se confrontate con i simboli complessi delle mone-te tardorepubblicane: immagini dal significato imme-diato che non sarà difficile combinare più tardi con glialtri segni del nuovo regime.

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Il vincitore si ritira.

Dopo la vittoria di Azio ottenuta con l’aiuto di Apol-lo, sarebbe stato ovvio fare del santuario sul Palatino unmonumento al trionfo militare di Ottaviano. Ma quan-do, il 9 ottobre del 28 a. C., l’edificio fu solennementeconsacrato, erano ben diverse le immagini che facevanomostra di sé nei cortili e negli atrii del tempio. Certo nonmancavano i richiami alla vittoria: su un alto podio c’erala statua votiva di Apollo Aziaco, decorata anch’essa coirostra delle navi egizie, e sulle porte del tempio erano raf-

figurate l’uccisione delle Niobidi e la cacciata dei Gallida Delfi (Prop., II 31,12-14).

Queste immagini parlavano di Apollo come vendi-catore della hybris e venivano intese, ovviamente, comeallusioni cifrate ad Antonio, ma il vincitore rimanevadietro le quinte. Non era il magniloquente pathos cele-brativo dei sovrani ellenistici a riempire il santuario, mail linguaggio della pace e della devozione religiosa. Inve-

ce del proprio carro trionfale, Ottaviano espose unaquadriga marmorea dello scultore Lisia, con Apollo eDiana, mentre le due grandi statue di Apollo davanti altempio e nel sacrario celebravano il dio nelle vesti delcantore pacifico e non in quelle dell’arciere vendicativo(Prop., IV 6,69). Inoltre, e sempre sulla scorta di model-li classici, il dio di Azio teneva in mano una patera perle libagioni, ed era raffigurato davanti a un altare: imma-gini che suggerivano pensieri di colpa e di espiazione,come anche il ricco monumento dedicato alle Danaidi.Sacrifici e atti di pietà religiosa dovevano espiare gliorrori delle guerre civili, e Apollo era invocato qualegarante del nuovo stato di cose. Quanto a lui, il vinci-tore che fino a poco prima troneggiava sul Foro roma-no, si faceva ora protagonista di un exemplum destina-to a lasciare tracce profonde:

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Ho fatto rimuovere io stesso le mie statue, i monumentiequestri e le raffigurazioni con quadriga che erano in città,

circa ottanta in tutto, e d’argento, e con questo denaro hofatto collocare delle offerte votive d’oro nel tempio diApollo, a nome mio e di coloro che mi avevano onorato conquelle statue (Res Gestae 24).

Apprendiamo da Svetonio che quelle «offerte voti-ve» erano dei tripodi d’oro (Suet., Aug . 52): oggetti pro-babilmente di grosse dimensioni e riccamente decorati,che dovevano testimoniare in modo tangibile la devo-

zione del donatore. Che poi questa iniziativa spetta-colare permettesse a Ottaviano di eliminare tutta unaserie di statue il cui linguaggio enfatico mal si adattavaal nuovo stile e alla nuova immagine del sovrano, era uneffetto secondario certo non sgradito. Nella pittura parie-tale, nelle terrecotte architettoniche e nelle ceramichearetine di quegli anni si sono conservati riflessi evidentidi quei tripodi d’oro provenienti dal Palatino.

Sul frammento di una pittura parietale coeva sonoraffigurati addirittura due tripodi con le figure moren-ti dei figli di Niobe; su alcuni rilievi si vede, tra legambe di un tripode, l’accecamento di Polifemo ubria-co. E anche questo mito può essere riferito facilmenteai nemici sconfitti, la cui propensione all’ubriachezza erastata al centro di una vasta campagna denigratoria. I tri-podi erano poi decorati con Vittorie altri simboli, masoprattutto col motivo dei tralci rampicanti. Questo fasupporre che i grandi tripodi votivi servissero, in virtùdel doppio programma iconografico, come monumentialla vittoria e alla speranza.

Ne è un buon esempio la raffigurazione sul rivesti-mento marmoreo della porta del tempio di Apollo: dadue tripodi, fiancheggiati in origine dai grifi di Apolloe di Nemesi, dea della vendetta, salivano a destra e asinistra della porta dei tralci interminabili, che si incon-

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travano sopra la mezzeria della porta stessa. Il tipo e illuogo della raffigurazione, come anche la stretta asso-

ciazione con i tripodi, sottolineavano il carattere sim-bolico dei tralci. L’antico motivo ornamentale diventaqui simbolo di felicità e di benedizione divina: tornere-mo a occuparcene quando parleremo del motivo propa-gandistico dell’«età dell’oro».

Proprio l’esempio di questa cornice di porta mostrache il tripode andava inteso come un simbolo compren-sivo, non solo del culto di Apollo, ma più in generale dipietà religiosa e della speranza in un nuovo inizio. Che

questo simbolo fosse venerato su numerose ceramichearetine di età protoaugustea testimonia l’ampiezza dellasua diffusione.

Il tripode non fu però l’unico simbolo la cui diffu-sione sia partita dal santuario di Apollo. Anche gli incen-sieri sono un motivo che troviamo raffigurato su mone-te e riprodotto cento volte su marmo, non di rado inassociazione con temi apollinei o appartenenti comun-

que al nuovo linguaggio figurativo. Ad esempio, li tro-viamo impiegati insieme all’alloro nel fregio del tempiodi Apollo fatto costruire da Gaio Sosio, ovviamentecome segno di omaggio al dio. Più tardi essi assu-meranno, come anche i tripodi, un significato genericodi  pietas religiosa, e la gente li farà riprodurre persinosulle proprie urne cinerarie come segno di una vita timo-rata.

Un altro simbolo apollineo è il cosiddetto «betilo»,antichissimo oggetto cultuale che vediamo raffigurato suuna bella terracotta architettonica ritrovata nel tempiodi Apollo mentre due assistenti del dio lo adornano conbende e attributi apollinei. Oggetti di questo tipo, e digrosse dimensioni, dovevano essere disposti anche all’in-terno del tempio, e anche la grande «meta» del giardi-no di villa Albani era probabilmente un oggetto votivodella stessa famiglia. Con ogni probabilità nel santuario

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si trovavano, infine, anche immagini della sfinge, unaltro simbolo di Apollo salvatore.

L’attenzione con cui almeno il pubblico colto seguíl’allestimento del nuovo tempio di Apollo (Prop., II 31)dipendeva non in ultimo anche dalla quantità di operefamose dell’arte greca arcaica e classica che Ottavianovi fece collocare, nell’ambito di un progetto politico-cul-turale che si traduceva, per cosí dire, in un nuovo dogmaartistico: i simboli della devozione religiosa e della spe-ranza nel futuro venivano associati a una professione difede nell’arte greca classica e arcaica e alle implicazioni

morali che ne derivavano. Lo stile classico doveva ren-dere più intensa l’aura sacrale delle immagini, e se l’i-conografia del tempio era tutta greca, l’intero arredo deltempio appariva come un omaggio alla cultura greca. Sisarebbe presto capito che uno degli scopi del nuovosovrano era non solo di imitare il meglio dei greci, madi creare qualcosa che potesse stare alla pari con la lorocultura classica.

«Res publica restituta».

Quando le splendide celebrazioni per il trionfo dell’anno 29 a. C. furono finite, Ottaviano si trovò di fron-te a una situazione profondamente mutata. Il potereormai era completamente nelle sue mani, tutti guarda-vano verso di lui, e toccava a lui mostrare quale sareb-be stato il corso dei prossimi eventi. Sull’arco di trionfofatto costruire dal Senato per il vincitore della guerracivile c’era la scritta republica conservata, ossia «per lasalvezza dello Stato». Ottaviano aveva salvato lo Statodalla rovina, ora però doveva «ristabilirlo». A guardarela situazione con un minimo di realismo, nessuno pote-va aspettarsi che il vincitore avrebbe restituito il pote-re nelle mani del Senato, ma bisognava escogitare delle

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formule che rendessero la monarchia tollerabile, inparticolare alla nobiltà.

Una pace basata sulla forza e non sul consenso nonpoteva essere che insicura. Una parte cospicua della vec-chia classe dirigente, che aveva militato nel campoavverso, attendeva con scetticismo, e anche gli amicierano tutt’altro che ottimisti. Ancora per anni Ottavia-no avrebbe dovuto fare i conti col pericolo di un colpodi Stato, al punto che in certe occasioni si presentava inSenato con la corazza sotto la toga: la fine di Cesare eraun invito alla prudenza. La massa sentiva quel clima di

insicurezza – sentiva che la pace dipendeva dalla vita diOttaviano – e cercava di spingerlo senz’altro in dire-zione della monarchia. Ma il nuovo stile politico diOttaviano mirava alla vecchia classe dirigente nell’in-tento di indurla a collaborare. Si trattava dunque dimostrare che il vincitore di Azio era in grado di porta-re la pace anche a Roma, e che tutto ora sarebbe cam-biato. La decisione di far fondere le statue trionfali sem-

brava già indicare una svolta nella linea politica del vin-citore. Ora ci si chiedeva se Ottaviano avrebbe mante-nuto le famose promesse fatte prima di Azio e avrebberistabilito, dopo quattordici anni di regime speciale, lelegalità della vecchia res publica. Ancora nel 28 a. C. eglirevocò tutte le misure illegali degli anni precedenti – perquanto poco ciò potesse significare in concreto – e nellacelebre seduta del gennaio dell’anno successivo «resti-tuí» formalmente lo Stato «al Senato e al Popolo»:

Da allora fui il primo per considerazione e influenza(auctoritas), ma non avevo maggior potere ( potestas) di colo-ro che erano miei colleghi nelle varie magistrature (ResGestae 34).

È noto che questa frase dell’autobiografia politica diAugusto dice solo una mezza verità. Grazie a un com-

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plicato sistema di pieni poteri sempre rinnovati, di pri-vilegi onorari e di cariche vitalizie, ma soprattutto gra-

zie alle sue enormi sostanze, Augusto mantenne il pote-re, ossia in primo luogo l’esercito, saldamente nelle pro-prie mani. Una moneta coniata oltre dieci anni più tardiillustra con la massima chiarezza i rapporti tra il salva-tore e lo Stato: Augusto porge aiuto alla res publica inginocchio ai suoi piedi, nelle vesti di una provincia sot-tomessa. Il salvatore è raffigurato accanto allo Stato«restituito», che ha ora bisogno della sua guida. Anchenel 27 a. C. la maggior parte dei contemporanei vedeva

la cosa esattamente cosí, ma l’atto della restitutio fu co-munque un gesto grandioso, che permise all’aristocraziadi «salvarsi la faccia» e di collaborare in futuro colnuovo regime:

Per questa benemerenza [la restitutio] ricevetti dalSenato il nome di Augusto. Gli stipiti della mia casa furo-no decorati ufficialmente con allori, sopra la porta venne

affissa la corona civica [una corona di fronde di quercia], enella Curia Iulia venne esposto il clipeus virtutis, assegna-tomi dal Senato e dal Popolo per il mio valore, la mia cle-menza, la mia giustizia e la mia pietà, come attesta un’i-scrizione sopra lo scudo (Res Gestae 34).

I ramoscelli di alloro, la corona civica e anche il cli- peus virtutis erano semplici onorificenze, conformi all’au-stera tradizione degli antichi. Cosí voleva il nuovo stiledi Augusto, che ora amava tenersi in disparte e nei rap-porti col Senato si atteggiava a primus inter pares. Ma lanovità principale dopo il 27 a. C. fu che il compito dicelebrare il sovrano ricadde per intero sugli altri: il Sena-to e le città, le corporazioni e i singoli cittadini. Nellospazio di una notte il princeps aveva imparato la mode-stia. L’epoca delle autocelebrazioni (come nel caso delMausoleo) era finita.

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Gli onori decisi dal Senato furono una scelta insoli-tamente felice, naturalmente non senza l’approvazione

dello stesso Augusto. Chi conosceva la storia di Romapoteva trovarvi molteplici allusioni alla vecchia res publi-ca, benché il loro contenuto simbolico si prestasse anchead altre interpretazioni.

Fin dai tempi più remoti corone e ramoscelli d’allo-ro venivano usati per adornare i vincitori e le statuedella Vittoria, e l’alloro è anche l’albero di Apollo. Mala forma dei due alberelli posti sulla porta d’ingressodella casa di Augusto suggeriva ai Romani del tempo

qualcosa di completamente diverso: quella coppia dialberelli si poteva trovare fin dai tempi arcaici nei luo-ghi consacrati ai più antichi ordini sacerdotali, come laRegia e il tempio di Vesta, i collegi dei flamines e dei pon-tifices. L’alloro diffondeva dunque sulla porta di casa del princeps un alone sacrale, richiamando alla memoria unmondo di riti antichissimi.

La corona civica aveva invece una provenienza mili-

tare. Fin dall’antichità la corona di quercia veniva asse-gnata come onorificenza a chi avesse salvato un concit-tadino in battaglia, e ora invece toccava al salvatore delloStato, ob cives servatos. Ma anche la corona di querciaaveva un significato polivalente, perché la quercia èanche l’albero di Giove. E in effetti, già nello stesso anno27 a. C. furono coniate in Asia Minore delle monete inonore di Augusto dove si vede l’aquila di Giove nell’at-to di tenere la corona civica con gli artigli. L’immagine,molto espressiva, era però nata a Roma, dove la trovia-mo, ad esempio, su uno splendido cammeo: Giove stes-so rende omaggio all’«augusto» porgendogli la palmadella vittoria e appunto la corona civica.

Il caso è sintomatico: i nuovi simboli, che in unprimo tempo sembravano ricordare lo stile sobrio degliantichi, assunsero presto un significato ulteriore. Usatein combinazione con altri simboli e in occasioni parti-

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colari, come ad esempio nei templi dedicati al culto delsovrano, le onorificenze del 27 a. C. diventarono pre-

sto quasi simboli del potere monarchico. Il corso dellecose portava, insomma, alla monarchia assoluta: diecianni più tardi la Zecca conierà un’effigie di Augusto conla corona civica sul capo, come la benda regale di unsovrano ellenistico. Allo stesso periodo risalgono, pro-babilmente, anche i primi ritratti a tutto tondo con lacorona di quercia. Bastava aggiungere gemme e bendeper trasformarla anche formalmente in una specie di«corona». Già su una moneta dell’anno 13 a. C. tro-

viamo la corona civica sul capo di Giulia, la figlia diAugusto: la semplice corona onorifica per il salvatoredello Stato è ormai diventata un simbolo dinastico.

Tra i successori di Augusto la corona di quercia nonsarà altro che un’insegna del potere, riservata agli impe-ratori e del tutto avulsa dal suo contesto originario.

Beninteso, le piante di alloro e la corona di querciaerano onori decretati per Augusto, e non simboli di pote-

re che egli avesse adottato di sua iniziativa. Ma proprio inquanto segni di venerazione e di omaggio essi furono pre-sto impiegati dappertutto e nelle forme più diverse, anchesolo come motivo ornamentale. Dalle monete alla decora-zione architettonica, ai quadretti di soggetto bucolico, lefoglie appuntite e frastagliate della quercia spuntavanodovunque, adattissime al puro gioco decorativo, ma anchecariche di significato. Artisti e committenti non si stan-carono di richiamare l’attenzione sul significato «sublime»di questo motivo vegetale, ingrandendolo o collocandoloin punti particolari. Cosí, ad esempio, su un altare urba-no dedicato ai Lari troviamo una decorazione di soleghiande, e già nel fregio del tempio di Apollo Sosiano l’al-loro si distende con chiaro intento «dimostrativo» fracandelabri e bucrani. Alloro e fronde di quercia diven-tarono cosí dei predicati augustei universali, mentre il lorosignificato originario si ritirava sempre più sullo sfondo.

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Anche il clipeus virtutis fu presentato non di radocome un simbolo mistico. Questi scudi istoriati con

iscrizioni erano stati, nel mondo ellenistico, forme diomaggio molto usuali. Ma poiché in questo caso il per-sonaggio celebrato era il sovrano, le qualità celebratesullo scudo diventavano senz’altro le virtù del sovrano,tali da soddisfare nello stesso tempo le aspettative delSenato e il programma pubblicitario del principe. Su unacopia in marmo ritrovata ad Arles – in molte città dove-vano esserci questi scudi esposti pubblicamente – si èconservato il testo dell’iscrizione, il quale suona: «Vir-

tutis, clementiae, iustitiae pietatisque erga deos patriam-que». Virtus e iustitia sono virtù ovvie per un sovrano;quanto alla clementia verso i nemici sconfitti, essa erastata la grande parola d’ordine di Cesare, e nella situa-zione creatasi dopo Azio e la restitutio rei publicae nonaveva perso attualità, se si pensa alla crudeltà di Otta-viano verso i suoi primi avversari politici. Ma era la pie-tas, come vedremo, il vero baricentro della nuova poli-

tica culturale augustea, mentre la formula «verso gli dèie la patria» alludeva ovviamente all’auspicato rispettodelle antiche tradizioni dello Stato.

L’originale in oro del clipeus virtutis si trovava espo-sto nella Curia accanto alla Vittoria del vincitore diAzio: circostanza, questa, di sicuro effetto, cheinfluenzò profondamente la diffusione del nuovo sim-bolo. Lo scudo, infatti, verrà in seguito quasi sempreassociato alla dea della vittoria, diventando cosí un sim-bolo del sovrano e della sua vocazione vittoriosa. Su unmonumento augusteo, che conosciamo purtroppo soloattraverso testimonianze di epoche più tarde, lo scudoveniva descritto dalla stessa Venere progenitrice.

Ma l’aspetto forse più caratteristico del nuovo lin-guaggio figurativo è dato dalle combinazioni tra i varisegni. I simboli celebrativi del 27 a. C. vengono cosícombinati fra loro in tutte le varianti possibili, ma anche

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con altri simboli di vittoria e di salvezza, anteriori oposteriori. La successione casuale degli eventi storici

cede allora il passo a un quadro di rapporti necessari efatali. Un piccolo cammeo conservato a Vienna presen-ta i tre simboli, riferendoli all0 scenario di Azio. Il vin-citore avanza maestoso su un carro trainato da quattrocentauri marini, i quali sollevano come trofei le onori-ficenze ricevute per la restitutio rei publicae. Montati sudue globi come insegne regali, vediamo rispettivamen-te la Vittoria con la corona civica da una parte e dall’al-tra il clipeus virtutis inquadrato in una ghirlanda di quer-

cia e sorretto da capricorni. Tutti gli elementi sonointerconnessi: senza Azio non vi sarebbe stata la resti-tutio rei publicae.

A circa due anni prima risale una raffigurazione deltutto diversa. Su un cammeo conservato a Boston vedia-mo Ottaviano vittorioso (la nudità e il tridente lo con-notano come Nettuno) nell’atto di balzare su un nemi-co semisommerso dalle onde. Nell’immagine più recen-

te l’ebbrezza dinamica della scena è sostituita da unacomposizione frontale di tipo quasi araldico. Qui il vin-citore non è più raffigurato nelle vesti di un dio, ma inquelle di un generale romano vittorioso, con la toga e ilramoscello d’alloro, e le sue virtutes sono raccontate pervia simbolica. Il nuovo corso politico richiedeva unnuovo stile, che però non intende affatto dissimulare lanatura monarchica del regime; al contrario, è uno stileieratico a tradurre in immagini il nuovo potere.

Il titolo di «Augusto» e il nuovo ritratto.

Se quei simboli celebrativi, in apparenza cosí sem-plici, dovevano dispiegare solo col tempo tutta la ric-chezza dei loro significati, l’onorificenza maggiore, ossial’assegnazione dell’epiteto augustus, apparve fin dall’i-

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nizio chiarissima. In un primo tempo Ottaviano avevapensato di farsi chiamare Romolo, ma nel 27 a. C. la

cosa appariva in contrasto col nuovo quadro politico,poiché avrebbe ricordato troppo direttamente la monar-chia. Augustus era invece un aggettivo dall’ampio raggiosemantico («sublime», «venerabile», «sacro»); si pote-va associarlo ad augere («accrescere»), e in effetti nonaveva egli forse «arricchito l’impero»? Ma si potevaanche pensare alla figura dell’augur , l’interprete dei segnidel destino: gli auspici che aveva tratto all’inizio dellesue prime campagne militari lo avevano reso simile

all’optimus augur Romolo, come egli stesso ricorderà piùtardi nel timpano del tempio di Marte.

Il nome fu una scelta geniale, che avvolse la figuradi Augusto in un alone di sublimità e di prodigio fin dal-l’epoca della restitutio, «come se già allora il solo nomelo avesse divinizzato» (Flor., 2,34,66). E già allora ilSenato avrebbe voluto cambiare il nome del mese Sex-tilis in Augustus, proposta che l’interessato accettò solo

in un secondo tempo. E fu cosi che il titolo onorificoentrò anche e stabilmente nel calendario.Negli stessi anni nacque, con ogni probabilità, il

nuovo ritratto del Cesare Augusto (cosí suona la formaabbreviata del nome oggi usuale), che prese il posto delritratto giovanile «patetico», e che si distingue netta-mente da tutta la ritrattistica tardorepubblicana. Essoesprime il carattere della nuova «immagine» del sovra-no, come intendeva essere visto nella sua qualità di Augustus, identificandosi col nuovo titolo onorifico.Giacché, chiunque fossero i committenti delle singolerepliche, che a migliaia furono fatte del nuovo ritratto,si deve pensare che l’originale sia stato approvato daAugusto, se non addirittura commissionato da lui. Ed èevidente che lo scultore incaricato di realizzarlo lavoròsu indicazioni precise sia per lo stile che per il caratte-re del ritratto.

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Il nuovo ritratto si distingue dalle forme ossute eirregolari di quello giovanile per le sue proporzioni armo-

niose, ispirate a un canone classico. I tratti mossi e tesi,la boriosa aggressività del ritratto giovanile sono scom-parsi, lasciando il posto a un’espressione di calma subli-mità. Da quel patetico movimento della testa si è pas-sati a un atteggiamento di solennità distaccata. Se primai capelli ricadevano scomposti sulla fronte, le cioccheappaiono ora spartite secondo una precisa e meticolosasimmetria: una stilizzazione che rimanda chiaramente amodelli classici come quelli di Policleto. Il nuovo ritrat-

to è studiato da cima a fondo, è un «volto d’arte», incui i tratti fisiognomici si mescolano sapientemente alleforme dell’arte classica. Il volto di Augusto appare tra-dotto in una bellezza «classica», senza età.

Il nuovo ritratto fu un grande successo. Venne repli-cato in ogni parte dell’impero e diventò l’immagine«ufficiale» del  princeps, benché avesse probabilmentepoco a che fare col suo aspetto effettivo. Considerato

come ritratto ufficiale, esso esprime un’idea estrema-mente ambiziosa, giacché le forme classiche, in partico-lare quelle delle opere di Policleto, rappresentavanonella coscienza del tempo la forma suprema di raffigu-razione umana, un’immagine di perfezione e di subli-mità. Il Doriforo di Policleto è, secondo Quintiliano (5,112,20), addirittura  gravis et sanctus, connotati cherispondono esattamente all’epiteto di «sublime». Ilnuovo ritratto «mette in immagine» la qualifica di augu- stus nella pienezza dei suoi significati. L’arte definiscequi la posizione eminente del princeps nello Stato, e conun linguaggio molto più aperto delle Res Gestae dà un’i-dea di quella che Augusto chiama lí, nel tono sobrio delvecchio Senato romano, auctoritas. Abbiamo davvero ache fare con l’immagine di un sovrano: un’immaginecerto nuova, il cui linguaggio formale parlava soprattuttoal pubblico colto, ma in cui anche il cittadino qualun-

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que, ignaro di arte classica, poteva vedere qualcosa dibello e senza età, sublime e sovranamente distaccato.

Gli onori del 27 a. C. e il nuovo ritratto mostranocome abbia potuto nascere e diffondersi un nuovo reper-torio simbolico nella situazione che si era venuta a crea-re dopo la conquista del potere assoluto e il rista-blimento della res publica. Alla disinvolta autocelebra-zione degli esordi subentra un complesso gioco di fat-tori, dove il tema e gli sviluppi sono però guidati ovvia-mente dal princeps. Il suo modo di presentarsi in pub-blico e il suo nuovo stile politico svolgono qui un ruolo

non inferiore alle sue azioni effettive; quanto ai cittadini«salvati» da Augusto, essi rispondono al nuovo stile oin prima persona o attraverso i loro rappresentanti e leloro corporazioni con atti di omaggio nel solco dellatradizione, o volti invece a celebrare l’eccezionalità delsovrano. Ufficialmente il festeggiato si teneva in dispar-te, ma ben guardandosi dall’ostacolare la pubblica vene-razione. Il fatto è che Augusto può identificarsi con la

nuova immagine celebrativa (è lui a ideare il nuovoritratto), senza tuttavia muovere un dito per propagan-darla (sono gli altri a dedicargli le statue con quel ritrat-to). Non è vero, come capita spesso di leggere, che larestitutio rei publicae abbia rappresentato una «facciatarepubblicana» con cui ingannare i Romani. Già nel 27a. C. apparve chiaro che il nuovo stile del princeps nonintendeva affatto tagliare i ponti con la coscienza dellasua missione imperiale. Semplicemente, era cambiato ilsuo modo di intendere e di recitare la parte del monar-ca assoluto.

Il potere dei nuovi simboli non era dunque impostoda un comitato di propaganda, che si rivolgesse a unpubblico preciso con immagini e parole d’ordine. Laloro rapida diffusione si deve allo slancio con cui le cittàe le corporazioni, i gruppi e i privati cittadini fecero agara nell’omaggiare Augusto, nel dimostrargli lealtà e

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gratitudine. E vedremo più avanti (cap. viii) come die-tro a questa spontaneità, a questa facile diffusione delle

immagini imperiali, si celasse una precisa situazionesociale, economica e politica.Ma stiamo correndo troppo. La disponibilità ad

accettare i nuovi simboli della vittoria, del culto di Apol-lo e della restitutio rei publicae dipendeva da un’atmo-sfera di generale consenso verso il nuovo regime. Madopo la caduta di Antonio, e perlomeno a Roma, que-sto consenso non era affatto garantito: si trattava anzi-tutto di creano e di rafforzarlo.

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Capitolo quarto

Il programma di rinnovamento culturale

Anche negli anni dopo Azio lo stato d’animo dimolti Romani, soprattutto delle classi alte, rimase incli-ne al pessimismo. Uno dei principali motivi di ansietà edi sfiducia nel futuro era la diffusa sensazione che leguerre civili e gli altri disastri fossero una conseguenzadella corruzione morale. Gli slogan demagogici di unapluridecennale campagna conservatrice erano stati ormaiassimilati. Lo stesso Livio, il cui atteggiamento verso ilnuovo regime è del tutto favorevole, dipinge, all’inizio

della sua opera storiografica, un presente a fosche tinte:«Non siamo più in grado di sopportare né la nostraimmoralità, né i rimedi ad essa corrispondenti».

Sul versante opposto troviamo tutto un mondo diaspettative utopiche. Sibille, indovini e uomini politiciavevano promesso di comune accordo un’età di pace edi benessere. Come spesso accade nelle epoche di crisi,disperazione e utopia sembrano toccarsi. Il  princeps sitrovò quindi a fronteggiare un clima emotivo fatto,insieme, di profonda sfiducia e di attese esaltate. Dove-va dimostrare che non gli interessava soltanto consoli-dare il suo potere personale, ma anche e soprattutto ri-mettere ordine nello Stato e nella società. Doveva crea-re la sensazione di poter eliminare le vere cause delmale. E occorrevano allo scopo segnali convincenti.

Insieme alla restitutio rei publicae e allo sviluppo delsuo nuovo stile politico, Augusto avviò un vasto piano

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di «risanamento» della società, i cui motivi conduttorierano la rinascita religiosa e morale, il ritorno alla virtus

e alla dignità peculiare del popolo romano. Mai in pre-cedenza – e forse anche in seguito – la conquista delpotere si accompagnò a un programma di politica cul-turale cosí elaborato e a una cosí suggestiva messa inscena dei valori a cui quel programma si ispirava.

I due decenni che seguirono videro la nascita di unnuovo linguaggio visivo. Non solo cambiarono i simbo-li e le immagini politiche in senso stretto, ma anche l’a-spetto urbano di Roma, la decorazione e l’arredo delle

case, e perfino il modo di vestire della gente. È sor-prendente la rapidità con cui l’intero sistema di comu-nicazione visiva si piegò al servizio della nuova causa, ela facilità con cui gli slogan e i concetti programmaticisi fusero in un quadro unitario, senza che si possa par-lare, peraltro, di una vera strategia occulta, o di unacampagna propagandistica «concertata» per il rinnova-mento della romanità. Come era accaduto per la diffu-

sione dei nuovi simboli dopo Azio, il processo si svolsein gran parte «da sé»: era bastato che il princeps indi-casse la direzione e la perseguisse con coerenza.

Il programma, del resto, non aveva bisogno di esse-re inventato, perché c’era già. Da varie generazioni imali che affliggevano la società e lo Stato venivanodescritti e chiamati col loro nome, e ci si lamentava diessi come di mali incurabili. Il fatto inatteso, e permolti contemporanei senz’altro miracoloso, fu che ilnuovo sovrano facesse di questo eterno «lamento» l’og-getto di una precisa azione politica. Con estrema disin-voltura egli affrontò le deficienze e le aspettative da luievocate negli anni trenta come concreti compiti poli-tici, e questi gli fornirono per cosí dire una corniceentro la quale inserire la sua azione di governo. Vedre-mo nei prossimi capitoli con quale naturalezza, vor-remmo quasi dire ingenuità, egli abbia riempito tassello

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dopo tassello quella cornice, con quale sistematica coe-renza abbia passato in rassegna il cahier des doléances

dell’opposizione tardo repubblicana, fino a quando,nell’anno 17 a. C., poté annunciare l’avvento dell’«etàdell’oro».

Al primo punto c’era il programma di rinnova-mento religioso ( pietas). Vennero poi le iniziative nelcampo dell’edilizia pubblica ( publica magnificentia) e ilripristino della virtus romana nella campagna contro iParti (20 a. C.). Una volta rafforzati l’identità e l’or-goglio nazionale, le leggi per la riforma dei costumi

dovevano apparire giuste e necessarie (18 a. C.). Conquesto il programma di risanamento era concluso.Nulla poteva più opporsi al sorgere dell’età dell’oro.Era tutto semplice.

Ma all’inizio questi punti programmatici erano puredichiarazioni di intenti, che solo col tempo avrebberopotuto prendere forma in azioni politiche, edifici e mes-saggi visivi. A tale scopo il  princeps aveva bisogno di

molti collaboratori. E poiché le fonti letterarie non ciinformano sugli eventi complessi che portarono alla rea-lizzazione del suo programma culturale, dobbiamo rivol-gerci alla sfera delle immagini visive per farci un’idea deirapporti che vennero a stabilirsi tra il princeps e i suoisostenitori politici, i poeti disposti a collaborare, i gran-di architetti, gli artisti e le botteghe.

I. PIETAS.

La pietas non era soltanto una delle virtù del princepsillustrate sullo scudo: essa doveva diventare l’idea-guidadello Stato augusteo. Fin dai tempi di Catone il Vecchiol’empietà religiosa era stata additata come la causa prin-cipale della decadenza politica e morale e delle guerrefratricide che minacciavano la rovina di Roma:

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Resterai macchiato, o Romano, pur innocente, dallecolpe dei tuoi padri, finché non avrai restaurato i templi e

i santuari decaduti, con le loro statue indegnamente anne-rite dal fumo (Hor., Carm. III 6).

In questo, che doveva essere il suo primo campo d’a-zione, il «salvatore» agí in modo ordinato e sistemati-co. Già nel 29 a. C. fu annunciato un programma direstaurazione religiosa e Ottaviano si fece affidare dalSenato l’incarico di reintegrare le vecchie cariche sacer-dotali. Gli antichi culti, che in parte esistevano solo più

di nome, tornarono in vigore, gli statuti, i rituali, iparamenti e i canti liturgici furono ripristinati o, senecessario, creati ex novo. Tutte le prescrizioni religio-se vennero fatte nuovamente rispettare con grande scru-polo. Appena un anno più tardi veniva avviato, con laconsacrazione del tempio di Apollo, il grande program-ma di risanamento dei vecchi templi:

Nel mio sesto consolato [28 a. C.] ho restaurato suincarico del Senato ottantadue templi nella città, senza tra-scurarne alcuno che avesse bisogno di un intervento risa-natore (Res Gestae 20).

Da molto tempo ormai si parlava della necessità diquesti provvedimenti. La rinascita dell’interesse per lareligione degli antenati è infatti la forma in cui megliosi esprime la nostalgica ricerca di identità propria dellatarda repubblica. Il grande poligrafo e poeta TerenzioVarrone (116-27 a. C.; pretore nel 68 a. C.) avevaredatto nei sedici libri delle sue Antiquitates rerum divi-narum un compendio degli antichi culti, tentando diricostruire quanto era caduto nell’oblio. Senza l’operadi Varrone, che aveva condotto le sue ricerche conpatriottica dedizione, anzi con vero entusiasmo, il pro-gramma restaurativo di Augusto sarebbe stato inat-

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tuabile, almeno in tutta la sua ampiezza. Dirà più tardiS. Agostino:

[Varrone] temeva che gli dèi andassero in rovina non pergli attacchi nemici, ma per l’indifferenza dei cittadini. Coni suoi libri egli intedeva salvarli da questa rovina e imprimerlinella memoria dei probi. Lo considerava un merito più gran-de di quello di Metello, che aveva salvato dal fuoco glioggetti sacri delle Vestali, e di Enea, che aveva salvato iPenati da Troia in rovina (De Civ. Dei VI 2).

Erano espressioni ricche di pathos, che non manca-rono di fare effetto anche su Augusto. Varrone avevadedicato la sua opera a Cesare, invitandolo cosí ad agire,ma per quanto l’idea di un rinnovamento religioso fossenell’aria – si pensi ai templi progettati nel corso deglianni trenta – un programma sistematico in questo sensodivenne possibile solo nella mutata situazione politicasuccessiva alla battaglia di Azio.

Ancora nell’anno 32 a. C. l’incoraggiamento avevadovuto venire dall’esterno. Tito Pomponio Attico,amico e corrispondente di Cicerone e ricchissimo suo-cero di Agrippa, aveva invitato Ottaviano a ricostruireil tempio di Giove Feretrio, affinché il dux Italiae potes-se cosí confrontarsi con lo stesso Romolo, l’eroe fon-datore della città. A Ottaviano questi gesti spettacola-ri evidentemente non dispiacevano: l’anno dopo, inoccasione della dichiarazione di guerra ad Antonio eCleopatra, indossò il costume arcaico di fetialis per sca-gliare lui stesso, nel Circo Flaminio, la lancia rituale dilegno in una zona del circo che simboleggiava la terranemica e pronunciando insieme una formula di saporemagico. È probabile che in un primo tempo queste mes-sinscene abbiano suscitato piuttosto una certa ostilitàe che i Romani colti le abbiano giudicate come arcaismialla moda. Ma quando queste occasioni si moltiplicaro-

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no, quando, nel 29 a. C., il tempio di Giano venne chiu-so solennemente in segno di pace con un rituale arcai-

cizzante di cui si era persa la memoria, quando fu rin-novato l’antico augurium salutis come voto per la pro-sperità dello Stato, e quando infine, l’anno successivo,Ottaviano iniziò effettivamente il restauro di «tutti» gliantichi templi, nessuno allora poteva più dubitare cheil ritorno agli dèi fosse a questo punto una cosa seria.In tutta la città vennero aperti cantieri edilizi: il vinci-tore intendeva davvero fare in modo che sotto di lui, il«fondatore e restauratore di tutti i templi» (Liv.,

4,20,7), questi ultimi «non sentissero più la vecchiaia»(Ov., Fast . II 61).

« Aurea Templa».

Un programma cosí grandioso richiedeva una preci-sa pianificazione. Si trattava anzitutto di suddividere i

compiti: i vari progetti edilizi vennero ripartiti nei dueambiti dell’edilizia sacra e profana. La costruzione deisantuari, che Augusto considerava il suo compito pereccellenza, fu riservata alla stessa casa imperiale. Perfi-no tra i molti edifici fatti costruire da Agrippa non sitrova alcun tempio, se si eccettua il Pantheon, destina-to al culto del sovrano. Tiberio invece poté restaurare idue venerandi templi sul Foro, il tempio dei Dioscuri eil tempio della Concordia, e consacrarli rispettivameneil 6 e il 1o d. C. in qualità di erede designato.

La parola d’ordine era adesso «le spese maggiori pergli dèi». Le candide facciate dei templi, rivestite colmarmo estratto nelle nuove cave di Luni (Carrara), conle loro sontuose decorazioni talvolta dorate, diventaro-no gli emblemi dell’epoca. I migliori architetti e i miglio-ri artisti affluirono a Roma dall’Oriente, attratti dallaprospettiva di incarichi prestigiosi e di ottimi compensi.

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Se non tutti, almeno i principali fra loro ricevetterochiare direttive riguardo alla destinazione degli edifici

e alle idee ispiratrici del programma di rinnovamentoreligioso. Non si sarebbero più costruiti templi nellostile antico, in tufo, con quei pesanti tetti di legno e ledecorazioni in terracotta. Si voleva invece imitare leforme più belle e più suggestive dei templi greci, com-binandole però con alcuni elementi tradizionali del tem-pio italico-romano: l’alto podio, il pronao profondo e ilripido frontone dall’ornamentazione massiccia e son-tuosa. Quella che prima era stata la conseguenza inevi-

tabile di una rapida evoluzione culturale veniva oracanonizzata come espressione della nuova mentalità,nell’ambito di un consapevole progetto estetico.

Più delle rovine ancora visibili, le facciate di tem-pli raffigurate sui rilievi della cosiddetta  Ara Pietatis Augustae dànno una buona idea di quello che fu il tem-pio marmoreo augusteo, concepito tutto in funzionedella sua suggestiva facciata. Il podio è preceduto, di

regola, da un’ampia scalinata in cui era spesso inseritoanche l’altare. In questo modo l’altare veniva a trovar-si di fronte alla facciata e i riti potevano svolgersi suquello sfondo come su un palcoscenico teatrale: unalinea fitta di slanciate colonne corinzie. I capitelli diordine corinzio erano stati scelti per la loro forma ela-borata, e gli altri ordini architettonici finirono per spa-rire dagli edifici sacri. Ma anche i basamenti dellecolonne, le trabeazioni, i fregi, i lacunari, le sime (ibordi rialzati del tetto), tutto appare ricchissimamentedecorato. E bisogna ancora aggiungere la sontuosa orna-mentazione scultorea del timpano e della scalinata e gliacroteri.

L’ornamentazione ipertrofica che aveva contraddi-stinto il periodo dell’antagonismo poteva ora esseremessa al servizio del programma religioso: la nuova ideo-logia trovava già bell’e pronto il suo linguaggio formale.

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Una combinazione eclettica di elementi cosí eterogeneipresuppone, comunque, una scelta precisa: le splendide

facciate dei templi augustei mostrano che al  princepsnon interessava affatto un semplice recupero antiquariodella religione romana nel senso inteso da Varrone. Itempli marmorei non dovevano soltanto fornire una cor-nice solenne ai vecchi rituali, ma dovevano simboleg-giare essi stessi una nuova coscienza e una nuova iden-tità. Culto religioso e publica magnificentia andavano dipari passo.

Si trattava allora di suggerire agli artisti queste linee

programmatiche e di incanalare le loro possibilità arti-stiche nella giusta direzione. Era necessario a tale scopoun continuo scambio di idee, ed è probabile che alcunifra gli architetti e gli artisti di maggiore spicco fre-quentassero i circoli intellettuali di cui abbiamo notiziaattraverso i poeti: per esempio il gruppo di amici che siriunivano in casa di Mecenate e che, in parte, potevanovantare contatti personali con Augusto. Per i progetti

più importanti vi era probabilmente una commissionecon il compito di fissare le linee direttrici. Poiché leopere figurative presentano forti concordanze tematichecon i componimenti poetici occasionati dagli eventi diquegli anni, dobbiamo pensare che gli artisti più insigniavessero una certa confidenza con le novità letterarie ele immagini dei poeti. È vero però che il ruolo dell’artefigurativa era diverso da quello della poesia. Mentre ipoeti creavano i loro versi perlopiù in piena autonomia– lodando il sovrano e plaudendo alla sua azione poli-tica, oppure no, come nel caso delle Elegie di Tibullo –gli architetti e gli scultori, gli organizzatori delle feste edei rituali religiosi lavoravano alle dirette dipendenzedei loro committenti. Realizzavano i loro desideri, noni propri. L’antichità non conosceva la figura del «libe-ro» artista creatore.

Per quanto riguarda i restauri di templi e le nuove

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costruzioni che dipendevano direttamente da lui, Augu-sto differenziava in modo assai marcato le spese per il

terreno, i materiali e la manodopera: se è vero che tuttii templi dovevano essere restaurati, alle varie divinitàera riservato un trattamento economico assai diverso.Gli edifici più costosi non sorsero nei vecchi luoghi diculto e non furono dedicati agli antichi dèi, ma a quel-li più legati alla persona di Augusto, ossia ad Apollo sulPalatino e a Marte Ultore nel nuovo Foro di Augusto.A questi va poi aggiunto il Foro di Giulio Cesare, ulti-mato solo ora, e il tempio di Venere Genitrice. Coi loro

portici e gli edifici annessi, le ricche decorazioni e idoni votivi, e non in ultimo i rituali e le liturgie di Statoa cui fornivano lo scenario, questi templi potevano riva-leggiare con lo stesso tempio di Giove Capitolino. Nono-stante infatti le sontuose cerimonie che Augusto asse-gnava al culto statale di Giove, quest’ultimo si lamen-tava di perdere fedeli a causa sua (Suet.,  Aug . 91,2).Sotto Augusto, in effetti, il tempio di Giove non era più

l’unico centro del culto di Stato: così ad esempio i LibriSibillini erano passati all’Apollo palatino, e le cerimonieprima e dopo le campagne militari a Marte Ultore, il cuitempio era diventato il palcoscenico delle attività extra-politiche. Ma non solo i templi di Venere, di Apollo edi Marte Ultore erano strettamente legati al sovrano:anche il culto di Giove sul Campidoglio fu in effettimesso in immediato rapporto col  princeps grazie allacostruzione di un nuovo tempio.

Durante la campagna contro i Cantabri, Augustoera rimasto miracolosamente illeso da un fulmine cheaveva sfiorato la sua portantina, uccidendo soltanto loschiavo che la precedeva. Non era questo un segno dellasua elezione, dello stretto rapporto che lo univa al diodel tuono? In ogni caso fece subito costruire nelle imme-diate vicinanze del tempio di Giove un piccolo prezio-so tempio tutto di marmo dedicato a Giove Tonante,

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onorandolo delle sue frequenti visite. In una serie dimonete coniata dopo la vittoria sui Parti, l’edificio a sei

colonne con la statua di culto del dio, uno Zeus delloscultore tardoclassico Leocare, compare significativa-mente insieme alle insegne della vittoria e a un piccolotempio circolare dedicato a Marte Ultore, in cui questeultime erano custodite: il favore degli dèi sostenevaAugusto nelle sue grandi imprese.

Le somme spese per le vecchie divinità dello Stato,per esempio i Dioscuri e la Concordia sul foro Romano,non erano inferiori: qui però gli scrupoli della religio

comandavano di attenersi al vecchio luogo di co-struzione e talvolta addirittura alla pianta originaria,cosa che comportava, malgrado la ricchezza formale,limiti architettonici evidenti. Ben più modesti furonoinvece i lavori per i templi e le aediculae delle ottantadueantiche divinità rinnovati nel 28 a. C. In parte furonosoltanto riparati e le colonne di tufo ricevettero unnuovo rivestimento di stucco, conservando però i loro

arcaici tetti di legno con le terrecotte d’argilla: il lororango decaduto risaltava cosí, in forte evidenza, di fian-co al nuovi edifici marmorei dedicati agli dèi della casaimperiale.

Il princeps non degnò invece di alcuna attenzione ledivinità orientali ed egizie già allora assai popolari, e inparticolare Iside. Esse non vennero accolte nel calenda-rio della religione di Stato, e i loro culti furono anchetemporaneamente proibiti. Se in rapporto all’antica reli-gione Augusto aveva proceduto con molta disinvoltura,ampliandola, trasformandola e collegando i culti tradi-zionali alla sua persona e alla sua casa, qui invece la seve-rità gli sembrava d’obbligo. Le religioni estatiche del-l’Oriente si rivolgevano al singolo individuo, non al cit-tadino, e questo era incompatibile con i principî dellareligione di Stato. Il nuovo regime – come già in prece-denza il Senato – vedeva in questi culti un pericolo per

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la romanità e un possibile focolaio di sovversione. L’u-nica eccezione riguardava quelle divinità che già da

molto tempo si erano insediate a Roma e che erano stateaccolte per i loro meriti nel culto di Stato. Ma anche inquesto caso mantenendo le dovute distanze.

Il tempio della Magna mater (Cibele) sul palatino, ilcui culto era stato introdotto nel 205 a. C. in base a unresponso dei Libri Sibillini, fu distrutto da un incendionell’anno 3 d. C. Sebbene i poeti sottolineassero l’a-spetto nazionale della  Magna Mater , il suo legame coiTroiani e la sua qualità di protettrice della città e delle

mura, Augusto fece ricostruire l’edificio, non lontanodalla sua casa, non in marmo ma in tufo (peperino) eriservò ai liberti quel culto straniero, con le sue danzeestatiche e i suoi sacerdoti dalle lunghe chiome ( galli).D’altra parte è evidente che Augusto non restaurò tuttii templi nell’ anno 28 a. C., come egli stesso scrive nelleRes Gestae. Anche qui c’erano cose urgenti e altre menourgenti. Un tempio cosí popolare come quello della Tria-

de dionisiaca (Libero, Libera e Cerere) sull’Aventino,distrutto da un incendio proprio l’anno della battagliadi Azio, fu riconsacrato solo da Tiberio nel 17 d. C.(Dio. Cass., 50,10; Tac., Ann. II 49).

Quella sfilata di templi costruiti con criteri tantodiversi suggeriva cosí ai contemporanei il diverso rangogerarchico delle varie divinità, e a dominare incontra-stati erano i nuovi edifici di culto, fatti costruire daAugusto per i suoi dèi.

La grandezza degli edifici corrispondeva alla gran-dezza delle divinità (Ov., Fast . V 553). Ma la quantitàdi piccoli culti arcaici rifioriti all’ombra dei grandi san-tuari stabiliva un chiaro elemento di raccordo tra le reli-gione augustea e l’antica tradizione di Stato. La nuova pietas poteva misurarsi con la religiosità degli antichi,anche se lo splendore della nuova Roma superava digran lunga le memorie del passato:

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Simplicitas rudis ante fuit; nunc aurea Roma estet domiti magnas possidet orbis opes.

[una rozza semplicità regnava un tempo, ora Roma è tuttad’oro | e possiede le immense ricchezze del mondo a lei sog-getto].

(Ov., Ars am. 111-113 sg.; trad. it. di E. Barelli).

Nuovi programmi figurativi.

Il vasto programma di architettura sacra, realizzatolungo un arco di circa quarant’anni, pose agli architettie agli artisti una massa di problemi formali e organizza-tivi di cui si erano avuti pochi esempi in passato: tra que-sti il grande programma edilizio dei sovrani di Pergamo.La ricchezza dei materiali e delle decorazioni figurativepretesa dai committenti e l’estensione delle aree edifi-cabili che si trattava di allestire in breve tempo affian-cava ai problemi di organizzazione spaziale complessiva

la necessità di un ponderato programma figurativo eornamentale. Come realizzare per i lunghi porticati deltempio di Apollo e di quello di Marte una decorazioneingegnosa e al tempo stesso istruttiva, come richiedevaAugusto per i suoi edifici? Come decorare le facciate deinuovi templi in modo da coniugare l’attualità e il rife-rimento alla tradizione? Come collegare gli spazi inter-ni – le cellae – con le altre parti del programma? Biso-

gnava prendere in considerazione tutta una serie di ele-menti: le circostanze che avevano portato alla costru-zione dell’edificio, le divinità connesse a quella titolare,il rapporto fra queste divinità e il nuovo Stato e natu-ralmente il princeps.

L’effigie di una moneta raffigurante il tempio dellaConcordia può dare un’idea del fitto intreccio figurati-vo che compariva sulle facciate dei templi augustei. Sulla

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sommità del frontone vediamo tre figure erette allacciatefra loro, probabilmente la dea Concordia con due divi-

nità affini e associate al suo culto, forse Pax e Salus,oppure Securitas e Fortuna. Naturalmente anche l’ab-braccio delle tre dee aveva un preciso significato. Lefigure armate e i trofei degli acroteri laterali si ri-feriscono ad Augusto, il cui trionfo aveva occasionato laricostruzione dell’edificio. Mancano sulla moneta lefigure del timpano, di cui può darci però un’idea il grup-po simbolico di divinità nel timpano del tempio di MarteUltore. Anche sui fianchi della scalinata vediamo due

statue dal significato pregnante, un Ercole e un Mercu-rio: simboli, il primo, della sicurezza (per esempio dellestrade), e il secondo del benessere apportato dal nuovoregime.

La libertà di scelta degli artisti era però notevol-mente ridotta. Vedremo più tardi come le figure e lestorie mitiche accolte ufficialmente nel nuovo mito diStato fossero piuttosto poche, ma anche la riservatezza

del  princeps e la semplicità dei suoi simboli onorificiimponeva limiti precisi. A ciò va aggiunta poi la deci-sione di adottare un linguaggio artistico calmo e stati-co, richiamandosi, almeno agli inizi, a forme stilisticheclassiche e arcaiche. Interi ambiti della tradizionaleiconografia regale erano messi al bando per il loro carat-tere «asiano»: non troviamo cosí nell’ arte augusteanessuna scena di battaglia, né le consuete esaltazionidel sovrano con movimentate scene di massa. In con-fronto alle straordinarie possibilità che si erano offer-te, per esempio, al Maestro dell’Altare di Pergamo,l’invenzione figurativa degli artisti augustei era costret-ta a muoversi in spazi molto angusti. Dovevano limi-tarsi a combinare fra loro i vari simboli evidenziando-li in maniera suggestiva, a escogitare auliche personifi-cazioni coi rispettivi attributi, a progettare statue didivinità o solenni immagini cultuali in stile arcaiciz-

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zante o classicheggiante. L’unico spazio veramente libe-ro era l’ornamentazione, dove in effetti si sviluppò un

linguaggio ricchissimo, non vincolato ad alcun canoneo tradizione. E questo vale non solo per l’esuberantedecorazione architettonica, ma anche per tutte le partidegli arredi mobili: perfino le basi delle statue e degliex-voto appaiono decorate con vere cascate di bandeornamentali.

I visitatori dei nuovi edifici di culto si trovavano difronte a una situazione nuova: mai prima di allora ave-vano visto sfilare sotto i loro occhi delle serie figurati-

ve cosí programmatiche. I raffronti didattici, le conti-nue ripetizioni e combinazioni dei vari simboli, peraltronon numerosi, le sapienti scenografie delle facciate, dellestatue e delle immagini avviavano il Romano incolto allalettura di quei programmi.

I contenuti essenziali erano semplici, ma la cosa piùimportante era ripeterli a ogni occasione, si trattasse difeste religiose o di spettacoli teatrali, di immagini o di

parole. Anche il ricco programma del Foro di Augustosi riduceva a poche immagini. La descrizione ovidianadel nuovo edificio è come una guida ragionata alla lettu-

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Roma, Foro di Augusto, ricostruzione.

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ra, e può dare un’idea di come il grande pubblico rea-gisse a quelle sollecitazioni visive:

Poderoso è Marte e poderoso il suo tempio. Né diver-sa poteva essere la sua dimora nella città di suo figlio[Romolo]. L’edificio sarebbe degno anche delle vittorie suiGiganti. Di qui Marte [Gradivus] potrà scatenare in futu-ro guerre feroci, se un superbo ci provocherà in Oriente,o vorrà in Occidente essere soggiogato [si tratta di un’al-lusione alle cerimonie di Stato che si svolgevano nel Foroin occasione della profectio dei generali]. Il potente in armi

[Marte] guarda verso il frontone del tempio e si rallegra chegli dèi invitti occupano il posto più elevato. Agli ingressivede armi di ogni foggia provenienti da tutti i paesi con-quistati dal suo soldato [Augusto]. Da un lato vede Eneacol suo carico prezioso e intorno a lui i molti antenatidella casa Giulia; dall’altro Romolo, il figlio di Troia, conle armi del nemico da lui stesso sconfitto e le statue deigrandi romani con i titoli delle loro imprese gloriose. Sol-

leva lo sguardo verso il tempio e vi legge il nome «Augu-sto». Con questo nome il monumento gli sembra ancorapiù grande (Ov., Fast . V 553 sgg.).

Nella traduzione in prosa si perde ovviamente laforza evocativa dell’originale. Si noti comunque conquanta naturalezza l’architettura e le immagini venis-sero poste in relazione con le cerimonie di Stato, conslogan e aspettative estremamente diffusi. Per quan-to stratificati e complessi potessero essere i vari sim-boli, e per quanto élitario fosse il linguaggio formalearcaizzante e classicheggiante di alcune immagini, ilnucleo del messaggio era però comprensibile a tutti, enon era solo l’adulazione di Ovidio a vedere nelladevozione monumentale del sovrano un segno dellasua grandezza.

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Feste e rituali.

Quanto si è detto per il tempio di Marte Ultore valeper tutti gli altri: non monumenti muti ma centri di vita,soprattutto in occasione delle feste che li riguardavano,e in particolare dei dies natales. Le feste che ricordava-no la dedicazione e la fondazione dei vari santuari ven-nero sempre più associate, col passare del tempo, allegiornate commemorative del  princeps o di importantiavvenimenti della casa imperiale. I nuovi santuari veni-vano consacrati solo in questi giorni, e non poche delle

vecchie feste di dedicazione vennero fatte coinciderecon questi ultimi. Grazie ai calendari marmorei ritrovatiin varie città d’Italia, e grazie ai Fasti di Ovidio, pos-siamo farci un’idea abbastanza precisa delle festivitàcelebrate a Roma e nelle province d’Occidente nei primianni dell’impero. Si trattava in gran parte di feste com-memorative, giornate di preghiera e di ringraziamentoper la casa imperiale, mentre le festività religiose si con-

centravano soprattutto nei giorni dedicati ad Augusto:ben sette vennero fatte coincidere ad esempio col gior-no del suo compleanno. Intorno alle date importanti siraccoglievano diversi giorni di festa, che spesso diven-tavano veri e propri periodi di ferie, occupati da spet-tacoli teatrali e giochi del circo. Per i Romani dell’epo-ca il corso dell’anno era dunque scandito da un ritmoregolare di feste dinastico-religiose, piene di suggestio-ni visive. In tutte le feste religiose si svolgevano ritua-li: i sacerdoti e le vittime sacrificali si recavano al tem-pio in processione solenne.

Nelle scene di sacrificio gli artisti erano soliti met-tere in evidenza il numero prescritto, la specie e la bel-lezza degli animali sacrificati. Mentre però nelle raffi-gurazioni più antiche le vittime sono rappresentate difianco all’altare in posizione di riposo, l’attenzione sisposta ora sul momento dell’uccisione. Su un rilievo

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aureum nel 17 a. C., quando lo stesso princeps pronunciòformule magiche di esorcismo ed eseguì personalmente

strani riti sacrificali di sapore arcaico, si parlò ancora peranni. Tant’è vero che queste scene si trovano poiripresentate per lungo tempo ancora sulle monete.

Se si considera il significato centrale del sacrificio edel rituale nella vita quotidiana, non fa meraviglia cheil nuovo linguaggio figurativo sia dominato dalle allu-sioni simboliche a questa sfera. Non vi è quasi mo-numento o edificio, anche privo di carattere sacrale, lacui ornamentazione non presenti crani di animali sacri-

ficati, patere, attributi sacerdotali o ghirlande intrec-ciate a bende rituali. Questi richiami alla sfera del sacri-ficio, che in passato spesso erano serviti come elementidecorativi convenzionali, diventano ora simboli pre-gnanti della nuova pietas a cui gli artisti si sforzano diconferire un significato più intenso adottando nuovesoluzioni formali.

Ne sono un esempio particolarmente evidente i

bucrani. Mentre in precedenza si raffiguravano perlopiùvere teste di animali, ora gli artisti preferiscono la bian-ca ossatura della scatola cranica, molto più suggestiva.Sulle metope del pronao della basilica Emilia l’ossaturadel cranio appare finemente stratificata, mentre la sug-gestiva ornamentazione e la scura cavità delle orbiteaggiungono fascino all’insieme. Una benda sovradimen-sionata ne sottolinea il carattere sacrale.

Il lato interno dell’ Ara Pacis allude a un recinto sacrofatto di tavole e assi. Ma l’immagine è così realistica esuggestiva che, malgrado le pesanti ghirlande, i bucranisembrano simboli sospesi sullo sfondo vuoto, mentre lebende svolazzanti e le patere stilizzate rimandano al ritosacrificale. Qui, come anche altrove, le ghirlande con-tengono poi un messaggio ulteriore: diversi frutti, lega-ti a varie stagioni dell’anno e intrecciati fra loro vannointesi come un’immagine di pienezza e di benedizione.

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Anche le piante e gli alberi sacri alle varie divinitàvenivano raffigurati ovunque, ora con intento più serio,

ora più giocoso. Su un basamento di marmo lavorato conparticolare accuratezza vediamo distendersi i rami di unpioppo, riprodotti con una minuziosità rituale, mentreil pallido bucranio che compare sull’alto acquista, cosìisolato, una forza espressiva emblematica.

L’efficacia di questi simboli religiosi dipendeva dun-que, oltre che dalla loro onnipresenza, dallo stretto lega-me tra l’immagine e l’esperienza vissuta del rituale.Quello che oggi può apparirci, a posteriori, come pura-

mente ornamentale e decorativo, era allora una novitàil cui significato va inteso nel peculiare quadro emotivodella nuova epoca.

Le alte cariche sacerdotali.

Nelle feste dedicate agli dèi e nei riti sacrificali svol-

gevano ovviamente un ruolo centrale le confraternitereligiose riorganizzate o ripristinate da Augusto dopo il29 a. C. Si potevano riconoscere e distinguere dai lorocostumi e attributi «all’antica»: per esempio i flaminesdai cappucci di pelle con la punta di metallo (apex) e daimantelli di lana a pelo lungo, o i XV viri sacris faciundis,dediti soprattutto al culto di Apollo, dalla tunica chelasciava scoperta una spalla. Dalle poche raffigurazioniconservate sembra di poter dire che, per quanto riguar-da i costumi rituali, la restaurazione religiosa augusteasi attenne a un moderato arcaismo, non diverso da quel-lo che ispirò i minuziosi regolamenti degli alti sacerdo-ti: quanto bastava per sottolineare l’antica origine deicollegi, ma evitando ogni eccesso di formalismo (cfr.Tac., Ann. 4, 16). Ma le antiche danze cultuali torna-rono in vigore, e così gli antichi canti liturgici, ormai inparte del tutto incomprensibili.

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Il collegio su cui abbiamo più notizie è quello degliArvali. Ricostituito da Augusto, e riservato al patrizia-

to, esso era dedito in origine al servizio della dea Dia,divinità agraria della fecondità. Un paio di volte all’an-no i fratres eseguivano cerimonie di sapore arcaico, nelcorso delle quali offrivano, in una specie di banchetto,frutti e spighe, pronunciando formule solenni, e si riu-nivano nel boschetto sacro della dea, lontano dalla città.Ora però il loro compito principale consisteva nel reci-tare suppliche e nell’offrire sacrifici per la casa impe-riale. Nelle loro riunioni veniva applicato un meticolo-

so protocollo, che imponeva di eseguire con estremaprecisione anche il minimo particolare del rito. Secon-do la visione arcaica cio garantiva la validità religiosa deirituali e collegava nello stesso tempo le preghiere per ilsovrano alle traduzioni più antiche. In determinate occa-sioni i  fratres Arvales portavano in pubblico semplicicorone di spighe, allusione alla fertilità dei campi che eral’oggetto delle loro preghiere. Ma quando Augusto com-

pariva in pubblico con la corona di frater, i Romani deltempo avranno visto in lui il re sponsabile dell’approv-vigionamento alimentare della città. Era dunque giustoche gli Arvali pregassero soprattutto per lui, giacché eraAugusto che, per il grano, in ultima analisi, si dovevaringraziare.

