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1 XXVIII Convegno SISP Università di Perugia, 11 - 13 settembre 2014 Sezioni e Panels 12. POLITICA E POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA, M. Brunazzo e F. Biondo - Crisi economica e legittimazione dell’ UE (I), Chair: Valeria Fargion L'Europeizzazione dell'elite politica italiana ai tempi della crisi Giulia Vicentini, Ph.D. PhD in Comparative and European Politics Università degli Studi di Siena CIRCaP: Centre for the Study of Political Change Dipartimento di Scienze Sociali, Politiche e della Comunicazione Via Mattioli 10, 53100 Siena Abstract: Negli ultimi anni, complice la grave crisi economica che ha assalito l’Eurozona, il processo di integrazione europea è stato seriamente messo in discussione da una parte non marginale di opinione pubblica e da di verse forze politiche sempre più rilevanti all’interno dei rispettivi stati membri. Diversi analisi hanno dimostrato una crescente sfiducia popolare nelle istituzioni comunitarie, ma anche a livello di elite, politica e non solo, gli “euro-entusiasti” sono in continua diminuzione. Già gli ultimi dati IntUne avevano suggerito che dal 2007 al 2009 il convinto europeismo della classe politica italiana era andato scemando, sebbene gli euroscettici tout-court, Lega Nord in primis, rappresentassero ancora una netta minoranza. Il perdurare della crisi, ma soprattutto l’irrompere sulla scena politica italiana di una forza completamente nuova e tendenzialmente euroscettica come il Movimento Cinque Stelle, potrebbero però aver ridisegnato significativamente il panorama. A tal proposito il paper ha l’obiettivo di analizzare la propensione dei deputati italiani della diciassettesima legislatura nei confronti dell’Unione Europea, attraverso i dati raccolti nei mesi a cavallo delle elezioni europee del 25 maggio 2014 dal progetto comparato ENEC (European National Elites and the Crisis), elite survey basato su un campione rappresentativo di 80 deputati, divisi per genere, numero di legislature e gruppo parlamentare di appartenenza. Ciò permetterà di indagare la natura multidimensionale dell’Europeizzazione guardando al rapporto tra elite politica nazionale e identità europea, al grado di attaccamento ai diversi livelli di governace (locale/regionale, nazionale, Europeo), alla volontà o meno di cedere ulteriore sovranità alle istituzioni europee ed allocare all’Unione un numero crescente di competenze di policy.

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XXVIII Convegno SISP

Università di Perugia, 11 - 13 settembre 2014

Sezioni e Panels

12. POLITICA E POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA, M. Brunazzo e F. Biondo

- Crisi economica e legittimazione dell’UE (I), Chair: Valeria Fargion

L'Europeizzazione dell'elite politica italiana ai tempi della crisi

Giulia Vicentini, Ph.D.

PhD in Comparative and European Politics Università degli Studi di Siena

CIRCaP: Centre for the Study of Political Change Dipartimento di Scienze Sociali, Politiche e della Comunicazione Via Mattioli 10, 53100 Siena

Abstract:

Negli ultimi anni, complice la grave crisi economica che ha assalito l’Eurozona, il processo di

integrazione europea è stato seriamente messo in discussione da una parte non marginale di

opinione pubblica e da diverse forze politiche sempre più rilevanti all’interno dei rispettivi stati

membri. Diversi analisi hanno dimostrato una crescente sfiducia popolare nelle istituzioni

comunitarie, ma anche a livello di elite, politica e non solo, gli “euro-entusiasti” sono in

continua diminuzione. Già gli ultimi dati IntUne avevano suggerito che dal 2007 al 2009 il

convinto europeismo della classe politica italiana era andato scemando, sebbene gli

euroscettici tout-court, Lega Nord in primis, rappresentassero ancora una netta minoranza. Il

perdurare della crisi, ma soprattutto l’irrompere sulla scena politica italiana di una forza

completamente nuova e tendenzialmente euroscettica come il Movimento Cinque Stelle,

potrebbero però aver ridisegnato significativamente il panorama. A tal proposito il paper ha

l’obiettivo di analizzare la propensione dei deputati italiani della diciassettesima legislatura nei

confronti dell’Unione Europea, attraverso i dati raccolti nei mesi a cavallo delle elezioni europee

del 25 maggio 2014 dal progetto comparato ENEC (European National Elites and the Crisis),

elite survey basato su un campione rappresentativo di 80 deputati, divisi per genere, numero

di legislature e gruppo parlamentare di appartenenza. Ciò permetterà di indagare la natura

multidimensionale dell’Europeizzazione guardando al rapporto tra elite politica nazionale e

identità europea, al grado di attaccamento ai diversi livelli di governace (locale/regionale,

nazionale, Europeo), alla volontà o meno di cedere ulteriore sovranità alle istituzioni europee

ed allocare all’Unione un numero crescente di competenze di policy.

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1. Gli italiani e l'Europa: stato della ricerca

Secondo gli studiosi il processo di integrazione europea è stato principalmente elite

driven, cioè a dire promosso dalle diverse elite nazionali senza bisogno di input provenienti

dalla cittadinanza, che comunque non vi si opponeva (Haas 1958, Cotta e Isernia 2012). Di

conseguenza anche nel nostro paese, fin dal dopoguerra, le elite (politiche ma anche

economiche e sociali) hanno avuto un ruolo rilevante nel costruire consenso attorno al progetto

di costruzione della futura Unione, che non a caso in Italia ha potuto contare per moltissimi

anni su un’opinione pubblica tra le più favorevoli.

In realtà questo consenso diffuso si è sviluppato in modo progressivo. Inizialmente il

tema europeo divideva le forze politiche italiane su basi ideologiche, riflettendo innanzitutto la

distinzione tra capitalismo e comunismo e la collocazione internazionale del nostro paese. Per

questo in una prima fase (anni '50 e '60) la nascita della Comunità Economica Europea è stata

sostenuta sopratutto dai partiti della maggioranza democristiana e centrista, mentre le sinistre

e le destre (molto più marginali) erano tendenzialmente contrarie. Nella seconda fase però, tra

gli anni '70 e il 1992, anno del Trattato di Maastricht, il sostegno per l’Europa unita ha

progressivamente coinvolto anche i socialisti (negli anni ’70) e i comunisti (nel decennio

successivo), sviluppando un consenso quasi unanime a livello di elite finalmente sostenuto da

un'altrettanto forte europeismo che arriva a radicarsi anche e sopratutto nell'opinione pubblica

(Isernia e Ammendola 2005). L'Europa rappresenta ormai il nuovo modello di

modernizzazione, motivo per cui un sostegno di tipo ideale e di principio si sovrappone

facilmente ad un sostegno fondato su basi più prettamente utilitaristiche, spingendo Cotta

(2005, p. 385) a parlare di “depoliticizzazione del tema”.

Gli sviluppi ma anche i fallimenti dell’ultimo ventennio – dal trattato di Schengen alla

moneta unica, dall’allargamento ai paesi dell’Est alla bocciatura della Carta Costituzionale –

hanno però messo a dura prova questo consenso diffuso, nel nostro paese come nel resto del

Continente (Verzichelli e De Giorgi 2012). Di conseguenza nella cosiddetta terza fase il tema

europeo si ri-politicizza – ponendo la dialettica tra UE come strumento di regolazione del

capitale o di liberalizzazione del mercato, ma anche il concetto di Europa delle banche

contrapposto ad un’idea di Europa sociale - mentre a livello di popolo si diffonde un crescente

scetticismo testimoniato tra l'altro da un'affluenza in diminuzione alle elezioni europee.

Uno scenario parzialmente ribaltato rispetto alla prima fase porta i partiti di centro-

sinistra della seconda Repubblica a diventare rapidamente i gruppi più europeisti all’interno del

sistema politico italiano, mentre nel centro-destra cominciano a delinearsi spaccature e

distinguo, per quanto sfumati (Conti e Verzichelli 2005; Roux e Verzichelli 2010). Ciò è in linea

con quanto avviene negli altri paesi europei, dal momento che diverse ricerche hanno già

dimostrato come la variabile ideologica sia tornata a rappresentare una discriminante

importante per quanto riguarda gli atteggiamenti delle forze politiche nei confronti dell’UE, con

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i partiti di centro-sinistra generalmente più europeisti di quelli di centro-destra, almeno a

partire dagli anni ’90 (Marks et al. 1999; Ladrech 2000; Tsebelis e Garrett 2000; Gabel e Hix

2004; Marks e Steenbergen 2004, Verzichelli e De Giorgi 2012). In realtà però, nel nostro

paese come nella maggioranza degli altri stati UE, il consenso per l’integrazione europea tende

a diminuire via via che ci si sposta verso i due poli più estremi del continuum destra-sinistra

(Conti e De Giorgi 2011). Non a caso partiti collocabili all’estrema sinistra quali Rifondazione

Comunista sono da sempre stati caratterizzati da un certo grado di euroscetticismo nei

confronti di un’Unione Europea baluardo del capitalismo e della distruzione del welfare state,

mentre sull’altro fronte l’opposizione più forte al processo di integrazione veniva dalla Lega

Nord, che pure era stata inizialmente europeista in un ottica di indebolimento degli stati

nazionali a vantaggio delle realtà locali.

Tutti questi elementi hanno portato a parlare, già un decennio fa, di “europeismo

disincantato” (Cotta 2005, p. 385): politici, forze sociali ed opinione pubblica abbandonano il

mito dell'Europa unita come soluzione di tutti i mali ma l'opposizione aperta all'UE rimane un

fenomeno sostanzialmente marginale. Dopo quel momento però l'UE si è trovata ad affrontare

una sfida ancora più delicata rispetto a quelle del passato: la crisi economica mondiale.

Secondo molti osservatori la reazione di Bruxelles è stata timida, tardiva ed inadeguata in

quanto basata su parametri economici superati ed inefficaci all’interno di un contesto globale

tanto mutato. Di conseguenza, dal 2008 in poi, il processo di integrazione – in Italia e in quasi

tutti gli altri stati membri – sembra essere stato messo in discussione in modo più profondo

che nel passato da una parte abbastanza estesa di opinione pubblica e da diverse forze

politiche sempre più rilevanti all’interno dei rispettivi paesi.

Una prima ricognizione scientifica degli effetti della crisi viene fornita dal progetto

IntUne (Integrated and United. A Quest for Citizenship in an Ever Closer Europe), che tra il

2007 e il 2009 promuove un’analisi approfondita delle tematiche europee in 15 paesi membri

(più Turchia e Serbia), intervistando circa 30.000 cittadini europei e 3500 membri delle elite

politiche, sociali ed economiche. Il persistere della crisi e i mutamenti a livello europeo e

globale potrebbero però aver significativamente mutato le conclusioni a cui i dati IntUne

avevano condotto appena cinque anni fa. Proprio per questo si è resa necessaria una nuova

ondata di ricerche che potesse integrare ed aggiornare i dati a nostra disposizione, partendo in

primo luogo dalle percezioni di un attore fondamentale all’interno del processo di integrazione:

l’elite politica. A tal proposito quest’anno, in Italia e in diversi altri paesi membri, è stato

avviato il progetto di ricerca “European National Elite and the Crisis” (ENEC). Questo paper ha

quindi l’obiettivo di presentare un’analisi preliminare di questi nuovi dati nel contesto italiano, i

quali riportano le visioni e gli atteggiamenti nei confronti dell’UE sviluppati dai deputati della

diciassettesima legislatura e le loro diverse percezioni della realtà europea.

L’analisi dei dati sarà presentata attraverso quattro sotto-paragrafi distinti ma tra loro

strettamente interconnessi: in primo luogo si guarderà ai concetti di identità europea ed

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attaccamento ai diversi livelli di governace (locale/regionale, nazionale, Europeo). In secondo

luogo ci soffermeremo sullo scopo della governance europea dal punto di vista dell’allocazione

di competenze di policy. Il terzo sotto-paragrafo sarà invece dedicato al giudizio complessivo

dei parlamentari italiani rispetto alla scelta europeista e alla volontà di portarla avanti o

tornare indietro. Per finire si analizzeranno le risposte ai quesiti relativi al futuro dell’UE, al fine

di comprendere fino a che punto le elite politiche italiane siano disposte a cedere ulteriore

sovranità e competenze alle istituzioni europee, e fino a che punto nutrano aspettative positive

o negative riguardo agli sviluppi decennali del processo di integrazione. Il paragrafo conclusivo

cercherà di tirare le fila di quanto esposto in precedenza soprattutto in merito alla posizione

complessiva dei singoli partiti, al fine di misurarne il livello di europeismo secondo una

prospettiva sia diacronica che sincronica.

2. Il dataset

Come già precedentemente segnalato, i dati qui presentati sono stati raccolti sotto

l'egida del progetto comparato “European National Elites and the Crisis” (ENEC), curato a

livello italiano dalle Università di Siena e Unitelma-Sapienza di Roma. In Italia l'elite survey è

stato condotto dal gennaio al giugno 2014, mentre in diversi altri paesi europei la ricerca è

ancora in corso. Al fine di adeguare il campione a quello degli altri paesi membri in cui

l'indagine è stata o sarà portata avanti – quasi tutti caratterizzati da parlamenti monocamerali

o bicamerali con un’unica camera elettiva – è stato necessario limitare l'analisi ai soli membri

della Camera bassa (cioè la nostra Camera dei deputati), con un campione composto da un

totale di 80 parlamentari eletti (circa l’8% dei 630 componenti).

Il campione è stato selezionato sulla base di tre criteri distintivi: party membership

(vedi tabella 1), genere e seniority (cioè a dire numero di legislature). Com’è noto, grazie

soprattutto all’emergere di nuovi partiti quali il M5S e Scelta Civica, ma anche all’impegno di

partiti preesistenti come PD e SEL, il Parlamento eletto nel febbraio 2013 si è caratterizzato

per un numero assolutamente inedito di donne elette (30,2) e un bassissimo tasso di

riconferma per i parlamentari uscenti (35,6). Per questo il nostro campione prevedeva una

percentuale di donne compreso tra il 30 e il 40% (alla fine le donne intervistate sono state il

38,7%), mentre la percentuale di newcomers intervistati coincide quasi perfettamente con

quella reale (63,4% contro 64,4%).