L’accesso alle cariche sacerdotali era riservato,secondo il rango gerarchico dei vari collegi, a determi-nati gruppi sociali. Le magistrature e le confraternite piùelevate erano un privilegio della nobiltà e soprattuttodella nobiltà più antica, il patriziato. Ma Augusto pote-va anche nominare membri di sua scelta. E poiché c’e-rano molti meno posti negli alti collegi sacerdotali chein Senato, l’appartenenza a una o più di essi diventavaun segno di estrema distinzione sociale: c’erano perso-ne che si toglievano la vita per essere state private di unacarica sacerdotale o per non avervi potuto accedere

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(Tac., Ann. 6,40). Le uscite pubbliche dei collegi, e inparticolare di quelli connessi a determinati privilegi,

come i posti d’onore in teatro, mettevano continua-mente sotto gli occhi dell’intera società romana lo  sta-tus speciale dei sacerdoti (cfr. Luc., I 584 sgg.).

A conclusioni analoghe si può arrivare osservandol’ Ara Pacis Augustae, fatta erigere dal Senato tra il 13 eil 9 a. C. in onore di Augusto per il suo felice ritornodalla Gallia e dalla Spagna. Sui lati esterni del recintomarmoreo si trova raffigurata, in due lunghi rilievi, unaprocessione solenne. Due terzi del campo visivo sono

riservati ai membri dei quattro più importanti collegisacerdotali ( pontifices, augures, XV viri sacris faciundis,VII viri epulonum) e ai quattro  flamines. Augusto eAgrippa camminano accanto ai  flamines. A un primosguardo le loro figure si confondono nel fitto corteo, mamentre gli altri partecipanti alla processione portanoquasi tutti una semplice corona, essi hanno la toga tira-ta sul capo (come anche due togati sul lato nord), che li

qualifica come i due massimi sacerdoti. Solo un osser-vatore molto attento si accorge che accanto ad Augustosi affolla il maggior numero di littori, che il corteo sem-bra quasi fermarsi alla sua altezza, che gli ac-compagnatori formano un cerchio attorno a lui e cheAgusto è leggermente più alto degli altri, benché inrealtà fosse di bassa statura e portasse per questo calza-ture più alte del normale.

In armonia col nuovo spirito della religione di Stato,il sacrificio annuale alla Pax Augusta non fu affidato aun singolo collegio ma ai magistrati e a tutte le alte con-fraternite religiose, incluse le vergini Vestali (Res Gestae12). In passato le varie confraternite presiedevano sol-tanto a culti specifici, con la possibilità peraltro di eser-citare una notevole pressione politica, soprattutto conla pratica della divinazione e l’interrogazione rituale deilibri sibillini. Sotto Augusto, invece, i collegi sacerdotali

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compaiono sempre più spesso insieme: ne risultava unquadro molto scenografico, ma la funzione effettiva

dei sacerdoti si riduceva ormai alla sola preghiera. Inquesto modo gli omina (presagi) infausti erano esclusi,i libri sibillini erano ben custoditi sotto la statua del-l’Apollo palatino, e prima delle campagne militari eralo stesso princeps a trarre gli auspici (auguria), natural-mente favorevoli. Nella sua mano il lituus era qualcosadi più che un semplice contrassegno sacerdotale: essodiventava uno strumento di mediazione tra gli dèi e gliuomini.

Il capo coperto dei sacerdoti celebranti sull’ Ara Pacisindica che le cerimonie hanno già avuto inizio. Unadonna sullo sfondo invita al silenzio. Il fitto corteo difigure togate esprime un’idea di uguaglianza e di unità.Lo stile della raffigurazione – ispirato a modelli classicinella struttura compositiva e nella qualità del rilievo –trasferisce l’avvenimento in una sfera atemporale. Nontutti i personaggi raffigurati erano effettivamente a

Roma il giorno della cerimonia: al Senato, che era ilcommittente, non interessava neppure che i singoli par-tecipanti fossero riconoscibili, ma che risultasse conchiarezza l’articolazione dei vari gruppi sacerdotali.

Significativamente solo i personaggi più importantisono raffigurati con precisione ritrattistica: gli altrihanno volti «ideali» e perciò anonima. Le figure del cor-teo rappresentano la funzione e non il singolo, occasio-nale funzionario. Rivalità e ambizioni personali hannoceduto il passo al dovere comune, al servizio di unanuova  pietas che cancella i problemi di gerarchia e dipotere. L’attimo storico è diventato l’immagine di unordine eterno.

Il corteo dei sacerdoti è seguito su entrambi i lati delrecinto marmoreo dai membri della famiglia imperale,anche loro incoronati e con dei ramoscelli d’alloro inmano. Dalla continuità della famiglia del princeps dipen-

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de infatti la prosperità dello Stato: «Affinché la casa chegarantisce la pace duri in eterno», cantavano i sacerdo-

ti (Ov., Fast . I 721). Le donne indossano semplici vesti,drappeggiate in parte alla maniera delle statue classiche.In mezzo alle donne compare Druso, che in quel mo-mento si trovava nel Nord con le sue truppe, riconosci-bile per il costume militare. Ma in primo piano vedia-mo i bambini della famiglia imperiale, i garanti del futu-ro, attaccati alle vesti dei genitori. L’allineamento, inapparenza sciolto, nasconde in realtà un ordine preciso:per quanto è possibile di identificarli, figli e genitori

della famiglia imperiale sono messi in fila secondo illoro grado di vicinanza al trono.

La processione rituale dell’ Ara Pacis era una proie-zione ideale estremamente consapevole del nuovoStato, voluta beninteso non da Augusto ma dal Sena-to, in onore suo e del nuovo regime. Abbiamo quidavanti agli occhi quasi un’immagine ufficiale dellanuova classe dirigente ai suoi vertici, e possiamo vede-

re fino a che punto essa si identificasse, almeno all’e-sterno, col nuovo stato di cose. Quanto vi sia in que-sta scena di costruito e quanto di taciuto, fino a chepunto l’artificiosità dello stile tradisca una mascheratao un’immagine di desiderio, è questione che lasciamoaperta. Ma per quanto la realtà politica appaia quitrasfigurata, è probabile che a molti contemporaneil’immagine sembrasse meno astratta che a noi. Perchéil popolo di Roma aveva un’esperienza continua di queicortei rituali, e aveva imparato anno dopo anno che lacosa più importante non era il potere politico o l’atti-vità del Senato, e nemmeno il successo militare, ma lapietà verso gli dei e, collegato a questa, il benesseredella famiglia imperiale.

La stessa concezione si ritrova in un fregio a «natu-ra morta», proveniente da un edificio pubblico nellazona del Portico di Ottavia. Mentre sull’ Ara Pacis sono

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raffigurati i membri dell’alto clero, qui vediamo i lorosimboli sotto forma di attributi e oggetti rituali: il li-

tuus (scettro ricurvo) degli augures, il cappuccio con l’a- pex dei flamines, l’acerra (cassetta per l’incenso) e l’anfo-ra per le libagioni col ramoscello d’alloro dei XV viri sacris faciundis, il simpuvium (mestolo) dei pontefices, la patera (vassoio sacrificale) dei VII viri epulonum. Ven-gono poi gli oggetti liturgici (il fazzoletto, mappa, e l’a-spersorio, aspergillum), gli strumenti professionali delsacrificio (la scure, il pugnale, il coltello) e, in partico-lare evidenza, bucrani e candelabri. Oltre a essere

nuovo in sé, questo assortimento di oggetti sacri sitrova in una strana compagnia: parti della poppa e dellaprua di una nave, timoni e ancore, con chiara allusionealla vittoria di Azio e più ancora ai vincitori (a cui sirichiamano le teste di divinità e la lupa capitolina). Ilsenso della composizione è chiarissimo: la vittoria diAzio come conseguenza della devozione religiosa. Lebende sacre fluttuano un po’ dovunque sopra le armi e

gli oggetti di culto,  pietas e virtus sono i fondamentidello Stato rinnovato.Il fregio è un buon esempio di come sapienza com-

positiva e qualità dell’esecuzione potessero mitigare lamonotonia del messaggio. Proprio perché ripetuti e rea-lizzati in forme esteticamente comprensibili i nuovi sim-boli poterono diffondersi su vasta scala e imprimersiefficacemente nella memoria collettiva.

Sacerdozio e «status» sociale.

Il  princeps era egli stesso il primo e più efficaceesempio di devozione: era membro dei più importan-ti collegi sacerdotali, ed era di fatto il sommo sacer-dote già molto tempo prima di rivestire la carica di pontifex maximus, nel 12 a. C. Così risulta dall’effigie

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così oggetto della stessa venerazione che le famiglie tri-butavano da sempre al  genius del  pater familias. E nel-

l’anno 2 a. C. – Augusto aveva quasi sessantun anni –il Senato e il popolo gli conferirono solennemente iltitolo di pater patriae, in occasione della consacrazionedel Foro di Augusto (Res Gestae 35).

L’esempio di Augusto fece scuola. Principi e aristo-cratici, notabili delle città e liberti, e perfino schiavi difama adottarono lo schema iconografico del «sacrifi-cante» per i propri ritratti celebrativi. Ovunque vi fossebisogno di un modello, si imitava l’Imperatore e la sua

famiglia.Il nuovo stile di potere incominciò a dare i suoi frut-

ti. La piramide sociale possiede ora un vertice ben visi-bile dalla totalità dei cittadini: l’imperatore e la suafamiglia «dànno il tono» in ogni ambito della vita socia-le, dai costumi al taglio dei capelli. E questo non soloper le classi alte ma per l’intera società romana.

I cittadini più zelanti di ogni ceto incominciarono a

contendersi le cariche religiose: le varie funzioni, vecchiee nuove, legate al culto offrivano a tutti la possibilità dimettersi in mostra e di identificarsi col nuovo Stato. Il princeps interveniva come moderatore e distribuiva levarie cariche: così ad esempio fece assegnare agli equitesil culto antico ma ormai insignificante dei Lupercali.

Il rituale, destinato in origine alla protezione e allacrescita delle greggi, comportava l’uccisione di un cane,mentre i sacerdoti (luperci), vestiti di un semplice peri-zoma, eseguivano una danza saltellante intorno al Pala-tino e le donne venivano colpite con una frusta fatta dipelle di capra. È facile immaginare che questo arcaicorituale di fecondità poteva avere un effetto comico nelloscenario della metropoli, e per questo motivo Augustoproibì che gli adolescenti assistessero al rito. Ma anchein questo caso si trattava di una carica ambita: di recen-te sono state ritrovate statue onorarie di luperci di età

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nel momento del sacrificio: al suono di un flauto versa-no insieme le loro patere sull’altare. Il toro e il verro

sono lì pronti per il sacrificio, ma lo scultore li ha rim-piccioliti in maniera quasi grottesca per dare maggiorrisalto ai sacerdoti. La presenza di un littore sottolineail rango quasi ufficiale del magister , che nell’eserciziodelle sue funzioni cultuali aveva infatti diritto a un assi-stente, mentre il pretore ne aveva sei e il princeps (comeanche il console) ben dodici.

Il ruolo di minister era invece ricoperto da schiaviparticolarmente fidati e meritevoli, e anche per loro si

trattava di un incarico ufficiale, che conferiva al «mini-stro» un prestigio sociale tangibile e riconosciuto datutti, per esempio nelle processioni delle feste per l’Im-peratore. Anch’essi pertanto offrivano ex-voto ed alta-ri nelle cappelle dedicate ai Lari: su uno di questi altarisi vedono tre ministri, di statura modesta e in abito ser-vile, mentre ricevono con gesto riverente le statuettecultuali dei Lari dalle mani di un personaggio togato di

statura decisamente più alta. Probabilmente si trattaniente meno che dello stesso Augusto, accompagnato daiprincipi Gaio e Lucio Cesare: il fatto che si vedano solole due statuette dei Lari e non quella del genius Augustisembra confermare questa interpretazione (è difficilepensare che Augusto offra la statuetta del proprio genius!)

Anche gli schiavi possono dunque prendere parte allanuova pietas, e anche il loro abito servile assume, nel ser-vizio sacro, un significato socialmente prestigioso.

Fino a che punto la pietas condizionasse, in chiavedimostrativa e pedagogica, i rapporti tra il princeps e la plebs, si può vedere dalle sue reazioni agli onori che glivenivano assegnati e al culto del suo «genio» nelle cap-pelle dei Lari. Augusto ricambiava quegli atti di omag-gio con sempre nuovi gesti di devozione: dopo averfatto fondere nel 28 a. C. le sue statue d’argento e aver-

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le fatte sostituire coi tripodi d’oro per il culto di Apol-lo, superò ogni altro cittadino nell’offerta di doni voti-

vi e immagini sacre. Si sviluppò così un sistema di donie contraccambi di sapore senz’altro arcaicizzante e chemettevano capo a sempre nuove immagini.

Ne sono un buon esempio i doni per l’anno nuovo:i rappresentanti dei tre ceti (ordines) gettavano ognianno una moneta nel Lacus Curtius sul Foro, che inepoca augustea era ormai un bacino asciutto. Quel ge-sto rappresentava un voto sempre rinnovato per la salu-te dell’Imperatore, e ad esso si accompagnava, il primo

di gennaio, un regalo per l’anno nuovo, anche quandol’Imperatore era assente. Augusto lo utilizzava per com-prare le immagini sacre più preziose, che faceva poisistemare a turno (vicatim) nei santuari dei diversi rionidella città: così ad esempio le statue dell’ Apollo Sanda-larius e dello Jupiter Tragoedus (Suet., Aug . 57). Alcunibasamenti di queste statue si sono conservati e attesta-no ex-voto del princeps per Mercurio, Vulcano e i Lares

 publici. Si può supporre che immagini di questo tipo sitrovassero ugualmente nei pubblici santuari, nei tem-pietti rionali e anche nei luoghi di culto delle cor-porazioni artigiane.

Nel Museo Capitolino si trova un altare votivo augu-steo in cui è raffigurata probabilmente l’offerta di unastatua di Minerva ai ministri di un collegio di carpentierida parte dello stesso Augusto. Il princeps supera per unbuon terzo di statura i ministri raffigurati nel loro abitoservile; sul lato opposto dell’altare uno dei magistri offreun sacrificio davanti alla stessa statua di Minerva. Sullato breve si vedono i loro strumenti del mestiere, seghee scuri ma anche elmi, poiché i membri del collegioerano anche vigili del fuoco. Tra queste insegneprofessionali, ma più grandi e in forte evidenza, si tro-vano poi vari oggetti di culto: un lituus, un galerus conl’apex e un grosso coltello sacrificale. Come nel caso del

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fregio esaminato in precedenza essi non vanno riferiti aun rito preciso, né hanno a che fare col culto di Miner-

va a cui il collegio era consacrato, ma vanno intesi comesimboli generici di devozione: anche il lavoro degli arti-giani acquista il suo valore solo all’interno di una cor-nice religiosa.

L’esempio è tipico. Partecipe della nuova mentalitàreligiosa, una corporazione di artigiani istituisce unnuovo culto collegiale. Il princeps offre nel piccolo san-tuario l’immagine sacra o una statua votiva. I magistri oministri rispondono dedicando un altare votivo o anche

un’altra statua di divinità. In questo caso si trattavaspesso di personificazioni, come Concordia, Pax, Securi-tas, ecc. Quasi sempre, poi, queste divinità sono accom-pagnate dall’epiteto augustus o augusta in chiaro segno diomaggio al princeps. Di un certo N. Lucius Hermeros,che fu più volte magister di un santuario dei Lari, cono-sciamo ad esempio ben tre ex-voto dedicati rispettiva-mente a Venus Augusta, a Mercurius Augustus e ad Erco-

le. Lo scambio di oggetti sacri consentiva dunque unrapporto diretto tra il sovrano e la plebs, a cui potevanoprendere parte anche i personaggi emergenti dei cetiinferiori e perfino gli schiavi.

In precedenza i culti rionali e collegiali erano statinon di rado focolai di inquietudine sociale, e ancora nel22 a. C. Augusto aveva reagito con misure restrittive.Ma, a partire dall’anno 7 a. C., i nuovi centri di cultodiventano punti fermi nel rapporto fra il sovrano e ilpopolo: un rapporto condizionato dalle forme della reli-gione. I luoghi consacrati ai culti compitali, nei crocic-chi delle strade e sulle piazze dei singoli quartieri, sonoal centro della vita sociale, mentre i rituali e le festeforniscono una cornice adeguata alla suggestione delleimmagini e dei simboli.

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2. PUBLICA MAGNIFICENTIA.

Ho notato che non ti curi soltanto del bene comune edell’amministrazione dello Stato, ma anche della funzio-nalità dei pubblici edifici, affinché grazie a te lo Stato nonsi arricchisca solo di nuove province, ma anche di costru-zioni pubbliche la cui dignità e grandiosità corrisponda allamaestà dell’Impero. [...] Poiché mi sento obbligato versodi te per tale beneficio, che mi libera per sempre dal timo-re del bisogno, ho deciso di scrivere per te questi libri. Hovisto infatti quanto hai già costruito, quanto sta tuttora

costruendo e quanto intendi fare anche in futuro affinchél’edilizia pubblica e privata testimoni ai posteri la gran-dezza delle tue azioni (Vitruvio, Prefazione ai dieci libriDe architectura).

«Il popolo romano detesta il lusso privato, ma amala sontuosità nei pubblici edifici [ publica magnificen-tia]»: così si era espresso Cicerone evocando il suo idea-

le di antica moralità ( Mur . 76), quando i Romani ave-vano ormai sotto gli occhi l’esatto contrario, ossia un’im-magine pubblica piuttosto misera a cui faceva riscontroun’eccessiva ostentazione di ricchezza privata. Gli slo-gan degli intellettuali tardo repubblicani davano al pro-blema un forte colore emotivo. Il princeps doveva inter-venire, ma come? Tutti vedevano che nello Stato «rista-bilito» da Augusto erano solo cambiati i proprietari deigrandi palazzi, coi loro atrii immensi e i vasti parchi egiardini sui colli della città, che continuavano a chia-marsi col nome eufemistico e arcaicizzante di horti. Iproprietari di quei palazzi, dal tenore di vita principe-sco – c’erano dame i cui gioielli valevano molti milionidi sesterzi – erano naturalmente i principali collabora-tori di Augusto, arricchitisi al suo servizio, e un drasti-co mutamento del sistema di proprietà non era immagi-nabile.

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anche alla plebs piaceri che un tempo erano riservati airicchi. Come i «portici» più antichi, anche la Porticus

Liviae serviva a dar lustro ai suoi fondatori, ma lo stileadesso era diverso, si era fatto esemplare e pedagogi-co: all’interno del complesso Livia dedicò un santua-rio alla Concordia, che venne significativamente con-sacrato nel giorno della  Mater Matuta. A differenzadella dea venerata sul Foro, la Concordia era qui la pro-tettrice della felicità domestica, e la famiglia imperia-le si proponeva quale modello di una armoniosa vitaconiugale. In epoca più tarda le giovani coppie di sposi

offriranno sacrifici davanti al gruppo statuario dellacoppia imperiale, raffigurata come Marte e Venere nel-l’atto di abbracciarsi.

Ville per il popolo.

Abbellí talmente l’Urbe, priva ancora della grandiosità

che la maestà dell’impero richiedeva ed esposta a incendi einondazioni, che poté giustamente gloriarsi di aver trovatouna città di mattoni e di lascarla di marmo (Suet., Aug . 28).

Oltre ai nuovi templi furono soprattutto i grandicomplessi ricreativi quelli che diedero a Roma un nuovovolto. Mentre Augusto riservò a se stesso la costruzio-ne degli edifici sacri, in questo campo si fece coadiuvarenon solo dai membri della sua famiglia ma anche dagliamici. Il più importante tra i suoi collaboratori fu Agrip-pa, la cui ferrea lealtà verso Augusto lo fece valere anchequi come il «numero due» del regime. Egli mise il suogenio organizzativo le sue grandiose sostanze al servizioesclusivo della città e del suo rinnovamento urbanisti-co. Negli anni dopo Azio fece in modo che le promessedemagogiche del 33 a. C. venissero mantenute una dopol’altra. Anzitutto provvide alla riorganizzazione del-

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l’approvvigionamento idrico: attraverso gli acquedotti,in parte riparati e in parte costruiti ex novo, grandiose

masse d’acqua affluirono nella città, così da riempire,attraverso centotrenta castelli di distribuzione, le sette-cento vasche di raccolta fatte costruire, secondo Plinio,proprio in quegli anni (Plin., Nat . hist . XXXVI 121;XXXI 51; Front., Aqu. 9). Le poderose arcate degli ac-quedotti davano al paesaggio un’impronta inconfondi-bile e ricordavano ovunque, insieme alle centinaia dinuove fontane, la presenza ristoratrice dell’acqua cor-rente nell’angustia afosa della grande città. Natural-

mente i ricchi non persero l’occasione per farsi costrui-re allacciamenti per uso privato.

La nuova Aqua virgo, inaugurata nel 19 a. C., servi-va soprattutto all’alimentazione delle terme fattecostruire da Agrippa nella zona occidentale del CampoMarzio vicino al Pantheon: si trattava delle prime termepubbliche di Roma. Confrontati con gli stabilimenti ter-mali di epoca posteriore, i locali per l’acqua e l’aria

calda appaiono ancora modesti, ma con i suoi ampi giar-dini, il laghetto artificiale (Stagnum Agrippae) adibito apiscina (natatio) e gli impianti sportivi il complesso ricor-dava da vicino i ginnasi delle città greche. Che lasomiglianza fosse voluta, malgrado la diversa denomi-nazione, risulta dal fatto che Agrippa fece collocare l’ A- poxyomenos di Lisippo davanti all’edificio principale,quasi a simbolo dell’intero complesso. Un’altra lacunanell’immagine urbana era colmata.

Le terme occupavano la parte centrale dei Monumen-ta Agrippae: verso est confinavano con i Saepta Iulia, versonord col Pantheon. A est, oltre la Via Lata (oggi Via delCorso), c’era il Campus Agrippae, un parco celebre per lesue belle piante di alloro, come pure la Porticus Vipsania,che prendeva il nome dalla sorella di Agrippa; a ovest,insieme alla villa di Agrippa, scuderie e maneggi per icavalli. Agrippa poté costruire tutti questi edifici e

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impianti su terreni di sua proprietà: terreni che in granparte erano appartenuti a Pompeo e ad Antonio.

La gigantesca area ricreativa davanti alle mura sipresentava come una sorta di «villa» a uso del popolo,che poteva godervi in ogni caso i piaceri proverbialidelle grandi ville: parchi, sentieri lungo i corsi d’acqua(euripus), bagni caldi, impianti sportivi e una quantità diopere dell’arte greca sparse dappertutto. Del resto,

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Roma, il Campo Marzio all’epoca di Augusto.

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Agrippa aveva abbellito con statue e colonne (si pensialla celebre Hydra sul Foro) anche i suoi acquedotti e le

fontane (Plin., Nat . hist . XXXVI 121), mettendo così inpratica il discorso «sulla necessità di esporre in pubbli-co tutte le immagini e le statue (greche)», che lui stessoaveva tenuto nel 33 a. C. Plinio, che conosceva queldiscorso, lo definisce «grandioso e degno del miglior cit-tadino», e lo mette in rapporto con gli exilia subiti inpassato dalle opere d’arte nelle ville dei ricchi (Plin.,Nat . hist . XXXV 26). Su questo punto gli intellettualitardo repubblicani avevano molto insistito, e il princeps

con i suoi collaboratori rispose con gesti ad effetto. Diuna espropriazione sistematica delle opere d’arte inmano ai privati non si poteva naturalmente parlare, masi potevano intraprendere iniziative demagogiche digrande efficacia. E l’aspetto decisivo non era la quan-tità di opere d’arte rese ora accessibili al grande pub-blico, ma il fatto che la cosa avvenisse secondo un pianopreciso. Il popolo si sentiva il vero proprietario di quel-

le celebrità: lo si sarebbe visto più tardi, quando Tibe-rio tenterà di far portare nel suo palazzo l’ Apoxyomenosdi Lisippo e la plebe si opporrà con successo al colpo dimano (Plin., Nat . hist . XXXIV 62).

Al centro degli edifici di Agrippa sorgeva il vecchioPantheon, precursore di quello adrianeo, che anche qui,nel cuore dell’area dedicata al tempo libero, richiamaval’attenzione sulla figura di Augusto. Secondo il costumeellenistico il Pantheon era infatti destinato al culto delsovrano e dei suoi dèi tutelari, e in origine la statua diAugusto doveva venire collocata proprio nel centro delsacrario, fra quelle delle sue divinità tutelari. Confor-memente al nuovo stile, dopo la svolta del 27 a. C.Augusto volle che la statua venisse allontanata dallacella del tempio e collocata nel pronao, accanto alla sta-tua di Agrippa (Dio. Cass., 53,27,2). Ma il gesto nonmodificò in nulla la funzione dell’edificio. Il frontone

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del tempio, come anche quello del Pantheon posteriore,era probabilmente decorato con una corona civica sor-

retta dall’aquila di Giove.Proprio accanto al Pantheon sorgevano i Saepta, lacostruzione che conteneva la più vasta area non edificatadella città: si trattava di un ambiente destinato agli scru-tini elettorali della  plebs, secondo un progetto già diCesare, che Agrippa realizzò ora nell’ambito del suopiano urbanistico. L’area era delimitata da due portica-ti marmorei lunghi 300 metri e da un edificio largo 95metri per lo spoglio dei voti (diribitorium).

L’enorme edificio veniva insomma a simboleggiarela dignità politica della plebe proprio quando il popoloaveva ormai sempre meno occasioni di andare alle urne(e tra breve non ne avrebbe più avuta nessuna). Inrealtà, i Saepta sarebbero serviti soprattutto ai combat-timenti dei gladiatori e alle naumachie, ma venivano uti-lizzati volentieri anche per dare una cornice spettacola-re agli incontri fra il popolo e la casa imperiale: fu qui,

ad esempio, che Tiberio venne accolto con entusiasmodopo le sue vittorie sugli Illiri.Come molti altri portici, i Saepta erano usati da mer-

canti di ogni genere come un grande bazar, ed eranopieni di sfaccendati in tutte le ore del giorno. Anche quisi potevano vedere celebri opere d’arte, tra cui due grup-pi ellenistici fatti collocare da Agrippa: il centauro Chi-rone col suo discepolo Achille, e Pan che insegna a suo-nare la siringa al giovane Olimpo (Plin., Nat . hist .XXXVI 36,29). I due gruppi maestro-allievo si riferi-vano forse alle lezioni scolastiche che si tenevano sicu-ramente anche all’interno dei Saepta. Quanto al gruppoomoerotico di Pan e Olimpo, esso dimostra come Agrip-pa non fosse affatto un moralista nelle questioni d’arte,e fosse anzi piuttosto incline ai piaceri dei sensi.

Ai propri meriti personali Agrippa alludeva conmolto riserbo. Uno dei lunghi porticati presentava un

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ciclo pittorico dedicato all’impresa degli Argonauti: qui,come anche nel nome della Basilica Neptuni, si può vede-

re un’allusione ai suoi buoni servigi di ammiraglio, peri quali Augusto lo aveva già ricompensato dopo Naulo-co con una corona rostrata. È però significativo il fattoche Agrippa non volle dare il proprio nome all’edificio,ma lo consacrò come Saepta Iulia (26 a. C.).

Anche la mappa dell’impero fatta redigere da Agrip-pa e sistemata poi da Augusto nella Porticus Vipsania(Plin., Nat . hist . III 17), serviva a intrattenere la folla apasseggio: il suo scopo era di fornire un’idea dell’impero

e di rafforzare nei Romani l’orgoglio di essere il prince- ps terrarum populus (Liv., Praef.). Si pensi alle suggesti-ve mappe marmoree dell’Imperium Romanum fatte col-locare da Mussolini sulle rovine della Roma antica lungoquella che allora si chiamava appunto Via dell’Impero.Vicino ai luoghi venerabili del Foro, e nell’ambito delsuo programma di edilizia stradale, già nel 20 a. C.Augusto aveva fatto collocare una pietra miliare dorata

(miliarum aureum), simbolo di Roma come centro delmondo.Anche l’approvvigionamento dei cereali era un’oc-

casione per ricordare al signore dei popoli la sua dignità:gli Horrea Agrippiana, di cui studi recenti hanno per-messo di ricostruire con esattezza l’ubicazione dietro ilForo, erano costruiti in semplice travertino, ma conun’ornamentazione ragguardevole, in cui non mancava-no addirittura le colonne corinzie. Nessuno ha contri-buito alla publica magnificentia di Roma come Agrippa,né in modo altrettanto sistematico (Sen., De ben. III32,4). Alla sua morte, e solo per provvedere alla manu-tenzione degli acquedotti, si dovette assumere alledipendenze dello Stato un corpo di duecentoquarantauomini bene addestrati, che Agrippa aveva pagato finoad allora con i propri mezzi (Front., Aqu. 116).

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La presenza della famiglia imperiale nell’immagineurbana.

Alcuni edifici li fece costruire a nome di altri, peresempio dei suoi nipoti, di sua moglie e di sua sorella, comeil Portico e la basilica di Gaio e Lucio Cesare [sul Foro],il Portico di Livia e quello di Ottavia, il Teatro di Mar-cello (Suet., Aug . 29).

Solo Augusto poteva confrontarsi con Agrippa infatto di publica magnificentia, ma i suoi complessi ricrea-

tivi avevano un diverso, più immediato significato poli-tico. Portò a termine i grandi edifici iniziati da Cesare(la basilica Giulia, il Forum Iulium), rinnovò alla gran-de il teatro di Pompeo e complessi di minori dimensio-ni come la Porticus Octavia, sistemò l’area verde intor-no al suo Mausoleo, fece scavare nell’attuale quartieredi Trastevere un lago artificiale all’interno del NemusCaesarum, destinandolo alle battaglie navali, finanziò il

nuovo mercato coperto sull’Esquilino, il Macellum Liviaee vari altri edifici (Res Gestae 19-21).A nord degli edifici di Agrippa sorgeva, nella zona

adibita a parco vicino al Mausoleo di Augusto, il gran-dioso Solarium Augusti, consacrato nel 10 a. C.: il piùgrande orologio solare di cui si abbia memoria. Come«ago» dell’orologio ( gnomon) venne utilizzato un obeli-sco di trenta metri, proveniente dall’Egitto, che si trovaoggi sulla Piazza di Montecitorio. L’obelisco proiettavala sua ombra su un vasto tracciato a linee e lettere dibronzo, con funzione al tempo stesso di orologio e dicalendario: la scritta sullo zoccolo dell’obelisco ricorda-va ancora una volta la vittoria sull’Egitto, di ormaivent’anni prima. L’obelisco era però consacrato, e signi-ficativamente, anche al Sole. Il giorno del compleannodi Augusto l’ombra dello gnomone indicava proprio ilpunto centrale della vicina  Ara Pacis Augustae, poiché

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nella costellazione della sua nascita era stata letta comeuna prefigurazione divina: Augusto era natus ad pacem.L’orologio solare era un monumento sontuoso, passeg-giare sul suo gigantesco tracciato doveva essere unapiacevole emozione, tanto più che i costruttori avevanopensato anche ai molti abitanti e visitatori orientali pre-senti a Roma e, dandosi un aria cosmopolita, avevanotradotto le iscrizioni anche in greco.

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Roma, portici e templi nella zona del teatro di Marcello. Dalla Forma Urbis.

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A sud degli edifici di Agrippa e al di là del Circo Fla-minio sorgevano l’uno accanto all’altro i templi e i por-

tici dei trionfatori del secondo secolo, che, opportuna-mente restaurati e rinnovati, diedero la loro parte dicontributo alla gloria della casa imperiale. Il ricordo deiloro fondatori repubblicani era intanto quasi del tuttosvanito. Così, ad esempio, la Porticus Octavia era statacostruita nel 168 a. C. da Gneo Ottavio dopo la sua vit-toria navale su Perseo, re di Macedonia: l’edificio, famo-so per i suoi preziosi capitelli di bronzo, fu fatto restau-rare da Augusto, il quale non ebbe in questo caso alcu-

na difficoltà a rinunciare al proprio nome (Res Gestae19), visto che era già il nome originario. Fece poi collo-care nel portico restaurato le insegne militari strappateai Dalmati durante le guerre in Illiria.

La Porticus Metelli, fatta costruire nel 147 a. C. daQuinto Cecilio Metello vincitore dei Macedoni intornoai templi di Giove Statore e di Giunone Regina, fuinvece sostituita da una Porticus Octaviae nuova di

zecca: l’edificio fu finanziato da Augusto in onore dellasorella Ottavia, che vi dedicherà più tardi una schola conbiblioteca in memoria del figlio Marcello, morto nel 23a. C. Il giovane aveva sposato Giulia, figlia unica diAugusto, che lo aveva presentato già nel 29 a. C. comeil suo erede potenziale. In suo onore verrà costruito piùtardi il teatro omonimo.

In questo avvicendamento anche le famose opered’arte che Metello aveva collocato nell’edificio acqui-starono un significato nuovo: le statue di Venere e diEros, opere di maestri classici, come anche il celebre mo-numento equestre di Lisippo che raffigurava Alessandroe i suoi venticinque compagni, diventavano ora altret-tante allusioni ad Augusto. Non aveva egli portato ilsigillo di Alessandro, e non dedicava forse nei suoimonumenti sempre nuove immagini alla memoria delgrande Macedone?

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L’esempio della Porticus Metelli/Octaviae è del restosolo uno fra i tanti: ormai non c’era acqua che non finis-

se al mulino di Augusto.

 Applauso e ordine. Il teatro come luogo d’incontro frail «princeps» e il popolo.

Nelle immediate vicinanze dei portici sorsero duenuovi teatri: il teatro di Marcello, fatto costruire daAugusto, con circa 12-15 000 posti, e quello un po’ più

piccolo del giovane Balbo. Se si considera anche il tea-tro restaurato di Pompeo potevano trovare posto alme-no 40 000 persone, in caso di rappresentazioni simulta-nee. A questi vanno poi aggiunti, nella stessa zona, altridue complessi destinati ad attività ludiche e sportive: iSaepta e l’anfiteatro di Statilio Tauro. Nell’arco di quin-dici anni il Campo Marzio era diventato un vero centroculturale.

Diversamente dal Senato repubblicano, Augusto nontemeva i cittadini a teatro, anzi cercava le occasioni diincontro: nel plauso e nel saluto della folla vedeva un’e-spressione del consenso generale e una conferma tangi-bile della sua azione politica. Perfino le occasionali pro-teste suscitate da alcuni provvedimenti, come quelladegli equites contro le restrizioni finanziarie delle leggisul matrimonio (9 d C.), o la già citata reazione popola-re all’allontanamento dell’ Apoxyomenos di Lisippo, nonerano del tutto malviste poiché davano una certa con-cretezza al «dialogo» tra il popolo e il  princeps. Si èdetto, e non a torto, che il teatro di epoca imperialevenne in qualche modo a sostituire, come luogo di in-contro politico, le vecchie assemblee popolari e i comi-zi elettorali di età repubblicana, procurando al princi-pato una sorta di legittimazione simbolica di tipo plebi-scitario. La folla era contenta che il sovrano si divertisse

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in sua compagnia e seguisse con manifesto interesseanche gli spettacoli più noiosi, mandando le sue scuse se

non poteva intervenire: Cesare aveva dovuto sbrigare laposta.Nella publica magnificentia rientravano anche i gio-

chi, e «per lo splendore (magnificentia), il numero e lavarietà dei giochi Augusto superò tutti i suoi predeces-sori» (Suet.,  Aug . 43). C’erano i giochi annuali, chefacevano parte del calendario religioso, e quelli straor-dinari: all’epoca di Augusto si contavano ben sessanta-sette giorni all’anno dedicati ai giochi. Il loro allesti-

mento toccava ai magistrati, che avevano per l’occasio-ne la facoltà di contribuire alle spese di tasca propria, conuna somma fino a tre volte superiore a quella previstadall’erario, e non di rado nel caso dei meno abbienti fuAugusto ad assumersene i costi. Nelle sue Res Gestae eglisi vanta fra l’altro di aver indetto otto volte spettacolidi gladiatori per un totale di 10 000 combattenti, e ven-tisei volte combattimenti di animali feroci per un tota-

le di circa 3500 animali uccisi. Insieme alle corse dicavalli nel Circo erano i giochi preferiti dai Romani, mai numeri che abbiamo riportato rischiano di far dimen-ticare che questi divertimenti di massa non riscuoteva-no in Augusto un particolare favore: Traiano, ad esem-pio, offrì in una sola volta più «materiale» di quanto nèabbia offerto Augusto in quarant’anni di regno. Colpi-sce anche il fatto che tra i molti edifici pubblici di Augu-sto non si trovi nessun grande anfiteatro di pietra.Quanto al piccolo anfiteatro di Statilio Tauro, esso risa-le ai primi anni del principato e non fa parte con ognievidenza del programma augusteo. Solo Vespasiano, peril resto assai parsimonioso, provvederà in grande a que-sti divertimenti di massa, facendo costruire il Colosseoper i giochi dei gladiatori e i ludi venatores. Ma la distan-za presa da Augusto in materia di anfiteatri valeva evi-dentemente solo a Roma, giacché nei progetti delle colo-

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nie augustee, come ad esempio la colonia iberica di Eme-rita Augusta, la costruzione di un anfiteatro era previ-

sta fin dall’inizio.In certe occasioni le idee del  princeps erano peròdavvero grandiose. Per l’inaugurazione del Foro diAugusto e del tempio di Marte Ultore egli organizzò,ad esempio, dei giochi nel Circo con duecentosessan-ta leoni, fece disputare sul Foro il lusus Troiae con lapartecipazione del principe Agrippa Postumus, e inol-tre dei giochi di gladiatori nei Saepta e una caccia aicoccodrilli (per l’esattezza trentasei) nel Circo Flami-

nio (Dio. Cass., 55,10). Per commemorare la vittoriadi Azio fece scavare una gigantesca «naumachia» al dilà del Tevere e vi fece rappresentare la battaglia diSalamina tra gli Ateniesi e i Persiani, con un totale ditremila uomini e trenta navi pesanti, oltre a un grannumero di navi leggere. In queste feste di Stato, dalforte contenuto ideologico, il  princeps non badava aspese «pur di imprimere nel cuore e negli occhi del

popolo romano immagini indimenticabili» (Vell. Pat.,II 100,2).Ma soprattutto ad Augusto stava a cuore il teatro,

che oltre ad essere il luogo d’incontro tra il princeps e ilpopolo svolgeva anche un’importante funzione cultura-le e pedagogica. La nuova Roma aveva bisogno di tea-tri splendidi, proprio perché il teatro e la scena aveva-no svolto un ruolo decisivo nelle città greche, e soprat-tutto nell’Atene del periodo classico: senza teatri l’a-spirazione di Roma a diventare il centro anche cultura-le dell’impero sarebbe rimasta poco credibile. Anchel’impulso dato al teatro nascondeva, insomma, la preoc-cupazione di stare alla pari con i Greci. Le due grandimanifestazioni atletiche greche indette da Augusto rien-trano nello stesso quadro, e perfino le Res Gestae (22)ne parlano con orgoglio, sebbene questo tipo di gare siconciliasse ancor meno del teatro coi mores maiorum.

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Sappiamo che le opere dei poeti fedeli al regimevenivano rappresentate o lette nei teatri di Roma, che

a certe opere teatrali come il Tieste di Vario, Augustoassegnava ricchi premi (un milione di sesterzi), e che Vir-gilio era festeggiato dal pubblico. Sarebbe interessanteconoscere i programmi teatrali di quegli anni, e saperein che misura le nuove interpretazioni dei miti fossero«politicizzate»: questo ampio settore del linguaggio visi-vo è andato perduto quasi del tutto. È sicuro, invece,che la fortuna del teatro impegnato non durò a lungo, ein breve tempo furono la farsa e soprattutto la panto-

mima a dominare le scene.I nuovi teatri ebbero inoltre un ruolo non seconda-

rio anche nel consolidamento della gerarchia sociale,offrendo allo spettatore la possibilità di percepire visi-vamente il proprio status. Già nel II secolo a. C. il Sena-to aveva riservato per sé le prime file di posti e l’orche-stra, e agli equites quelle successive. E già nella tardarepubblica non mancavano i posti «punitivi»: Cicerone

(Phil. 2,44) parla di un settore riservato ai bancarottie-ri. Ma a questo punto intervenne Augusto con la sua lexIulia theatralis, che prevedeva una distribuzione dei postiancora più differenziata, per merito e rango sociale.Nell’orchestra sedevano i senatori e, in particolare evi-denza, i sacerdoti e i magistrati; venivano poi i cavalie-ri con un censo di almeno 400 000 sesterzi. Dopo gliequites, nel vasto settore intermedio sedevano i cittadi-ni liberi, suddivisi per tribus come nelle distribuzioni dicereali:  panem et circenses. Dietro a tutti prendevanoposto i non cittadini, le donne e gli schiavi, nei limiti incui era loro consentito l’accesso al teatro. Purtroppo iparticolari a nostra conoscenza sono incompleti e con-fusi. Sappiamo però che i soldati erano divisi dal popo-lo, che i bambini occupavano un settore apposito in-sieme ai loro pedagoghi e che le leggi sul matrimonioprevedevano posti migliori per gli sposati e i padri con

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molta prole, mentre per qualche tempo fu addiritturaproibito l’ingresso agli scapoli incalliti. Sembra infine

che anche le corporazioni artigiane avessero dei settoririservati.Dato l’enorme significato sociale dei giochi, questi

privilegi e queste discriminazioni – il diritto di sedere«con» qualcuno o l’obbligo di restarne separato – toc-cavano il punto nevralgico dell’identità borghese. Lanetta separazione tra i diversi settori e la vigile sorve-glianza reciproca dei vari ordini facilitavano l’osservan-za delle norme. Il  princeps si atteneva sempre stretta-

mente alle distinzioni di ceto – per esempio non avreb-be mai invitato un liberto alla sua tavola – ma poichéd’altra parte i vari ordini possedevano compiti e prero-gative precise, e la possibilità di una lenta scalata socia-le era pur sempre aperta, la struttura rigorosamentepiramidale della società romana era in larga misura accet-tata. La possibilità di sperimentarla «visivamente» inoccasione dei riti e delle feste contribuì in misura note-

vole al processo di normalizzazione.La stessa struttura architettonica del teatro contri-buiva a dare un’immagine icastica della stratificazionesociale. Nelle molte costruzioni nuove o ristrutturate, ivari ordini di posti apparivano in forte risalto, e non sitrattava solo di una questione ottica. Anche le ingegno-se strutture di sostegno su cui poggiava il semicerchiodella cavea (la platea) vennero messe al servizio dellagerarchia sociale: come risulta da molti teatri augustei,il sistema dei corridoi e delle scale a volta serviva nonsolo al flusso e al deflusso ordinato delle masse di spet-tatori, ma anche a distinguerli per rango sociale: così ilpopolino, i cui posti erano in alto, non doveva venire incontatto con gli spettatori più «distinti», non diversa-mente dai teatri dell’opera dell’Ottocento borghese.Due generazioni più tardi questo sistema logistico toc-cherà il suo culmine con il Colosseo.

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Come appare dalla disposizione dei posti a teatro,l’instaurarsi della monarchia non modificò per nulla la

struttura piramidale della società romana, anzi, sottoAugusto le barriere di classe tornarono più rigide. La ric-chezza delle classi agiate poggiava sul grande latifondo,l’agricoltura restava come prima la principale attivitàeconomica. L’appartenenza ai tre ordines che formava-no lo strato sociale più elevato – senatori, cavalieri e cetidirigenti municipali (decuriones)  – dipendeva dal pos-sesso di un certo patrimonio e poteva capitare che Augu-sto contribuisse di persona con aiuti economici ai sena-

tori per garantire la continuità delle classi alte. Ma la ric-chezza non era tutto: non meno importanti erano l’e-strazione e il buon nome (dignitas). Il principio aristocra-tico veniva insomma conservato e la «rivoluzione»romana ebbe una decisa impronta conservatrice.

Le barriere tra i ceti superiori e quelli inferiori, trai membri dei tre ordines e il resto della popolazione,erano decisive per la dignitas sociale, ma non per l’a-

giatezza: significativamente, si giunse più tardi a distin-guere in maniera categorica tra honestiores e humiliores.Così un cittadino di oscuri natali veniva escluso auto-maticamente, anche se molto ricco, dall’accesso allemagistrature statali e municipali, e perciò dall’ap-partenenza a uno dei tre ordines. Pertanto anche i ric-chi liberti sedevano a teatro nelle file posteriori. Saliredallo strato inferiore a quello superiore nell’arco di unasola generazione era pressoché impossibile, ma i figli ei nipoti di un ricco schiavo potevano anche riuscirenell’impresa, e la ricchezza era in questo caso il fatto-re decisivo.

La monarchia consolidò dunque le vecchie barriere,creando però nello stesso tempo nuove valvole di sfogoper le tensioni sociali e offrendo nuove possibilità diemancipazione e di carriera, che finirono per modifica-re, sia pure lentamente, la struttura della società.

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La composizione delle vecchie e nuove magistraturesacerdotali e il culto del sovrano a cui esse erano dedi-

te sono un buon esempio degli stretti legami esistenti frai vari ceti e l’imperatore: i loro meriti verso quest’ulti-mo erano motivo di prestigio sociale e creavano le con-dizioni per una possibile ascesa, soprattutto per quantoriguarda i personaggi più in vista nell’ambito delle variecariche. Gli equites svolgevano incarichi di responsabi-lità nell’amministrazione dell’impero e nell’esercito, epotevano trovare così la via d’accesso al Senato. Anchei decuriones delle città potevano richiamare l’attenzione

su di sé per i servigi svolti nelle proprie comunità, e nondi rado riuscivano poi a ricoprire cariche più importan-ti o a entrare in Senato, la cui composizione mutògradualmente nel corso del I secolo d. C., prima a van-taggio degli italici e poi dei provinciali. Gli schiavi e iliberti dell’imperatore godevano ovviamente di un pre-stigio molto più alto rispetto ai loro compagni di ceto:simili in questo ai ricchi liberti delle città che, in quan-

to augustales (membri di confraternite imperiali), ossiaancora in virtù del culto tributato all’imperatore, pote-rono configurarsi come un nuovo ceto intermedio fradecuriones e  populus. Vedremo in seguito quali espres-sioni monumentali abbiano lasciato questi gruppi emer-genti e in che misura abbiano contribuito alla diffusio-ne del nuovo linguaggio visivo.

Immagine urbana e ideologia.

I grandi teatri davano un’impronta inconfondibileall’aspetto urbano della Roma augustea. Soprattutto ilteatro di Marcello e quello di Balbo offrivano ai visita-tori un’immagine particolarmente significativa della pie-tas e della  publica magnificentia proprie della nuovaRoma. L’emiciclo delle due caveae era disposto in modo

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tale che, durante le pause degli spettacoli, lo sguardopoteva spaziare attraverso le arcate dei corridoi peri-

metrali su un paesaggio urbano unico al mondo, fatto ditempli marmorei e di sontuosi complessi ricreativi. Dalteatro di Marcello si vedevano i portici del II secolo a. C.appena restaurati, coi loro templi e giardini, si vedevail Circo Flaminio coi suoi monumenti celebrativi, ilnuovo tempio di Apollo Sosiano e quello di Bellona, cosìvicini alle arcate del teatro che sembravano toccarlo. Losguardo poteva spaziare fino al tempio di Giove Capi-tolino. Dai camminamenti del teatro di Balbo si vede-

vano invece i quattro templi dell’ Area sacra, sull’attualelargo Argentina. Erano questi i paesaggi urbani piùamati dal princeps.

Nella descrizione della Roma tardoaugustea fatta daStrabone, il Campo Marzio occupa oltre due terzi del-l’intero testo. Gli edifici marmorei della città-giardinocolpivano lo scrittore greco più dei Fori, dei nuovi tem-pli, del Campidoglio e dello stesso Palatino:

La grandezza del Campo Marzio [qui Strabone intende laparte nord] è impressionante. Essa permette che vi si svol-gano simultaneamente e senza ostacolarsi corse di carri eogni altro tipo di evoluzioni equestri. Si vedono poi schie-re di pugilatori, di giocatori con la palla e col cerchio.Dappertutto si trovano opere d’arte, i giardini sono verdiin ogni stagione e la cerchia dei colli che sovrastano escendono fino al Tevere forma una scenografia che non sismette facilmente di ammirare. Vi è poi una seconda spia-nata [la parte sud del Campo Marzio], fiancheggiata danumerosi portici in tondo, da boschetti sacri, tre teatri, unanfiteatro e i templi piú sontuosi in successione ininter-rotta come se volessero far apparire il resto della cittàun’appendice (Strab., V 3,8).

Strabone vide la Roma augustea quando la maggior

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parte degli edifici era ormai ultimata. Ma i Romani deltempo la videro nascere. Così in Virgilio la descrizio-

ne del fervore edilizio a Cartagine, la città della regi-na Didone, rispecchia l’atmosfera frenetica e fiducio-sa che negli anni venti emanava dai cantieri aperti intutta Roma (Aen. I 418 sgg.). Tutti cooperavano comein un alveare: dovunque si gettasse lo sguardo, si vede-vano operai al lavoro. L’idea programmatica dicostruire grandiosi edifici pubblici che rispecchiasse-ro la maestà dell’impero (Vitr., Praef) si stava realiz-zando sotto gli occhi di tutti. Chi ha conosciuto per

esperienza la politica edilizia del nazismo e del fasci-smo, sa che la suggestione emotiva dei cantieri è dif-ficilmente superabile.

Ma, nonostante i suoi templi marmorei e i sontuosicomplessi ricreativi, la nuova Roma non diventò unacittà ellenistica come Cesare avrebbe voluto. Secondo isuoi progetti il corso del Tevere doveva essere deviatoe il Campo Marzio, ampliato, doveva diventare una

città razionale, con un sistema stradale ad angolo rettoe insulae di grandezza uniforme. Da un gigantesco tea-tro appoggiato alle spalle del Campidoglio si sarebbepotuto dominare con lo sguardo la nuova città-modello(Suet., Iul. 44). Nerone riprenderà, più tardi, questisogni urbanistici, ma la visione di Augusto era diversa,poiché interventi e innovazioni radicali erano incompa-tibili con la sua linea politica. La  pietas imponeva divenerare gli antichi luoghi di culto, lo stile politico esi-geva rispetto per la proprietà privata e i mores maiorum,ma anche una certa semplicità nei quartieri residenzia-li. Per questo motivo il sistema stradale rimase in granparte immutato. Su una pianta della città risalente al msecolo d. C. i quartieri più antichi e affollati si presen-tano ancora come un dedalo di strade e viuzze tortuo-se, cresciute nei secoli in piena anarchia.

Ma anche qui il princeps volle lasciare la sua impron-

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ta ordinatrice, sia pure sotto un’altra forma. La città fusuddivisa in quattordici regioni e duecentosessantacin-

que vici (circoscrizioni urbane). Ogni vicus aveva unapropria amministrazione scelta dagli abitanti e formatada quei magistri e ministri di cui si è parlato a propositodel culto dei Lari e del genius Augusti. Essi svolgevanoinoltre piccoli incarichi di sorveglianza, provvedevano aspegnere gli incendi e al mantenimento dell’ordine pub-blico e controllavano che fossero rispettate le normeedilizie emanate da Augusto. Le case non potevanosuperare i 70 piedi di altezza (21 metri), ma anche lo

spessore dei muri e altri parametri analoghi erano fissa-ti con precisione.

I mali cronici dei vecchi quartieri residenziali eranogli incendi e le inondazioni, e anche qui il princeps tentòdi porre rimedio: il corpo dei vigili del fuoco fu rifor-mato due volte e gli argini del Tevere vennero rinfor-zati. Ordine e sicurezza migliorarono la qualità della vitanei quartieri della città anche per quanto riguarda la fun-

zionalità dell’approvvigionamento alimentare, che pote-va ora contare su dati più precisi. I culti compitali deivici con le loro feste primaverili ed estive diventaronomomenti di incontro sociale e occasioni di un più stret-to vicinato, con ovvie e positive conseguenze anche inmateria di ordine pubblico.

Tutte queste misure contribuirono senza dubbio aun sostanziale miglioramento delle condizioni di vita,ma non modificarono per nulla l’immagine semplice eantiquata dei quartieri di abitazione. Strabone nonaveva torto: dal punto di vista estetico la città vecchiaappariva davvero come un’appendice della nuova Romamarmorea. Che questo stato di cose riflettesse una pre-cisa direttiva del regime risulta dal grande muro peri-metrale del Foro di Augusto, un monumento unico,destinato a suscitare la meraviglia dei posteri. Ancoroggi si può vedere come questo gigantesco recinto alto

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fino a 33 metri, e fatto di massi di tufo ben squadrati eordinatamente sovrapposti, superasse in altezza perfino

il tetto del tempio di Marte Ultore: cosi che dalle stra-de e dalle case della Subura non era più possibile vede-re gli splendidi edifici marmorei del Foro. Benché dal-l’interno del Foro la muraglia fosse poco visibile, essasuperava col suo slancio monumentale tutte le case circo-stanti. Naturalmente la costruzione aveva uno scopopratico, quello cioè di proteggere il prezioso santuariodai frequenti incendi della Subura. Ma la sua formamonumentale dal sapore arcaico le conferiva inoltre, nel

paesaggio cittadino, un evidente carattere simbolico,poiché segnava il confine tra la semplicità dei quartieridi abitazione e la maiestas e magnificentia dei templi e deipubblici edifici. Agli occhi del Romano del tempo il suosignificato era però anche un altro: il percorso irregolaredel muro, dalla linea spezzata ad angoli e gomiti, testi-moniava quanto fosse scrupoloso il rispetto di Augustoper la proprietà privata: «Fece costruire il suo Foro più

piccolo di quello che era stato previsto perché non osavaespropriare le case vicine» (Suet., Aug . 56).Naturalmente il  princeps non avrebbe avuto diffi-

coltà a entrare in possesso del terreno edificabile, ma lasua preoccupazione era di far vedere che egli intendevarispettare le leggi non meno dei suoi concittadini.

Se diamo ora uno sguardo alla Roma della tardarepubblica, nel corso di una sola generazione l’aspettodella città appare incredibilmente mutato. E forse nullaebbe un effetto cosí immediato e profondo sulla men-talità generale quanto i fatti di cui ci siamo occupati. Ilmodello della capitale si diffuse in tutta la metà occi-dentale dell’impero, e si concretizzò in centinaia dinuovi assetti urbanistici in cui la cultura romana assun-se per la prima volta un aspetto visivo omogeneo.

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3. MORES MAIORUM.

Semplicità e sobrietà, un’educazione rigida, seve-rità di costumi,ordine e sottomissione nella famiglia enello Stato, coraggio e spirito di sacrificio: erano questele virtù che dall’inizio del processo di ellenizzazione iRomani evocavano sotto l’etichetta di mores maiorum,proprio mentre la città si allontanava sempre più rapi-damente dai valori tipici di una società arcaica. Intan-to, la necessità di un rinnovamento morale era diventa-ta una parola d’ordine: senza un ritorno alle virtù degli

antichi non era possibile il risanamento dello Stato.Per quanto questi appelli siano frequenti nella sto-

ria, e per quanto vago, astratto ed effimero sia in gene-re il loro contenuto, la presa emotiva che li accompagnaè spesso straordinaria. Fanno parte di un repertoriofisso, che potremmo definire come l’eterna attesa di un«mondo nuovo».

La riforma dei costumi.

O tempi immorali! Prima avete macchiato il matri-monio, la stirpe e la casa. Ora da questa fonte si riversò lasventura sulla patria e il popolo

cosí lamentava Orazio (Carm. III 6) ancora nel 29 a. C.Insieme all’indifferenza religiosa, l’immoralità era con-siderata il male più grave, la causa principale delladecadenza. Augusto si proponeva di indurre anche inquesto campo un mutamento di mentalità e di correg-gere perfino la morale sessuale con opportune misurepunitive o di incoraggiamento: si trattava, per esempio,di convincere i Romani dei ceti più elevati a fare piùfigli. Il primo tentativo (fallito) di una legislazione inquesto senso coincide significativamente col program-

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ma di riforma religiosa degli anni 29 e 28 a. C. Lefamose leggi sul matrimonio e sulla morale dell’anno 18

costituirono, invece, la piattaforma ideologica dei ludi saeculares dell’anno successivo e furono accompagnateda una rigorosa epurazione del Senato. A queste legesIuliae, che prevedevano fra l’altro la punibilità giuri-dica dell’adulterio (!), severe sanzioni contro i nonsposati soprattutto in materia ereditaria, come anchepremi e incentivi per le famiglie numerose, Augustoattribuiva un significato centrale nel suo programma dirinnovamento.

Realizzare in questo campo una propaganda «perimmagini» non era facile, ma il  princeps fece quantopoteva, cercando exempla efficaci fino in tarda età. Cosíad esempio «non esitò a leggere in Senato un discorsoSull’incremento delle nascite tenuto dal censore Q. Ceci-lio Metello nell’anno 131 a. C., come se lo avesse appe-na scritto» (Liv., Per. 59; Suet., Aug. 89). A una schia-va particolarmente prolifica fu dedicata una statua. Un

uomo vecchissimo di Faesulae fu accompagnato solenne-mente in Campidoglio con tutti i suoi sessantuno discen-denti: fu quindi celebrato un sacrificio e l’avvenimentofu pubblicato negli acta, il bollettino degli affari digoverno (Plin., Nat. hist. VII 6o). Ancora nell’anno 9 d.C., quando gli equites protestarono in teatro contro leleggi matrimoniali, nel frattempo già mitigate, soprat-tutto a causa delle sanzioni economiche previste, «Augu-sto fece venire i figli di Germanico, ne prese uno in brac-cio, fece sedere gli altri in grembo al padre e invitò conlo sguardo e col gesto della mano a prendere quell’uo-mo ad esempio» (Suet., Aug. 34).

Anche i poeti amici furono chiamati a collaborare, amostrare come il sorgere dei tempi nuovi fosse legato almiglioramento dei costumi. Sembra quasi di sentire lariluttanza con cui Orazio limò gli austeri versi:

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Vagano sicuri per la campagna i buoi,fecondano i campi Cerere e il tempo buono,

vagano i marinai per il mare tranquillo,la fede non tollera colpe,casta è la casa e senza macchia d’adulterio,leggi e virtù domano il contagio del vizio,da figli uguali al marito è lode alle madri,la pena incombe sulla colpa.

(Carm. IV 5,17-24; trad. di M. Ramous).

Al contrario dei programmi di rinnovamento reli-

gioso e di publica magnificentia, la riforma morale con isuoi inviti all’austerità era condannata naturalmente alloscacco. Soprattutto la campagna demografica rimasesenza ascolto, poiché i gruppi a cui il princeps si rivolgevacon più insistenza scuotevano la testa. Si reagiva conbattute di spirito, e personaggi come Ovidio non resi-stettero alla tentazione di commentare quegli inviti conallusioni mordaci. In fondo, questa massiccia in-

terferenza moralizzatrice nella vita privata dei Romanimal si adattava allo stile del nuovo regime: Augusto eracome prigioniero della propria «missione», della suafede in un rinnovamento anche interiore. È curiosovedere questo politico realista, freddo calcolatore, neipanni del predicatore instancabile, sempre pronto a cita-re esempi commendevoli presi dall’antica letteratura ea mandarli perfino ai governatori delle province (Suet., Aug. 89). E proprio l’impegno con cui Augusto si presea cuore questo programma, e insieme la scarsità deirisultati, a spiegare il suo comportamento inumano versola figlia Giulia e la nipote dello stesso nome. La libertàdi costumi delle due giovani, attratte, come Ovidio,dalla dissolutezza dionisiaca della jeunesse dorée, e sem-pre al centro di vivaci pettegolezzi, lo colpi nel suopunto debole: furono entrambe cacciate, e Augusto sirifiutò per tutta vita di riconciliarsi con loro.