Quasi una settantina di interviste sono state svolte telefonicamente (un paio anche face

to face) e le restanti 10 sono state raccolte attraverso questionari autosomministrati. Viste le

difficoltà nel raggiungere la quota di interviste stabilite entro i termini prefissati, soprattutto a

causa dell’indisponibilità di alcuni gruppi politici, il lavoro è stato portato a termine includendo

nel campione anche un numero molto limitato di senatori (1: LN; 3: PDL; 1: PD). In un

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contesto di bicameralismo perfetto in cui Camera e Senato hanno poteri simmetrici e più o

meno stessa base rappresentativa (almeno fino alla completa applicazione del disegno Boschi

di riforma costituzionale), la scelta non è stata ritenuta lesiva della rappresentatività del

campione.

Tab. 1 - Numero di deputati eletti e numero di intervistati per gruppo parlamentare

Partito Numero di deputati eletti

Deputati intervistati Percentuale

Movimento Cinque Stelle (M5S) 109 15 17,3 Sinistra, ecologia e libertà (SEL) 37 5 5,9 Partito democratico (PD) 297 35 47,1 Scelta Civica (SC) + Per l’Italia (PI) + UDC 47 7 7,4 Fratelli d’Italia (Fr.IT) 9 1 1,4 Popolo della Libertà (PDL: FI + NCD) 98 12 15,6 Lega Nord (LN) 18 3 2,9 Gruppo misto 15 2 2,4 Totale 630 80 100

3. L’evoluzione del rapporto tra elite politica italiana e UE dal 2007 a oggi

3.1 L’identità europea

L’identità è un elemento importante del concetto di cittadinanza e si lega al senso si

appartenenza di un individuo ad una comunità. In questo senso, per comprendere quanto la

cittadinanza europea abbia valore agli occhi dei nostri parlamentari, è utile sapere quanto essi

si sentano legati all’Unione piuttosto che allo stato nazionale o al contesto locale. Altrettanto

importante è indagare il grado di legittimità che rivestono le diverse istituzioni europee agli

occhi dei nostri parlamentari.

La prima cosa da sottolineare è che, sia a livello di popolo che a livello di elite, sentirsi

“europei” non ha mai significato non sentirsi “italiani” (o francesi, spagnoli ecc.) o “siciliani,

toscani, lombardi”. Già di per sé il concetto di cittadinanza ha inevitabilmente un carattere

multidimensionale (Cotta e Isernia 2009), ma questo è ancora più vero se si guarda

specificamente alla cittadinanza europea. In effetti i dati IntUne del 2007-2009 e i dati ENEC

del 2014, presentati graficamente nella figura 1, mostrano un grado significativo di

attaccamento a tutti e tre i livelli. Se fino al 2009 l’attaccamento allo stato nazionale risultava

prevalente tra i parlamentari italiani (il 94% degli intervistati si dichiarava “molto” o

“abbastanza” legato), nel 2014 tale percentuale cresce di circa tre punti e mezzo ma viene

sorprendentemente superata dall’attaccamento al livello regionale, che cresce di quasi dieci

punti (solo un parlamentare del Nuovo Centro Destra si dichiara poco attaccato alla propria

regione). Il dato è sicuramente interessante, e fa pensare che fino ad alcuni anni prima diversi

parlamentari, soprattutto a sinistra, avessero remore nel dichiarare il proprio attaccamento alla

regione di appartenenza poiché questo poteva essere considerato una sorta di prerogativa

leghista.

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Ciò che qui interessa è però l’attaccamento al livello europeo: sorprendentemente

anche da questo punto di vista il dato del 2014 cresce rispetto alle rilevazioni precedenti.

Come mostra la figura, tra il 2007 e il 2009 l’attaccamento all’Europa diminuisce di circa sei

punti, passando dal 92,7 al 86,5%. Nel 2014 si risale fino al 91,2%, dato sicuramente inferiore

rispetto a quello relativo agli altri due livelli, ma pur sempre incredibilmente alto se si pensa al

presunto montare di euroscetticismo che pare aver investito il nostro paese negli ultimi anni.

In effetti la tabella 2 dimostra che anche i parlamentari appartenenti ai partiti considerati più

euroscettici si sentono in qualche modo legati all’Europa: due leghisti su tre si dichiarano

“abbastanza attaccati”, così come la stragrande maggioranza degli esponenti del Movimento

Cinque Stelle (67%). Da questo punto di vista i parlamentari grillini risultano addirittura più

europeisti di quelli appartenenti a Forza Italia, dal momento che nessun forzista si dichiara

“molto attaccato”, mentre il numero di “non attaccati” raggiunge il 29% (contro il 20%

grillino).

Fig.1 – Il grado di attaccamento ai diversi livelli di governance

Tab.2 - Il grado di attaccamento dei partiti

In che mi misura si sente legato a:* Quanto ha fiducia in:** Regione (%) Stato (%) UE (%) Parlamento Commissione Consiglio

FI 57 + 43 86 + 14 0 + 71 5,6 5,3 5,9 NCD 80 + 0 80 + 20 40 + 60 5,4 5,0 5,0 FdI 100 + 0 100 + 0 0 + 100 7,0 5,0 4,0 Lega 100 + 0 0 + 33 0 + 67 5,7 2,7 2,7 M5S 80 + 20 73 + 27 13 + 67 5,0 3,7 3,8 SC 57 + 43 86 +14 86 + 14 7,0 7,3 7,0 PD 77 + 23 83 + 17 77 + 23 7,6 6,9 6,3 SEL 20 + 80 40 + 60 60 + 40 4,8 3,6 3,4 Misto 100 + 0 100 + 0 50 + 0 4,0 4,0 4,0 Totale 75 + 23 72 + 26 36 + 49 6,4 5,6 5,3

* La percentuale si riferisce alla somma di coloro che si dichiarano “molto” o “abbastanza” legati.

** I numeri riportati si riferiscono al valore medio assegnato alle tre istituzioni dai componenti di ciascun partito su una scala da 0 a 10.

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Il concetto di identità europea non si sostanzia unicamente nel grado di affezione nei

confronti dell’Europa rispetto agli altri livelli di governo, ma si misura anche in base al livello di

fiducia nei confronti delle principali istituzioni dell’UE. D’altra parte sentirsi attaccati all’Europa

non significa necessariamente sentirsi legati all’Unione Europea, soprattutto a ciò che l’Unione

Europea oggi rappresenta. Ciò è immediatamente chiaro se si guarda ai dati 2014 relativi alla

fiducia dei parlamentari italiani nella Commissione europea, nel Parlamento europeo e nel

Consiglio dei Ministri dell’Unione.

Nel periodo 2007-2009 la diminuzione relativa all’attaccamento all’Europa non si riflette

in un simile calo per quanto riguarda la fiducia nelle istituzioni europee. Al contrario, la fiducia

delle elite politiche italiane cresce di circa mezzo punto per tutte e tre le istituzioni, pur

rimanendo ben al di sotto del livello di attaccamento. Parlamento, Commissione e Consiglio

ottengono infatti voti di poco superiori alla sufficienza (il questionario chiedeva: utilizzando la

scala da 0 a 10, mi dica per favore in che misura lei ha fiducia nel fatto che le seguenti

istituzioni prendano in genere le decisioni giuste). Nel 2014 però il giudizio su Commissione e

Consiglio scende di nuovo sotto la sufficienza, mentre la fiducia nel Parlamento Europeo

rimane stabile. Ciò suggerisce una forte insoddisfazione e sfiducia nei confronti delle istituzioni

europee non dipendenti da logiche democratiche, mentre non sembra rilevante la distinzione

tra istituzioni intergovernative (Consiglio) e non (Commissione e PE). Insomma, il fatto che il

Consiglio rappresenti direttamente gli Stati mentre la Commissione appaia sostanzialmente

slegata dagli interessi nazionali non basta agli euroscettici per preferire la prima alla seconda,

suggerendo una critica generica delle istituzioni europee non elette democraticamente che

prescinde dalla loro funzione e composizione.

D’altra parte questo calo di fiducia è dovuto al fatto che i giudizi sufficienti e positivi

sono rimasti più o meno gli stessi rispetto al 2007-2009, mentre è aumentato

significativamente il numero degli “arrabbiati” rispetto ai critici più moderati. Infatti circa un

quarto dei parlamentari “insoddisfatti” per l'attività svolta da Commissione e Consiglio non si è

limitato ad un voto mediocre (5), ma ha indicato valori compresi tra 0 e 4. Da questo punto di

vista i parlamentari di SEL si rivelano addirittura più critici rispetto ai leghisti e ai rappresentati

del M5S: due dei cinque intervistati appartenenti al partito guidato da Nichi Vendola assegnano

infatti un voto pari a zero a tutte e tre le istituzioni citate, mentre altri due danno un voto alto

al Parlamento Europeo ma assegnano un'insufficienza a Commissione e Consiglio. Ne risulta un

voto medio ampiamente sotto la sufficienza per tutte e tre le istituzioni. Lo stesso vale per i

parlamentari del M5S, che però si dimostrano leggermente più “indulgenti”. Il centro-destra (FI

e NCD) esprime invece un’insufficienza lieve, mentre i leghisti assegnano un voto leggermente

più alto al PE (ma comunque sotto la sufficienza) ma “stroncano” Commissione e Consiglio con

voti inferiori al 3. PD e Scelta Civica sono gli unici a “salvare” tutte e tre le istituzioni: il PD

assegna un voto medio superiore ai sette punti e mezzo al PE ma una valutazione inferiore alle

altre due istituzioni, mentre Scelta Civica invece premia soprattutto la Commissione.

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3.2 Perché l’Europa?

Appurato il forte attaccamento dei deputati italiani al concetto di identità europea, ed

appurata anche la fiducia solo parziale nei confronti delle principali istituzioni UE, viene da

chiedersi che cosa i nostri parlamentari si aspettano dall’Europa, quali dovrebbero essere

secondo loro gli obiettivi da perseguire e le eventuali ulteriori competenze da assegnare alle

istituzioni comunitarie.

La prima questione da sottolineare è che la maggioranza assoluta (56,3%) dei deputati

intervistati punta ad un’Europa del welfare, che garantisca protezione sociale a tutti i suoi

cittadini, contro un misero 13,7% che dichiara che l’obiettivo principale dell’UE dovrebbe

essere quello di rendere l’economia europea più competitiva sui mercati internazionali, mentre

il 28,8% cita entrambi gli obiettivi. Questo dato è interessante perché fino ad oggi la

competitività economica è apparso l’obiettivo principe dell’Unione, che invece non si è mai

interessata di politiche di welfare che sono ancora totalmente lasciate nelle mani dei governi

nazionali. Altrettanto interessante è il fatto che anche quasi l’intero centro-destra,

storicamente più attento alla cura del libero mercato piuttosto che alle politiche sociali, si

esprima a favore di un’Europa sociale contro l’Europa della concorrenza (solo un forzista e due

esponenti dell’NCD sostengono che obiettivo dell’UE dovrebbe essere la competitività

economica). Questo forse tradisce, più che un’improvvisa rivalutazione del welfare state, la

volontà del centro-destra italiano di scaricare sull’UE il peso delle politiche sociali che non si

vogliono più sostenere a livello nazionale. Gli unici che invece restano fedeli al modello europeo

della competizione economica sono i montiani, dal momento che il 66,7% opta per la seconda

opzione (escludendo dal conteggio un parlamentare eletto con Scelta Civica ma proveniente

dalle file dell’UDC e quindi sostenitore di un’idea di Europa sociale in linea con la sua

ispirazione cristiano-democratica).

Un altro punto da mettere in luce è il consenso ampiamente maggioritario (68,8%) per

l’istituzione di un esercito unico europeo in sostituzione dei vari eserciti nazionali. Il 13,7 è

invece favorevole a mantenere entrambi mentre solo l’8,8% preferisce continuare ad utilizzare

esclusivamente gli eserciti nazionali. Tra questi il gruppo maggioritario (40%) si trova tra i

deputati grillini, mentre i tre leghisti forniscono ognuno una risposta diversa: esercito unico

europeo, esercito nazionale ed europeo insieme o nessuno dei due (forse a vantaggio del tanto

discusso esercito “padano”). PD, SEL, Scelta Civica e NCD sono quasi unanimemente favorevoli

all’esercito unico, mentre qualche dubbio in più si riscontra in FI. Anche l’unico esponente di

“Fratelli d’Italia” da noi intervistato si dice favorevole, sebbene questa scelta sembri in

contrasto con il posizionamento fortemente anti-europeista assunto dalla dirigenza del suo

partito negli ultimi mesi. In ogni caso è interessante notare che i parlamentari di destra e di

centro-destra non sembrano particolarmente attenti alla difesa di un’istituzione simbolo come

l’esercito nazionale, nonostante la nota vicinanza ideologica e il sostegno spesso incondizionato

all’operato delle forze dell’ordine.

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D’altra parte il sostegno diffuso per un’Europa sociale ed un esercito unico europeo non

è frutto di un’evoluzione recentissima, poiché già i vecchi dati IntUne avevano suggerito un

forte consenso per una politica estera comune (in crescita dal 2007 al 2009 ma di nuovo in

lieve diminuzione nel 2014) e per una gestione condivisa a livello europeo delle politiche di

welfare (ma in questo caso tra 2007, 2009 e 2014 il consenso scema progressivamente), come

mostra la figura 2. Le percentuali 2014 restano comunque attorno al 90% di consenso,

l’opposizione si limita ancora una volta alla Lega e ad una parte del Movimento Cinque Stelle.

Fig.2 – Competenze ed obiettivi dell’UE (1)

Per quanto riguarda altri ambiti di policy bisogna segnalare che tra il 2007 e il 2009 è

cresciuto tra le elite politiche italiane il consenso per un sistema fiscale europeo, mentre

scende leggermente il numero di parlamentari favorevoli agli aiuti per le regioni dell’UE in

difficoltà. Nel 2014 il cambiamento più significativo in questo senso si ha per quanto riguarda

la politica fiscale: i favorevoli ad una gestione unitaria passano dal 68,2 del 2009 (63,4 nel

2007) all’85%, con solo i leghisti contrari (due su tre) e il M5S spaccato in due sul tema.

Cresce, seppur di poco, anche il consenso per gli aiuti alle regioni in difficoltà. In questo caso i

grillini si mostrano quasi unanimemente favorevoli, mentre le maggiori perplessità si

riscontrano non tanto tra gli esponenti leghisti (due su tre si dicono molto o abbastanza

favorevoli) quanto tra forzisti e montiani. Nel 2014 il questionario inserisce anche un nuovo

quesito relativo al giudizio sugli eurobond, i quali registrano la percentuale di consenso

maggiore in assoluto rispetto agli altri items.