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Anche nel campo figurativo gli artisti, che pure ave-vano accettato di buon grado il programma di rinnova-

mento religioso, non ebbero grandi idee al riguardo. Suirilievi dell’ Ara Pacis i bambini erano in primo piano, mapurtroppo non ce n’erano molti; più tardi invalse l’usodi distribuire come decorazioni militari delle medagliecon le figure dei principi e dei loro bambini, e cosí via.Ma tutto ciò ha a che fare piuttosto con la continuitàdella dinastia imperiale.

Si tratta però di un’impressione ingannevole. Se lamorale coniugale e il culto della prole non trovano un’e-

spressione diretta nel linguaggio artistico, essi entre-ranno presto a far parte in forma sublimata del tema uto-pico dell’«età dell’oro».

Il «princeps» come modello.

Il principale exemplum era però lo stesso Augusto, il

quale improntò il suo modo di vivere e le sue comparsein pubblico a una scrupolosa osservanza dei mores maio-rum. Era soprattutto nella sua persona che immagine erealtà dovevano armonizzarsi (Vell. Pat., 2,165,5). Nellesue comparse in pubblico non poteva fare a meno di col-pire il suo stile sobrio e misurato, dal modo di cammi-nare al modo di esprimersi, la sua affabilità con le per-sone più semplici, il suo rispetto verso i senatori, la suadisciplina e il suo autocontrollo. I visitatori descriveva-no la semplicità patriarcale della sua casa: si raccontavache, proprio come gli antichi, avesse fatto fondere tuttele suppellettili d’oro, ed era noto che egli non amava illusso delle ville, pur avendo prescelto l’intera isola di Ca-pri come suo rifugio personale. Correva voce che la suatoga, dal taglio semplice e priva di contrassegni vistosi,fosse stata tessuta dalla moglie e dalla nipote, malgradole centinaia di schiave al servizio dell’imperatore.

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Riservatezza e semplicità contraddistinguono lo stiledei  princeps anche nelle onorificenze che gli venivano

attribuite. A partire almeno dal 20 a. C. quasi tutti imonumenti dedicati ad Augusto erano di carattere reli-gioso o si trattava di ex-voto. Ma è negli edifici che ilnuovo stile risulta più visibile: l’ Ara Pacis Augustae ripe-teva nelle sue modeste dimensioni le misure dell’altaredei dodici dèi sull’ Agora ateniese. L’ Ara Fortunae Redu-cis e altri altari eretti successivamente erano forse anco-ra più piccoli: e si tratta pur sempre dei monumenti piùgrandiosi fatti costruire dal Senato e dal popolo in onore

di Augusto dopo la svolta. Non si potrebbe immagina-re un contrasto più forte con l’altare di Zeus a Pergamoo le forme trionfali in cui lo stesso Divi filius si era cele-brato negli anni trenta.

La riservatezza di Augusto e il suo continuo richia-mo ai mores maiorum dovevano avere un effetto rassi-curante su alcuni senatori, tanto più che non sarebberomancate occasioni, anche in futuro, per riaffermare la

dignità del Senato accanto al  princeps nella res publicarestituta: cosí, ad esempio, dopo il 19 a. C. i giovaninobili in servizio alla Zecca ebbero nuovamente lafacoltà di imprimere sulle monete il nome e le insegnedelle rispettive famiglie. Al pretore Lucio Nevio Surdi-no fu permesso di ricordare con una gigantesca iscrizio-ne in mezzo al Foro che era stato lui a finanziare ilnuovo selciato. Marco Emilio Lepido, caduto in po-vertà, aveva potuto restaurare l’antica Basilica della geni Aemilia nel Foro grazie a un contributo di Augusto (Dio.Cass., 54,24), e il giovane Balbo aveva ancora potutocelebrare un trionfo e far costruire un teatro col botti-no di guerra, come lo stesso  princeps. Quello spagnolosenza antenati non rappresentava certo un concorrentepericoloso. Non c’è da stupirsi, a questo punto, che idestinatari di simili riguardi rispondessero con altret-tanti inchini: Emilio Lepido fece raffigurare nella sua

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Basilica i barbari sottomessi in un prezioso marmo poli-cromo, per ricordare le vittorie dell’imperatore, e i fun-

zionari delle Zecca gli rendevano omaggio sul recto e sulverso delle monete.Uno di essi arrivò al punto di esaltare le nuove leggi

sulla riforma dei costumi facendo raffigurare su unamoneta la vestale Tarpea, che aveva tradito Roma peramore del re dei Sabini, nel momento in cui viene sep-pellita sotto gli scudi nemici. L’exemplum non era co-munque nuovo: esso venne probabilmente rielaboratonella cerchia di poeti intorno a Mecenate, e Properzio

gli dedicò un’intera elegia (4,4), interpretando la storiadella sventurata vestale secondo il nuovo indirizzo ideo-logico, ossia come un esempio delle conseguenze rovi-nose a cui può condurre il disprezzo della religione edella morale.

Probabilmente negli anni intorno ai ludi saeculares fuelaborato anche un nuovo ritratto di Augusto. Le novitàsembrano piuttosto modeste, ma contengono un’indi-

cazione precisa: al posto delle forme classicistiche delritratto precedente, quello degli anni intorno al 27 a. C.,vediamo ricomparire alcuni spunti fisiognomici del vec-chio ritratto di Ottaviano. Cosí il taglio dei capelli rigo-rosamente policleteo cede il passo a una stilizzazione piùrealistica. Rimane invece immutato quel carattere«senza età», sebbene Augusto si stesse avvicinando allacinquantina. Il nuovo ritratto ebbe però una circolazio-ne limitata e le botteghe continuarono a usare il tipoormai familiare, mentre l’immagine esteticamente tra-sfigurata dell’eterno giovinetto non poteva più reggereormai alla realtà di un uomo malaticcio e invecchiato.

Il desiderio di un ritratto dall’espressione cosí misu-rata si spiega da un lato con la rinuncia alle immagini«patetiche» e dall’altro con la comparsa della nuova sta-tua celebrativa a capo coperto. La toga tessuta a manodel princeps era già di per sé un atto di omaggio alla tra-

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dizione, una promessa di rispetto verso la res publica e,da parte di chi offriva quelle statue, una dimostrazione

di fiducia.

Toga e stola.

Augusto fece in modo che la toga diventasse per iRomani quasi una divisa di Stato e un simbolo di purez-za morale, che doveva ricordare a chi la indossava la pro-pria dignità. Orazio arrivò al punto di definirla come il

«sacro pegno» dell’impero (Carm. III 5,10 sg.).Nella tarda repubblica la toga non era molto diver-

sa, sia nel taglio che nel modo di portarla, dal mantellogreco. Ora invece si diffusero, probabilmente sotto l’e-sempio di Augusto e degli esponenti del regime, model-li più ricchi, che comportavano un drappeggio più com-plicato e un nuovo modo di indossarli (con sinus e bal-teus). L’aspetto era molto più suggestivo, ma la toga era

più faticosa da indossare e da portare. Nel corso deglianni gli artisti elaborarono dei modelli standard chefinirono per affermarsi come il modo più corretto diindossarla: essi imposero alla stoffa una forma esteticadove il gioco delle pieghe nascondeva quasi del tutto ilcorpo della persona. Il significato simbolico della togadiventa qui più importante della sua aderenza alle formeanatomiche.

I liberti furono tra i primi ad accogliere la nuovamoda, come risulta dai loro rilievi funerari: per loro latoga era il simbolo della cittadinanza finalmente ottenu-ta, l’emblema tangibile del successo. Ma in generale que-sta bianca divisa di Stato, scomoda e facile a sporcarsi,non era portata volentieri. Augusto dovette intervenire:

cercò di ripristinare anche l’antica foggia del vestire: e vistauna volta nell’assemblea una folla di persone vestite di

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scuro, ne provò sdegno ed esclamò: «Ecco i Romani, signo-ri del mondo, il popolo togato» [ Aen. I 282]; e diede in-

carico agli edili di non permettere più a nessuno di fermarsinel Foro e nelle vicinanze, se non si toglieva il mantello eindossava la toga (Suet., Aug. 40).

Anche a teatro il princeps volle che almeno in certeoccasioni solenni l’aspetto esteriore del popolo imperia-le corrispondesse alla visione del poeta (Suet., Aug. 44),e la vista dei bianchi togati a teatro e nelle assembleepopolari rappresentava certo un superbo colpo d’occhio,

mentre per il singolo cittadino era un motivo di fierez-za e di prestigio. L’obbligo di portare la toga era delresto solo una delle molte misure previste da Augusto;nello stesso tempo, i privilegi accordati ai cittadini conpieni diritti negli spettacoli teatrali e nelle distribuzio-ni di cereali e di denaro rafforzavano l’orgoglio di appar-tenere al populus romanus. Le liste dei beneficiari ven-nero peraltro ridotte, e le autorizzazioni concesse con

molto rigore.Il caso della toga obbligatoria costituisce un esempioparticolarmente semplice e istruttivo delle interazioniche potevano condizionare gli sviluppi del nuovo lin-guaggio: il poema epico nazionale proponeva un’imma-gine suggestiva (quella del popolo «togato»); di qui ilconfronto poco edificante con la realtà e l’interventodiretto da parte di Augusto. Ma nella maggior parte deicasi si tratta di un processo più complesso: gli spuntisono più banali e i passaggi intermedi più numerosi.

Anche la donna sposata delle classi alte dovevaindossare un abito conforme allo spirito dei nuovi costu-mi: era la stola, una lunga sopravveste senza maniche,munita di sottile spalline, dove alcune strisce ricamateindicavano lo stato sociale della matrona, come nella toga praetexta.

Nelle statue e nei busti femminili di età protoimpe-

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riale la stola ricorre spesso, a volte insieme a una bendadi lana intrecciata ai capelli (vitta). In precedenza, il

fatto di essere colorata la distingueva con chiarezzaancora maggiore dalla tunica e dal mantello. Nel quadrodella riforma dei costumi la stola finí per diventare ilsimbolo della virtù e del pudore femminile. Per le rispet-tabili matrone essa rappresentava dunque non solo unonore ma anche una «protezione dalle offese». Ovidio,che più tardi si definirà con rammarico un «maestro diadulterio » («obsceni doctor adulterii»: Trist. II 212),prende in giro quell’abbigliamento dal significato cosí

«sublime», e già i versi iniziali dell’ Ars amatoria sonopieni di allusioni ironiche alla morale ufficiale rappre-sentata dalla vitta e dalla stola:

Via le tenue bende,insegne del pudore, ed ogni stolalunga a coprire fino a mezzo il piede!Io canto amori certi e furti leciti.

(Ov., Ars am. I 31-33; trad. it. di E. Barelli).

Per le dame di alto rango non sarà stato facile rinun-ciare ai vecchi abiti sfarzosi e provocanti, di stoffa tra-sparente, per indossare una stola piatta come una cami-cia. E adesso veniva Ovidio a far sapere che le nuoveleggi sul costume le escludevano anche dai giochi amo-rosi. Per le sue avventure sentimentali il giovane roma-no doveva ormai rivolgersi a donne non sposate dei cetiinferiori, alle giovani liberte, alle schiave o alle nonromane. Ovidio non sarà stato l’unico a trarre questeconseguenze dalle nuove leggi sul costume.

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Capitolo quinto

Lo scenario mitico del nuovo Stato

Dopo dieci anni di rinnovamento religioso e mora-le, gli edifici e le immagini, i sacrifici e le feste inco-minciarono a dispiegare tutta la loro forza suggestiva. Laconvinzione che il nuovo Stato sarebbe durato in eter-no e la fiducia nella sua guida crebbero ovunque. I ten-tativi di far cadere il regime erano falliti, l’invincibilitàdi Augusto era stata ribadita dalle vittorie sui Cantabrie sui Parti, la pace interna si confermava stabile: chiun-que poteva sperimentare in prima persona i successi del

nuovo regime. Era dunque venuto il momento di darea quel successo un’espressione duratura. Il nuovo Statoaveva bisogno di immagini che fossero in grado di idea-lizzare la realtà e di celebrare la felicità presente: avevabisogno di un mito.

Certo, Augusto e i suoi collaboratori non potevanoformulare questa esigenza in termini cosí diretti e siste-matici, e tuttavia quello che prese forma negli anni delprincipato augusteo non si può definire se non come unmito di Stato. Gli elementi che lo compongono pro-vengono da ambiti assai diversi, e appaiono unificatidalla persona stessa di Augusto. Ancora una volta ilprocesso fu avviato da singole iniziative, in parte pro-messe dal princeps, in parte dai suoi sostenitori. Senzache alcun progetto unitario fosse all’opera, un comples-so intreccio di fattori diede vita poco per volta a un«sistema», e il nuovo mito di Stato, che non va confu-

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so con un coerente programma ideologico, prese formasoprattutto nel linguaggio delle immagini.

1. AUREA AETAS.

Augusto poté muoversi dapprima in un quadro pre-stabilito. Da tempo si fantasticava infatti sul prossimoavvento di una nuova età di Saturno, e ora le premessenon mancavano. Gli dèi e le stelle avevano mandato laguida promessa e sotto di lui il popolo romano si era

purificato e rinnovato. Per l’anno 17 a. C. si prevedevaun’altra cometa, come già alla morte di Cesare: ad Augu-sto non rimaneva altro che annunciare l’avvento dellanuova età. Nei giorni compresi fra il 30 maggio e il 3 giu-gno dell’anno 17 a. C. furono proclamati dei grandi ludi saeculares: l’ultima occasione era stata 136 anni prima,durante la guerra contro Cartagine. E non sarà statofacile per il collegio sacerdotale dei XV viri sacris faciun-

dis dare un fondamento matematico e teologico alla fe-lice contingenza politica.

Si inaugura l’età dell’oro.

È affascinante seguire le tappe che prepararono l’o-pinione pubblica al grande evento: anzitutto venne can-cellata l’onta della sconfitta contro i Parti, poi venne l’e-purazione del Senato e infine la riforma morale del ‘8a. C. I grandi motivi della virtus, del mos maiorum e dellapolitica familiare vennero cosí incorporati con perfettanaturalezza nel programma e nello scenario della festa.Il protocollo dei ludi, di cui si è fortunatamente con-servata l’iscrizione e il poema ufficiale composto perl’occasione da Orazio, il Carmen saeculare, ci permetto-no di seguire da vicino l’organizzazione dell’evento. Il

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collegio sacerdotale dei XV viri sacris faciundis elaborò lelinee direttive sotto la vigilanza di Augusto e di Agrip-

pa, che proprio a tale scopo si erano fatti eleggere magi- stri del collegium per l’anno 17. Gaio Ateio Capitone,uno specialista di questioni liturgiche, le sviluppò quin-di in una complessa architettura rituale, facendo sicu-ramente ampio uso dei libri di Varrone. Il programmacomprendeva un lungo periodo di preparativi, la festavera e propria, della durata di tre giorni, più vari gior-ni di gare e giochi di ogni tipo. Araldi in costume anti-co annunciarono, già mesi prima, «una festa quale nes-

suno vide, e nessuno più vedrà» (Suet., Claud. 21).Alcune monete d’oro coniate per l’occasione mostra-

no sul verso questi araldi, mentre sul recto compare l’ef-figie ringiovanita del Divi filius con una corona d’alloroe, sopra questa, il simbolo della cometa attesa per l’e-state: un richiamo esplicito al  sidus Iulium e agli av-venimenti di 27 anni prima, quando il giovane Otta-viano era comparso in pubblico per la prima volta. Ma

mentre allora il ritratto di Ottaviano era modellato suquello del padre adottivo, la situazione adesso apparerovesciata.

Il cerimoniale era affidato a gruppi sociali ben pre-cisi. Poco prima dell’inizio delle festività i XV viri, tracui lo stesso princeps, distribuirono i suffimenta necessa-ri ai rituali privati di espiazione e di purificazione, e traquesti lo zolfo, il bitume e le fiaccole. La scena solenne,che vedeva impegnato per diverse ore lo stesso Augusto,doveva essere di grande effetto ed è ricordata su unamoneta dell’anno successivo. Il giorno prima della festa,i sacerdoti ricevettero sull’Aventino una solenne offer-ta di primizie, grano, fave, ecc. da parte del popolo(come se si trattasse dei contadini di una volta, e non diuna popolazione ormai del tutto urbanizzata), offerteche vennero poi distribuite nei giorni successivi. Lapopolazione prendeva parte anche al rituale vero e pro-

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prio: perfino i non sposati, che le leggi recenti esclude-vano dai teatri e dalle feste, potevano prendervi parte

 propter religionem, «per riguardo alla religione», secon-do l’espressione usata dal princeps.I ludi saeculares furono un susseguirsi di messinsce-

ne spettacolari, che ebbero come teatro i santuari e i luo-ghi di culto della città. I motivi ricorrenti del cerimo-niale e del Carmen saeculare mostrano che lo scopo deiriti, di sapore in parte arcaicizzante, non era più, comenelle occasioni precedenti, quello di propiziare gli dèiinferi, ma di ottenere prosperità e salute: si trattava cioè

di una idealizzazione cultuale della nuova moralità e delnuovo Stato. Nel corso di tre cerimonie notturne furonoofferti sacrifici alle Moire, alle Ilitie e alla Terra Mater .La prima notte le dèe del destino ricevettero nove peco-re e nove capri: durante la cerimonia Augusto recitò unapreghiera piena di formule arcaiche per l’imperium e lamaiestas del popolo romano, per la salute, la vittoria ela prosperità del popolo e delle legioni, per la crescita

dell’impero, per gli ordini sacerdotali e infine per se stes-so, per la sua casa e la sua famiglia. Nelle due nottiseguenti furono evocate le Ilitie, come protettrici dellepartorienti, e la Terra Mater in quanto dea della fecon-dità: a quest’ultima, Augusto sacrificò con le sue stessemani una scrofa gravida. Per chi era presente, una scenadifficile da dimenticare. Una di queste scene ar-caicizzanti di sacrificio si trova raffigurata su una seriedi monete cornata poco più tardi.

Le cerimonie che si tenevano alla luce del giorno nonerano meno intense di queste scene notturne. Il primogiorno, sul Campidoglio, vennero offerti sacrifici aGiove e, nel secondo, a Giunone Regina, nel terzo gior-no, sul Palatino, ad Apollo, Diana e Latona. Anche inquesto caso Augusto e Agrippa offrivano personalmen-te le vittime: due buoi per Giove, due vacche per Giu-none e focacce per Apollo e Diana. Cori di centodieci

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matrone scelte, e tre gruppi di sette fanciulli e fanciul-le vestiti di bianco svolgevano nei riti una parte centra-

le. Le madri invocavano la benedizione di Giunone sulloStato e la famiglia, i fanciulli nei loro bianchi vestiti can-tavano il Carmen saeculare composto da Orazio davantial tempio di Apollo Palatino:

Febo, Diana, signora delle selve,luce del cielo, sempre veneratie venerabili, esaudite i votiin questo giorno sacro,

che nei versi sibillini prescrivealle vergini elette e ai fanciullidi cantare un inno agli dei che amaronoi nostri sette colli.

Sole fecondo, che col carro ardenteporti e nascondi il giorno, e nuovo e anticorinasci, nulla più grande di Roma

possa mai tu vedere!E tu, che dolce schiudi a tempo i partiper rito, proteggi le madri, Ilítia,o come tu vuoi essere invocata:Lucina, Genitale.Educa i figli, dea, e benediciil decreto che regola le nozzedelle donne e la legge di famigliache accende nuove vite,

perché al compiersi di centodiecianni, ritornino i canti e le festeaffollate per tre limpidi giornie tre notti serene.E voi, Parche, che la sorte fissatarivelate, senza che niente possamutarla, aggiungete a quelli compiutialtri buoni destini.

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La terra ricca di animali e biadeincoroni di spighe la campagna;

piogge e brezze benefiche del cielone nutrano i prodotti.

Deposti i dardi, tenero e tranquilloascolta, Apollo, i giovani che pregano,e tu, Luna, regina delle stelle,ascolta le fanciulle.Se Roma è opera vostra e milizietroiane occuparono il lido etrusco,

impegnate a mutare città, casa,solcando in salvo il mare;se, scampato alla strage, il pio Eneaaprí ai suoi un varco che potessesalvarli in mezzo alle fiamme di Troia,per donargli di più;o dei, date virtù ai nostri giovani,date dolce riposo alla vecchiaia

e alla gente di Romolo potenza,figli e tutta la gloria.E ciò che vi chiede con tori bianchiil sangue puro di Anchise e di Venere,forte col nemico e mite coi vinti,fate voi che l’ottenga.Ormai per terra e mare i parti temonol’arte del suo braccio e le scuri albane;ormai la superbia di sciti e indiani

attende la sentenza.

Fede, pace, onore e il pudore antico,la virtù smarrita osano oratornare e lieta appare l’abbondanzacol suo corno ricolmo.Profeta adorno di un arco abbagliante,Febo, che siede fra le nove Muse e

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con la sua arte risana le membradel nostro corpo infermo,

quando guarda sereno il Palatino,dall’uno all’altro secolo prolunga,e per tempi migliori, la fortunadell’impero romano.E Diana, che sull’Aventino e l’Àlgidoregna, esaudisce i sacerdoti chiniin preghiera e porge orecchio benignoai voti dei ragazzi.

Che questo vogliano Giove e gli deiè fede certa, che il coro, istruitoa tessere lodi di Febo e Diana,porta dentro di sé.

(Trad. di M. Ramous).

I temi e le immagini del Carmen si riferivano ai ritua-li a cui la gente aveva assistito negli ultimi giorni, e le

immagini invocate di Apollo e di Diana, insieme alledivinità astrali gemelle del Sole e della Luna, si po-tevano ritrovare dappertutto nel recinto del tempio. Nelsacrario del tempio si trovavano probabilmente già allo-ra i Libri Sibillini nella nuova redazione dei XV viri, con-servati in due custodie d’oro sotto l’immagine votiva,dove la Sibilla inginocchiata richiamava l’attenzione sulcontenuto rassicurante delle profezie. Ma la speranza delfuturo, i fanciulli, era li fisicamente, rappresentata dal-

l’immagine toccante dei piccoli cantori. Ogni elementoè legato all’altro: abbiamo a che fare con un’«operad’arte totale» rivolta ai cinque sensi, in cui rivivono,nello stesso tempo, gli antichi rituali perduti.

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Fecondità e pienezza.

Nel corso degli anni seguenti vediamo comparire suimonumenti più svariati nuove immagini di prosperità edi pienezza. Come nei riti dei ludi saeculares, anche quiil motivo della fecondità – nella natura ma soprattuttonell’uomo – appare decisamente in primo piano. Seinfatti la società romana non era disposta ad accogliereil programma di restaurazione morale con i suoi imme-diati risvolti di politica demografica, essa era inveceestremamente sensibile alle visioni utopiche dell’aurea

aetas. Il programma di incremento demografico fallisce,ma il motivo della prolificità ritorna poi sublimato eidealizzato nelle immagini. Il fenomeno è istruttivo: chele azioni del sovrano riescano oppure no, ha un im-portanza secondaria, la realtà cede il passo all’immagi-ne accattivante di una felicità duratura. La più antica ela più complessa composizione di questo genere è ilcosiddetto rilievo della Tellus nell’ Ara Pacis Augustae, il

cui programma fu ordinato e approvato da unacommissione senatoria.Una divinità materna dalle vesti classicamente sti-

lizzate è seduta su una roccia, in atteggiamento nobilee pieno di dignità. Tiene in braccio due neonati che gio-cano, cercando il suo seno, dei frutti le riposano ingrembo e nei capelli porta una ghirlanda di spighe epapaveri. Dietro di lei crescono, in meticolosa eviden-za, spighe, papaveri e altre piante. Il corpo, il vestito eil portamento della donna dovevano stimolare nell’os-servatore molteplici associazioni; ma sia che il pensierocorresse all’iconografia di Venere (il motivo del vestito),oppure a Cerere (il velo, la ghirlanda di spighe), o anco-ra alla dea Tellus (la roccia, l’ambientazione), in ognicaso si capiva subito che era questa la dea della fecon-dità e della crescita.

L’iconografia eclettica e polivalente corrisponde a

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quelle formule cumulative con cui i poeti augustei sonosoliti evocare questo tipo di divinità. La religione augu-

stea è caratterizzata da personificazioni prive di unretroterra mitico: mentre nell’iconografia tradizionaleun certo atteggiamento, un vestito o un attributo pote-vano evocare l’intero mito (per esempio Demetra è sem-pre seduta per terra), le nuove divinità non incarnanopiù figure mitiche precise, ma valori e forze a cui allu-dono molteplici attributi. E questo vale per tutte le per-sonificazioni dell’arte romana.

Nel nostro caso il repertorio dispiegato è particolar-

mente ricco. La figura composita – sia essa una perso-nificazione della Maternità o della Natura – appare inse-rita in uno scenario paesistico il cui scopo è di illustrar-ne l’azione benefica. Sotto il seggio della dea l’artista haraffigurato in scala molto più piccola e quasi a mo’ dicommento un bue in posizione di riposo e una pecoraintenta a pascolare, simboli della prosperità delle greg-gi e delle mandrie e della felicità della vita contadina.

Ai suoi lati si vedono invece due Aurae riprese dall’ico-nografia greca classica: sono le personificazioni gemelledei venti di mare e di terra. L’ Aura di terra vola, sedu-ta su un cigno, sopra un corso d’acqua coperto di cannee simboleggiato da un vaso rovesciato. L’ Aura di mareè invece seduta su un mostro marino al suo servizio:nella nuova età anche i mostri diventano mansueti. Le Aurae portano la pioggia e il bel tempo, favoriscono lacrescita della vegetazione e la fecondità dei campi, esono perciò strettamente legate alla dea verso la qualeguardano con venerazione. L’artista non intendeva raf-figurare un paesaggio, ma uno spazio simbolico i cuimotivi andavano letti separatamente ed erano perciòsuscettibili di essere ingranditi o rimpiccioliti a piacere.

A differenza degli animali, le poche piante sonosovradimensionate: le spighe crescono quasi miracolo-samente sotto gli occhi della dea, sotto il cigno di Apol-

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lo vediamo l’alloro, e anche il canneto appare in questocontesto come un’allusione pregnante all’umidità por-

tatrice di vita. E come un’immagine devozionale le cuisingole «cifre » stimolano nell’osservatore una varietà diassociazioni. Richiamando alla memoria devota le qua-lità della divinità, l’osservatore verrà indotto a venerarloe, con lui, a venerare Augusto e il suo nume.

Sul nome della dea si è molto discusso. Secondo leipotesi più plausibili – suffragate da autorevoli citazio-ni poetiche – potrebbe trattarsi della Terra, oppure diVenere, di Italia o della Pace, ma poiché i poeti usano

gli stessi motivi in riferimento a figure mitiche e sim-boliche diverse, e poiché l’immagine è un repertoriovolutamente eclettico di allusioni alla crescita e alla pro-sperità, non sembra possibile identificarla a partire dalsuo contenuto figurativo. Se consideriamo che la figuraè posta a ornamento dell’ Ara Pacis e aveva come suo pen-dant la dea Roma raffigurata in trono su un cumulo diarmi, sembra molto plausibile una identificazione con la

Pax Augusta. L’osservatore doveva «leggere» insieme ledue figure nel senso che la virtus ristabilita dalle armiromane era la garanzia della pace e dei suoi benefici. Lastessa connessione si trova espressa in forma più astrat-ta anche su un altare cartaginese. In un contesto diver-so la figura coi due neonati e i frutti in grembo potreb-be essere senz’altro la dea Terra, o Italia, o anche Cere-re. Sulla corazza della statua di Prima Porta, ad esem-pio, la posizione sdraiata e il quadro compositivo la con-notano senza possibilità di equivoci come la dea Tellus.È vero che anche in quel caso essa simboleggia, insieme,la pace e la pienezza dei nuovi tempi: ma i simboli dellasua azione benefica sono raccolti dentro la cornucopia,come nel caso della dea raffigurata sulla Gemma Augu-stea. Per quanto diverse fra loro siano in età augusteale personificazioni della maternità mitica, il significatonon cambia.

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Per quanto la figura della Pax Augusta possa appari-re pregnante – e molteplici le sue associazioni – il suo

carattere composito ne faceva nondimeno un messaggiodi facile lettura, tanto più che il Romano del tempo vitrovava «cifre» ormai familiari, o rese tali dalle solen-nità dei ludi saeculares. L’immagine serena del bue alpascolo e delle spighe in emblematica evidenza si era giàvista come augurio di pace sulle monete degli anni 27-26 a. C. Una strofa del Carmen saeculare si può leggerecome una parafrasi poetica di quell’immagine, quasiOrazio e lo scultore si fossero messi d’accordo:

La terra ricca di animali e biadeincoroni di spighe la campagna;piogge e brezze benefiche del cielone nutrano i prodotti.

Non c’è dubbio che i Leitmotive di questo reperto-rio figurativo provengano dalla stretta cerchia dei con-

siglieri di Augusto e abbiano a che fare direttamente colprogramma dei ludi. Mentre però l’evocazione dellafecondità nel Carmen saeculare è dettata da una precisaintenzione politica rivolta al contesto concreto (vv. 17-20) delle leggi sul matrimonio, lo scultore riesce ad assor-tire una varietà di motivi dal significato immediato: iltema della prolificità è si al centro della composizione,ma all’interno di uno scenario utopico dalle «cifre» benriconoscibili. Il monito politico di Augusto viene tra-dotto in un messaggio estetico di cui chiunque potevaaccettare i contenuti.

I motivi simbolici connessi alla figura della deaMadre mostrano come tutta la natura partecipi di que-sta fecondità paradisiaca, ed erano evidentemente moti-vi cosi familiari da poter essere utilizzati o citati nei con-testi più diversi, anche in forma abbreviata, pars pro toto.Ne sono un buon esempio tre rilievi concavi che ador-

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navano una fontana pubblica a Palestrina: a giudicaredalla qualità si direbbe che i rilievi provengano da una

delle migliori botteghe di Roma.Le gioie della maternità e la benedizione di una riccaprole vengono qui illustrate con esempi tratti dal mondoanimale. Ciascuno dei tre rilievi mostra una madre nel-l’atto di allattare i suoi piccoli, e ognuno dei tre gruppiè collegato a una bocca della fontana. Come nel rilievodella Pax Augusta, anche qui il carattere simbolico è sot-tolineato dalla novità della composizione. I tre gruppiappaiono chiusi in se stessi e, nonostante la concavità,

spinti in primo piano, ma non mancano altri motivi sim-bolici, in scala significativamente ingrandita: sopra l’ir-suto cinghiale compaiono la foglia di quercia del prince- ps e le canne, simbolo di fecondità, sopra la leonessavediamo l’alloro e un santuario di campagna con tantodi altare e di rilievi, coperto di ricche offerte sacrifica-li. La borsa da pastore e la stalla sopra la pecora procla-mano invece la vita semplice e felice della gente di cam-

pagna, anche se poi l’artista tradisce involontariamenteil carattere irreale di questo quadro bucolico raffigu-rando le mura dell’ovile come se fossero quelle di untempietto romano, dai blocchi squadrati di marmo.

Grazie all’universalità dei loro simboli, anche que-ste pacifiche scene di vita animale potevano dunqueannunciare il mito della nuova età: l’immagine della feli-cità materna poteva associarsi ai simboli della  pietas,all’elogio della vita pastorale o riferirsi ad Augusto, e ilrisultato era comunque legittimo ed efficace. Tanto piùche gli stessi segni (o i loro equivalenti) venivano usatiin contesti diversi, proponendo all’osservatore tutta unavarietà di associazioni: così, ad esempio, le spighe pote-vano simboleggiare la fertilità dei campi, la confraternitadegli Arvali, la pace, o anche l’approvvigionamento dicereali garantito dal princeps. Vasti orizzonti associati-vi, dunque, e una spiccata polivalenza semantica, com-

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pensata da una relativa vaghezza dei singoli enunciati:ecco le caratteristiche salienti di questo settore del lin-

guaggio figurativo augusteo.Perfino una scena vegetale apparentemente innocuacome il rilievo di Falerii rimanda a significati ulteriori,sia per il tono scolastico e didascalico della composizio-ne, sia per il fatto di accostare artificialmente varietàvegetali molto eterogenee. Le piante sono disposte conla nitidezza di un’immagine speculare, e spuntano dallaterra isolate l’una dall’altra, cosí da costringere lo sguar-do a seguirle a una a una. Anche qui le spighe e i papa-

veri sono più grandi che in natura, mentre gli uccelliacquatici rafforzano il valore simbolico del canneto: laterra è imbevuta di sorgenti, è tutto un crescere e un fio-rire. Al centro della scena troviamo però ancora unavolta un’allusione giocosa alla fecondità e all’educazio-ne della prole: una coppia di rondini premurose porta ilcibo ai suoi piccoli affamati nel nido. Nemmeno un mo-tivo «di genere» cosí immediato come quello degli uccel-

li è dunque un’invenzione del tutto spontanea, indi-pendente dai dettami dell’arte politica.

I tralci del paradiso.

Nel quadro programmatico del  saeculum aureumanche il vecchio motivo del tralcio ornamentale finí perassumere un nuovo e preciso significato simbolico. Itralci sono in effetti tra le «cifre» più ricorrenti delnuovo linguaggio figurativo, e non vi è quasi edificio diepoca protoimperiale in cui questo motivo non com-paia: in un programma cosí elaborato come quello del-l’ Ara Pacis essi occupano insieme ai festoni più dellametà dell’intero recinto.

Sui lati esterni dell’altare i tralci si sviluppano dagrossi cespi di acanto fino a diventare vere e proprie

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strutture arboree, in un intrico di sempre nuovi ramidove l’occhio si perde come in un labirinto. Fecondità e

pienezza sono qui il soggetto stesso della raffigurazione,ma per rendersene conto l’osservatore deve accostarsi alrilievo, esaminarne un settore e seguirne i singoli parti-colari. Scoprirà allora foglie carnose, fiori e frutti dellepiante più diverse, reali o immaginarie, e perfino un bru-licare di piccoli animali da cui la scena ricava un’evidenzaquasi tangibile. Se però fa un passo indietro per abbrac-ciare la composizione nel suo insieme, si troverà di fron-te a una struttura organizzata nei minimi particolari.

Malgrado piccole variazioni, i tralci seguono un ordinecompositivo a simmetria esattamente calcolato: per quan-to lussureggiante sia quel fiorire e quell’arrampicarsi,ogni voluta, anzi ogni singolo fiore e ogni singola fogliahanno un posto preciso nell’insieme. Quella che dovreb-be essere un’immagine simbolica della natura libera erigogliosa diventa cosi’ un’esemplare esibizione di ordi-ne: si potrà vedere in questo fenomeno quasi irritante

un’espressione della nostalgia nevrotica e tipicamenteaugustea per l’ordine e la legalità?L’uso dei tralci in chiave simbolica ha una lunga

storia. Già su alcuni vasi del iv secolo a. C., provenien-ti dall’Italia meridionale, vediamo i tralci associati allatesta della dea della fecondità, affiorante dalla terra.Anche nei primi edifici di età augustea il tralcio è qual-cosa di più che un semplice motivo ornamentale: in unfregio del tempio di Cesare sul Foro, le Vittorie «cre-scono» dai tralci, mentre sulla porta del tempio di Apol-lo questi ultimi hanno le radici, come si è visto, nei vasidei tripodi.

Ma questi tralci protoaugustei hanno ancora la clas-sica forma astratta a spirale. Solo ora, in rapporto almotivo programmatico della fecondità, i rami e le foglievengono raffigurati in modo realistico, dove l’attenzionedell’osservatore è richiamata dalle larghe foglie carnose

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e dai fiori sul punto di schiudersi. Anche qui gli artistiaugustei sottolineano il contenuto con modifiche di

natura formale.Una delle novità è la combinazione di piante fanta-stiche e piante reali: se vediamo dei grappoli d’uva,della aracee o delle palmette spuntare da rami d’acanto,o l’edera e l’alloro arrampicarsi tra pesanti volute; sevediamo festoni carichi dei frutti più svariati, tutto ciòallude ormai allo stato paradisiaco della nuova età (cfr.Verg., Ecl. IV).

Il tralcio di vite come simbolo del saeculum aureum

compare del resto in una grande varietà di combinazio-ni. Su un rilievo conservato a Napoli vediamo una pian-ta rampicante salire dietro una figura femminile sedutaa terra, personificazione di un popolo sconfitto; si trat-ta quasi di una parafrasi del motto antichissimo: se vuoila pace, preparati alla guerra. Lo stesso concetto vieneripreso in altra forma da due centauri sulla statua lori-cata di Cherchel: un centauro di mare col timone in spal-

la ricorda la battaglia di Azio, mentre un centauro diterra, il cui corpo va a finire in una serie di tralci, tienein mano la cornucopia. Nemmeno sull’ Ara Pacis manca-va del resto un preciso accenno iconografico al saeculumaureum, poiché sugli steli dei fiori vediamo i cigni diApollo («iam regnat Apollo», Verg., Ecl IV 10). Sualcuni rilievi di terracotta il rampicante viene addiritturacelebrato e venerato come un oggetto di culto.

E vero che per gli artisti augustei i tralci rampicantierano un motivo di estrema comodità. Non c’era fre-gio, cassettone o cornice di porta su cui non si potes-se applicare, e anche nei punti meno favorevoli c’eraposto per loro. Perfino sulle calzature delle statue i tral-ci potevano annunciare la fecondità e la prosperitàdella nuova era, senza dire poi che nessun altro moti-vo simbolico stimolava così la fantasia compositivadegli artisti.

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Soprattutto nei lavori per committenti privati tro-viamo veri miracoli di fantasia. Cosí, ad esempio, i tral-

ci raffigurati su un grande cratere d’argento devonomolto, nel loro rigore compositivo, ai modelli ufficiali –li vediamo spuntare perfino dalle ali di una coppia digrifi – mentre i putti senza ali rientrano a loro volta neltema programmatico della fecondità, ma i gesti grotte-schi con cui questi paffuti lattanti si muovono sui ramifiliformi, catturano pesci o infilzano gamberi con un tri-dente, dànno vita a un mondo sereno di pure forme arti-stiche. Manierismi analoghi si trovano anche nella pit-

tura parietale: ricchezza inventiva e leggerezza giocosaprendono il sopravvento là dove gli artisti si sentonoliberi dal peso dei programmi ufficiali. Ed è appunto inqueste opere, assai più che nelle forme rigorose ma aridee didattiche dell’ Ara Pacis, che l’arte augustea raggiun-ge ai nostri occhi gli esiti più convincenti.

Vittoria e pace.

La cosiddetta vittoria sui Parti risaliva all’anno 20a. C. ma poiché la sua utilizzazione in chiave ideologi-ca appare in stretto rapporto con l’apertura del saeculumaureum ce ne occupiamo soltanto ora. La cerchia diAugusto attribuí all’avvenimento un significato assaiparticolare: non solo esso costituiva il presupposto perl’inizio dell’età dell’oro, ma le sue celebrazioni permi-sero di collaudare una nuova idea di vittoria, che con-sacrava il sovrano a vincitore in aeternum e ne faceva ilgarante della pace e della prosperità universale.

Fin dai tempi più antichi gli dèi di Roma si eranoimpegnati nelle guerre «giuste»: una grande vittoria erasegno dei buoni rapporti fra la res publica e le sue divi-nità tutelari, mentre una sconfitta aveva sempre allasua origine qualche inosservanza di natura religiosa e

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bisognava allora riconciliarsi con gli dèi mediante sacri-fici e rituali di purificazione. Una concezione arcaica i

cui esiti appaiono però non troppo lontani dall’idea elle-nistica di un’umanità divinizzata: se per i Greci, infat-ti, gli dèi si manifestavano nelle gesta dei grandi uomi-ni, e tutto dipendeva dalle energie sovrumane di questiultimi, la vittoria è però in entrambi i casi un segno dielezione.

Nell’ideologia augustea le vittorie rivestono poi unsignificato particolare: non solo esse dimostrano, cometra i sovrani ellenistici e i « grandi » della tarda repub-

blica, il favore degli dèi verso Augusto e la sua unicità,ma testimoniano insieme, nel quadro della riformareligiosa, la ritrovata armonia tra lo Stato e i suoi dèi.Ogni nuova vittoria non poteva perciò non risolversi inuna conferma del nuovo regime.

Il nesso tra pietas e vittoria era già stato sottolinea-to dopo Azio; dieci anni più tardi la vittoria sui Parti fucelebrata come avvenimento del secolo e come confer-

ma dell’avvenuto risanamento dello Stato: a tale scoporisultava certo più adatta della lenta e sanguinosa sot-tomissione dei Cantabri in Spagna, che significativa-mente non ebbe eco nelle arti figurative. Non tutte levittorie andavano celebrate allo stesso modo: non sitrattava tanto di ricordare il singolo successo, quanto diillustrare il nesso organico tra la vittoria e la  pietas, ilregime politico e la felicità universale.

Fin dalla metà degli anni venti i Romani furono pre-parati a una nuova campagna militare contro i Parti.Sono i poeti a darci un’idea delle parole d’ordine diffu-se per l’occasione: i Romani dovevano ricordarsi dellosmacco subito nell’anno 53 a. C., quando Crasso avevaperduto le insegne militari e le aquile delle legioni, e iprigionieri di guerra, cosí almeno si diceva, non aveva-no ancora fatto ritorno. Senza prima riscattare l’onoremilitare di Roma la restitutio dello Stato non sarebbe

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stata completa, tanto più che gli stessi Libri Sibillinisembravano mettere in relazione l’inizio dell’età dell’o-

ro con la vittoria sui Parti. Cesare era stato assassinatoprima di partire per l’Oriente, e Antonio aveva dimo-strato di non essere all’altezza: Augusto invece sarebbeandato, come già Alessandro, in Oriente e avrebbe fattovedere che la nuova virtus romana poteva reggere il con-fronto con l’antico valore.

La campagna si svolse in un modo per nulla spetta-colare: dopo qualche movimento di truppe a scopo inti-midatorio si giunse a un accordo per vie diplomatiche.

Il re dei Parti Fraate restituí le insegne, liberò i prigio-nieri di guerra che si pretendeva fossero ancora nelle suemani e mandò più tardi a Roma in ostaggio alcune dellesue donne e dei suoi figli, dimostrando cosí di ricono-scere l’autorità romana per il presente e per il futuro.

A differenza di quanto era accaduto dopo Azio,Augusto si comportò con estrema riservatezza, rinun-ciando persino al trionfo già decretatogli dal Senato. Le

insegne riconquistate furono però esposte in pubblico ein forma spettacolare, utilizzando allo scopo un tem-pietto circolare dedicato a Marte Vendicatore ( MarsUltor ), costruito proprio allora in gran fretta. Numero-se monete mostrano il tempio con i signa restituiti e unastatua di Marte in stile arcaistico. L’ubicazione sul Cam-pidoglio fu una scelta molto felice: se da un lato le inse-gne venivano offerte a Giove, dall’altro sottolineavanoin questo modo il significato particolarissimo che Augu-sto attribuiva alla propria vittoria. Il tempietto era infat-ti vicinissimo a due santuari, entrambi legati alla figuradi Augusto: il tempio di Giove Feretrio consacrato daRomolo e costruito da Augusto e il tempio di GioveTonante fatto erigere da lui appena quattro anni prima,in memoria di quel fulmine con cui lo stesso Gioveaveva indicato in lui il suo favorito. Nel tempio di GioveFeretrio si conservavano invece le armi conquistate un

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tempo da Romolo e Marcello ( spolia opima), e che offri-vano ora un illustre termine di paragone alle insegne

riconquistate ai Parti: che l’intenzione fosse precisa-mente questa risulta da una serie di monete in cui vedia-mo il nuovo tempio di Marte con la statua arcaistica deldio e le famose insegne associati al tempio di  Jupiter Tonans.

Tutte le altre celebrazioni della vittoria sui Partipresero la forma di iniziative in onore di Augusto, chevidero il Senato in prima fila. Augusto rinunciò altrionfo vero e proprio, ma questo non impedí ai sena-

tori di attingere al repertorio tradizionale delle grandioccasioni e di fargli costruire proprio accanto al tempiodel Divus Iulius un nuovo arco di trionfo (Dio. Cass.,54,8) su cui erano raffigurati dei Parti nell’atto di offri-re ad Augusto le insegne.

L’immagine propagandata dal Senato del Parto sot-tomesso piacque moltissimo ai Romani: i funzionaridella Zecca fecero coniare una moneta in cui si vedeva

un Parto inginocchiato nell’atto di porgere i  signa, eanche Orazio annunciò che Fraate «aveva accettato inginocchio l’autorità di Cesare» (Ep. I 12,27). L’imma-gine adulatoria veniva riprodotta persino sugli anelli: suuna gemma in pasta vitrea i barbari sono raffigurati,significativamente, insieme alla Vittoria sul globo, sim-bolo dell’impero. E di questa immagine si impadroniràlo stesso Augusto nelle sue memorie:

Costrinsi i Parti a restituire il bottino e le insegne ditre eserciti romani e a supplicare umilmente l’amicizia delpopolo romano (Res Gestae 29).

La figura del barbaro in ginocchio era destinata adavere anche in futuro un successo straordinario e a con-dizionare largamente l’idea che i Romani si facevano deipropri rapporti con i popoli ai confini dell’impero: una

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volta riconosciuta l’autorità di Roma il loro dovere eradi rendere omaggio ai vincitori e di chiedere l’amicitia,

come risulta ad esempio, con grande efficacia, da unadelle due tazze d’argento di Boscoreale.A differenza di quanto accadrà in epoca imperiale

più avanzata, la guerra in se stessa non è un tema del-l’arte augustea. Non si trova, ad esempio, alcun accen-no alle lunghe e faticose campagne militari condotte inSpagna, in Illiria e in Germania, rimosse come furonodalle immagini suggestive della pace conquistata. SaràTacito a rilevare più tardi, con sarcasmo ( Ann. I 10,4),

il contrasto fra l’apparenza di quelle immagini e la realtàquotidiana: «pacem sine dubio [...] verum cruentam»,«pace sí, ma sanguinosa».

Malgrado l’uniformità di questo repertorio icono-grafico non c’erano direttive impartite «dall’alto». Nel-l’anno 19 a. C. nessuno impedí ai funzionari della Zeccadi paragonare Augusto, vincitore dei Parti, a Dioniso, edi fargli celebrare il trionfo su un carro trainato da ele-

fanti. E evidente che, dopo le vicende della guerra con-tro Antonio, si trattava di un paragone inopportuno, einfatti non verrà ripetuto: coloro ai quali era affidato l’e-logio del sovrano dànno prova di un’autodisciplina cherende superflui gli interventi d’autorità.

Il motivo della vittoria sui Parti trova la sua elabo-razione più compiuta nella celebre statua loricata diAugusto proveniente dalla Villa di Livia a Prima Porta.Si tratta della copia marmorea di una statua in bronzorealizzata con ogni probabilità negli anni immedia-tamente successivi alla vittoria, come risulta dallo stret-to rapporto fra le figure del rilievo sulla corazza e imotivi del Carmen saeculare di Orazio. Il committente(il Senato?) o i suoi consiglieri appartenevano dunquealla stretta cerchia di Augusto, e il fatto che la statua tro-vasse il favore della famiglia imperiale è dimostrato dalluogo del ritrovamento.

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In un’epoca in cui Augusto accentuava ulteriormen-te la sua già abituale riservatezza, il committente lo fece

raffigurare nelle vesti splendide del vincitore e non esitòa richiamare senza mezzi termini la sua origine divina.Nella mano sinistra Augusto teneva la lancia e nella de-stra forse i signa riconquistati. I piedi nudi ricordano l’i-conografia degli dèi e degli eroi, mentre la figura diEros a cavallo su un delfino allude senza dubbio allaprogenitrice Venere: nei lineamenti del fanciullino si èvoluto addirittura riconoscere il ritratto del nipote GaioCesare, nato nel 20 a. C., ma si tratta forse di un’in-

terpretazione troppo azzardata. Non solo il ritratto diAugusto, ma l’intera statua segue i modelli classici del-l’arte greca del v secolo, cosí da innalzare la figura delvittorioso in una sfera più elevata.

Dai rilievi della corazza risulta però una nuova con-cezione della vittoria; al centro della composizione il redei Parti offre le insegne e le aquile delle legioni a unpersonaggio in divisa militare, che potrebbe essere un

rappresentante delle legioni romane, se non addiritturalo stesso Marte Ultore. L’episodio, presentato qui consemplice realismo, si inserisce tuttavia in uno scenarioche abbraccia terra e cielo: a destra e a sinistra siedonodue figure femminili in atteggiamento afflitto, personi-ficazioni dei popoli sottomessi dai Romani (è la figuracol fodero vuoto), o comunque ridotti all’obbedienza(figura con la spada). È facile riconoscere nella donnadalla tromba con l’estremità a forma di drago e dal ves-sillo col cinghiale la personificazione dei Celti di Occi-dente, e nell’altra figura, umiliata ma non disarmata, lapersonificazione dei popoli dell’Oriente o dei Germani,costretti a pagare il tributo e a difendere i confini del-l’impero. Ciò corrisponderebbe allo scarno resocontodelle vittorie di quegli anni lasciatoci da Orazio in unadelle sue Epistulae:

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Perché tu sappia / come vanno le cose a Roma: / permerito di Agrippa e Claudio Nerone [Tiberio] / sono cadu-

ti càntabri e armeni; / Fraate, costretto in ginocchio, haaccettato leggi e autorità di Cesare; / e una straordinariaabbondanza di messi / si è riversata dal cielo sull’Italia

(Ep. I 12,26-29; trad. di M. Ramous).

Anche sul rilievo della corazza la vittoria sui Partiviene celebrata come l’inizio di una nuova era. Sotto lascena centrale è sdraiata la dea Terra, i cui attributi cor-rispondono in gran parte a quelli della Pace sull’ Ara

Pacis, personificazioni entrambe dell’aurea copia propriadell’età dell’oro. Il nesso è confermato dal richiamo adApollo e Diana, che nell’iconografia greca appaiono acavallo su un grifo e su una cerva: qui – come nei poetiaugustei e nel Carmen saeculare – essi appaiono diretta-mente associati alle divinità astrali sopra il gruppo dimezzo, e precisamente Apollo al dio Sole sul suo carro,e Diana alla dea Luna. Fra i due vediamo Caelus nell’atto

di dispiegare la volta celeste. Della dea Luna vediamosolo la parte superiore del corpo, mentre il resto è coper-to o eclissato dalla figura alata di Aurora, che versa daun’anfora la rugiada del mattino. Una grossa fiaccolaqualifica la Luna come noctiluca o lucifera e sottolineaintenzionalmente il legame con Diana che, contro laregola, porta una fiaccola accanto alla sua faretra. Anchenel gruppo cultuale del tempio di Apollo Diana portavadel resto una fiaccola, che risulta essere un attributo spe-cifico, e proprio di questi anni, della «doppia» divinitàDiana-Luna:

[cantate] com’è rito il figlio di Latonae l’astro lucente della notte, che crescedi splendore e feconda le messi, velocenel volgere dei mesi.

(Orazio, Carm. IV 6,37-40; trad. di M. Ramous).

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Anche questo motivo del Carmen saeculare non manca,dunque, nella raffigurazione simbolica della vittoria.

Col loro moto ciclico le divinità astrali sono un sim-bolo di durata eterna, ma insieme al Cielo e alla Terrasottolineano anche il carattere cosmico dello spazio e deltempo. Le due sfingi sulle spalline della corazza siedo-no come due guardiani cosmici, indicando che la nuovaera tanto attesa è già iniziata. La vittoria sui Parti è dun-que insieme presupposto e conseguenza del  saeculumaureum: il singolo evento storico entra a far parte dellanuova storia sacra, di cui gli dèi astrali garantiscono il

corso senza peraltro intervenire in prima persona. IlParto che leva lo sguardo riverente all’aquila romana è,non a caso, l’unica figura attiva.

Il princeps, che porta sulla corazza la nuova immagi-ne della vittoria, è il messaggero della Provvidenza edella volontà divina. Il suo compito non è più quello diportare a termine grandi imprese: il figlio degli dèigarantisce l’ordine universale con la sua semplice esi-

stenza, e impersona, in virtù dei suoi antenati, l’intesatra lo Stato e gli dèi. Né l’ambizione carismatica espres-sa dalla corazza è in contrasto con le statue togate dalcapo coperto, perché la natura vittoriosa del princeps nonha più bisogno di conferme spettacolari sui campi di bat-taglia, ma è la conseguenza del suo stretto legame congli dèi, ed è perciò una qualità permanente. Vedremo piùtardi con quanta rapidità la nuova concezione sia entra-ta nel linguaggio figurativo, imponendosi come un veroe proprio topos.

2. IL MITO, LA STORIA, IL PRESENTE.

Per quanto positiva fosse l’immagine che i Romaniavevano del presente, grazie alle celebrazioni del saecu-lum aureum e delle vittorie volute dagli dèi, e per quan-

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to la nuova città marmorea raccontasse la gloria delnuovo sovrano, Roma aveva pur sempre un grande pas-

sato. Nell’anno 27 a. C. Augusto si era presentato comeun restauratore e non come un innovatore, e in tutte leoccasioni possibili egli si richiamava agli antenati. Ancheil nuovo Stato e il ruolo dominante che Augusto vi rico-priva richiedevano una legittimazione a partire dallastoria della città. Le grandi famiglie aristocratiche nutri-vano il proprio orgoglio di casta con le memorie dellavecchia res publica, sinonimo di libertà, e avrebberovisto volentieri nel nuovo regime una delle tante situa-

zioni transitorie che la storia romana aveva conosciuto.Si trattava, dunque, di contrapporre alla tradizione qual-cosa di non meno valido: di incorporare il passato nelmito della nuova era.

Nell’anno dei ludi saeculares (il 17 a. C.), Giulia, lafiglia di Augusto che dopo la morte di Marcello si erasposata con Agrippa, aveva dato alla luce un secondofiglio. Il princeps adottò ancora nello stesso anno il neo-

nato e il suo fratellino maggiore di tre anni, e i due prin-cipini, Gaio e Lucio, portarono da allora i nomi orgo-gliosi di Caesar, Augusti Caesaris filius, Divi Iuli nepos.Dopo la creazione del nuovo Stato si trattava ora di assi-curarne la continuità, e la legittimazione di una dinastiaGiulia svolge un ruolo primario nell’elaborazione delnuovo mito di regime. Non a caso l’immagine del DivoGiulio col  sidus Iulium ricompare nel 17 a. C. su unamoneta, per la prima volta dopo molti anni.

Dal mito di famiglia al mito di Stato.

Iniziando la lotta per la successione, il Divi filiusaveva sfruttato il mito della famiglia Giulia, rivendican-do con efficacia la propria appartenenza alla casa diEnea. Ma successivamente il suo ruolo era diventato

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quello del salvatore della patria e del favorito di Apollo,senza alcun richiamo preciso alla storia di Roma. Il mito

di famiglia ritorna in primo piano solo con la propagan-da per la successione dei nipoti, ma in questo caso nonsi trattava più, come all’epoca della lotta con Antonio,di una mitologia a uso personale. Nel frattempo Virgilio– accogliendo il pressante invito di Augusto – avevascritto l’Eneide (29-19 a. C.), in cui il mito di Venere, lacaduta di Troia e le peregrinazioni di Enea si inserivanoin un quadro unitario e l’intera storia di Roma, incluseovviamente le sorti della famiglia Giulia, assumeva il

carattere di un disegno provvidenziale. L’epoca di Augu-sto irrompe nell’Eneide sotto forma di anticipazioni visio-narie e viene salutata come il futuro avvento di un ordi-ne mondiale: con la suggestione delle sue immagini Vir-gilio aveva creato un’epopea nazionale estremamenteadatta a rafforzare l’orgoglio patriottico dei Romani.

Come nel programma architettonico-urbanistico della publica magnificentia, anche nel caso dell’Eneide ebbe un

ruolo importante il confronto coi modelli greci: già nel26 a. C., dopo la recita di alcuni canti del poema, Pro-perzio aveva scritto che l’opera avrebbe superato l’Ilia-de di Omero (II 34,64 sg.). La fama di cui Virgilio godet-te già in vita dimostra come i Romani del tempo fosse-ro senz’altro disposti a identificarsi con questo mitonazionale. Tacito riferisce che « il popolo stesso, ascol-tati i suoi versi in teatro, si alzò in piedi per salutare ilpoeta li presente come fosse stato Augusto» (Dial. 13).

Non meno efficace era però il linguaggio degli edi-fici e delle statue, e il monumento che più contribuí apropagandare il nuovo mito di Stato fu il Foro di Augu-sto. Già durante la battaglia di Filippi contro gli assas-sini di Cesare, Ottaviano aveva promesso di dedicare untempio a Marte Ultore (42 a. C.), ma il santuario potéessere consacrato solo quarant’anni più tardi. Nel frat-tempo Marte si era «vendicato» una seconda volta, con-

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tro i Parti, e fu perciò nel sacrario del nuovo tempio chele insegne riconquistate trovarono la loro collocazionedefinitiva. Questo successo, cosí importante per l’iden-tità romana, e le altre imprese dei generali e degli eser-citi di Augusto permisero finalmente di dimenticare leguerre civili.

L’edificio fu fatto costruire da Augusto su un terre-

no di sua proprietà (in privato solo) coi proventi del bot-tino di guerra e, a differenza della statua loricata diPrima Porta o dell’ Ara Pacis, il Foro fu commissionatoda lui personalmente. Come ventisei anni prima il san-tuario di Apollo, anche il Foro di Augusto parla dunqueil linguaggio stesso dell’imperatore: che è poi il linguag-gio delle visioni virgiliane, in cui mito e storia si fondonoin un unico quadro provvidenziale. La sola differenzarispetto al poema epico sarà che lo sguardo qui è rivol-

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Roma, Foro di Augusto. Pianta con ricostruzione del programma sta-tuario. Il lato sud della piazza non è ancora stato portato alla luce.

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to dal presente al passato. Il Foro e il tempio furono con-cepiti come la «vetrina» del nuovo Stato, secondo un

preciso programma educativo. Conformemente al suonuovo stile politico, Augusto evitò ogni forma diretta diautocelebrazione, anche se i contemporanei, abituati auna trentennio di immagini encomiastiche, potevanocogliere ovunque allusioni e riferimenti. In ogni caso,anche un avversario di Augusto avrebbe avuto diffi-coltà a scorgere in quel programma figurativo i segni diuna «politica dell’immagine» diretta dall’alto: anche nelForo di Augusto, come vedremo, l’elogio diretto del

sovrano rimane una prerogativa del Senato.

Venere e Marte.

La parte mitologica del programma figurativo delForo di Augusto comprendeva poche figure e nessun ele-mento nuovo. L’aspetto decisivo era dato dalla fusione

di due cicli mitologici: il mito di Troia e la leggenda diRomolo. Secondo la versione della leggenda sulle origi-ni di Roma che già Virgilio aveva adottato per il suopoema, Marte aveva sedotto Rea Silvia, figlia del re diAlba Longa, ed era diventato cosí padre dei due gemel-li Romolo e Remo e progenitore dell’intera stirpe roma-na. Ma poiché Rea Silvia discendeva, secondo la leg-genda, dalla stirpe troiana di Enea, la madre dei duemitici gemelli poteva essere accolta nell’albero genealo-gico di Augusto ed è per questo che i poeti augustei lachiamano perlopiù col nome di Ilia (da Troia=Ilion). Inquesto modo Venere e Marte, e sia pure con «partner»differenti, diventavano progenitori dei Romani (e la cir-costanza non mancò di suggerire ad Ovidio un’altraallusione ironica alle leggi matrimoniali). Le due divinitàavrebbero vigilato insieme sui loro protetti, Martegarantendone la virtus, e Venere procurando fecondità

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e pienezza. Il mito privato della famiglia Giulia diven-ta cosí un elemento centrale del nuovo mito di Stato, e

la statua della dea dell’amore verrà associata in tutte leoccasioni possibili a quella del dio della guerra, col risul-tato inevitabile di richiamare alla memoria anche lasegreta storia d’amore che univa i due nel mito greco. Imitologi augustei cercarono di aggirare la difficoltà in-terpretando questo amore come la prefigurazione delruolo eletto che la famiglia Giulia avrebbe ricopertonella storia «marziale » del popolo romano.