Veniamo ora ad alcune aree di policies più specifiche, stavolta analizzate in prospettiva

sincronica (dati 2014) invece che diacronica: la figura 3 qui sotto mostra quale livello di

governo dovrebbe occuparsi di ciascuna di esse secondo i nostri intervistati. Come è evidente

la competenza esclusiva dell’UE è richiesta massicciamente su due ambiti principali:

regolamentazione del settore bancario e finanziario (67,5%), cosa già largamente acquisita, e

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soprattutto politica dell’immigrazione (77,5%), sulla quale le competenze dell’UE sono ad oggi

piuttosto marginali. Si tratta di un dato molto significativo: la difesa dei confini rappresenta un

elemento chiave della sovranità nazionale, eppure le forze politiche italiane – senza alcuna

rilevante distinzione di posizionamento politico – sembrano non solo disposte ma addirittura

desiderose di rinunciarvi, come nel caso dell’esercito nazionale. In effetti negli ultimi

mesi/anni, di fronte ai sempre più numerosi sbarchi sulle nostre coste di clandestini e profughi

dell’Africa subsahariana, spesso finiti in tragedia, tutti gli esponenti politici italiani hanno

invocato un intervento dell’UE per gestire l’emergenza. In questo senso la volontà di cedere la

competenza all’Unione non sembra tanto una scelta motivata da principi europeisti ma una

sorta di estrema ratio per liberarsi di un problema che a livello nazionale non è più gestibile.

Fig.3 – Competenze ed obiettivi dell’UE (2)

Vi è un’unica area di policy in cui la competenza di stato e regioni viene preferita a

quella europea: solo il 12,5% degli intervistati auspica una gestione della politica sanitaria

affidata all’UE, mentre due deputati su tre sostengono che essa deve continuare ad essere

gestita a livello locale e/o nazionale. Tra costoro la stragrande maggioranza boccia la

competenza esclusiva delle regioni in materia e si fa promotrice di un ritorno ad una gestione

nazionale o almeno condivisa. Tale preferenza nazionale/locale per la gestione di una delle

principali materie del welfare è in contraddizione con l’idea di Europa sociale di cui si è parlato

in precedenza. Insomma, i deputati italiani esprimono genericamente il desiderio che l’UE si

occupi di welfare, ma quando si tratta di toccare davvero i punti nevralgici dello stato sociale

sono molto più prudenti.

Per quanto riguarda gli altri ambiti (ambiente, lotta alla criminalità e alla

disoccupazione) l’opzione preferita è un concorso di UE e livello nazionale e/o locale. In questo

senso si auspica un significativo passaggio di competenze all’Unione in materie ancora

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ampiamente al di fuori della sua giurisdizione ma non si vuole sottrarre del tutto tale

competenza ai livelli di governo che già se ne occupano.

3.3 Soddisfatti o rimborsati?

E’ adesso il momento di chiedersi quale sia il giudizio retrospettivo che viene dato del

processo di integrazione. Ciò implica in primo luogo valutare fino a che punto la scelta

europeista dell’Italia (in primis l’adesione all’Euro, sebbene una domanda specificamente

riferita alla moneta unica non fosse stata prevista nel questionario) venga rivendicata, ma

significa anche guardare al grado complessivo di soddisfazione rispetto al modo in cui funziona

oggi l’UE.

I dati presentati nella tabella 2 dimostrano una insoddisfazione generalizzata rispetto al

funzionamento dell’impianto istituzionale dell’Unione, insoddisfazione di molto superiore alla

già scarsa fiducia nelle principali istituzioni europee di cui si è parlato in precedenza. In questo

caso infatti poco più di un parlamentare su tre si dice soddisfatto del modo in cui funziona la

democrazia nell’Unione, e tale giudizio negativo pare trasversale alle forze politiche. In realtà

però le differenze sono marcate: i deputati appartenenti a gruppi euroscettici (M5S, Lega) sono

concordi nella propria insoddisfazione, mentre tra gli ex Pdl il giudizio migliora ma la

maggioranza assoluta continua a dichiararsi insoddisfatta. A sinistra il PD è quasi

perfettamente spaccato tra soddisfatti e insoddisfatti, mentre in SEL l’insoddisfazione è molto

più diffusa. I più soddisfatti sono i parlamentari di Scelta Civica, ma il fatto che tre su sette

abbiano dato risposte diverse da “molto” o “abbastanza soddisfatto” fa pensare che neppure il

partito di Mario Monti possa essere dipinto come difensore dello status quo europeo.

Nonostante questa insoddisfazione, in pochissimi sono pentiti della scelta europeista.

Democratici, montiani, vendoliani, i due appartenenti al gruppo misto e addirittura l’unico

esponente di Fratelli d’Italia sono tutti concordi che l’Italia abbia beneficiato dall’appartenenza

all’Unione Europea. A destra dello spettro politico emerge però qualche dubbio in più, non solo

tra i forzisti ma anche e soprattutto (sorprendentemente) tra gli esponenti del Nuovo Centro

Destra, partito che ha fatto dell’europeismo convinto uno dei tanti motivi di cesura con gli ex-

colleghi di Forza Italia. Al contrario, prevedibilmente, i tre leghisti sono concordi sul fatto che

l’Italia non abbia tratto beneficio, così come la stragrande maggioranza dei grillini. Tra i 15

intervistati del M5S, infatti, solo tre considerano l’appartenenza all’UE una scelta positiva, e di

questi due sono oggi parte del gruppo Misto in quanto epurati dal Movimento (non certo per le

loro posizioni sull’Europa, ma è difficile dire se la risposta sarebbe stata la stessa se al

momento dell’intervista essi fossero stati ancora parte di quel gruppo parlamentare), mentre

un’altra è stata spesso annoverata nel gruppo dei dissidenti interni, per quanto faccia ancora

parte del Movimento.

Ciò detto, qual è il risultato complessivo che emerge dalla combinazione di questi solo

apparentemente confliggenti giudizi sull’UE? Ha senso andare avanti (e quanto) oppure ci si è

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spinti troppo in là ed occorre fare un passo indietro? A tal proposito l’ultima domanda presente

sul questionario chiedeva: su una scala da 0 a 10, dove “0” significa che l’unificazione è fin

troppo avanzata e “10” che dovrebbe essere ancora rafforzata, quale punteggio indicherebbe

meglio la sua posizione? La domanda era seguita da un quesito aperto che invitava gli

intervistati a motivare il loro posizionamento. Il numero medio che emerge dalle risposte alla

domanda chiusa è 7,5; tale posizionamento dimostra la volontà dell’elite politica italiana di

portare avanti il processo di integrazione europea, ma ancora una volta le differenze che si

riscontrano tra i partiti sono piuttosto rilevanti.

Lega e M5S esprimono un punteggio compreso tra 3,5 e 4, invitando quindi a fermarsi.

I parlamentari di entrambi i partiti (soprattutto i grillini) partono dal presupposto che l’Europa

Unita avrebbe potuto essere una buona idea, ma lo sviluppo che ha portato ad un’Europa delle

banche affetta da un grave deficit democratico e dominata dagli interessi di pochi Stati fa sì

che oggi la partecipazione dell’Italia non sia più conveniente. Il problema non è quindi di

natura ideologica ma prettamente utilitaristico. In realtà nella risposta aperta i due

parlamentari NCD che hanno risposto “non so” alla domanda se l’Italia avesse tratto beneficio,

hanno entrambi sottolineato come l’integrazione debba essere portata avanti per quanto

riguarda la politica estera e monetaria ma come gli altri poteri debbano restare in mano agli

stati.

Tab.3 - Il giudizio sull’UE dei partiti

E’ soddisfatto del modo in cui funziona la democrazia nell'UE?

L'Italia ha tratto beneficio dall'appartenenza all'UE?

L'unificazione dovrebbe essere rafforzata?

FI 43 71 76 NCD 40 60 62 FdI 0 100 100 Lega 0 0 37 M5S 0 20 38 SC 57 100 77 PD 51 100 89 SEL 20 100 88 Misto 50 100 80 Totale 37 76 75

Gli intervistati che esprimono le posizioni più vicine alla media sono invece i

parlamentari di Forza Italia e Scelta Civica, i quali auspicano un rafforzamento che però non

stravolga l’attuale impianto dell’Unione. Le ragioni non sono necessariamente coincidenti: se

da una parte le risposte alla domanda aperta dei forzisti tradiscono un lieve euroscetticismo

accompagnato dal desiderio di lasciare all’Europa il compito di occuparsi dei temi più delicati

(politica estera, moneta, fisco) senza però sottrarre ulteriore sovranità agli Stati (questo è

esattamente quanto dichiarato anche dai due parlamentari NCD che hanno risposto “non so”

alla domanda se l’Italia avesse tratto beneficio), dall’altra i montiani esprimono un europeismo

convinto in cui il desiderio di una maggiore integrazione politica è compensato dalla piena

soddisfazione per il grado di integrazione economica raggiunta. Al contrario PD e SEL, con

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punteggi medi attorno all’8,8, esprimono tutta la loro insoddisfazione per un’unione solo

economica, rivendicando un cambio di marcia totale verso una reale integrazione politica,

culturale e sociale. La maggioranza di coloro che esprimono posizioni europeiste sottolineano

inoltre che l’Europa Unita è l’unica possibilità che il vecchio continente ha di mantenere un

ruolo decisivo sullo scenario internazionale, poiché i singoli Stati non sarebbero in grado di

competere singolarmente con le grandi potenze mondiali e coi paesi emergenti.

3.4 Il futuro dell’Unione Europea

Quanto detto in precedenza dimostra che la stragrande maggioranza dei parlamentari

italiani si sente legato all’Europa, rivendica l’adesione all’UE ed auspica un’integrazione sempre

più profonda che implichi una crescente cessione di competenze, sebbene ci sia una certa

sfiducia nei confronti delle principali istituzioni comunitarie e una forte insoddisfazione per

come funziona oggi l’UE. A questo punto viene quindi da chiedersi quale futuro attende

l’Europa secondo i nostri parlamentari.

Tab.4 – Cosa accadrà all’UE tra dieci anni?

Maggiore integrazione politica

Economia più forte Minori differenze economiche

Minori differenze sociali

Maggiore peso geo-politico

FI 71 86 86 71 43 NCD 80 80 80 80 80 FdI* / / / / / Lega 33 33 33 33 33 M5S 40 40 53 53 40 SC 100 86 86 86 71 PD 86 74 69 71 71 SEL 100 60 60 60 60 Misto 50 50 50 50 50 Totale 74 66 66 65 60

* L’intervistato ha risposto “non so” a tutte le domande.

La tabella 4 fa riferimento alle aspettative degli intervistati in merito all’evoluzione del

processo di integrazione in un arco temporale di dieci anni. L’ottimismo sembra prevalere,

sebbene la maggior parte dei rispondenti abbia precisato che il loro era molto più un auspicio

che un giudizio basato su dati oggettivi. In ogni caso il 74% crede che tra dieci anni l’Unione

europea sarà più integrata. Tale giudizio ottimistico non comprende solamente gli europeisti

“senza se e senza ma” come democratici, montiani e alfaniani, ma anche i “diversamente

euroscettici” esponenti di Forza Italia e SEL. In controtendenza vanno gli euroscettici “veri”,

dal momento che due leghisti su tre e il 60% dei grillini non crede in una maggiore

integrazione: difficile dire se dal loro punto di vista questa è una previsione pessimistica

oppure un auspicio. D’altra parte una stessa proporzione di grillini e leghisti non crede che in

10 anni l’economia europea diventerà più forte ed ipotizza la condanna ad un ruolo sempre più

marginale a livello geopolitico, mentre lo stesso numero di leghisti e una percentuale solo

leggermente inferiore di esponenti cinque stelle vede nel futuro dell’Unione maggiori differenze

economiche e sociali tra i cittadini gli Stati membri, e questo non è certo un auspicio. Gli altri

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gruppi sono tutti più ottimisti; solo per quanto riguarda l’ultima domanda relativa al ruolo

internazionale dell’UE anche la maggioranza assoluta dei forzisti appare scettica, seguita dal

40% dei deputati di SEL.

Per concludere guardiamo adesso a quanto auspicato dai parlamentari italiani riguardo

alla possibile evoluzione dell’assetto istituzionale dell’UE (figura 4). Tra il 2007 e il 2009 il

consenso verso maggiori poteri per le due istituzioni europee non intergovernative

(Commissione e PE) subisce un declino di sette e due punti percentuali, mentre aumenta il

numero di coloro che ritengono che gli stati membri dovrebbero rimanere gli attori principali

dell’UE (Verzichelli e De Giorgi 2012). Nel 2014 questa prospettiva viene completamente

rovesciata: da una parte crolla il numero di coloro che difendono il ruolo degli stati nazionali (-

14 punti percentuali), dall’altro sale il consenso nei confronti di un PE con più poteri e una

Commissione vero governo dell’Unione. Insomma, la reazione al crescente euroscetticismo e/o

al cattivo funzionamento dell’UE non segue l’ottica intergovernativa “meno Europa e più Stati”,

ma piuttosto ritiene che siano gli Stati a dover fare un passo indietro per permettere all’Unione

di svilupparsi finalmente come corpo politico autonomo dagli interessi di parte.

Fig. 4 - Possibile evoluzione dell’assetto istituzionale europeo

All’interno dei partiti però l’opzione intergovernativa vs. comunitaria incontra diverse

contraddizioni: i deputati del M5S sono quasi tutti d’accordo sul fatto che gli Stati debbano

restare gli attori principali e all’unanimità si oppongono ad una Commissione europea come

principale organo di governo dell’UE, ma al tempo stesso il 66,7% di loro chiede di rafforzare i

poteri del PE. Anche la Lega Nord si oppone ad un rafforzamento della Commissione ma preme

per dare più poteri al PE, lasciando al tempo stesso il primato agli stati (in realtà uno dei tre

non si dice d’accordo con quest’ultima possibilità, probabilmente perché ritiene che il potere

vada dato alle regioni e non agli stati). Il partito più coerentemente schierato a favore di

un’evoluzione comunitaria (più poteri a PE e Commissione, meno potere agli Stati nazionali) è

SEL, seguita da Scelta Civica. Nel PD c’è invece un po’ più di confusione: quasi tutti i deputati

intervistati vogliono dare più poteri a PE e Commissione, ma il 31,4% ritiene che gli Stati

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debbano restare gli attori principali. Nell’ex PDL questa contraddizione è ancora più forte: il

75% circa vuole mantenere il ruolo preminente degli stati, mentre la stessa percentuale

intende rafforzare PE e Commissione.