Prima della battaglia di Azio, Ottaviano aveva anco-

ra fatto raffigurare la sua antenata nelle vesti di sedut-trice, ma sul frontone del tempio di Marte Ultore lavediamo ora, conforme al nuovo ruolo, dignitosamenteavvolta in un mantello e con lo scettro nella mano accan-to al dio della guerra. Anche nella cella del tempio la suastatua era vicina del resto a quella di Marte, e Ovidiocommentò la cosa con una battuta, suggerendo che losposo, cioè Vulcano, era rimasto ad attendere fuori della

porta (Trist. II 295). (C’era lí, probabilmente, una sta-tua di Vulcano, donata da Augusto in occasione dellariorganizzazione del corpo dei vigili del fuoco).

Questa indicazione di Ovidio è stata messa in rap-porto con un rilievo conservato ad Algeri, interpretato asua volta come una raffigurazione del gruppo statuariodel tempio di Marte Ultore. Accanto alla statua di Martesi trovano Venere con Eros e una statua con un mantel-lo ai fianchi: si tratta con tutta probabilità di Cesare divi-nizzato e raffigurato, in virtù del suo rango divino, accan-to a Venere e Marte. L’amorino porge alla madre laspada di Marte e il gesto è in tale evidenza da suggerireun’interpretazione allegorica, suffragata anche da altrimonumenti: Marte disarmato da Amore sarebbe un’al-lusione alla pace, ottenuta dopo la giusta guerra, e la stes-sa idea ritornerà nella statua di Marte Ultore.

Non crediamo di forzare l’interpretazione del mode-

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sto rilievo avanzando l’ipotesi che Venere riproducesseun modello classico di Afrodite. Forse si trattava addi-

rittura di un originale greco riutilizzato, come era avve-nuto per il gruppo statuario di culto del tempio di Apol-lo sul Palatino e nel tempio di Giove Tonante. Moltiesempi potrebbero confermare, del resto, che gli artistiaugustei erano soliti nobilitare gli dèi di Stato con cita-zioni classiche, o addirittura utilizzando per interomodelli antichi.

Un esempio assai convincente è una statua in bron-zo di Venere conservata a Brescia, le cui ali furono

aggiunte in seguito, quando si decise che la statua dove-va raffigurare la Vittoria. La versione originale senza aliè la replica di una celebre statua augustea, raffiguranteVenere progenitrice nell’atto di scrivere su uno scudo levittorie della famiglia Giulia. Il modello classico utiliz-zato era una statua di Afrodite del iv secolo a. C., il cuibel corpo si rispecchiava nello scudo dell’amante. Vedre-mo più tardi quali significati morali venissero associati

in età augustea a queste citazioni classiche. In questocaso, comunque, il modello classico andava adattato allanuova funzione e alle nuove categorie morali: la partesuperiore del corpo, nuda, fu rivestita, e lo scudo con l’i-scrizione delle vittorie venne rivolto all’osservatore.

In un altro gruppo, anch’esso «inventato» dagli arti-sti augustei, la stessa Venere-Afrodite di derivazioneclassica abbraccia, anziché lo scudo, il dio della guerra,ripreso a sua volta da un modello del v secolo a. C. Lacombinazione dei due modelli conferisce al simbolismodel gruppo un carattere decisamente programmatico:non si tratta più, in effetti, dell’avventura amorosa nar-rata dal mito classico ma delle implicazioni simbolichedel nuovo mito di Stato. In futuro, e la cosa è signifi-cativa, altre copie dello stesso gruppo mostreranno iritratti della coppia imperiale, ma anche di semplici cop-pie borghesi. E in questo modo i valori adombrati dal

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gruppo statuario, in particolare la concordia, venivanoriferiti ai personaggi reali del «ritratto».

Anche per Marte si dovettero escogitare nuoveimmagini corrispondenti alla sua dignità di progenitore.L’immagine cultuale del tempio di Marte Ultore – pro-babilmente una statua crisoelefantina – si trova ri-prodotta in un colosso marmoreo dell’età dei Flavi, doveil dio è raffigurato, come già sull’ Ara Pacis, nelle vestidi una solenne figura paterna dalla gran barba. Dopo il20 a. C. la statua del tempio circolare sul Campidogliolo mostrava ancora come una figura giovanile, nuda e

arcaistica, dal passo flessuoso. Ora, invece, porta unacorazza riccamente decorata, un elmo sontuoso e le gam-biere, la lancia e lo scudo.

Mentre la corazza è nello stile del tempo, l’elmo conle sfingi e i cavalli alati è ripreso dall’ Athena Parthenosdi Fidia. La barba e il volto rielaborano una statua distratega di marca attica, mentre la ricca ornamentazionedella corazza e dello scudo è piena di allusioni alla realtà

presente. Sullo scudo (aggiunto nella copia romana) face-va spicco una corona civica, il cui rapporto con Augustosalvatore della patria doveva risultare evidente a ognivisitatore del sacrario, tanto più che proprio davanti allastatua erano esposte come reliquie le insegne ri-conquistate e le aquile delle legioni (Res Gestae 29).Sulla corazza si vedono, in posizione dominante, duegrifi, che insieme al gorgoneion alludono alle armi terri-fiche di Marte. I contemporanei potevano interpretarei grifi come simboli di Nemesi, dea della vendetta, oppu-re di Apollo, ma anche gli elefanti e le teste di ariete suilacci dei calzari vanno intesi come immagini di forza edi battaglia. I grifi poggiano però su una grossa palmet-ta munita di tralci, e fra questi ultimi cresce una speciedi pianta a forma di candelabro. Sugli spallacci compaio-no perfino delle cornucopie incrociate: il vecchio Marteè diventato il guardiano della pace.

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Il dio raffigurato nella parte centrale del frontoneha invece un aspetto aggressivo: nudo dalla cintola in

su, poggia il piede sul globo con gesto trionfale ed èarmato di lancia e di spada. Le immagini del protetto-re dall’aspetto paterno e del conquistatore sono quicontrapposte con un’intenzione precisa. La secondaimmagine corrisponde infatti a quella parte del pro-gramma politico di Augusto che mirava al rafforza-mento dell’impero, e non a caso l’immagine divinizza-ta del sovrano seguirà in futuro anche questo schema.Anche il Marte raffigurato sul frontone del tempio è

riferito d’altronde ad Augusto, se non altro indiretta-mente, attraverso le figure che gli fanno da contorno.Dalla parte opposta alla Venus Genetrix con Eros vedia-mo la Fortuna col timone e la cornucopia: ma proprioalla Fortuna Redux il Senato aveva dedicato un altaredopo il ritorno del princeps. Seguono poi, seduti, Romae Romolo in veste di augure e infine, sdraiati, il Teve-re e il Palatino, dove Romolo aveva costruito le prime

mura della città e dove ora si trovava la residenza diAugusto.La composizione del timpano è caratteristica, nella

sua staticità, della nuova arte di Stato, con la sua ricer-ca di valori ufficiali e solenni, le sue forti preoccupazionisimboliche e didascaliche. I frontoni dei templi classicied ellenistici presentavano miti e battaglie in formavivacemente drammatica, e ancora nel timpano del tem-pio di Quirino, iniziato da Cesare, erano raffiguratidiversi eventi mitici, tra i quali l’augurium di Romolo.Ora, invece, i personaggi del mito appaiono semplice-mente giustapposti, in simmetria frontale, con la fun-zione di incarnare significati astratti e di alludere indi-rettamente alla figura del  princeps: sono diventati ele-menti del nuovo linguaggio mitico-figurativo.

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Enea e Romolo.

Dei vecchi cicli mitologici vennero conservate solopoche figure particolarmente rappresentative. Alla cop-pia Marte-Venere facevano riscontro, nelle nicchie cen-trali delle due grandi esedre del Foro di Augusto, le figu-re contrapposte di Enea e Romolo, raffigurati, rispetti-vamente, in fuga da Troia e nelle vesti di trionfatore.Una contrapposizione che non aveva il significato di unconfronto tra i due eroi, ma intendeva piuttosto illu-strarne le virtù complementari.

Le statue originali non si sono conservate, ma sta-tuette, rilievi e pitture parietali ce ne dànno comunqueun’idea attendibile. Enea porta sulle spalle il vecchiopadre Anchise, tenendo per mano il figlioletto Ascanio,ma mette anche in salvo gli dèi di Troia, i Penati, che ilvecchio Anchise tiene in mano come un bene prezioso.Insieme al Palladium, i Penati troiani erano ora venera-ti nel tempio di Vesta come garanti dei destini di Roma.

Cesare aveva attribuito ad Enea anche il merito di avermesso in salvo il Palladium e infatti lo vediamo, su unamoneta di età cesariana, nell’atto di fuggire da Troia conin mano l’arcaica statua di Atena. Ma il gruppo statua-rio del Foro di Augusto ha un significato che va al di làdella pura commemorazione storica: Enea è qui un numetutelare del nuovo Stato ed è la sua pietas eroica verso ilpadre e verso gli dèi ad apparire in primo piano.

Ecco perché l’artista introduce nella sua raffigura-zione una serie di elementi didascalici estranei al fattovero e proprio. Cosí il giovane troiano in fuga è già raf-figurato in vesti romane: non solo è romana l’armatura,ma in quanto antenato dei Giulii porta anche i calzaridi un giovane patrizio! Il piccolo Ascanio è vestito inve-ce come un pastore frigio, con un abito dalle manichelunghe e il berretto a punta, e tiene curiosamente inmano perfino un bastone per la caccia alla lepre: par-

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ticolari, questi, che alludono alle attività pastorali deigiovani troiani sul monte Ida e agli amori di Venere e

Anchise. Quest’ultimo ha però l’aspetto di un vecchiodevoto e porta il capo coperto proprio come Augusto egli altri sacerdoti della nuova Roma.

Nulla è qui affidato alla fantasia personale dell’arti-sta, ma ogni particolare riveste un significato simbolicopreciso, condizionato dal modo di interpretare i miti inetà augustea. Per farsene un’idea basta confrontare ilgruppo del Foro di Augusto con una moneta fatta conia-re dal giovane Ottaviano: lí Enea, nudo alla maniera

greca, portava in salvo Anchise, raffigurato nell’atto divoltarsi verso gli inseguitori. Ma dei Penati, nessunatraccia.

Al centro dell’esedra antistante si poteva vedereRomolo con un trofeo di guerra. All’immagine di unadura prova sopportata con coraggio faceva riscontroun’immagine di trionfo militare: a un exemplum pietatisun exemplum virtutis.

Romolo viene celebrato come il primo trionfatoredella storia romana, conformemente al nuovo calenda-rio ufficiale che il Senato aveva fatto esporre nell’arcotrionfale di Augusto accanto al tempio di Cesare, dopoaverlo fatto incidere su lunghe lastre di marmo. L’ini-zio dell’elenco si è fortunatamente conservato e ripor-ta, con la sua data precisa, il trionfo del «re Romolo,figlio di Marte», sul re Akron di Cenina, «nel primoanno dell’Urbe». Si diceva che Romolo avesse ucciso ilcapo nemico con le sue stesse mani e avesse poi consa-crato la sua armatura come  spolia opima nel tempio diGiove Feretrio, fatto ricostruire da Augusto prima dellabattaglia di Azio, con un gesto denso di significato sim-bolico. La vicenda iniziata in modo cosí glorioso col«padre della città e della virtus (Prop., IV 10) trovavaora nel triplice trionfo di Augusto il suo coronamento;e cosí la ricordavano i nuovi fasti trionfali.

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Un secondo raffronto tra Enea e Romolo si è con-servato nei rilievi sul lato d’ingresso dell’ Ara Pacis.

Diversamente però che nel tempio di Marte, non si trat-tava qui di rievocare gesta esemplari ma la divina Prov-videnza che aveva vegliato fin dall’inizio sulla storiaromana: a destra dell’ingresso è raffigurato l’arrivo diEnea nel Lazio, a sinistra il ritrovamento della lupa coni due gemelli.

Il pius Enea, dopo lungo peregrinare, ha trovato final-mente sotto una quercia la scrofa e i porcellini della pro-messa (Verg., Aen. III 390; VIII 84). Qui, nel punto dove

sarebbe sorta Lavinio, doveva costruire secondo l’oracoloun tempio ai Penati e dare una nuova patria ai fuggiaschi.

È già stato preparato un semplice altare di pietra,adorno per il sacrificio. Gli assistenti, con una coronain capo, trattengono la scrofa destinata all’offerta e por-tano un vassoio colmo di frutti, mentre Enea, a capocoperto, versa la libagione sacrificale. L’eroe sembraassorto in profondi pensieri e l’intera scena è come

sospesa: anche gli altri officianti hanno lo sguardo rivol-to lontano, come se avessero una visione. L’osservatoreera cosí indotto a meditare sulle implicazioni simbolichedella scena, tanto più evidenti quanto più si immergevanei singoli particolari della raffigurazione.

Per conferire alla figura di Enea una particolaresolennità, l’artista ha modellato la testa e la parte supe-riore del corpo nelle forme dell’arte del primo periodoclassico, e gli ha dato un mantello di foggia antica, comequelli che si vedevano sulle antiche statue del re diRoma in Campidoglio (Plin., Nat. hist. XXXIV 23). Eappunto come un re di Roma Enea tiene la lancia nellamano, in segno di sovranità. Qui egli non è più l’eroeguerriero come sul Foro, ma il  pater Aeneas carico diesperienza e modello di devozione. Ascanio, di cui si èconservata sul rilievo appena una striscia sottile, portainvece il costume troiano e un bastone da pastore, anche

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se nel frattempo è cresciuto ed è ormai quasi un adulto.Lo sguardo di Enea è rivolto agli assistenti del sacrifi-

cio, raffigurati qui come giovinetti dall’aria nobile enon, secondo l’uso, come uomini robusti e dai tratti per-lopiù grossolani: un esempio, evidentemente, di quellagioventù devota e virtuosa che era negli auspici di Augu-sto. Indossano il vestito consueto degli assistenti e ten-gono in mano oggetti rituali, riproponendo una scena acui i Romani potevano assistere quasi ogni giorno.

Enea non offre il sacrificio a Giunone, come rac-conta Virgilio, ma ai Penati portati in salvo da Troia

(Dion. Hal., I 57), richiamando cosí in modo più espli-cito la figura del «salvatore» celebrata sul Foro e il suorapporto con la famiglia del  princeps. Dal tempio sullosfondo, eretto in bei blocchi squadrati di marmo, i duePenati assistono benevoli al sacrificio: anche qui pos-siamo vedere una doppia allusione agli aurea templa dellacittà e allo stesso Augusto, che proprio sull’ Ara Pacis eraraffigurato nelle vesti di sacrificante.

Come si vede, allusioni a non finire. Lo stile narra-tivo degli artisti augustei è tale da fondere passato efuturo in un quadro unico, ma più ancora che nell’alle-goria della Pace abbiamo qui a che fare con una vera epropria immagine devozionale. L’osservatore, che ilcarattere «sospeso» della scena induceva al raccogli-mento, non poteva poi fare a meno di notare, fra tantifestoni e tanti rami di quercia, anche la quercia raffigu-rata al centro della composizione: non una sempliceindicazione topografica ma un preciso richiamo alpresente e ad Augusto, indicato fin dalle origini come ilfavorito degli dèi e del destino.

Del rilievo «gemello» possediamo purtroppo soloalcuni frammenti. Anche qui la parte centrale della com-posizione era occupata da un albero sacro, la ficus rumi-nalis, sotto la quale il pastore Faustolo trova la lupa coni gemelli. Sui rami del fico è posato il picchio di Marte,

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che aveva contribuito a nutrire i due neonati. Ai latidella scena idilliaca sono Faustolo e lo stesso Marte, raf-

figurati in silenziosa «adorazione», come il pastore Fau-stolo su una terracotta di soggetto analogo. Anche qui,dunque, non si trattava di una scena narrativa ma diun’immagine «devozionale». La testa di Marte può dareun’idea del tenore complessivo della raffigurazione:Marte e Faustolo assistono meravigliati, come due osser-vatori esterni, all’opera della Provvidenza, sotto la cuiprotezione Roma è posta fin dai suoi inizi. I Romani del-l’epoca sapevano che Augusto aveva riportato in auge il

luogo del mitico avvenimento, il Lupercale ai piedi delPalatino, e assistevano ogni anno all’antico rituale di cuiabbiamo già riferito. Anche in questo caso il presente siricongiunge con le origini mitiche della città.

Ai due grandi cicli mitologici i monumenti augusteidedicano un numero singolarmente esiguo di immagini,e la cosa può sorprendere, soprattutto se pensiamoall’ampia e ricca iconografia sviluppata per esempio dagli

scultori di Pergamo intorno al racconto della fondazio-ne della città: un racconto tagliato anch’esso su misuraper la casa regnante. Ancora il fregio tardo repubblica-no della Basilica Emilia raccontava i primordi di Romacon una certa ampiezza narrativa, che ora viene invecedel tutto sacrificata a un interesse prevalentementepedagogico. E significativo che l’arte augustea non cono-sca, o quasi, la forma del fregio figurato. L’interpreta-zione mitologica si concentra su poche singole scene,dove la forma e il contenuto appaiono direttamente fun-zionali al mito di Stato. In queste immagini Enea eRomolo non vengono più presentati come figure miticheviventi, perché l’accento si è spostato sul loro significa-to esemplare. E poiché il programma di riforma moralepoggiava su pochi Leitmotive, anche le immagini miticheinsistono su pochi valori essenziali, tra cui soprattuttola pietas e la virtus. Le gesta esemplari degli eroi vengo-

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no presentate in forma esortativa e, se possibile, conqualche riferimento all’exemplum vivente del princeps. E

poiché questi a sua volta assumeva quegli exempla comepunto di riferimento, veniva a stabilirsi anche qui unrapporto circolare tra il presente e il passato mitico.

Ne è un esempio la cura particolare di Augusto peril culto di Vesta. Avendo rivestito, dopo la morte diLepido nel 12 a. C., anche la carica di pontifex maximus,edificò alla dea un santuario nella propria casa sul Pala-tino: in questo modo Augusto osservava – e nello stes-so tempo aggirava – l’antica prescrizione sacrale secon-

do cui il pontifex maximus doveva risiedere nella Regiasul Foro. Quando il discendente di Enea celebrava unsacrificio davanti al tempio di Vesta, riviveva anche ilmito dei Penati e del Palladio messi in salvo da Troia infiamme. Ed è per questo che sulla base di Sorrento ilPalladio appare proprio dietro la dea Vesta: Augustoaveva salvato le immagini degli dèi dall’oblio e dalla ro-vina. Non c’è dunque da stupirsi se in certe raffigura-

zioni le vergini vestali sembrano venerare più lui dellastessa dea, e se in un rilievo marmoreo raffigurante iltempio di Vesta si vede la quercia crescere proprioaccanto al tempio.

Un’altra caratteristica dell’iconografia mitologicaaugustea è poi la sua attenzione per i disegni del desti-no e della Provvidenza: bisognava favorire nell’osserva-tore uno stato di raccoglimento religioso che lo rendessesensibile ai segni provvidenziali.

Su un rilievo di cui si conoscono due repliche vedia-mo una figura femminile – la Sibilla o la musa Clio –immersa in profondi pensieri su una raffigurazione dellacaduta di Troia. La figura si appoggia meditabonda su ungrande vaso su cui è raffigurato il ratto di una donna.Anche qui non manca un particolare chiarificatore: con lespalle alla scena del ratto si vede Diomede con una gran-de statua di Atena. In altre parole: Troia doveva cadere

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perché Roma potesse essere fondata. Accanto al vasovediamo una sphaera sorretta da un Atlante alato, e pro-

prio alla sfera, simbolo del dominio universale, era rivol-to probabilmente lo sguardo della Musa (la testa è moder-na). L’immagine mitologica viene cosí riferita in modo ine-quivocabile al presente e al dominio universale di Roma.

Per via del Palladium messo in salvo, il mito di Dio-mede svolge del resto un ruolo particolare nell’arte augu-stea. Come un tempo Diomede (o Enea) aveva salvatoil Palladium ora venerato nel Tempio di Vesta, cosíAugusto – conformemente all’immagine di Varrone – lo

aveva custodito salvando lo Stato dalla rovina. Eccoperché più tardi gli imperatori verranno raffiguratianche nelle vesti di Diomede. Infine, come nell’imma-gine di Enea in fuga da Troia, anche sul grande vaso delrilievo l’episodio storico rievocato accoglie in sé unmomento doloroso, ed è probabile che si debba vedereanche qui un influsso di Virgilio sugli artisti o sui com-mittenti dell’opera.

Il nostro rilievo, destinato molto probabilmente auna casa privata, metteva a dura prova la cultura del-l’osservatore, ma in genere le raffigurazioni mitologichenon erano cosí complesse, soprattutto perché era facileriportarle a un unico motivo fondamentale: si trattassedel legame di Enea, Vesta, Diomede o dello stesso Augu-sto con il Palladium, del rapporto fra Venere o Enea ele origini divine della casa imperiale, o ancora dell’as-sociazione tra Apollo, il tripode, la Sfinge o la Sibilla eil dono della preveggenza.

Ciò che rende cosi spesso noiose le interpretazionierudite degli archeologi rispecchia una caratteristicapeculiare dell’arte augustea: il suo spirito rigidamentedidascalico, e di qui il suo gusto per le ripetizioni e i con-fronti, le equivalenze e i rimandi allusivi.

Tutto questo era molto pesante, almeno per i palatipiù fini, e l’ironia poteva offrire una valvola di sfogo. I

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doppi sensi e le battute salaci di Ovidio avevano evi-dentemente il loro pubblico, e qualcuno pensò perfino

di mettere in caricatura le immagini pompose del mito:il proprietario di una villa presso Stabia si fece dipinge-re in una delle sue camere una versione parodistica delgruppo arcinoto di Enea (quello del Foro di Augusto),in cui gli illustri antenati del princeps figurano come unafamiglia di scimmie dalle teste di cane e dai membrienormi.

Ma erano casi isolati. Nel complesso la nuova icono-grafia mitologica ebbe una larga diffusione non solo negli

ambienti ufficiali di Roma e delle città, ma anche nellavita privata, e penetrò a fondo nella coscienza di larghistrati della popolazione. Piacerebbe sapere se erano inmolti a fare come Orazio che, in lieta compagnia e«secondo l’usanza dei padri», cantava «al suono di flau-ti lidi la virtus dei capi, Troia e Anchise, e la discenden-za di Venere che tutto pervade» (Carm. IV 15,29).

Il gruppo di Enea era del resto assai diffuso anche

su anelli e lucerne e sotto forma di statuette di terra-cotta, dove era facile intenderlo come un segno difedeltà al regime. Ma in breve tempo l’immagine fini perdiventare un puro e semplice simbolo di pietas privata.I committenti dei monumenti funerari non pensavanopiù al  princeps: il contenuto morale dell’immagine eraormai stato assimilato e chi la utilizzava intendeva sem-plicemente esprimere la  pietas del defunto e, insieme,l’affetto dei suoi cari rimasti in vita.

Un’immagine riveduta della storia romana.

Mito e storia non erano, nel mondo antico, dominiseparati. Le gesta degli antenati leggendari erano senti-te come altrettanto «storiche» di quelle compiute daglieffettivi antenati di una famiglia, e possedevano inoltre

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un particolare valore esemplare. Augusto era perciò inpieno accordo con la tradizione quando fece collocare

nell’esedra del porticato sulla sinistra del tempio diMarte, proprio accanto al gruppo di Enea, le statue deipersonaggi più illustri della sua famiglia. Già in passatoalcuni personaggi dell’aristocrazia avevano celebrato lapropria gens con gruppi statuari dedicati ai loro antena-ti, ma ciò non era mai avvenuto in una forma cosí siste-matica: questa specie di pantheon della famiglia Giuliaandava da Enea e Ascanio ai re di Alba Longa, alle figu-re più rappresentative della repubblica fino al presente.

Perfino il padre di Giulio Cesare, un personaggio privodi significato politico, aveva qui la sua statua e nonfurono certo poche le lacune da colmare con membrioscuri della famiglia, per dare l’impressione che la stir-pe del princeps si fosse distinta senza soluzione di con-tinuità lungo tutta la storia di Roma. Ma originale edestremamente suggestiva fu l’idea di contrapporre a que-sta galleria privata della famiglia Giulia una sfilata di

Romani illustri ( summi viri; cfr. Hist. Aug., Alex. Sev.,28,6), posti a lato di Romolo e dei re di Roma lungo ilporticato antistante. Dal confronto delle due serie di sta-tue il rango storico della famiglia Giulia emergeva in par-ticolarissima evidenza: gli antagonismi secolari dellegrandi famiglie con i loro alti e bassi e il relativo decli-no dei Giulii tra il iv e il ii secolo venivano cancellati afavore di un quadro unitario in cui la famiglia del prin-ceps appariva, fin dall’inizio, come la più importante.Dal suo ceppo infatti, come si leggeva nel poema di Vir-gilio, sarebbe nato il salvatore.

Il criterio utilizzato nella scelta dei summi viri per-mise di rimuovere alcuni episodi poco gradevoli, soprat-tutto delle guerre civili, e di presentare un quadro rive-duto e corretto della storia romana. La memoria anda-va soprattutto a coloro «che avevano portato l’imperoromano dai suoi modesti inizi all’attuale grandezza»

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(Suet., Aug. 31). I grandi Romani erano dunque gli arte-fici militari dell’impero, i generali e i trionfatori.

La galleria delle statue del santuario di Marte sug-geriva, inoltre, un «quadro d’insieme» dell’intera storiaromana in cui i nemici di un tempo apparivano affian-cati nella comune gloria della nazione: Mario accanto aSilla, Lucullo accanto a Pompeo. Il personaggio piùrecente fra gli auctores dell’impero era il figliastro diAugusto, Druso, caduto nell’anno 9 a. C. durante lacampagna contro i Germani. L’unico grande assente eraGiulio Cesare, il dittatore che, in quanto dio, non pote-

va essere confuso tra i mortali. Al Divus Iulius spettavaun posto nel tempio.

Sotto ogni statua si trovavano un breve titulus colnome del personaggio e le tappe della sua carriera pub-blica, e un elogium più ampio con l’elenco delle sue bene-merenze, non solo militari ma anche civili. Di AppioClaudio Cieco si ricordava ad esempio la vittoria suiSanniti e i Sabini, la costruzione della via Appia, del-

l’acquedotto omonimo e del tempio di Bellona, ma ancheil fatto di aver impedito con successo di concludere lapace col re Pirro. Il testo conciso e perentorio delle iscri-zioni doveva poi rafforzare l’impressione che i grandiRomani fossero proprio tutti lí. Tra i frammenti mar-morei conservati vi sono statue loricate e togate; proba-bilmente la scelta dell’uno o dell’altro modello rispec-chiava i meriti del personaggi. Pare comunque che dellagalleria facessero parte anche statue più antiche.

Nel Foro di Augusto veniva resa pubblica, tramitela forma di un doppio messaggio scritto e visivo, unimmagine della storia riveduta e adattata alla nuovasituazione politica. La storia romana veniva a coincide-re con la marcia inarrestabile dell’impero, e il fatto diricondurre l’intera vicenda alle imprese personali dei summi viri conferiva a quella marcia un indubbio carat-tere di inevitabile destino.

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testa. C’era persino Pompeo il Grande e c’erano tutti ipopoli che Augusto aveva sottomesso, ciascuno nel suo

costume nazionale (Dio. Cass., 56,34).Ma non fu necessario attendere questa muta sfilata

di maschere per comprendere fino a che punto la galle-ria degli eroi fosse legata ad Augusto. Egli stesso avevachiarito il senso di quel programma in un editto pro-mulgato in occasione della consacrazione del Foro:

La sua idea era stata che i romani dovessero giudicar-

lo finché era in vita, e giudicare poi i  principes che glisarebbero succeduti, secondo il modello di quegli uomini(Suet., Aug. 31).

Era d’altronde tipico dello stile di Augusto argo-mentare, ovunque fosse possibile, con esempi e citazio-ni degli antenati. Né la risposta a questo invito si feceattendere a lungo. Il Senato eresse infatti, e c’è da sup-

porre in posizione dominante, un monumento celebra-tivo dall’aspetto di una quadriga trionfale sulla cui basefaceva spicco il nuovo titolo onorario di Pater Patriae:

Nell’anno del mio tredicesimo consolato il Senato, icavalieri e l’intero popolo romano mi conferirono il titolodi «padre della patria», e decisero di apporre una scrittarelativa all’avvenimento nell’atrio della mia casa, nellaCuria Iulia e sotto la quadriga del Foro di Augusto che il

Senato stesso vi aveva fatto porre (Res Gestae 35).

La scritta conteneva anche l’elenco di tutte le suevittorie (Vell. Pat., II 39), e lo indicava al di là di ognidubbio come il più grande dei grandi.

L’invito a confrontarsi col passato non era pura reto-rica. Le cerimonie di Stato che Augusto volle far cele-brare nel nuovo Foro e nel tempio di Marte continua-

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vano a proiettare la gloria presente sullo sfondo pa-radigmatico del passato. Qui i giovinetti indossavano la

toga virile e venivano iscritti nelle liste militari; nel tem-pio di Marte il Senato decideva sulla guerra, la pace e itrionfi; di qui partivano i governatori militari; qui igenerali vittoriosi deponevano le insegne trionfali alritorno dalle loro spedizioni; qui i principi barbari pro-mettevano fedeltà e amicizia verso Roma. Il tempio diMarte ottenne cosí privilegi che fino ad allora spetta-vano, almeno in parte, al tempio di Giove Capitolino,e il nuovo Foro diventò lo scenario ufficiale della «poli-

tica estera» e di tutto quanto avesse a che fare con lavirtus e la gloria delle armi.

Se il messo incaricato di recapitare la lettera in cuiCaligola annunciava la sottomissione della Britanniadovette passare anzitutto dal Foro Romano, per poiscendere da cavallo alla Curia e consegnare infine la let-tera nel tempio di Marte alla presenza del Senato riuni-to (Suet., Gaius 44), ci si può immaginare come doveva

essere grandioso il cerimoniale in occasione dei trionfi,dell’arrivo di re stranieri o di altri avvenimenti solenni.Augusto stabilí che anche in futuro i generali vitto-

riosi ricevessero sul Foro una statua di bronzo che li raf-figurava in abito trionfale e che venissero esposte qui learmi e le insegne conquistate al nemico. Conosciamo inomi di alcuni personaggi a cui il Senato attribuí taleonorificenza su proposta dello stesso Augusto. Ma ilpathos pedagogico con cui Augusto invitò i Romani aimitare i grandi uomini del passato e promise a ciascunouna gloria conforme ai suoi meriti, cadde nel vuoto: seinfatti le statue degli altri generali vittoriosi erano dispo-ste più o meno casualmente tra le colonne o ai marginidella piazza, per i principi imperiali Germanico e Drusominore Tiberio fece erigere nel ì 9 d. C. degli archi ditrionfo ai lati del tempio di Marte, ad aperta imitazionedegli archi di Augusto ai lati del tempio di Cesare.

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3. «PRINCIPES IUVENTUTIS».IL RUOLO DEI SUCCESSORI NEL MITO DI STATO.

Mito e storia avevano trovato il loro compimento inun presente eterno. Il sistema augusteo non prevedeva lapossibilità di uno sviluppo storico, perché il  saeculumaureum era ormai iniziato e si poteva solo conservarlo eriprodurlo. Dopo un periodo di rapidi e drammatici mu-tamenti si era aperta un’epoca di stasi, una sorta di eter-no presente miticamente idealizzato. L’impero avrebbeconservato la sua armonia interna e la sua solidità terri-

toriale, la prosperità e il benessere sarebbero durati alme-no fino a quando la famiglia Giulia fosse rimasta al pote-re e i Romani avessero continuato a onorare gli dèi e acondurre una vita morigerata secondo il modello degliantichi. Ma formulate in termini cosí asciutti, questeprospettive non potevano entusiasmare nessuno, e ancheper i principi occorrevano immagini più invitanti.

Gli eredi e la stirpe di Venere.

Mai raccomandò i suoi figli al popolo senza aggiunge-re: «Se lo meriteranno». E si lamentò moltissimo del fattoche, quando i bambini apparivano in pubblico, il popolosi alzava tutto in piedi ad applaudire (Suet. Aug. 56).

Presentare in pubblico i suoi eredi era una delle princi-pali preoccupazioni del vecchio Augusto: pur mante-nendo il suo stile abituale, egli intendeva far capire chesolo un membro della famiglia Giulia – la famiglia elet-ta – poteva ereditare il principato. Secondo un’accortasuddivisione dei poteri, furono proposti come eredi,ancora giovanissimi, i due nipoti Gaio e Lucio Cesare:popolo, Senato ed equites applaudirono alla scelta e con-ferirono loro onorificenze e le più alte cariche di Stato.

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Il  princeps si schermí, poi accettò esitando e seppecomunque presentare i due ragazzi sempre nella forma

più abile.Il più anziano dei due, Gaio, fu presentato in pub-blico già nell’anno 13 a. C. a soli sette anni di età, quan-do prese parte per la prima volta al lusus Troiae. Lo stes-so anno il tresvir monetalis Gaio Mario fece battere unamoneta con i busti dei due ragazzi e della madre Giu-lia, sul cui capo vediamo sospeso il simbolo dinasticodella corona civica, a sottolineare la diretta discendenzada Augusto. Sul verso di un’altra moneta compare il

busto di Giulia da solo, in questo caso però il ritratto èassociato alla faretra di Diana: abbiamo, insomma, laraffigurazione di Diana Augusta coi lineamenti e l’ac-conciatura di Giulia. In questo modo la moneta vuolesuggerire che la dea stessa ha vegliato sulla nascita deifanciulli, e si ricorderà che anche nel Carmen saeculareDiana era stata invocata come protettrice delle nascite.

Anche i meriti del loro padre naturale Agrippa furo-

no messi più in luce che mai, richiamandosi ancora allabattaglia di Azio: Agrippa siede accanto ad Augusto suirostra e il suo ritratto porta la corona civica.

Anche il Senato nello stesso anno rese omaggio aiprincipi, facendoli raffigurare in posizione eminente sul-l’ Ara Pacis e nelle vesti inconsuete di piccoli Troiani (ocavalieri del lusus Troiae). Proprio nel punto delle dueprocessioni in cui i membri della famiglia imperiale rag-giungono il corteo dei sacerdoti sono raffigurati, sui duelati del recinto dell’altare, due fanciulli di diversa età.A differenza dei bambini «normali», vestiti con la toga,essi portano una tunica e i capelli lunghi (il più grandecon un cerchietto). Ed entrambi sono contraddistinti dauna collana, il torques. Il lusus Troiae era un antico tor-neo equestre di carattere religioso riservato ai ragazzidella nobiltà romana, che in età augustea venne collegatoal mito troiano e che Augusto promosse in modo parti-

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colare per esortare la gioventù ad addestrarsi nelle armi.Virgilio descrive i giochi nell’Eneide e nomina espressa-

mente il torques (V 559), e un torques d’oro fu donatodallo stesso Augusto a un ragazzo che si era ferito duran-te il torneo, in effetti abbastanza pericoloso. Pro-babilmente il Senato, che era il committente dell’ AraPacis, fece raffigurare i principini in un costume che iRomani conoscevano per averlo visto in questi giochi,o forse anche nelle processioni religiose. Si tratta comun-que di una interpretazione controversa: nelle due figu-re infantili alcuni studiosi preferiscono vedere dei prin-

cipi barbari allevati alla corte di Augusto. Ma la posi-zione eminente dei due ragazzini nella processione dellafamiglia imperiale, dallo spiccato carattere dinastico, eil gesto singolare con cui il più grande si tiene stretto allatoga di Agrippa, sembrano confermare l’identificazionecon i due principi augustei. D’altra parte i due ragazzi-ni sono gli unici personaggi a portare una nota diversa,di vivacità infantile, nel composto corteo e a richiama-

re in questo modo l’attenzione: come se la loro simpa-tia e spontaneità fanciullesca dovessero tradursi in unacaptatio benevolentiae a favore della casa imperiale. Népuò stupire, a questo punto, il fatto che vengano raf-figurati un po’ più giovani della loro età effettiva.

Alcuni anni più tardi Gaio fu presentato alle legio-ni del Reno. Anche questa volta il ragazzino, ormaidodicenne, ebbe l’occasione di dimostrare il suo corag-gio in un torneo equestre simile ai giochi «troiani», e laZecca di Lugdunum (Lione) fissò in una moneta il ricor-do di questo giorno, che anche Augusto volle rendereindimenticabile con una pubblica distribuzione di dena-ro. Che l’immagine dei due ragazzini fosse ben presen-te anche alla truppa lo dimostra la decorazione del fode-ro di una spada, in cui vediamo i principini ai lati dellamadre, raffigurati come fossero già due ufficiali contanto di corazza.

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Poco dopo ebbe inizio la carriera ufficiale dei due.Nell’anno 5 a. C. Augusto si fece eleggere di nuovo con-

sole per la prima volta dopo diciassette anni, cosí dapoter condurre personalmente nel Foro e in Senato ilnipote Gaio, ora quindicenne, che aveva appena rice-vuto la toga virilis: una scena, anche questa, di forteeffetto. Già allora Gaio fu designato console per l’an-no 1 d. C., mentre gli equites lo nominarono  princepsiuventutis, titolo privo di un concreto significato poli-tico ma che lo indicava ormai come l’erede al trono desi-gnato. Solo un anno prima l’iniziativa popolare che

voleva Gaio eletto console era stata respinta da Augu-sto; ora invece l’avvenimento ricevette un’adeguatacoreografia: vi furono elargizioni di denaro (sessantadenari a testa), e giunsero a Roma solenni ambascerieda lontane regioni dell’impero. Nelle sue comparse inpubblico Augusto era ora accompagnato, ovunque pos-sibile, dai due principi.

Su una serie di monete assai diffusa, coniata a Lug-

dunum, vediamo i due principes iuventutis con le insegneonorifiche decretate dai cavalieri, uno scudo d’argentoanalogo al clipeus virtutis e una lancia sempre d’argento.Sul loro capo vediamo le insegne delle confraternitesacerdotali a cui appartenevano: Gaio era pontifex, Lucioera augur . L’immagine illustra con discrezione un con-cetto che fu poi ampiamente solennizzato in tutto l’im-pero dopo la tragica morte prematura dei due giovani: iprincipi possedevano le stesse virtù del padre.

Fin dalla loro prima infanzia Augusto aveva seguitol’educazione dei nipoti, preoccupandosi addirittura cheimitassero la sua calligrafia (Suet.,  Aug. 64). Quandofurono più grandi, vennero eseguiti dei ritratti ufficialiche le botteghe utilizzavano come modelli sia per i bustiche per le statue onorarle: essi appaiono come una fran-ca imitazione del ritratto di Augusto, altrettanto stiliz-zata nella classica serietà e compostezza. Solo il diverso

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taglio dei capelli sulla fronte permette di distinguere idue giovinetti. I ritratti del loro fratello Agrippa Postu-

mo, che in un primo tempo non era stato accolto nellafamiglia Giulia, assomigliano invece a quelli del padrenaturale Agrippa, come a dire che il «marchio di qua-lità» classicistico viene impresso soltanto su chi porta ilnome dei Giulii.

Naturalmente le volute di incenso che ormai damezzo secolo si levavano intorno alla famiglia imperia-le finirono per creare un clima di particolare solennitàreligiosa. Oltre Venere ed Enea, anche Giulio Cesare,

il Divus Iulius, era tornato sugli altari. Una monetaconiata il 12 a. C. ricorda gli inizi di Ottaviano, quan-do il futuro princeps aveva fatto porre una stella sulle sta-tue di Cesare dopo l’apparizione del sidus Iulium, ma quiil  princeps, che tiene in mano il clipeus virtutis, apparesignificativamente più alto del Divus Iulius. Anche l’a-poteosi di Cesare divenne un tema figurativo: su unaltare dedicato ai Lari (dopo il 7 a. C.) si è conservata

forse la modesta replica di un’«apoteosi» originale, dovei principi erano raffigurati insieme al Divus Iulius e allaprogenitrice Venere.

Il Divus Iulius sale al cielo su un carro trainato dacavalli alati; la Venus Genetrix lo saluta, abbracciandocon l’altra mano un giovinetto togato, mentre un altro,di statura più piccola, si stringe al suo fianco: si trattadei due principi, raffigurati qui sotto la protezione dellaloro antenata (proprio in quegli anni, del resto, veniva-no dedicate alla madre Giulia delle statue onorarie chela ritraevano come Afrodite). Dietro il carro vediamo unterzo togatus con la mano destra sollevata in gesto di pre-ghiera: probabilmente lo stesso Augusto, la cui posizio-ne defilata potrebbe dipendere dal fatto che era propriolui il donatore del rilievo originario.

La morte precoce dei due principi, in cui Augustoaveva riposto grandi speranze e che già in vita erano

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stati oggetto di onori cosí elevati, sancí il loro ingressodefinitivo nel mito. In tutto l’impero furono venerati

come eroi e in loro onore vennero costruiti archi trion-fali, edifici pubblici, altari e persino templi, come la cele-bre Maison Carrée di Nîmes. A Roma presero il loronome alcune centurie elettorali, come anche, per voleredi Augusto, la Basilica Giulia nel Foro e il grande parcopresso la Naumachia a Trastevere (Nemus Gai et LuciCaesaris), e i loro nomi furono accolti nei canti liturgicidei Salii danzanti. Davanti alla Basilica Emilia venneeretto poi un nuovo portico, riccamente decorato, che

portava il nome dei due fratelli, e anche il Senato fececostruire in loro onore un grande monumento nel Foro:di qui proviene la gigantesca iscrizione dedicata a Lucio,sulla quale peraltro, oltre alla sua appartenenza alla casaimperiale, non si potevano celebrare altre glorie chequella di essere stato designato console ad appena quat-tordici anni (CIL VI 36908).

I due principi non fecero in tempo a riportare quel

trionfo militare che avrebbe legittimato in modo deci-sivo la loro candidatura, ma almeno Gaio poté esserecelebrato, in forma postuma, come vincitore dei Parti edegli Armeni. Il principe ventenne era stato mandato daAugusto in Oriente per risolvere i conflitti dinastici inArmenia e per ribadire la supremazia di Roma sui Parti(1 a. C.): la spedizione era stata preparata con minuziosaaccuratezza e l’équipe del principe comprendeva imigliori specialisti dell’Oriente. Con formula quasi pro-grammatica Augusto augurò all’erede la saggezza diPompeo, l’audacia di Alessandro e la propria Fortuna(Plut., Mor. II 98,10), e non fa stupore che i poeti e leiscrizioni delle statue in lingua greca celebrassero il gio-vane condottiero in partenza per la guerra come unnuovo Ares. Ma l’impresa riuscí soltanto a metà. Duran-te l’assedio della città di Artagira, che alla fine fu espu-gnata, Gaio rimase ferito gravemente e morí nel viaggio

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di ritorno. Poco prima aveva comunicato ad Augustol’intenzione di trasferirsi in Oriente come privato cit-

tadino: anche senza la sua morte inattesa, per l’anziano princeps sarebbe stata una tragedia.Tra le onorificenze postume assegnate a Gaio va

annoverata anche la statua loricata più grande del natu-rale ritrovata nel teatro di Iol-Caesarea (oggi Cherchel,Algeria), la capitale dei re di Mauretania: forse la statuafu eretta dal re Giuba II, che era stato educato a Romainsieme a Gaio. Ma poiché il rilievo ornamentale dellacorazza ricorda molto da vicino la statua loricata del-

l’Augusto di Prima Porta, si può pensare che la statuafosse la replica – una tra le molte – di un importante ori-ginale romano.

Anche in questo caso i rilievi della corazza celebra-no una vittoria: un membro della casa imperiale, raffi-gurato in vesti «eroiche», offre alla Venus Victrix unaVittoria con un trofeo. Lo schema figurativo è identicoa quello della statua del Divus Iulius nel suo tempio al

Foro Romano, e poiché tale schema verrà spesso utiliz-zato in seguito per principi e imperatori defunti, si puòvedere già qua un indizio del fatto che la scena è unomaggio alla memoria. Le teste stilizzate di orientali,riconoscibili sulle frange della corazza, suggeriscono poiche la vittoria vada messa in relazione col successo diGaio Cesare sui Parti e gli Armeni.

Con gesto devoto il rampollo della casa Giulia offri-va i suoi trofei vittoriosi all’antenata, raffigurata qui inarmi come Venus Victrix. Più in alto compare il bustodello stesso dio della guerra, in un’immagine che richia-ma con evidenza la statua di Marte Ultore consacratal’anno 2 a. C.; dietro Venere vediamo Eros con l’arco,mentre una Vittoria tiene la corona civica sospesa sulcapo del principe destinato alla successione imperiale,quello stesso principe che le iscrizioni onorane indica-vano come iam designatus princeps (CIL XI 1421).

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Più ancora della naturalezza con cui il giovane prin-cipe indossa qui i panni di Augusto, ciò che rende inte-

ressante dal nostro punto di vista questa probabile cele-brazione della sua vittoria è il richiamo alla battaglia diAzio e al motivo dell’età dell’oro, a cui alludono il cen-tauro marino col timone e il centauro di terra con la codadesinente in volute vegetali. Anche questa vittoria con-solida, insomma, la nuova età felice che si era inaugu-rata con Azio: gli slogan degli anni precedenti sonodiventati ormai una precisa ideologia trionfale, e le vec-chie vittorie del princeps vengono ricordate come gesta

mitiche di un’epoca ormai remota.

Tiberio e Druso generali dell’impero.

Quando Augusto adottò i suoi due nipoti (17 a. C.),i figliastri Tiberio e Druso, rispettivamente di 25 e 21anni, erano entrambi in seconda linea per la successio-

ne al trono, ma svolsero come generali un ruolo impor-tante per se stessi e per la dinastia e molto prima cheTiberio diventasse il poco amato erede ufficiale di Augu-sto. Come gli altri generali essi erano legati di Augusto,ma in quanto «principi» spettava loro un rango parti-colare: una funzione per cosí dire di «rappresentanza»,che divenne presto parte integrante dell’ideologia impe-riale. Se il princeps non prendeva parte personalmente auna spedizione, erano i principi a combattere in suavece e le loro vittorie erano le sue vittorie, perché a luispettava in ogni caso il comando supremo, l’imperiummaius. Ma questo meccanismo istituzionale finí per assu-mere, nelle immagini, dimensioni mitiche.

La prima occasione fu offerta dalle guerre di espan-sione condotte da Druso e Tiberio contro le popolazio-ni alpine. La Zecca di Lugdunum, che era sotto la giu-risdizione del princeps, celebrò i primi successi contro i

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Vindelici con una interessante serie di denari e di aurei.Sul primo pezzo della serie Tiberio e Druso, in abito da

generali, offrono le palme della vittoria ad Augusto. La sella curulis, nonostante la simbolica sopraelevazione delpodio, ribadisce il suo rango di «semplice» magistrato.Le altre quattro immagini della serie inquadrano invecel’avvenimento in un contesto di portata universale, pre-sentandolo come un effetto del nuovo ordine imperialevoluto dagli dèi.

Le figure di Diana e Apollo ricordano, con le scritteSIC. e ACT., le vittorie fondamentali di Nauloco e di

Azio. L’immagine del toro alla carica allude alla forza sca-tenata del Marte romano, e già le legioni di Cesare porta-vano del resto il toro sui loro vessilli. La Vittoria invece,a differenza di altre monete più antiche, non ha un atteg-giamento aggressivo ma siede anzi rilassata sul globo e conle mani in grembo. L’impero è ormai in mani sicure.

L’effigie del princeps compare come al solito sul rectodelle monete, ma qui ha un aspetto particolarmente gio-

vanile e, per la prima volta dopo molto tempo, il titolodi Augusto è accompagnato di nuovo dall’aggiunta Divi filius: il ricordo delle vittorie capitali ha richiamatoevidentemente in vita anche la figura eroica del giova-ne Ottaviano.

Anche Orazio diede mano alla penna, di certo rac-cogliendo l’invito di Augusto (Suet., Vita Hor. 31 sg.) ecelebrò le gesta dei due figliastri in due lunghe odi. Mamentre nell’ode a Druso (IV 4) viene cantata soprattut-to la gloria della famiglia Claudia e la sua tenacia nelrisolvere le situazioni difficili, l’ode a Tiberio ha comeprotagonista lo stesso Augusto, «il maggiore di tutti i principes, ovunque splende il sole» (IV 14,5 sg.):

Ma tu, Cesare, gli davi milizie, sennoe buoni auspici.

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Fu allora: quando Alessandriain ginocchio ti spalancò i suoi porti

e la reggia ormai deserta, la Fortunaa te propizia ti diede nel terzo lustrol’esito favorevole di questa guerrae aggiunse gloria e meriti d’onorealle imprese militari già compiute.E i càntabri, che sembravano indomabili,i medi, gl’indi e gli sciti errabondi guardanoora a te, a te, patrono vivented’Italia e della sovranità di Roma.

Il Nilo, che a monte cela le sue sorgenti,e l’Istro, il Tigri impetuoso e lo stesso Oceano,che popolato di mostri percuotein capo al mondo le rive dei britanni,e i galli, che non temono la morte, e gl’iberibellicosi obbediscono a te, solo a te;e i sigambri, che godono del sangue,per venerarti depongono le armi.

(IV 14,33-48; trad. di M. Ramous).

Il poeta e le monete di Lione utilizzano gli stessitopoi. Anche il Senato eresse il grande Tropaeum Alpi-num presso Nizza non per i due generali vittoriosi maper il generale supremo, «perché sotto la sua guida e isuoi auspici tutti i popoli delle Alpi sono stati ridotti inpotere del popolo romano» («Quod eius ductu auspicii-sque gentes Alpinae omnes quae a mari supero ad infe-rum pertinebant sub imperium populi Romani suntredactae»; Plin., Nat. hist. III 136 sg.; CIL V 7817).

Se confrontiamo l’immagine pubblica dei figliastricon quella dei nipoti, e in particolare di Gaio Cesare, ladifferenza è evidente: mentre i principes iuventutis ven-gono sommersi di onori fin da bambini in qualità dieredi e compaiono, nelle immagini come nella realtà, al

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fianco di Augusto, Druso e Tiberio appaiono decisa-mente in subordine al comandante supremo, benché

spetti a loro il merito effettivo di quelle vittorie. La con-sonanza tra le varie voci mostra come il princeps, mal-grado la sua discrezione, sapesse dare il «la» al grandecoro encomiastico, senza comunque intervenire di per-sona. Se pensiamo però alle manifestazioni celebrativeseguite alla vittoria sui Parti, vedremo che coloro aiquali erano affidate le lodi del sovrano erano ora moltopiù attenti che in passato ai segnali dall’alto. Il loro uni-sono è impressionante. Ce ne dà una controprova il

cambiamento di ruolo a cui Tiberio dovette sottoporsi.

Tiberio come successore.

Augusto non poté compiacersi a lungo dei successiriportati dai suoi giovani generali. Druso morí in Ger-mania, Tiberio andò in esilio volontario nel 7 a. C. e per

undici lunghi anni si sottrasse alla vicinanza del princeps.Irritato dal modo in cui Augusto acconsentiva agli onoridecretati per i due giovani principi ereditari, partí perRodi e visse per qualche tempo come un Greco, portan-do lo himation e i sandali e circondandosi di filosofi e dipoeti: anche per lui la cultura greca rappresentava un’al-ternativa. E solo dopo che la «crudele Fortuna» ebbe«strappato» ad Augusto i suoi due figli (cosí l’esordiodelle Res Gestae), il princeps dovette ripiegare su Tiberio,adottandolo e facendogli a sua volta adottare il figlio diDruso, Germanico, e l’ultimo nato Agrippa Postumo.Poiché il mito della famiglia Giulia risultava in questocaso poco applicabile (Tiberio apparteneva alla famigliaClaudia), fu necessario, a maggior ragione, insistere sullesue qualità militari. Già nell’anno 7 a. C. Tiberio avevacelebrato un trionfo sui Germani, e dopo l’adozione fula volta delle dure vittorie sui Pannoni e sui Dalmati.

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Dell’ultimo periodo del regno augusteo non si sonopurtroppo conservate testimonianze dirette dell’arte di

Stato monumentale. Ma due tazze d’argento ritrovatein una piccola villa vicino a Pompei (Boscoreale) pro-pongono, in quattro scene tra loro collegate, un elo-quente ciclo figurativo, che potrebbe derivare da unmonumento trionfale commissionato dal Senato in occa-sione del secondo trionfo di Tiberio nell’anno 12 d. C.

Sulla tazza di Tiberio vediamo il solenne sacrificiocelebrato prima della partenza per la guerra e il trionfodello stesso Tiberio. Mentre appare in grande evidenza

il rito del sacrificio, manca qualsiasi allusione ai nemicisconfitti, che pure svolgevano un ruolo importante nelcorteo trionfale. In effetti, non si trattava tanto di ricor-dare l’occasione specifica, quanto di mettere in luce lequalità intrinseche del personaggio celebrato, la sua pie-tas e la sua virtus; ed ecco perché sul carro trionfale sonoraffigurate due Vittorie con uno scudo simile al clipeusvirtutis di Augusto. Particolare, quest’ultimo, che può

dare un utile contributo al problema, controverso, delladatazione: l’accenno allo scudo fa supporre che Tiberiofosse già stato adottato come erede al trono.

Sull’altra tazza compare per due volte lo stesso Au-gusto, raffigurato in entrambi i casi «sul trono», in posi-zione dominante. In una delle due scene lo vediamo acco-gliere, circondato da una folla di soldati e di littori, l’at-to di sottomissione volontaria da parte del nemico bar-baro: la scena si riferisce evidentemente a una delle suevisite sul fronte settentrionale (nel 15 o nell’8 a. C.), poi-ché i nemici sottomessi appaiono vestiti di pelli. Anchequi però quello che conta è il nucleo esemplare dell’epi-sodio. I principi barbari si avvicinano in ginocchio, por-tano ad Augusto i loro bambini e guardano verso di luicome a un’apparizione. Augusto, da parte sua, tende ilbraccio verso di loro e ne accetta benevolmente la sotto-missione. La scena ricorda come Augusto avesse l’abitu-

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dine di comparire personalmente sul campo di battaglia,ed esalta la sua clementia verso i barbari sottomessi: come

nelle esaltazioni del saeculum aureum ci troviamo qui difronte alla visione di un mondo riconciliato.Sull’altro lato della tazza il potere universale di

Augusto appare invece miticamente idealizzato. Il prin-ceps troneggia qui, in forte evidenza, al centro dellascena, e come sulla moneta dell’anno 15 a. C. è sedutosulla sella curulis e indossa la toga: particolari che inten-dono sottolineare la correttezza del suo stile politico. Macome nelle odi oraziane egli appare, nello stesso tempo,

in quanto Divi filius, circondato da divinità e personifi-cazioni allegoriche. La figura più importante è natural-mente Venere, a cui Augusto è rivolto, e sul globo cheAugusto tiene in mano Venere depone la Vittoria: laprogenitrice gli offre potere e vittoria in eterno. Subitodopo vengono il Genius Populi Romani con la cornuco-pia e la dea Roma nell’atto di posare il piede sulle arminemiche, simboleggianti entrambi la prosperità dello

Stato. La dea Roma rappresenta la forza militare, men-tre il Genius, la cui figura giovanile sembra essere unacreazione tipica dell’arte augustea, è simbolo di pietas edi benessere. Dall’altra parte della tazza, Marte condu-ce davanti al «trono» le personificazioni delle provincesottomesse e pacificate. È significativo che gli «attori»della scena non siano più Roma e i Romani ma le divi-nità tutelari del princeps.

Divinità e personificazioni allegoriche sono chiara-mente più piccole dell’imperatore, di cui sono al servi-zio. Le allusioni, i confronti e i richiami che movimen-tavano il programma figurativo del Foro di Augusto sitraducono qui in un massiccio panegirico del potereimperiale. Ma il contenuto del messaggio è lo stesso.

È significativo che le scene raffigurate non appaio-no riferirsi a singoli avvenimenti ma a situazioni esem-plari, quasi archetipiche, inserite in uno spazio atempo-

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rale. Come nelle immagini devozionali ispirate al mito,anche qui l’intento didascalico appare in primo piano, e

i particolari narrativi vengono sacrificati alla dimensio-ne paradigmatica. I grandi della tarda repubblica ten-devano a sottolineare le proprie peculiarità individuali:imperatori e principi devono invece conformarsi cia-scuno al proprio ruolo. Cosí il «delfino» Tiberio, doven-do dar prova sul campo della sua virtus, assume la parteattiva dell’«eroe». Augusto invece, l’imperatore, è ilpolo statico, il simbolo e il garante di un ordine giustoe immutabile: egli controlla e dirige dall’alto, tutto pro-

cede da lui. E l’immagine dell’erede al trono come trion-fatore vittorioso ha l’effetto di innalzare il  princeps inuna sfera di mistica sublimità.

Il ruolo di Giove.

A partire da Alessandro Magno, il mondo ellenisti-

co aveva raffigurato i suoi sovrani nelle vesti di Giovee non esitò, come vedremo, a utilizzare questa immagi-ne anche per Augusto. Era appena logico che in talesituazione anche l’immagine di Giove entrasse a farparte del mito di Stato: come esprimere in modo piùconciso ed eloquente l’ideapanegirico di un potere supre-mo e universale?

Sulla Gemma Augustea, databile intorno al 10 a. C.,Augusto siede in trono accanto alla dea Roma. È raffi-gurato come Giove, ma invece del fascio di fulminitiene, nella mano destra, il bastone da augure (lituus), eil suo sguardo è rivolto verso Tiberio che sta scenden-do da un carro guidato dalla Vittoria. Il lituus sta dun-que a indicare che Tiberio ha vinto sotto gli auspici diAugusto. Accanto alla dea Roma è raffigurato in armi ilgiovane Germanico, pronto per la prossima campagnamilitare: anche qui i principi sono emissari del domina-

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tore del mondo, il cui spirito vittorioso si trasmette adessi come una forza contagiante.

Ecco perché Roma guarda con aria ammirata Augu-sto e non il vincitore. Tutto procede con la sicurezza deimovimenti astrali: sopra il capo di Augusto splende ilCapricorno sullo sfondo del disco solare e di una stella,probabilmente il sidus Iulium, segno cosmico e mitico deldestino. Dietro il trono i rappresentanti del mondo, paci-ficato e reso prospero da Augusto, guardano verso di lui:Italia porta al collo la bulla dei ragazzi nati liberi e siedeper terra con la cornucopia, attorniata da bambini; die-

tro si vedono Oceano ed Ecumene con la corona turrita.Quest’ultima, personificazione delle floride città dell’im-pero, incorona Augusto con la ghirlanda di quercia.

Sotto il panegirico di Augusto vediamo un’altrascena che si riferisce questa volta a un avvenimentoconcreto: l’ordine provvidenziale dell’impero ha trova-to una nuova conferma in una vittoria delle truppe ro-mane. A sinistra, dei soldati romani stanno innalzando

un monumento alla vittoria, mentre su uno scudo sivede la costellazione di Tiberio, lo Scorpione. Proba-bilmente si tratta delle vittorie sugli Illiri, dalle qualiTiberio era tornato a Roma trionfatore nell’anno 9 d.C., poco dopo la disfatta delle legioni di Varo nellaSelva di Teutoburgo. A destra, due personificazionidelle province trascinano verso il trofeo dei barbari riot-tosi, forse due Germani: probabilmente la donna coi gia-vellotti simboleggia le truppe iberiche, l’uomo dal peta-so a larga tesa quelle trace. La scena sembra dunque allu-dere alle future e attese vittorie di Tiberio nel Nord.

Come nelle immagini di Boscoreale, anche qui ilcontenuto storico degli avvenimenti passa in secondopiano rispetto al loro significato esemplare. il quadrocomplessivo dell’impero è ormai consolidato: ai confinici saranno sempre delle popolazioni indigene da sotto-mettere; dopo Augusto verrà un altro princeps con le sue

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stesse qualità e anche lui sarà affiancato a sua volta dagiovani principi.