4. I partiti e l'Europa

Secondo diversi studiosi il processo di integrazione europea è un tema trasversale

capace di spaccare i partiti o quantomeno produrre posizionamenti diversi al loro interno

(Gabel 2007; Edwards 2007; Smith 2012; Lynch e Whitaker 2013). In effetti i dati presentati

nei paragrafi precedenti dimostrano scarsa coerenza nelle risposte fornite dai rappresentanti di

uno stesso partito. Al tempo stesso però il cleavage ideologico si rivela altrettanto importante

quando si guarda ai dati aggregati. I dati 2014 confermano infatti che i deputati appartenenti

alle forze di centro-sinistra (e i parlamentari che si autocollocano nelle posizioni 0-4 sul

continuum ideologico) sono tendenzialmente più europeisti di quelli affiliati a partiti di centro-

destra (e dei parlamentari che si posizionano tra 6 e 10 sulla scala dx-sx), sebbene il partito

euroscettico più numeroso (il M5S) non appartenga a nessuna delle due categorie (quasi tutti

gli intervistati grillini hanno rifiutato la collocazione sull'asse dx-sx). La figura 5 riassume

graficamente quanto detto finora cercando di ordinare i diversi partiti in base al loro grado di

europeismo/euroscetticismo, posizionando ciascuno di essi rispetto a sette diversi items su una

scala 0-10 che trasforma le percentuali disaggregate per partito esposte nelle tabelle 2-3-4 (e

facendo una media tra i valori nel caso la domanda contenesse più items). Più i valori espressi

da ciascun partito si avvicinano al punto centrale interno, minore è il grado di europeismo.

Partiamo proprio dal Movimento Cinque Stelle, grande novità del panorama politico

italiano. Quello di Grillo è un partito pieno di contraddizioni dal punto di vista del suo rapporto

con l’Europa, come dimostra anche la sofferta scelta di sedere all’europarlamento con gli

euroscettici guidati dal britannico Nigel Farage, dopo aver (apparentemente) considerato anche

l’opzione di aderire ad un gruppo parlamentare pienamente europeista come quello dei Verdi.

L’impressione generale che emerge dai dati è quella di un partito idealmente europeista ormai

convinto che la deriva tecnocratica dell’UE non sia reversibile e sia quindi necessario fare un

passo indietro (in primis sul tema dell’adesione all’Euro). Questa delusione si unisce però

anche con un certo nazionalismo che porta a preferire il livello nazionale a quello

sovranazionale per quanto riguarda una serie di competenze. In questo senso il M5S, per molti

versi più vicino a posizioni di sinistra, si riavvicina in qualche modo ad un partito nazionalista e

tendenzialmente xenofobo come l’Ukip di Farage.

Restando al di fuori della distinzione destra-sinistra non è necessario soffermarsi a

lungo sul gruppo misto, che non viene infatti considerato nella figura 5. I dati non sono

particolarmente significativi non solo perché gli intervistati sono solamente due, ma perché

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essi hanno provenienze politiche molto diverse che si riflettono in risposte largamente

contrastanti. Uno dei due è infatti un socialista che esprime posizioni pienamente europeiste,

l’altro appartiene al MAIE (Movimento Associativo Italiani all’Estero) ed è stato eletto in una

circoscrizione extra-europea, il che spiega la sua scarsa affezione nei confronti dell’UE.

Fig. 5 – I partiti e l’Europa

Analizziamo adesso gli altri partiti spostandoci lungo l’asse ideologico. Partendo da

sinistra incontriamo un primo caso interessante: quello di SEL. A differenza degli antichi

compagni di Rifondazione rimasti fuori dal Parlamento, SEL è un partito molto meno

estremista, quasi ovunque fedele alleato del PD a livello locale e potenzialmente anche a livello

nazionale se le “larghe intese” non avessero costretto democratici e vendoliani a separare

(momentaneamente?) i loro destini. Di conseguenza fin dalla sua fondazione SEL si è

presentato come un partito pienamente europeista, ma le ultime scelte politico-strategiche

hanno spinto alcuni osservatori a mettere in discussione questo convincimento. D'altra parte la

scelta di abbandonare l’obiettivo dichiarato di entrare nel partito socialista europeo per unirsi al

gruppo del GUE - attraverso l’adesione alla lista Tsipras in occasione delle elezioni europee del

maggio 2014, insieme agli ex nemici euroscettisci di Rifondazione comunista - ha provocato

non poche lacerazioni anche all'interno del partito stesso. A tale proposito è interessante

soffermarsi sulle risposte fornite dai parlamentari vendoliani al nostro questionario, sebbene il

loro numero molto esiguo (5) impedisca di giungere a precise generalizzazioni. Il primo dato

che salta agli occhi è il fortissimo attaccamento all’Unione Europea, pari a quello che

caratterizza i deputati PD. I parlamentari di SEL sono inoltre i più convinti sostenitori di un

massiccio passaggio di competenze dagli Stati all’Unione, si oppongono fermamente ad

un’evoluzione intergovernativa dell’assetto istituzionale e ritengono l’adesione all’UE una scelta

vantaggiosa. Insomma, dei veri europeisti. Eppure non appena si guarda alla fiducia e alla

soddisfazione per il funzionamento delle istituzioni europee i dati cambiano radicalmente e il

partito di Vendola diventa il più feroce critico dell’UE. In realtà non c’è però alcuna

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contraddizione tra un senso di appartenenza molto forte all’Unione ed una profonda

insoddisfazione per ciò che essa è diventata (o non è diventata), il che riflette anche le

posizioni dello stesso leader greco Tsipras, sebbene il suo partito Syriza sia stato spesso

(erroneamente?) incluso da mass media ed osservatori tra le forze euroscettiche. Obiettivo suo

e di coloro che in Italia hanno fondato la lista che porta il suo nome non era infatti quello di

abbandonare il processo di integrazione ma piuttosto di rafforzarlo cambiandone radicalmente

gli obiettivi e i parametri. In questo sta l’essenziale differenza tra M5S e SEL per quanto

riguarda il tema europeo: entrambi sembrano condividere un’idea simile di Europa

partecipativa e non tecnocratica, ma mentre i primi non credono più che tale modello sia

effettivamente realizzabile, i secondi sembrano sperarci ancora. Viene comunque da chiedersi:

è stata l’insoddisfazione per ciò che è oggi l’UE e la volontà di cambiare l’ordine delle cose a

spingere SEL ad aderire alla Lista Tsipras o piuttosto è stata proprio l’adesione a tale lista,

dettata da calcoli strategici (necessità di superare il quorum del 4%) e dinamiche politiche

interne (lo strappo col PD dovuto alla ferma opposizione alle larghe intese) a spingere i

deputati vendoliani ad inasprire i propri giudizi sull’Unione? La risposta non è semplice anche

perché gli sviluppi successivi alle elezioni europee sembrano aver nuovamente allontanato SEL

(o quel che ne resta) dall' euroscetticismo rifondarolo e dal mondo “radical-chic” che aveva

sostenuto Tsipras.