Sulla Gemma Augustea meritano particolare atten-zione le nuove figure dell’Ecumene e delle Province, raf-figurate nel loro costume locale: per la prima volta l’ar-te imperiale rivolge lo sguardo oltre i confini di Roma.Mentre il programma figurativo del Foro di Augusto sibasava esclusivamente sulle tradizioni romane, e l’im-pero era visto come pura terra di conquista, sullaGemma Augustea le personificazioni delle provinceprendono parte attiva alla vittoria e al culto imperiale.

L’immagine di Augusto nelle vesti di Giove ha sem-pre imbarazzato gli studiosi perché in vistosa contrad-dizione col suo stile politico. Ma né l’ipotesi di unadatazione postuma della Gemma – che sarebbe allora daintendere come un’apoteosi dell’imperatore – né quellasecondo cui il prezioso monile era destinato all’ambien-te di corte nel qual caso sarebbe stato un gioco di allu-sioni da non prendere seriamente – appaiono convin-

centi. Dopo la morte e l’apoteosi di Augusto il «ruolodi Giove» passò in effetti a Tiberio, e appunto comeGiove lo troviamo raffigurato non solo sul celebreGrand Camée de France, ma anche sul fodero di unaspada ritrovato in Germania. Su quest’ultimo Tiberioappare seduto in trono, come Giove, tiene con la manosinistra uno scudo con la scritta FELICITAS TIBERIe saluta un principe, Germanico 0 il giovane Druso, inpiedi davanti a lui, nell’atto di offrirgli la sua Vittoria.Ai lati dell’imperatore sono Marte Ultore e la Vittoriadi Augusto: gli dèi dell’imperatore avevano assistito ilprincipe nella battaglia.

La «sigla» di Giove era ben di più che una sempli-ce formula retorica usata occasionalmente dai poeti dicorte: non solo in Oriente e in ambito militare, maanche nelle città italiche vennero presto erette statue cheutilizzavano quello schema figurativo, e non solo per i

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 principes defunti e già divinizzati ma anche per quellituttora regnanti. In casi particolari questo vale già per

lo stesso Augusto, almeno fuori Roma.Ciò non significa, ovviamente, che i suoi adoratorilo assimilassero a Giove o che lui si sentisse come ilnuovo Giove: a questi eccessi si arrivò solo più tardi, conle stravaganze del giovane Caligola, mentre il  pater  patriae rimase fedele, anche in età avanzata, al suo stiledi primus inter pares. I Romani continuarono a vedere inlui il pontifex maximus, i senatori un corretto funziona-rio dello Stato. La «sigla» di Giove non fu in effetti uti-

lizzata dallo stesso Augusto ma dai suoi sudditi, agliocchi dei quali essa rappresentava un’immagine allego-rica del suo potere, universale, legittimo e definitivocome quello del Padre degli dèi. Augusto è il rappre-sentante degli dèi in terra.

Si trattava di un’immagine antica e venerabile, dacui emanava come da nessun’altra l’aura religiosa dellasublimità. Ma anche in questo caso, come accadeva spes-

so nella Roma ellenizzata, era un’immagine presa a pre-stito, il cui significato originario coincideva solo in partecon la sua nuova destinazione: non essendo più rivolta,come nel caso dei sovrani ellenistici, a sottolineare lapresenza fisica del divino.

La «sigla» di Giove va messa comunque in rapportocol nuovo linguaggio figurativo, e in particolare con lemolte statue togate capite velato, dove l’imperatore si qua-lifica come una specie di funzionario, dello Stato e insie-me degli dèi. Il suo potere gli deriva, per cosi dire, da undoppio incarico, e il lituus nella mano di Giove-Augustoindica precisamente questo ruolo di mediatore. Anchesulle pubbliche iscrizioni delle città italiche egli vienecosí definito, verso la fine del suo regno, come custosimperi Romani e  praeses totius orbis terrarum: «custodedell’impero» e «guida del mondo» (CIL XI 1421).

L’immagine di Giove non è però un caso isolato, per-

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ché anche i personaggi femminili della casa imperialevengono assimilati alle divinità più diverse, e perfino

sulle monete coniate a Roma, come si è visto nel caso diDiana-Giulia. Anche qui non si tratta però, come nelmondo greco, di mettere in luce le qualità specifiche delpersonaggio raffigurato, quanto piuttosto di sottolinea-re lo stretto legame di quella divinità con la casa impe-riale. Su un celebre cammeo conservato a Vienna, Livia,che è seduta in trono come una dea ma tiene in mano ilbusto del divus Augusto, quasi fosse una sua sacerdo-tessa, è assimilata a ben tre diverse divinità: alla Magna

 Mater per via della corona turrita e del timpano, a Cere-re per via del mazzo di spighe e a Venere per via dellaveste che le scivola dalla spalla. A tutto questo si aggiun-ge poi ancora la stola della matrona romana, dai severicostumi.

Se è vero che questo accumulo di attributi divini edi contrassegni borghesi poteva essere particolarmentecongeniale al tono «elevato» dell’arte dell’intaglio su

pietra, è anche vero che lo stesso fenomeno appare assaidiffuso nelle statue delle divinità femminili della casaimperiale. In un tempietto che sorgeva all’interno delteatro di Leptis Magna vi era una statua colossale diCerere Augusta, con tanto di corona turrita, i cui trat-ti e la cui acconciatura ricordano senza possibilità didubbio quelli di Livia. Si trattasse di Venere o di Diana,di Cerere o della Concordia, della Pietas o della Fortu-na Augusta, l’acconciatura o la fisionomia di una prin-cipessa poteva sempre richiamare lo stretto legame delladivinità con la casa imperiale. E sono appunto questitratti individualizzanti a giustificare il nome aggiuntivodi Augusta.

Le «virtù» dell’imperatore e della sua casa erano ilpresupposto della sua elezione e dei suoi successi: ilpotere aveva cosí un preciso fondamento politico emorale. La scena dell’imperatore o del principe nell’at-

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to di celebrare sacrifici, di partire per una campagnamilitare o di rientrarne vittorioso, costituiva per i Roma-

ni del tempo un rituale ormai familiare, privo però diquei travestimenti mitologici che erano usuali fra i sovra-ni ellenistici e che si erano ancora visti con Antonio eCleopatra: ciò sarebbe stato incompatibile con la tradi-zione e lo stile del principato, e i tentativi in questosenso (sia pure timidi) da parte di Caligola, Nerone eDomiziano, non faranno che favorirne la rovina. Lostile politico del principato richiedeva all’imperatore eai membri della sua famiglia un modo di presentarsi

«borghese», con toga e stola, e proprio il contrasto fraquesta immagine borghese da un lato e le assimilazionimitologiche dall’altro conferí alle immagini mitiche del-l’età imperiale un carattere sin dall’inizio freddo e astrat-to, assai lontano dall’iconografia «eroica» dell’elleni-smo. Il motivo mitologico ha ormai la funzione di sot-tolineare virtù e legami simbolici, non quella, propriadell’età ellenistica, di manifestare sensibilmente le qua-

lità divine del sovrano.Ad ogni modo, anche qui parole e immagini nonbastavano. Già quando Augusto era in vita in ogni cittàc’erano templi ed edicole in cui si venerava il suo geniuso numen, o anche semplicemente lo stesso Augusto, per-lopiù in associazione con la dea Roma. Il cultoistituzionalizzato del sovrano forniva cosí un equiva-lente rituale alle assimilazioni mitologiche del linguag-gio figurativo.

Un episodio risalente agli ultimi giorni della vita diAugusto, e tramandato per caso, dimostra fino a chepunto il culto dell’imperatore fosse accettato a quell’e-poca come cosa ovvia, e come l’espressione di una gra-titudine largamente condivisa:

Quando egli doppiò con la sua nave la baia di Pozzuo-li, i passeggeri e i marinai di una nave alessandrina che vi era

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appena entrata si riunirono, con abiti bianchi e la corona sulcapo, sparsero incenso e rivolsero ad Augusto grandi lodi e

benedizioni: grazie a lui potevano viaggiare per mare, a luidovevano la vita, la libertà e la prosperità (Suet., Aug. 98).

L’efficacia delle immagini legate al mito di Statopoggiava essenzialmente, come l’intera religione roma-na, sul loro stretto rapporto col rituale. Quest’ultimocomportava pochi ruoli ben definiti, che permettevanodi rappresentare e di celebrare come in una corniceimmutabile gli eventi della vita civile e militare, gran-

di o irrilevanti che fossero. L’imperatore non avevabisogno di essere un eroe per soddisfare queste esigen-ze rituali: le immagini connesse al cerimoniale della vit-toria, al culto del sovrano e alle sue comparse pubbli-che, ai monumenti celebrativi e all’apoteosi dell’impe-ratore formavano un sistema unitario la cui strutturaera già compiutamente elaborata alla fine del regno diAugusto, né le aggiunte o le semplificazioni introdotte

in seguito lo modificarono in maniera sostanziale. Ilcostante ripetersi delle procedure rituali – feste e ceri-monie – e la rigida coerenza delle formule figurativefecero si che il mito imperiale potesse imporsi come unarealtà propria, al di sopra delle vicende effettive dellastoria. Le immagini della gloria militare, del nuovoordine provvidenziale, di una sicurezza e di un be-nessere ormai garantiti, filtravano come attraverso unoschermo idealizzante la vita quotidiana con le sue scia-gure, le battaglie perdute e le crisi alimentari, creandoorizzonti di aspettativa improntati comunque a un fidu-cioso ottimismo.

Bisogna tener presente che, allora come oggi, in unmondo in cui l’informazione è sottoposta a un regime dimonopolio, la percezione collettiva degli eventi storicidipende in larga misura da ciò che gli organi di Statodecidono di rendere pubblico. La maggior parte di que-

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gli avvenimenti che oggi fanno notizia non aveva alloraalcuna rilevanza sul piano dell’informazione: le grandi

catastrofi, come la disfatta delle legioni di Varo nellaSelva di Teutoburgo (9 d. C.), ovviamente si cono-scevano, ma nessuno si curava di mantenerne vivo l’in-grato ricordo. Si trattava di ombre passeggere, subitorimosse dalle immagini radiose delle sempre nuove vit-torie. Il linguaggio visivo del regime non registrava que-gli avvenimenti nemmeno in chiave di monito: si limi-tava piuttosto a commentare i successi, richiamandosiincessantemente ai motivi etico-politici su cui si regge-

va l’idea dello Stato. La mitologia di regime, col suoapparato di immagini, divenne insomma un elementoimportante di stabilità: essa commentava visivamente lanuova situazione politica mostrando l’ordine provvi-denziale su cui, in ultima analisi, era fondata.

Com’è noto, gli ultimi armi di Augusto furono fune-stati da una serie di gravi problemi, catastrofi e misureimpopolari. Le lunghe e faticose guerre di conquista nei

Balcani e nel Nord ebbero gravi conseguenze economi-che: crebbero, anche in Italia, l’indebitamento e la pres-sione fiscale, a Roma si verificarono gravi incendi e crisinell’approvvigionamento alimentare, mentre l’attivitàedilizia, almeno nel settore pubblico, si fermò. Le fortitasse imposte da Roma portarono alle grandi rivoltedella Pannonia e della Dalmazia, sia a Est che a Ovesti confini erano diventati insicuri. I Parti e gli Armeninon cadevano più in ginocchio davanti all’anziano impe-ratore, ma si erano ormai completamente sottratti allasua autorità. Eppure tutto ciò non poteva più modificarela mentalità dei Romani: le immagini erano più fortidella realtà, e nulla poteva scuotere ormai la loro fedenella nuova era.

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Capitolo sesto

Il linguaggio formale del nuovo mito

Nell’introduzione al suo scritto Sugli antichi oratori,Dionigi di Alicarnasso prodiga alti elogi alla sua epocaper aver rinnovato completamente l’arte oratoria: l’imi-tazione dei migliori autori attici della Grecia classica hacreato una nuova cultura letteraria in grado di misurar-si con la migliore letteratura del passato. A questa enfa-tica professione di fede nel «classicismo» (atticista) siaccompagna una violenta condanna del gusto «asiano»e barocco, che avrebbe corrotto la letteratura dell’epo-

ca precedente con la sua spudorata teatralità, rivolta agliistinti più primitivi del pubblico. Il suo sfarzo esterioree volgare avrebbero trasformato perfino Atene, la dotta,in un bordello.

Come molti altri artisti e letterati greci, Dionigigiunse a Roma nell’anno 3o a. C., dopo la battagliadecisiva di Azio. La sua polemica restauratrice rispec-chia cosí quell’atmosfera di cosmico rinnovamento cheregnava a Roma negli anni dei ludi saeculares (17 a. C.).Per Dionigi non si tratta infatti di un semplice ritornoall’oratoria attica: quest’ultima non è altro che un aspet-to, sintomatico, di una nuova cultura e di un’arte «mora-le». Che il nuovo corso culturale abbia un immediatosignificato politico lo dice lo stesso Dionigi, là dovericonosce che la causa della mirabile svolta (metabole) èil dominio mondiale di Roma e l’alto livello culturale emorale della sua classe dirigente. È merito di quest’ul-

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tima – cosí Dionigi – se il progresso è stato tanto rapi-do e generale. Alla vecchia cultura «viziosa» restano

ormai pochi seguaci solo in qualche remota città dellaMisia, della Frigia e della Caria: ma non c’è da stupir-sene, perché l’immoralità è sempre venuta dall’Oriente.

Quel brusco mutamento di stile è riscontrabile anchenelle forme del linguaggio politico. Basti ricordare ilpassaggio dal ritratto giovanile di Ottaviano in stile«patetico» al ritratto di Augusto, composto di citazioniclassiche, dalla vigorosa nudità delle statue tardo re-pubblicane ai togati a capo coperto, dall’iconografia di

Venere, asiana e sensuale, all’austerità di un linguaggiopregno di valori simbolici.

La nuova cultura doveva essere una sorta di super-cultura, capace di unire il meglio della tradizione grecaal meglio dell’eredità romana, di fondere l’estetica grecacol senso romano della moralità e della virtus. Dovevaessere una cultura esemplare, degna di un popolo domi-natore e tale da imporsi in tutto l’impero (Vitruvio).

Solo entro questa cornice diventano comprensibili lequalità specifiche del classicismo e dell’arcaismo augu-steo. Non si trattava di una moda odi un semplice orien-tamento del gusto come il classicismo tardo ellenistico,che la cultura alessandrina aveva accolto come una pos-sibilità espressiva accanto ad altre. Lo «sguardo indie-tro» dell’arte augustea obbedisce, invece, a una precisaideologia, a una ben definita e aggressiva visione delmondo le cui origini vanno cercate nel clima antagoni-stico che precedette la battaglia di Azio. Antonio erastato un deciso sostenitore del gusto asiano (cfr. adesempio Suet., Aug. 86), al punto da assumere e osten-tare nei suoi anni orientali uno stile di vita improntatoa dionisiaca dissipatezza (tryphe). Non c’è dubbio che ilsevero classicismo e arcaismo soprattutto della prima etàaugustea vadano anche intesi come una reazione allostile culturale di Antonio e dei suoi seguaci: della  jeu-

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nesse dorée della capitale con i suoi poeti manieristi e lesue feste dionisiache. Gli anni della grande rivalità ave-

vano visto delinearsi due poli, dionisiaco e apollineo, cheerano altrettante visioni del mondo: dopo Azio, il clas-sicismo e l’arcaismo diventano il linguaggio formale della«cultura apollinea», l’espressione simbolica del rinno-vamento morale. Il contenuto del messaggio diventa quila forma, lo stile stesso.

Il riutilizzo degli originali classici e arcaici.

La prima grande manifestazione del nuovo linguag-gio artistico augusteo fu la decorazione statuaria deltempio di Apollo sul Palatino, il cui baricentro era costi-tuito da alcuni originali classici e arcaici. Il gruppo siste-mato nella cella del tempio era formato da tre capolavoridel Iv secolo a. C., noti attraverso testimonianze lette-rarie (Plin., Nat. hist. XXXVI 24,25,32) e raffigurati su

una base votiva ritrovata a Sorrento: la statua di Apol-lo era opera di Scopa, la Artemide-Diana veniva dallabottega di Timoteo e la Leto-Latona da quella di Cefi-sodoto. E questo il primo caso a noi noto di originaliclassici riutilizzati nei templi romani come immagini diculto: anche Cesare, non diversamente dai grandi trion-fatori che lo avevano preceduto, aveva fatto realizzareda un artista greco contemporaneo la statua della VenusGenetrix. Ma il gruppo statuario del tempio di Apollonon è un caso isolato in epoca augustea, si pensi peresempio allo Zeus nudo di Leocare nel tempio di GioveTonante. Sembra, insomma, che l’originale classico rive-stisse, oltre al suo valore propriamente artistico, un’au-ra sacrale, ed è per questo che anche l’ Artemide di Timo-teo, molto danneggiata, fu fatta restaurare dallo sculto-re greco (immigrato da Alessandria) Evandro, anzichésostituirla con una copia.

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È chiaro però che, oltre all’aura sacrale, anche lacelebrità degli scultori classici dovette giocare un ruolo

non secondario: due di essi avevano collaborato al Mau-soleo di Alicarnasso, una delle sette meraviglie delmondo, mentre il terzo era figlio di Prassitele, a Romapopolarissimo. Queste scelte furono influenzate, inoltre,dai criteri dell’estetica «classicistica», che era venuta inauge in Oriente verso la fine del ii secolo a. C. Secon-do la nuova estetica, ad esempio, Mirone era il più gran-de scultore di animali fra gli artisti classici, e appuntoquattro tori (o buoi) di Mirone furono esposti davanti

al tempio di Apollo. Questi armenta Myronis (cfr. Prop.,II 31) erano ai lati di una statua di Apollo Azio intentoa offrire libagioni su un altare; statua che, a giudicaredall’effigie di alcune monete, potrebbe essere stata a suavolta un’opera di epoca classica.

Nonostante la presenza di tanti capolavori greco-classici, l’estetica tardo ellenistica, che attribuiva allaclassicità il rango supremo, non fu l’unica a guidare le

scelte per il tempio di Apollo. Lo dimostra la presenza,insieme, di sculture arcaiche che quella stessa esteticagiudicava rigide, antiquate e di minor valore. SecondoPlinio (Nat. hist. XXXVI 13), alcune opere arcaiche diBupalos e Athenis, figli dell’antico maestro Archermosdi Chio, si trovavano addirittura in fastigio (nel fronto-ne) del tempio di Apollo. Questo tipo di riutilizzo nonera però un caso isolato: nel frontone del tempio diApollo Sosiano, quasi coevo, si trovava un’Amazzono-machia originale, trasportata qui da un tempio greco delv secolo a. C. E anche altri templi augustei erano ador-ni di opere di provenienza classica e arcaica.

Pochi anni fa ha richiamato l’attenzione degli stu-diosi il prezioso frammento di una statua di Atena ritro-vato sul Palatino, le cui forme ioniche fanno pensare auna probabile scultura dei figli di Archermos. Anchequesti scultori di epoca arcaica erano d’altronde maestri

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celebrati, tanto più che la loro disputa col poeta Ippo-natte li aveva addirittura consacrati sulla scena lettera-

ria. Già Attalo II di Pergamo (morto nel 138 a. C.) pos-sedeva una delle loro opere, e Augusto ne fu, a quantopare, un grande estimatore: Plinio riferisce (Nat. hist.XXXVI 13) addirittura che egli avrebbe fatto collocareopere dei figli di Archermos «in quasi tutti i suoi tem-pli» («in omnibus fere aedibus»). E qui non si trattavatanto di ammirazione per i due celebri maestri, quantodi una più generale simpatia, ampiamente documenta-ta, per lo stile arcaico. Come giustificare questa predi-

lezione per le forme arcaiche accanto a quelle classiche,e malgrado la valutazione negativa che ne dava l’esteti-ca classicistica?

Il significato sacrale della forma arcaica.

Già nel v secolo a. C. lo stile arcaico veniva utiliz-

zato in certe funzioni religiose per il suo particolarevalore ieratico: un valore che non andò perduto nean-che durante l’ellenismo, quando le forme estreme del-l’arte tardo arcaica venivano apprezzate in chiave manie-ristica. Ancora in piena epoca imperiale le forme arcai-che possedevano, con ogni evidenza, una sorta di aureo-la religiosa: così Pausania parla dell’aspetto «quasisacro» di un’antica statua di Ercole, peraltro insignifi-cante da un punto di vista artistico (Paus., II 4,5). Larestaurazione religiosa augustea offriva a questi valori unterreno particolarmente favorevole. Fin dai tempi diCatone il Vecchio le antiche immagini di terracotta ave-vano goduto di una speciale venerazione, a cui corri-spondeva un preciso equivalente letterario: secondoCicerone (De or. III 153) l’uso di espressioni arcaiciz-zanti conferisce al discorso un effetto «grandioso esolenne», mentre per Quintiliano gli arcaismi di Virgi-

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ma culturale augusteo. E tuttavia, ciò non significa affat-to mettere fuori gioco il classicismo, poiché l’arte clas-

sica conservò, come vedremo subito, il suo primato nellarappresentazione della figura umana. I due valori antago-nisti, la pietas e il classicismo, e i loro equivalenti for-mali, produssero perfino combinazioni stilistiche dovele forme arcaiche vengono piegate in sensoclassicheggiante e viceversa: la dimensione estetica equella religiosa dovevano fondersi in un nuovo stile piùelevato, capace di esprimere compiutamente i valoridella nuova epoca.

Ne sono un buon esempio i pannelli protoaugusteidi terracotta del Palatino, di eccezionale conservazione.A differenza di altre versioni più antiche e puramentearcaicizzanti di maniera tardoellenistica, i nuovi pannelli– dove è raffigurata la lotta per il tripode e l’uccisionedi Medusa da parte di Perseo – risultano ampiamentedebitori delle forme protoclassiche, mentre l’elementoarcaico si riduce alla rigidità ieratica delle figure e al

carattere araldico della composizione. Il nuovo stile,nato da una sintesi «a tavolino» si distingue nettamen-te dagli arcaismi giocosi di epoca ellenistica, e se lemescolanze stilistiche variano da caso a caso si può diretuttavia che le opere arcaicizzanti di epoca augusteasono sempre in qualche modo filtrate attraverso il lin-guaggio formale del classicismo. In qualche caso nonresta altro, di arcaico, che un vago simbolismo.

Le implicazioni morali della forma classica.

L’alta considerazione di cui l’arte classica godevaall’epoca di Augusto poggiava su criteri più etici cheestetici, come risulta già dal riuso sacrale degli origina-li classici nel tempio di Apollo. Con l’estetica a orien-tamento classicistico del li secolo a. C. si era affermata

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la tendenza a considerare l’opera d’arte non più dalpunto di vista dell’artista creatore, ma da quello del-

l’osservatore profano, o dell’amatore d’arte: col risultatodi promuovere un sistema di valori concettualmente piùpovero e insieme più vicino alla sfera morale. I criteridi classificazione dei maestri classici sono ora categorieestetiche come decus, auctoritas,  pondus, ossia qualitàformali dal forte rilievo psicologico. E ai vertici dellagerarchia vengono a trovarsi le opere di Fidia e di Poli-cleto. Ma nel clima delle riforme augustee questa scaladi valori elaborata in un primo tempo nella cerchia

ristretta dei conoscitori d’arte fini per offrire un preci-so criterio di scelta, a cui non era estranea la nuova ideo-logia di regime.

Non si tratta qui di semplici ipotesi. I trattati diretorica, soprattutto quelli di Dionigi di Alicarnasso, maanche l’Ars poetica di Orazio, ci dànno un’idea di qualifossero i valori dominanti nell’ambito del giudizio este-tico, tanto più che sono proprio questi autori a stabili-

re a volte raffronti espliciti tra stile letterario e arti figu-rative. Nel trattato, citato in apertura di capitolo, Sugliantichi oratori (una sorta di teoria dello stile), Dionigiesamina le qualità stilistiche specifiche dei singoli auto-ri, utilizzando a tale scopo una terminologia che rispec-chia con fedeltà i valori etici del suo tempo. Non c’èquasi autore di cui egli non lodi la semplicità, la chia-rezza, la precisione o la purezza dello stile, e non c’èdubbio che siano proprio questi i caratteri più evidentidell’ arte augustea: la chiarezza dei contorni, la preci-sione quasi cesellata delle forme, la semplicità e la tra-sparenza compositiva.

Dionigi fornisce preziose indicazioni anche sui cri-teri che orientavano gli artisti augustei nella scelta deiloro modelli classici, giacché i pregi dei vari autori sonovisti da lui sotto l’angolazione del loro «impatto» sulpubblico. Cosí, ad esempio, di Lisia (fine del v secolo a.

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C.) Dionigi loda, oltre alla chiarezza e alla semplicità, la«leggerezza» (leptotes) e la «grazia» (charis), mentre giu-

dica negativamente la scarsa forza del suo linguaggio.Isocrate, invece (quasi coetaneo di Lisia), ha meno cha-ris, ma sa ottenere un maggior effetto grazie a uno stilepiù «sublime», uno stile che rispecchia una natura piùeroica che umana. E Dionigi aggiunge:

A mio giudizio non sarebbe sbagliato paragonare l’o-ratoria di Isocrate all’arte di Policleto e di Fidia, per quan-to riguarda la solennità ( semnon), la sublimità (megalote-

chnon) e la gravità (axiomatikon) dello stile. Lisia si potreb-be invece paragonare agli scultori Callimaco [fine del v

secolo a. C.] e Calamide, per la sua leptotes e la sua charis(Vett. orat., Isocr. 3).

Dionigi riprende qui chiaramente i giudizi dell’este-tica tardo ellenistica, secondo la quale la rappresenta-zione della figura umana e divina aveva raggiunto i suoi

vertici con Fidia e Policleto: ora però quei giudizi sonodi natura non più estetica, ma etica. Si può notare comele tre qualità comuni a Isocrate, Fidia e Policleto ven-gano indicate con termini dal significato quasi identico,dove l’accento cade sempre su un’idea di grandiositàsacrale.

Almeno nella fase iniziale dell’arte di Stato augusteaquesti valori funzionarono come effettivi criteri di scel-ta. Abbiamo già esaminato i ritratti classicheggianti diAugusto e dei principi della casa imperiale. Ma anche lestatue degli imperatori e dei principi defunti richiamanocon insistenza, nelle loro parti nude, le proporzioni clas-siche e la maniera di Policleto. Ne è un esempio moltochiaro lo schema iconografico ideato probabilmente, inun primo tempo, per la statua del Divus Iulius, con laparte superiore del corpo scoperta e un drappeggio allamaniera classica. Questa posa «eroica» fu poi utilizzata

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per le statue dei principi e degli imperatori defunti; maanche le grandi famiglie delle città italiche ne fecero uso,

nella convinzione che quella formula figurativa idealiz-zante non fosse affatto un privilegio imperiale.Abbiamo qui a che fare con un caratteristico com-

promesso fra la tradizione ellenistica e tardo repubbli-cana da un lato e i nuovi valori dall’altro. Ancora neglianni trenta Ottaviano e Agrippa si erano fatti tranquil-lamente raffigurare secondo il gusto asiano: completa-mente nudi, con gesti «patetici», il mantello svolazzan-te e i muscoli tesi. Anche dopo la svolta la vecchia e

amata formula del nudo celebrativo continuò ad avereuna certa diffusione come gesto di omaggio alla memo-ria, ma i nuovi costumi imposero che venisse coperta laparte inferiore del corpo, e d’altra parte il nudo, con lesue forme classiche, non aveva più ora alcun significatotrionfale, ma veniva inteso come un segno di adesioneai nuovi valori estetico-morali.

Quintiliano definisce il Doriforo di Policleto «vir

gravis et sanctus» (V 12, 20), e queste parole appaionocome una parafrasi del nome «Augusto». Che fosseroquesti i criteri ispiratori degli artisti e dei committenti,lo dimostra l’esempio di Erode, re della Giudea. Nellanuova città imperiale di Cesarea – cosí chiamata inonore di Augusto – Erode fece costruire un grande tem-pio di Roma e di Augusto, in posizione dominante sulporto: la statua dell’imperatore fu eseguita sul modellodella statua crisoelefantina dello Zeus Olimpio di Fidia,mentre quella di Roma riprendeva la Hera di Argo scol-pita da Policleto (105., Bell Jud. I 408). Ci si può doman-dare se Augusto approvasse una statua del genere, ma èevidente che Erode volle conformarsi alle linee direttricidel classicismo romano ufficiale.

Rientrano in questo quadro anche le iconografiedelle divinità allegoriche, come Fortuna, Concordia, Pie-tas, Pax, Felicitas Augusta, e delle statue onorarie dedi-

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cate ai personaggi femminili della casa imperiale (spes-so molto simili alle prime). Anche in questo caso ven-

nero usati modelli classici, con una prevalenza però dimodelli più recenti rispetto all0 stile severo e solenne delprimo classicismo: assume qui un rilievo importantequella categoria di charis che Dionigi attribuiva, nella suaanalisi stilistica, a Lisia e Callimaco. Una bella statua diepoca tiberiana mostra ad esempio una di queste divi-nità allegoriche con i tratti e l’acconciatura di Livia. Laposizione più flessuosa e la veste mossa e attillata nellaforma del cosiddetto «stile ricco» sono caratteristiche

tipiche della maniera «callimachea» della fine del v seco-lo a. C. Se le statue degli imperatori e dei principi espri-mevano gravità e sublimità, queste divinità femminilidevono prodigare i loro doni (si noti la cornucopia) congrazia e leggerezza: ma i tratti del volto devono far capi-re che la prosperità viene dalla casa imperiale. Il pane-girico non potrebbe essere più esplicito.

Conformemente alle dottrine dei maestri di retori-

ca atticisti, la possibilità di combinare stili diversi edesemplari offriva poi agli artisti eclettici una risorsa dinotevole efficacia estetica. Abbiamo già visto come unoschema figurativo arcaico possa venire filtrato attraversoil linguaggio formale del classicismo, ma anche l’incan-tevole Diana Braschi della Gliptoteca di Monaco testi-monia un procedimento non diverso. Qui però – in que-sto esempio magistrale di ricreazione mitica augustea –prevalgono le forme mosse della maniera «callimachea».Se la leptotes e la charis sono particolarmente congenia-li alla figura leggiadra e virginale della dea, l’artista nonne trascura tuttavia l’aspetto ieratico, avvalendosi anchein questo caso di precise allusioni al linguaggio formaledell’arcaismo. Cosí l’andatura impettita della dea (sinotino le ginocchia ravvicinate), la combinazioneemblematica con la piccola cerva, le trecce che ricado-no rigide sui seni e la corona col fregio animale trafora-

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to, sono tutti elementi arcaicizzanti che muovono inquesta direzione.

Per superare i Greci non è però sufficiente imitarei loro modelli: per raggiungere una superiore perfezionebisognerà fondere elementi di diversa provenienza(Quint., X 2,25 sg.). Questo principio eclettico trovaun’applicazione si può dire «da manuale» in quei grup-pi statuari che associano in un’unica composizione duemodelli di epoca diversa. L’esempio dal nostro punto divista più interessante, e del quale si conoscono pur-troppo solo copie di epoca tarda, è il gruppo di Venere

e Marte di cui ci siamo occupati in precedenza. Se Vene-re ci appare qui nelle vesti di una Afrodite tardo classi-ca e Marte in quelle di un Ares protoclassico, che nono-stante l’abbraccio della dea si ostina a guardare fissoverso terra, cosi come il suo tipo gli impone, la cosapotrà sembrare strana a noi, mentre la nuova esteticaaugustea la intenderà come un esempio di tecnica figu-rativa più raffinata, e anzi più sublime. Si trattava, in

effetti, di mettere in scena uno dei Misteri centrali delnuovo mito di Stato: sollevando il soggetto raffiguratoin uno spazio auratico le forme classiche intendonosuscitare emozioni adeguate alla circostanza.

Composizioni «atticiste».

Finora si è parlato dell’eclettismo formale e dei valo-ri etico-estetici che lo sorreggono. Ma all’efficacia delnuovo stile contribuiscono in misura non meno rilevan-te anche le nuove soluzioni compositive e scenografiche.Sulla corazza dell’ Augusto di Prima Porta le diverse figu-re sono disposte intorno alla scena decisiva secondo unoschema estremamente semplice: una figura è come rita-gliata e collocata su uno sfondo vuoto, nello stile solen-ne, semnon, della pittura protoclassica, documentato ad

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esempio dalle immagini vascolari attiche nate intorno al450 a. C. La rinuncia al movimento e il ricorso a pochi

elementi compositivi devono qui indurre l’osservatore auna lettura dell’immagine lenta e ponderata. E a diffe-renza della forte tensione psicologica presente nelleimmagini dell’arte classica, tutto sembra ricondursi quia un astratto gioco di allusioni. Questo è ancora più evi-dente nel caso di immagini puramente simboliche o alle-goriche, come il rilievo della Pax sull’ Ara Pacis, costrui-to con le tessere di un mosaico secondo uno schema com-positivo semplicissimo a simmetria assiale. Si ha quasi

l’impressione di poter ricostruire le varie fasi del lavo-ro: di assistere alla scena in cui il committente racco-manda all’artista i grandi temi del  saeculum aureum,costringendolo a limitare la propria fantasia creativa pereseguire con la massima trasparenza i vari «pezzi» delprogramma assegnato. E del programma ideologico lascena raffigurata ha tutta la freddezza e l’astrattezzaconcettuale. Solo considerando i singoli particolari o i

singoli riquadri il rilievo può apparire sotto un’angola-zione più immediata e rivelare le qualità artistiche eartigianali del maestro.

Anche l’immagine «devozionale» di Enea intento alsacrificio è costruita secondo principi altrettanto sem-plici, anche se, in questo caso, il contenuto mitico dellascena attenua il rigore dogmatico delle pur molte allu-sioni simboliche. L’atteggiamento sospeso dei per-sonaggi crea un’atmosfera solenne, che si diffonde intor-no alla figura di Enea come un’aura di mistero e di arca-no. Questo clima di sospensione è senz’altro uno degliaspetti più efficaci e fortunati del nuovo stile composi-tivo neoclassico: gli intenditori più raffinati sentivano ilfascino estetico di quel linguaggio silenzioso e non esi-tarono a trasferirlo nel mondo delle proprie immagineprivate. Si trattasse di dipingere su una parete una scenamitologica «di genere» o di raffigurare su un boccale

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d’argento un episodio dell’epos omerico, gli artisti mira-vano a un linguaggio il più possibile semplice e perspi-

cuo e tale da evocare un’atmosfera di sacralità.Questi criteri valgono anche per le scene erotiche,predilette già dalla ceramica ellenistica. In contrastocon l’immediatezza sensuale di quei modelli, gli amantiraffigurati sulle prime tazze aretine mostrano un conte-gno più riservato, che la purezza dei contorni e la clas-sicità delle proporzioni mettono in ulteriore evidenza.Ancora un esempio, dunque, della nuova moralità, odicome il formalismo ideologico possa rendersi autonomo,

al punto di prendere il sopravvento sul soggetto raffi-gurato.

La povertà di contenuti drammatici, il simbolismo el’astrattezza concettuale comportavano una singolareapertura semantica delle immagini. Evocare associazio-ni significative che andassero oltre la scena raffigurataera per gli artisti ancora più importante di quanto nonlo fosse l’identificazione univoca delle singole figure, a

volte in effetti polivalenti, come nel caso della Pax sul-l’ Ara Pacis.Nella sfera privata questa concezione figurativa sem-

bra sfociare non di rado in un aperto gioco enigmistico,come sè l’ambiguità di certe immagini fosse voluta dal-l’artista per venire incontro ai gusti del suo pubblico. Neè un esempio il celebre Vaso Portland . Perché mai l’in-tagliatore non ha provvisto le sue figure di attributiesplicativi? In realtà, il vaso di vetro blu scuro illustrain modo esemplare la peculiarità di questo stile narrati-vo: le due scene a tre figure sono composizioni perfet-tamente bilanciate, in cui quasi ogni figura cita un famo-so schema iconografico dell’arte greca. Le misterioseimmagini hanno ricevuto almeno una ventina di inter-pretazioni più o meno originali, ma l’acume ermeneuti-co non sembra ancora soddisfatto. Come spesso nel-l’arte augustea abbiamo a che fare con due scene sim-

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boliche e gemelle, di significato contrastante. Si trattain entrambi i casi di una donna, raffigurata in una pia-

cevole situazione d’amore e poi in uno stato di profon-do abbattimento: la prima figura tiene in grembo unaspecie di serpente e saluta gioiosa un eroe accompagna-to da Eros; l’altra distoglie lo sguardo dal suo eroe conun gesto di afflizione. Il vaso di vetro era forse un donodi nozze decorato con allusioni mitologiche?

Il valore simbolico della citazione.

Naturalmente l’opzione ideologica a favore dellostile classico e di quello arcaico non riguardava l’interomondo dell’espressione figurativa. In settori come lascultura da giardino e in tutti quei soggetti per i qualiesistevano solo modelli ellenistici – ad esempio raffigu-razioni di argomento dionisiaco – lo stile e l’iconografiarestarono immutati. Ma anche nell’arte di Stato non si

esitò a utilizzare all’occasione forme e moduli espressi-vi di natura affatto anticlassica. Si pensi solo alle raffi-gurazioni di paesaggio e ai fregi di rampicanti dell’AraPacis, o alle tazze di Boscoreale con quegli assembra-menti di persone distribuite su diversi piani spaziali.Che non si possa parlare di una vera egemonia classico-arcaica, risulta evidente soprattutto se si considerano inuovi grandi edifici sacri, cosí diversi dai templi grecidell’epoca classica. Proprio per la sua natura ideologicapiù che estetica, il «classicismo» augusteo rimase aper-to anche ad altre tradizioni formali, compresa quella elle-nistica. La scelta cadeva, di volta in volta, sulla soluzionepiù adatta a illustrare il nuovo sistema di valori.

Nel caso dei templi e degli edifici pubblici la nuovaparola d’ordine era, come si è visto, publica magnificen-tia. La nuova Roma doveva essere in grado di compete-re con gli edifici marmorei della Grecia e con la stessa

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Atene. Secondo il vocabolario ufficiale tramandato daVitruvio la maiestas imperii doveva trovare espressione

nelle egregiae auctoritates dei templi. Una scelta raffina-ta dei materiali da costruzione, un ornamentazione sfar-zosa, un forte impatto scenografico erano i criteri do-minanti in questo settore dell’arte augustea.

I nuovi templi sono perciò un mixtum compositumstudiato espressamente come tale. Il podio, il pronao eil frontone, alto e greve, sono tipici della tradizioneromana, l’altezza delle colonne, la forma dei capitelli ela scenografia delle facciate riprendono invece modelli

ellenistici, mentre la sontuosità dei materiali – si arrivòal punto di rivestire d’oro alcune parti degli edifici –superò ogni confronto. Ma erano soprattutto quei can-didi blocchi di marmo accuratamente squadrati a met-tere in spettacolare risalto i nuovi templi, distinguendolidalle vecchie costruzioni di tufo.

Malgrado un aspetto complessivo cosí anticlassico,gli architetti si preoccupavano di imprimere ai nuovi

templi un sigillo di classicità. Già il marmo, utilizzatocosí largamente, andava in tale direzione, ma sonosoprattutto le numerose citazioni ornamentali ad assol-vere con evidenza questo ruolo. Gli esempi migliori ven-gono dal Foro di Augusto, con le sue copie, eseguite conpedantesca precisione, delle cariatidi dell’Eretteo, espo-ste nell’attico dei porticati. Ma anche nel tempio stessonon mancano numerose citazioni: cosí, ad esempio, labase delle colonne ripete la sagoma dei Propilei, e uncapitello ionico riprende il capitello dell’Eretteo. Anchei due tipi di gronda a teste di leone sono probabili cita-zioni, per non parlare dei cassettoni, dei fregi orna-mentali e di altro ancora.

Non c’è tempio della prima età imperiale che nonpermetta di scoprire citazioni analoghe. Perfino la tra-beazione e la sima del tempio della Concordia, di sovrab-bondante ricchezza ornamentale e dall’aspetto nell’in-

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rezza e la precisione delle forme, che appare cosí accen-tuata nell’ornamentazione architettonica e dei cui con-

notati etici abbiamo parlato in precedenza.«Vos exemplaria Graeca nocturna versate manu,versate diurna» («Rigiratevi tra le mani i modelli grecidi giorno e di notte»; Hor., Ars 268). Un lavoro assiduoa paziente (labor e mora) è il presupposto per padroneg-giare l’arte greca. Chi non frequenta questi modelli colmassimo impegno e con l’attenzione rivolta ai minimiparticolari non sarà mai in grado di superarli, come silegge anche in Dionigi. A dire il vero, era questo un

principio raccomandato da sempre nelle scuole, ma senzagrandi risultati: ora invece, e il fatto è tanto più sor-prendente, gli scultori augustei se ne appropriano conassoluta disinvoltura. Ogni foglia di acanto raffiguratasui capitelli dei grandi edifici, ogni ciocca di capellitestimonia la messa all’opera di questo principio etico-artistico. Si è parlato spesso, e con ragione, della preci-sione toreutica degli artisti augustei: non si erano mai

viste prima di allora delle copie cosí esatte, cosí rigoro-samente fedeli degli originali greci. Ma non si tratta,come capita a volte di leggere, di un semplice sviluppostilistico a partire dall’arte cosiddetta neoattica del tardoellenismo. Il fenomeno implica piuttosto un cambia-mento di mentalità, una vera metabole. Questa preci-sione e questo amore per i dettagli sarebbero cioèimpensabili senza una identificazione dell’artista con lospirito del tempo e col ruolo assegnatogli dal nuovo pro-gramma culturale.

L’enfasi della svolta culturale e del ritorno a modu-li stilistici classico-arcaici durò poco e fu in un primotempo un fenomeno limitato alla città di Roma, ma lesue conseguenze per l’arte di epoca imperiale furonougualmente profonde. Naturalmente la tradizione arti-stica dell’ellenismo sopravvisse e conobbe anche, in certisettori, momenti di rinascita, ma l’immediatezza sen-

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suale della forma plastica era ormai un capitolo chiuso.I capolavori del v e del iv secolo a. C. rimasero i model-

li obbligati per le sculture ufficiali, le botteghe ne ripren-devano lo stile anche senza copiarli in senso stretto, alpunto che le regole formali dell’arte classica venivanoormai applicate inconsciamente, come uno spontaneolinguaggio espressivo. Le copie dei capolavori ellenisti-ci realizzate in epoca imperiale portano cosí quasi tutteil contrassegno formale dell’arte classica, che ne raf-fredda per cosí dire il pathos. Per effetto della politicaculturale di Augusto il classicismo diventò il destino

dell’arte imperiale fino agli inizi del iii secolo d. C. SeMarco Antonio avesse vinto la battaglia di Azio, è pro-babile che le botteghe romane avrebbero preso un indi-rizzo diverso, più spiccatamente ellenistico.

Prima di concludere questo capitolo vorremmo dedi-care uno sguardo ad Atene: la città che Augusto e i suoicollaboratori avevano preso a modello doveva speri-

mentare presto, sulla sua stesse pelle, le ambizioni cul-turali della nuova potenza egemone. Poiché Atene avevaaccolto Antonio con grandi onori, in un primo tempoAugusto la evitò, ma nel 15 a. C. intervenne Agrippa,a confermare sull’Agora la propria vocazione di grandecostruttore. E vero che i precedenti non mancavano, maa differenza dei sovrani ellenistici e degli aristocraticiromani che erano passati da Atene, Agrippa non si pre-sentò nelle vesti dell’ammiratore, bensí in quelle mora-listiche dell’educatore. Il suo massiccio Odeion vennecosí a occupare uno spazio che per secoli era rimastosgombro, proprio di fronte a uno dei portici più fre-quentati: i discendenti della grande Atene, in gravi dif-ficoltà economiche e dai costumi (agli occhi di Augusto)non propriamente esemplari, venivano cosí richiamatiall’epoca d’oro della propria cultura. Nel nuovo edificioessi avrebbero frequentato i loro autori classici sotto gli

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occhi delle sfingi (copie di modelli classici) che decora-vano le erme sulla scena dell’Odeion, secondo il gusto

personale dell’imperatore.Gli Ateniesi dovevano però anche ricordarsi che lacultura dei loro antenati aveva solide basi religiose. Pro-prio in mezzo all’Agora, sull’asse dell’Odeion, venneperciò ricostruito un tempio dell’età del Partenone, tra-sportato qui per l’occasione dalla sua sede originaria inuna località dell’Attica. Anche in questo caso la formaclassica aveva il valore di un simbolo: il tempio era infat-ti dedicato ad Ares, dio della guerra. Gli Ateniesi sape-

vano dunque dove stava di casa, il dio, quando dedica-rono una statua al figlio adottivo dell’imperatore GaioCesare in quanto «nuovo Ares».

Le iniziative di Agrippa non rimasero isolate e anchead Atene si finí per parlare di «restaurazione morale».Un’iscrizione, molto discussa (IG II 1035), testimonial’esistenza di un programma per il restauro di ottanta (!)templi in rovina in tutta l’Attica: particolare, questo,

che fa pensare a una stretta connessione col programmadi Augusto nella città di Roma. Negli stessi anni uncerto Giulio Nicanore, un siriano di cittadinanza roma-na, comprò dagli Ateniesi l’isola di Salamina e si fececelebrare per questo come un nuovo Tucidide e unnuovo Omero (ancora un vezzo classicheggiante). Erauno scandalo che il luogo in cui i Persiani erano statisconfitti venisse a trovarsi nelle mani di uno straniero.Lo stesso Augusto proibí, per l’avvenire, la vendita dellacittadinanza attica.

Tutto questo lasciò tracce profonde nel modo di sen-tire generale. Nelle iscrizioni tornarono in uso gli anti-chi caratteri, la cosiddetta «Agora romana» fu decora-ta con elementi architettonici dell’età di Peride, e per-fino nel trasporto dei blocchi di marmo vennero usati,in certe occasioni, cavicchi e ganci di foggia antica.

Atene non fu l’unica città dell’Oriente in cui la

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restaurazione religiosa di Augusto appare legata al suoprogramma di ritorno al classicismo. Nei santuari greci

si incontrano dappertutto iniziative architettoniche e unaccresciuta attività culturale e dedicatoria. Perfino in unantichissimo luogo di culto come la grotta del Monte Idanell’isola di Creta è stato riscontrato in quegli anni unsignificativo aumento delle offerte votive, e a Taranto,antico centro della Magna Grecia, sono state ritrovateimitazioni di prima età imperiale delle terracotte votiveclassiche, il cui uso era stato abbandonato ormai dasecoli. Il classicismo programmatico del nuovo regime

viene dunque accolto – anche solo parzialmente – intutto l’impero, e non solo come moda estetica, ma comeespressione di un rinnovamento religioso.

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Capitolo settimo

Le nuove immagini e la vita privata

Il profondo mutamento che il linguaggio visivo avevasubito nella sfera politica non poteva non avere riper-cussioni anche nella sfera privata. Se un intenditored’arte caduto nella battaglia di Azio fosse tornato in vitaalla fine dell’età augustea per visitare Roma e l’Italia, lasua meraviglia sarebbe stata grande di fronte alle nuoveimmagini dell’arte privata e funeraria. Nella pitturaparietale, che occupava gli interni delle abitazioni inmisura assai maggiore delle moderne tappezzerie, si era

sviluppato uno stile decorativo affatto nuovo. Pareti,mobili e oggetti di uso comune venivano decorati conmotivi nuovi, provenienti non di rado dal linguaggiofigurativo «di regime», si trattasse di case molto riccheoppure modeste. Ma non necessariamente la presenza ditripodi, sfingi, Vittorie e simboli dell’aurea aetas indi-cava nel padrone di casa un convinto sostenitore del princeps. Il fatto è che anche il gusto, insieme alla men-talità, era mutato.

Gli oggetti databili e documentabili con sicurezzasono troppo pochi perché si possa istituire un raffrontopuntuale tra il linguaggio pubblico e quello privato. Etuttavia, se non è possibile seguire in modo analitico laricezione dei vari simboli e la nascita del nuovo gustoabitativo, è però del tutto chiaro il rapporto tra l’evo-luzione della mentalità e il nuovo stile.

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 Moda e lealismo.

In un primo tempo la ripresa e l’utilizzo delle imma-gini «politiche» vale come segno di fedeltà e dedizioneal regime. Esporre nel proprio atrium – com’era usanzadiffusa – statue di Augusto e di altri membri della fami-glia imperiale, significava professare anche in privatoun’esplicita adesione al princeps. Il poeta Ovidio, esilia-to sul Mar Nero, aveva certo motivi particolari per ren-dere omaggio alla famiglia di Augusto, se voleva spera-re in un atto di grazia che gli consentisse di ritornare a

Roma. Ma il suo sacello privato, in cui figuravano bustidi Augusto, di Livia, dell’erede al trono Tiberio e deiprincipi Germanico e Druso Minore (proprio come nellegallerie pubbliche), non si distingueva dalle migliaia diedicole domestiche davanti alle quali si offrivano sacri-fici in occasione delle feste imperiali o di privati festeg-giamenti (ex Ponto II 8,1 sgg.; IV 9,105 sgg.). Chi por-tava sul proprio anello l’effigie dell’imperatore o simboli

come il Capricorno, i rostri, i Parti in ginocchio e simili,e usava quell’anello come sigillo, si identificava colnuovo Stato, come anche i proprietari delle tazze diBoscoreale. La riproduzione su vasta scala di questioggetti in materiali da poco prezzo – la pasta vitrea perle gemme, la terracotta per il vasellame d’argento – fecesi che queste immagini trovassero una enorme dif-fusione. I simboli «politici» comparivano su tutti glioggetti di uso privato suscettibili di decorazione: suigioielli e le stoviglie, i mobili e gli utensili, i tessuti, lepareti e i rivestimenti di stucco, sugli stipiti delle porte,le lastre di terracotta, le tegole e perfino i monumentifunerari e le urne cinerarie di marmo.

Naturalmente non è possibile stabilire, caso per caso,se l’acquirente o il committente di quel certo oggettocon quella immagine avesse in mente un messaggio poli-tico preciso, o si limitasse ad accettare il modello offer-

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to dalla bottega e magari fabbricato in serie. Ma a porreil problema in questi termini si rischia di semplificare

anche troppo il complesso gioco di rapporti tra la«domanda» e l’«offerta». In fondo, che l’idea di met-tere in circolazione certi simboli e immagini venisse alproduttore o al cliente, non fa molta differenza: finchéquelle immagini erano nuove, la loro ricezione nellasfera privata significava comunque una presa di posi-zione favorevole da parte dell’acquirente. Se un citta-dino di modesta condizione acquistava una lucerna diterracotta con raffigurazioni della corona civica, della

Vittoria sul globo, del clipeus virtutis o di Enea in fugada Troia anziché le solite corse dei carri o le solite sce-ne erotiche, si trattava di una scelta precisa. E lo stes-so vale, ovviamente, anche per le tazze aretine decora-te con motivi apollinei.

Per i benestanti, tra i quali annoveriamo non solo iproprietari delle grandi ville ma anche di piccole casepompeiane, possediamo testimonianze più differenziate.

Il proprietario della grande villa di Torre Annunziata,che negli anni intorno al 30 a. C. si faceva dipingere allepareti i simboli trionfali del culto apollineo, o quel con-sole C. Piso Frugi Pontifex (?), che acquistò per la suavilla alcune copie di statue dal ciclo delle Danaidi, con-sacrato da Augusto nel tempio di Apollo, non eranocerto partigiani di Antonio: così come non lo erano que-gli abitanti di Pompei che nei loro piccoli giardini face-vano mettere una statua di Apollo o di Diana anziché lesolite statuette di Dioniso e di Venere. Se poi l’atten-zione fosse davvero rivolta agli aspetti etico-religiosidell’iconografia augustea e non invece al nuovo stile,non è facile dire.

Dopo la consacrazione del tempio di Apollo (28 a.C.), molti cittadini benestanti amavano tenere davantiagli occhi le immagini della nuova religiosità, sia in occa-sione di feste e banchetti, sia in forma più raccolta,

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contemplando opere d’arte come le statue arcaicizzantio le gemme delle dattilioteche private. Ne sono una

prova i lavori degli argentieri, che conosciamo attraver-so le tazze aretine di terracotta, o anche le gemme e icammei. Con estrema frequenza ricorrono, su questioggetti, immagini degli dèi e scene mitologiche con allu-sioni alla vita politica del tempo, e spesso queste imma-gini si distinguono per un modellato molto deciso. Cosiuna testa di Mercurio mostra evidenti tratti policletei,ma si pensa subito al ritratto classicamente stilizzato diAugusto, benché i particolari fisiognomici siano in realtà

piuttosto pochi.Siamo cosi autorizzati ad affermare che agli inizi del

principato augusteo si sviluppò, presso committenti eacquirenti privati, un interesse spontaneo per la nuovaiconografia politica. Le botteghe artigianali reagironoalla situazione procurandosi i modelli richiesti e prov-vedendo a rifornire il mercato. Naturalmente qualchepersonaggio di spicco avrà anche dato il «la» alla nuova

moda: se uno dei grandi ordinava a un famoso artigia-no un nuovo pezzo di argenteria decorato con tripodi,candelabri, scene sacrificali e simili, e ne faceva poi usonei suoi banchetti, possiamo immaginare che il suoesempio, trovando un terreno cosi propizio, facesse rapi-damente scuola.

E tuttavia possibile che qualche circostanza casualeabbia contribuito ad accelerare il fenomeno. Forse unodei proprietari delle grandi fabbriche aretine apparte-neva alla stretta cerchia di Augusto, e fu lui a proporrele tazze d’argento come modelli per i vasi di ceramica ea procurare gli originali. Bastarono pochi episodi di que-sto tipo a determinare i nuovi orientamenti del merca-to e i nuovi equilibri della domanda e dell’offerta.

La nuova iconografia porta il segno di pochi maestri:quelli impegnati nei progetti dei templi augustei o nellacostruzione dei grandi monumenti in suo onore. Quan-

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to alle piccole botteghe, esse avranno seguito con laconsueta rapidità le grandi tendenze della moda (ed è un

fenomeno di cui possiamo fare esperienza anche oggi).I grandi cantieri «politici» erano infatti la fonte princi-pale delle innovazioni iconografiche e stilistiche con cuirinnovare il repertorio di bottega e battere la con-correnza. Per spiegare la ricezione di un motivo nonoccorre dunque risalire, dopo i primi anni di incubazio-ne, alla volontà precisa di un cliente, perché un ruolodecisivo spetta senz’altro all’autonomo dispiegarsi degliinteressi commerciali e di bottega, oltre che alle ragio-

ni intrinseche del linguaggio artistico.Cosí, ad esempio, i tralci rampicanti offrivano agli

artisti un motivo decorativo ideale per qualsiasi tipo disuperficie, e la Sfinge, fermo restando il suo valore sim-bolico e sacrale, forniva un’utile base d’appoggio. Nonè detto che, nell’usare questi motivi, gli artisti o i clien-ti delle botteghe pensassero alla propaganda del  saecu-lum aureum: erano semplicemente motivi molto diffusi

e perciò molto popolari. E si capisce che quando i pit-tori arricchivano il loro nuovo, elegante stile decorati-vo con piccoli tripodi, candelabri, sfingi, grifi, ippocam-pi e divinità arboree non pensavano a celebrare Augu-sto e il suo potere. Nelle botteghe dei ceramisti aretinii motivi apollinei e altri temi politici scomparvero pre-sto dal repertorio, mentre pare che non sia mai esistitauna serie corrispondente per la guerra contro i Parti, perl’inaugurazione del saeculum aureum o la propaganda afavore degli eredi al trono. Tutto questo fa pensare a uncerto disinteresse, da parte degli acquirenti, per unvasellame dall’iconografia politica troppo accentuata:ma ciò non significa che quei motivi non abbiano con-tinuato a esercitare la propria influenza. Al contrario,essi vennero assimilati al punto da riaffiorare più tardi,per esempio sugli altari funerari e sulle urne cinerarie.

È anche vero, d’altra parte, che mobili, utensili e

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pezzi di argenteria decorati con motivi tipici del nuovolinguaggio sono spesso oggetti di alta qualità, cosa che

farebbe supporre un’esplicita committenza. Così, adesempio, la mensa marmorea decorata con sfingi in fun-zione di sostegno proviene senza dubbio da una delleprime botteghe di Roma: questi tavoli di marmo, checomparivano negli atrii delle case abbienti, arrivavanoinvece spesso, nel periodo tardo repubblicano, da bot-teghe orientali. Come elementi di sostegno, venivanousati tradizionalmente soprattutto leoni e grifi, a cui siaggiunsero in epoca augustea motivi quali la cornucopia

e il globo, mentre al posto dei leoni possono comparire,come in questo caso, le sfingi, e in funzione forse nonpuramente decorativa.

Fin dagli anni trenta la Sfinge era diventata un sim-bolo di attesa epocale, e già sotto Cesare veniva effigia-ta sulle monete insieme alla Sibilla, mentre Ottavianousava l’immagine della Sfinge come sigillo. Dopo la bat-taglia di Azio la vediamo comparire su monete coniate

in Oriente, e dopo la vittoria sui Parti la incontriamosulle spalline della statua loricata di Prima Porta. Potrem-mo infine seguirne il percorso (insieme ad altri simboli),su candelabri e oggetti di bronzo, nella pittura su pare-te, sugli altari funerari e le urne cinerarie di marmo.

Quello che rende così interessante la Sfinge dellanostra base marmorea è il fatto di essere con ogni pro-babilità la riproduzione fedele di un originale greco dietà protoclassica. E la Sfinge che troviamo sulle mone-te, le gemme, i candelabri e le basi marmoree risale evi-dentemente allo stesso originale: come dimostrano alcu-ne versioni plastiche di notevole fattura, doveva trattarsidi un modello in grandezza naturale. Il suo grandeinflusso sull’artigianato artistico della città fa pensaredel resto che il prototipo si trovasse a Roma: era forseuno dei doni votivi offerti da Augusto nel tempio diApollo sul Palatino?

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Le sfingi della base marmorea si presentano come unsimbolo della nuova età non solo per la loro forma clas-

sica, ma anche per l’associazione col motivo dei tralci,che crescono rigogliosi da un ampio calice e riempionocon le loro volute l’intera superficie. In questo caso –almeno per il prototipo della serie – abbiamo a che faresenza dubbio con una ripresa consapevole del motivopolitico. Lo stesso vale anche per un oggetto come il bra-ciere di bronzo di Pompei, sorretto anch’esso da tresfingi, e per un’alzata da tavolo con una Vittoria sulglobo. Anche in questi casi viene da pensare a una clien-

tela dai gusti esigenti, poiché le sfingi sono un esempiodi quel raffinato stile eclettico, misto di elementi clas-sici e arcaici, di cui si è parlato in precedenza. Nell’al-zata, poi, il panneggio ellenistico della Vittoria è statosostituito con uno protoclassico: un linguaggio formale,dunque, ben studiato, con cui le botteghe si attengonofedelmente al classicismo dei monumenti di regime.

Nell’argenteria da tavola i motivi politici hanno una

funzione in parte dimostrativa, in parte giocoso-orna-mentale. Le due tazze di Boscoreale testimoniano natu-ralmente un alto grado di identificazione coi valori delregime, soprattutto se si pensa all’uso conviviale che neveniva fatto. La stessa disposizione delle immagini suiboccali invitava del resto a rigirarli fra le mani e a con-frontare le scene rappresentate: viene da pensare chefossero usati soprattutto in occasione delle feste impe-riali, per esempio all’inizio del banchetto, quando i con-vitati offrivano una libagione all’imperatore.

Di fronte alle aggraziate ghirlande e ai fantasiosigiochi di tralci del Cratere d’argento di Hildesheim èfacile invece perdere di vista ogni significato politico. Equesto vale in misura ancora maggiore per tutti i vasidecorati con motivi vegetali e oggetti di culto.

In ogni caso, vi fosse cioè una precisa volontà diidentificazione politica, o si trattasse invece di un puro

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divertimento estetico suggerito dalla nuova moda, lapresenza varia e costante di quei motivi nell’arredo

domestico e in ceti sociali così diversi non poteva nonrafforzare l’impatto globale del nuovo linguaggio.Ovviamente non si può dimenticare che molti moti-

vi ornamentali dell’arte ellenistica continuavano a tro-vare largo impiego, e che i nuovi motivi, considerati nelloro insieme, servivano più che altro ad arricchire e adaggiornare il repertorio tradizionale della decorazionedomestica. Se pensiamo tuttavia ai metodi e ai sottili cal-coli psicologici della moderna pubblicità, non potremo

fare a meno di vedere in quelle figure ricorrenti – e incontesti a volte del tutto marginali – un sistema di rin-forzi psicologici di vasto respiro, capace di agire, nellalunga durata, anche a un livello subliminale.

La privatizzazione del messaggio.

Nessuno poteva sottrarsi al potere delle nuove imma-gini, ne fosse consapevole o no. Lo dimostrano tutti queicasi in cui la nuova iconografia viene tradotta in unambito semantico improprio, o comunque diverso daquello originario, configurando quello che è forse l’a-spetto più interessante della sua ricezione. Incomincia-mo con un esempio concreto.

La Vittoria sul clipeus virtutis compare sulle lucernedi terracotta anzitutto come segno di fedeltà al regimee di omaggio verso Augusto. Sullo scudo si legge in que-sti casi la scritta ob cives servatos e si tratta, allora, di unariproduzione del celebre scudo onorario conservato nellaCuria. Ma su altre lucerne con lo stesso motivo trovia-mo una scritta del tutto diversa: annum novum felicemmihi et tibi. Si tratta, insomma, di regali per l’annonuovo. La dea della Vittoria e lo scudo di Cesare sifanno dunque portatori di un messaggio d’auguri squi-

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sitamente privato, mentre le monete sparse all’intornofanno capire senza mezzi termini che si tratta di augu-

ri molto materiali (e non ci sarà allora da stupirsi se lostesso motivo ritorna perfino sui salvadanai).L’uso improprio dei motivi politici poteva anche

avere un’origine professionale. Su un elmo gladiatorioritrovato a Pompei vediamo ad esempio, in posizionecentrale, l’effigie di Marte Ultore: non solo l’imperato-re e i principi, ma anche il gladiatore spera di vincerenel segno del dio della guerra. In questo caso la figuradi Marte non è però molto diversa da altre cifre figura-

tive in funzione apotropaica, o destinate a celebrare lavirtus del guerriero. Del resto, anche le larghe foglie diquercia, l’alloro e i tralci sulle gambiere mettono in rela-zione il mestiere del gladiatore, glorioso e rischioso, colnuovo sistema di valori: anche lui vuole la sua parte diconsiderazione e di stima e la chiede con gli stessi sim-boli che celebravano il Salvatore dello Stato.

Come sui pubblici monumenti, anche su questi elmi

i simboli compaiono non di rado associati come coppiedi figure complementari, per esempio i grifi con gli amo-rini, o Marte con Dioniso: la battaglia come presuppo-sto di una vita felice, così come le vittorie del princepsgarantiscono la stabilità della Pax Augusta. Si ha l’im-pressione che siano appunto questi «imprestiti» a tra-durre nella sfera privata gli schemi concettuali e imma-ginativi della nuova iconografia statale. Le ripercussio-ni di quest’ultima sull’identità civile e morale dei Roma-ni del tempo trovano qui, ad ogni modo, una manife-stazione immediata.

Un’attenzione particolare merita il caso della coronacivica e della corona d’alloro, dal significato spesso iden-tico. Abbiamo visto come la corona, simbolo onorificodel princeps come «salvatore dei cittadini e dello Stato»,fosse entrata presto nel repertorio delle formule celebra-tive: la si usava negli ambiti e sugli oggetti più diversi, e

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in certi contesti poteva assumere addirittura il caratteredi un’insegna imperiale. Anche in questo caso, tuttavia,

il suo uso non costituiva un privilegio esclusivo dell’im-peratore. Già in epoca tibero-claudia è attestato l’usodelle corone in ambito privato e in situazioni prive di rile-vanza politica. Alcuni liberti particolarmente legati allacasa imperiale furono probabilmente i primi a utilizzareil simbolo della corona per richiamare l’attenzione sulproprio status sociale: i membri del collegio degli Augu-stali di Pompei posero ad esempio delle enormi coronaecivicae sui loro altari funerari e in certi casi perfino sulle

loro porte di casa. E il caso dei liberti imperiali è del tuttoanalogo. Ma le corone di quercia e di alloro diventaronopresto, nell’arte funeraria, un segno generico di distin-zione, accompagnato dai consueti epiteti stereotipi comeoptimus, bene meritus, ecc.

Più in generale, gli altari funerari di marmo e leurne cinerarie urbane permettono di seguire nel modomigliore la graduale ricezione e privatizzazione dei sim-

boli ufficiali. I primi motivi a essere ripresi – ancora inetà augustea – sono quelli più generici e connessi al pro-gramma della  pietas, come i bucrani, le ghirlande, glistrumenti sacrificali, le fiaccole e i ramoscelli simbolici.D’altra parte, la forma stessa dei monumenti funeraricontiene già un messaggio preciso: spesso, infatti, le ur-ne più antiche riproducono la forma di un tempio e glialtari funerari sono costruiti palesemente sul modellodegli altari augustei (come quelli dedicati ai Lari). Ossia:la nuova arte funeraria si orienta sugli esempi tracciatidalla nuova religione ufficiale e può essere vista, nel suoinsieme, come l’espressione di una pietas tradotta nellasfera privata e come interiorizzata.

La nuova forma delle urne marmoree trova del restoun preciso riscontro anche fra i notabili delle città ita-liche. Un esemplare tra i più belli custodiva le ceneri diuno dei primi personaggi di Perugia, il cui nome, P.

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Volumnius A. F. Violens, è scritto sull’architrave del-l’urna come si trattasse del donatore di un tempio. Men-

tre i bucrani e le ghirlande del lato maggiore si ispiranosenz’altro a monumenti pubblici come l’ Ara Pacis, sullato minore è raffigurata una squisita scena di giardino.Tra gli altri particolari assume uno speciale rilievo ilmotivo dell’uccello intento ad abbeverarsi da un crate-re: motivo che abbiamo già incontrato nel programmadel saeculum aureum e anche come simbolo della Venus Augusta. In questo caso, però, il quadretto idilliaco nonha più nulla a che fare con l’aulica pietas della nuova età,

ma va inteso come semplice allusione a una vita felice,in un quadro di ricchezza e di raffinata cultura. La vita,insomma, del defunto. Abbiamo allora un programmacomposito: la scena di giardino si riferisce al suo statussociale, i simboli della pietas alla sua privata devozione.

Poco per volta, sempre nuovi elementi del linguag-gio politico vengono accolti in questi monumenti priva-ti, rivolti alla ristretta cerchia famigliare: aquile, teste di

Ammone, Vittorie, armi, tripodi, cigni, sfingi e varisimboli di fecondità compaiono allora come segni didistinzione e di augurio in una cornice piuttosto vaga,tale da abbracciare vivi e defunti a un tempo. Così adesempio i tripodi, che vediamo raffigurati in forme son-tuose, e spesso adorni di una fitta vegetazione rampi-cante, hanno certo poco a che fare con Apollo, e vannointesi piuttosto come simboli di pietas privata, come unaforma di decorazione funeraria a sfondo cultuale. Leallusioni dirette alla morte sono invece estremamenterare: perfino i rostri vengono incorporati in queste com-plesse macchine decorative come puri simboli di presti-gio, e non certo per richiamare la battaglia di Azio, maperché la presenza dei rostra sui monumenti di Statoaveva un’innegabile efficacia.

Come si vede, di fronte allo strapotere del linguag-gio ufficiale non c’è più posto per un mondo di imma-

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gini private: se il contenuto del messaggio fa riferimen-to a una sfera personale, committenti e scultori devono

però esprimerlo coi vocaboli propri dell’ideologia impe-riale. Così, il gruppo di Enea viene utilizzato sui monu-menti funerari come simbolo di pietà e di attaccamen-to alla famiglia, mentre la scena della Lupa con Romo-lo e Remo, emblema dell’orgoglio romano, diventa suglialtari funerari un puro segno di dedizione e di amore fracongiunti.

L’uso privato di immagini e segni propri dell’arte diStato augustea raggiunse però il suo culmine solo nell’età

dei Flavi: la privatizzazione fu lenta e graduale, a ripro-va ulteriore della diffusa efficacia di quel linguaggio.

Gusto e mentalità.

Ritorniamo ora, ancora una volta, agli inizi dell’ar-te augustea, per vedere come lo spirito della nuova epoca

abbia fatto il suo ingresso nelle case private non soloattraverso i nuovi temi figurativi, ma contribuendo,insieme, a sviluppare un nuovo stile di decorazione pergli ambienti interni. Si è visto come allora negli anniquaranta e negli anni trenta i Romani amassero lo stilearchitettonico più sfarzoso, con i suoi materiali pregia-ti e le sue raffigurazioni illusionistiche di porticati, giar-dini, grandiose.

Intorno agli anni trenta incominciano a diffondersiforme sempre più manieristiche, che senza rinunciareallo sfarzo ne dànno tuttavia una versione singolarmen-te «estraniata». Intellettuali conservatori come Vitruvio– portavoce forse di una parte consistente dell’altasocietà romana – condannano come senz’altro immora-le questo sviluppo in senso antinaturalistico e antitradi-zionale, segno di una rapida evoluzione del gusto:

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Sugli intonaci si preferisce ora dipingere cose mostruo-se (monstra) anziché immagini fedeli al vero. In luogo delle

colonne si dipingono giunchi scanalati, e in luogo dei fron-toni stucchi a foglie arricciate e volute, o candelabri chesorreggono piccole edicole. In cima a queste crescono fioridelicati i cui steli si svolgono dalle radici e su cui siedonofigurette senza senso. I gambi sono figure ibride, con testedi uomini o di animali: cose che non sono, non possono es-sere, né furono mai (Vitr., VII 5,3).

L’allungamento manieristico delle colonne e lo svi-

luppo in senso fantastico della decorazione ebbero perconseguenza – se consideriamo queste pareti con unosguardo d’insieme – un netto passo indietro rispetto allusso ostentato di forme e materiali che caratterizzavale vecchie architetture dipinte. È vero che, ad esempio,le pitture parietali della «Farnesina» (circa 20 a. C.) esi-biscono una ricchezza di particolari senza precedenti, mal’accento cade ora sempre più sugli aspetti ornamentali

della decorazione. Alle prospettive mosse e spezzatesubentrano superfici più uniformi, dove lo sguardo èattratto da immagini e scene precise. Evoluzione stili-stica e iconografica procedono dunque di pari passo e ladirezione sembra indicata anche qui dal nuovo sistemadi valori.

Ne è una prova uno degli ambienti principali dellaCasa di Augusto sul Palatino, nella parte finora ripor-tata alla luce. La spiccata semplicità dell’articolazionescenografica sottolinea l’efficacia degli ampi scorci pae-saggistici, ma ognuna delle tre scene appare dominata daun misterioso oggetto di culto o votivo collocato inprimo piano. Il contenuto religioso della decorazionedenuncia qui con evidenza l’influsso del committente.

La sensibilità estetica sembra reagire con sorpren-dente rapidità alla mutata situazione culturale. Se è veroche gli ambienti della Casa di Livia e della Casa di

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Augusto (circa 30 a. C.), e perfino la «Sala dei quadri»della «Farnesina» (circa 20-10 a. C.) seguono ancora il

vecchio sistema decorativo, un certo «estraniamento»manieristico, il tenue cromatismo e il rilievo assegnatoalle scene centrali conferiscono alle pareti una qualitàdiversa. È evidente, in molte botteghe, la ricerca dinuove forme espressive: una ricerca che, pur non appro-dando a una soluzione unitaria e definitiva, sembraabbandonare il lusso e lo sfarzo di facciata, avvertiti oracome sgradevoli e privi di gusto. All’imponenza dei vec-chi colonnati fastosi subentrano forme più semplici e più

artisticamente elaborate.D’altra parte al pubblico piacciono le novità, ed è

naturale che le botteghe cerchino di rinnovarsi: un sem-plice dato di fatto che può aver contribuito non pocoall’evoluzione del linguaggio formale. Non è tuttaviaun puro caso che questa evoluzione coincida con glisforzi di Augusto per imporre la sua svolta morale: lanuova mentalità ebbe insomma tra le sue conseguenze

un deciso mutamento del gusto e della comune sensibi-lità estetica.Il nuovo gusto trova un’espressione particolarmen-

te efficace nel sistema decorativo del cosiddetto «terzostile». A differenza però di quanto comunemente sisostiene, non si tratta, a mio parere, del risultato di unprocesso graduale ma di una precisa invenzione artisti-ca in cui vecchio e nuovo si fondono in una sintesi diforte originalità. I primi esempi risalgono probabil-mente agli anni dei ludi saeculares e la definizioneanch’essa usuale di «stile dei candelabri» non fa cheribadire i connotati ideologico-sacrali della nuovamaniera. Una volta inventato, il «terzo stile» si diffu-se rapidamente, a conferma del suo pieno accordo colgusto del tempo: a Pompei, ad esempio, fu adottato damolti proprietari anche di piccole abitazioni. Ma unesempio tra i più suggestivi è quello conservato sulle

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pareti di una villa a Boscotrecase (circa 1o a. C.), appar-tenente alla famiglia di Agrippa.

Le colonne e le prospettive architettoniche sonodiventate sottili ed eleganti strisce ornamentali, chescandiscono l’intera parete in riquadri perfettamenteequilibrati. Guardandoli da vicino si scopre però chequelle colonne e asticciole filiformi sono decorate conmotivi ricchissimi e curiosi e che, nonostante la sotti-gliezza immateriale delle strutture, si tratta proprio dicornici architettoniche, di colonne, pilastri e candelabri.

Se questo tipo di intelaiatura non è senza preceden-

ti nella tradizione manieristica, le grandi superfici mono-crome su cui lo sguardo riposa rappresentano invece unanovità assoluta: la ricerca di chiarezza, di una netta arti-colazione dei vari elementi – zoccolo, parete, motiviornamentali e figure – e di una tonalità cromatica unifor-me e pacata, è il carattere distintivo del nuovo stile.

La rigogliosa e intricata ornamentazione di pochianni prima cede il passo alla miniatura, a un sottile dise-

gno che si svolge sui riquadri monocromi come traccia-to con una punta d’argento: quasi a documentare larigorosa coerenza della nuova concezione. Molte cosefanno pensare che i primi committenti appartenesseroalla cerchia dell’imperatore: diversamente non sarebbefacile spiegare l’alto livello artistico e anche la rapida dif-fusione delle nuove creazioni, a cui gli ambienti di cortefornirono una adeguata cassa di risonanza.

L’inventore del «terzo stile» aveva in mente nonsolo il nuovo gusto estetico, ma anche il nuovo sistemadi valori. Ne sono una prova le precise implicazionimorali delle immagini, sottolineate dalla semplicità dellepareti e dall’ordine formale dell’insieme. Sarebbe tut-tavia sbagliato parlare di un programma vero e proprio:diremo piuttosto che il nuovo clima politico si rispecchiaindirettamente in un mondo di valori estetici conformealla nuova sensibilità. Va da sé che il nuovo apparato

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decorativo reagisce a sua volta, con un effetto di rinfor-zo, su quel clima.

Sulle pareti dipinte nel nuovo «stile dei candelabri»troviamo soprattutto due tipi di immagini: le scene mito-logiche e le vedute di paesaggio sacrale. Le scene mito-logiche, di cui troviamo esempi già sulle pareti ma-nieristiche, come nella casa di Livia, riprendono perlo-più i modem della pittura greca classica, seguendo cosíil classicismo dominante dell’arte di Stato; e come nelleimmagini mitologiche devozionali di quest’ultima, il lorostile è povero di contenuti narrativi. In entrambi i casi

l’osservatore si trova di fronte a pochi gesti carichi disignificato arcano e spesso indefinibile: il piccolo Dio-niso allevato dalle Ninfe diventa un omaggio al Bambi-no miracoloso, la Caduta di Icaro allude alla morte delGiovinetto, mentre il castigo di Dirce simboleggia lahybris punita. Che queste scene vadano intese come uninvito alla meditazione è indiscutibile. Meno facile è sta-bilire, in certi casi, se gli artisti abbiano modificato i loro

modem classici, ma già la scelta dei temi e la loro pre-sentazione solenne sulla parete dimostra quanto siadiverso l’atteggiamento psicologico verso quei contenu-ti figurativi. Ne sono un esempio particolarmente visto-so le imitazioni di dipinti su tavola ( pinakes) classici earcaici, come quelle che vediamo sulle pareti della «Saladei quadri» alla Farnesina: quasi fosse un santuario ador-no di preziosi quadri votivi.

Possiamo vedere in questa pittura su parete mira-bilmente conservata una testimonianza ulteriore di quel-la che abbiamo chiamato la «privatizzazione» del pro-gramma devozionale augusteo, ma anche, insieme, del-l’indirizzo classico-arcaico proprio dell’arte di Stato. Sitratta, in ogni caso, di un esempio significativo del gustoeclettico dominante. Solo le scene centrali – ossia i qua-dri votivi arcaicizzanti e il grande dipinto classico dedi-cato all’infanzia di Dioniso – appaiono conformi, infat-

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ti, al simbolismo tipico dell’arte ufficiale: nell’apparatodi contorno, dalle cariatidi all’ornamentazione architet-

tonica spiccatamente manieristica, l’artista si abbando-na invece a un eclettismo senza limiti, in cui la tradi-zione ellenistico-«asiana» svolge un ruolo decisivo.

Proiezioni bucoliche.

Al tema della pietas si riconducono anche le origina-li vedute di paesaggio a carattere prevalentemente sacra-

le e bucolico che vediamo nascere insieme al nuovo lin-guaggio decorativo e che troviamo su gran parte dellepareti dipinte nello «stile dei candelabri». L’osservatoreè come trasportato in un mondo di quiete e di pace:prati, alberi venerandi, ruscelli, pescatori e poi pastoricon le loro greggi, satiri e ninfe evocano l’idea di unavita felice nel quadro di una «natura incontaminata».Ma sullo sfondo vediamo profilarsi uno scenario di par-

chi e giardini, tempietti, portici e perfino ville. Il cen-tro della composizione è occupato, sempre, da un luogodi culto artisticamente preparato: un piccolo santuariocon doni votivi e simulacri, davanti al quale vediamofigure di sacrificanti o di fedeli in adorazione, in partesemplici contadini, in parte sacerdotesse dagli abitisolenni. In un ambiente cosí raccolto, perfino i satirisembrano dimenticarsi delle menadi per offrire sacrifi-ci a Dioniso o a Priapo.

L’idillio pastorale apparteneva da tempo al reperto-rio figurativo della pittura su parete, ma si trattava, inquel caso, di un genere paesaggistico fra gli altri. Orainvece esso assume un rilievo tutto particolare, mentreil paesaggio si popola di altari e simulacri, doni votivi escene di culto. Virgilio è tra i primi a investire il vecchiomondo bucolico di un preciso significato politico, can-tando nelle Georgiche la vita semplice dei pastori dell’età

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di Romolo, la loro purezza morale e la loro  pietas. Maanche negli altri poeti augustei l’idillio pastorale si pre-

senta come una fuga nostalgica dagli affanni della vitacittadina, dal lusso e dalla decadenza dei costumi (cfr.Hor., Ep. II 1,14o). E se i poeti celebrano la felicità deipastori e dei loro armenti al pascolo come un simbolo del saeculum aureum, anche le immagini di quella vita pos-sono celebrare a loro volta i fasti della pietas originaria,funzionando come metafore edificanti ed esemplari. Sirammentino, a titolo di esempio, gli animali al pascolosul rilievo dell’ Ara Pacis.

Lo stile pittorico di queste scene è degno di parti-colare attenzione. I singoli elementi non si compongo-no in uno spazio figurativo unitario, ma appaiono giu-stapposti come nei paesaggi della pittura cinese: ne ri-sulta, anche per l’assenza di «cornice», un caratteresospeso e visionario, dove gli oggetti e gli eventi raffi-gurati contano assai meno dell’atmosfera complessiva.

Ma i nuovi idilli sono contradittori. I pittori di que-

sta società raffinata e abituata al lusso non riescono aimmaginare la semplice vita pastorale se non su unosfondo di parchi e di ville. Dietro i semplici altari di pie-tra vediamo bizzarre strutture dall’aspetto esoticheg-giante e ricchi doni votivi, e invano cercheremmo inqueste vedute di paesaggio un contadino al lavoro oquei campi fruttiferi cantati da Virgilio con voce cosísuadente. E a pigiare le uve sono i satiri, non i conta-dini: rispondere agli appelli moralistici del princeps nonsignifica insomma, per i pittori dell’età augustea, tornarealla vita dei campi, ma figurarsi un mondo utopico diotium e di sereni piaceri. Le fantasmagorie sontuose ecorpose della tarda repubblica cedono il passo a visioninostalgiche, in cui l’aspirazione alla pace della campagnasi unisce al desiderio di una vita più semplice e armo-niosa: la pietas contadina e la vita pastorale sono le cifrepoetiche di questo sogno.

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I problemi, le difficoltà e le contraddizioni dell’e-sperienza quotidiana, che la politica di rinnovamento

promossa da Augusto rendeva più acuti e che non appa-rivano risolvibili sul piano della realtà concreta, trova-no dunque in queste proiezioni mitiche una soluzioneimmaginaria, configurando cosí una variante significa-tiva del nuovo sistema di valori. Ideologia politica esogni privati si confondono, col risultato però di accen-tuare la frattura tra questi ultimi e la realtà quotidiana.

In luogo dei paesaggi dipinti, le pareti potevano peròaccogliere anche rilievi scultorei di piccolo formato e

perlopiù di alta qualità artigianale, che a differenza dellapittura richiedevano però un messaggio più sintetico ecircoscritto. Manca pertanto, ad essi, quel caratteresospeso che è tipico delle miniature parietali e che leallontana cosí piacevolmente dalla concettosità dell’artepolitica. I rilievi hanno invece un carattere più didasca-lico e programmatico, anche nel caso di soggetti erotici.

Un rilievo del Museo Archeologico di Torino cele-

bra gli amori di un satiro e di una ninfa, ma a differen-za dei gruppi erotici tardo ellenistici con la loro esplici-ta sensualità, i due amanti si sottraggono qui allo sguar-do diretto dell’osservatore: la ritrosia della ninfa e la fo-cosità del satiro hanno l’eleganza di una coppia pasto-rale in un quadro dell’Ancien Régime. Insieme alla cop-pia sorpresa dallo sguardo estraneo ci sentiamo anchenoi attratti dallo sfondo, in cui regna un’intensa at-mosfera sacrale. La statua di una divinità campestreguarda con fare ieratico dall’interno del suo piccolo san-tuario. A sinistra vediamo un misterioso scrigno sacro,stretto da bende, mentre al centro della composizionesorge un’alta pianta di alloro, ai cui rami è appesa unabisaccia da pastore. Il suo gregge è rappresentato da duecapre di dimensioni più grandi del naturale: a coloro chele restano fedeli, la Natura offre ogni ricchezza e senzafatica. Quale sia invece la ricchezza degli uomini mo-

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derni, è la domanda che gli scultori si pongono, per con-trasto, come anche i poeti della cerchia augustea.

Un piccolo rilievo conservato a Monaco non è menopervaso di contenuti programmatici. Sembra uno scor-cio disinvolto e affettuoso di vita quotidiana, eppurenon c’è un solo particolare che non contenga una preci-sa indicazione didascalica. Vediamo un vecchio con-tadino che va al mercato col suo vitello, ma a differen-za di quei rilievi ellenistici in cui pescatori e contadiniapparivano affamati e abbrutiti, in un quadro distan-ziante e dalla forte connotazione negativa, qui l’artista

non si stanca di sottolineare il benessere del suo conta-dino: la vacca è ben nutrita e porta due grasse pecoreallacciate sul dorso, il vecchio ha una lepre sulle spallee tiene in mano un cesto pieno di frutta. E tutto ciò nonè merito del suo lavoro, bensí della sua devozione reli-giosa. Lo sfondo, infatti, è dominato anche qui da unantico santuario: si vedono le mura e la porta del sacrorecinto, e davanti ad esso un altare con delle fiaccole e

un vaso rituale, mentre sull’alto scorgiamo una piccolacappella del dio Priapo. Al centro dell’edificio circola-re, costruito in blocchi di marmo, s’innalza una speciedi obelisco cultuale su cui poggia il ventilabro dionisia-co, segno mistico di prosperità. Come se ciò non bastas-se, il vecchio albero nodoso, cresciuto per generazioniattraverso la porta del tempio, dispiega miracolosamen-te proprio sopra gli oggetti del culto delle grandi, gio-vani foglie di quercia. Nel tempio in rovina si può vede-re un’allusione ai desera sacraria (Prop., III 13,47), di cuisi curavano ormai solo i contadini e i pastori, rimastifedeli alla natura: prima, ovviamente, che arrivasseAugusto. Un’iconografia non meno complessa e «carica»di quanto lo fossero i motivi bucolici presenti nella poe-sia augustea.

In qualche caso le decorazioni di interni conteneva-no allusioni dirette al nuovo mito dell’età dell’oro, come

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negli stucchi sui soffitti della «Farnesina». Uno dei rive-stimenti svolge addirittura un regolare «programma»

con sacrifici campestri, una scena di iniziazione ai miste-ri dionisiaci della fecondità, allegorie mitologiche(Fetonte), ma anche Vittorie alate con lo sguardo signi-ficativamente rivolto alle armi, e immagini del saeculumaureum come terra. Come nei dipinti su parete vediamofloride greggi sullo sfondo degli edifici dedicati al culto.Ma in questo caso il quadro è incorniciato da due grifie da due statue di Mercurio, i cui caducei – molto gran-di e tesi in gesto propiziatorio – erano un simbolo uni-

versale di pace e prosperità. Alcuni interpreti modernihanno visto nelle teste delle due statue una allusione allafisionomia di Augusto: ed era forse proprio questal’intenzione dei committenti e degli artisti.

Con i mobili e gli oggetti di uso comune, questoinsieme di pitture parietali, rilievi e rivestimenti di stuc-co forma un complesso senz’altro paragonabile all’artenapoleonica: lo Stile Impero nacque in poche botteghe

impegnate a lavorare per la Corte e gli ambienti ad essavicini, e il caso dell’arte augustea non è diverso. Inentrambe le situazioni la rapida diffusione del nuovostile fu resa possibile da una disposizione estetica cherispecchiava a sua volta una nuova mentalità. A questofenomeno contribuirono fattori diversi e complessi, e ilmutamento del sistema politico fu solo uno tra gli altri.Ma fu quello, in ogni caso, che coagulò le tendenze giàin atto, imprimendo ad esse una direzione più precisa.

 Mentalità e autorappresentazione.

Prima di concludere questo capitolo vorremmo dareun breve sguardo ai monumenti funerari e ai molti ritrat-ti marmorei anonimi della prima età imperiale: vedremoallora come il mutamento del gusto e della mentalità

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abbia lasciato tracce profonde nell’identità di larghi stra-ti della società romana.

A Roma e nelle città italiche l’usanza di farsi costrui-re grandiosi monumenti funebri – come la Tomba diCecilia o quella del fornaio Eurisace – aveva perso ter-reno, e lo stesso vale per le innumerevoli tombe «pri-vate» dei liberti, che negli ultimi decenni della repub-blica avevano preso parte al gioco dell’antagonismosociale, facendosi raffigurare con le loro famiglie sulmargine delle strade. In luogo di quelle tombe indivi-duali, che si imponevano quasi aggressivamente all’os-

servatore, sorgevano ora sempre più spesso tombe difamiglia, chiuse dalla parte della strada e decorate soloall’interno.

Per la vecchia aristocrazia e gli alti funzionari dell’amministrazione imperiale quei gesti di vanità autoce-lebrativa non avevano più, almeno a Roma, alcun signi-ficato. Poiché era il princeps a decidere sulle pubblicheonorificenze e a stabilire a chi spettasse una statua nei

punti ancora liberi del Forum Augustum, la ricerca delprimato personale e della messinscena stravagante avevaperso ogni interesse: già Munazio Planco aveva fattocostruire il suo poderoso mausoleo non più a Roma maa Gaeta, e sia pure in una posizione molto in vista. CaioCestio, evidentemente meno sensibile al nuovo climapolitico ed estetico, fu uno degli ultimi a seguire la vec-chia moda spettacolare con la sua grande piramidedavanti alla Porta Ostiense (11 d. C.). È vero che anchein seguito verranno costruite occasionalmente tombemonumentali, ma si tratta allora, ed è significativo, dihomines novi e non più della vecchia aristocrazia.

Il nuovo gusto dell’alta società romana sembra orien-tato ormai, più che sui grandi monumenti, su semplicitombe di famiglia, dove il defunto era ricordato con unsemplice altare, mentre le urne cinerarie e i ritratti veni-vano sistemati in loculi relativamente modesti.

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dalle dame della casa giulio-claudia diventarono subitodi moda e quando Livia rinunciò al ciuffo sulla fronte e

alla scriminatura a treccia per adottare una scriminatu-ra «classica», le donne la seguirono, cosí come più tardifecero propria la elaborata acconciatura di AgrippinaMinore. L’imitazione anche fisiognomica dei ritratti dicorte arriva a un punto tale che è quasi impossibile sta-bilire, anche per uno studioso, se certi ritratti rappre-sentino la moglie dell’imperatore o una donna anonima.E un discorso analogo vale per l’abbigliamento. Perfinonella lontana Spagna le donne si facevano confezionare

la stola, e gli scultori dovevano curarsi di far risaltare lespalline anche sui busti onorari.

Nei ritratti virili i caratteri individuali sono piùaccentuati che in quelli femminili, ma anche qui il tagliodei capelli è stilizzato e lascia scoperta la fronte in mododa rispettare uno schema fisiognomico armonioso, anchea costo di forzare le caratteristiche individuali. Non èun caso che tra i ritratti della prima età imperiale calvi-

zie e pinguedine siano quasi del tutto assenti! Ma,soprattutto, questi ritratti riprendono, nell’espressionee nell’atteggiamento, la formula stereotipa fissata dairitratti di Augusto e dei principi, una formula che fapensare alle pose e ai volti delle foto-ritratto dei nostrianni trenta. Siamo comunque molto lontani dal ritrattotardo repubblicano: i capelli non sono più mossi macomposti e ben ordinati sulla fronte, la pelle tormenta-ta o rugosa è diventata liscia, tutta quella varietà fisio-gnomica di volti giovani e anziani, grassi e magri, haceduto il passo a una figura più uniforme, classicamen-te proporzionata, e la vis mimica si attenua in un’e-spressione distaccata e solenne. Lo stile ritrattistico dellacasa imperiale si impone a questi probi personaggi alpunto di eclissarne i tratti individuali, sacrificandoli allanuova moralità di regime.

Se si considera com’è difficile per l’uomo comune

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rinunciare, oltre una certa età, al proprio taglio deicapelli o al proprio modo di vestire – sentiti come parte

integrante dell’identità personale – possiamo farci un’i-dea dello stretto rapporto che lega, in questi anni, le ten-denze della moda e l’evoluzione del gusto con l’onni-presente modello imperiale.

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Capitolo ottavo

La diffusione del mito imperiale

Finora ci siamo occupati esclusivamente di Roma,accennando solo di passaggio ad alcune città dell’impe-ro: è lí, in effetti, che nasce il nuovo linguaggio figura-tivo e da lí si diffonderà in tutto il territorio imperiale.Bisogna comunque tracciare una netta distinzione tral’Oriente greco e l’Occidente latino, poiché l’Oriente,forte delle sue tradizioni, reagisce al nuovo stato di cosein maniera profondamente diversa. Ma sia in Orienteche in Occidente la ricezione del programma augusteo

e del nuovo linguaggio visivo fu favorita dal rapidodiffondersi del culto imperiale.

La reazione dei Greci.

L’intera umanità si volge piena di venerazione al Seba- stos (Augusto). Le città e le assemblee delle province glirendono omaggio con templi e sacrifici in suo onore: per-ché cosí si addice alla sua grandezza. E tutti, in questomodo, lo ringraziano per i suoi benefici.

Cosí lo scrittore contemporaneo Nicola di Damascodescrive la reazione spontanea del mondo greco all’isti-tuzione della monarchia dopo la vittoria su Antonio. Adifferenza di Roma, l’Oriente non aveva bisogno dinuovi simboli e nuove immagini: poteva andare incon-

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tro all’imperatore, di cui tutti avrebbero presto speri-mentato la forza pacificatrice e ordinatrice, col linguag-

gio ben collaudato delle monarchie ellenistiche, ossia«con gli onori abituali per gli dèi olimpi» (Phil., Leg.149-51).

Ma sebbene le forme del nuovo culto imperiale fos-sero le stesse che le città greche avevano riservato adAlessandro e ai re ellenistici, e poi a Roma e ai condot-tieri romani, tale culto rappresentava, per la sua dif-fusione e la sua intensità, qualcosa di completamentenuovo. In precedenza il culto del sovrano era un fatto

sporadico, legato all’iniziativa di singole città e a occa-sioni particolari: ora invece il fenomeno è pressochéuniversale, e coinvolge, oltre alle città «libere», anchele città delle province e località prive dello status citta-dino. Il culto dell’imperatore diventò rapidamente laforma di culto più diffusa.

Naturalmente le forme e l’impegno variavano dacittà a città, secondo le disponibilità finanziarie dei per-

sonaggi che lo amministravano e l’importanza o le ambi-zioni delle varie comunità. Il culto di Augusto potevaessere associato a culti e feste di altre divinità, ma spes-so si svolgeva in edifici appositi e di nuova costruzione:«Nelle vecchie e nelle nuove città vennero costruiti perlui templi, propilei, recinti sacri e porticati» (Phil., Leg.149-51). I nuovi luoghi di culto dedicati all’imperatoreerano spesso più grandi e monumentali di quelli dedicatiagli antichi dèi, ma non se ne distinguevano, di regola,nell’aspetto esterno. Si trattava di templi peripteri iso-lati, perlopiù con portici perimetrali, o di templi a pian-ta circolare, di altari monumentali e simili. Il nuovotempio romano, caratterizzato dall’alto podio, dal fron-tone massiccio e dall’abbondanza della decorazione, èinvece piuttosto raro in Oriente e si trova solo nelle cittàdi pianta romana. L’uso delle forme architettoniche aloro famigliari sottolineava, agli occhi dei Greci, lo stret-

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to legame tra il culto dell’imperatore e le pratiche reli-giose tradizionali.

Gli edifici dedicati al culto imperiale sorgevano nelcuore delle città ed erano collegati ai centri della vitareligiosa, politica ed economica. Cosi, ad esempio, untempio a pianta circolare dedicato a Roma e ad Augu-sto fu costruito sull’Acropoli di Atene nelle immediatevicinanze dell’Eretteo e del Partenone. Il tempio diAugusto a Efeso sorgeva nel cosiddetto mercato stata-le, un nuovo complesso del centro cittadino che si svi-luppò intorno ai luoghi del culto imperiale. Per il Tem-

pio di Roma e di Augusto il re Erode scelse un luogo par-ticolarmente suggestivo nella nuova città di Cesarea,cosi chiamata appunto in onore del princeps: costruito suun alto podio, l’edificio dominava il porto e l’interopanorama della città (Jos., Ant. Iud. 15,339).

In molte località esistevano contemporaneamentepiù luoghi di culto dedicati alla casa imperiale. Un riccocittadino di Ereso, nell’isola di Lesbo, aveva fatto

costruire non solo un tempio per Augusto nel portodella città, come Erode, ma aveva anche dedicato aGaio e Lucio Cesare un sacro recinto sull’agorà, e unterzo luogo di culto in onore di Livia. Come mostral’Ara di Augusto nel municipio di Mileto, ricostruito direcente, gli altari dedicati all’imperatore erano non dirado straordinariamente sontuosi: una scenografia checomunicava agli abitanti della città tutta l’importanzadel nuovo culto. Qui le città dell’Oriente si trovavanosu un terreno congeniale, essendo per loro molto piùfacile identificarsi con la monarchia che con l’apparatoburocratico della vecchia repubblica. E d’altra parte,questa forma di comunicazione diretta col sovrano svi-luppò un crescente senso di appartenenza all’impero.

Nel culto tributato ai sovrani ellenistici i Greci ave-vano associato, fin dal iv secolo a. C., la glorificazionedella potenza terrena ai loro culti tradizionali: general-

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mente i sacrifici venivano offerti per il sovrano agli anti-chi dèi, anche se in certe occasioni ci si rivolgeva diret-

tamente a lui per ottenere benefici particolari. Nono-stante la sontuosità dei rituali e degli edifici, ancheAugusto e i suoi successori non furono equiparati apieno titolo agli dèi olimpi, ai quali erano subordinaticome una potenza di rango inferiore ma profondamen-te radicata nella vita delle città e dei singoli cittadini. Glistorici delle religioni hanno spesso messo in dubbio laqualità emotiva e religiosa del culto imperiale, interpre-tandolo come un rituale monotono di sottomissione e di

fedeltà politica, ma si tratta di una valutazione su cuipesa molto probabilmente l’idea cristiana di religionecome «fede».

In ogni caso, qualunque fossero i pensieri e i senti-menti dei Greci durante le cerimonie in onore di Augu-sto, è un fatto che questi rituali erano accompagnati daprocessioni, pubblici banchetti e giochi in grande stile.Le feste dell’imperatore segnavano i punti alti del calen-

dario, e offrivano ai cittadini l’opportunità di una veraesperienza comunitaria. Era un piacere assistere all’af-flusso di «pellegrini» dalle città vicine, ai traffici dellefiere, alle sfarzose ambascerie venute da lontano: eranogiorni in cui la vita mostrava, anche ai più poveri, il suolato migliore. Le cerimonie offerte all’imperatore, cherisiedeva nella lontana Roma, lusingavano l’orgogliocivico e offrivano ai più ricchi una buona occasione permettersi in mostra e fare sfoggio della propria munifi-cenza verso Augusto e i loro stessi concittadini.

Ma poi, per tutto l’anno, lo scenario architettonicoin cui si svolgeva la vita quotidiana continuava a ricor-dare l’imperatore. Dappertutto si incontravano le suestatue e i suoi ritratti, e come se non bastasse c’erano lemonete: quasi tutte le città battevano moneta con la suaeffigie. Questa forma di omaggio al nuovo padrone delmondo era a sua volta senza precedenti, anche se le

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effigi non seguono, in un primo tempo, un modellouniforme. Un’analisi più dettagliata potrebbe mostrare

anche qui tutta una varietà di sfumature e di accentiall’interno del comune panegirico.In contrasto con le forme architettoniche, i rituali e

le feste, che seguivano perlopiù la falsariga della tradi-zione, le statue onorarie di Augusto e degli altri mem-bri della sua famiglia ripetevano di regola i modelli pro-venienti dalla capitale. La diffusissima statua togatacapite velato presentava l’imperatore nelle vesti delRomano devoto, quasi a compensare le numerose statue

di culto. Augusto era insomma raffigurato come dio ecome uomo, secondo la natura stessa del culto imperia-le, ma non mancano altri schemi figurativi – il tipo dalpanneggio «eroico», le statue loricate e i nudi nello stileclassico –, anch’essi ripresi dai modelli della capitale. Lostesso vale per l’iconografia delle divinità femminili uti-lizzata per le dame della casa imperiale, celebrate, divolta in volta, come la nuova Afrodite, la nuova Hera o

la nuova Hestia, oppure anche, come in Occidente, configure allegoriche. Alcuni «vocaboli» essenziali delnuovo linguaggio e del nuovo mito politico circolanodunque allo stesso modo sia in Oriente che in Occi-dente.

Probabilmente, però, il rapporto tra l’imperatore eil mondo degli dèi e degli eroi è, in Oriente, ancora piùstretto. Cosí almeno fanno supporre alcuni monumentipiù tardi, come quello costruito a Efeso intorno al 170d. C. in onore di Lucio Vero per commemorare la suavittoria sui Parti, o un edificio di prima età imperialededicato al culto dell’imperatore e riscoperto solo direcente ad Afrodisia.

Quest’ultimo era decorato con due serie di rilievi agrandi dimensioni. Mentre su una delle due serie sonoraffigurate scene mitologiche dal contenuto famigliare,come la caccia di Meleagro e Leda con il cigno, nell’al-

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tra entra in scena l’imperatore stesso come figura miti-ca: ad esempio, lo vediamo sottomettere la Britannia

nelle vesti di un nuovo Achille, in una scena che utiliz-za il noto schema iconografico del gruppo di Achille ePentesilea. Numerosi rilievi lo mostrano nelle vesti delVincitore, circondato da divinità e figure allegoriche, equi l’imperatore appare nudo o con la corazza, confor-memente agli schemi iconografici usuali nella parte occi-dentale dell’impero. Anche il Genius Senatus, il GeniusPopuli Romani e varie altre personificazioni allegoricherispettano la consueta tipologia dell’arte romana. Cosí,

ad esempio, la divinità femminile da cui Nerone vieneincoronato corrisponde non solo, nel suo classico sche-ma iconografico, alle nuove divinità «politiche» diRoma, ma porta anche, come queste ultime, la pettina-tura e i tratti di un’imperatrice, e precisamente di Agrip-pina Minor, moglie di Claudio e madre di Nerone.

Nel loro omaggio all’imperatore, Oriente e Occi-dente utilizzano insomma fin dall’inizio le stesse for-

mule, e le figure simboliche e allegoriche del mito impe-riale vengono esportate senza difficoltà, fondendosialmeno in parte con le antiche figure del mito greco.

Anche nei ritratti dell’imperatore e degli altri mem-bri della casa imperiale ci si attiene perlopiù – e a voltecon molta precisione – ai modelli romani. Esistono, èvero, alcune efficaci trasposizioni di quei modelli nel lin-guaggio formale «patetico» dell’arte ellenistica e alcuniesempi in cui il modello è offerto direttamente dal ri-tratto di un sovrano ellenistico, ma sono casi rari. Per-ché questa imitazione pedissequa dell’iconografia roma-na? Non c’erano più artisti di cui il nuovo sovranopotesse ispirare la fantasia creativa? Oppure, sempli-cemente, si cercava di riprodurre i suoi tratti «autenti-ci», cosí come tutti li conoscevano dalle numerose sta-tue e dall’effigie delle monete?

Una conseguenza del fenomeno fu, in ogni caso,

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quella di imporre un’immagine standard dell’imperato-re e della sua famiglia. Quei ritratti si offrivano come

un modello a cui rifarsi anche nel modo di vestire e neltaglio dei capelli, tanto che, a partire dall’età di Augu-sto, anche in Oriente le acconciature di moda sono quel-le degli imperatori, delle principesse e dei principi dicasa imperiale: un altro passo avanti verso la formazio-ne di una cultura unitaria.

Le città fanno a gara nel culto dell’imperatore.

Il culto dell’imperatore e gli onori resi alla sua per-sona si diffusero con rapidità ma in modo affatto spon-taneo. Augusto e i suoi immediati collaboratori preserodirettamente l’iniziativa solo in pochi casi, come quellodegli altari provinciali per Roma e Augusto, fatti costrui-re nelle Gallie (a Lione) e in Germania (a Colonia), alloscopo di stabilire un legame duraturo tra i ceti dirigen-

ti di quei popoli da poco sottomessi e la casa imperiale.In genere, però, Augusto amava la riservatezza, e soprat-tutto ai cittadini romani non si stancava di ripetere chel’imperatore era un comune mortale e che gli onori divi-ni andavano riservati agli dèi: cosi richiedeva il nuovostile del principato.

Ma quando, nell’inverno fra il 30 e il 29 a. C., leassemblee provinciali della Bitinia e dell’Asia ottenne-ro dallo stesso Augusto l’autorizzazione a tributargli unculto divino – e sia pure a condizione di estenderloanche alla dea Roma e di non qualificare esplicitamen-te l’imperatore come «dio» –, da quel momento non vifurono più freni. Anche in questo caso i ruoli eranocomunque ben ripartiti: i sudditi esprimevano con gliatti di culto la loro fedeltà al regime, mentre l’impera-tore fungeva da moderatore, cercando di limitare glionori eccessivi o addirittura rinunciandovi.

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Il culto e gli onori creavano un rapporto diretto trala popolazione e il sovrano, e se quest’ultimo concede-

va i privilegi e gli appoggi che gli erano stati richiesti, ogli capitava di dover annunciare una vittoria, un even-to fausto o infausto della sua famiglia, un giubileo osimili, le manifestazioni erano ancora più grandiose.Viene spontaneo pensare qui agli scambi di doni propridelle religioni arcaiche.

A differenza delle province, le città erano autonomeda Roma nell’amministrazione dei loro affari interni epotevano decidere in piena libertà a chi rendere omag-

gio e in che forma, senza dover chiedere alcuna auto-rizzazione superiore. Come qualsiasi cittadino privato,le città potevano tributare all’imperatore onori religio-si e Augusto non aveva alcun motivo per opporsi. Que-sto vale non solo per l’Oriente, ma anche per l’Occi-dente e con la sola eccezione di Roma: l’unico luogo incui si volle evitare che gli fossero innalzati dei templimentre Augusto era in vita. Qui infatti era il Senato a

decidere, e il membro più autorevole del Senato era lostesso imperatore. Ma fa poi molta differenza – prescin-dendo dalle forme – se nei tempietti rionali era il geniusdi Augusto a essere venerato insieme ai Lari, e nonAugusto in persona?

Ad ogni modo il culto imperiale si diffuse in Occi-dente quasi con la stessa rapidità che in Oriente. Già allafine dell’età augustea non c’era forse una sola città inItalia e nelle province occidentali in cui non venisseropraticati vari culti, più o meno direttamente connessicon la casa imperiale. E poiché queste forme di cultonon avevano in Occidente alcuna tradizione alle spalle(le religioni romano-italiche, a differenza di quella greca,stabilivano una netta distinzione di principio tra umanie divini), bisognerà chiamare in causa forti fattori poli-tici e sociali, ma anche, non in ultimo, il grado di elle-nizzazione ormai avanzato dell’Occidente latino. Il culto

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imperiale diventò comunque anche nelle città romaned’Occidente un pilastro del nuovo sistema.

L’esempio dell’Oriente dovette agire in un primotempo con molta forza e in modo a volte anche moltodiretto. Quando, nel 27 a. C., la città di Mitilene sul-l’isola di Lesbo decretò ad Augusto una quantità dionori – templi, sacerdoti, giochi, statue nei templi deglidèi olimpi, sacrifici mensili nel giorno del suo com-pleanno nei quali veniva sacrificato un toro bianco, ecosí via –, i magistrati della città inviarono un’amba-sceria a Roma per comunicare con orgoglio la notizia, e

vollero commemorare l’evento con delle iscrizioni nellaCasa di Augusto e sul Campidoglio, ma anche in nume-rose città sulle coste del Mediterraneo.

Sull’iscrizione che ricorda il decreto, parzialmenteconservata (IG IV 39), sono nominate le città di Perga-mo, Azio, Brindisi, Tarragona, Marsiglia e Antiochia diSiria: centri amministrativi e commerciali, porti di gran-de importanza, in cui quelle iscrizioni potevano cadere

sotto gli occhi di molti. Sappiamo per caso che proprioin una di queste città, Tarragona (Tarraco), venne eret-to negli stessi anni un altare in onore di Augusto e conun rituale studiato per l’occasione. Naturalmente nessu-no puo dire con sicurezza che sia stata proprio l’iscri-zione di Mitilene a dare l’esempio, spingendo gli abitantidi Tarragona ad assumere a loro volta l’iniziativa: eranoormai centinaia le città del Mediterraneo che dedicava-no altari e templi ad Augusto. Ma è evidente che laconcorrenza tra le varie città fu un fattore non secon-dario nella rapida diffusione del culto imperiale.

Dell’altare di Tarragona sappiamo però qualcosa dipiù. Sappiamo cioè che, a differenza di tanti altri alta-ri, fu il teatro di un miracolo: dopo qualche tempo vicrebbe spontaneamente una palma! Il consiglio munici-pale di Tarragona, entusiasta, si affrettò ad inviare deimessi che comunicassero all’imperatore la notizia del

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miracolo. Ma la sua risposta agli Spagnoli fu asciutta:«Si vede bene che accendete spesso il fuoco del sacrifi-

cio» (Quint., 6,3,77). La risposta non dà prova soltan-to di un notevole sense of humor, ma anche della natu-ralezza con cui Augusto si aspettava questi sacrifici. Ilmiracolo della palma ebbe comunque vastissima riso-nanza e la città di Tarragona fece coniare sulle sue mone-te l’effigie dell’altare miracoloso per poterne menarvanto di fronte alle altre città.

Le iscrizioni dimostrano che era usanza comuneinviare queste ambascerie a Roma e nelle città amiche.

Per i personaggi più in vista delle varie città era un’oc-casione unica per farsi conoscere da Augusto, e d’altraparte lo scopo di queste missioni non era solo di chie-dere privilegi, concessioni edilizie o aiuti speciali, maanche di mettere in buona luce l’immagine della propriacittà, illustrandone l’importanza, i meriti e la fedeltàall’impero. Le iscrizioni che commemoravano i decretionorari potevano essere lette, a Roma, dagli ambascia-

tori di tutto l’impero quando venivano per rendereomaggio all’imperatore o per celebrare sacrifici nel tem-pio di Giove sul Campidoglio. E le stesse iscrizioni veni-vano esposte anche nelle città alleate.

Questa gara tra le città nel promuovere il culto impe-riale può dare un’idea di come la nuova monarchia fosseormai universalmente accettata. Il culto dell’imperato-re conferisce del resto un significato nuovo al legame trale città e la capitale: se in un primo tempo le iniziativelocali tradiscono ancora una qualche ricerca di origina-lità, esse finirono presto per allinearsi su modelli stan-dardizzati. Ne è un esempio istruttivo il premio istitui-to, nell’anno 29 a. C., dal parlamento della provincia«Asia», mettendo in palio una corona per chi avesseescogitato la miglior forma di omaggio al nuovo dio. llpremio fu assegnato solo vent’anni più tardi, e toccò alproconsole romano Paolo Fabio Massimo (console nel-

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l’anno 11 a. C.) per la sua proposta di introdurre anchein quella provincia il calendario solare e di fare iniziare

l’anno, da allora in poi, con il giorno natale di Augusto.In precedenza le città dell’Oriente e dell’Occidenteavevano gareggiato invece fra di loro, come dimostranoad esempio i grandi santuari a terrazze a cui le città del-l’Italia centrale affidavano buona parte del loro orgogliocivico: l’idea era di «fare colpo» sui visitatori, cosí daaccrescere la fama del santuario e l’afflusso di pellegri-ni. Ma queste forme di emulazione avevano ormai fattoil loro tempo, le città guardavano direttamente all’im-

peratore mentre le aspirazioni e le rivalità locali pas-savano senz’altro in secondo piano.

Non molto tempo dopo, le direttive arriverannodirettamente da Roma. Era infatti il Senato romano adecidere le occasioni di festa o di lutto legate alle vicen-de politiche o alla vita della famiglia imperiale, e le cittàfinirono per allinearsi, più o meno spontaneamente esecondo le proprie capacità finanziarie.

Nei pressi di Siviglia sono state ritrovate di recenteampie parti di una iscrizione contenente un decreto «delSenato e del popolo romano» (tabula Siarensis), in partegià noto da un’altra iscrizione. Si tratta, nel complesso,di una delle più lunghe iscrizioni latine conservate, in cuiviene fornito un elenco delle iniziative decise dal Sena-to e dal popolo dopo la morte di Germanico nell’anno19 d. C.: archi celebrativi di cui viene descritta minu-ziosamente la decorazione statuaria, statue di Ger-manico in veste di trionfatore da collocare in vari puntidi Roma a integrazione di gallerie già esistenti, sacrifi-ci annuali e cosi via. Il passo più rilevante, rispetto alnostro discorso, è però quello in cui si dispone che copiedel decreto vengano esposte in tutti i municipia e in tuttele coloniae italiche e cosi pure in tutte le coloniae del-l’impero. L’iscrizione ritrovata a Siviglia, nella lontanaBaetica, è li a confermare che l’ordine fu effettivamen-

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te eseguito. Il Senato procede insomma, in questa cir-costanza, come aveva fatto un tempo la città di Mitile-

ne, ma in forma assai più sistematica, e si può immagi-nare che i «suggerimenti» celebrativi di Roma sianostati accolti nelle città dell’impero come un invito e undovere. Ovunque furono eretti archi e statue in onoredi Germanico, così come vent’anni prima erano statidedicati altari e culti ai principi Gaio e Lucio, prema-turamente scomparsi. E anche allora era stato il Senatoromano a dare l’esempio.

Il culto imperiale in Occidente.

Nelle città romane d’Occidente l’adesione al nuovoregime e il desiderio di prender parte alla costruzione del saeculum aureum erano, se mai, ancora più forti, vistoche si trattava del loro Stato. La fine sospirata delleguerre civili fu un motivo di sollievo per tutti, ricchi e

poveri, schiavi, liberti, notabili delle città. Con la solaeccezione dell’aristocrazia romana non c’era più nessu-no che rimpiangesse la vecchia repubblica, ed è possibi-le che qualcuno abbia visto in quella svolta storica unaspecie di miracolo. Quando ad esempio i cittadini diPalestrina passavano accanto agli altari della Securitas edella Pax, offerti insieme dai decuriones (il senato citta-dino) e dal populus, o guardavano la fontana coi simbo-li della Pace, non si trattava affatto, per loro, di anoni-me opere d’arte. E anche la generazione successiva nonavrà avuto difficoltà a capire per quale motivo, dopo lamorte di Augusto, fu dedicato all’imperatore divinizza-to ancora un terzo altare in cui il suo ritratto apparivain mezzo a due cornucopie.

Il movimento di riforma religiosa si era diffuso rapi-damente alle città romane, dove incontriamo moltepli-ci iniziative volte a rinnovare gli antichi templi e le

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forme del culto. Al di fuori di Roma, tuttavia, la pietassi rivolse, più che alle antiche divinità, allo stesso Augu-

sto. Gli honores resi all’imperatore erano qui più discre-ti e meno diretti che in Oriente, ma non meno nume-rosi e sontuosi. Finché Augusto fu in vita non venne maiqualificato apertamente come «dio», ma tutti sapevanoche dopo la sua morte sarebbe stato oggetto di un pub-blico culto come il Divus Iulius. E se è vero che in molticasi i sacrifici e le feste non erano dedicati ufficialmen-te ad Augusto, ma a figure allegoriche connesse alleimprese e ai meriti divini della famiglia imperiale, il

destinatario effettivo di quegli atti rituali era lui, il prin-ceps, come già all’epoca delle onorificenze rese ai duegiovani principi defunti. Ne sono una prova le dimen-sioni che questi culti imperiali indiretti potevano assu-mere. Cosí ad esempio la sontuosa Maison Carrée diNîmes, che fra i templi romani è quello meglio conser-vato, e che era probabilmente l’edificio sacro più impor-tante della città, fu dedicato alla memoria dei principi

Gaio e Lucio Cesare, ma dopo essere già stato adibito,forse, al culto dell’imperatore.Uno sguardo al Foro di Pompei ci darà un’idea di

quali dimensioni potesse assumere il nuovo culto anchein una piccola città di circa ventimila abitanti. In mezzoal lato orientale del Foro c’erano due santuari dedicatiesclusivamente al culto imperiale, nel nuovo mercatosorgeva una grossa «edicola» adibita allo stesso scopo,l’edificio di Eumachia era consacrato alla Concordia ealla Pietas Augusta, e sul prolungamento settentrionaledel Foro, in uno dei crocicchi più animati della città, sor-geva il tempio della Fortuna Augusta.

Pompei era stata una delle prime città italiche asubire il processo di ellenizzazione, e già nel ii secolo a.C. presentava un’immagine urbana di un certo prestigiocon architetture di ampio respiro. Ma il caso di Pompeiera piuttosto un’eccezione e in molte località i nuovi

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templi dedicati al culto imperiale furono le prime costru-zioni in marmo in assoluto. E mentre a Pompei una

parte dei nuovi edifici costruiti sul Foro non potevaimporsi alla vista a causa dei porticati antistanti, in altrecittà, dove queste costruzioni non esistevano, i nuovitempli furono edificati in punti di grande effetto sce-nografico. A Ostia, per esempio, il tempio marmoreo diRoma ed Augusto rivaleggiava col vecchio Campidoglioe lo superava, anzi, di gran lunga per il suo apparatoornamentale. Sull’antico Foro di Leptis Magna il tem-pio dedicato al culto dell’imperatore spiccava per le sue

dimensioni fra numerosi altri edifici sacri. Lo stessovale per Terracina, e anche a Pola il tempio di Augustodominava il Foro insieme a un secondo tempio.

A differenza di quelli più antichi, i nuovi templierano in genere di marmo, o almeno rivestiti di marmo.Come anche a Roma esso aveva qui un preciso valore

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Ostia, il Foro agli inizi del-l’età imperiale. Il nuovo tem-pio per il culto dell’imperato-re, rivestito di marmo, domi-na la piazza, eclissando inparte il vecchio Capitolium.

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simbolico, ma creava grossi problemi alle maestranze,locali o itineranti che fossero, poco abituate a lavorare

con questo materiale. Dalla lavorazione dei singoli ele-menti architettonici e anche dalla planimetria di alcunitempli si può vedere come i cantieri edili raccogliesserooperai di diversa provenienza e di vario livello qualita-tivo e come anche gli architetti non avessero molta espe-rienza nel settore.

I grandi santuari fatti costruire a Roma da Augustonon potevano essere imitati. Gli architetti dovevanoprogettare edifici adatti alle caratteristiche locali, e

anche le nuove forme decorative si imposero solo coltempo. E stato rilevato come, in un primo tempo, venis-sero accolti singoli particolari tecnici o forme parziali ecome solo successivamente si sia arrivati ad assimilareinteri elementi architettonici come il capitello corinziostandard. E tuttavia i templi della prima età imperialesono immediatamente riconoscibili, si trovino essi inCampania o nell’Italia del Nord, in Provenza, in Spagna

o nell’Africa settentrionale. Malgrado tutte le differen-ze di dettaglio l’aspetto d’insieme è sempre lo stesso eporta l’impronta inconfondibile degli aurea templa volu-ti dal princeps nella capitale. Si tratta sempre del nototempio a podio con la sua scalinata scenografica, le suealte colonne corinzie, la trabeazione riccamente decora-ta e la sontuosa cornice, ed è sempre la facciata a rive-stire un’importanza speciale. Anche in mancanza dimodelli anteriori a cui rifarsi lo spirito della nuova archi-tettura sacra viene assimilato ovunque, con tutte le dif-ficoltà tecniche e il dispendio di materiali che esso com-portava. Che la sontuosità avesse un preciso valore sim-bolico risulta ad esempio dai preziosi capitelli corinzi:nessuno voleva rinunciare a quei complicati disegni difoglie, eliche e volute, come anche ai tralci infiniti delfregio, per quanto costosa potesse esserne la realizza-zione. Il fatto allora che L. Calpurnio, dopo aver fatto

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costruire un tempio a Pozzuoli voglia precisare, nell’i-scrizione dedicatoria, di averlo offerto cum ornamentis,

ha dunque un significato non casuale, visto che la deco-razione era la parte più costosa del tempio. Gli orna-menta comprendevano infatti anche i fregi e i rilievi delfrontone e, insomma, tutto l’arredo del tempio, inclusolo stesso altare.

Lo spazio per le immagini non mancava. Ma comegià nel caso della decorazione architettonica vera e pro-pria, non troviamo, fuori Roma, un repertorio icono-grafico autonomo: lo sguardo era rivolto alla capitale e

non c e quasi motivo che non sia ripreso dal nuovo lin-guaggio coniato nei templi romani. Se mai, la necessitàdi scegliere e di semplificare i modelli di partenza ebbel’effetto di rendere ancora più immediato, nelle città diprovincia, quel linguaggio. I motivi di maggiore succes-so furono comunque i fregi a girali di acanto, gli ogget-ti liturgici, le foglie di alloro e di quercia, le armi. Lotestimoniano i frammenti conservati nei musei e nei

lapidari di quasi tutte le città romane d’Occidente; e sitratta sempre, con poche eccezioni, di oggetti dellaprima età imperiale.