Muovendoci verso il centro-sinistra le conclusioni appaiono molto più immediate. Il PD

risulta sicuramente un partito pienamente europeista, seppure con alcune contraddizioni

interne (ad esempio alcuni suoi rappresentati non abbandonano la prospettiva

intergovernativa). Rispetto a SEL le critiche al funzionamento istituzionale dell’Unione sono

molto più sfumate, ma è anche vero che i democratici non sono più “euro-entusiasti”. Si evince

pertanto un forte desiderio di cambiamento ai fini di una maggiore integrazione politica, che

possa garantire più democrazia e più attenzione ai diritti sociali anche a scapito della

competitività economica.

I rappresentati di Scelta Civica risultano invece i più convinti sostenitori dello status quo

europeo e dell’europeismo “senza se e senza ma”. In realtà anche loro manifestano una certa

insoddisfazione e auspicano una maggiore integrazione, ma tra i diversi gruppi sono

sicuramente quelli più fortemente legati all’idea dell’UE come grande mercato unico. In pratica

l’assenza di una reale integrazione politica è un problema sentito, ma un’integrazione

economica perfettamente riuscita è sufficiente a compensare. Neppure la gestione della crisi

economica mondiale è riuscita a scalfire tale convinzione: i montiani (diversamente dall’unico

deputato di provenienza democratico-cristiana) sono infatti i più generosi nel valutare il ruolo

giocato da istituzioni quali Commissione, Consiglio Europeo e BCE durante la crisi dell’Eurozona

(sebbene l’operato della BCE guidata dall’italiano Mario Draghi è giudicato positivamente anche

da molti esponenti PD e ex PDL).

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Per quanto riguarda il centro-destra il discorso è più complesso. Al momento della sua

fondazione nel 1994 Forza Italia si presenta come un partito europeista che difende al

contempo l’identità nazionale (e subnazionale), promuovendo soluzioni intergovernative

piuttosto che comunitarie. L’adesione al Partito Popolare Europeo rappresenterà per Forza

Italia prima e il PDL poi un’importante fonte di legittimazione, il che impediva a Berlusconi e

agli esponenti del suo partito di assumere posizioni marcatamente europeiste. Eppure già i dati

IntUne 2009 suggeriscono un atteggiamento implicitamente negativo del PDL o quantomeno

una posizione favorevole al mantenimento dello status quo comunitario. In realtà più che

opporsi al processo di integrazione, Berlusconi e i suoi se ne sono progressivamente

disinteressati, mentre il PDL si divide tra spinte liberalizzatrici ed europeiste e posizioni più

protezionistiche e nazionalistiche (Conti e Memoli 2012). Con l’incentivarsi della crisi

economica l’UE è però diventata un facile bersaglio su cui scaricare le colpe, soprattutto di

fronte al crescente scetticismo manifestato da diversi leader del centro-destra europeo nei

confronti di Silvio Berlusconi. Il ritorno a Forza Italia e la separazione del gruppo moderato

legato ad Alfano sembrano aver portato il partito dell’ex Premier su posizioni più

marcatamente euroscettiche, come dimostra la campagna per le elezioni europee 2014. I dati

ENEC confermano questa percezione, sebbene l’euroscetticismo forzista rimane lontano da

quello leghista e grillino. Non a caso la stragrande maggioranza dei parlamentari forzisti

riconosce che l’Italia abbia beneficiato dell’adesione all’UE ed auspica che il processo di

integrazione possa andare avanti, pur non intaccando la sovranità degli Stati nazionali. Ne

risulta un posizionamento non molto diverso da quello degli ex colleghi dell’NCD, che pur

apparendo più genuinamente europeisti rimangono anch’essi strettamente legati alla

prospettiva intergovernativa.

Spostandoci ancora di più verso il polo di destra del continuum non occorre soffermarsi

sull’analisi relativa al partito “Fratelli d’Italia”, poiché abbiamo un unico intervistato che tra

l’altro curiosamente sembra esprimere posizioni molto più europeiste di quelle attualmente

sposate dai leader del suo partito. Si conferma invece il sempre più convinto euroscetticismo

dei parlamentari leghisti, sebbene il campione composto di sole tre unità non permetta alcuna

generalizzazione e le indicazioni che emergono dai dati non sono affatto univoche. In effetti le

risposte dei tre leghisti differiscono su alcuni punti fondamentali (attaccamento all’Europa,

fiducia nelle istituzioni europee, visione del futuro) ma c’è totale accordo sul fatto che la scelta

europeista sia stata un errore. Ciò spiega, oltre alle sempre più note posizioni xenofobe, il

feeling inedito tra un partito regionalista e il più nazionalista tra i partiti europei come il Front

National guidato da Marine Le Pen. Non a caso in questa fase la Lega pare aver messo da parte

le sue velleità secessioniste (che comunque sono sempre in agguato) a vantaggio di posizioni

più genuinamente di destra ed anti-europee: il nemico non è più “Roma ladrona” ma la

Bruxelles dei tecnocrati. Strano ma vero, per un leghista oggi essere italiano sembra quasi

meglio che essere europeo.

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5. Conclusioni

I dati ENEC dimostrano che, nonostante la crisi economica e l’insoddisfazione crescente

dell’opinione pubblica, per l’elite politica italiana il rapporto con l’Europa non è in discussione. I

partiti che formano l’attuale “grande coalizione” a sostegno del Premier Matteo Renzi (PD, SC,

NCD) sono tutti genuinamente europeisti, sebbene l’NCD sembra maggiormente orientata

verso soluzioni intergovernative. Ciò conferma quanto emerso da alcuni studi secondo i quali la

partecipazione al governo spinge i partiti a sostenere con più forza l’UE e le sue istituzioni (Hix

et al. 2007). Forza Italia, formalmente all’opposizione ma comunque prezioso alleato del

governo sulle grandi riforme costituzionali, si posiziona in un limbo che permette di oscillare tra

l’europeismo tipico dei partiti mainstream e l’insofferenza populista nei confronti di Bruxelles. I

parlamentari forzisti non sembrano però arrivare al punto di mettere seriamente in discussione

il processo di integrazione, come fanno invece M5S e Lega. Questi ultimi due partiti sono gli

unici che risultano effettivamente euroscettici, in linea con il loro ruolo di partiti di opposizione

tout-court, dal momento che la letteratura ha dimostrato che le forze radicali sono quasi

sempre anti-EU (Conti 2012). Il problema però è che non si tratta affatto di forze politicamente

marginali. Il peso elettorale della Lega attualmente è abbastanza limitato (seppur in crescita),

ma si tratta comunque di un partito con prolungata esperienza di governo a livello locale e

nazionale e con un significativo “potenziale di coalizione”. Al contrario il M5S – nonostante

l’indisponibilità e l’impossibilità di stringere alleanze di qualsiasi genere per arrivare ad

occupare ruoli di governo o quantomeno ad acquisire un maggiore potere decisionale – è ad

oggi il secondo partito italiano, il che lo rende detentore di quello che Sartori (1976) definiva il

“potenziale di ricatto” tipico del PCI italiano. In questo senso la presenza di partiti rilevanti che

si oppongono apertamente all’UE – oltre a Lega e M5S dovremmo includere anche i Fratelli

d’Italia, sebbene le risposte fornite dal nostro intervistato non confermano tale impressione – o

che quantomeno dimostrano insofferenza verso le sue istituzioni e il suo funzionamento – FI e

SEL, seppur per motivi molto diversi – dimostrano che l’europeismo delle elite politiche italiane

non è un fatto acquisito e scontato ma piuttosto una scelta da sostenere e (ri)costruire giorno

per giorno.

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