Il significato proprio di questi segni era, almeno agliinizi della nuova epoca, ovunque comprensibile. Ancheun osservatore analfabeta non aveva difficoltà ad affer-rare i messaggi onnipresenti che gli parlavano attraver-so la combinazione dei vari segui. Prendiamo ad esem-pio la statua femminile a busto scoperto ritrovata sulForo di Cuma; essa tiene un neonato in braccio ed èseduta su una roccia completamente ricoperta di tralci.Come sull’ Ara Pacis, anche qui le volute partono da unlargo cespo di acanto, e deve trattarsi in effetti dellastessa figura che compare sull’ Ara Pacis nel rilievo dellaPax. In entrambi i casi abbiamo a che fare con un’im-magine di fecondità, intesa come allusione alla nuova etàfelice, ma qui l’ipotesi è rafforzata da un’iscrizione dedi-

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catoria: Cn. Lucceius, membro di una delle prime fa-miglie di Cuma, ha offerto la statua ad Apollo, dio della

nuova età ( Apollini sacrum). Poiché di questo tipo sta-tuario esistono molte repliche, si può supporre che l’o-riginale – forse un capolavoro di epoca classica – si tro-vasse a Roma.

Esempi di imitazioni simili a questa si trovano inmolte città dell’Italia e delle province occidentali, macome nel caso dei ritratti della famiglia imperiale, anchequi non sappiamo quali canali segui effettivamente laloro diffusione. È probabile però che i committenti e le

botteghe abbiano avuto entrambi la loro parte: i nota-bili delle città conoscevano in parte personalmente imonumenti romani e potevano avere l’occasione di ordi-nare decorazioni architettoniche e ritratti direttamentenelle botteghe della capitale, ma la diffusa richiesta diquei motivi stereotipi avrà indotto le botteghe locali aimitare quel repertorio e a farlo proprio.

Naturalmente non mancavano le variazioni sul tema.

Su una copia del rilievo della Pax proveniente da Car-tagine, la parte centrale della composizione è ripresafedelmente, mentre le due Aurae sono sostituite da figu-re più concrete, probabilmente perché si trattava dimotivi troppo «colti». Nel mare vediamo ora tuffarsi untritone, mentre sulla terra ricca di frutti vediamo unadivinità femminile con due fiaccole: forse Diana lucife-ra, che abbiamo già visto associata ai temi della fecon-dità e della nascita.

Sempre a Cartagine, il liberto P. Perellio Edulo isti-tuí un culto per la gens Augusta presieduto da lui stessoin qualità di sacerdos perpetuus. Il grande altare marmo-reo presenta su tre lati (il quarto mostra lo stesso Edulonelle vesti di sacrificante) un compendio dei principalimotivi dell’iconografia ufficiale romana: Enea in fuga,Apollo col tripode e la dea Roma su un cumulo di armicome sull’ Ara Pacis. Particolare attenzione merita il rilie-

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vo di Roma, in cui si può osservare come gli artisti delleprovince abbiano la tendenza a semplificare e ad arric-

chire nello stesso tempo i modelli romani: la dea portasulla mano una Vittoria che non solo tiene lo scudo, maappare librarsi in volo su una specie di piedistallo. E loscudo vuol essere ovviamente un’allusione al clipeus vir-tutis della Curia. La Vittoria vola poi verso uno strano«monumento», formato da un globo, da una cornucopiae da un caduceo, e anche la dea Roma volge lo sguardonella stessa direzione. La composizione va intesa comeuna versione semplificata di quella che è, sull’ Ara Pacis,

la coppia Roma-Pax, dove il secondo termine è rappre-sentato dagli oggetti-simbolo della pace e del benessereuniversale. Alla figura poetica della dea subentra insom-ma un allusione, molto asciutta e poco artistica, ai com-merci e al benessere, in tesi come i frutti tangibili del-l’azione politica di Augusto. Ma è facile vedervi ancheun riflesso delle esperienze e dei gusti personali del«donatore», che fu probabilmente un uomo d’affari.

Le élites urbane e il programma augusteo.

Le forme di culto e gli onori decretati dalle città nondevono far dimenticare che la maggior parte di questeiniziative, di natura sia cultuale che profana, erano pro-mosse da singoli cittadini. Vennero cosí a crearsi, in varistrati sociali, situazioni di antagonismo che contribuiro-no in modo decisivo a una rapida diffusione del cultoimperiale e a un’assimilazione spontanea del programmaculturale augusteo in Occidente. Molti, insomma, sisentivano obbligati a costruire e a donare monumentiper puro spirito di emulazione.

Un ruolo-guida lo ebbero le famiglie più in vista dellevarie città, ma l’antagonismo non si svolgeva solo all’in-terno di uno stesso ceto sociale. Come a Roma, anche

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nelle altre città i ricchi liberti sfruttarono il culto impe-riale per accrescere il proprio prestigio: benché esclusi

dalle magistrature cittadine gli homines novi aspiravanopiù di oggi altro ceto a un riconoscimento sociale e col-sero l’occasione al volo. E anzi probabile che questi per-sonaggi, spesso di origine orientale, siano stati in qualchecaso i primi a istituire culti in onore di Augusto, obbli-gando in questo modo l’alta società locale a comportarsidi conseguenza e a prendere le dovute iniziative.

Un esempio istruttivo ci viene dagli scavi di Tivoli,dove il liberto M. Vareno, che ricopriva la carica dimagister Herculeus, fece costruire sul Foro «a propriespese» un piccolo sacrario o esedra con una statua diculto, e precisamente in occasione del ritorno dell’im-peratore, come leggiamo sull’iscrizione dedicatoria: «prosalute et reditu Caesaris Augusti». Si trattava del ritor-no di Augusto dai viaggi del 19 o del 13 a. C. In quel-l’occasione infatti il Senato e il popolo avevano eretto ifamosi altari della Fortuna Redux e della Pax Augusta, il

cui esempio – come quello degli honores decretati piùtardi ai principi Gaio e Lucio ebbe largo seguito. Nel-l’abside del piccolo edificio si è conservata un ampiabase su cui fu ritrovata una statua di buona fattura nelnoto schema iconografico di Giove seduto. Purtroppo latesta è mancante, ma il luogo del ritrovamento e lo stileautorizzano l’ipotesi che si trattasse della statua diAugusto offerta da Vareno.

Il liberto celebra dunque il suo sovrano nelle vestiormai consuete del padrone del mondo e dedicandoglianche un culto privato, cosí come aveva fatto più omeno negli stessi anni Erode a Cesarea, ovviamente ingrande stile. La statua è in aperto contrasto coll’imma-gine del pio sacrificante con cui Augusto amava alloraidentificarsi, ma Vareno agisce di sua iniziativa e nonsembra, del resto, che il princeps e i suoi successori aves-sero molto da obiettare contro questa iconografia cosí

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«ambiziosa»: a condizione che fosse tenuta lontana daRoma e dalla presenza diretta dell’imperatore. Sembra-

no provarlo le numerose statue di imperatori raffigura-ti nelle vesti di Giove e coi tratti riconoscibili di Tibe-rio e di Claudio. Sul Foro di Leptis Magna, ad esempio,la statua del Divo Augusto si distingueva da quella diClaudio (allora regnante) solo per il braccio sinistro sol-levato a reggere lo scettro del dio. Nelle gallerie statua-rie della casa imperiale, diffuse in molte città dell’Oc-cidente e note, in parte, attraverso reperti frammenta-ri, la «posa di Giove» serviva a distinguere il rango

gerarchico del princeps dagli altri membri della famiglia,come si è visto già nel caso della Gemma Augustea.

Non è certo un caso che un uomo come Vareno siaffretti a proclamare con tanta disinvoltura la sua vene-razione per Augusto: per un liberto le tradizioni dellarepubblica significavano poco o nulla, mentre il poteredel sovrano era tutto, e chi, fra i decuriones del consi-glio municipale, poteva avere il coraggio di opporsi se un

loro concittadino chiedeva un terreno sul Foro da desti-nare a uno scopo cosí nobile?Che il nostro ricco liberto, a cui le cariche e gli onori

pubblici erano preclusi, fosse molto preoccupato dirichiamare l’attenzione su di sé, lo dimostrano le men- sae ponderariae che aveva fatto collocare proprio di fian-co alla cappella di Augusto: su queste tavole di marmo,certamente molto usate, spiccava per ben due volte ilsuo nome. Ai lati delle mensae Vareno aveva però fattoerigere le statue della sua  patrona e del suo patronus, esulle iscrizioni onorarie dedicate agli ex-padroni il suonome viene ancora ripetuto, né manca un preciso accen-no al fatto che l’area per la costruzione del sacrario gliera stata assegnata per decreto dei decuriones. Nonpotendo ovviamente dedicare una statua a se stesso, ilnostro liberto fa tutto il possibile perché il suo doppiomonumento serva indirettamente a celebrare anche lui.

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Forse furono proprio queste donazioni spontanee disingoli liberti a suggerire ad Augusto l’idea di promuo-

vere i culti rionali dei Lari. E proprio sul modello deicompitalia si diffusero rapidamente nelle città romane icollegi degli Augustales, che offrivano ai ricchi liberti (ilcollegio era formato in genere da sei persone) l’oppor-tunità di svolgere una funzione pubblica. Nel quadro delculto imperiale essi potevano organizzare giochi e ban-chetti, e ottenevano in cambio alcuni privilegi tem-poranei, simili a quelli che spettavano ai magistrati verie propri, come la toga praetexta, un seggio onorario e un

certo numero di assistenti. Le iscrizioni che leggiamo suiloro monumenti funebri citano con orgoglio i giochi daloro finanziati, e i momenti in cui potevano sedere in untribunal con la propria divisa. L’appartenenza ai collegidegli  Augustales era il massimo traguardo concesso ailiberti e permetteva loro di figurare come una specie di«secondo stato» dopo i decuriones nella gerarchia socia-le cittadina.

I tempietti e i locali di riunione di questa singolareistituzione socio-politica si trovavano perlopiù sul Foroe diventarono, come a Roma le cappelle dei Lari, unvero centro propulsivo del mito imperiale, teatro diun’intensa attività cultuale e celebrativa. Che gli Augu- stales avessero in grande stima il proprio ufficio risultadalle enormi corone di quercia che essi facevano raffi-gurare non solo sugli altari dedicati all’imperatore e allesue divinità, ma anche sulle porte delle proprie case e deipropri altari funerari.

Per quanto importanti fossero le attività dei liberti,i loro luoghi di culto erano comunque eclissati da quel-li dei domi nobiles, la vera classe dirigente delle città. Siè tentato di valutare statisticamente l’impegno econo-mico profuso, nelle loro donazioni private, da questi duegruppi sociali, e ne è risultato che le grandi famiglie –quelle che detenevano le cariche politiche – spendeva-

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no in media almeno il doppio, per pubblici edifici edonazioni, rispetto ai ceti medi, rappresentati in gran

parte dai ricchi liberti. Un risultato confermato anchedai dati archeologici, peraltro molto occasionali. Ledimensioni e l’ubicazione di un nuovo monumentoerano decise in genere dai decuriones, i quali badavanoche le dimensioni dell’edificio fossero in armonia colrango sociale del donatore.

A Pompei il ruolo-guida delle grandi famiglie e il lororeciproco antagonismo hanno lasciato tracce piuttostoleggibili. I quattro personaggi più importanti, due donne

e due uomini, provenivano dall’alta società cittadina eavevano rivestito cariche sacerdotali. Più precisamente,gli uomini erano sacerdoti del culto imperiale e, nellostesso tempo, le due figure politiche più eminenti dellacittà. Il primo in ordine di tempo fu probabilmenteMarco Tullio M. F., col suo tempio della Fortuna Augu-sta, situato all’esterno del Foro: fu tre volte duumvir ericoprí in seguito anche la carica di quinquennalis, che

era la magistratura più elevata e veniva assegnata appun-to ogni cinque anni. Fu anche augur e venne investitodel titolo onorario di tribunus militum a populo, asse-gnato su proposta dei suoi concittadini. Il tempio dedi-cato dalla sacerdos publica Mamia al Genio Augusti soloet pecunia ci è noto soltanto dall’iscrizione dedicatoria,proveniente, si presume, da uno dei due santuari impe-riali sul lato est del Foro. Quello che era di gran lungail più grande tra i nuovi edifici, e che superava di moltoil Tempio della Fortuna Augusta di M. Tullio e il Tem-pio di Augusto della sacerdotessa Mamia, fu invece fattocostruire dalla ricca vedova Eumachia L. F., che lodedicò alla Concordia e alla Pietas Augusta.

L’edificio era destinato, insieme, al culto del sovra-no e alla publica magnificentia e si presentava come unaspecie di «centro ricreativo», con atrio adorno di statue,santuario, portici e criptoportici (gallerie). E non è esclu-

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so che l’ambizioso edificio di marmo servisse anche dacentro commerciale. L’intenzione di Eumachia era di

emulare Livia, che insieme a Tiberio aveva fatto costrui-re la Porticus Liviae sull’Esquilino. Anche l’impiantodecorativo dell’edificio si ispirava a monumenti urbani:cosí la cornice marmorea del portale, decorata con splen-dide girali d’acanto, potrebbe addirittura provenire dallabottega dell’ Ara Pacis. Nell’abside a forma di cappella,al centro dell’edificio, sorgeva la statua della Concordiao della Pietas Augusta, di cui possediamo soltanto la cor-nucopia dorata: forse, come molte altre statue allegori-

che di questo tipo, portava anch’essa i tratti di Livia.Quando la quarta famiglia donatrice, quella dei fra-

telli Marco Olconio Rufo e Marco Olconio Celere, posemano ai suoi progetti edilizi poco prima dell’inizio delnuovo secolo, di spazio libero sul Foro ne era rimastoben poco. Seguendo perciò l’esempio del princeps, i duefratelli optarono per l’altro versante della publica magni- ficentia e decisero di restaurare, ampliare e abbellire il

teatro, con una spesa probabilmente ancora superiore aquella sostenuta da Eumachia. Circa una generazionepiù tardi Marco Olconio Rufo avrebbe ricoperto le stes-se cariche di Marco Tullio, e anche a lui l’imperatoreavrebbe assegnato il titolo di tribunus militum a populo,ma si direbbe che i suoi meriti furono ancora maggioriperché i Pompeiani lo nominarono  patronus coloniae,assegnandogli cosí la più alta onorificenza prevista perun concittadino.

I personaggi impegnati in queste competizioni diprestigio non erano solo i protagonisti della vita politi-ca locale ma avevano anche un ruolo di primo pianocome sacerdoti nelle feste imperiali, celebravano i ritireligiosi e inauguravano i giochi. Se Augusto e la suafamiglia avevano il primato a Roma, loro erano i princi- pes nelle proprie città: toccava a loro rappresentare con-cretamente i nuovi valori e fare in modo che il pro-

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gramma di rinnovamento culturale venisse realizzatonelle città romane d’Occidente non meno che nella stes-

sa Roma.Possiamo allora comprendere gli onori di cui eranotributari, come le statue esposte sulle pubbliche piazzee, naturalmente, negli edifici che essi avevano fattocostruire. Nel tempio della Fortuna Augusta e nell’edi-cola del Mercato di Pompei le statue dei donatori si tro-vavano nella cella, quasi fossero a loro volta oggetto diculto accanto all’imperatore e alla sua divinità tutelare(e allo stesso modo in cui Augusto era stato affiancato

agli dèi olimpi). Un altro particolare dell’edificio diEumachia può darci un’idea dell’importanza che veni-va attribuita a queste consacrazioni rituali: alla fine deilavori, i dipendenti dei lanifici di cui Eumachia era pro-prietaria ( fullones) offrirono «spontaneamente» alla loropadrona una statua onoraria, peraltro già prevista dalprogetto iniziale, da collocare nella nicchia dietro ilsimulacro della dea Concordia.

Anche gli schemi iconografici preferiti dai notabilidelle città confermano questo ruolo prestigioso, perchési tratta degli stessi schemi adottati per l’imperatore ela sua famiglia. Là dove prima ci saremmo aspettati unastatua nuda e in posa «patetica» troviamo ora delleaustere statue togate a capo coperto, e naturalmenteanche le sacerdotesse si facevano ritrarre come le damedevote e pudiche della casa imperiale: a capo coperto,nell’atto di offrire sacrifici e con la stola di rito.

 Marmo e autocoscienza.

Se le città romane d’Occidente cambiarono volto neiprimi anni dell’età augustea il merito va in gran partealle famiglie dei notabili locali, forti di una nuova con-sapevolezza del proprio ruolo. Non poche di queste

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famiglie avrebbero potuto vantarsi, come Augusto, diaver lasciato una città di marmo, almeno per quanto

riguarda i templi e gli edifici pubblici, le piazze e le portecittadine. In certi casi si poteva contare, è vero, su uncontributo dell’imperatore o della sua famiglia, odi qual-che grande personaggio della capitale (erano soprattut-to le coloniae fondate da Augusto a usufruire talvolta diparticolari sovvenzioni), ma sull’esempio della Romaaugustea i domi nobiles provvedevano in genere di tascapropria al rinnovamento edilizio delle loro città. A ecce-zione delle città della Campania e dell’Italia centrale, già

ellenizzate fin dal ii o dal i secolo a. C., la maggior partedelle città italiche e delle province occidentali ottenne-ro solo ora, nel quadro del rinnovamento augusteo, unassetto urbanistico in grado di competere, in qualchemisura, con quello delle città greche.

Parlando degli edifici dedicati al culto imperiale si ègià visto come il rinnovamento edilizio fosse legatoovunque alla nuova situazione politica e alla diffusa sen-

sazione di una svolta epocale. Ma anche gli interventipiù marginali o i lavori di ingegneria civile di utilità pra-tica immediata (acquedotti, strade, ponti) hanno un rap-porto preciso con le premesse ideologiche del program-ma augusteo.

Un capitolo rilevante del rinnovamento urbanisticofurono, e non solo a Roma, i teatri, la cui importanzaandava molto oltre le esigenze pratiche degli abitanti.Come a Pompei, in quasi tutte le città dell’Occidentefurono costruiti nuovi teatri o si provvide a ingrandiree abbellire quelli già esistenti, e se si trattava di città dinuova fondazione il teatro vi occupava una posizione diprimo piano, assai più che nelle colonie di epoca repub-blicana: sorgeva perlopiù in un punto centrale o di faci-le accesso e con la sua facciata poderosa svettava sugliedifici circostanti, imponendosi con i suoi marmi e la suaricca decorazione. La società cittadina vi prendeva

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posto, come a Roma, secondo un rigoroso criterio gerar-chico, che faceva della cavea uno specchio dell’or-

dinamento sociale. I primi posti erano destinati ai fun-zionari locali, ai sacerdoti e ai decuriones, mentre alcu-ni posti erano riservati a eventuali senatori di passaggio(una precisa ordinanza disponeva che venissero lasciatisempre liberi). Un parapetto separava le file di postiintermedi, destinate alla plebs, da quelli dell’alta società:a Pompei il settore «popolare» comprendeva venti fileed è probabile che in molte città questa zona del teatrofosse ancora suddivisa in settori più specifici. Le donne,

i non Romani e gli schiavi, che occupavano l’ultimo gra-dino della scala sociale, sedevano in fondo. Qui, in cor-rispondenza dell’ultimo settore della cavea, i fratelliOlconii avevano costruito a Pompei un corridoio coper-to (crypta), contenente alcune file di posti aggiuntive emolto ravvicinate fra loro. Non si trattava di una misu-ra edilizia casuale o rispondente a una pura necessitàlogistica: se infatti la politica sociale di Augusto mirava

a una netta distinzione tra i vari ceti, era anche suo pre-cipuo interesse coinvolgere i gruppi più marginali, equesto non solo nel quadro del culto imperiale ma anchenei giochi e nelle celebrazioni festive.

Naturalmente il princeps non poteva essere presentedi persona come a Roma. Invalse pertanto l’uso, già inetà augustea, di collocare delle statue sue e dei suoifamigliari sulla parete adorna di colonne dietro il palco-scenico ( scaenae frons), là dove il pubblico era abituatoa vedere le Muse, gli dèi e i capolavori dell’arte greca.

Nell’iscrizione dedicatoria del teatro di Pompei ifratelli Olconii fanno riferimento anche un’altra inno-vazione, i tribunalia: sopra i corridoi laterali di accessoall’orchestra, dalla volta a botte, vennero ricavate dellefile di posti per i funzionari che presiedevano ai giochi,e furono proprio questi posti laterali a conferire un’im-pronta decisamente romana al teatro ellenistico di Pom-

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pei. L’importanza di questo settore architettonico risul-ta dal fatto che le iscrizioni dei donatori si trovavano

proprio nei tribunalia (si veda l’esempio di LeptisMagna). Su questi posti sopraelevati i magistrati si pre-sentavano alla cittadinanza come statue vive sui loroarchi monumentali. Anche il potere locale dunque simetteva in scena, e sia pure in doveroso secondo pianorispetto alle statue imperiali della scaenae frons.

Il teatro augusteo non era un luogo in cui si potessedimenticare la politica per abbandonarsi semplicemen-te al piacere dionisiaco dello spettacolo. Non siamo in

grado di affermare se anche fuori Roma gli spettatoridovessero portare la toga, ma anche qui, in ogni caso,statue e immagini proponevano il clima solenne dellanuova era. Ovunque si vedevano altari, tempietti, Vit-torie, fregi con armi e girali d’acanto e cosi via. A Roma,figure di barbari incatenati decoravano a volte perfinoil sipario. Anche al culto imperiale si faceva non di radoallusione in maniera più o meno discreta: cosí ad esem-

pio nel tempietto collocato sopra la cavea del teatro diLeptis Magna c’era una statua di Ceres Augusta coi trat-ti e l’acconciatura di Livia, e dal teatro di Arles pro-vengono non meno di tre altari, tra cui quello celebrecon i cigni di Apollo.

Nel caso dei teatri o di altri edifici pubblici come lebasiliche o le terme, i committenti e gli architetti pro-gettavano fin dall’inizio e di comune accordo anche l’ap-parato decorativo, mentre le pubbliche piazze, e soprat-tutto i fori, si arricchivano poco per volta di statue e altrimonumenti. Anche in mancanza di un piano unitario,tuttavia, l’aspetto complessivo dei fori di età augusteaha qualcosa di inconfondibile, che lo distingue netta-mente dalle piazze repubblicane.

Ancora una volta l’esempio più suggestivo è quellodi Pompei. Il foro di età repubblicana era caratterizza-to da monumenti di dimensioni molto omogenee, come

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si può ancora vedere dallo zoccolo delle statue equestrilungo il lato ovest; e anche davanti agli edifici dei magi-

strati sul lato sud i monumenti erano stati allineati, inun primo tempo, in questa forma «egualitaria», primadi essere sostituiti da un grande arco monumentale perl’imperatore e poi da due colossali basamenti destinatia ospitare forse dei carri trionfali. Davanti all’Arco diAugusto venne poi collocato un monumento equestre digrandezza superiore al naturale, e si capisce che rispet-to ai nuovi monumenti imperiali le statue equestri deinotabili repubblicani passavano decisamente in secondo

piano. Che agli inizi dell’epoca imperiale il problemadelle dimensioni monumentali fosse molto avvertitorisulta anche dall’accusa, rivolta al pretore Marcello, diaver fatto erigere in proprio onore statue più grandi diquelle dei Cesari (Tac., Ann. I 74). È poi da notare chele basi delle statue pedestres – situate a Pompei non piùsul Foro, ma negli atrii dei nuovi edifici – fanno comeda sfondo alle statue equestri. È probabile che sui pie-

distalli uniformi, eretti davanti al Macellum e nel Chal-cidicum dell’edificio di Eumachia, venissero collocateanche statue di vecchi personaggi pompeiani secondo ilmodello dei summi viri nel Foro di Augusto: ma se nel-l’impostazione iconografica e a volte perfino nell’e-spressione e nell’acconciatura queste  statuae pedestresimitavano quelle della casa imperiale, l’ubicazione e ledimensioni più contenute le fanno apparire decisamen-te in secondo piano rispetto ai monumenti imperiali.

Dobbiamo ancora prendere in considerazione i duearchi onorari ai lati del tempio di Giove, eretti forse inoccasione delle cerimonie funebri per i principi Gaio eLucio o per Germanico e Druso Minore. Combinazionianaloghe di templi e archi onorari esistevano già sulForo Romano e altri esempi si sarebbero visti più tardisul Foro di Augusto, ma anche in altre città, come Spo-leto, sono stati ritrovati archi della prima età imperiale

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disposti in modo simile. Va da sé che era una soluzionescenografica di grande effetto, con le statue, i trofei e

le quadrighe di cui l’arco si fregiava, mentre l’aura sacra-le del tempio veniva messa per cosí dire al servizio deimembri della casa imperiale a cui l’arco era dedicato.

Insieme alle terme, i teatri e le piazze erano i luoghipubblici nei quali il cittadino aveva occasione di tratte-nersi più a lungo, confrontandosi con grandiose sceno-grafie che gli proponevano un’immagine concreta deirapporti di forza presenti nello Stato e del suo postonella gerarchia sociale.

Ma le città non cambiavano aspetto solo al lorointerno. Chi viaggiava agli inizi del i secolo d. C. sullenuove strade costruite dal  princeps attraverso l’Italia –a ogni miglio, un pilone stava lí a ricordare a chi spet-tava il merito di quelle strade – si imbatteva in nuovemura cittadine, in sontuose porte d’accesso e in grandiarchi monumentali. Per quale ragione Augusto e Tibe-rio finanziarono più volte la costruzione di queste mura

proprio nel cuore di un paese in cui regnava ormai la fa-mosa Pax Augusta?Già nella tarda repubblica le mura erano diventate

un elemento importante nella fisionomia delle città ita-liche: nella nuova situazione politica esse dovevanodiventare il simbolo del coraggio militare, della virtusriportata in onore dal princeps. La vista di una città for-tificata, sottolineata in certi casi dalla stessa disposizio-ne delle strade, come a Spello (Hispellum) in Umbria,trasformava in realtà le visioni poetiche di Virgilio, peril quale mores e moenia erano tutt’uno (Aen. I 264). Lenuove mura sono una testimonianza del nuovo spirito.

In realtà, il servizio militare attivo era in Italiaun’occasione sempre più rara, ma la militarizzazione del«paesaggio visivo», di cui si potrebbero citare numerosialtri esempi, doveva agire almeno sul piano simbolicoimprimendosi nella mentalità delle nuove generazioni.

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Le torri marziali delle Porte di Spello e di Torino sonoun’espressione visiva immediata di questa idea. Come

a Saepinum, dove Tiberio finanziò la costruzione dellemura e delle porte, anche in altre località le statue deibarbari fatti prigionieri ricordavano non solo le vit-torie della casa regnante, ma anche, più in generale, lavocazione imperiale di Roma. E quando M. OlconioRufo, il costruttore del teatro di Pompei, si fece ono-rare con una statua loricata  – si tratta di una copiadella statua di Marte Ultore a Roma – la cosa ha unsignificato del tutto analogo. Olconio non aveva certo

riportato allori militari e probabilmente non era maistato neppure nell’esercito: ma non di fatti esterni sitrattava, bensí dei suoi principi morali. E Augusto neaveva riconosciuto il valore, premiandolo con il confe-rimento di un titolo onorifico. Evidentemente, la divi-sa militare del loro primo concittadino non dovetteapparire fuori posto ai Pompeiani, che ne avranno anziapprezzato la posa marziale.

Alcuni esempi dimostrano che gli abitanti delle cittàerano senz’altro consapevoli del loro nuovo volto. IVeronesi, ad esempio, potevano ammirare la loro città«a volo d’uccello»: quando, negli intervalli degli spet-tacoli, lasciavano il teatro alle pendici della collina perandare a passeggiare su e giù lungo i due porticati pano-ramici, avevano davanti ai loro occhi lo spettacolo dellacittà fortificata, col suo sistema di strade ad angolo rettoe i suoi begli edifici marmorei. Ma le implicazioni etico-estetiche del panorama urbano si trovano anche raffi-gurate, per esempio, in un rilievo conservato ad Avez-zano: le mura formate da regolari blocchi di pietra, leporte poderose, la pianta regolare delle strade e degliedifici, i templi in posizione dominante, la ricchezzadelle case di campagna.

Questo sguardo all’impero, necessariamente moltosommario, ha mostrato come, a partire dall’istituzione

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della monarchia, sia venuto sviluppandosi un linguaggiofigurativo unitario, raccolto intorno alla celebrazione

della casa imperiale. Come anche a Roma, si tratta di unprocesso in larga misura spontaneo, senza esplicite diret-tive dall’alto. Sia in Oriente che in Occidente si diffu-se dopo Azio l’esigenza elementare di stabilire un rap-porto diretto con Augusto, la cui persona incorporavaper la prima volta nel bacino del Mediterraneo l’ideaesplicita di un dominio mondiale duraturo. A differen-za dell’Occidente, l’Oriente aveva già elaborato, colculto dei sovrani ellenistici, un linguaggio adatto alla

nuova situazione: gli era però mancato a lungo un verosovrano e un Impero a cui le città sentissero di appar-tenere.

Era nella natura delle cose che l’Occidente adottas-se il culto imperiale, poiché esso offriva alle élites loca-li una nuova cornice nella quale mettere in scena e con-solidare il proprio prestigio. Inserito nel vecchio siste-ma rituale il nuovo culto dava inoltre la possibilità, al

singolo e alla collettività intera, di contribuire in modoattivo e per cosí dire sistematico al bene dello Stato.Insieme al culto ellenistico del sovrano la nuova

monarchia ereditò un elaborato sistema di comunica-zione visiva, in cui non fu difficile incorporare le nuoveimmagini e i nuovi simboli specificamente romani. Ilfenomeno può essere visto d’altronde anche in rappor-to al lento e graduale processo di ellenizzazione dell’in-tero Occidente latino, di cui il nuovo culto politico rap-presenta una tappa ulteriore e decisiva.

Quanto all’Oriente, occorre anzitutto considerareche il nuovo linguaggio visuale elaborato a Roma portaval’impronta inconfondibile della città e delle sue tradi-zioni politiche. Ecco perché alcuni aspetti, come lo stilepersonale del  princeps e l’iconografia connessa alrinnovamento culturale, non ebbero in Oriente alcunarisonanza. La ricezione del nuovo linguaggio si concen-

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trò invece sugli aspetti più legati alla persona del sovra-no o a singoli punti programmatici ai quali anche 1’

Oriente poteva essere sensibile, come il rinnovamentoreligioso o, in determinate città (per esempio Atene), ilnuovo classicismo.

Sia in Oriente che in Occidente furono le grandifamiglie cittadine a sostenere con maggior energia ilculto imperiale e a trarne i maggiori benefici. Ma occor-re aggiungere che in Italia il possesso della cittadinanzaromana costituiva un elemento differenziale, che per-metteva di identificarsi in modo più diretto col pro-

gramma di rinnovamento augusteo. Il culto imperiale ela trasmissione dei nuovi valori, soprattutto per quantoriguarda la ristrutturazione urbanistica delle città, vannoqui dunque di pari passo, in un clima di pieno consen-so ideologico. I templi e i teatri, gli acquedotti e le portecittadine costruite in quegli anni conferirono alle cittàdell’Occidente quella fisionomia tipicamente romanache anche in futuro non avrebbe più subito mutamenti

sostanziali.Le non molte formule in cui si esprimeva il mitoimperiale subirono inevitabili semplificazioni, nel con-tenuto come nello stile, e se queste, da un lato, poteva-no ridurlo e banalizzarlo, dall’altro ebbero però l’ef-fetto di rafforzarne il potere comunicativo. I preziosi-smi e le raffinate allusioni, le finezze genealogiche e lecombinazioni arcaicizzanti o classicheggianti non ebbe-ro, al di fuori di Roma, quasi alcun seguito. Ma anchenella stessa Roma lo sviluppo delle forme artistiche nonprocedeva certo nella direzione dell’arricchimento edella preziosità: la forma semplificata in cui le cittàromane recepiscono il nuovo linguaggio dell’arte augu-stea si dimostrò anzi cosí efficace da potersi imporre, coltempo, anche nella capitale.

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Conclusione

A uno sguardo retrospettivo il saeculum augustum ciappare come un momento di svolta non solo per il voca-bolario artistico e architettonico, ma per l’intero siste-ma della comunicazione visiva. Le forme nate in queglianni resistettero nel tempo e segnarono l’immagine dellecittà romane fino alla tarda antichità, configurando unarottura epocale paragonabile solo alla fine dell’età arcai-ca e agli inizi dell’ellenismo. E anche in questo caso,come allora, le nuove forme espressive e il nuovo siste-

ma di valori si fanno strada sulla scia di un radicalemutamento politico.Il potere delle immagini non fu l’ultimo tra i fatto-

ri a cui si deve l’ingresso di Roma nel mondo ellenisti-co e la dissoluzione del vecchio Stato repubblicano. Findal lì secolo a. C. l’arte e l’architettura greca erano adisposizione del Romano colto e curioso di novità,offrendosi a una scelta in cui giocavano fattori diversicome l’ambizione, le necessità pratiche e le disponibilitàeconomiche individuali. Benché il processo di assimila-zione e appropriazione abbia seguito nei vari generi arti-stici strade diverse, gli artisti raccolsero ovunque la sfidarappresentata dalle nuove forme e dai nuovi commit-tenti, concorrendo allo sviluppo di un ricco e suggesti-vo eclettismo formale: non a torto la tarda repubblica èstata definita, dal punto di vista della ricchezza creati-va, l’età d’oro dell’arte romana.

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Con l’istituzione della monarchia inizia in tutti isettori della vita culturale un ampio processo di norma-

lizzazione guidato da rigidi criteri direttivi. Fino adallora i vari centri dell’arte ellenistica avevano esercitatosu Roma un influsso molto eterogeneo: ora invece èRoma stessa a diventare il centro propulsivo di unanuova cultura unitaria, impegnata in un lento processodi formazione. Prima di Azio l’assetto urbanistico diRoma portava l’impronta delle grandi rivalità private, equel clima di antagonismo aveva contribuito ad accen-tuare l’eclettismo formale tardo ellenistico, bloccando la

strada a valori collettivi capaci di trasmettere una fisio-nomia coerente all’immagine della tarda repubblica.

Il linguaggio visivo normalizzato dell’epoca imperialeha invece, al suo centro, lo Stato e l’imperatore. E nonsi tratta solo, come si è visto, di una centralità legata alculto e al panegirico del sovrano, perché in una societàdalla rigida struttura piramidale lo sguardo è rivoltonaturalmente verso la cima, e se la cima è occupata dal-

l’imperatore, l’immagine di quest’ultimo finirà perimporsi come il modello da seguire per eccellenza. Que-sto vale nell’ambito della moda, dall’abbigliamento allapettinatura, all’emulazione dei ritratti imperiali da partedi cittadini comuni; ma le immagini del «mito imperia-le» possono anche assumere un valore simbolico, e met-tere in scena i valori e le virtù civili.

L’uso delle immagini «politiche» si estese col passa-re del tempo a sempre nuovi ambiti della vita sociale.Può succedere allora che le virtù pratiche di un cittadi-no del tutto sprovvisto di esperienza militare venganocelebrate sul suo sarcofago con una scena eroica di bat-taglia, in cui il defunto figura magari nelle vesti del-l’imperatore vittorioso. Analogamente, le forme diomaggio praticate verso le dame della casa imperialevengono utilizzate anche per ricordare la memoria didonne borghesi prive di qualunque blasone nobilare. A

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un osservatore moderno queste anziane signore ritrattenei panni di Venere, della Concordia o della Pietas pos-

sono fare un effetto curioso, ma per il Romano deltempo si trattava, invece, di formule retoriche con cuicelebrare la bellezza, la mansuetudine o la devozionedella cara defunta. Formule che diventano pienamentecomprensibili solo a condizione di vedere il quadro com-plessivo in cui quel linguaggio si muove, portando l’im-pronta del nuovo sistema politico e delle forti spinteall’assimilazione presenti nella società romana.

Accanto al mito imperiale, una seconda ideologia

concorse a determinare il nuovo sistema di valori equindi il linguaggio visivo dell’età imperiale: l’idea del-l’unicità della cultura greca classica e la visione dellapropria epoca come una sorta di rinascimento, capacedi coniugare i modelli greci con una pace mondiale, unalto livello morale e un benessere diffuso. E anche quile linee direttive furono quelle indicate dall’età augu-stea. I due punti programmatici del rinnovamento cul-

turale, rivolti in un primo tempo alla specifica situa-zione romana, ossia la publica magnificentia e il «classi-cismo», avevano portato a un linguaggio visivo omoge-neo, tale da coinvolgere tutti gli abitanti dell’ImperiumRomanum nell’orizzonte di una cultura «classica» e diun sistema di valori comune, a prescindere dalla nazio-nalità di appartenenza.

La presenza visiva di questa ideologia era ancorapiù estesa del mito imperiale e andava dagli scenari clas-sici delle città fino alle immagini e alle sentenze dei filo-sofi riprodotte sulle pareti delle taverne. Il fascino cheemanava dai sontuosi edifici marmorei in stile greco eraancora intatto nel iii secolo d. C., quando le città ormairicche dell’Africa e della Siria spendevano ingentisomme di denaro per costruire grandi strade fiancheg-giate da file di colonne. Né quei programmi edilizirispondevano a pure necessità di ordine pratico: quelle

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serie interminabili di colonne corinzie simboleggianopiuttosto una ferma volontà di adesione ai valori comu-

ni dell’impero.Il programma augusteo di rinnovamento culturalefini per vincere anche le ultime resistenze contro laluxuria greca: la cultura del saeculum aureum accoglie-va l’eredità «purificata» della Grecia. Finirono cosi percadere anche quelle tensioni e quei conflitti tra sferapubblica e sfera privata che avevano caratterizzato ilprocesso di ellenizzazione della tarda repubblica. Lestatue, le figure e le forme architettoniche greche entra-

no, a partire da questo momento, sia nel pubblico chenel privato. Se un esteta grecofilo decide di farsicostruire un palazzo o di esporre delle opere d’artenella sua villa, le sue iniziative private saranno co-munque in accordo con la nuova linea politica e con-tribuiranno, in modo più o meno volontario, a tessereil panegirico della nuova età.

L’omaggio reso dagli imperatori alla cultura greca –

un omaggio spinto a forme estreme da personaggi comeAdriano e Marco Aurelio – fa sí che i miti greci, l’arteclassica, ma soprattutto lo «stile filosofico» diventinoper larghi strati sociali un ideale di vita. Per quanto mo-desto possa essere il livello culturale del singolo e perquanto miseri appaiano spesso i surrogati letterari ofigurativi della grecità, il loro valore di status symbols èfuori discussione. Ecco allora il borghese farsi ritrarrenei panni di un filosofo (o di una Musa), arredare edi-fici pubblici o private abitazioni con copie o parafrasi dicelebri capolavori e decorare la propria casa (o la propriatomba) con raffigurazioni dei miti greci.

Abbiamo visto quanti elementi del vecchio immagi-nario politico vengano privatizzati agli inizi dell’etàimperiale: il patrimonio della cultura greca subisce lastessa sorte, quella cioè di essere riprodotto e citato incontesti privati (per esempio sui sarcofagi) per parlare di

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amore e di dolore con le figure del mito, o per celebra-re invece il coraggio, la bellezza, la virtus dei defunti.

Come il mito imperiale, anche questa ideologia dellacultura raggiunse tutti i ceti e tutti gli ambiti della vitaprivata e sociale, fino a fondersi con i valori e le aspi-razioni più radicate e diffuse.

Non si tratta peraltro di un sistema rigido, il lin-guaggio visivo dell’età imperiale appare suscettibile diampliamenti e accentuazioni diverse: cosí ad esempio lequalità militari dell’imperatore e la forza dell’esercitosvolgono col passare del tempo un ruolo crescente, men-

tre l’immagine borghese del  princeps tende a scivolaresullo sfondo. Ma più che di novità vere e proprie si trat-ta in gran parte di semplificazioni, di sviluppi o accen-tuazioni quantitative: i rituali e le scenografie architetto-niche legate al culto o alle feste dell’imperatore diven-tano via via più sontuosi e insieme più uniformi; sui rilie-vi funerari i valori raffigurati in via allegorica vengonosottolineati con più forza e riferiti più direttamente al

defunto, mentre (a partire dagli ultimi decenni del iisecolo a. C.) il racconto mitologico, l’iconografia classi-ca e lo stile classicheggiante perdono poco per volta ter-reno. Nei primi due secoli dopo Augusto, tuttavia, lelinee portanti del sistema rimangono nel complessoimmutate, perché il potere è stabile e, con esso, l’inte-ra articolazione della società.

In questo stato di cose le innovazioni potevano veni-re solo dall’alto e potevano diffondersi, di regola, soloa partire da Roma. Naturalmente nessuno impediva asingoli gruppi, per esempio una scuola filosofica, didiffondere nuove immagini, ma per imporsi realmentee ottenere un effettivo successo era comunque necessa-ria una «consacrazione» da parte della casa imperiale edell’alta società romana.

Se la situazione non sfociò in un generale livella-mento di stampo moderno, lo si deve a quei caratteri di

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autonomia operativa di cui abbiamo spesso parlato: nonesistevano normative precise imposte dall’alto, non vi

erano controlli né campagne di propaganda. Si spiegacosi il fatto che certi modelli, una volta accettati, potes-sero conservarsi per generazioni, anche quando i moti-vi della loro attualità erano caduti ormai da tempo:come quegli anziani signori che all’epoca di AntoninoPio si facevano ancora tagliare i capelli alla maniera diTraiano.

In alcuni settori come la tradizionale architettura acolonne, la scelta canonica dei miti e dei capolavori

greci o gli schemi decorativi della pittura parietale, nonvi fu, si può dire, alcuna innovazione. L’idea della per-fezione raggiunta e della validità assoluta dei proprimodelli doveva anzi sottolineare il carattere statico dellacultura genuina, facendo apparire le innovazioni in unaluce sospetta. Anche per quanto riguarda lo stile, lega-to a sua volta a modelli classici, le uniche novità siriscontrano nell’ambito delle tecniche artigianali. La

conseguenza fu che le forme architettoniche e le imma-gini non invecchiavano: i nuovi monumenti potevanoessere più sontuosi o trasmettere meglio determinatimessaggi, ma continuavano a parlare la stessa lingua. Etutto ciò non poté non contribuire alla sorprendente sta-bilità del sistema politico-sociale romano.

A questo punto dovremmo domandarci quale fu ilprezzo da pagare per questa cultura del benessere, cosiuniforme e cosí diffusa, e s’impone allora un confrontocon la cultura ellenistica dei secoli precedenti. In tutti icampi della vita spirituale – la filosofia e la retorica, lapoesia, la ricerca scientifica, la tecnica – assistiamo aglistessi fenomeni di stagnazione e normalizzazione cheabbiamo visto anche nell’arte e nell’architettura: i pro-gressi del sapere e la fantasia creativa, il pensiero filo-sofico e le innovazioni tecnologiche giungono in etàimperiale a un punto fermo, e l’immobilità significa in

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questo caso un regresso. Abbiamo invece una florida cul-tura fatta di imitazioni, compilazioni e virtuosismi. Le

sole novità effettive ed importanti nei primi due secolidopo Augusto si hanno là dove il potere entra in scenacome tale: nel campo cioè delle iniziative economiche edelle imprese militari, ma soprattutto nell’organizzazio-ne delle masse urbane, con tutti i problemi relativi al-l’approvvigionamento alimentare e al tempo libero, e quil’architettura e l’urbanistica sono in primo piano. Masarebbe l’argomento di un nuovo libro.

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Note

Introduzione

Cfr. H. Jucker, Das Verhältnis der Römer zur bildenden Kunst der 

Griechen, Frankfurt am Main 1950; O. J. Brendel, Prolegomena to the

Study of Roman Art  (1953), New Haven - London 1979; R. BianchiBandinelli, Roma. L’arte romana nel centro del potere, Milano 1969; P.A. Brunt, Social Conflicts in the Roman Republic, London 1971; E.Gabba, Esercito e società nella tarda repubblica romana, Firenze 1973;

C. Nicolet, Le métier de citoyen dans la Rome républicaine, Paris 1976;K. Christ, Krise und Untergang der römischen Republik, Darmstdt 1979;Ch. Meier, Res publica amissa, Frankfurt am Main 1980; G. Alföldi,Römische Sozialgeschichte, Wiesbaden 1984. Cfr. anche E. Rawson,Intellectual Life in the Late Republic, London 1985; E. Gruen, The Hel-

lenistic World and the Coming of Rome, Berkeley 1984, voll. I e II. Sulprocesso di ellenizzazione, cfr. anche P. Veyne, The Hellenisation of 

Rome and the question of acculturation, in «Diogenes», cvi, pp. 1-27;A. Giardina e A. Schiavone (a cura di ), Modelli etici, diritto e trasfor-

mazioni sociali, Bari 1981, in particolare i contributi di G. Clementee A. La Penna.

i. Immagini contraddittorie. La repubblica al tramonto

La statua onoraria.

Sulla statua in bronzo delle figg. I e 2 cfr. J. Ch. Balty, in MEFRA,

xc (1978), pp. 669-86; A. Giuliano (a cura di),  Museo Nazionale diRoma. Le sculture, Roma 1979, I, 1, p. 198, n. 124; N. Himmelmann,in Herrscher und Athlet , catalogo della mostra, Bonn 1989, pp. 126-49.

Sull’ Arringatore, cfr. T. Dohrn, Der Arringatore, Berlin 1968. Per ladatazione cfr. K. Fittschen, RM, lxxvii (1970), pp. 177-84, tavv. 74-76; M. Cristofani, I bronzi degli Etruschi, Novara 1985, n. 129, p. 30.

Cfr. anche T. Hölscher, RM, lxxxv (1975), pp. 315-57; G.Lahusen, Untersuchungen zur römischen Ehrenstatue in Rom, Roma 1983

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e Id., Schriftquellen zum römischen Bildnis, Bremen 1984, vol. I; Zanker1983, pp. 251-66; K. Stemmer, Untersuchungen zur Typologie,

Chronologie und Ikonographie der Panzerstatuen, Berlin 1978, pp. 133sgg.; L. Giuliani, Bildnis und Botschaft. Hermeneutische Untersuchungen

zur Bildniskunst der römischen Republik, Frankfurt am Main 1986.Sui ritratti rispettivamente, per quello di Cesare, E. Johansen, in

«Analecia Romana», iv (1967), p. 34, tav. 16 e P. Zanker, in AA(1981), pp. 349-61; per quello di Pompeo, V. Poulsen, Les Portraits

Romains, København 1973, vol. I, n. 1 e Giuliani, Bildnis cit., passim;per quello di Crasso, D. Boschung, in JdI, ci (1986), pp. 284 sgg. e Giu-liani, Bildnis, pp. 233 sgg.; per l’Anonimo di Cagliari, S. Angiolillo, in

RM, lxxviii (1971), pp. 119 sgg. tavv. 70 sg.; cfr. M. Hofter in Kat-alog Berlin, pp. 291-343.

Propaganda famigliare.

Cfr. T. Hölscher, in JdI, xcv (1980), pp. 271-81.Sul «linguaggio» delle monete tardo repubblicane, cfr. Id., in «Pro-

ceedings of the IX International Congress of Numismatics» (1979), pp.269-82. Per le monete repubblicane cfr. l’ottimo lavoro di M. Craw-

ford, Roman Republican Coinage, London 1974.Sui monumenti funerari, cfr. J. Toynbee, Death and Burial in the

Roman World , London 1971; M. Eisner, Zur Typologie der Grabbaut-

en im suburbium Roms, Mainz 1986; H. von Hesberg e P. Zanker (acura di), Römische Gräberstrassen, in «Bayer. Akad. Wiss. Abh.», nuovaserie, xcvi (1987).

Sulle tombe dei liberti, cfr. P. Zanker, in JdI, xc (1975), pp. 267-315.

Per il monumento di Eurisace, cfr. P. Ciancio Rossetto, Il sepolcrodel fornaio M. V. Eurisace, Roma 1973; Eisner, Zur Typologie cit., pp.92 sgg. Sull’interpretazione del sepolcro come granaio cfr. L. Cas-tiglione, in «Acta Arch. Acad. Scient. Hungaricae», xxvii (1975), pp.157-61.

Sulla Tomba di Cecilla Metella cfr. Eisner, Zur Typologie, pp. 36,204, tav. 9 e Ch. Hulsen, in «Neue Heidelbergerjahrb.» (1896), pp.50-58.

Sul sepolcro del console C. Irzio, cfr. Nash, Bildlexikon, vol. II, p. 341.

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Per il monumento dei Giulii a St-Rémy, cfr. G.-Ch. Picard, Les

Trophées Romains, 1957, pp. 195 sgg.; P. Gros, in «RevueArchéologique» (1986), pp. 65-8o.

L’immagine urbana di Roma.

Cfr. P. Gros, Architecture et société à Rome et en Italie centro-mérid-

ionale aux deux derniers siècles de la République, Bruxelles 1978; F.Coarelli, Public building in Rome between the secondpunic war and Sulla,in BSR, xlv (1977), pp. 1-23; D. E. Strong, The administration of pub-

lic building in Rome..., in «Bull. Inst. Class. Studies London», xv

(1968), pp. 101 sgg.Per le fonti letterarie relative agli edifici citati, cfr. Platner e Ashby;

vedi anche bibliografia in Nash, Bildlexikon.

Sui «giardini» del Pincio, cfr. il contributo di F. Coarelli, in aa.vv., Architecture et société , Roma 1983, pp. 197-217.

Sulle condizioni abitative, cfr. Z. Yavetz, The living conditions of the

urban plebs, in «Latomus», xvii (1958), p. 513; B. W. Frier, Landlords

and Tenants in Imperial Rome, Princeton 1980.

Sul teatro di Pompeo cfr. Gros, Aurea Templa, p. 69; A. Rumpf, inMdI, iii (1950), p. 45; J. A. Hanson, Roman Theater-Temples, Prince-ton 1959, pp. 43-55; H. Drerup, Architektur ali Symbol , in «Gymna-sium», lxxiii (1966), pp. 181-96; L. Giuliani, Bildnis cit.

Sull’apparato decorativo dei teatri, cfr. M. Fuchs, Untersuchungen

zur Ausstattung römischer Theater in Italien und in den Westprovinzen des

Imperium Romanum, Mainz 1987.Sulle monete cfr. F. Prayon, in aa.vv., Festschrift U. Hlausmann,Tü-

bingen 1982, p. 320; H. Drerup, Zum Ausstattungsluxus in der römis-

chen Architektur , Münster 1957.Sulle opere esposte negli edifici del Campo Marzio, cfr. M. Pape,

Griechische Kunstwerke aus Kriegsbeute und ihre öffentliche Ausstellung 

in Rom (tesi di laurea), Hamburg 1975.Sul rilievo cfr. G. Pesce, I rilievi dell’anfiteatro campano, 1941, tav.

15a; cfr. anche Guida Ruesch, p. 173, nn. 609 sg.

Sul Foro di Cesare cfr. Gros,  Aurea Templa, pp. 70-72; Coarelli,Foro II, pp. 233 sgg.

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Sui progetti di Cesare per la ristrutturazione urbanistica di Roma,cfr. Z. Yavetz, Caesar in der öffentlichen Meinung , Düsseldorf 1979, pp.159 sgg.

La «villa».

Cfr. J. d’Arms, The Romans on the Bay of Naples. A Social and Cul-

tural Study of the Villas and their Ownersfrom 150 B.C. to A.D. 400,Cambridge (Mass.) 1970; Id., Commerce and Social Standing in Ancient 

Rome, Cambridge (Mass.) 1981; H. Drerup, in Marburger Winckel-mannsprogramm, 1959, pp. 1-24; P. Zanker, in JdI, xciv (1979), pp.460-523; H. Mielsch, Die römische Villa. Architektur und Lebensform,

München 1987.Sull’opposizione otium/negotium, cfr. J. M. André, L’otium dans la

vie morale et intellectuelle romaine des origines à l’époque augusteenne ,Paris 1965, p. 287.

Cfr. R. Neudecker, Die Skulpturenausstattung römischer Villen in

Italien, Mainz 1987.Sulla Villa di Sperlonga, cfr. il contributo di B. Conticello e B.

Andreae in «Antike Plastik», xiv (1974).

Sulla Villa dei Papiri, cfr. D. Comparetti e C. De Petra, La villaercolanense dei Pisoni, i suoi monumenti e la sua biblioteca, Torino 1883.Per la ricostruzione della villa a Malibu, cfr. N. Neuerburg, Hercula-

neum to Malibu. A Companion to the Visit of the J. Paul Getty Museum

Building , 1975.Sulle sculture: Neudecker, Die Skulpturenausstattung cit.; G. Sauron,

in MEFRA, xcii (1980), pp. 277-301; R. Wojcik, La Villa dei Papiri

ad Ercolano, Roma 1986.

Sulle pitture parietali del cosiddetto «secondo stile», cfr. l’operaclassica di H. G. Beyen, Die pompejanische Wanddekoration vom zweit-

en bis zum vierten Stil , vol. I (1938), vol. II (1960). Cfr. inoltre A. Bar-bet, La peinture murale romaine. Les styles décoratifs pompéens, Paris1985; B. Wesenberg, in «Gymnasium», xcii (1985), p. 470; K.Fittschen, Zur Herkunft und Entstehung des 2.Stils, in P. Zanker (a curadi), Hellenismus in Mittelitalien, Göttingen 1976, pp. 539-63; E. W.Leach, Patrons, Painters and Patterns, in B. K. Gold (a cura di), Liter-

ary and Artistic Patronage in AncientRome, Austin 1982.

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Sulla casa dei Grifi, cfr. Rizzo,  Monumenti della pittura, vol. III,tomo I, Roma 1936.

Sulla villa di Boscoreale, cfr. Ph. W. Lehmann, Roman Wall Paint-

ings from Boscoreale, Cambridge 1953.Sulla villa dei Misteri, cfr. anzitutto A. Maiuri, La villa dei Misteri,

Roma 1947. Per l’interpretazione del celebre fregio e la bibliografia piùrecente, cfr. il lavoro di M. G. Sauron, in «Comptes Rendus de l’A-cadémie des Inscriptions et Belles-Lettres» (1984), pp. 151-76.

Sui Romani in costume greco, cfr. Suet., Tib. 13; Tac.,  Ann 2,59(Germanico); Cic., in Verr. V 13,31; 16,40; 33,86; 52,137; Val. Max.,3,6,3 (Silla).

Sulla statua di Posidippo, cfr. Helbig I, n. 129; i «calzari da sena-tore» furono realizzati successivamente, mentre i legacci erano in bron-zo. Il volto fu nelaborato intorno al 50 a. C.

Per il cosiddetto Oratore greco (Napoli, Museo Nazionale, 62 10) cfr.Comparetti e De Petra La villa ercolanense cit., tav. 17, 3; R. Wünsche,in «Münchner Jahrb. Bild. Kunst», xxxi (1980), pp. 25 sg., per il tagliodei capelli cfr. Fittschen e Zanker I, n. 19.

II. Immagini antagoniste. La lotta per il potere assoluto

Divi filius.

Cfr. R. Syme, The Roman Revolution, Oxford 1939; K. Scott, The

 political propaganda 0f 44-30 B.C., in MemAmAc (1933), pp. 7-47; A.Alföldi, Oktavians Aufstieg zur Macht , Bonn 1976; Kienast, pp. 1-66;5. Weinstock, Divus Julius, Oxford 1971; A. Alföndi, La divinisation

de César, in RevNum, xv (1973), pp. 99-128, tavv. 4-13.Sulla moneta col tempio di Cesare, cfr. Prayon, in aa.vv., Festschrift 

U. Hausmann cit., p. 322, tav. 71, 6.Per la tradizione ellenistica del  sidus Iulium, cfr. H. Kyrieleis, in

aa.vv., Festschrift F. Hiller, 1986, pp. 55 sgg.; D. Kienast, Alexander und 

 Augustus, in «Gymnasium», lxxvi (1969), pp. 431-56.

Sulla strage di Perugia, cfr. il contributo di H. Strasburger, in«Gymnasium», xc (1983), pp. 49, 52.

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Le statue trionfali.

Sulla statua equestre del 43 a. C. cfr. D. Mannsperger, in aa.vv.,

Festschrift U. Hausmann cit., pp. 331-37; T. Hölscher, in RM, lxxxv(1975), pp. 315 sgg.; alla tesi di laurea ancora medita di J. Bergemannsui monumenti equestri romani (Diss. München 1987) devo alcuneinformazioni preziose.

Sulle monete con statue nella «posa» di Nettuno cfr. Crawford, n.511, 3; K. Kraft, Zur Münzprägung des Augustus, Frankfurt am Main1968, p. 207.

Sulla statua di Cesare sempre nella «posa» di Nettuno cfr. Wein-stock, Divus Iulius, cit., pp. 40 sgg. Sulle pose statuarie cfr. Helbig IV(1972), n. 3028.

Sul Globo cfr. P. Arnaud, in MEFRA, xcvi (1984), pp. 53-116.

La figura di Scilla, che in questi anni si trova riprodotta con unacerta frequenza (per esempio su capitelli, basi, pitture murali) haanch’essa una probabile connotazione politica.

Per il probabile aspetto della statua di Ottaviano, può essere utile unconfronto con la statua di Agrippa conservata a Venezia: cfr. G. Tra-

versari, Il Museo Archeologico di Venezia. I Ritratti, Roma 1968, n. 12.Sul ritratto di Ottaviano cfr. P. Zanker, Studien zu den Augustus-

Porträts, I. Der Actiumtypus, Göttingen 1978; cfr. anche Fittschen-Zanker I, 1. Sulla datazione, cfr. A. Alföldi e J. B. Giard, in «Quaderniticinesi di numismatica e antichità classiche», xiii (1984), p. 147, dovel’emissione del Divus Iulius, già in precedenza riferita a questo tiporitrattistico, viene datata agli anni 41-40 a. C.

Identificazioni mitologiche.Sulle genealogie famigliari, cfr. il lavoro di T. S. Wiseman, in

«Greece and Rome», xxi (1974), pp. 153 sgg.Sull’attesa di un futuro utopico cfr. A. Alföldi, in «Chiron», v

(1975), pp. 165 sgg.Su Marco Antonio ed Ercole cfr. D. Michel, Alexander als Vorbild 

 für Pompeius, Caesar und Marcus Antonius, Bruxelles 1967, p. 114.Sulla gemma, cfr. H.P. Laubscher, in JdI, lxxxix (1974), p. 251.

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Sull’usanza di portare anelli coi ritratti di personaggi illustri, cfr. M.L. Vollenweider, in «Museum Helveticum», xii (1955), pp. 96-111; cfr.Id., Die Porträtgemmen der römischen Republik, Mainz 1974; C. Mod-erna-Lanter, in Katalog Berlin, pp. 441-74.

Su Marco Antonio e Dioniso cfr. D. Mannsperger, in «Gymnasi-um», lxxx (1973), pp. 381-4o4; J. Griffin, Propertius and Antony, in JRS, lxvii (1977), pp. 17-26. Sulle «mollezze» dionisiache dei Tolomei,cfr. H. Heinen, in «Historia», xl (1983), pp. 116 sgg.

Sul ruolo di Ottaviano cfr. Kienast, in «Gymnasium», lxxvi (1969),pp. 431-56. Sul Capricorno cfr. K. Kraft, in «Jahrbuch für Numismatikund Geldgeschichte», xvii (1967), pp. 17-27; Kienast, p. 183. Sul sig-illo con la Sfinge, cfr. H. U. Instinsky, Die Siegel des Kaisers Augustus,1962. Sul cammeo in pasta vitrea cfr. E. Zwierlein-Diehl, in aa.vv.,Festschrift R. Hampe, Mainz 1980, pp. 410 sgg. Sul rapporto Ottaviano-Apollo esiste una quantità di studi: per uno sguardo d’insieme con bib-liografia cfr. Kienast, pp. 192 sgg.; Schneider, pp. 67 sgg. e in par-ticolare E. Simon, Die Portlandvase, Mainz 1957, pp. 30 sgg.

Cfr. G. Carettoni, La Casa di Augusto sul Palatino, RM, vol. 90(1983); Zanker, Apollontempel.

Le serie numismatiche di Ottaviano.

Per la datazione delle serie di denari (Giard, tavv. i sgg.), cfr, D.Mannsperger cit., in aa.vv., Festschrift U. Hausmann cit., p. 331; J. B.Giard, in RevNum, xxvi (1984), p. 78.

Sui contenuti programmatici, cfr. Kraft, Zur Münzprägung cit. B.Trillnisch, in Katalog Berlin, pp. 474-528.

Sullo Jupiter Feretrius cfr. Wissowa, in RE, VI, coll. 2209 sg. L’iden-tificazione mitologica della fig. 44 non fu evidentemente un caso isola-to: nella Biblioteca del Palatino c’era una statua di Apollo coi tratti diOttaviano, risalente anch’essa agli anni prima di Azio (o inimediatamentedopo): cfr. Schol ., in Hor., Ep. I 3,17; Serv., in Verg., Ecl. IV 10.

Le immagini problematiche di Antonio.

Cfr. K. Scott, in MemAmAc (1933), pp. 7-49; Id., Octavianus pro-

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 paganda and Antony’s «de sua ebrietate», in «Classical Philology», xxiv

(1929), pp. 133-41.Per le tazze aretine di Perennio Tigrane, cfr. CVA Metr. Mus. IV

BF, tav. 24; A. Oxé, in «Bonnerjahrbücher», cxxxviii (1933), p. 94;il lavoro più recente è quello di A. C. Brown, Catalogue of Italian

Terra-Sigillata in the Ashmolean Museum Oxford , 1968, p. 15, n. 37.Sul rilievo conservato al Museum of Fine Arts di Boston, cfr. M.

Comstock e C. Vermeule, Sculpture in Stone, Boston 1976, n. 324.Sui seguaci di Antonio a Roma, cfr. J. Griffin, in JRS, lxvi (1976),

p. 87, e lxvii (1977), p. 17; ora in Id., Latin Poets and Roman Life, Lon-don 1985.

Sul rilievo con la Visita di Dioniso, cfr. C. Watzinger, in MdI, lxi-lxii

(1946-47), pp. 77-87; A. H. Borbein, Campanareliefs, 1968, pp. 183 sgg.Sul rapporto fra Antonio e questo tipo figurativo, cfr. G. Méautis, in«Arch. Ephem.», I (1937), p. 27. Nell’iconografia di Antonio rientraanche la figura di Paride: cfr. J. Griffin, in JRS, lxvii (1977), pp. 18 sg.Di qui, forse, un tipo di rilievo assai popolare negli ultimi anni della repub-blica e agli inizi dell’età imperiale: cfr. H. Froning, Marmor-Schmuckre-

liefs mit griechischen Mythen im 1. Jh. v. Chr., Mainz 1981, p. 63.

Sui rilievi arcaicizzanti con la triade, cfr. il lavoro recente di H.-U.Cain, Römische Marmorkandelaber , Mainz 1985, pp. 100 sg., cheriferisce altresí gli importanti risultati della dissertazione inedita di A.Wagner (München 1982).

Sul linguaggio classicistico cfr. oltre, cap. vi.

Antagonismo edilizio e varietà formale.

Un buon quadro d’insieme dell’attività edilizia di questi anni si hain F. S. Shipley, in MemAmAc, ix (1931), pp. 7-60; cfr. anche Gros, Aurea Templa, passim.

Sui singoli edifici, cfr. Platner-Ashby e Nash, Bildlexikon.Sul tempio di Diana di Cornificio, cfr. Gros, Aurea Templa, passim,

tav. 20. Per l’ubicazione del tempio, cfr. aa.vv., Roma. Archeologia nel 

Centro, Roma 1985, vol. II, pp. 442 sg.Sui modiglioni cfr. H. von Hesberg, Konsolengeisa des Hellenismus

und der frühen Kaiserzeit , Heidelberg 1980.

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Sull’ornamentazione architettonica del tempio di Apollo Sosiano,cfr. il contributo recente di E. La Rocca, Amazzonomachia (catalogodella mostra allestita a Roma, Palazzo dei Conservatori, 1985), pp. 95sgg.; E. La Rocca e A. Viscogliosi, in Katalog Berlin, pp. 129-48.

Per l’interpretazione del fregio della fig. 55, cfr. T. Hölscher,Denkmäler der Schlacht von Actium, in «Klio», lxvii (1985), pp. 84 sgg.

Sui monumenti di Asinio Pollione, cfr. Pape, Griechische Kunstwerke

cit., p. 177.Sull’attività edilizia di Agrippa, cfr. J. M. Roddaz, Marcus Agrippa,

Paris-Roma 1984, pp. 231 sgg. I «delfini» compaiono anche nei cosid-detti rilievi «campani»: cfr. H. van Rhoden e H. Winnefeld, Architek-

tonische römische Tonreliefs der Kaiserzeit , Berlin 1911, voll. I-II, tav. 74.

Il Mausoleo.

Cfr. K. Kraft, in «Historia» xvi (1967), pp. 189 sgg.; Kienast, p.340 (con bibliografia); D. Boschung, in «Hefte des Berner Archäolo-gischen Seminars», vi (1980), pp. 38-41 (sugli obelischi); H. V. Hes-berg, in Katalog Berlin, pp;245-51.

III. La grande svolta. I nuovi segni e il nuovo stile politico

Il Foro come palcoscenico della famiglia Giulia

Per la bibliografia sulla situazione politica dell’età augustea cfr.Kienast, p. 67. Sul Foro Romano, cfr. P. Zanker, Forum Romanum.

Die Neugestaltung unter Augustus, Tübingen 1972; Coarelli, Foro II. Peril motivo della Vittoria sul Globo cfr. Hölscher, Victoria, pp. 6 sgg.;Id., in Katalog Berlin, pp. 200-39.

Sull’ubicazione delle columnae rostratae ci informa Servio, ad Georg.

III 29: le colonne si trovavano in origine davanti alla Basilica Iulia, ederano forse distribuite a intervalli regolari lungo tutta la facciata dellaBasilica. Domiziano le fece trasportare sul Campidoglio, forse all’epocadella costruzione del suo grandioso monumento equestre.

Sul tempio di Saturno, cfr. P. Pensabene, Il Tempio di Saturno,Roma 1984; K. Fittschen, in JdI, xci (1976), pp. 208 sgg. Il motivo

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dei Tritoni negli angoli del frontone era piuttosto frequente: cfr. irilievi «campani» di soggetto analogo in Rhoden e Winnefeld, Architek-

tonische römische Tonreliefs cit., tav. 82.

I simboli della vittoria.

Cfr. T. Hölscher, in «Klio», lxvii (1985), pp. 81-102.Per il rostro marmoreo cfr. B. Schweitzer, in Leipziger 

Winckelmannsprogramm, 1930. Ad Ostia, per esempio, una delle tombemonumentali davanti alla Porta Marina era decorata con grandi rostra

di marmo (cfr. M. F. Squarciapino, Scavi di Ostia III, Roma 1958, p.194, tav. 32, 3). Piacerebbe sapere se il proprietario della tomba avevadavvero combattuto ad Azio: cfr. F. Zevi, in Zanker (a cura di), Hel-

lenismus in Mittelitalien cit., pp. 56 sgg. (per la tomba di CartiliusPoblicola).

Per l’antefissa, cfr. A. Anselmino, Terrecotte architettoniche del-

l’Antiquarium comunale di Roma, I. Antefisse, Roma 1977; H. Mielsch,Römische Architekturterrakotten und Wandmalerei im Akademischen

Kunstmuseum Bonn, Berlin 1971, pp. 24 sg., n. 35.Per le gemme e i sigilli coi simboli di Azio, cfr. D. Salzmann, BJb,

clxxxiv (1984), pp. 158 sgg.Sulle lucerne cfr. A. Leibundgut, Die römischen Lampen in der 

Schweiz, Bern 1977. Per il frontone del tempio di Apollo Sosiano, cfr.il contributo di E. La Rocca, in Amazzonomachia cit.

Per una bibliografia sul confronto tra la vittoria di Azio e la vitto-ria degli Ateniesi sui Persiani, cfr. Schneider, p. 64.

Sull’Arco di Orange, cfr. R. Army e altri, L’Arc d’Orange, in «Gal-lia», xv suppl. (1961); I. Paar, in «Chiron», ix (1979), pp. 215 sgg.

Il vincitore si ritira.

Per l’apparato decorativo del tempio di Apollo sul Palatino, cfr.Zanker,  Apollontempel ; H. Jucker, in «Museum Helveticum», xxxix

(1982), pp. 82-100.Sui tripodi, cfr. Schneider, pp. 58 sgg., con ulteriore bibliografia,

cfr. ancora Id, p. 75 per la combinazione tripode-grifi. Per i tripodi suivasi aretini cfr. C. H. Chase,  Museum of Fine Arts Boston. Catalogue

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 Arretine Pottery, Boston 1975, tavv. 4, 6, 1o; A. Oxé, in BJb, cxxxvi-

ii (1933), p. 92.Sull’iconografia delle prime tazze aretine, cfr. G. Pucci, in L’art 

décoratif à Rome, Roma 1981, pp. 101 sgg. Il valore simbolico deltripode in relazione al programma di rinnovamento religioso è ogget-to di un’analisi approfondita nella dissertazione di O. Dräger (München1987).

Sui candelabri cfr. Cain, Römische Marmorkandelaber cit. (cfr. anchepp. 78 sgg. sul «betilo» e la Sfinge).

Sulla «meta» Albani, cfr. ABr, nn. 4519-21; W. Fuchs, Die Vor-

bilder der neuattischen Reliefs, Berlin 1959, p. 154. Nonostante le

immagini dionisiache il monumento potrebbe essere consacrato adApollo. Sul culto tributato ad Apollo dai seguaci di Dioniso esistononumerosi esempi di prima età imperiale.

Sui pannelli «campani» del Palatino cfr. G. Carettoni in BdA(1973), pp. 75-87. Cfr. anche M. J. Strazzulla, in «Annali dell’Uni-versità di Perugia», xx (1982-83), pp. 463-87.

Res publica restituta.

Sul significato politico e la storia degli honores conferiti a Ottavianonel 27 a. C., cfr. A. Alföldi, Die monarchische Repräsentation im römis-

chen Kaiserreich, Darmstadt 1971; Id., Die zwei Lorbeerbäume des

 Augustus, Bonn 1973; Id., Der Vater des Vaterlandes im römischen

Denken, Darmstadt 1971. Per la bibliografia più recente, cfr. Kienast,pp. 67 sgg.

Sull’effigie di C. Lentulo, cfr. C. Vermeule, in «Numismatica»(1966), pp. 5-11; S. Walker e A. Burnett, The Image of Augustus, Lon-

don 1981, p. 28.Sul clipeus virtutis, cfr. Hölscher, Victoria, pp. 98 sgg.; A. Wallace

Hadrill, The emperorand bis virtues, in «Historia», xxx (1981), pp. 298sg.

Per il motivo di Venere sullo scudo cfr. H.P. Laubscher, JdI, lxxxix

(1974), p. 255.

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Il titolo di «Augusto» e il nuovo ritratto.

Sul nome «Augusto», cfr. bibliografia in Kienast, pp. 79 sgg.Sul ritratto di Augusto, cfr. Die Bildnisse des Augustus, catalogo

della mostra alla Gliptoteca di Monaco, 1979 (a cura di K. Vierneisele P. Zanker). Cfr. anche Fittschen-Zanker I, nn. 1 sgg. Sul Doriforo

di Policleto cfr. H. von Steuben, Der Kanon des Polyklet , 1973.

IV. Il programma di rinnovamento culturale

1. pietas.

Cfr. K. Latte, Römische Religionsgeschichte, München 1967, pp.294 sgg.; Kienast, pp. 185 sgg.; A. D. Nock, Religious Developmentfrom the Close of the Republic to the Death of Nero, in Cambridge

 Ancient History, Cambridge ‘934, vol. X, pp. 465 sgg.; J. A. North,

Conservation and change in Roman religion, BSR, xliv (1976), pp. 1-12;G. Liebeschütz, Continuity and Change in Roman Religion, Oxford1979. Su Varrone cfr. RE, supplemento vi (1935), coll. 1172 sg. (H.

Dahlmann).

 Aurea Templa.

Cfr. Gros,  Aurea Templa. Sulla fortuna del marmo nell’ediliziaromana e sullo sfruttamento intensivo delle cave di Luni, cfr. H. Cain,Römische Marmorkandelaber cit., pp. 9 sgg.; D. e F. Kleiner, in AA(1975), pp. 250 sgg.

Sulla cosiddetta Ara Pietatis, cfr. Torelli, p. 63 sgg.; G. Koeppel, in

BJb, clxxxiii (1983), pp. 98-116.Sull’iconografia cfr. J. A. North, Sacrifical scenes in Roman reliefs,

in «Acta XI Intern. Congr. Class. Arch.» (1978), pp. 273 sg.

Sulla cerchia dei poeti, cfr. J. Griffin, Augustus and the Poets: ‘Cae-

 sar qui cogere possit’, in F. Millar e E. Segall (a cura di), Caesar Augus-

tus, Seven Aspects, Oxford 1984, pp. 189-218.Sui singoli luoghi di culto, cfr. la bibliografia riportata in Platner-

Ashby e Nesh.

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Per la bibliografia più recente, cfr. BullComm, lxxxix (1984).Su Augusto e le divinità egizie, cfr. P. Lambrechts, Augustus en de

Egyptische Goodsdienst , Bruxelles 1956.Sulla Magna Mater, cfr. K. Schillinger, Untersuchungen zur Entwick-

lung des Magna-Mater-Kultes im Westen, 1978, pp. 333 sgg. Sui risul-tati degli scavi più recenti riferisce P. Pensabene, in aa.vv., Roma.

 Archeologia cit., vol. I, pp. 179 sgg. Sulla rivalutazione di Cibele in etàaugustea, cfr. T. P. Wiseman, Cybele, Virgil and Augustus, in T. Wood-man e D. West (a cura di), Poetry and Politics in «The Age of Augustus»,Cambridge 1984, pp. 117-28.

Nuovi programmi figurativi.Sul programma statuario che compare sulla moneta col tempio della

Concordia, cfr. Gros, Aurea Templa, p. 92; Zanker, Forum Romanum

cit., 1972, p. 22; C. Gasparri, Aedes Concordiae Augustee, Roma 1979.Per il gruppo dell’acroterio, cfr. una moneta coniata da Caligola inonore della sorella, in cui compare un gruppo di tre divinità femminili:cfr. J. P. C. Kent (e altri), Die römische Münze, München 1073, n. 168.

Sulle basi decorate come la cosiddetta Ara Grimani cfr. H. von Hes-

berg, in RM, lxxxvii (1980), pp. 255-86.Sul Foro di Augusto, cfr. P. Zanker, Forum Augustum, 1968; P.

Gros e G. Sanson, in Katalog Berlin, pp. 48-68.

Feste e rituali.

Per il calendario festivo, cfr. V. Ehrenberg e A. H. M. Jones, Doc-

uments Illustrating the Reigns of Augustus and Tiberius, 1976, pp. 32 sgg.;P. Herz, Kaiserfeste der Principatszeit , in ANRW, II, 16, 2 (1978), pp.

1135-200; cfr. anche Ovidio, Fasti e H. H. Scullard, Römische Feste,Kalender und Kulte, Mainz 1985.

Sugli abitanti interni cfr. Gros, Aurea Templa. Sulla cella del tem-pio di Apollo Sosiano, cfr. Amazzonomachia cit., p. 91.

Sulle supplicationes, cfr. RE A 4, coll. 942 sgg. (Wissowa).Sulle opere d’arte raccolte da Tiberio nel tempio della Concordia,

cfr. G. Becatti, ACl, xxv-xxvi (1973-74), pp. 18-53.Cfr. Th. Kraus, Die Ranken der Ara Pacis, 1953; Ch. Borker, JdI,

lxxxviii (1973), pp. 283-317.

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Per il santuario di Ercole sul Tevere, cfr. E. La Rocca, La riva a mez-

zaluna, Roma 1984, pp. 62 sg., tavv. 9 sg.

Le alte cariche sacerdotali.

Cfr. J. Scheid, Les prêtres officiels sous les empereurs julio-claudiens,ANRW, 16, 1 (1979), pp. 610-54; F. Millar, The Emperor in the Roman

World , London 1977, p. 355.Sui fratres Arvales, cfr. J. Scheid, Les frères Arvales, Paris 1975; E.

Olshausen, Über die römischen Arvalbruder , in ANRW, 16, 1 (1979),pp. 820 sgg.

Sui collegi sacerdotali raffigurati nell’ Ara Pacis, cfr. Torelli, pp. 27sgg.; E. Simon, Ara Pacis Augustae, Tübingen 1967; S. Settis, in Kat-alog Berlin, pp. 400-25.

Sull’iconografia dei XV viri sacris faciundis e sulla base per tripode,cfr. H. R. Gotte, in AA (1984), pp. 573-89; cfr. anche il lavoro sopracitato di O. Dräger (note alla p. 91).

Il nesso tra il simbolismo apollineo e i simboli di fecondità (la coronadi spighe, i candelabri con motivi vegetali), potrebbe rimandare ai ludi

 saeculares, organizzati dai XV viri sacris faciundis. Poiché di questa base si

conoscono diverse repliche con la stessa iconografia, potrebbe trattarsi diuna serie votiva in molti esemplari (forse esposti nel tempio di Apollo).

Sull’iconografia dei Salii cfr. Th. Schaefer, in JdI, xcv (1980), pp.342-73.

Sul fregio proveniente dal Portico di Ottavia, cfr. T. Hölscher, in JdI, xcix (1984), pp. 204 sgg.

Sacerdozio e status sociale.

Sul denaro con gli attributi sacerdotali, cfr. Zwierlein-Diehl cit., pp.

412 sg.Per le statuette del  genius, cfr. H. Kunckel, Der römische Genius,

Heidelberg 1974.Sui Lupercali, cfr. Ch. Ulf. Das römische Lupercalienfest , Darmstadt

1982.Sui collegi dei compitalia e le cappelle dedicate ai Lari, cfr. Kienast,

p. 164. La bibliografia sugli altari dei Lari è ora raccolta in M. Hanno,in ANRW II 16,3 (1986), pp. 2334-381.

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Sull’altare dei vicomagistri in Vaticano cfr. Hölscher, Staatsdenkmal ,p. 27, figg. 35 sg.; Id., in Katalog Berlin, p. 394.

Sul Compitum Acili, cfr. A. M. Colini e A. M. Tamassia, in Bull-Comm, lxxviii (1961-62), pp. 147-63; «Année Epigraphique» (1964),n. 77, p. 33; H. V. Hesberg, in Katalog Berlin, p. 398.

Per l’altare del collegio dei carpentieri, cfr. G. Zimmer, Römische

Berufsdarstellungen, Berlin 1982, p. 162, n. 84; Helbig II, n. 1238 (E.Simon).

Sugli oggetti votivi offerti da e per Augusto, come la base di N. L.Hermeros, cfr. il contributo di S. Panciera, in Archeologia Laziale III ,Roma 1980, pp. 202 sgg.

Sul motivo degli uccelli che si abbeverano cfr. F. Sinn-Henninger,Stadtrömische Marmorurnen, Mainz 1987, n. Cat. 10.

2. publica magnificentia.

Per la bibliografia sulla politica economica di Augusto, cfr. Kienast,p. 311; M. Torelli, in Katalog Berlin, pp. 23-48.

Sulla Porticus Liviae, cfr. M. Boudreau Flory, in «Historia», xxxiii

(1984), pp. 309 sgg.; P. Zanker, in aa.vv., Urbs. Espace urbain et his-toire, Roma 1987.

Su Vedio Pollione, cfr. R. Syme, in JRS, li (1961), pp. 23-30.

Ville per il popolo.

Sui monumenta Agrippae, cfr. RE A 9 (1961), coll. 1226 sg.,  s. v.

«Vipsanius» (R. Hanslik); Roddaz, Marcus Agrippa cit., pp. 231 sgg.Sull’approvvigionamento idrico, cfr. W. Eck, in aa.vv., Frontinus,

Wassewersorgung im antiken Rom, München 1983, pp. 47-77 (anchesugli impianti per uso privato).Sul Pantheon cfr. F. Coarelli, in aa.vv., Città e architettura nella

Roma imperiale, Roma 1983, pp. 41-46.Sul gruppi «pedagogici», cfr. M. Bieber, Sculpture of the Hellenistic

 Age, 1981, p. 135, fig. 628; HBr, pp. 109 sgg., tav. 82.Sugli Horrea Agrippiana, cfr. Kienast, pp. 166 sgg.; H. Bauer e altri,

ACl, xxx (1978), pp. 31 sgg.; G. Rickmann, The Corn Supply of Ancient 

Rome, Oxford 1980, pp. 6o sgg., 179 sgg.

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La presenza della famiglia imperiale nell’immagine urbana.

Per la bibliografia più recente sull’attività edilizia di Augusto a

Roma, cfr. Kienast, pp. 336 sgg.; F. Coarelli, in Katalog Berlin, pp.68-8o.

Sul Miliarium aureum cfr. Zanker, Forum Romanum cit., p. 24, fig.41. Sul Solarium Augusti (figg. 116 sg.), cfr. E. Büchner, in RM, lxxxi-

ii (1976), pp. 319 sgg. e lxxxvii (1980), pp. 355 sgg.Sulla decorazione statuaria dei portici nel Campo di Marte, cfr.

Pape, Griechische Kunstwerke cit.Sul confronto con Alessandro, cfr. D. Kienast, in «Gymnasium»,

lxxvi (1969), pp. 430-56.

Applauso e ordine.

Cfr. H. Kloft, Liberalitas Principis, Köln 1970; P. Veyne, Le pain et 

le cirque, Paris 1976 (in particolare le pp. 701 sgg.); J. Deininger, Brot 

und Spiele. Tacitus und die Entpolitisierung der plebs urbana, in «Gym-nasium» (1979), pp. 278 sgg.; R. Gilbert, Die Beziehungen zwischen

Princeps und stradtrömischen Plebs im frühen Principat , Bochum 1976.Sul sostegno dato al regime dalla poesia e dal teatro, cfr. Syme, The

Roman Revolution cit., e in particolare il famoso capitolo The organi-

 sation of opinion, pp. 459 sgg.; cfr. anche K. Quinn, The Roman Writ-

ers and their Audience, London 1979; Id., in ANRW 30, 1 (1982), pp.75 sgg.

Sulla lex Iulia theatralis, cfr. E. Rawson, Discrimina ordinum, in BSR(1987), pp. 83-114; Kienast, p. 169; T. Bollinger, Theatralis licentia,1969.

Sulla struttura sociale, cfr. Alföldi, Römische Sozialgeschichte cit.

Cfr. anche Id., Die römische Gesellschaft, Stuttgart 1986, pp. 69 sgg.

Immagine urbana e ideologia.

Cfr. H. V. Hesberg, in Katalog Berlin, pp. 93-115; T. P. Wiseman,Strabo on the Campus Martius, in «Liverpool Classical Monthly», luglio1979, pp. 129-34.

Per i progetti urbanistici di Cesare, cfr. la documentazione raccol-ta in Yavetz, Cä sar cit., pp. 159-61.

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Sulla riforma dei quartieri, cfr. Kienast, p. 164; RE 8 A 2 (1958),col. 2480, s. v. «Vici magistri» (J. Bleicken).

Cfr. ancora H. Vetters, Die römerzeitlichen Bauvorschriften, in aa.vv.,Festschrift B. Neutsch, Innsbruck 1980, pp. 477 sgg.; e infine lo studiocit. di La Rocca in Urbs cit., pp. 347-72.

3. mores maiorum.

La riforma dei costumi.

Cfr. A. Wallace-Hadrill, in «Proceedings of the Cambridge Philo-logical Society», xxvii (1981), pp. 58-8o; D. Norr, in aa.vv., Freiheit 

und Sachzwang. Festschrift H. Schelsky, Opladen 1977, pp. 309-34;Kienast, p. 137.

Sulle phalerae in vetro cfr. A. Alföldi, in «Ur-Schweiz», xxi

(1957), pp. 8o sgg.; H. Jucker, in «Schweizer Münzblätter», xxv

(1975), pp. 50 sgg.; si veda anche lo studio di D. Boschung, Römische

Glosphalerae, in BJb, vol. 187 (1987), pp. 193-258.

Il princeps come modello.Sull’ Ara Pacis e l’altare dei dodici dèi, cfr. H. Thompson, in «Hes-

peria», xxi (1952), pp. 79 sgg.; A. Borbein, in JdI, xc (1975), p. 246(con illustrazione).

Sull’ Ara Fortunae Reducis, cfr. Torelli, pp. 28 sg. Cfr. anche i fram-menti di un altro altare marmoreo augusteo conservati a Villa Borgh-ese: G. Moretti, Ara Pacis Augustae, Roma 1948, pp. 190 sg.

Sui conii monetari, cfr. M. Fullerton, in AJA, vol. 89 (1985), pp.

473-83; Kienast, p. 324.Sull’iscrizione di C. Naevius Surdinus, cfr. Coarelli, Foro II, pp. 211

sgg. Sulle statue di barbari nella Basilica Aemilia, cfr. Schneider, pp.117 sgg.

Per il teatro di Balbo, cfr. G. Gatti, in MEFRA, xci (1979), p. 237sgg.; D. Manacorda, Archeologia urbana a Roma. Il progetto della crip-

ta Balbi, 1982.Sul terzo tipo ritrattistico di Augusto cfr. Fittschen-Zanker I, n. 8.

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Toga e stola.

Sulla toga si veda F. W. Goethert, in RM, liv (1939), pp. 176-219.

La tesi di laurea di H. R. Goette (Göttingen 1985) è ancora inedita.Sulla stola, cfr. RE A 4 58 sgg., s. v. «Stola» (M. Bieber); W. Stroh,

Ovids Liebeskunst und die Ehegesetzgebung des Augustus, in «Gymnasi-um», lxxxvi (1979), pp. 343-52.

V. Lo scenario mitico del nuovo Stato

1. aurea aetas.

Si inaugura l’età dell’oro.

Sui ludi saeculares, cfr. CIL VI n. 32323; Th. Mommsen, Gesam-

melte Schriften, Berlin 1913, vol. VIII, pp. 567-626. Cfr. anche Hel-big III, n. 2400 (H. G. Kolbe); A. Wallace-Hadrill, The Golden Age

and Sin in Augustan ideology, in «Past and Present», xcv (1982), pp.19-36; Kienast, pp. 99-187.

Sul gruppo statuario del tempio di Apollo cfr. p. 256. La Sibilla com-pare sulla Base di Sorrento: cfr. G. E. Rizzo in BullComm, lx (1932),pp. 7 sgg.; M. Guarducci, in RM, lxxviii (1971), pp. 90 sgg.; T.Hölscher, in Katalog Berlin, p. 375.

A proposito della moneta della fig. 134, cfr. un rilievo arcaicizzantecoevo raffigurante il sacrificio di un maiale: cfr. F. Willemsen, AM,vol. 76 (1961), pp. 209 sgg., tav. d’aggiunta 93.

Fecondità e pienezza.

Sul cosiddetto rilievo della Tellus, cfr. Simon, Ara Pacis cit., p. 25.Per l’identificazione della figura come Pax, cfr. Torelli, pp. 38 sgg.; cfr.anche ad esempio Tibullo I 10, 67 sg. o Germanico, Arat. 96 sgg.; S.Settis, in Katalog Berlin, pp. 400-26.

Sulla cosiddetta Ara Grimani e il rilievo di Palestrina, cfr. V. M. Stroc-ka, in «Antike Plastik», iv (1965), p. 87, tavv. 53 sgg.; F. Zevi, in«Prospettiva», vii (1976), pp. 38-41; A. Giuliano, in «Xenia», ix (1985),pp. 41-46. Una datazione augustea mi sembra senz’altro possibile.

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Sul rilievo con motivi vegetali proveniente da Falerii, cfr. A. Giu-liano, in «Prospettiva», v (1976), pp. 54 sg.; L. di Stefano Manzella,in «Mem. Pont. Acc.», serie III, xii (1979), 2, pp. 96 sg.

I tralci del paradiso.

Cfr. Kraus, Die Ranken cit.; Ch. Borker, in JdI, lxxxviii (1973), pp.283-317; A. Busing, in AA (1977), pp. 247-57. Sul significato sim-bolico dei tralci, cfr. H. P. L’Orange, in ActaAArtHist, 1 (1962), pp.7 sgg. Cfr. anche lo studio recente di G. Sauron, in «Comptes Rendusde l’Académie des Inscriptions et des Belles Lettres de Paris» (1982),pp. 81-101, la cui interpretazione non è tuttavia suffragata, a mioparere, dall’evidenza empirica.

Sul fregio del tempio di Cesare, cfr. Hölscher, Staatsdenkmal, p. 20,fig. 28. Sul rilievo della fig. 142 cfr. la tesi di laurea di A. Schmid-Col-inet, Antike Stützfiguren, Köln, p. 236.

Cfr. K. Fittschen, Zur Panzerstatue in Cherchel , in JdI, xci (1976),p. 181, fig. 5.

Per le decorazioni a girali d’acanto sulle calzature delle statue cfr.ibid., p. 201.

Vittoria e pace.

Per una bibliografia storica sulla cosiddetta vittoria sui Parti cfr. M.Wissemann, Die Parther in der augusteischen Dichtung , 1982; Kienast,pp. 283 sg.

Sull’ideologia della vittoria cfr. Hölscher, Victoria; J. R. Fears, The

Theology of Victory at Rome, in ANRW II 17, 2 (1981), pp. 827-948.Sulle testimonianze archeologiche relative alla vittoria sui Parti,

cfr. Schneider, pp. 29 sgg. e passim (con ampia bibliografia). Cfr. ibid.anche per il motivo del nemico in ginocchio.

La figura arcaicizzante di Marte è documentata anche in statuettedi bronzo e terrecotte, su gemme, lampade e vasi, il che fa supporrel’esistenza di un modello comune: lo stile misto classico-arcaicizzantedocumentato dalle versioni migliori sembra rimandare a un originaleaugusteo. Si veda anche A. Leibundgut, Die römischen Bronzen der 

Schweiz, 1980, vol. III, n. 11. Di particolare interesse il n. 47 del cat-

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alogo Sotheby, New York, 30 maggio 1956. Per quanto riguarda l’Ar-co dei Parti sul Foro Romano, si sa per certo che l’arco era situato iuxta

aedem Divi Iulii; è invece controverso su quale lato del tempio si tro-vasse. Cfr. le suggestive ipotesi di F. Coarelli, Foro II, pp. 258 sgg.,che localizza l’arco tra il tempio di Cesare, la basilica Emilia e la Por-

ticus Gaii et Luci Caesaris, e fornisce anche una nuova interpretazionealle monete. Cfr. in questo senso P. Gros, in «Gnomon» (1986), pp.58-64.

Il motivo della pasta vitrea al Museo di Berlino è variamentedocumentato: cfr. Schneider, pp. 38, 48, 91.

Sulla statua loricata di Augusto dalla villa di Prima Porta, cfr. la

bibliografia di H. Jucker, in «Hefte des archäologischen Seminars derUniversität Bern», III (1977), pp. 16 sgg. Per l’interpretazione e ladatazione della statua sono persuasivi gli argomenti ad esempio di K.Fittschen, in JdI, xci (1976), pp. 203 sgg.; cfr. anche H. Drerup, inMM, xii (1971), pp. 143 sg. Per la diversa concezione greca e latinadel rilievo figurato cfr. H. Meyer, Kunst und Geschichte, München1983, pp. 123 sgg. La sua interpretazione, che tende a isolare l’im-magine dal contesto ideologico effettivo, non mi sembra tuttavia con-vincente; cfr. T. Hölscher, in Katalog Berlin, p. 386.

2. il mito, la storia, il presente.

Sul Foro di Augusto, cfr. Zanker, Forum Augustum cit.; V. Kockel,in RM, xc (1983), pp. 421-48 (per la ricostruzione del tempio e l’or-namentazione). Cfr. anche J. Ganzert, RM, xcii (1985), pp. 201-19; J. Gouzert e V. Kochel, in Katalog Berlin, pp. 149-200.

Sul rilievo algerino di Venere e Marte, cfr. K. Fittschen, in JdI, xci

(1976), pp. 82 sgg.; Hölscher, Staatsdenkmal , p. 32, fig. 61; Meyer,Kunst cit., p. 141; H. G. Martin, in Katalog Berlin, pp. 251-63. Mal-grado il dibattito recente, resta valida la vecchia interpretazione di St.Gsell, secondo la quale il rilievo riproduce il gruppo statuario del tem-pio di Marte Ultore. Chiedersi se la figura del panneggio «all’eroica»rappresenti il Divus Julius o un principe della casa giulio-claudia signi-fica non distinguere il modello originale dalla funzione specifica delrilievo: è senz’altro possibile che la figura in questione rappresenti un

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principe, ad esempio Gaio Cesare dopo la sua morte prematura. Il rilie-vo potrebbe provenire da un monumento eretto in suo onore e si trat-terebbe allora di una «attualizzazione» del modello romano a livelloprovinciale. Il suo scopo non era certo quello di far conoscere in Africale bellezze della città di Roma! La statua loricata di Cherchel sollevaun problema del tutto analogo.

Per la Vittoria di Brescia, cfr. T. Hölscher, in «Antike Plastik», x

(1970), pp. 67 sgg.Per il motivo di Venere con lo scudo cfr. H.P. Laubscher, in JdI,

LXXXIX (1974), p.254.Sul gruppo statuario della fig. 154 cfr. Helbig III, n. 2132; P.

Zanker, in «Entretiens de la Fondation Hardt», xxv (1979), p. 295.Per la statua colossale di Marte Ultore, cfr. Helbig II, n. 1198; U.

Muller, in BullComm, lxxxvii (1982), p. 135; E. Simon,  Marburger 

Winckelmannsprogramm, 1981 (con interpretazioni molto speculativee in parte astruse).

Sulla statua che compare nel frontone del tempio di Marte Ultore,cfr. P. Hommel, Studien zu den römischen Figurengiebeln der Kaiserzeit ,Berlin 1954, p. 22; T. Hölscher, in Katalog Berlin, p. 378.

Enea e Romolo.

Sulla tradizione del gruppo di Enea cfr. Lexikon Icon. Myth. (1981),vol. I, pp. 296 sgg.

Sui fasti trionfali cfr. A. Degrassi, Inscriptiones Italiae, Roma 1947,vol. XIII, 2. Per il gruppo di Enea e Romolo sull’ Ara Pacis, cfr. Simon, Ara Pacis cit., pp. 23 sgg.; Moretti, Ara Pacis cit.

Per il rilievo in terracotta con la Lupa e Faustolo, cfr. Rhoden e

Winnefeld, Architektonische römische Tonreliefs cit., tav. 127, I. Cfr.anche C. Dulière, Lupa Romana, Bruxelles 1979.

Sul fregio della Basilica Emilia, cfr. G. Carettoni, in RIA, x (1961),pp. 5 sgg.; Coarelli, Foro II, p. 207; Schneider, p. 118.

Sul rilievo di Palermo con le Vestali davanti ad Augusto, cfr. Hölsch-er, Staatsdenkmal, p. 31, tav. 54.

Per il rilievo col tempio di Vesta, cfr. G. Mansuelli, Galleria degli

Uffizi, I. Le sculture, Roma 1958, n. 143.

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Per i due rilievi con la musa Clio, conservati al Louvre (Cat. Som.,p. 110, n. 1891 e p. 2, n. 8), cfr. Th. Schreiber, Die hellenistischen

Reliebilder, 1894, tavv. 49 sgg.; 5. Reinach, Repertoire des Reliefs Grecs

et Romains, Paris 1912, vol. II, p. 283; J. Charbonneaux, La Sculpture

Grecque et Romaine au Musée du Louvre, Paris 1963, p. 94.Sulla figura di Diomede nell’arte della prima età imperiale, cfr. C.

Maderna, Juppiter, Diomedes und Merkur als Vorbilder für römische Bild-

nisstatuen, Heidelberg 1988.Per l’Enea dai tratti scimmieschi della, cfr. F. Canciani, in Lexikon

Icon. Myth. Class. I, p. 388, n. 99; Zanker, Forum Augustum cit., p. 35,nota 169.

Sull’altare funerario col gruppo di Enea, cfr. P. Nölke, in «Germa-nia», liv (1976), p. 434, tav. 47, 2.

Un’immagine riveduta della storia romana.

Sulla galleria delle celebrità nel Foro di Augusto, cfr. Degrassi,Inscriptiones e Zanker, Forum Augustum cit., la bibliografia più recenteè riportata in Schneider, p. 124.

Sul contributo di G. Giulio Igino, cfr. P. I. Schmidt, in RE, sup-

plemento, XV, 1978, s. v. «Victor Aurelius», coll. 1655 sgg. In questericostruzioni mancavano, ovviamente, gli avversari diretti di Augusto:va da sé che Bruto e Cassio, come anche Marco Antonio, erano desti-nati all’oblio.

3. «principes iuventutis».

Per la bibliografia relativa al problema della successione, cfr. Kien-ast, pp. 107 sgg.; sulle serie numismatiche, cfr. M. Fullerton, in AJA,lxxxiv (1985), pp. 473-83.

Per l’identificazione dei bambini sull’ Ara Pacis, cfr. Torelli, pp. 49sgg.; R. Syme, in AJA, lxxxviii (1984), pp. 583 sgg. J. Pollini, Gaius

und Lucius Caesar , New York 1987, ripropone la tesi già sostenuta daE. Simon secondo cui si tratterebbe di principi barbari. L’argomentodecisivo sarebbe la grandezza delle due figure: troppo piccole per l’etàdei due principi di casa imperiale (rispettivamente sette e quattroanni). Ma non si può certo dire che gli artisti dell’ Ara Pacis mirassero

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a una riproduzione fedele dei loro soggetti, e d’altra parte al sentimentopopolare non poteva dispiacere che ne venisse sottolineata proprio latenera età; cfr. S. Settis, in Katalog Berlin, pp. 414-16.

Per la bibliografia sull’altare dei Lari conservato agli Uffizi, cfr.sopra, note alla p. 333 relatativa al «Sacerdozio e status sociale».

Sulle date relative alle spedizione di Gaio contro i Parti, cfr. RE,x, 1919, col. 424, n. 134, s. v., «Gaius Julius Caesar» (Gardthausen).

Per la statua loricata di Cherchel, cfr. K. Fittschen, in JdI, xci

(1976), pp. 175-210. Il fatto che la Vittoria tenga la corona civica

dietro e non sopra la testa del vincitore è un forte argomento a favoredella sua identificazione con Gaio Cesare: il gesto è quello adeguato a

un futuro princeps, mentre sarebbe assai difficile riferirlo ad Augusto.In questo caso, poi, non è chiaro di quale vittoria potrebbe trattarsi.E d’altra parte la dea non è raffigurata sulla sphaera come la Vittoriadi Cesare Augusto sul noto denaro di C. Lentulo dell’anno 12 a. C.

Tiberio e Druso generali dell’impero.

Sulle guerre di espansione nel Nord, cfr. Kienast, pp. 293 sgg.Per la serie numismatica di Lione cfr. Kraft, Zur Münzprägung cit. pp.

235 sgg.; Giard, pp. 199 sg., n. 1366, tav. 55; H. Gabelmann,  Antike Audienz- und Tribunalszenen, Darmstadt 1984, p. 118, tav. 12, 4.

Tiberio come successore.

Sulle tazze di Boscoreale, cfr. T. Hölscher, in JdI, xcv (1980), pp.281 sgg.; J. Pollini, Studies in Augustan; «historical» reliefs (tesi di lau-rea), 1978, pp. 173-255; Gabelmann, Antike cit., pp. 127 sg.; F. Barat-te, Le trésor d’orfèvrerie romaine de Boscoreale, Paris 1986. Gabelmann

propone di datare le tazze all’età di Claudio, ma si tratta di una tesipoco convincente, basata su criteri puramente stilistici che presuppor-rebbero oltretutto l’esistenza di uno stile augusteo unitario e unosviluppo stilistico coerente. Ma le cose non stanno così: si pensi soloalla mescolanza di «stili» presente sull’ Ara Pacis. E. Künzl ritiene gius-tamente che i rilievi di Boscoreale possano riprendere il soggetto digrandi quadri storici (BJb, 1969, p. 364); ed è ovvio che lo stile dei tore-uti risulti condizionato dallo stile dei loro modelli. Anche se le tazze

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fossero state realizzate nell’età di Claudio, i modelli dovrebbero esserecomunque tardo augustei. Chi avrebbe potuto interessarsi nell’età diClaudio a episodi così circostanziati della tarda età augustea?

Il ruolo di Giove.

Sulla Gemma Augustea, cfr. H. Kähler e A. Rubeni, Dissertatio de

Gemma Augustea, Berlin 1968; Pollini, Studies, p. 173. Per la storia diquesto oggetto unico nel suo genere, cfr. W. Oberleitner, Geschnittene

Steine. Die Prunkkameen der Wiener Antikensammlung , Wien 1985, pp.40-44. Sul significato dei cammei in generale, cfr. H. Jucker, Der grosse

Pariser Kameo, in JdI, xci (1976), pp. 211-16. Megow, Kameen von

 Augustus cit. (sulla Gemma Augustea cfr. p. 155, A 1o).Sulla cosiddetta «Spada di Tiberio», cfr. S. Walker e A. Burnett,

 Augustus, London 1981, pp. 49 sgg.; Gabelmaun, Antike cit., p. 124.Per il Cammeo di Livia conservato a Vienna, cfr. F. Eichler ed E.

Kris, Die Kameen im kunsthistorischen Museum, Wien 1927, p. 57, n.9, tav. 5; Megow, Kameen von Augustus, p. 254, B 15, tav. 9.

Sulla statua colossale di Cerere Augusta proveniente dal teatro diLeptis Magna, cfr. G. Caputo e G. Traversari, Le sculture del teatro di

Leptis Magna, Roma 1976, p. 76, n. 58, tavv. 54 sg.; S. Sande, inActaAArtHist, v (1985), pp. 156 sg. Sul tipo ritrattistico della statua,cfr. Fittschen-Zanker III (1983), n. 1.

Sulla difficile situazione economica nella tarda età augustea, cfr. labibliografia in Kienast, pp. 311 sgg.

VI. Il linguaggio formale del nuovo mito

Dionysios of Halicarnossos, The critical essays I, London 1974. Cfr.U. von Wilamowitz-Moellendorf, Attizismus und Asianismus, in «Her-mes», xxxv (1900), pp. 1-52; E. Norden, Antike Kunstprosa, Leipzig-Berlin 1909; M. Fuhrmann, Einführung in die antike Dichtungstheorie,Darmstadt 1974, pp. 168 sgg. Su Dionigi di Alicarnasso e la disputaatticismo/asianesimo, cfr. il fascicolo Le Classicisme à Rome, in «Entre-tiens Fondation Hardt», xxv (1979). Per una introduzione alla pro-blematica, cfr. soprattutto i contributi di Th. Gelzer e G. Bowersock.

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Il riutilizzo degli originali classici e arcaici.

Sull’apparato decorativo del tempio di Apollo, cfr. Zanker,  Apol-

lontempel .Per il gruppo statuario riprodotto sulla Base di Sorrento cfr. G. E.

Rizzo, in BullComm, lx (1933), pp. 7-109; P. Mingazzini ed E. Pfis-ter, Forma Italiae, Firenze 1948, vol. I tomo II, p. 177, n. 16; M.Guarducci, in RM, lxxviii (1971), tavv. 64 sgg.

Sul classicismo, cfr. B. Schweitzer, Xenokrates von Athen, Königs-berg 1932; ora in Id., Zur Kunst der Antike, 1963, vol. I, pp. 105 sgg.;F. Preisshofen e P. Zanker, in «Dialoghi d’archeologia» (1970-71), pp.

100 sgg. Cfr. anche F. Preisshofen, in «Entretiens de la FondationHardt», xxv (1979), pp. 263-82; T. Hölscher, Römische Bildsprache als

 semantisches system, Heidelberg 1987.Sulla classica Amazzonomachia raffigurata nel frontone del tempio

di Apollo Sosiano, cfr. La Rocca, Amazzonomachia cit.

Il significato sacrale della forma arcaica.

Non esistono tuttora studi sufficientemente approfonditi sulle scul-ture arcaicizzanti dell’età augustea. In generale, cfr. H. Bulle, Archaisierendegriechische Rundplastik, München 1918; E. Schmidt, Archaistische Kunst in Griechenland und Rom, München 1922; L.Beschi, La Spes Castelliani, in aa.vv., Il territorio veronese in età romana,Verona 1971, pp. 219-50; M. Fullerton, Archaistic Draped Statuary in

the round of classical hellenistic and roman periods, AmArbor (Mich.)1983 (con accurata bibliografia). Sono debitore di alcune informazionipreziose a Th. Hohoff, attualmente impegnato in una dissertazionesulla scultura arcaicizzante.

Per la statua di Artemide proveniente da Pompei VIII, 2 (o 3), cfr.F. Studniczka, in RM 3 (1888), p. 277; E. Claridge e J. Ward-Perkins(a cura di), Pompei A.D. 79, Boston 1978 (catalogo della mostra), vol.II, p. 147, n. 82.

Per il sesterzio di Claudio con la Spes Augusta, cfr. Fullerton, Archais-

tic Draped , p. 295; M. E. Clark, Spes in the early imperial cult: «The hope

of Augustus», in «Numen», xxx (1983), pp. 8o-105.Per la statua di Priapo, cfr. Helbig II, n. 1699; per la testa di Pri-

apo, cfr. ibid., n. 1512.

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Sui pannelli «campani» del Palatino, cfr. G. Carettoni, in BdA(1973), pp. 75-87. Queste lastre di rivestimento risultano particolar-mente diffuse negli edifici e nelle ville imperiali (o comunque nelleabitazioni dell’alta società): cfr. in proposito S. Tortorella, Problemi di

 produzione e di iconografia, in aa.vv., L’art décoratif à Rome, Roma1979, pp. 61-110; M. J. Strazzula, in «Annali dell’Università di Pe-rugia», xx (1982-83), pp. 478 sgg.

Le implicazioni morali della forma classica.

Sul tipo figurativo dal panneggio «eroico», cfr. H. G. Niemeyer, Stu-

dien zur statuarischen Darstellung der römischen Kaiser , Berlin 1968, pp.54 sg., 101 sg.; cfr. anche la recensione di K. Fitischen, in BJb, vol.clxx (1970), p. 545. Per l’iconografia di Agrippa, cfr. il secondo vol-ume, di prossima pubblicazione, del catalogo Fittschen-Zanker, n. 16.Sui gruppi con Venere e Marte, cfr. E. Schmidt, in «Antike Plastik»,viii (1968), pp. 85 sg., tavv. 6o sgg.; Fittschen-Zanker I, n. 64. Per ilgruppo del Museo delle Terme (Inv. 108522), cfr. Helbig III, n. 2132;cfr. R. Calza, in Ostia ix (1978), Ritratti II , n. 16, tavv. 11 sg. Non sitratta di una coppia imperiale ma di due coniu-gi dell’alta società di

Ostia.

Composizioni «atticiste».

Sulla pittura classica dell’età del Partenone, cfr. i vasi del cosiddet-to «Pittore delle Niobidi» e del «Pittore Peleo» ed E. Simon, Die

 griechischen Vasen, München 1976, tavv. 190 sgg.Per le scene erotiche sulle tazze aretine, cfr. A. Greifenhagen,

Beiträge zur antiken Reliefkeramik, Heidelberg 1963; Römisches im

 Antikenmuseum, Berlin 1978 (catalogo della mostra), p. 159.Sul Vaso Portland , cfr. Simon, Die Portlandvase cit.; cfr. anche D.

E. L. Haynes, The Portland Vase, London 1975, con una rassegna delleinterpretazioni, e lo studio recente di L. Polacco, in  Alessandria e il 

mondo ellenistico-romano. Studi in onore di Achille Adriani, Roma 1984,vol. II, p. 729, con una bibliografia aggiornata. Molti interpreti nonhanno resistito alla tentazione di dare un nome preciso alle fisionomie«ideali» dei personaggi, sulla scorta della ritrattistica ufficiale idea-

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lizzante. Nella ricerca disperata della giusta interpretazione Polaccoarriva al punto di vedere un berretto orientale sotto la figura dellacosiddetta «Arianna». La storia delle interpretazioni del Vaso Portland 

meriterebbe comunque uno studio a sé.

Il valore simbolico della Citazione.

Sul tempio augusteo della Maison Carrée di Nîmes, cfr. Gros, Aurea

Templa; H. von Hesberg, in «Göttinger Gel. Anz.», ccxxxiii (1981),pp. 218-37; cfr. anche R. Amy e P. Gros, La Maison Carrée de Nîmes,Paris, p. 38.

Per le citazioni nell’apparato ornamentale del Foro di Augusto cfr.E. E. Schmidt, Die Kopien der Erechteionkoren, in «Antike Plastik»,xiii (1973); B. Wesenberg, in JdI, xcix (1984), pp. 172 sgg.; V. Kock-el, in RM, xc (1983), pp. 421-48; Schneider, pp. 103 sgg.

Sul cornicione del tempio della Concordia, cfr. Gasparri,  Aedes

Concordiae cit. Per la scelta sempre diversa degli elementi ornamentalida utilizzare nel fregio e nella trabeazione si confrontino il tempio diMarte Ultore (Kockel cit.) e il tempio dei Dioscuri (D. Strong e J. B.Ward Perkins, in BSR, vii (1962), pp. 1 sg.). Nel tempio dei Dioscuri

compaiono gli stessi motivi ornamentali, ma la loro disposizione è com-pletamente diversa. Le fasce decorative erano evidentemente inter-cambiabili, mentre la fila di ovoli poteva coronare anche il fregio bac-cellato! A differenza del tempio della Concordia, nel tempio deiDioscuri la sima è decorata solo con gronde a testa di leone, che sonoa loro volta citazioni classiche. La tesi di un lento consolidarsi delcanone formale nella media e tarda età augustea vale senza dubbio perl’ordine corinzio all’esterno del tempio, ma non per l’apparato orna-

mentale nel suo insieme e per le sue modalità di impiego.Sui candelabri marmorei, cfr. Cain, Römische Marmorkandelaber 

cit.; P. Zanker, in «Entretiens de la Fondation Hardt», xxv (1979),pp. 283-306.

Per il «purismo» delle copie augustee, cfr. H. Lauter, Zur Chronolo-

 gie römischer Kopien nach Originalen des V. Jh. v. Chr., Bonn 1969. Cfr.anche P. Zanker, Klassizistische Statuen, Mainz 1974.

Su Atene, cfr. il panorama bibliografico offerto da D. J. Geagan, inANRW, 117, I (1979), pp. 378 sgg. e anche H. Thompson, The Odeion

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in the Athenian Agora, in «Hesperia», xix (1959), pp. 31-141; J. Trav-los, Bildlexikon zur Topographie des antiken Athens, Tübingen 1971, p.366 (che riporta anche le sfingi del pulpitum alle figg. 485-87).

Sul tempio di Ares, cfr. H. Thompson, in «Agora», xiv (1972), p. 16o;T. L. Shear jr, in AJA, l (1981), p. 362. Sulla ricostruzione dei vecchisantuari, cfr. C. P. Jones, in «Phoenix», xxxii (1978), pp. 222 sgg.

VII. Le nuove immagini e la Vita privata

Moda e lealismo.

Per quanto riguarda i ritratti dei personaggi della casa imperialeesposti nell’atrium delle abitazioni private, uno dei primi esempi è ilritratto di Marcello proveniente dalla Casa del Citarista di Pompei: cfr.Fittschen-Zanker I, n. 19 e inoltre Neudekker, Die Skulpturenausstat-

tung cit.Sulle pietre intagliate, cfr. M. L. Vollenweider, Die Steinschnei-

dekunst und ihre Künstler in spätrepublikanischer und augusteischer Zeit ,Baden Baden 1966. Sulle paste vitree con ritratti augustei stanno lavo-rando attualmente C. Maderna e R. M. Schneider sotto la guida di T.

Hölscher. Cfr. intanto i volumi della serie Antike Gemmen in deutschenSammlungen, 1968 sgg. (con ulteriore bibliografia).

Per le gemme intagliate, cfr. P. Zazoff, Die antiken Gemmen,

München 1983; E. Zwierlein-Diehl, in «Kölner Jahrbücher für Vor-und Frühgeschichte», xvii (1980), pp. 12-53. Cfr. anche in questo vol-ume la bibliografia alla p. 245.

Sull’argenteria augustea, cfr. Pernice e Winter, Der Hildesheimer 

Siberfund cit.; Gehrig, Hildesheimer Silberfund cit. Sull’argenteria

augustea in generale cfr. D. E. Strong, Greek and Roman Silver Plate,London 1966; E. Kunzl, in BJb, clxix (1969), pp. 321 sgg.; Id., in«Jahrbuch des Römisch-Germanischen Zeutral museums Mainz», xxii

(1975), pp. 62 sgg.; C. C. Vermeule, Augustan and Julo-claudian Court 

Silver, in «Antike Kunst», vi (1963), pp. 33 sgg. In questo contestoandrebbero considerate anche quelle composizioni che stabiliscono unrapporto «giocoso» con l’iconografica politica. L’esempio migliore sonole tazze Hoby al Museo Nazionale di Copenaghen, su cui cfr. Gabel-mann, Antike cit., p. 142.

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Una rassegna bibliografica sulle terracotte aretine si trova in  M.

Perennius Bargathes, Arezzo 1954, pp. 29 sg. (catalogo della mostra alMuseo Archeologico di Arezzo). Sui modelli in argento delle prime ter-racotte aretine, cfr. E. Ettlinger, in aa.vv., Gestalt und Geschichte.

Festschrift K. Schefold , Basel 1967, pp. 116 sg.; J. P. Morel, Das Handw-

erk in augusteischer Zeit , Katalog Berlin, pp. 81-92.Per le lucerne di terracotta, cfr., Leibundgut, Die römischen Lamp-

en cit.Per i mobili e le suppellettili, cfr. V. Spinazzola, Le arti decorative

in Pompei, 1928; Claridge e Ward-Perkins (a cura di), Pompei A. D. 79

cit.; S. Adamo Muscettola, Le ciste di piombo decorate, in aa.vv., La

regione sotterrata dal Vesuvio, Napoli 1982, pp. 701-34.

Gusto e mentalità.

Sulle pitture del «secondo stile», cfr. la bibliografia alla p. 322. Sulnuovo stile augusteo nell’ambito della pittura parietale, cfr. F. L.Bastet e M. de Vos, Il terzo stile pompeiano, Roma-Rijkswijk 1979. Leserie «evolutive» proposte nel volume di Bastet e de Vos sono stategiustamente criticate: si tratta in effetti di una costruzione artificiosa,

che non tiene conto delle condizioni oggettive della pratica artistica:cfr. W. Ehrhardt, Stilgeschichtliche Untersuchungen an römischen Wand-

malereien, Mainz 1987.Uno studio recente che dedica un certo interesse alla rappresen-

tazione dello spazio nella pittura su parete è quello di Barbet, La pein-

ture murale cit. Cfr. anche Leach, Patrons, Painters cit.Sulla critica di Vitruvio, cfr. lo studio recente di H. Knell, Vitruvs

 Architekturtheorie, Darmstadt 1985, pp. 161 sgg.

Proiezioni bucoliche.

Cfr. N. Himmelmann, Über Hirten-Genre in der antiken Kunst , in«Abhandlungen der Rhein-westfälischen Akademie der Wis-senschaften», lxv (1980), p. 113; H. P. Laubscher, Fischer und 

Landleute, Mainz 1982; H. von Hesberg, in «Münchner Jahrbucher»,xxxvii (1986), pp. 7-32.

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Mentalità e autorappresentazione.

Sui monumenti funerari, cfr. la bibliografia alle pp. 319 sgg.

La bibliografia relativa agli esempi citati si trova ora in Eisner, Zur Typologie cit.; cfr. anche Hesberg e Zanker (a cura di), Römische

Graberstrassen cit.Cfr. W. Eck, Senatorial Self Representation. Developments in the

 Augustan Period , in Millar e Segall (a cura di), Caesar Augustus cit., pp.129-67.

Per un esempio di sepoltura famigliare, cfr. D. Boschung, Über-

legungen zum Liciniergrab, in JdI, ci (1986), pp. 257 sgg.; Nash II, p.374.

VIII. La diffusione del mito imperiale

La reazione dei Greci.

Il brano di Nicola di Damasco è ripreso da F. Jacoby (a cura di), Die

Fragmente der griechischen Historiker , Berlin 1926, vol. II A, nn. 90,125. Cfr. G. Bowersock, Augustus in the Greek World , Oxford 1965.

Sul culto imperiale in Oriente, cfr. ora la stimolante monografia diS. R. F. Price, Rituals and Power. The Romam Imperial Cult in Asia

 Minor , Cambridge 1984, a cui rimandiamo anche per la bibliografia.Cfr. anche i saggi di F. Millar e G. Bowersock in Millar e Segall (a curadi), Caesar Augustus cit. Per un’ulteriore bibliografia, cfr. anche Kien-ast. Sul culto ellenistico del sovrano, cfr. Ch. Habicht, Göttmen-

 schentum und griechische Städte, 1970.Per le testimonianze archeologiche, cfr. l’elenco di monumenti ripor-

tato in C. Vermeule, Roman Imperial Art in Greece and Asia Minor ,Cambridge (Mass.) 1968.

Sull’ubicazione dei templi dedicati al culto imperiale in Oriente ein Occidente, cfr. H. Hänlein-Schäfer, Veneratio Augusti. Studien zu den

Templen des ersten römischen Kaisers, Roma 1985, pp. 23 sgg.Su Efeso, cfr. W. Jobst, in IstMitt, xxx (1980), pp. 241 sgg.I ritratti dell’Asia Minore sono raccolti in J. Inan ed E. Rosenbaum,

Roman and Early Byzantine Portrait Sculpture in Asia Minor , London

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Sul tempio della Fortuna Augusta a Pompei, e più in generale suiluoghi di culto legati alla figura di Augusto, cfr. Hänlein-Schäfer, Ven-

eratio Augusti cit.

Sui cantieri itineranti, approntati per la costruzione dei nuovi edi-fici, è ricca di informazioni la dissertazione ancora inedita di H. Hein-rich (München 1985).

Le élites urbane e il programma augusteo.

Sul culto augusteo istituito a Tivoli da M. Varenus, cfr. C. F. Giu-liani, Tibur I. Forma Italiae I, 7 , Roma 1970, pp. 62 sgg., 67. Per la stat-

ua cfr. R. Paribe-ni, in NSc (1925), pp. 249 sg., fig. 7; A. Dahn, Zur Ikonographie und Bedeutung einiger Typen der römischen männlichen Por-

tratsstatuen (tesi di laurea), Marburg 1973, pp. 5 sgg., 64 sg.Sulla tipologia delle statue di Leptis Magna, cfr. Niemeyer, Studien

zur statuarischen Darstellung cit., pp. 104 sg., in particolare nn. 89 sg.

Sugli Augustales e collegi affini, cfr. K. Latte, Römische Religion,München 1960, p. 307 (con bibliografia); P. Kneissl, in «Chiron», x(1980), pp. 291 sgg.; Kienast, p. 209; cfr. anche la rassegna critica di

R. Duthoy, in ANRW, II 16,2 (1978), pp. 1254-309.Sulla gens Holconia, cfr. J. d’Arms, Pompei and Rome in the Augus-

tan Age and Beyond: the Eminence of the Gens Holconia, di prossimapubblicazione in aa.vv., Festschrift für F. Jashemski.

Sulle magistrature sacerdotali, cfr. D. Ladage, Städtliche Priester und 

Kultämter im lateinischen Westen in der römischen Kaiserzeit , Diss. Köln1971. Cfr. D. Fishwich, The Imperial Cult in the Latin West , vol. I,Leida 1987; Id., in MM, xxiii (1982), pp. 222-33.

Sulle statue onorarie di personaggi dell’alta società, cfr. Zanker1983, pp. 251-66.

Marmo e autocoscienza.

Cfr. in generale E. Gabba, Italia Augusta, in  Mélanges Carcopino,Paris 1966, pp. 917-26; Id., in Zanker (a cura di), Hellenismus in Mit-

telitalien cit., pp. 315-26. Cfr. la bibliografia in Kienast, pp. 344 sgg.Sull’architettura teatrale, cfr. G. Bejor, L’edificio teatrale

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